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il programma comunista Bimestrale – una copia € 1,00 Abbonamenti: – annuale € 10,00 – sostenitore € 15,00 Conto corrente postale: 59164889 DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: la linea da Marx a Lenin al- la fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comuni- sta d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenera- zione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti po- polari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del re- stauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco. organo del partito comunista internazionale www.partitocomunistainternazionale.org Anno LXIV n. 1, gennaio-febbraio 2016 IL PROGRAMMA COMUNISTA Redazione Casella Postale 962 20101 Milano P er settimane, tra fine 2015 e inizio 2016, ci siamo dovuti sorbire esaltanti commenti, da un capo all’altro del mondo, sul- la “ripresa già in atto”, sull’ “uscita dal tunnel”, sul “ritorno dell’ottimismo”, sull’ “economia forte” degli USA che avrebbe trascinato anche le altre economie fuori dal pantano di un decennio di crisi e sulla “crescita della classe media” in Cina come indicatore di mutazioni posi- tive in atto. Sì, c’era il proble- ma del petrolio, e la stessa e- conomia cinese rallentava... Ma, quanto al primo, non bi- sognava vedere il bicchiere solo per metà vuoto: “petro- lio ai minimi vuol anche dire benzina meno cara e dunque crescita dei consumi!”; quan- to alla seconda, “be’, non sarà più un numero a due cifre a caratterizzarla, ma si tratta pur sempre d’un bel 6% ab- bondante, e quale altro pae- se può avvicinarvisi?”. Poi arriva la botta: intorno a metà gennaio 2016, crollano a più riprese le borse di tutto il mondo, il direttore dell’FMI Christine Lagarde ammette candidamente che l’econo- mia globale (?) vede “rischi all’orizzonte maggiori del previsto”, e gli analisti (?) si affrettano a sottolineare la stretta interconnessione di tutti gli elementi negativi da un paese all’altro. Ammette per esempio Kenneth Rogoff (su Il Sole-24ore del 21/1): “Se ci fosse un severo rallen- tamento a Pechino e nei mer- cati emergenti allora sareb- be uno scenario preoccupan- te [ma non è già così?!]. Quel- lo che mi preoccupa è il dato dei consumi di energia in Ci- na, che stanno praticamente collassando, e non credo che il Paese possa crescere del 6,5 nel 2016. Questa cattiva notizia avrebbe effetti di contagio in Russia, Austra- lia, Canada, Sudamerica, Brasile in particolare, tutti Paesi esportatori di materie prime”. D’altra parte, basta leggere i titoli di quello stes- so giornale, in quello stesso giorno, per avere un’idea della grande paura che atta- naglia tutti “Borse nella bu- fera... Petrolio, crollo senza freni... Accelera la fuga di ca- pitali dalla Cina... Record ne- gativi in serie per il rublo... ”. Passano un paio di giorni, e si fa sentire Mario Draghi, il pa- tron della BCE: “State tran- quilli, ci penso io! Vedrete, a marzo adotteremo altre mi- sure”. Quali? un’altra tornata di quantitative easing? E’ probabile, ma non si sa: biso- gna aspettare marzo… Tanto basta, però, perché le borse tornino a respirare e i listini s’impennino: esce l’“orso” e rientra il “toro”, nel gergo as- surdo della finanza. Tanto basta perché ci si torni a im- mergere nel sonno beato delle illusioni: in fondo, è sta- to solo un brutto sogno, uno di quegli incubi che seguono una cena troppo abbondante – i “fondamentali” sono buo- ni, il sistema bancario è soli- do, si può tornar a parlare di ripresa, ecc. ecc. E via con la retorica ottimi- sta. La cecità di economisti, e- sperti, politici borghesi, il lo- ro brancolar nel buio, è tota- le e proverbiale: tutto avver- rebbe sempre e soltanto nel campo (minato) della finan- za ipertrofica e, come già nel 2008-2009, la “colpa” sareb- be delle banche, degli “spe- culatori”, dei “milionari sen- za scrupoli”, della “finanza d’assalto” o “d’avventura” (sì, c’è anche la “finanza d’av- ventura”, nel vocabolario ca- pitalista)... Allora, nel 2008- 2009, i grandi colpevoli era- no i “mutui subprime”, oggi lo sono i “crediti deteriorati”, i non performing loans, ultimi arrivati in questa galleria di “cattivi”: a tanto giungono la serietà e la profondità dell’e- conomia borghese, quell’“e- conomia classica” che già Marx ed Engels, e dopo di lo- ro Lenin, staffilavano a piace- re. Non stiamo qui a ripetere quanto abbiamo detto e scritto mille e mille volte, su una crisi che nasce nell’eco- nomia reale e che ha nella so- vrapproduzione di merci e ca- pitali il suo vero motore: ba- sti solo rileggersi le analisi che andiamo sviluppando, ormai da sei decenni, a pro- posito del “corso del capitali- smo mondiale” (e, per stare in tempi recentissimi, andar- si a leggere l’articolo uscito sul n.6/2015 di questo stes- so giornale). Lì, e non negli insulsi vaneggiamenti di e- sperti ed economisti borghe- si, si ha la scienza del diveni- re sociale, la materialistica previsione della necessità di un passaggio da un modo di produzione esausto a uno superiore. Ma non limitiamoci all’arduo campo dell’economia. I se- gnali di una crisi in incessan- te avvitamento ci arrivano da ogni poro della società borghese: le guerre più o me- no locali e ravvicinate, i mi- lioni di disgraziati in fuga da stragi e devastazioni, la di- struzione accelerata dell’am- biente, il gonfiarsi delle vio- lenze irrazionali, le epidemie di aggressività individuale e collettiva... E ci arrivano dalla “risposta” stessa che, a tutto ciò, il mondo del capitale, della ricerca del profitto a o- Spedizione 70% - Milano INCONTRI PUBBLICI A ROMA presso la libreria “Anomalia”, via dei Campani, 73 (tram 19-3) . Il preteso feudalesimo dell’Italia meridionale Sabato 2 aprile 2016, ore 17 A MILANO presso la nostra sede di via dei Cinquecento n. 25 (citofono Ist. Prog. Com.) (zona Piazzale Corvetto: Metro 3, Bus 77 e 95) . Dopo i fatti di Parigi. Chi terrorizza chi? Sabato 9 aprile 2016, ore 15 C ontinuano sui media le diatribe su che cosa sia e che si- gnificato abbia l’ISIS (o Daesh, che dir si voglia), questa “nuova” forma di “terrorismo” clamorosamente manifestata- si soprattutto con i recenti attentati a Parigi. Proviamo a farci alcune domande – e a darvi risposta. Cause religiose? Si parla di cause e fattori religiosi, tutti riconducibili all’I- slam. Ma non si è potuto nascondere che quel “soggetto” che in pochi anni ha potuto conquistare interi territori in Siria, I- raq, Libia, Mali, ecc, è nato e cresciuto, per ammissione di al- ti esponenti USA, grazie a finanziamenti e appoggi di paesi come l’Arabia saudita, il Qatar, lo Yemen, il Kuwait (e gli U- SA stessi: i “supervisori mondiali” erano forse... distratti? guardavano da un’altra parte?); e che si mantiene grazie so- prattutto alle rendite energetiche (petrolio, gas) che tali ap- poggi le consentono di ricavare. Lo scopo di tali appoggi, sempre per ammissione della stessa grande potenza e dei suoi alleati, era ed è quello di spostare gli equilibri di potenza nel- la regione mediorientale a favore degli interessi economici (soprattutto petroliferi e in genere energetici) di alcuni Stati (appunto, i Paesi arabi e del Golfo), a scapito di altri (Iran so- prattutto), oppure della Turchia nei confronti dei Curdi o del- la Russia, e così via, in un intreccio sempre più aggrovigliato di interessi, accompagnato da scontri, minacce, ricatti, al- leanze, volti a ridisegnare nuove aree di influenza in un’area molto instabile da sempre. Parlare dunque di cause religiose, di “fondamentalismo isla- mico”, è come al solito fuorviante. Da sempre nella storia, gli Stati, le “potenze”, ammantano i propri interessi e i conse- guenti scontri economici di sembianze religiose. Le Crociate, i grandi massacri in nome di Cristo o di Maometto, le impre- se cristiane dei “conquistadores” spagnoli nel nuovo conti- nente americano, per fare solo alcuni esempi, mostrano che le religioni sono state da sempre utilizzate a copertura di inte- ressi economici. Nessuno Stato ha mai ammesso “ufficial- mente” motivazioni prevalentemente economiche per le pro- prie conquiste territoriali coloniali, per le proprie rapine a danno di altri Stati e popolazioni, per i propri conflitti bellici: ognuno li ha sempre coperti o di sembianze religiose (cristia- ne, musulmane, ecc.), oppure di “valori” come la democrazia, la “superiore” civiltà o identità nazionale ed etnica, la cultura o i “diritti più avanzati”... 1 . Nessuno stato borghese ammet- terà mai, apertamente, che il vero, unico Dio per cui è capace di combattere è il Dio denaro, il Profitto! Le vere radici eco- nomiche, anche quando vengano magari inizialmente accen- nate, poi sono messe da parte e al loro posto sono buttate sul- la scena, in prima linea, le lotte tra i fautori del “fanatismo re- ligioso” con le loro interne divisioni, da una parte, e i paladi- ni della democrazia e della “libertà”, dall’altra. Tali coperture ideologiche, in effetti, sono del tutto ininfluen- ti negli incontri ufficiali tra gli stessi Stati e potenze. A ogni li- vello, ad esempio nei vari vertici G8, G20 e via di seguito, o- gnuno cerca decisamente e direttamente, senza fronzoli reli- giosi o di altro genere, di far valere i propri interessi econo- mici, tenendo conto dei mutamenti della propria forza e degli equilibri generali, cercando di giocare alla meglio la propria parte sullo scacchiere regionale o mondiale e aspettando il momento giusto per rischiare oppure temporeggiare. La rea- zione moralistica in seguito a un arretramento o declassa- mento della propria forza o a un’aggressione subita fa parte dello stesso gioco. Negli incontri, non vengono messi in cam- po “valori religiosi” o quelli della “civiltà occidentale” (il ri- chiamo, a margine, ai cosiddetti “diritti umani” serve solo a mostrare ai... polli il “bel volto” di coloro che li invocano fa- cendone “sfoggio”), ma investimenti di capitali da realizzare, materie prime o forza lavoro da sfruttare, rotte commerciali da aprire o difendere, alleanze da realizzare… Al di fuori de- gli incontri ufficiali, poi, attacchi, aggressioni, minacce e av- vertimenti si pongono ancora più chiaramente sul terreno e- conomico, anche se, una volta compiuti, non sfuggono a una qualche giustificazione religiosa, laica o moralistica. Il travestimento deve assumere invece grande rilevanza quan- do è rivolto alle popolazioni e soprattutto ai proletari. E’ qui che risalta la funzione sociale reazionaria delle religioni e de- gli appelli quotidiani e martellanti ai cosidetti “valori” della civiltà democratica e occidentale. Il gioco degli interessi eco- nomici è quasi fatto sparire, dinanzi alle Sacre “unità nazio- nali e patriottiche” da mettere in primo piano, da difendere, “CREATURE” DEL CAPITALISMO gni costo, non può non dare: intensificazione selvaggia dello sfruttamento del prole- tariato, ampliamento e rafforzamento delle struttu- re statali di controllo e re- pressione, nazionalismi esa- cerbati e più o meno agghin- dati in vesti laiche o religio- se, preparazione ideologica e materiale alla guerra futura. Ovunque, con questo o quel pretesto (oggi è “la minaccia dell’ISIS”, equivoca forma- zione espressa da fazioni borghesi come strumento di interessi economici locali, regionali, inter-nazionali), si erigono barriere e si scavano fossati: già s’introducono nuove “voci” nelle costitu- zioni borghesi a sostegno di misure che, in altri tempi, sa- rebbero state definite (sem- pre dai borghesi) “libertici- de”; già si parla della sospen- sione per un paio d’anni dell’“area Schengen”, grande mito di un’Europa protago- nista, libera al proprio inter- no e aperta al mondo; e via di seguito… Alla grande paura il mondo del capitale può ri- spondere solo così: perché, se è incapace di comprende- re le ragioni profonde della propria agonia, esso sa inve- ce molto bene da dove viene il vero nemico alla sua so- pravvivenza – lo sa da quan- do è nato e si è affermato, gettando sulla scena anche il proprio antagonista storico, il proletariato. Da lì viene, do- mani, la vera minaccia, e la classe dominante lo sa benis- simo. Da lì, nasce la grande paura, anche se oggi – a cau- sa di un disarmo teorico e pratico, politico e organizza- tivo che dura da decenni – il proletariato stesso non sem- bra rendersene conto e agire di conseguenza. A dominare è dunque la di- namica del capitale, la faccia invisibile di quella bestia ne- ra che è la caduta tendenziale del saggio medio di profitto, così limpidamente riconosci- bile nella radiografia dei 1. L’inno “Onwards, Christian Soldiers!” (“Avanti, soldati cri- stiani!”), scritto in Inghilterra nella seconda metà dell’Ottocen- to e presto adottato dall’Esercito della Salvezza, fu ripetutamen- te usato nelle cerimonie militari della Prima e della Seconda guerra mondiale. La grande paura tempi lunghi di ormai un se- colo e più di economia capi- talistica. Le azioni messe in campo dalla borghesia non possono (a volontà) risolle- vare l’economia mondiale, non possono (a volontà) tor- nare a far crescere il saggio medio di profitto di quel tan- to da far ripartire davvero l’accumulazione: ecco la campana a morto! E allora, quando tutti i tentativi si sia- no mostrati fallaci (e così sarà), fuori l’ultima carta! l’e- conomia di guerra che pre- para la guerra. Non questa o quella guerra locale o di a- rea, ma il conflitto generaliz- zato che distrugga ciò che si è prodotto in eccesso: merci e capitali e, fra le merci, quel- la merce particolare che è la merce forza-lavoro. Che di- strugga insomma la sovrap- produzione e la sovrappo- polazione, e rimetta così in moto quel meccanismo in- ceppato. Questo, e non la cialtronesca “ripresa”, sta in fondo al tun- nel. Non è mai troppo presto perché i proletari più co- scienti, le vere avanguardie di lotta, se ne rendano conto. E si stringano intorno al loro partito, il nostro partito. 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il programma comunistaBimestrale – una copia € 1,00

Abbonamenti:

– annuale € 10,00

– sostenitore € 15,00

Conto corrente postale: 59164889

DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: la linea da Marx a Lenin al-la fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comuni-sta d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenera-zione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in unPaese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti po-polari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del re-stauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con laclasse operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

organo del partitocomunista internazionale

www.partitocomunistainternazionale.org

Anno LXIV

n. 1, gennaio-febbraio 2016

IL PROGRAMMA COMUNISTA

Redazione

Casella Postale 962

20101 Milano

Per settimane, tra fine2015 e inizio 2016, cisiamo dovuti sorbire

esaltanti commenti, da uncapo all’altro del mondo, sul-la “ripresa già in atto”,sull’ “uscita dal tunnel”, sul“ritorno dell’ottimismo”,sull’ “economia forte” degliUSA che avrebbe trascinatoanche le altre economie fuoridal pantano di un decenniodi crisi e sulla “crescita dellaclasse media” in Cina comeindicatore di mutazioni posi-tive in atto. Sì, c’era il proble-ma del petrolio, e la stessa e-conomia cinese rallentava...Ma, quanto al primo, non bi-sognava vedere il bicchieresolo per metà vuoto: “petro-lio ai minimi vuol anche direbenzina meno cara e dunquecrescita dei consumi!”; quan-to alla seconda, “be’, non saràpiù un numero a due cifre acaratterizzarla, ma si trattapur sempre d’un bel 6% ab-bondante, e quale altro pae-se può avvicinarvisi?”.

Poi arriva la botta: intorno ametà gennaio 2016, crollanoa più riprese le borse di tuttoil mondo, il direttore dell’FMIChristine Lagarde ammettecandidamente che l’econo-mia globale (?) vede “rischiall’orizzonte maggiori delprevisto”, e gli analisti (?) siaffrettano a sottolineare lastretta interconnessione ditutti gli elementi negativi daun paese all’altro. Ammetteper esempio Kenneth Rogoff(su Il Sole-24ore del 21/1):“Se ci fosse un severo rallen-tamento a Pechino e nei mer-cati emergenti allora sareb-be uno scenario preoccupan-te [ma non è già così?!]. Quel-lo che mi preoccupa è il datodei consumi di energia in Ci-na, che stanno praticamentecollassando, e non credo cheil Paese possa crescere del6,5 nel 2016. Questa cattivanotizia avrebbe effetti dicontagio in Russia, Austra-lia, Canada, Sudamerica,Brasile in particolare, tuttiPaesi esportatori di materieprime”. D’altra parte, bastaleggere i titoli di quello stes-so giornale, in quello stessogiorno, per avere un’ideadella grande paura che atta-naglia tutti “Borse nella bu-fera... Petrolio, crollo senzafreni... Accelera la fuga di ca-pitali dalla Cina... Record ne-

gativi in serie per il rublo... ”.Passano un paio di giorni, e sifa sentire Mario Draghi, il pa-tron della BCE: “State tran-quilli, ci penso io! Vedrete, amarzo adotteremo altre mi-sure”. Quali? un’altra tornatadi quantitative easing? E’probabile, ma non si sa: biso-gna aspettare marzo… Tantobasta, però, perché le borsetornino a respirare e i listinis’impennino: esce l’“orso” erientra il “toro”, nel gergo as-surdo della finanza. Tantobasta perché ci si torni a im-mergere nel sonno beatodelle illusioni: in fondo, è sta-to solo un brutto sogno, unodi quegli incubi che seguonouna cena troppo abbondante– i “fondamentali” sono buo-ni, il sistema bancario è soli-do, si può tornar a parlare diripresa, ecc. ecc. E via con la retorica ottimi-sta.

La cecità di economisti, e-sperti, politici borghesi, il lo-ro brancolar nel buio, è tota-le e proverbiale: tutto avver-rebbe sempre e soltanto nelcampo (minato) della finan-za ipertrofica e, come già nel2008-2009, la “colpa” sareb-be delle banche, degli “spe-culatori”, dei “milionari sen-za scrupoli”, della “finanzad’assalto” o “d’avventura”(sì, c’è anche la “finanza d’av-ventura”, nel vocabolario ca-pitalista)... Allora, nel 2008-2009, i grandi colpevoli era-no i “mutui subprime”, oggi losono i “crediti deteriorati”, inon performing loans, ultimiarrivati in questa galleria di“cattivi”: a tanto giungono laserietà e la profondità dell’e-conomia borghese, quell’“e-conomia classica” che giàMarx ed Engels, e dopo di lo-ro Lenin, staffilavano a piace-re. Non stiamo qui a ripeterequanto abbiamo detto escritto mille e mille volte, suuna crisi che nasce nell’eco-nomia reale e che ha nella so-vrapproduzione di merci e ca-pitali il suo vero motore: ba-sti solo rileggersi le analisiche andiamo sviluppando,ormai da sei decenni, a pro-posito del “corso del capitali-

smo mondiale” (e, per starein tempi recentissimi, andar-si a leggere l’articolo uscitosul n.6/2015 di questo stes-so giornale). Lì, e non negliinsulsi vaneggiamenti di e-sperti ed economisti borghe-si, si ha la scienza del diveni-re sociale, la materialisticaprevisione della necessità diun passaggio da un modo diproduzione esausto a unosuperiore.

Ma non limitiamoci all’arduocampo dell’economia. I se-gnali di una crisi in incessan-te avvitamento ci arrivanoda ogni poro della societàborghese: le guerre più o me-no locali e ravvicinate, i mi-lioni di disgraziati in fuga dastragi e devastazioni, la di-struzione accelerata dell’am-biente, il gonfiarsi delle vio-lenze irrazionali, le epidemiedi aggressività individuale ecollettiva... E ci arrivano dalla“risposta” stessa che, a tuttociò, il mondo del capitale,della ricerca del profitto a o-

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INCONTRI PUBBLICI

A ROMA

presso la libreria “Anomalia”, via dei Campani, 73 (tram 19-3) .

Il preteso feudalesimo dell’Italia meridionale

Sabato 2 aprile 2016, ore 17

A MILANO

presso la nostra sede di via dei Cinquecento n. 25 (citofono Ist. Prog. Com.) (zona Piazzale Corvetto: Metro 3, Bus 77 e 95) .

Dopo i fatti di Parigi. Chi terrorizza chi?

Sabato 9 aprile 2016, ore 15

Continuano sui media le diatribe su che cosa sia e che si-gnificato abbia l’ISIS (o Daesh, che dir si voglia), questa

“nuova” forma di “terrorismo” clamorosamente manifestata-si soprattutto con i recenti attentati a Parigi. Proviamo a farcialcune domande – e a darvi risposta.

Cause religiose?Si parla di cause e fattori religiosi, tutti riconducibili all’I-slam. Ma non si è potuto nascondere che quel “soggetto” chein pochi anni ha potuto conquistare interi territori in Siria, I-raq, Libia, Mali, ecc, è nato e cresciuto, per ammissione di al-ti esponenti USA, grazie a finanziamenti e appoggi di paesicome l’Arabia saudita, il Qatar, lo Yemen, il Kuwait (e gli U-SA stessi: i “supervisori mondiali” erano forse... distratti?guardavano da un’altra parte?); e che si mantiene grazie so-prattutto alle rendite energetiche (petrolio, gas) che tali ap-poggi le consentono di ricavare. Lo scopo di tali appoggi,sempre per ammissione della stessa grande potenza e dei suoialleati, era ed è quello di spostare gli equilibri di potenza nel-la regione mediorientale a favore degli interessi economici(soprattutto petroliferi e in genere energetici) di alcuni Stati(appunto, i Paesi arabi e del Golfo), a scapito di altri (Iran so-prattutto), oppure della Turchia nei confronti dei Curdi o del-la Russia, e così via, in un intreccio sempre più aggrovigliatodi interessi, accompagnato da scontri, minacce, ricatti, al-leanze, volti a ridisegnare nuove aree di influenza in un’areamolto instabile da sempre.Parlare dunque di cause religiose, di “fondamentalismo isla-mico”, è come al solito fuorviante. Da sempre nella storia, gliStati, le “potenze”, ammantano i propri interessi e i conse-guenti scontri economici di sembianze religiose. Le Crociate,i grandi massacri in nome di Cristo o di Maometto, le impre-se cristiane dei “conquistadores” spagnoli nel nuovo conti-nente americano, per fare solo alcuni esempi, mostrano che lereligioni sono state da sempre utilizzate a copertura di inte-ressi economici. Nessuno Stato ha mai ammesso “ufficial-mente” motivazioni prevalentemente economiche per le pro-prie conquiste territoriali coloniali, per le proprie rapine adanno di altri Stati e popolazioni, per i propri conflitti bellici:ognuno li ha sempre coperti o di sembianze religiose (cristia-ne, musulmane, ecc.), oppure di “valori” come la democrazia,la “superiore” civiltà o identità nazionale ed etnica, la cultura

o i “diritti più avanzati”...1. Nessuno stato borghese ammet-terà mai, apertamente, che il vero, unico Dio per cui è capacedi combattere è il Dio denaro, il Profitto! Le vere radici eco-nomiche, anche quando vengano magari inizialmente accen-nate, poi sono messe da parte e al loro posto sono buttate sul-la scena, in prima linea, le lotte tra i fautori del “fanatismo re-ligioso” con le loro interne divisioni, da una parte, e i paladi-ni della democrazia e della “libertà”, dall’altra.Tali coperture ideologiche, in effetti, sono del tutto ininfluen-ti negli incontri ufficiali tra gli stessi Stati e potenze. A ogni li-vello, ad esempio nei vari vertici G8, G20 e via di seguito, o-gnuno cerca decisamente e direttamente, senza fronzoli reli-giosi o di altro genere, di far valere i propri interessi econo-mici, tenendo conto dei mutamenti della propria forza e degliequilibri generali, cercando di giocare alla meglio la propriaparte sullo scacchiere regionale o mondiale e aspettando ilmomento giusto per rischiare oppure temporeggiare. La rea-zione moralistica in seguito a un arretramento o declassa-mento della propria forza o a un’aggressione subita fa partedello stesso gioco. Negli incontri, non vengono messi in cam-po “valori religiosi” o quelli della “civiltà occidentale” (il ri-chiamo, a margine, ai cosiddetti “diritti umani” serve solo amostrare ai... polli il “bel volto” di coloro che li invocano fa-cendone “sfoggio”), ma investimenti di capitali da realizzare,materie prime o forza lavoro da sfruttare, rotte commercialida aprire o difendere, alleanze da realizzare… Al di fuori de-gli incontri ufficiali, poi, attacchi, aggressioni, minacce e av-vertimenti si pongono ancora più chiaramente sul terreno e-conomico, anche se, una volta compiuti, non sfuggono a unaqualche giustificazione religiosa, laica o moralistica.Il travestimento deve assumere invece grande rilevanza quan-do è rivolto alle popolazioni e soprattutto ai proletari. E’ quiche risalta la funzione sociale reazionaria delle religioni e de-gli appelli quotidiani e martellanti ai cosidetti “valori” dellaciviltà democratica e occidentale. Il gioco degli interessi eco-nomici è quasi fatto sparire, dinanzi alle Sacre “unità nazio-nali e patriottiche” da mettere in primo piano, da difendere,

“CREATURE” DEL CAPITALISMO

gni costo, non può non dare:intensificazione selvaggiadello sfruttamento del prole-tariato, ampliamento erafforzamento delle struttu-re statali di controllo e re-pressione, nazionalismi esa-cerbati e più o meno agghin-dati in vesti laiche o religio-se, preparazione ideologica emateriale alla guerra futura.Ovunque, con questo o quelpretesto (oggi è “la minacciadell’ISIS”, equivoca forma-zione espressa da fazioniborghesi come strumento diinteressi economici locali,regionali, inter-nazionali), sierigono barriere e si scavanofossati: già s’introducononuove “voci” nelle costitu-zioni borghesi a sostegno dimisure che, in altri tempi, sa-rebbero state definite (sem-pre dai borghesi) “libertici-de”; già si parla della sospen-sione per un paio d’annidell’“area Schengen”, grandemito di un’Europa protago-nista, libera al proprio inter-no e aperta al mondo; e via di

seguito… Alla grande paura ilmondo del capitale può ri-spondere solo così: perché,se è incapace di comprende-re le ragioni profonde dellapropria agonia, esso sa inve-ce molto bene da dove vieneil vero nemico alla sua so-pravvivenza – lo sa da quan-do è nato e si è affermato,gettando sulla scena anche ilproprio antagonista storico,il proletariato. Da lì viene, do-mani, la vera minaccia, e laclasse dominante lo sa benis-simo. Da lì, nasce la grandepaura, anche se oggi – a cau-sa di un disarmo teorico epratico, politico e organizza-tivo che dura da decenni – ilproletariato stesso non sem-bra rendersene conto e agiredi conseguenza.

A dominare è dunque la di-namica del capitale, la facciainvisibile di quella bestia ne-ra che è la caduta tendenzialedel saggio medio di profitto,così limpidamente riconosci-bile nella radiografia dei

1. L’inno “Onwards, Christian Soldiers!” (“Avanti, soldati cri-stiani!”), scritto in Inghilterra nella seconda metà dell’Ottocen-to e presto adottato dall’Esercito della Salvezza, fu ripetutamen-te usato nelle cerimonie militari della Prima e della Secondaguerra mondiale.

La grande paura tempi lunghi di ormai un se-colo e più di economia capi-talistica. Le azioni messe incampo dalla borghesia nonpossono (a volontà) risolle-vare l’economia mondiale,non possono (a volontà) tor-nare a far crescere il saggiomedio di profitto di quel tan-to da far ripartire davverol’accumulazione: ecco lacampana a morto! E allora,quando tutti i tentativi si sia-no mostrati fallaci (e cosìsarà), fuori l’ultima carta! l’e-conomia di guerra che pre-para la guerra. Non questa oquella guerra locale o di a-rea, ma il conflitto generaliz-zato che distrugga ciò che siè prodotto in eccesso: mercie capitali e, fra le merci, quel-la merce particolare che è lamerce forza-lavoro. Che di-strugga insomma la sovrap-produzione e la sovrappo-polazione, e rimetta così inmoto quel meccanismo in-ceppato.Questo, e non la cialtronesca“ripresa”, sta in fondo al tun-nel. Non è mai troppo prestoperché i proletari più co-scienti, le vere avanguardiedi lotta, se ne rendano conto.E si stringano intorno al loropartito, il nostro partito.

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IL PROGRAMMA COMUNISTA2 A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

tolare della proprietà rivendichi il diritto di vendita dell’in-tera massa dei mezzi di produzione (macchinari di grandepregio per la costruzione di altre macchine, che per anni eanni hanno schiacciato i lavoratori sotto l’imperio del pro-fitto e dell’accumulazione di capitale e arricchito un’interafiliera di imprenditori, banche, piccoli e medi padroncini, ce-ti medi, intellettuali, avvocaticchi, sindacalisti e quaquara-quà), che il titolare speculi in questa transizione economicae che dal suo canto la speculazione edilizia cerchi di avven-tarsi sull’intera area, una volta risolto il problema, con la for-za o con qualche compromesso, dove sta lo scandalo? La pro-prietà privata dei mezzi di produzione non è forse sacra perla borghesia? Che il compratore dei macchinari li destini poial suo uso naturale o li invii alla rottamazione, è qualcosa dinuovo? Il film non è stato visto infinite volte? Eppure, ci sonodegli imbecilli della cricca del gazzettume di sinistra e dellevecchie corporazioni sindacali e delle più giovani parrocchiesindacali, che continuano a blaterare di “difesa della profes-sionalità” e del “territorio”, di “fabbriche da salvare”, di “ au-togestione”, di “difesa del reddito operaio”, quando sannobenissimo che la crisi è crisi di sovrapproduzione, crisi di va-lorizzazione di merci e di capitali, che il profitto si è ridottoall’osso e che ciò che si prospetta agli operai è un’epoca di la-crime e sangue.

Non illudetevi![…] Noi comunisti diciamo agli operai dell’INNSE: Non illu-detevi! I termini dell’accordo sono tali per cui nulla, assolu-tamente nulla, potrà impedire al nuovo padrone di fare mar-cia indietro su questo o su quel punto (cassa integrazione,licenziamenti, assunzioni parziali, delocalizzazione, ecc.),prendendo a pretesto la “congiuntura sfavorevole del mer-cato”. I termini dell’accordo sono vuote parole, se non c’è unrapporto di forze favorevole a imporli. E questo rapporto diforze favorevole si può costruire solo attraverso la mobili-tazione di altre categorie, attraverso il ricorso a metodi in-cisivi che colpiscano davvero la controparte e non risultinosoltanto in un drammatico sacrificio personale, attraversola creazione di un vero fronte proletario in grado di soste-nere tutti gli aspetti di una vertenza (delle tante vertenze chesono già aperte e che si apriranno), prima, durante e dopo, edi esercitare una reale, costante vigilanza dei proletari.

Obiettivi e metodi di lottaSi può costruire, questo rapporto di forze favorevole, soloattraverso il ricorso all’arma dello sciopero generale, senzalimiti di tempo e di spazio, ogni qualvolta un settore, una ca-tegoria, un gruppo di operai sia minacciato (“un’offesa a unoè un’offesa a tutti!”): la lotta implica organizzazione e dire-zione, e lo sciopero generale, per essere efficace, implica lamessa in campo di quello che dovrà tornare a esserequell’esercito proletario che da troppo tempo – per l’azionecongiunta dei suoi nemici e dei suoi falsi amici – manca dal-la scena. Allora sì, le diverse forze si disporranno secondo illoro ruolo storico e dimostreranno da che parte stanno: e co-sì, nei fatti piccoli e grandi della lotta, i proletari compren-deranno che non si tratta solo di vincere questa o quella bat-taglia, di strappare questa o quella concessione (vittorie econcessioni che sono sì possibili, ma che vengono prestosvuotate e rimangiate), ma che è tutto un sistema sociale cheva distrutto – quello del profitto, della concorrenza, dellaguerra... in una parola, del modo di produzione capitalisticoin quanto tale.E comprenderanno anche la necessità vitale e irrinunciabi-le del partito rivoluzionario, l’unica forza in grado di dirigerliverso quello sbocco, preparando nel presente di lotte ancheparziali, anche di difesa, le condizioni per il futuro.

Così scrivevamo sette anni fa, e i duri fatti della realtà cihanno dato ragione. Che i proletari traggano le giuste lezio-ni da certe esperienze – per non dover ogni volta imboccare

strade che non conducono da nessuna parte!

“Tutti brindano, ma i lavoratori aspettino a cantar vittoria!”:così scrivevamo sul n.5/2009 di questo stesso giornale. Ritor-niamo oggi sulle ultime vicende della famosa azienda metal-meccanica di Milano, che il Corriere della sera del 28/11 u.s.chiama “l’azienda con il lieto fine”. A quanto pare, si sta infattiapparecchiando un altro… miracolo (siamo pur sempre in tem-pi di Giubileo!): un “nuovo salvataggio dallo smantellamen-to”. Ohibò! “Sembrava una battaglia persa in partenza”, rievoca il Cor-riere. Ma poi, “in una Milano deserta del ferragosto, l’im-prenditore bresciano Attilio Camozzi, noto per far girare leaziende come orologi, pare abbia detto: ‘Ci penso io. E vedre-te che la INNSE diventerà una fabbrica modello’”. Dopo 8 gior-ni di occupazione per impedire che venissero smantellati easportati i macchinari, gli operai scesero dal carroponte po-sto a 20 metri di altezza, tra gli osanna generali: “come in unascena rubata da un film di Ken Loach”. L’imprenditore è mor-to da pochi mesi senza aver avuto la soddisfazione di vederecrescere il capitale di 12,6 milioni di euro investito nello sta-bilimento dal 2009, e non potrà ricreare oggi un nuovo effet-to miracolistico (nel frattempo, i dipendenti, da 48, sono di-ventati 38). Ma, morto il padre, interviene il figlio, che è pre-sidente e amministratore delegato della ditta. E dichiara: “Ades-so è il momento di fare sul serio”. Occorre cioè “mantenere gliimpegni presi”.“Fare sul serio?”. Ma che cosa facevano i suoi “negri” nel cor-so di tutti questi anni? Giocavano a canasta nelle otto e piùore di lavoro, mentre lui seguiva le orme del padre? Poi aggiunge il solito ritornello: “Anche i dipendenti devonoprendersi delle responsabilità. O questo avviene e andiamoavanti insieme. O lasceremo l’azienda in uno stato di agonia.Non licenzieremo nessuno, per carità. Ma rinunceremo ad in-vestire”. Dunque, il giovane minaccia. Dopo che gli operai gli hannosalvato la fabbrica, che cosa pretende ancora? Be’, chiede “so-lo” la possibilità di svolgere “il terzo turno notturno” come pre-visto dal contratto dei metalmeccanici; vuole la “flessibilità”sui cambi di mansione; chiede una “pianificazione delle usci-te” dei pensionati nel triennio 2016-2018. Pare che la Fiom,accorsa a sentire il discorsetto, abbia poi aggiunto: “Quandoqualcuno vuole investire, il dialogo è aperto”. Evidentemente,alla corporazione sindacale, la pelle operaia, che il giovanedelfino si prepara a conciare, è una specie di regalo natalizio.Per vederci più chiaro, torniamo allora a sette anni fa, ripro-ponendo ampi stralci dell’articolo-commento uscito suln.5/2009 di questo stesso giornale, per sottolineare la com-battività e la compattezza dei lavoratori e le nostre valuta-zioni sui metodi e sugli obiettivi.

La lotta alla INNSE: tutti brindano, ma i lavoratori

aspettino a cantar vittoria!

La lotta, l’organizzazione, l’occupazioneLa lotta dei 49 operai dell’INNSE Presse (azienda metal-meccanica alla periferia di Milano) è sufficientemente notaperché ci si debba tornare ancora sopra con una cronaca det-tagliata. Basti ricordare che ha voluto dire più di un anno dioccupazione della fabbrica contro la minaccia di smantella-mento e licenziamento, vari tentativi padronal-polizieschi disottrarre i macchinari di nascosto, scontri con le forze dell’or-dine accorse in tenuta anti-sommossa, e infine l’episodio –presto imitato e ampiamente coperto dai mezzi d’informa-zione – dei lavoratori saliti e rimasti sul carroponte giorni enotti, fino alla firma di un accordo con una nuova cordata dipadroni.Soprattutto, ha voluto dire una bella prova di compattezzae solidarietà, di decisione e abnegazione, da parte dei 49 la-voratori, che va salutata con entusiasmo, a dimostrazioneche – nonostante tutto quel che da decenni avvoltoi di ognigenere (politici e sindacalisti, giornalisti e sociologi, poliziottie giuslavoristi) dicono e fanno ai danni della classe operaia– , essa non è né scomparsa, né integrata, né tanto meno sisente... in paradiso.

La memoria, l’isolamento, le illusioni[…] Di certo, sotto la spinta della crisi, le reazioni proletarienon si faranno attendere, in Italia come negli altri paesi: madovranno fare i conti con decenni di abbandono e isolamento,durante i quali è stata letteralmente fiaccata la combattivitàoperaia, distrutta la memoria di una tradizione di lotta or-mai più che secolare, ribaltata la prassi dello scontro di clas-se annegandola nella melassa della conciliazione democra-tica. Da questo “grado zero” purtroppo bisogna ripartire, sen-

za farsi illusioni di scorciatoie o salti di gradini: il fronte diclasse va ricostituito mattone su mattone, ma sempre con losguardo ben fisso all’obiettivo finale – che non è la “salva-guardia dei diritti”, o una “più equa ridistribuzione della ric-chezza”, o una “più diffusa giustizia sociale”, ma è la presadel potere e l’abbattimento di un modo di produzione ormaida due secoli superato dalla storia stessa e divenuto sangui-nosamente distruttivo nella sua lunga agonia.

La ripresa classistaSi pone dunque il problema della ripresa classista. La lottaoperaia tende a uscire talvolta dal puro economicismo perporsi su un livello più avanzato: ma di per sé, da sola, nonpuò andare oltre la difesa delle condizioni di vita e di lavo-ro. Può usare i mezzi più duri (picchetti, blocchi, occupazio-ni, manifestazioni, anche scontri frontali): ma ben altra èla lotta politica, che ha come finalità il rovesciamento del po-tere della classe dominante. E infatti la borghesia ha pauradella lotta economica solo quando essa tende a scavalcare imuri dell’azienda, a uscire dal suo ambito locale per diven-tare lotta generale, sciopero generale, scontro aperto con leistituzioni e la prassi democratica. E, per evitare questo svi-luppo, essa utilizza da tempo l’opportunismo, il riformismo(delle cosiddette “sinistre”, politiche e sindacali), facendo lo-ro giocare il ruolo di contenimento e di pompieraggio.

Ma che altro si poteva fare?Per “mantenere il posto di lavoro”, per non mandare all’aria“la professionalità acquisita”, per non doversi cercare “un’al-tra occupazione” in un momento critico come questo, i la-voratori dell’INNSE hanno occupato la fabbrica. Che pote-vano fare di più? Con queste premesse (“salvare l’aziendaper salvare il posto di lavoro”), è stato inevitabile che tutti ifalsi amici della Fiom (i Rinaldini, i Cremaschi & Co) abbia-no elogiato il carattere etico-individuale della scelta e cele-brato l’attaccamento feticistico all’azienda, minimizzando alcontempo ogni volontà di estensione della lotta e insisten-do sulla possibilità dell’autogestione […] Il limite più grosso di ogni lotta di difesa economica è la suatendenza immediata a chiudersi entro i limiti dell’azienda,della categoria, della località – a presidiare un perimetro no-to e familiare. Ed è una tendenza che naturalmente viene ali-mentata e incoraggiata dall’opportunismo sindacal-politico:il quale sa bene, per esperienza storica, che finché i lavora-tori se ne stanno chiusi dentro a quest’autentica gabbia il po-tere li tiene in pugno. […] E’ solo quando i lavoratori spez-zano e si lasciano alle spalle queste catene, irrompendo nel-le strade e nelle piazze, puntando sulle Camere del Lavoro(da rioccupare cacciandone a pedate e bastonate i traditoriopportunisti, per tornare a farne veri luoghi di organizza-zione della lotta sul territorio) e sui nodi nevralgici e sim-bolici del potere – è solo allora che la classe dominante ha dav-vero paura.

Il mito dell’autogestione e l’allargamento del fron-te di lotta[…] A questa tendenza, immediata e istintiva, a chiudersi en-tro i limiti dell’azienda, della categoria, della località, va poiad aggiungersi (spesso come sua logica conseguenza) un pe-ricolo altrettanto grande: il mito disastroso dell’autogestio-ne, cioè di voler dimostrare (a chi, poi?) di essere in grado digestire l’azienda in proprio, anche senza un padrone, maga-ri anche... meglio del padrone (privato o pubblico che sia).Un mito che ha anch’esso una storia lunga, dall’anarchismoottocentesco fino ai giorni nostri (ricordate l’ubriacaturaspontaneista per le fabbriche autogestite dagli operai ar-gentini, pochi anni or sono?). E che dimentica (o finge di di-menticare) che una fabbrica autogestita produce comun-que per il mercato capitalistico; che, padrone o non padro-ne, si lavora comunque per il capitale; che, diventati “padro-ni diffusi”, “padroncini di se stessi”, si deve poi fare i conticon le leggi del profitto, della concorrenza, della produttività,ecc. ecc. In perfetta buona fede, non c’è dubbio, questo han-no fatto gli operai dell’INNSE: hanno salvato l’azienda per ilcapitale, per un nuovo padrone, ma né l’uno né l’altro li ri-compenserà. Così facendo, hanno finito per trascurare l’uni-ca strategia che può essere vincente sul lungo periodo: quel-la dell’allargamento del fronte di lotta e della creazione di sta-bili organismi in grado di sostenere quella lotta anche neimomenti di riflusso.

La lotta istruisceSi dice: la lotta istruisce. Sì, la lotta istruisce più di quanto sipossa credere: crea organizzazione, permette di ricostruireuna memoria perduta. Ma, per non essere puro attivismo fi-ne a se stesso, ha bisogno della sua finalità di classe. Che il ti-

Il proletariato o è rivoluzionario

o non è nulla Dal mondo Sette anni fa… Ricordate l’INNSE?

Per la difesa intransigente delle condizionidi vita e di lavoro dei proletari

Forme di organizzazione, metodi e obiettivi di lotta

Con questo titolo, è a disposizione delle sezioni, deisingoli militanti, dei simpatizzanti e dei lettori, unpieghevole di 4 pagine, che presenta le nostre po-sizioni, le indicazioni e gli orientamenti di lotta sulterreno della difesa immediata economica e socia-le. Può essere richiesto gratuitamente, scrivendo a:

Edizioni il programma comunista, Casella postale 962 – 20101 Milano

Come ovunque, chiusure, fallimenti, licenziamenti, “esu-beri”, “ricollocamenti”: anche in Piemonte si snocciolail triste rosario della crisi, sulla pelle dei lavoratori.

La principale vertenza aperta negli ultimi due mesi riguarda laMichelin. All’inizio del mese di novembre l’azienda rendevanota la decisione di chiudere tre siti produttivi in Europa nelgiro di tre anni: a Fossano (400 operai), in Germania e in In-ghilterra, per un totale di circa 1500 posti di lavoro (in Italia,altri “esuberi” sono ad Alessandria: 30; Torino: 120; e Triba-no, nel Padovano: 28). La ragione, ha spiegato l’azienda, stanella “situazione di cronica non saturazione degli impianti”. Inparticolare, i cavi metallici costruiti a Fossano sono oggi ac-quistabili sul mercato mondiale a costi decisamente inferiori.L’azienda ha naturalmente assicurato di aver messo a punto unpiano strategico di vasta portata, per continuare a essere “unasolida realtà industriale, commerciale e logistica in Italia”. Diquesto “piano”, a quanto sembra, “beneficerebbero” i siti diCuneo (più di 2000 dipendenti) e Alessandria (800). All’an-nuncio faceva seguito uno sciopero unitario (13 novembre) ditutti gli stabilimenti italiani della Michelin; e poi, a Fossano,due altri (17 e 20 novembre) di quattro ore, con corteo e in-contro con sindaco e consiglio comunale. Successivamente (3dicembre), l’azienda precisava il piano strategico: ricollocare362 lavoratori (sulle circa 580 “eccedenze”) e procedere anuovi investimenti; la ricollocazione verrebbe effettuata in si-ti piemontesi, ma anche (per 30 operai) in Francia e Romania;per altri 280 lavoratori interinali si prospetta nei prossimi me-si la trasformazione del contratto a tempo indeterminato. Sipromuoveranno, da parte dell’azienda, “incentivi all’autoim-prenditorialità, prepensionamenti e riqualificazione professio-nale esterna”. Veniva quindi proclamato un grande scioperoper il 4 dicembre: che veniva però sospeso, perché, nella not-te del 3, azienda e sindacati trovavano (provvidenzialmente!)l’accordo. Accordo che, secondo la nota congiunta sindacale,“è il risultato della lotta, della partecipazione, dell’intelligenzadei lavoratori, dei rappresentanti sindacali di fabbrica e delleorganizzazioni sindacali dei diversi settori coinvolti, che han-no saputo darsi obiettivi condivisi e agire con coerenza e spiri-to unitario. Con queste qualità si potranno affrontare e supera-re le sfide che ci attendono e dalle quali dipendono la conti-nuità produttiva, occupazionale e il futuro stesso della Miche-lin”. “Coerenza e spirito unitario”, e tutti… contenti!

***Di minore rilevanza, ma localmente importanti, sono alcunialtri episodi di cui si è occupata la cronaca. A Grugliasco, alle porte di Torino, l’Abit ha spedito lettere dilicenziamento a 29 lavoratori, per i quali scadeva la cassa in-tegrazione a zero ore di due anni: l’azienda passa così dai 105lavoratori del 2013 a 50. A Leini, periferia di Torino, la ditta Defonseca (“Ogni annoproduciamo e vendiamo in tutto il mondo più di 14 milioni dicalzature, in una gamma che non ha rivali, composta da ol-tre 500 modelli nuovi per ogni collezione, pensati per offri-re comfort e praticità in ogni occasione, in casa e nella vita

all’aperto”) ha ipotizzato il trasferimento della produzione aCasalecchio di Reno (Bologna) e la chiusura dello stabilimen-to, con conseguente licenziamento dei 60 dipendenti. Vengo-no proclamati tre giorni di sciopero: “È la prima volta in 44 an-ni di storia aziendale che siamo costretti a scioperare”, secon-do le dispiaciute dichiarazioni dei bonzi della CGIL. Delletrattative per risolvere la questione per via amministrativa nonsi è più saputo nulla. Ad Alpignano (bassa Valsusa), la Dr Fischer (ex Philips), sto-rica fabbrica di lampadine, ha annunciato la chiusura. Qui nonsi discute su come “salvare” azienda e posti di lavoro, masull’entità della buonuscita (20mila euro per i 62 dipendenti).I sindacati vorrebbero un ritocco senza troppo agitare le acque(anche se da 40 giorni si svolge un’assemblea permanente).Ma “sembra che non ci siano margini” (Giovanni Milesi, bon-zo CGIL). E infatti a metà dicembre resta in fabbrica solo piùuna quindicina di operai, incaricati dello sgombero dei mate-riali e della chiusura dei locali. Ad Avigliana (città metropolitana di Torino), l’Azimut Yachts propone un piano di ristrutturazione a fronte della cri-si che ha colpito il mercato nautico (ma i sindacati rispondonoche “in questo momento assistiamo a una lieve ripresa” nellavendita di imbarcazioni oltre i 24 metri, di cui la Azimut Ya-chts sarebbe “leader mondiale”). La ristrutturazione consistenell’annunciare 95 “esuberi” , con conseguente proclamazio-ne di cinque ore di sciopero per ogni turno (19 novembre). Ha poi fatto parlare molto di sé il caso avvenuto alla Biennevernici di Moncalieri, dove venti lavoratori del settore metal-meccanico, non lavorando da due anni, sono in cassa integra-zione straordinaria che non viene pagata da dieci mesi. La pro-testa ha avuto un risvolto inatteso, quando un gruppo di operaiha chiuso per un’ora, in una stanza dell’azienda, un dirigente;ne è seguita una irruzione delle “forze dell’ordine” e una de-nuncia per sequestro – dipendenti e RSU parlano piuttosto diuna goliardata. Sembra che, di recente, sia stato trovato l’ac-cordo ministeriale per la corresponsione di almeno una partedegli ammortizzatori (sei mesi anziché dieci).

A fronte di questi pochi episodi, che parlano di un continuostillicidio di licenziamenti e chiusure, vi è l’ostinato e condi-viso ottimismo di industriali e sindacalisti sulla “ripresa”. Pergli uni, le assunzioni in Piemonte sono cresciute oltre il 12% ei contratti a tempo indeterminato sono 20mila in più delloscorso anno. Anche per i secondi sarebbe “davvero il momen-to giusto per la ripresa”; però questi segnalano anche che i di-soccupati registrati nelle liste di collocamento sono ben oltre100mila, che moltissimi giovani non studiano e non lavoranoe che gli ammortizzatori sociali sono agli sgoccioli: “In Pie-monte il tessuto produttivo si è indebolito, pensiamo alla si-tuazione dell’edilizia che è molto lontana dalla ripresa”. A contrastare le tranquillizzanti parole degli uni e degli altri,tutti impegnati a rassicurare che “le cose cambieranno”, man-ca ancora la voce delle vittime del capitale. Ma essa, ne siamosicuri, non si farà attendere.

IL PROGRAMMA COMUNISTA 3A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

del lavoroEPISODI PIEMONTESI

E questi morti proletari?

Nella prima quindicina di novembre 2015, men-tre il mondo era all’erta per gli attentati di Parigi,due notizie sono passate praticamente inosser-vate – a ulteriore dimostrazione del fatto che e-sistono sempre tanti pesi e tante misure.Nello Stato di Kachin (Myanmar, la vecchia Bir-mania), una frana staccatasi dalla montagna discarti di lavorazione sita nei pressi di un’impor-tante miniera di giada (un “posto di lavoro” sucui s’arrampicano ogni giorno decine e decinedi minatori abusivi, nel tentativo di trovare qual-cosa grazie a cui sopravvivere) ha letteralmentesepolto una baraccopoli: i morti sarebbero al-meno 90, più di 100 i dispersi con scarse proba-bilità di uscirne vivi. Nello Stato di Minas Gerais(Brasile), una barriera di residui costruita neipressi della miniera di Mariana dalla compagniadi estrazione di ferro Samarco (di proprietà del-la società anglo-australiana BHP), ha ceduto dicolpo e un vero “tsunami di fanghi tossici” s’èrovesciato a valle, fino a 100 chilometri di di-stanza, travolgendo i minatori, distruggendo in-teri villaggi e rovesciandosi infine nel Rio Doce: imorti ufficiali sarebbero 16, i dispersi almeno45, l’inquinamento del fiume impressionante.Altre due storie tremende di disperati in lottaper la sopravvivenza, altre stragi di proletari, al-tre vittime del capitalismo. Lasciamo ai borghe-si, ai piccolo-borghesi e ai loro tirapiedi dichia-rare guerra al terrorismo. Noi dichiariamo guer-ra al capitalismo, che è l’unico vero responsabi-le di tutte queste atrocità, che si verifichino a Pa-rigi o a Bruxelles, piuttosto che nel Myanmar oin Brasile!

Condizione proletaria(presente e futura)

Piana di Gioia Tauro. Ricordate Rosarno (gennaio 2010)? La spedizione “punitiva”, da parte di un manipolo diteppisti assoldati, nei confronti di lavoratori immigrati e la rivolta di questi ultimi nei giorni successivi? Bene, so-no passati sei anni e le cose, dal punto di vista delle condizioni di vita e di lavoro, non sono cambiate. Un brevearticolo apparso sul Corriere della Sera del 14/1 ci informa che sono 1200 le persone, bambini compresi, “ospi-tate” nella “fatiscente tendopoli di San Ferdinando”, 450 nell’ex fabbrica occupata, molte altre “tra i casolari ab-bandonati nelle campagne”; che oltre la metà hanno il permesso di soggiorno per motivi umanitari (vengono dalMali, dal Senegal, dal Burkina Faso... ); che l’86% (Fonte Medu) non ha un contratto di lavoro; che, per almenootto ore di lavoro al giorno, ricevono 25 euro; che caporalato, ‘ndrangheta, movimenti xenofobi continuano acontrollare il territorio e a gestire, in tutti i sensi, la situazione. E riporta una dichiarazione del presidente della Ca-labria, Mario Oliviero: quelli in cui vivono (?) i lavoratori immigrati sono “campi lager”. Che dire di più?

General Electric. A settembre 2015, c’informa sempre il Correre del 14/1, le autorità antitrust europee hanno da-to “il via libera all’acquisizione del colosso dell’energia francese Alstom da parte di General Electric”: il processodi concentrazione, imposto dalla crisi, continua in tutti i settori. E si accompagna, come da... manuale, a un pro-gramma di ristrutturazioni: la GE decide subito di tagliare 6500 posti di lavoro (sui 35mila in tutt’Europa): 1700in Germania, 1300 in Svizzera, 756 in Francia, 236 in Italia (in particolare allo stabilimento di Sesto San Giovan-ni, alle porte di Milano; per il momento, non si parla ancora degli stabilimenti di Padova e Lecco, mentre si ac-cenna, minacciosamente, a un possibile futuro “trasloco della produzione”), e così via. Ma il mercato dell’ener-gia, com’è noto, attraversa tempi difficili, e ulteriori brutte sorprese sono possibili.

Da Nord a Sud, le prospettive per i proletari attuali e quelli futuri sono sempre più cupe. La necessità dell’orga-nizzazione di classe, sia sul piano della difesa immediata che su quello politico del partito rivoluzionario, si fa sen-tire con sempre maggiore urgenza e drammaticità.

Le moderne guerre del capitale

Importa dunque preparare il movimento [comu-nista] alla certezza che nelle grandi guerre i pote-ri della borghesia non combattono per idee e prin-cipii generali, per fare avanzare di nuove tappel’evoluzione sociale, per assicurare una forma piùtollerabile e umana di capitalismo al posto di unadeteriore.L’origine e la causa delle guerre non sono in unacrociata per principii generali e per conquiste so-ciali. Le grandi guerre moderne sono determinatedalle esigenze di classe della borghesia, sono l’in-dispensabile quadro in cui può attuarsi l’accumu-lazione iniziale e successiva del capitale moderno.

Da “United States of Europa”, Prometeo, n.14/1950

Un saluto ai proletari tunisini!

Dopo aver dato l’avvio al poderoso moto di agitazio-ni sociali che, nel 2011, ha investito tutti i paesi dellacosta meridionale del Mediterraneo; dopo che le lo-ro rivendicazioni classiste (pane e lavoro!) sono sta-te o represse nel sangue dai vecchi e dai nuovi regi-mi o svuotate e incanalate nel vicolo cieco delle ri-chieste di “maggiore democrazia” e di “libertà d’in-trapresa” di una piccola borghesia boccheggiante,ecco che i proletari tunisini sono tornati nelle stradedi città e paesi, perché… perché nulla è cambiato, népoteva cambiare, restando immutato il modo di pro-duzione, restando al potere (in veste laica o religiosa,non importa) una classe borghese interessata soloalla propria sopravvivenza. Torneremo su questi fat-ti, ricollegandoli a quelli del 2011, nei prossimi nu-meri di questo giornale: ma intanto salutiamo l’indo-mita volontà di lotta dei proletari tunisini!

IL PROGRAMMA COMUNISTA4 A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

“Se è vero che il potenziale indu-striale ed economico del mondo ca-pitalistico è in aumento e non in de-flessione, è altrettanto vero che mag-giore è la sua virulenza, peggiori so-no le condizioni di vita della massaumana di fronte ai cataclismi natura-li e storici. A differenza della pienaperiodica dei fiumi, la piena accumu-lazione frenetica del capitalismo nonha come prospettiva la “decrescen-za” di una curva discendente delleletture all’idrometro, ma la catastro-fe della rotta” (“Piena e rotta della ci-viltà borghese”, Battaglia comunista,n. 23/1951).

30 novembre-11 dicembre 2015:21esima edizione della conferenza ONU sul clima

Il mondo ha assistito distrattamenteall’ennesima kermesse dei potentidel pianeta, all’esibizione di concor-dia e (cauto) ottimismo di fronte allaprospettiva di mutamenti climaticiche minacciano di sconvolgere labiosfera. La questione in discussioneè la possibilità di conciliare sviluppocapitalistico e salvaguardia dell’am-biente, che nell’ipocrita formula del-lo “sviluppo sostenibile” riassumel’intento di moderare la devastazionepur continuando a ampliare il vorticedegli affari. In questo caso, in gioconon è la sorte di singole aree colpiteda cataclismi, ma il riscaldamentoglobale, un fenomeno dalle dimen-sioni planetarie che mette a rischio e-quilibri che la natura ha costruito inmilioni di anni e che un paio di seco-li di capitalismo ha compromessocon il consumo sfrenato di risorse eil rilascio nella terra, nell’acqua enell’aria di quantità gigantesche disostanze venefiche. A ogni epoca delcapitalismo le proprie catastrofi: seai suoi tempi Engels descriveva l’in-sana città industriale annerita dalcarbone, oggi è il mondo intero an-nebbiato dai fumi degli scarichidell’industria e non c’è angolo remo-to che sia preservato dagli effettidell’avvelenamento. I “grandi” dellaTerra proclamano che tutto si risol-verà grazie alla cooperazione volon-terosa tra paesi affratellati da un co-mune obiettivo… Ma si tratta di sal-vare il mondo dalla catastrofe o disalvare il capitale? Non è nella natu-ra del capitale la programmazione dirimedi duraturi ai rischi che compor-ta la devastazione che esso stessoprovoca all’ambiente. Le catastrofisono il suo teatro ideale: alluvioni,dissesti idrogeologici, guerre distrut-trici, sono occasioni per ricostruire,per sfruttare senza sosta lavoro vi-vente. Ricordiamo le telefonate deglisciacalli che si rallegravano del terre-moto dell’Aquila per gli affari che a-vrebbe regalato ai costruttori. Il capi-tale si nutre di emergenze. Scriveva-mo più di mezzo secolo fa:

“Il capitale moderno, avendo biso-gno di consumatori perché ha biso-gno di produrre sempre di più, hatutto l’interesse ad inutilizzare al piùpresto possibile i prodotti del lavoromorto per imporne la rinnovazionecon lavoro vivo, il solo dal quale‘succhia’ profitti. Ecco perché va anozze quando la guerra viene, ed ec-co perché si è così bene allenato allaprassi della catastrofe” (“Omicidiodei morti”, Battaglia Comunista, n.24/1951)

Che cosa c’è di meglio allora di una

catastrofe globale, per mobilitare ca-pitali e forza lavoro vivente da quiall’eternità? Ci raccontano che l’accordo infineraggiunto a metà dicembre 2015 aParigi, al di là di ogni critica che gli sipossa muovere, dovrebbe se non al-tro rassicurare sulla determinazionecomune a intervenire finalmente peril bene dell’umanità. I precedenti in-contri annuali, a partire dal Summitdella Terra a Rio de Janeiro (1992), a-vevano portato all’impegno dei paesiindustrializzati a ridurre le emissionidi gas-serra del 5% all’anno (Proto-collo di Kyoto, 1997), con la rilevan-te defezione degli Stati Uniti, mentrea quelli in via di sviluppo era statoconcesso di aumentarle per consentirloro di “svilupparsi”. Con l’ascesa e-splosiva della Cina e in generaledell’Estremo Oriente, la situazione èmutata al punto da far fallire la confe-renza di Copenhagen (2009) per il ri-fiuto dei paesi industrializzati di ac-cettare nuovi tagli. A quasi vent’annidi distanza dal Protocollo di Kyoto leemissioni dei paesi industrializzatisono sì calate del 23%, ma una partesignificativa è conseguenza della ca-duta produttiva della grande reces-sione, mentre nel frattempo il calo èstato quasi annullato dall’aumentodelle emissioni cinesi e di altri paesi.Il bilancio fallimentare è evidente nelfatto che il sistema produttivo mon-diale ha continuato e continua a sca-ricare nell’atmosfera enormi quan-tità di CO2 che alimentano il “globalwarming”, avvicinandolo al punto dinon ritorno. La produzione mondialeè cresciuta, e con essa il livello di in-quinamento del pianeta.

Curva della crescita e curva della catastrofe

Nel nostro testo del 1951 citato all’i-nizio, già si metteva in relazione la ri-presa in grande stile della macchinadi sfruttamento capitalistico dopo ledistruzioni della Seconda guerramondiale con la catastrofe ambienta-le planetaria che oggi si annuncia consegnali sempre più allarmanti:

“L’alto capitalismo modernissimosegna gravi punti di rinculo nella lot-ta di difesa contro le aggressioni del-le forze naturali alla specie umana, ele ragioni ne sono strettamente socia-li e di classe, tanto da invertire il van-taggio che deriva dal progresso dellascienza teorica ed applicata. Atten-diamo pure ad incolparlo di avere e-sasperata cogli scoppi atomici l’in-tensità delle precipitazioni meteori-che, o domani ‘sfottuta’ la natura finoa rischiare di rendere inabitabile laterra e la sua atmosfera, e magari difarne scoppiare lo stesso scheletroper avere innescate ‘reazioni a cate-na’ nei complessi nucleari di tutti glielementi. Per ora stabiliamo una leg-ge economica e sociale di paralleli-smo tra la sua maggiore efficienzanello sfruttare il lavoro e la vita degliuomini, e quella sempre minore nellarazionale difesa contro l’ambientenaturale, inteso nel senso più vasto”(“Piena e rotta della civiltà borghese”,Battaglia comunista, n. 23/1951).

Trascorsi ormai sessant’anni da allo-ra, il processo di devastazione è giun-to a un punto tale che “l’alto capitali-smo modernissimo” può senz’altroessere accusato di trasformare la Ter-ra in un luogo inabitabile. Non sonopiù soltanto al vaglio fosche previsio-

ni di autorevoli studi scientifici; icambiamenti climatici sono già undato di esperienza diretta per la gentecomune. Finché si trattava delle po-polazioni miserabili del Sahel, colpi-te dalla desertificazione, o di quelledistribuite nelle sperdute isole-Stato,minacciate dall’innalzamento del li-vello degli oceani, la questione pote-va essere relegata in cronaca o deru-bricata a fenomeno collegato all’au-mento dei flussi migratori. Ma orasono le latitudini intermedie, le areevitali del capitalismo mondiale, a es-sere direttamente colpite dal riscalda-mento globale. Il 2014, anno recorddi temperatura media, sta per esseresuperato dal 2015. Il nuovo anno se-gnerà un altro record, perché al trenddi surriscaldamento provocato dalleemissioni crescenti di CO2 (per laprima volta stabilmente sopra 400parti per milione) si sommeranno fe-nomeni naturali come El Niño e lariemersione di correnti oceanichecalde dal ciclo decennale (1). Il calo-re assorbito dagli oceani viene perio-dicamente restituito all’atmosfera, edè questa una delle ragioni per cui, seanche si implementassero subito dra-stiche riduzioni delle emissioni, latemperatura si alzerebbe ugualmentedi almeno un grado, un grado e mez-zo da qui a qualche decennio. Proprionei giorni del summit, Pechino eraavvolta in una densa cappa di smogche rendeva l’aria irrespirabile, convalori di inquinanti che superavanodi 20 volte i limiti stabiliti dall’OMS:le autorità sono intervenute chiuden-do le aziende più pestilenziali, ma inun’area metropolitana grande comela Spagna basta che cambino le con-dizioni meteorologiche perché lacittà sprofondi in uno scenario apoca-littico. Mentre scriviamo (fine 2015),la Pianura Padana è avvolta in unacappa di smog provocata da una ano-mala e prolungata alta pressione, egiunge notizia di tornado di potenzaeccezionale nel Sud degli Stati Uniti,di inondazioni in Gran Bretagna, delrapido scioglimento di buona partedella calotta occidentale antartica…È un bollettino di guerra, di fronte alquale le ordinanze comunali sul bloc-co del traffico hanno l’efficacia di u-na pistola a tappi.

La nuova via capitalistica alla salvezza del mondo

Il riscaldamento globale incide diret-tamente sulla vita quotidiana, suscitainevitabili reazioni, sollecita “rispo-ste” adeguate dalla politica che è co-stretta a farsene carico (2). Da qui a ri-tenere che i governi siano nelle condi-zioni di mettere in atto provvedimen-ti capaci di porre sotto controllo l’au-mento della CO2 e delle temperatureglobali ce ne corre. Per allontanare o-gni dubbio, basta valutare la credibi-lità delle “soluzioni” presentate contale enfasi da attribuire al Cop21 lavalenza di una “svolta” epocale dopouna lunga serie di fallimenti.

Rispetto a Kyoto, è stata abbandona-ta la strada dell’imposizione di limitialle emissioni per ciascuno Stato eimboccata quella degli impegni vo-lontari. Nella fase preparatoria dellaCop21, circa 150 governi hanno pre-sentato piani di riduzione (Indc) daqui al 2030, che durante la conferen-za sono stati vagliati e discussi nelcorso di incontri tecnici (3). L’accor-do, firmato infine da tutti i parteci-panti, fissa l’obiettivo di restare “ben

al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livel-li pre-industriali”, con l’impegno a“portare avanti sforzi per limitarel’aumento di temperatura a 1,5 gra-di”. E’ opinione comune tra gli e-sperti che, se i piani venissero realiz-zati integralmente, si raggiungerebbeun incremento di temperatura globa-le tra i 2,7 e i 3,0 gradi centigradi, mail messaggio che si vuol far passare èche si sia imboccata una strada vir-tuosa che comporterà miglioramentiprogressivi. È previsto che i Paesi“puntino a raggiungere il picco delleemissioni di gas serra il più prestopossibile”, e proseguano con “rapideriduzioni dopo quel momento”, perarrivare a “un equilibrio tra le emis-sioni da attività umane e le rimozionidi gas serra nella seconda metà diquesto secolo”.

La tempistica dei provvedimenti èdefinita in termini molto generici,non è chiaro quale parametro stabili-sca il “picco delle emissioni” e si ri-manda alla seconda metà del secolola loro stabilizzazione, anche attra-verso non ben definite “rimozioni”(tecnologie di cattura e stoccaggiodegli inquinanti? riforestazione?).Gli impegni presi da ciascun Paesesaranno sottoposti a verifiche e rego-lari revisioni migliorative, a partiredal 2023. I cicli successivi sarannoquinquennali, mentre l’accordo en-trerà in vigore nel 2020, quando de-cadrà il Protocollo di Kyoto. I Paesifirmatari, infine, hanno assunto l’im-pegno comune ad attrezzarsi con si-stemi di prevenzione e intervento a-deguati per le emergenze che nonmancheranno di manifestarsi neglianni a venire.

Tutto qui, o quasi. Nel testo si precisache gli impegni non sono giuridica-mente vincolanti, né potrebbero es-serlo. L’adesione all’accordo e il suorispetto si affidano alla pura e sem-plice volontarietà, condizione senzala quale Cina, Russia e Paesi produt-tori di petrolio se ne sarebbero tenutifuori. Gli stessi Stati Uniti, che hannoraggiunto in precedenza un accordocon la Cina, si sono opposti alla defi-nizione di obblighi giuridici vinco-lanti. L’unico vincolo riguarderà leprocedure per la verifica dei risultatiraggiunti, entro “un sistema di tra-sparenza ampliato, con elementi diflessibilità che tengano conto dellediverse capacità”. Non ha invece trovato spazio nel te-sto “l’introduzione progressiva di unprezzo dell’anidride carbonica affin-ché le emissioni abbiano un costoche corrisponda ai danni procurati”

(Hollande, nel discorso di apertura).In passato, alcuni stati pagavano una“carbon tax” volontaria comprandoquote di emissioni da altri paesi perpoter continuare a produrre a pienoregime, senza dover adottare costosetecnologie anti-inquinamento. Unasanzione analoga stabilita in sedemultilaterale sarebbe di fatto inappli-cabile, mancando un organismomondiale dotato di effettivo potere.Se spesso le leggi vigenti non trova-no piena applicazione nemmeno en-tro gli stati sovrani, che credibilitàpuò avere una normativa internazio-nale il cui rispetto è lasciato alla buo-na volontà dei singoli governi? Il lorointeresse prioritario è e rimane il so-stegno alla produzione nazionale,senz’altro più concorrenziale se libe-ra da costosi oneri ambientali, inqualsiasi forma si presentino. Nelloscenario di guerre commerciali e va-lutarie, controversie al WTO, accordidi area che ratificano i privilegi di u-na potenza dominante, le normativesono fonte di continui contenziosi espesso si prestano ad essere usate co-me arma nella competizione interna-zionale, come dimostra la recente vi-cenda Volkswagen (4). Da questopunto di vista, Cop 21 ha dovuto ri-nunciare alla retorica sanzionatoria elimitarsi realisticamente a celebrareun accordo di facciata.

***Se le condizioni per raggiungere l’ac-cordo sono state all’insegna del reali-smo, il rispetto generale degli impe-gni di riduzione delle emissioni diCO2 di qui al 2030 è a ben vedereun’ipotesi piuttosto fantasiosa. Allafine, come prevedibile, la montagnaha partorito il topolino. Tanta enfasisui risultati si giustifica solo per il fat-to che è stato raggiunto un accordosu cui tutti i partecipanti hanno fattodelle promesse, hanno fornito dellecifre e preso impegni non vincolanti.Le cose non potevano andare diver-samente per la natura anarchica delcapitalismo, per l’asprezza dellacompetizione sui mercati mondiali el’impossibilità di regolare l’evoluzio-ne di un sistema sempre più fuoricontrollo.Se poi, alle prossime presidenziali a-mericane, prevalessero i repubblica-ni, del tutto alieni da fisime ambien-taliste, tutta la politica degli Stati U-niti in materia verrebbe ribaltata, fa-cendo mancare uno dei pilastri su cuisi regge la fragile struttura dell’accor-do. Un ulteriore notevole limite è l’e-sclusione dall’accordo delle emissio-ni di gas serra dovute all’agricoltura,ai trasporti aerei e marittimi, ai gasrefrigeranti HFC, che insieme rap-presentano un quarto delle emissionitotali di gas serra (5). Ma ammettendo pure che, nonostan-te queste premesse, tutti i paesi ri-spettino i limiti che si sono autoim-posti e che nel 2030 si raggiunganogli obiettivi di riduzione delle emis-sioni globali, la catastrofe climaticasarebbe scongiurata?

La “scienza” che cosa dice?

In un altro nostro testo del 1951, noidenunciavamo l’impotenza dellascienza borghese, anche nelle sue mi-gliori espressioni, di fronte alle folliedello sviluppo capitalistico e la suaincapacità di riconoscerne l’originenon nella coscienza degli individui,ma nello stesso modo di produzione:

La catastrofe si addice al capitale

(A proposito della conferenza di Parigi sui mutamenti climatici)

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1. P. Caraveo, “Nel 2016 peggiorerà”,Domenica de Il Sole-24ore, 15.11.2015.2. “Il governo cinese è preoccupato peril possibile impatto che quella che è u-na vera e propria crisi ambientale (dicui l’inquinamento atmosferico rappre-senta solo un aspetto) potrebbe averesulla ‘stabilità’, sul monopolio delpotere da parte del Partito comunista(PCC)” (“Visto da Pechino: sviluppo ecielo blu per 1,3 miliardi di persone?”,Chinaforum, 2 dicembre 2015).3. “La via obbligata dell’emissione ze-ro”, Il Sole-24 ore, 9.12.15.4. Cfr. “L’‘Affare Volkswagen’. Mar-mitte truccate? La vera truffa è il capita-lismo”, Il programma comunista, n.6/2015.5. Alessandro Vitelli, “La coperta cortadi COP21”, Cinaforum, 1 dicembre2015 (tratto da Chinadialogue).

IL PROGRAMMA COMUNISTA 5A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

“Il ‘premio Nobel’ Bertrand Russel,che pontifica in tono pacato sullastampa internazionale, denunzia chel’uomo sta troppo saccheggiando lerisorse naturali, e già se ne può cal-colare l’esaurimento. Riconosce chei grandi poteri fanno una politica as-surda e pazza, denunzia le aberrazio-ni dell’economia individualista, escherza sull’Irlandese che dice: per-ché devo pensare ai posteri? hannoessi mai fatto nulla per me? Il Russelpone tra le aberrazioni, insieme aquelle del mistico fatalismo, quelladel comunista affermante: togliamodi mezzo il capitalismo e la questionesi risolve. Dopo tanto sfoggio discienza fisica biologica e sociale, e-gli non riesce a vedere come un fattoaltrettanto fisico l’enorme grado didispersione di risorse sia naturaliche sociali, essenzialmente legato adun dato tipo di produzione, e pensache tutto si risolverebbe con un pre-dicozzo morale o un fabiano appelloalla saggezza degli uomini in alto ein basso. Il ripiegamento è pietoso:La scienza diviene impotente davan-ti ai problemi dell’anima!” (“Omici-dio dei morti”, cit.).

La scienza odierna, pur dotata di stru-menti di analisi e previsione ben piùefficaci di allora, rimane completa-mente impotente di fronte ai fenome-ni che studia e, schiava com’è del ca-pitale da cui trae finanziamenti e ono-ri, si limita ancora a fare “appello al-la saggezza degli uomini in alto e inbasso”. L’evidenza dei fenomeni hatolto ormai credibilità al supponentee servile scetticismo di una parte del-la scienza ufficiale di fronte all’allar-me climatico. Chiusa l’epoca del“negazionismo”, il servilismo degliscienziati si dispone ad avallare le so-luzioni annunciate dal potere politi-co: un piano globale di riduzione del-le emissioni, modelli di consumo piùmorigerati, ma soprattutto il ruolo de-terminante dei progressi tecnologici,con riferimento, per altro, a tecnolo-gie al momento non disponibili (6). Tuttavia, autorevoli settori della co-siddetta “comunità scientifica” nonritengono sufficienti questi provvedi-menti e considerano indispensabileper una stabilizzazione delle tempe-rature sotto i due gradi centigradi ladecarbonizzazione totale dei sistemienergetici e l’azzeramento delle e-missioni di gas serra entro il 2070. Ipiani di riduzione dei vari paesi daqui al 2030 promettono al massimo il30% in meno rispetto alle emissionidi CO2 del 2005, ma la questione de-cisiva – secondo questi ricercatori –riguarda le modalità da adottare. Se,ad esempio, le centrali a carbone fos-sero convertite a gas – la soluzionepiù semplice ed economica – o sipuntasse sul progresso nel rendimen-to dei motori a combustione interna,si otterrebbe una riduzione di emis-sioni pari al 50%, del tutto inadegua-ta a raggiungere l’obiettivo finale diazzeramento. Se poi si considera cheil numero delle auto circolanti nelmondo è destinata ad aumentare, o-gni miglioramento in questo camporisulterà compromesso. Questo grup-po di studiosi internazionali, promo-tori del Ddpp (Deep Decarboniza-tion Pathways Project), si è ripro-messo di dimostrare che “la decar-bonizzazione totale è fattibile dalpunto di vista tecnico ed economi-co”. Auspica dunque tutta una seriedi misure che vanno dall’efficienzaenergetica alla produzione (sistemiintelligenti information-based), allosfruttamento di energie rinnovabili, eil passaggio totale all’auto elettrica a-limentata da una rete a zero emissio-ni di anidride carbonica. Improroga-bile l’abbandono totale dei combusti-bili entro il 2070, per “scongiurareper sempre la catastrofe climaticache incomberebbe su di noi qualoranon lo facessimo”(7).

Non abbiamo elementi per valutarela fondatezza della previsione, ma sele cose stessero così, vi sarebbero benpoche speranze. Quanto alla fattibi-lità del Ddpp, ammesso che lo sia dalpunto di vista tecnico, dal punto di vi-sta economico deve fare i conti con laprofittabilità delle imprese, con laredditività degli investimenti neces-sari per una simile trasformazione,con l’inerzia del capitale nel conser-vare vecchi sistemi produttivi ed e-nergetici per consumare fino all’ulti-mo la loro capacità di sfruttare lavorovivente (8). Dietro l’apparente radi-calismo delle soluzioni, il progettonasconde una completa subalternitàalla logica del capitale, ne presuppo-ne la riformabilità, la disponibilità arinunciare a margini di profitto perpiegarsi alle esigenze umane, avallala conformistica fede sul ruolo salvi-fico della tecnologia. Il limite di que-sta visione sta nel proporre delle so-luzioni “tecniche” – oltretutto di pro-blematica applicazione generale – auna questione che è di ordine politi-co, economico e sociale e che ha unsolo nome: capitalismo. Lo stesso li-mite lo si riscontra nelle critiche digran parte dell’ambientalismo. L’ur-genza non è il passaggio dall’autodiesel all’auto elettrica, dalla centra-le a carbone a quella eolica-solare-geotermica, ma il passaggio a unaforma economico sociale superiore.Finché la realtà rimane improntata al-la dissipazione, allo spreco, allosfruttamento sconsiderato delle risor-se naturali e umane, appelli comequesti – destinati comunque a caderenel vuoto – sono altrettanti puntelliall’ideologia dominante.

Unanimità di facciata

Dietro l’enfasi nel proclamare un ac-cordo sottoscritto da tutti, dietro la re-torica di un mondo finalmente unitonella comune emergenza, si nascon-de la realtà di Paesi con strutture eco-nomiche assai diverse e con interessie obiettivi in conflitto, gli stessi all’o-rigine delle divisioni e delle defezio-ni maturate nei precedenti summit.Nel corso della conferenza di Parigi,la contrapposizione principale è stataancora una volta tra i paesi di vecchiocapitalismo a quelli di industrializza-zione recente. L’India è stata capofiladei critici alla riduzione di emissionia carico degli emergenti: “riducanoquelli che in passato hanno inquinatocome ossessi e che oggi fanno la par-te dei difensori dell’ambiente!”. Ilpremier indiano ha invocato il “dirit-to alla crescita” per quanti a lungo nesono stati esclusi e che ora l’hannoimboccata con qualche speranza di e-mulare, almeno in parte, il cosiddetto“benessere all’occidentale” (speran-za contraddetta dalla decelerazioneprogressiva dei tassi di crescitadell’economia mondiale di ciclo inciclo, fenomeno alla base della crisigenerale del sistema): “la comunitàinternazionale non può imporre la fi-ne delle fonti fossili”, ha detto, pen-sando in primo luogo al carbone, po-co costoso e di disponibilità abbon-dante in India. Come si può darglitorto? L’India è già il 4° inquinatoreal mondo, ma un cittadino indiano in-quina 10 volte meno di un americanoe 300 milioni di indiani vivono tutto-ra senza elettricità.Usa e Cina hanno sostenuto la lineache infine, come da previsioni, haprevalso: decidere autonomamentegli impegni relativi al calo di emis-sioni, senza vincoli, puntando su tec-nologia, efficienza energetica e inno-vazione. I due mostri sono i maggio-ri inquinatori mondiali: la Cina è al1° posto con il 30% delle emissioniglobali di CO2, seguiti dagli Stati U-niti con il 16 % (9). Intendono en-trambi inquinare di meno, ma non ri-nunciare alla “crescita”, cioè a pro-durre di più.Il punto di vista della UE – che perbocca dei suoi rappresentanti ama re-citare la parte di paladina mondiale

dell’ambiente – è che, per salvare ilpianeta, bisognerebbe “sollevare ilpiede dall’acceleratore dell’econo-mia”. Probabilmente le farebbe gio-co che lo facessero gli altri, i concor-renti, visto che come tassi di crescitaè già in coda, nonostante la Bce con-tinui a pigiare (eccome!) sul pedaledella liquidità, per altro senza grandirisultati.Che dire poi dei Paesi produttori dipetrolio, anch’essi firmatari di un ac-cordo che prefigura per i prossimi de-cenni una contrazione della loro prin-cipale fonte di reddito? L’ArabiaSaudita continua a mantenere un ele-vatissimo livello di produzione perconservare il suo primato sui mercatimondiali, anche a costo di spingere ilprezzo del barile al ribasso oltre ognilimite. Gli stessi Stati Uniti, del resto,storici alleati del reame di tagliatoridi teste, non hanno scrupolo nel so-stenere a casa propria la produzionedi shale oil, devastante per l’ambien-te, pur di ottenere l’indipendenza e-nergetica.Insomma, la questione climatica, af-frontata con una retorica da “salva-tori del mondo”, grattando la super-ficie si rivela uno dei tanti aspetti del-la competizione economica mondia-le, dove ciascun attore – emergenti,“emersi” e vecchi pescecani – cercadi portare acqua al proprio mulino.

Il clima e il PIL

Inquinare è stato finora certamentepiù conveniente del rispetto delle re-gole, tanto stringenti e punitive sullacarta quanto inapplicate, eluse, viola-te. Se la terra, l’aria e l’acqua ne sonouscite avvelenate ne ha tratto tuttaviagran beneficio il Pil. E’ una questionedi priorità capitalistica.Il messaggio che esce da Cop21 ècontenuto nel discorso inaugurale diObama: “abbiamo ormai dimostratoche non c’è più [?] conflitto tra cre-scita economica forte e protezionedell’ambiente [...] Dobbiamo cerca-re un accordo che rappresenti un se-gnale, che dia alle aziende e agli in-vestitori la certezza che l’economiamondiale ha imboccato la stradasenza ritorno verso un futuro a basseemissioni. È un passo essenziale perstimolare investimenti che combininoriduzione dei gas a effetto serra ecrescita economica” (Il Sole24Ore,1.12.2015). Qui si trova l’essenza della lettura ca-pitalistica della questione climatica,pienamente recepita dall’accordo.L’articolo 9, senz’altro il più signifi-cativo in tal senso, assegna ai Paesisviluppati il compito di “fornirerisorse finanziarie” a quelli in via disviluppo, “in continuazione dei loroobblighi attuali”, di stabilire “una

roadmap concreta per raggiungerel’obiettivo di fornire insieme 100 mi-liardi di dollari l’anno da qui al2020”, con l’impegno ad aumentare“in modo significativo i fondi per l’a-dattamento”. Si tratta in sostanza diinvestimenti e prestiti per l’acquistodi tecnologie per il risparmio energe-tico in possesso dei paesi avanzati.Più che rispondere all’urgenza di in-tervenire drasticamente sulle emis-sioni per contenere l’aumento delletemperature, l’accordo individua u-na strada per uscire dalla palude del-la stagnazione produttiva mondiale:impiegare una parte consistente dellamassa di capitale finanziario attual-mente inutilizzato, per investimentiin nuove infrastrutture di produzioneenergetica e per l’acquisto di tecno-logie produttive e anti-inquinamen-to. Si stima che le banche abbiano at-tualmente in gestione circa 100 tri-

lioni di dollari di “risparmio”, e chegli investimenti necessari a questosorta di welfare mondiale pro-am-biente ammonterebbero a circa 6 tri-lioni l’anno da qui al 2030, il doppiodi quanto si investe oggi in infra-strutture. Voilà, il gioco è fatto! Eccotrovato il modo per conciliare l’in-conciliabile: crescita produttiva e ri-duzione delle emissioni di gas serra.“Il meccanismo di trasmissione chelega ambiente e crescita sta nellamassa di investimenti infrastruttura-li necessari ad assicurare la transi-zione dell’economia mondiale versoun modello sostenibile a bassa inten-sità di carbonio. Nel contempo que-sto ingente piano di ammoderna-mento infrastrutturale rappresentaun’opportunità unica per legarlo aun’agenda di riforme strutturali vol-ta a innalzare la produttività ed e-spandere l’offerta aggregata a livel-lo mondiale” (10).Va da sé che questa geniale soluzioneavvantaggerebbe anzitutto i capitali-smi sviluppati e la stessa Cina, che trale tante sovrapproduzioni annoveraanche quella di pannelli solari (11).Un affare per le banche finanziatrici,una boccata d’ossigeno per i sistemiindustriali in affanno! Se poi tuttoquesto comporterà qualche beneficioal clima del pianeta sarà una conse-guenza indotta, com’è proprio delmodo di produzione capitalistico ilcui scopo non è la soddisfazione deibisogni umani, ma la produzionestessa, “l’offerta aggregata”.La soluzione trova il consenso deiPVS (paesi in via di sviluppo), sem-pre dipendenti dai flussi di capitaliprovenienti dai centri finanziari mon-diali. Il governo indiano, pur restio arinunciare al carbone, si è impegnatoa portare al 40%, da qui al 2030, lacapacità installata da fonti di energianon fossile, a patto che arrivino i ca-pitali promessi a Copenhagen (100miliardi) per permettere ai paesi po-veri di accedere alle tecnologie diproduzione rinnovabile (12).

Continua da pagina 4

6. Il portavoce dell’ Ipcc (Intergovern-mental panel on climate change), organ-ismo patrocinato dall’ONU che si occu-pa degli sviluppi climatici, ha dichiarato:“molti modelli climatici indicano chesarà difficile limitare l’aumento dellatemperatura globale a 2°C senza tec-nologie aggiuntive, quali le bioenergie ela cattura della CO2 o la loro combi-nazione” [E. Comelli, “Lee (Ipcc):negazionisti? Finiti i tempi del rifiuto”, IlSole-24ore, 10.11.2015].7. AAVV, “La via obbligata delle emis-sioni zero”, IlSole-24Ore, 9.12.2015. 8. Pechino prevede di raggiungere ilpicco di emissioni nel 2030 e dichiaral’intenzione di implementare unatrasformazione radicale del proprio ap-parato produttivo ed energetico in di-rezione del risparmio e del rispettodell’ambiente. Ma “ un rapporto diGreenpeace Asia e della North ChinaElectric Power University del 18 no-vembre scorso [rivela] che Pechino –nonostante il gigantesco eccesso di ca-pacità produttiva, conseguenza del ral-lentamento economico – continuerà aiper-investire nel carbone, soprattuttonelle province centrali e occidentali. Ilgoverno cinese preferisce evidenziare i

suoi investimenti (ingenti) nel settoredelle energie rinnovabili” (M. Cocco,“Via al summit di Parigi. Contro il gasserra servono soldi e leadership”,Cinaforum, 30.11.2015)9. “J. Giliberto, Tre approcci politici di-versi e l’incognita del negoziato”, IlSole24-Ore, 1.12.15.10. D. Lombardi, “Cina e Usa ora de-vono fare sul serio”, Il Sole24Ore,9.12.2015. Sulla stessa lunghezza d’on-da, J.E. Stigliz invoca un piano mondi-ale di investimenti: “L’unica cura è am-pliare la domanda aggregata”, IlSole24-Ore, 3.01.2015.11. “Si sono messi in moto fattori posi-tivi, sia tecnologici, sia economici. Ipannelli solari economici fabbricati inCina hanno dato vita a un mercatodelle energie rinnovabili in rapida es-pansione. Lo stesso potrà verificarsicon altre nuove tecnologie energetiche.La Cina è in una buona posizione perinfluenzare i trend dei mercati globalidi questi prodotti e guidare il finanzia-mento di investimenti infrastrutturali inaltri paesi” (“Clima, il paradigma diPechino tra lotta allo smog e riforme dimercato”, tratto da Eastasiaforum).12. Il Sole-24Ore, 1.12.15. Continua a pagina 6

BUON ANNO, CAPITALE!Il Brasile, che doveva essere l’alfiere dei Brics (l’alleanza con la Ci-na, India, Russia e Sud Africa), già pronto a trionfare, ora è prontoad esplodere. Il 2016 inizia sotto il segno allegro delle Olimpiadiche dispensa medaglie d’oro ai primi arrivati, ma per il Brasile il2016 è un anno nero che dispensa medaglie di carbone: e la piùnera va proprio al Brasile, seguito dall’Argentina e via via da tuttiquei paesi legati all’economia carioca… E, perché no?, anche dalresto del mondo?Anche per la Cina il 2016 si apre con grossi problemi economiciche rasentano l’assurdo: deve smaltire tutta la produzione “natali-zia”… Ma procediamo con calma. Europa e Usa hanno delocaliz-zato in Cina il Natale: abeti di plastica, palline colorate, ogni tipo diaddobbo, giocattoli e persino le statuette del presepe. Ora, con lacrisi dei consumi, nei paesi occidentali anche le spese per il “Nata-le” sono ridotte all’osso: con la conseguenza che la Cina si trova imagazzini strapieni di merce invenduta.Che fare? Ecco la geniale pensata del Partito cinese: “Se l’occiden-te non compra, riciclare, tutto, in patria”. Ed ecco che le città cinesisi trasformano in mercatini natalizi, sullo “stile” dei paesi nordici(senza, per il momento, vin brulé e salsicce). Fin qui la cosa può sembrare “normale”: è una manovra economi-ca. Ma la cosa comica è che in Cina non esiste il culto del Natale:solo una piccola minoranza di cattolici è presente nel vasto territo-rio del Sol Levante…Intanto, la Cina si sta armando di tecnologia militare e questo vuoldire, per il momento, meno soldati. Così, l’Esercito Popolare subi-sce una ristrutturazione: il primo ministro Xi Jinping ha annuncia-to che, entro il 2017, l’organico militare sarà ridotto del 13%, da 2,3milioni a 2 milioni – un taglio di 300mila unità in due anni. Ora, ladomanda d’obbligo è: “E che fine faranno tutti questi fanti messi inlibertà?”. Niente paura: il “papà” Partito ha decretato che le azien-de statali riservino il 5% dei posti ai militari disoccupati. Ma si trat-ta di aziende già in sofferenza, per di più inserite in un tessuto pro-duttivo ormai sconvolto da una crisi strutturale, e il nuovo scosso-ne all’ economia cinese di inizio gennaio, dopo quello dell’agosto2015 scorso, ne è la riprova: il 2016 si annuncia tempestoso. E nonsolo per la Cina, ma anche per tutti quei paesi che sono attaccati alcarro economico del Dragone.Buon anno, Capitale: s’avvicina il momento della resa dei conti…

IL PROGRAMMA COMUNISTA6 A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

Alla fine, tutto il gran baraccone delCop21 ha espresso il tentativo di ri-lanciare l’accumulazione aumen-tando la produttività del lavoro:mettere in movimento una massacrescente di lavoro vivo, risparmiarelavoro umano per accrescere il tassodel plusvalore (pv/v), risparmiare e-nergia e componenti produttive, ri-durre gli sprechi e gli scarti per con-trastare la caduta del saggio del pro-fitto [p/(c+v)]. Ma la tendenza allacaduta non può essere invertita; sela produzione deve aumentare, deveaumentare la massa di materie primeutilizzate e i risparmi nei consumi e-nergetici non comportano necessa-riamente un loro calo assoluto. Dipiù, l’applicazione di tecnologie in-novative (labor-saving) spinge ulte-riormente la tendenza al calo delsaggio del profitto, e quelle per ilcontenimento delle emissioni si ag-giungono ai costi complessivi.Se questo piano ambizioso fosse at-tuato, forse permetterebbe al capita-le di riprendere per qualche tempoun tasso di crescita superiore a quel-lo sempre più stentato degli anni po-st-crisi. Forse, perché il ristagno de-gli investimenti ha le sue ragionistrutturali nell’ormai troppo bassaredditività del capitale produttivo,che non può essere facilmente supe-rata da un piano di interventismoplanetario; forse, perché le difficoltàdell’accumulazione hanno rottovecchi equilibri e aperto una fase diinstabilità crescente, di competizio-ne sempre più aspra sui mercatimondiali, di fronte alla quale tutti gliaccordi – a maggior ragione quellosul clima, dalla valenza principal-mente propagandistica – possono daun momento all’altro diventare cartastraccia. Ma anche se il piano riu-scisse e si rivelasse efficace nelloscopo di rilanciare la produzione,l’aumento della produttività mediamondiale rafforzerebbe la tendenzaalla caduta del saggio del profitto,premessa per l’esplosione di crisiancora più devastanti.

Rivoluzione o rovina di tutte le classi

Dunque, alla Cop21 sul clima si èparlato soprattutto di economia, enon poteva essere altrimenti. La lottaal riscaldamento terrestre, ha detto O-bama, “è ormai un imperativo econo-mico e di sicurezza che non possiamopiù rinviare, perché se la temperatu-ra dovesse continuare a salire al rit-mo attuale dovremmo destinare sem-pre più risorse finanziarie e militariper adattarci alle conseguenze” (13). Gli fa eco Hollande, che auspica ilpassaggio a un modello di sviluppobasato sulla cooperazione, “dovesarà più redditizio proteggere che di-struggere”. La follia del capitale ètutta contenuta nell’approccio deisuoi grandi maggiordomi al proble-ma dei mutamenti climatici: il mon-do va salvato solo se farlo è redditi-zio, altrimenti può essere messo tra icosti improduttivi e lasciato al suodestino. La logica è economica ed e-mergenziale, come sempre. I proble-mi legati a conflitti sociali e intersta-tali che potrebbero scaturire dalla de-sertificazione, dalle carestie, dallascarsità di acqua, dalle inondazioni,dalle conseguenti migrazioni di mas-sa, sono considerati in quanto costi oin quanto occasioni di profitto. Il pro-blema non è la sopravvivenza dellaspecie, ma sono le spese dovute agliinterventi in occasione di catastrofiambientali, alle missioni “umanita-rie”, agli “aiuti” alle popolazioni indifficoltà, a meno che non si traduca-no in impiego redditizio di capitali.

Al centro di ogni ragionamento, ri-mane sempre la redditività dell’intra-presa economica: in una parola, ilprofitto. Da Parigi ci giunge la favo-letta che difesa dell’ambiente e inte-resse del capitale possono andare abraccetto, veritiera quanto quelladella comunanza di interessi tra pa-drone e operaio, finché si omette ildettaglio che ciò che lega quest’ulti-mo non è una libera scelta, ma unacatena che si spezzerà solo con l’ab-battimento del capitalismo. Lo stessovale per le (residue) possibilità di sal-vare l’umanità dalla catastrofe am-

bientale: l’alternativa è tra comuni-smo e progressiva e irreversibile de-vastazione.

Sono prediche da irriducibili cata-strofisti? Se il capitalismo – la storiainsegna – non fosse invariante, nonrispondesse alle stesse inesorabilileggi in ciascuna delle sue fasi di svi-luppo, dalla predatoria “accumula-zione originaria” ai disastri dell’at-tuale fase declinante, sarebbe legitti-mo affidarsi alla speranza. Ma la sualegge fondamentale è l’accumulazio-ne, il profitto. Per riuscire nel suoscopo, muove il cielo e la terra, ap-pronta grandiosi apparati produttivi epolitico-militari con cui impone lasua logica all’umanità intera, anchedi fronte all’evidenza sempre piùlampante che i destini della specieormai da tempo sono inconciliabilicon gli interessi del capitale. L’uomodeve piegarsi a essere strumentodell’accumulazione, quale che sia ilprezzo da pagare; l’oppressione vie-ne presentata come il naturale ed ine-vitabile “prezzo del progresso”, penail ritorno alla scarsità.

Deindustrializzare, aumentarei costi di produzione

La bassa ideologia che identifica ilprogresso, sinonimo di positiva evo-luzione, di crescente “benessere”,con lo sviluppo capitalistico presup-pone l’assenza di ogni alternativa chenon comporti un rinculo della societàumana verso forme più arretrate. Sulgiornale della Confindustria leggia-mo che “per ridurre le emissioni cisono solo due modi: il primo è il piùfacile e immediato: spegnere centra-li elettriche, motori e riscaldamenti.Cioè spegnere l’economia e il benes-sere. L’altro modo per ridurre le e-missioni, più lento e meno sicuro ne-gli effetti, è cambiare la tecnologia,per produrre come prima ma usandomeno risorse” (Cfr. nota 9).

Non si capisce cosa ci sarebbe di “fa-cile e immediato” nello spegnere tut-to, ma è evidente l’intento polemicocontro le varie teorizzazioni sulla“decrescita”, sul “ritorno alla natura”e simili. La soluzione è ancora unavolta demandata allo stesso “progres-so” che ha provocato il dissesto am-bientale: sarà la stessa tecnologia,portato caratteristico dello sviluppocapitalistico, in continuo mutamentoe innovazione a trovare (forse) la so-luzione. “Continuare a produrre co-me prima, non c’è altra strada”, è ilmessaggio. In realtà, il capitale nonpuò permettersi di produrre “comeprima”. Tutti i suoi apparati, politici,economici, legislativi, sono mobilita-ti da anni per attivare una crescita chestenta a ripartire. Crescita, non con-servazione del livello del Pil o, peg-gio, una sua riduzione.

L’innovazione tecnologica può per-mettere di risparmiare sulle risorse,di ridurre i consumi energetici, di ra-zionalizzare produzione e distribu-zione in tutti i passaggi, ma si dovràcomunque produrre “di più” perché ilmondo non cada in una nuova reces-sione, il peggiore dei mali che si pos-sano patire in regime capitalistico.Produrre “di più” vuol dire consuma-re risorse aggiuntive, anche se a ritmidi incremento decrescenti.

I teorici della “decrescita” colgono lanecessità del cambiamento, ma lopongono in termini astratti e antisto-rici. Ragionano come se l’umanitànon fosse divisa in classi tra loro o-biettivamente antagoniste negli inte-ressi e nei fini, come se ogni esitonon dipendesse dalla lotta che per-corre sempre la società capitalisticapiù o meno sotterraneamente, e chein taluni svolti storici riemerge allasuperficie in scontro aperto. Temen-do che l’alternativa sia la guerra o,peggio, la rivoluzione, per salvarsicome classe si fanno promotoridell’ennesima “terza via” destinata anaufragare nella palude delle politi-che “alternative” e delle mode pas-seggere. Essi proiettano nel futuro larealtà presente della società capitali-stica, dove la decrescita è già in atto,nella forma della decrescenza dei rit-mi di incremento della produzione invirtù di una legge obiettiva del suosviluppo, non certo per scelta volon-taria delle stesse forze che ammini-strano lo sviluppo capitalistico. Nien-te a che vedere con la decrescita delprodotto in termini assoluti, eventua-lità che la borghesia può concepiresolo come conseguenza di una cata-strofe gravida di energie per il ringio-vanimento e la ripresa del sistema.Profeti come questi rappresentano u-na frazione della borghesia rassegna-ta al declino inesorabile della propriaclasse e del proprio modo di produ-zione. Non può una classe controri-voluzionaria, responsabile dello sfa-celo in cui si dibatte l’umanità, ambi-re a guidare la trasformazione salvifi-ca di cui il mondo ha bisogno. Questoruolo spetta al proletariato rivoluzio-nario, che nel suo programma imme-diato, successivo alla presa del pote-re, ha chiaramente delineati i compi-ti da svolgere. Tra questi, il “‘disin-vestimento di capitali’, ossia la desti-nazione di una parte assai minore delprodotto a beni strumentali e non diconsumo”, un piano di “‘sottoprodu-zione’ che la concentri sui campi piùnecessari”, il “‘controllo autoritariodei consumi’ combattendo la modapubblicitaria di quelli inutili, danno-si e voluttuari”, e poi “arresto dellecostruzioni”, “riduzione dell’ingor-go velocità e volume del traffico vie-tando quello inutile” (“Il programmarivoluzionario immediato. Riunionedi Forlì, 28 dicembre 1952”) (14). Ilnostro Partito definì questi compiti inun’epoca in cui si annunciava ilboom economico, lo sviluppo deiconsumi di massa, e trionfava la reto-rica del progresso e del benessere ca-pitalistici, quando il “controllo auto-ritario dei consumi” poteva far stor-cere il naso anche al proletario che ri-sparmiava per acquistare una 500.Ma era il suo Partito a parlare, in con-tinuità con la teoria e l’esperienza didue secoli di lotta proletaria, annun-ciando con largo anticipo gli sviluppidell’infernale crescita che si prospet-tava. Oggi, a distanza di oltre sessant’anni,quei compiti sono più attuali che mai.Ridurre drasticamente la produzione,concentrarla sui beni necessari peraccrescerne la disponibilità, aumen-tare i costi di produzione per miglio-rarne la qualità e per aumentare le pa-ghe finché vi sarà salario e moneta(entrambi destinati al macero dellastoria). Altro che “decrescenza”! So-lo una rivoluzione autoritaria può

consentire provvedimenti tanto dra-stici e radicali quanto necessari allasopravvivenza della specie.Oltre mezzo secolo fa, il nostro Parti-to diede per virtualmente avvenuta lamorte del capitalismo, un “cadavereche ancora cammina”, appestandol’aria, avvelenando il suolo, rovinan-do l’esistenza dei viventi. Oggi, sia-mo arrivati al punto che, per mante-nere una parvenza di vita, lo zombieè costretto ad assumere dosi massic-ce di denaro iniettato dalle banchecentrali: ma è sangue sintetico chenon può restituirgli la vigoria perdu-ta. I fumi tossici delle fabbriche a pie-no regime sono per lui ben più rivita-lizzanti: l’avvelenamento dell’aria,dei fiumi, della terra e degli stessi uo-mini è frutto del suo sviluppo, il con-sumo sconsiderato delle risorse pla-netarie ne è un presupposto irrinun-ciabile. Regolarlo equivale a negarela sua stessa natura del capitalismo,di mostro vorace che tutto divora.

Il capitale non vede oltre il breve pe-riodo, e non ha altro obiettivo se nonla propria conservazione. Il famosodetto di Keynes (“nel lungo periodosiamo tutti morti”) riassume la logicamiope e insieme folle di un sistema e-conomico e sociale giunto al capoli-nea. Eppure, il capitale ama presen-tarsi con i tratti dell’eternità, proiettale proprie categorie fin nel passatoprimordiale e si considera il puntoculminante e insuperabile della storiaumana. Il timore è che la sua pretesaeternità porti l’umanità asservita aconsiderare alla stregua di una con-seguenza naturale il fatto che alla fi-ne del capitalismo corrisponda la fi-ne della vicenda umana, la “rovinadi tutte le classi in lotta” di cui parlaMarx. Ciò rende la rivoluzione prole-taria più di una possibilità storica: larende un’urgente necessità.

A proposito dell’incapacità dell’o-dierno modo di produzione di risol-vere in modo stabile e duraturo il pro-blema della salvaguardia degli esseriviventi dalle calamità naturali e stori-che, di elaborare un piano di specie dilungo periodo che prescinda dalle e-sigenze dell’accumulazione a brevetermine, ci sembra quanto mai chiari-ficatrice quest’altra splendida cita-zione dal nostro già citato “Omicidiodei morti”:

“Un tale problema è insuperabile incampo capitalistico. Se si trattassedel piano di fare in un anno le armiper dare ad Eisenhower le sue centodivisioni, la soluzione si trova. Sonotutte operazioni a ciclo breve ed il ca-pitalismo va a nozze se la commessadi diecimila cannoni ha il termine dicento giorni e non di mille. Non pernulla c’è il pool dell’acciaio! Ma ilpool dell’organizzazione idrogeolo-gica e sismologica non si può fare, ameno che l’alta scienza del tempoborghese non riesca davvero a pro-vocare in serie, come i bombarda-menti, anche le alluvioni e i terremo-ti. Qui si tratta di lenta e non accele-rabile trasmissione secolare, di ge-nerazione in generazione, di risultatidi ‘lavoro morto’ ma tutelatore dei vi-venti, della loro vita e del loro minoresacrificio”.Ci sono arrivati, infine: il gigantismoproduttivo e tecnologico del capitalesi è dimostrato in grado di “provoca-re in serie” le catastrofi, così da ga-rantirsi stabilmente emergenze su cuilucrare. Cop21 ha partorito il suo im-probabile pool di salvatori del mon-do, per gestire le infinite emergenze,rinnovare il lavoro morto e garantireil sacrificio permanente delle schiereproletarie.

13. M. Moussanet, “Obama: fissiamo ilprezzo dell’anidride carbonica”, IlSole24ore, 2.12.2015.14. In Per l’organica sistemazione deiprincipi comunisti, Edizioni Il Pro-gramma comunista, 1973, p.30.

La catastrofe...

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Sedi di partito e punti di contatto

BENEvENTO: c/o Centro sociale Asilo Lap31, via Bari 1(primo venerdì del mese, dalle ore 19)

BOLOGNA: momentaneamente sospeso

MESSINA: Punto di contatto in Piazza Cairoli (l’ultimo sabato del mese, dalle 16,30 alle 18,30)

MILANO: via dei Cinquecento n. 25 (citofono Istituto Programma), (lunedì dalle 21) (zona Piazzale Corvetto: Metro 3, Bus 77 e 95)

ROMA: via dei Campani, 73 - c/o “Anomalia” (primo martedì del mese, dalle 17,30)

TORINO: Circolo Arci CAP - C.so Palestro 3/3bis (sabato 26 febbraio, sabato 19 marzo)

Un’importante ripubblicazioneÈ uscito il n. 8 dei “Quaderni del Partito comunista

internazionale”, intitolato

La crisi del 1926 nell’Internazionalecomunista e nel partito russo

Si tratta dell’importante ripubblicazione di un nostro testo, uscito originariamente nel 1980 e ormai introvabile.Riproduciamo di seguito il sommario:

•Prologo•Lettera di Amadeo Bordiga a Karl Korsch•La Sinistra comunista italiana di fronte al dibattito nel Partito russo

•“Chi vincerà?”•La chiave di volta del problema•Una volta di più, la prua verso Lenin•La prima crisi interna del Partito russo: 1923•Le condizioni di un vero “corso nuovo”•Preludio a Corso Nuovo•Le questioni di politica economica•Dalla crisi del 1923-1924 a quella del 1925-1926•L’Opposizione della fine del 1925•La polemica Preobragensky-Bucharin•Preobragensky e il destino dei suoi schemi astratti•Trotsky e le avvisaglie della nuova crisi•Bucharin e la “via del mercato”•Conclusione

Il volumetto, di p.128, è in vendita a euro 10. Lo si può ordinare scri-vendo a: Istituto Programma Comunista - Casella postale 962 - 20101

IL PROGRAMMA COMUNISTA 7A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

Nel nostro pluridecennale lavo-ro di restauro dell’organo ri-voluzionario di classe, abbia-

mo messo in evidenza come gli or-gani direttivi non abbiano alcuna “li-bertà” nell’elaborare le norme tatti-che. Questa funzione, come quelleteoriche e generali, deve al contra-rio essere patrimonio comune ditutta l’organizzazione: attraversolavori specifici, le sezioni e i militan-ti sviluppano ed elaborano insiemele norme tattiche. Questo è possibilee necessario non solo per il caratte-re volontario di adesione al partito,ma anche perché centro del partito,sezioni e militanti si formano e sele-zionano nella elaborazione di uncorpo dottrinario omogeneo: unicometodo per prevenire e annullare“difformità” teoriche e programma-tiche. L’organo centrale non deve“mediare” tra altri organi o gruppieterogenei, non si erge ad arbitrotra loro, al di sopra delle parti, avo-cando a sé poteri “pieni” o “speciali”.Questa fu la prassi organizzativa vi-gente al tempo dei primi congressidella Terza Internazionale a causadelle differenti espressioni dei varipartiti e gruppi che concorsero allasua formazione, compresa quellacaratteristica dell’organizzazionebolscevica scaturita dal secondocongresso socialdemocratico russodel 1903, quando si dovevano “te-nere uniti” comitati, circoli, gruppidiversi in una situazione di regimefeudale e poliziesco, nel corso di una“doppia rivoluzione”.In una situazione di formazione teo-rica più omogenea, anche se certa-mente non “perfetta”, come quelladella costituzione del nostro partitonel 1952, nel quadro di una perdu-rante, profonda e generale depres-sione controrivoluzionaria, maturòla consapevolezza di dare corso a unprocesso di formazione e sviluppoimprontato alla critica rivoluziona-ria sviluppata proprio nell’organointernazionale fin dalla metà deglianni ‘20 del ‘900.L’organo centrale porta avanti il la-voro raccogliendo e sintetizzando ilcontributo di tutta l’organizzazioneed elabora direttive univoche vinco-lanti non solo per la base ma anche,e soprattutto, per lo stesso centro.Proprio per lo stretto rapporto cen-tro-sezioni, le direttive non sono“ordini” nel senso banale del termi-ne: calati dall’alto, burocratici, da ca-serma. Erano e sono direttive che,ovviamente, sezioni e militanti nonmettono in pratica con uguale pesoe apporto, ma secondo le proprie ca-pacità, attitudini, circostanze opera-tive. Non sono “giuste” o “vere” inassoluto, ma quelle che la colletti-vità-partito ha potuto, saputo, dovu-to esprimere in situazioni specifi-che. Non devono “trovare tutti d’ac-cordo” alla stessa maniera, ma esse-re quelle con cui il partito deve agiree battersi verso l’esterno.L’organo centrale non può svolgerepienamente la propria funzione didirezione se non è espressione esupporto degli altri organi vitali efunzionanti.L’efficienza del partito non si misuracon le funzioni e compiti del solocentro, ma si misura sulla base delsuo funzionamento complessivo. La centralizzazione è funzionale e o-perativa (centralismo organico) inun partito con organi efficienti e vi-tali, e non certo in un partito con uncentro che pretende poteri speciali.Ordinariamente, invece, come effet-to del modo di essere delle organiz-zazioni borghesi o di quelle falsa-mente operaie, si tende spesso a

credere che un organo centrale fun-zioni meglio se è “libero” da strettivincoli di lavoro, da frequenti incon-tri collettivi, da chiarimenti e ap-profondimenti. Questa perniciosainfluenza, alimentata da un’attività“di routine” o da una prassi “sponta-nea”, può spostare il buon funziona-mento del partito verso quello tipi-co delle organizzazioni borghesi,con il progressivo distacco tra uncentro che si arroga mansioni supe-riori e una base che, priva di vere re-sponsabilità di lavoro, si abitua a es-sere governata, possibilmente con irituali tipici di una “sana democra-zia interna”. Le energie del partitoche non trovano spazio in un verolavoro politico collettivo si concen-trano allora in ambiti locali, deter-minando una schizofrenia tra il la-voro del centro e quello delle sezio-ni, un vero e proprio brodo di coltu-ra per “tendenze” e “correnti”.A niente servirebbe sviluppare ed e-laborare compiti politici giusti e cor-retti, se poi non risultassero assimi-lati, digeriti e concordati dall’insie-me del partito. Anzi, sarebbero sologrossolane caricature, né giuste nécorrette.Nell’italica provincia, ne abbiamoun esempio incredibile non tantonei residuali gruppi nazionalsociali-sti (dai partiti, gruppi e tendenze“quartinternazionalisti” ai “rico-struttori” marxisti -leninisti del ne-fasto “Partito di Gramsci-Togliatti-Secchia-Ingrao-Longo-Berlinguer”)quanto in quella macchina per ven-dere giornali che si autodefinisceLotta Comunista.La volontarietà e la centralizzazionedel lavoro collettivo di partito assu-mono aspetti di anticipazione dellaorganizzazione sociale che emer-gerà al tramonto dello stato delladittatura del proletariato: quandocioè l’attività umana potrà esserevolontaria e razionale per tutto ilcorpo sociale della nostra specie,sottratto infine alla secolare appro-priazione da parte di alcuni gruppiumani (classi), contro e a danno dialtri. Attività umana centralizzata,dunque, non più come espressionedella lotta economica tra classi so-ciali, della concorrenza, delle esi-genze del mercato e così via, ma co-me espressione di un razionale e or-ganico disporsi delle varie capacitàe attitudini degli esseri umani sulvasto, infinito campo delle reali,possibili attività. Queste finalmentenon saranno più parcellizzate, auto-nome, locali: nessun individuo odorgano avrà più motivo di isolarsi,né tantomeno di appropriarsi o di e-spropriare, come se fosse ancora ti-tolare di qualcosa. La centralizzazio-ne non avrà più alcuna connotazio-ne politica, ma solo tecnica e ammi-nistrativa: non sarà rivolta controaltri gruppi umani o classi sociali,ma opererà solo per capire le leggidella natura, quelle che oggi sem-brano ancora insidie.Nel partito, oltre alla volontarietà erazionalità, la centralizzazione è esarà sempre più espressione di undisporsi organico delle varie attitu-dini, capacità e perfino difetti deicompagni militanti. Deve comunqueobbedire soprattutto al suo caratte-re di organizzazione di lotta e dire-zione della classe proletaria. Ha biso-gno della disciplina, caratteristica diogni storica lotta e di ogni scontropolitico e militare. Stabilito un indi-rizzo unitario attraverso il lavoropolitico collettivo, lo si deve tradur-re in lotta e battaglia pratica controil nemico di classe: impossibile sen-za la disciplina di ognuno verso le

decisioni prese unitariamente, lasottomissione della parte al tutto, ilsuperamento dialettico delle diffe-renti opinioni nelle decisioni vinco-lanti per tutti.Se e quando le differenze di opinioniinsorgono, vanno affrontate con unrigoroso lavoro politico collettivo,perfino con una battaglia che assicu-ri una corretta politica rivoluziona-ria e l’unità organizzativa necessa-ria. Ma se le differenze risultano in-sanabili, vuol dire che il nemico diclasse sta aggredendo il partito: al-lora, rottura e riorganizzazione ri-sultano doverose e necessarie.All’interno del partito, sarebbe inu-tile e impossibile “impedire” a sezio-ni e compagni di mettere in discus-sione le decisioni prese; critiche, os-servazioni, rilievi, vanno anzi sem-pre sollecitate e avanzate aperta-mente, passate al vaglio nel lavorodi partito per migliorarle, renderlemeglio operative: se rispondono aproblemi veri, possono e devonocontribuire a chiarire e definire me-glio i compiti stabiliti o a migliorarele decisioni operative.Il nostro metodo di lavoro, la solu-zione delle questioni tattiche sullabase della conoscenza delle situa-zioni come funzione e compito ditutto il partito nel suo insieme dicentro, sezioni, compagni, non è ov-viamente di per sé una garanzia as-soluta. Il lavoro scientifico di analisidei fatti, di una migliore “interpreta-zione” del mondo, è certo una fun-zione caratteristica del partito sup-portato dal metodo storico e dialet-tico. Ma come abbiamo spesso sot-tolineato sulla base della esperienzaraccolta nei nostri testi, il nostrometodo materialista considera l’esi-genza di interpretare il mondo infunzione dell’agire secondo unaprassi organizzativa precisa. La mi-gliore valutazione dei fatti, l’inqua-dramento teorico e l’organizzazio-ne, per le quali ci battiamo strenua-mente, non sono fini a sé, ma funzio-nali e strumentali rispetto all’agireper cambiare il mondo.Potrebbe ancora verificarsi in futu-ro quello che si verificò perfino peril partito bolscevico: che cioè, neigrandi svolti della storia, nonostan-te l’enorme lavoro di analisi e previ-sione e buona prassi organizzativasvolto in precedenza, nei confrontidelle esigenze reali, effettive, dellarivoluzione, il partito non riesca a o-rientarsi o perda la bussola. Signifi-ca allora che tutto il lavoro fatto inprecedenza sarebbe stato inutile, in-servibile? Che alla fine occorre sem-pre aspettare l’intervento decisivodelle masse operaie “che indichi lastrada” o del “grande uomo” risolu-tore? Certamente no! Significa soloche quel lavoro non era stato porta-to avanti nel modo corretto.Il “che fare?” sul piano politico puòallora essere meglio espresso daun’iniziativa delle masse proletarie,che in quel momento riorienta, ri-sveglia il partito, meglio delle sue“soluzioni politiche”! O potrà essereespresso, all’interno del partito, nondalla linea ufficiale, venuta fuori dal-lo stesso lavoro collettivo, ma dallecritiche di un qualsiasi militante oorgano, al centro come alla base,che, in quel momento, riescono ad e-sprimere meglio le esigenze realioggettive rivoluzionarie.Ricordiamo il lavoro che Lenin potèsvolgere e concludere con successo,perché espressione di un partito(coscienza e volontà) che aveva giàindicato per lunghi anni e con gran-de rigore teorico politico e organiz-zativo il senso e la direzione per cui

agire nella rivoluzione russa.Due citazioni (fra le tante che si po-trebbero fare) dal nostro testoStruttura economica e sociale dellaRussia d’oggi aiutano a meglio com-prendere questi concetti basilari. “Ilpartito nella sua vita interna, unavolta storicamente ricondotto alladottrina d’origine, risanato nell’or-ganizzazione con l’eliminazione de-gli strati corrotti, rinsaldato nell’a-zione con decisioni tattiche dal re-spiro mondiale e rivoluzionario, eper ciò stesso assicurata la sua dina-mica centralista, è in un certo sensouna anticipazione della società co-munista in cui il dilemma tra decisio-ne del centro e decisione della baseperderà di senso e non si porrà più.Ma esso vive ed opera nella societàdi classe e subisce le determinazionie le reazioni dei suoi urti contro il ne-mico di classe e dei confronti di que-sto. Più volte mostrammo che neimomenti decisivi l’indirizzo non ècercato da consultazioni e congressie nemmeno dai voti di istanze ri-strette e comitati centrali; l’esempiotante volte ripetuto è Lenin stesso”(p.664). E, poco oltre: “Il partito è unorgano nel senso integrale che si ap-plica a quelli viventi. E’ un complessodi cellule, ma non tutte sono identi-che, né uguali, né della stessa funzio-ne, né dello stesso peso. Non tutte lecellule né tutti i loro sistemi condi-zionano l’energetica o al più la vita ditutto l’organismo. Tale nell’insegna-mento di Marx e Lenin, nel materiali-smo dialettico, è la valutazione dellesocietà umane e dei complessi socia-li, contrapposti alla sciocca filosofiaborghese che proietta tutta la so-cietà nell’individuo e non ammetteche nella società sono le potenze ecapacità di sviluppo dell’individuocontese e negate, e che esse non ri-siedono in un individuo speciale e dieccezione, ma nella ricchezza dellerelazioni fra uomini, gruppi di uomi-ni, di classi di uomini”.I due brani ribadiscono il caratterecollettivo del lavoro di partito, la suadinamica centralizzata, il suo esseree agire come un essere vivente in cuinon tutti gli organi hanno la stessafunzione e che, dinanzi alle esigenzerivoluzionarie, non si lega le maniné si lascia rallentare con consulta-zioni e congressi e nemmeno convoti di istanze ristrette e comitaticentrali.Ancora a pag. 397, parafrasando unintervento di Lenin su come gover-na una classe e come si manifesta ilsuo dominio, il nostro testo su citatoafferma: “Il possente squarcio stori-co e marxista mostra quanto sia co-glione chi si ferma a vedere se il do-minio fa bene a manifestarsi in uncollegio, in un individuo, nella massae simili […] la manifestazione essen-ziale è lo stritolamento delle formesociali difese dalla classe rovesciata.Il resto è fregnaccia”. Anche qui sisostiene come, dinanzi alle esigenze

rivoluzionarie, non ha senso sceglie-re a priori, in assoluto, quale sia laforma particolare con la quale sipossa dirigere la classe (il “colle-gio”? l’“individuo”? la “massa”?) .E, a pag. 349-50, in un paragrafo daltitolo ancor più significativo (“E’marxista l’autorità individuale”) silegge: “La contraddizione di princi-pio non sta tra mollezza democrati-ca e dittatura individuale, ma tra ladittatura condotta dalla borghesiacontro il proletariato e dittatura delproletariato per schiacciare la bor-ghesia. Purché passi la seconda enon la prima ben venga la direzionesuprema individuale, nelle adattecircostanze; esempio illustre: Leninstesso in aprile ed ottobre, controtutti i ‘collegi’ infessiti”.Il significato di questi brani è tutt’al-tro che un’esaltazione della sponta-neità delle masse proletarie o delgrande uomo che “fa la storia”. Menche meno una sottovalutazione del-la naturale funzione del partito, del-la sua direzione politica e organizza-tiva. Il dato fondamentale è che ilpartito deve sempre agire come unorgano collettivo unitario centraliz-zato disciplinato. Questo organo, so-prattutto nei grandi svolti della sto-ria, di fronte alle esigenze rivoluzio-narie e alle grandi decisioni politi-che da prendere, non può subordi-narsi a formalismi rispetto a chi de-ve decidere quando si deve. Nei fat-ti, è l’organo centrale che, racco-gliendo e sintetizzando gli stimoliche vengono dalla base, esprime lenecessità reali e oggettive nel modorivoluzionario. Ma alcuni movimen-ti e spinte delle masse proletarie po-trebbero orientarlo diversamente.Le masse proletarie potrebbero an-ticipare, forse più ancora del partito,in certi momenti e situazioni, “l’au-torità” delle esigenze rivoluzionarie,come dimostrò la formazione deisoviet in Russia nel febbraio 1917.Allora, il partito bolscevico dovettefrenare il movimento per evitareche l’eccesso di velocità lo portassefuori strada. In questo caso, Lenin inpersona dovette esercitare la suaautorevolezza: un’autorevolezzafunzionale e subordinata alle esi-genze rivoluzionarie, evidente soloperché traduceva in pratica indiriz-zi fissati e stabiliti prima, che nelfuoco della situazione rivoluziona-ria sembravano offuscati.Senza quel pregresso lavoro teoricocollettivo unitario centralizzato,nessun “superuomo” e nessun mo-vimento proletario avrebbe potutorisvegliare e orientare lo stesso par-tito verso l’Ottobre Rosso.È sempre il partito che collettiva-mente ha il compito di riuscire a be-ne orientare il convoglio del movi-mento proletario sulla rotta traccia-ta e conosciuta, per svolgere appie-no, dinanzi ai grandi avvenimentirivoluzionari, la propria direzionepolitica.

Funzione organica e non formaledel partito rivoluzionario

Sottoscrizione Straordinaria per il V volume della

Storia della Sinistra Comunista

La stesura del V volume della nostra Storia della Sinistra Comunista ègiunta ormai al termine. Il volume abbraccia il periodo – estremamenteimportante per le vicende sia del PCdI sia dell’Internazionale comunista– che va dal maggio 1922 alla fine dell’anno. Nei prossimi mesi, proce-deremo a un’ultima lettura e verifica, quindi si passerà alla stampa e al-la distribuzione. Per sostenere i notevoli costi cui andremo incontro, lan-ciamo dunque una sottoscrizione straordinaria, invitando non solo i mi-litanti ma anche i simpatizzanti e i lettori a essere tanto... generosi quan-to la crisi economica glielo permette! Potete versare i vostri contributisul Conto corrente postale 59164889, intestato a: Istituto ProgrammaComunista (oppure IBAN: IT29B0760101600000059164889), indi-cando nella causale: “Per il V volume”.

IL PROGRAMMA COMUNISTA8 A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

versale che nascerebbe dal riconci-liarsi dell’uomo con il pianeta, sonodestinate anch’esse a rientrare pie-namente nell’alveo reazionario eguerrafondaio. I sinceri fautori diquesta via non possono rinnegare trai loro padri i fieri avversari del pro-gresso che militavano tra le compo-nenti “rivoluzionarie” del nazismo,o ambientalisti coerenti come Kon-rad Lorenz, di cui è nota la piena ecosciente adesione in gioventù a quelmovimento.La risposta più reazionaria risiedenella promessa di “dare un lavoroa tutti”, che se venisse onorata por-terebbe alla creazione di posti di la-voro del tutto improduttivi capita-listicamente, al solo scopo di con-servare la forma del lavoro salaria-to, e alla preparazione alla guerra.In tal modo verrebbe riconfermatoil legame indissolubile tra il dirittoall’esistenza e il lavoro che dà ac-cesso a un salario, mentre il rilan-cio della produzione trainato dalriarmo, con il naturale esito di unnuovo conflitto generale, gonfie-rebbe l’occupazione, in attesa chele immani distruzioni della nuovaecatombe non creino i presuppostiper un nuovo ciclo di espansione dilungo periodo. Entrambi gli svilup-pi hanno già caratterizzato la fasestorica che ha preceduto il secondoconflitto imperialista, nella varian-te democratica del New Deal comein quella totalitaria del nazifasci-smo. E’ stata la guerra a salvare ilcapitale, non i lavori pubblici nè al-tri interventi finanziati dello Stato.L’altra risposta alla crisi “del lavo-ro” che aleggia di questi tempi rien-tra nel novero delle illusioni dure amorire sulla natura del capitalismoe sulla possibilità di contenerne lecontraddizioni per via “democrati-ca”, senza passare attraverso la bru-talità della repressione e della guer-ra. E’ il cosiddetto “reddito di cit-tadinanza”, o come lo si voglia chia-mare, la garanzia universale del di-ritto di campare dignitosamente sen-za subire il ricatto dell’alternativatra schiavitù salariale e disoccupa-zione (trasformata in alternanza concontinuità di reddito). Sembrereb-be una soluzione logica alla man-canza di lavoro, l’uovo di colombo,se non fosse che per il capitale nonè una scelta, ma una necessità sfrut-tare sempre più intensivamente laforza lavoro occupata e contenere ilivelli salariali con la pressione diun adeguato esercito industriale diriserva; necessità che è diventata an-cor più stringente da quando il mec-canismo di accumulazione è entra-to in crisi e lo Stato carica sul de-bito pubblico il fardello delle espo-sizioni del sistema bancario, ina-sprisce il prelievo fiscale e contraeil welfare. La richiesta democrati-ca di espandere il welfare in mododa garantire a tutti una vita decen-

I - “Crisi del lavoro” o crisi del capitale?

Un recente articolo riportato sullarivista “Internazionale”(1) riprendela questione dell’automazione deiprocessi lavorativi, argomento chela stampa borghese negli ultimi tem-pi propone sempre più di frequen-te, spesso con accenti preoccupatisulle sue possibili conseguenze so-ciali. L’esposizione, con richiamialla saggistica recente, traccia il per-corso storico del rapido procederedell’automazione, del suo espan-dersi a settori sempre nuovi dellaproduzione e dei servizi, della ten-denza alla progressiva riduzione deilavori ancora affidati alla forza la-voro vivente. Di qui le perplessitàsul futuro dell’occupazione e sul ti-po di società che si prospetta, conl’inevitabile schierarsi nelle file de-gli ottimisti o dei pessimisti.Gli ottimisti considerano che i pro-cessi di automazione abbiano giàesaurito gran parte della loro capa-cità di sostituire le macchine agliuomini, gli altri annunciano l’av-vento di una nuova rivoluzione in-dustriale, destinata a mandare in sof-fitta diverse centinaia di occupa-zioni oggi demandate agli umani,domani surrogate da macchinari esoftware sempre più sofisticati e ca-paci perfino di automigliorarsi. Perquanto possa sembrare paradossa-le, spesso è proprio chi prevede unrilancio del processo di automazio-ne, e dunque una crescente “libera-zione dell’umanità dal lavoro”, avedere il futuro più nero, ma ciò èperfettamente coerente con una so-cietà fondata sul lavoro salariato,sull’appropriazione di tempo di la-voro vivente.Il problema che viene sollevato daqueste discussioni è in genere il se-guente: come faranno milioni di es-seri umani a sopravvivere senza unlavoro in conseguenza dell’aumen-to della produttività e della suaestensione a campi sempre più am-pi di occupazione? Posta la que-stione in questi termini, la rispostacoerente sarebbe quella di blocca-re i processi di automazione o di ral-lentarli attraverso un intervento po-litico di regolazione degli eccessi,quali essi siano, che minaccino lastabilità del sistema determinandola “crisi del lavoro”. Questa solu-zione, nell’attuale fase di totale su-bordinazione dello Stato al Capita-le, si proporrebbe con l’approfon-dirsi della crisi sociale e quindi conl’aperta dichiarazione della guerradi classe e la sua trasformazione inguerra imperialista.La tendenza è rivolta a frenare l’anar-chia delle forze economiche per evi-tare il loro deragliamento e il caossociale che ne deriverebbe, e si as-socia ai rigurgiti dei nazionalismi,dei populismi di varia natura chespingono il proletariato a riconoscersiin soluzioni reazionarie. Le variantiapparentemente alternative, predi-canti un ritorno alla terra e alla na-tura, lo “sviluppo sostenibile”, la “de-crescita”, e ovviamente la pace uni-

te non è solo puerile, ma l’ennesi-mo inganno che orienta le energieproletarie verso obiettivi illusori econdanna il proletariato a piegarsisenza lotta. Il rituale attiene all’ipo-crita religione dei “diritti”, tanto piùcelebrati quanto più negati nellarealtà della società di classe, dovela sola legge riconosciuta è quelladei rapporti di forza. Occupati e di-soccupati sono parti di una stessaclasse, entrambe vitali per la valo-rizzazione del capitale, che si espan-dono e contraggono in ragione del-le fasi di espansione e contrazionedella produzione. Ad ogni faseespansiva si allarga la schiera pro-letaria, mentre nella fase recessivacresce la sua componente di disoc-cupazione, precarietà, sottoccupa-zione. In virtù di questo meccani-smo, la miseria si espande di cicloin ciclo; quanto più si sviluppa l’ac-cumulazione tanto più aumenta inassoluto e in percentuale della for-za lavoro la schiera di questi dan-nati alla ricerca di un salario. Neipaesi capitalisticamente più avan-zati, una quota della ricchezza pro-dotta viene tuttora destinata al so-stentamento dei disoccupati, ma intempi di vacche magre la legisla-zione in materia si va facendo sem-pre più rigida e restrittiva. In Ger-mania - che in questo campo fascuola - i sussidi sono calanti e so-no erogati solo se il sussidiato ac-cetta qualunque occupazione glivenga assegnata, a qualunque con-dizione. La soluzione socialdemo-cratica (“dare un reddito a tutti”: ov-vero, la distribuzione della miseria)non è in contraddizione con la so-luzione fascista che introdusse for-me previdenziali e assistenziali pub-bliche e attuò un allargamento delwelfare finanziato dal riarmo. L’uni-ca reale soluzione borghese rima-ne dunque la guerra.La sola via d’uscita per evitare unanuova e forse definitiva carnefici-na mondiale si colloca oltre i con-fini dell’attuale sistema, ma limi-tarsi ad affermarlo potrebbe orien-tare all’alternativa utopistica, e unpo’ misera, di un mondo “pieno diesseri umani in attività gratifican-ti e ragionevolmente remunerate.Solo con l’aggiunta dei robot” (2).Va invece riconosciuta la piena ma-turità storica del passaggio rivolu-zionario al comunismo e la sua ne-cessità in virtù dello stesso svilup-po delle forze produttive sociali, do-ve l’automazione gioca un ruolo de-cisivo, e delle contraddizioni di que-sto modo di produzione.In questa prospettiva, la domandada porsi non è “come faranno mi-lioni di esseri umani a sopravvive-re senza lavoro?”, ma, con il pro-gresso dell’automazione, “comefarà il Capitale a sopravvivere sen-za sfruttare il lavoro di milioni diesseri umani?”. Il cuore del pro-

blema risiede nella tendenza del Ca-pitale a sviluppare oltre ogni limi-te la produttività del lavoro, ed è inprimo luogo un problema del Ca-pitale, che ha bisogno di aggiogaremasse crescenti di forza lavoro percompensare il calo relativo del ca-pitale variabile in rapporto al capi-tale complessivo (3). Dallo svilup-po della produttività, dall’automa-zione, l’umanità ha solo da guada-gnarci, a patto che risolva il pro-blema urgente dell’opposizione fe-roce del capitale al dispiegarsi del-le potenzialità liberatorie contenu-te nelle forze produttive che essostesso ha sviluppato e che invece ri-volge contro il proletariato e control’intera umanità.

II - Perché il capitale rivoluzionacostantemente le condizioni di produzione

Ciò che non si trova nell’articolo ci-tato all’inizio, come in genere nel-le pubblicazioni sull’argomento, èun chiaro riferimento ai motivi al-la base degli incrementi di produt-tività attraverso lo sviluppo dell’ au-tomazione, al solo aspetto che puòdare ragione del corso del fenome-no, della sua direzione e delle con-seguenze ultime. Perché la dinami-ca capitalistica procede attraversocontinue innovazioni e incrementidi produttività, attraverso un con-tinuo rivoluzionamento delle con-dizioni di produzione? Dove l’ori-gine di questa smania di produrresempre nuove merci con semprenuove tecniche, che trascina le ge-nerazioni in un vortice di rapidicambiamenti dei modi di esistenzae di lavoro e, invece di attenuarle,approfondisce le distanze tra le clas-si e rafforza il dominio del capitalesulla società? Per rispondere ci af-fidiamo come sempre alle pagine diMarx, quanto mai attuali sebbenedatate ormai un secolo e mezzo; per-ché nonostante tutti questi rivolu-zionamenti, il capitalismo funzionacon le medesime leggi, e se fa trion-fare l’innovazione non è per amoredel nuovo, ma per salvare il vec-chio, il mondo diviso in classi.Anzitutto, lo scopo dell’aumentataproduttività non è, dal punto di vi-sta dell’interesse del capitale, l’au-mento del prodotto. A differenza diforme storiche precedenti, compre-

sa la produzione semplice (del pro-duttore individuale), il capitale è in-differente tanto all’aumento dellaproduzione come tale quanto in rap-porto allo sforzo di lavoro umano,aspetto che interesserà la futura so-cietà comunista dove il surplus saràconcepito solo come accantona-mento di riserve per le necessità dispecie, da ottenere con il minimodispendio di energie umane in rap-porto allo sviluppo dei mezzi di pro-duzione sociali.Eppure, in regime capitalistico siopera una mistificazione per la qua-le questa capacità di produrre di piùcon meno impiego di lavoro diven-ta una prerogativa che distingue ilcapitale dalle forme storiche pre-cedenti e ne giustifica l’esistenzapresente e futura. Il capitale si im-possessa dei progressi della scien-za e della tecnica, di tutte le risorsesociali che possono promuovere ilprogresso tecnico scientifico, le ap-plica al processo di produzione im-mediato rendendolo un processo so-ciale su larga scala, dove la forzaproduttiva appare come prerogati-va del capitale anziché come forzaproduttiva del lavoro. Di fronteall’operaio, questo aspetto socialedel lavoro si pone “come elementonon soltanto estraneo, ma ostile eantagonistico, apparendo oggetti-vato e personificato nel capitale”(Marx) (4).In realtà, per il capitale è da consi-derarsi produttivo solo il lavoro cheproduce direttamente plusvalore,“quindi soltanto il lavoro consumatodirettamente nel processo di pro-duzione per valorizzare il capitale”(Marx) (5). Poiché la produzione diplusvalore corrisponde al pluslavo-ro, alla parte della giornata lavora-tiva in cui l’operaio non lavora persé (lavoro necessario), ma per il ca-pitale, questo cerca di appropriar-sene in parti crescenti, riducendotendenzialmente a zero il lavoro ne-cessario. Nella fase storica in cuiancora predominava unicamentel’impiego della forza lavoro viven-te sul lavoro morto, oggettivato (plu-svalore assoluto), l’operaio era sot-toposto formalmente al capitale inquanto salariato, ma conservava ilcontrollo sul processo lavorativo osu una parte di esso. Il macchini-smo e l’automazione potenzianoenormemente la produttività, com-primono il tempo di lavoro in cuil’operaio lavora per sé, incremen-tano il plusvalore relativo (la partenon pagata del lavoro salariato).“Ilcapitale non può fare a meno di met-ter sotto sopra le condizioni tecni-che e sociali del processo lavorati-vo, cioè lo stesso modo di produ-zione, per aumentare la forza pro-duttiva del lavoro, per diminuire ilvalore della forza lavoro mediantel’aumento della forza produttiva dellavoro, e per abbreviare così la par-te della giornata lavorativa neces-saria alla riproduzione di tale va-lore” ( Marx) (6) .

Lo sviluppo della produttività del lavoro da fattore di dominio

a fattore di liberazione dalla schiavitù del capitale

(Riunione Generale di Partito – Milano, 24-25/10/2015)

Questo lungo testo, che pubblicheremo in più puntate, ha costituito la base del Rapporto Economico, tenuto nel corso di questa Riunione Generale.

Continua a pagina 9

1. John Lanchester, “Il capitalismo deirobot”, Internazionale, 27 marzo 2015.2. John Lanchester, cit.3. “La crescente produttività del lavoro[...] si manifesta dunque nella diminu-zione della massa di lavoro paragonataalla massa dei mezzi di produzionemessa in movimento, ossia si manife-sta nella diminuzione della grandezzadel fattore soggettivo del processo dilavoro a paragone dei suoi fattori og-gettivi.” (Il Capitale, Editori Riuniti,1980, Libro I, pp. 681-682). 4. Il Capitale: Libro I, Capitolo VI ine-dito, La Nuova Italia, 1974, p. 58.5. Idem, p. 73.6. Il Capitale, Libro I, cit. p. 354.

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de, ecc. La diminuzione delle ore dilavoro e il contemporaneo aumen-to del prodotto sono il risultato delcalo della quota di capitale variabi-le totale impiegato nella produzio-ne. Solo una crescita delle giornatelavorative avrebbe compensato que-sto calo con l’aumento della forzalavoro totale e consentito una cre-scita della produzione a ritmi piùsostenuti. I dati – parziali – dei due“emergenti” indicano incrementi diproduttività molto elevati, com’è ti-pico dei capitalismi più giovani chepartono da una composizione orga-nica media relativamente più bas-sa. Ma anche in questo caso, alme-no per i dati a disposizione, la ten-denza dell’occupazione dell’indu-stria, espressa dal trend delle ore la-vorate, è calante.Nel periodo post-crisi, l’incremen-to medio di produttività dei paesiconsiderati scende all’1,2% annuo,e anche qui il passo più sostenutolo tengono gli Stati Uniti. Da sotto-lineare il notevole balzo della pro-duttività negli anni 2009-2010, do-po il crollo del 2008, com’è carat-teristico dei periodi di ripresa. Inquesta fase, si registra anche un au-mento delle ore lavorate (in Ger-mania e Giappone, oltre che nei dueemergenti), in controtendenza coni processi osservati nei decenni pre-cedenti.Che cosa è accaduto dopo la crisidel 2008?La Tabella 2 permette di confron-tare la produttività oraria con quel-la per addetto. In linea generale en-trambe le forme vanno rapportate avariazioni nel livello di composi-zione organica, ma la differenza tra

i dati dell’una e dell’altra può dareindicazioni sull’utilizzo più o me-no intensivo o prolungato della ma-nodopera.Tra i cosiddetti “grandi”, negli an-ni successivi alla crisi solo gli Sta-ti Uniti registrano un incrementoconsiderevole di produttività (+18%sul livello più basso del 2008). Lasuperiore crescita della produttivitàper addetto (+ 20%) su quella ora-ria è indicativa del contemporaneoricorso all’intensificazione dellosfruttamento o al prolungamentodella giornata lavorativa. Il recupe-ro della Germania è decisamenteinferiore; la produttività oraria nel2011 è ancora ben sotto il livellopre-crisi, e il pur limitato recuperodella produttività per addetto sug-gerisce che il capitalismo tedesco sistia affidando all’incremento delplusvalore assoluto, e abbia riser-vato gli investimenti in innovazio-ne e capitale fisso nell’area di di-retta influenza dell’Europa centro-orientale, ad un saggio di profittopiù elevato (8). In quest’area, la Rep.Ceca incrementa la produttività ora-ria (estrazione di plusvalore relati-vo) di circa il 25% sul 2008! IlGiappone ha un buon recupero nel2010, vicino a quello Usa, ma giànel 2011 la produttività si contrae.Negli stessi anni la produttività peraddetto si mantiene inferiore a quel-la oraria, indice di un sottoutilizzodella manodopera occupata (con-tratti di solidarietà, part-time, so-spensione della produzione, ecc.).Tuttavia, rispetto al livello minimodel 2009, in Giappone il recuperodi produttività da intensificazionedel lavoro o prolungamento della

giornata lavorativa è superiore aquella oraria (+ 17% contro + 11%).Anche qui, come in Germania, latendenza è a intensificare l’estra-zione di plusvalore assoluto conte-nendo gli investimenti in innova-zione e capitale fisso (l’età mediadelle macchine delle industrie giap-ponesi è di 15 anni, la più alta da 30anni, superiore a quella di Stati Uni-ti e Germania (9). Francia e RegnoUnito incrementano entrambe le for-me di produttività di circa il 10%sul punto più basso del 2009. L’in-cremento di produttività della Co-rea, simile a quello degli Stati Uni-ti, attesta che il capitalismo corea-no si avvicina ormai ai ritmi di cre-scita dei “grandi” e si colloca nellafase matura di estrazione di plu-svalore relativo.Complessivamente, tra i 6 “big” so-lo gli Usa mantengono un ritmo diaccumulazione adeguato (che si-gnifica soprattutto investimenti incapitale fisso). La corsa dell’accu-mulazione procede ancora a ritmielevati per i due emergenti presi adesempio, rappresentanti delle duearee capitalisticamente più dinami-che: Europa “tedesca” e soprattut-to Asia orientale. In Europa occi-dentale e Giappone gli indici di pro-duttività attestano che il livello de-gli investimenti in capitale fisso simantiene relativamente basso. Nelcaso dell’Italia, gli indici segnanoun evidente declino. Rispetto al pun-to più basso del 2009 il recupero diproduttività oraria la riporta solo allivello pre-crisi, ma quella per ad-detto, pur recuperando l’11% circasul 2009, rimane ben al di sotto ri-spetto al 2007, segno che la mano-dopera occupata rimane ampia-mente sottoutilizzata. Il capitalismoitaliano non dispone di un’area diinfluenza paragonabile a quella te-desca dove indirizzare gli investi-menti di capitale fisso a un saggiodi profitto superiore rispetto a quel-lo domestico, e non è in grado nem-meno, in questa fase, di utilizzareappieno la forza lavoro occupata.Il dato significativo che esce da que-sta pur parziale disamina è che nel-la maggior parte dei capitalismi ma-turi la risposta alla crisi non si av-vale di investimenti in innovazionealla ricerca di produttività cre-scente. Ne deriva un ristagnodell’accumulazione, la cui dinami-ca procede più grazie agli investi-menti diretti esteri che a quelli in-terni. L’eccezione americana di-pende dalla struttura fortemente cen-tralizzata del suo capitalismo, dalforte sostegno pubblico alle impre-se e dalla tendenza al rientro di unaparte degli investimenti esteri digrandi imprese (rilocalizzazione) inanticipo su un processo analogo av-viato negli ultimi anni da alcuni con-correnti (Germania, Italia).D’altra parte, il generale ritardodegli investimenti anche nella fasepost-crisi, quando dovrebbero ri-partire alla grande, è frutto di uncapitalismo ultramaturo che deveaffidarsi anche all’estrazione di plu-svalore assoluto per ottenere saggidi profitto più elevati rispetto a quel-li – evidentemente insostenibili –consentiti della composizione or-ganica media data (10).

(1 – Continua)

nuo decrescenti rispetto al ciclo pre-cedente. La produttività dei 6 “gran-di” (o ex tali) cresce nel periodo al-la media del 3,5% annuo, ma conandamenti differenziati: Stati Uni-ti e Germania mostrano ritmi di in-cremento crescenti, col massimo (ri-spettivamente +6,1 e +4,2 annui)negli anni pre-crisi. In questa faseanche il Regno Unito recupera be-ne rispetto al relativo calo del de-cennio 1990-2000, portando l’in-cremento al 4,5. Francia e Giappo-ne mostrano incrementi abbastanzastabili nel tempo, mentre l’Italia dàsegni di declino fin dal decennio1990-2000. In linea generale, i pae-si che tengono il passo dal punto divista capitalistico mostrano anda-menti della produttività crescenti.D’altra parte, la crescita della pro-duttività è la risposta capitalisticaalle contraddizioni del processo diaccumulazione; essa porta con séla crescita della massa dei profitti,pur se al prezzo della tendenza alcalo del loro saggio.In tutti questi paesi, si registra undecremento delle ore totali lavora-te, alla media del 2,3% annuo. Lacrescita della produzione è sospin-ta dalla crescita della produttivitàoraria che si esprime nella diminu-zione delle ore totali lavorate, nonsolo in rapporto al prodotto, ma an-che in assoluto. Il rapporto tra pro-dotto e ore lavorate, esprime in mo-do inequivocabile la crescita dellacomposizione organica media, sen-za escludere per questo che una par-te dell’incremento della produzio-ne si debba all’intensificazione deiritmi, al prolungamento della gior-nata lavorativa nelle singole azien-

L’incremento della produttività inregime capitalistico non nasce dun-que dalla necessità di produrre dipiù, nè di produrre con meno sfor-zo di lavoro, ma di incrementare ilplusvalore estorto alla forza lavo-ro occupata. La crescita della pro-duttività è in funzione della cresci-ta dello sfruttamento, e solo in con-seguenza di questo risultato si de-termina l’aumento del prodotto.

III - Crescita e ristagno della produttività

La tendenza capitalistica all’incre-mento della produttività del lavoroè ampiamente suffragata dai dati sta-tistici del secondo dopoguerra: ne-gli USA, il prodotto per ora lavora-ta è passato in sessant’anni da 1 a8, dunque in un’ora si produce og-gi quanto nel 1950 si produceva inun’intera giornata lavorativa di ot-to ore. Oggi, rispetto al 1950, unoperaio americano produce quanto7 operai, un giapponese quanto 30,un tedesco produce per 8.5, un ita-liano per 10, un francese per 8.3, unbritannico per 6. Nei capitalismi in-dustriali di più recente sviluppo laproduttività cresce più rapidamen-te, sia perché l’accumulazione di ca-pitale è più rapida nei giovani ca-pitalismi, sia per il passaggio in bre-ve tempo da un livello di composi-zione organica basso all’avviodell’industrializzazione a uno sem-pre più prossimo a quello mediomondiale. Se un operaio coreanoproduceva nel 2011 quanto 7 ope-rai nel 1985, significa che in menodi trent’anni l’industria coreana haincrementato la produttività quan-to gli US in oltre 60 anni (7). La Tabella 1 riporta i tassi di incre-mento di produttività nei sei “gran-di” e in due emergenti in un perio-do che corrisponde grossomodoall’ultimo “ciclo lungo” (1973-2007), così definito nei lavori di Par-tito sul “Corso del capitalismo mon-diale”, più la fase successiva allacrisi 2008-2009. Il ciclo lungo è diespansione della produzione indu-striale, ma a tassi di incremento an-

Tab. 1 - Produzione oraria, Produzione e ore lavorate nella manifattura dal 1979 al 2011 in 8 paesi.Tassi di incremento annuo

CICLO LUNGO CICLO POST CRISI

COUNTRY INDICATOR 1979- 1979- 1979- 1990- 2000- 2007- 2009- 2010-2007 2011 1990 2000 2007 2011 2010 2011

United States Output per hour 4.5 4.2 3.0 4.3 6.1 3.8 11.2 2.0

Output 3.1 2.7 2.3 4.2 2.9 -0.3 11.2 4.3Hours -1.3 -1.4 -0.6 -0.1 -3.1 -3.9 0.0 2.2

France Output per hour 3.5 3.2 3.2 3.9 3.3 1.1 6.1 2.2

Output 1.3 0.9 0.9 1.9 1.2 -1.8 3.6 1.2Hours -2.1 -2.2 -2.3 -1.9 -2.1 -2.9 -2.3 -1.0

Germany Output per hour 3.2 2.5 2.1 3.4 4.2 -1.9 7.6 4.5

Output 1.6 1.0 1.2 0.6 3.0 -2.4 11.3 8.1Hours -1.6 -1.5 -0.9 -2.6 -1.2 -0.5 3.5 3.5

Italy Output per hour 2.3 2.1 3.4 2.5 0.9 0.0 9.4 -0.4

Output 1.6 1.0 2.6 1.3 0.8 -3.5 7.0 0.6Hours -0.7 -1.1 -0.8 -1.2 -0.1 -3.5 -2.1 1.0

Japan Output per hour 3.6 3.4 3.8 3.3 3.8 2.2 14.8 -2.8

Output 2.7 2.3 4.7 0.8 2.6 -1.4 18.2 -3.6Hours -0.9 -1.1 0.9 -2.4 -1.1 -3.5 3.0 -0.8

United Kingdom Output per hour 3.7 3.4 3.5 3.0 4.5 2.2 4.4 4.5

Output 0.6 0.4 0.9 0.9 0.1 -1.7 3.8 2.1Hours -3.0 -2.9 -2.5 -2.1 -4.3 -3.8 -0.6 -2.3

South Korea Output per hour NA NA NA 10.5 8.1 4.1 8.5 6.0

Output 8.7 8.5 10.8 8.4 6.8 5.6 14.7 7.2Hours NA NA NA -1.9 -1.1 1.5 5.7 1.1

Czech Rep. Output per hour NA NA NA NA 9.7 8.3 13.0 10.1

Output NA NA NA NA 9.4 5.4 13.8 9.8Hours NA NA NA NA -0.3 -2.7 0.8 -0.3

Fonte: U.S. Department of Labor, Bureau of Labor Statistics. Per Output si intende il valore aggiunto reale (realvalue added) in moneta nazionale corrente (national currency units). I dati per la Germania pre-1991 si riferi-scono alla Germania Ovest. NA=dati non disponibili. Ultima modifica: 6 dicembre 2012.

Tab. 2 - Prodotto per ora lavorata (1) e prodotto per addetto (2) nell’industria manifatturiera

USA JAP GER ITA FRA UK KOR CZ

1 2 1 2 1 2 1 2 1 2 1 2 1 2 1 2

2007 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100

2008 98.1 97.7 104.2 102.8 96.0 97.0 98.0 97.2 96.6 97.0 101.1 100.4 100.7 102.3 108.9 109.5

2009 102.1 99.7 97.7 90.3 82.4 94.2 91.9 85.2 95.7 94.2 100.0 97.3 101.8 102.5 110.4 108.0

2010 113.6 114.1 112.1 108.9 88.6 101.5 100.5 94.6 102.3 101.5 104.5 103.5 110.6 113.0 124.8 124.7

2011 115.8 117.2 108.9 105.7 92.6 103.6 100.1 94.9 104.6 103.6 109.1 107.5 117.2 119.2 137.4 135.3

Source: U.S. Department of Labor, Bureau of Labor Statistics, December 2012. Tratto da Table 1. Output per hour in manufacturing, 19 countries,1950-2011.

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7. La fonte dei dati è sul sito dell’ U.S.Department of Labor, Bureau of LaborStatistics, December 2012; Table 1.Output per hour in manufacturing, 19countries, 1950-2011. Table 2. Outputper employed person in manufactur-ing, 19 countries, 1950-2011.8. Si veda al proposito P. Legrain,“L’economia disfunzionale tedesca”,Il Sole-24Ore, 30.09.2014. L’econo-mia tedesca dal 2000 è caratterizzatada bassi salari e sottoinvestimento. Lariduzione dei costi ha favorito la com-petitività e il surplus delle partite cor-renti, ma l’altra faccia della medagliasono la debole domanda interna e unosviluppo asfittico. Le aziende non in-vestono di più nel paese (gli investi-menti sono scesi dal 22,3% del Pil del2000 al 17% nel 2013) perchè ricavanoun saggio del profitto più elevato dagliinvestimenti nell’area dell’Europa cen-tro-orientale, a monte della catena divalore, dove si producono molti pezzidi prodotti “made in Germany”.9. “Macchine troppo vecchie”, Inter-nazionale, 8 maggio 2015.10. “Per uscire dalla crisi il capitali-smo si sforza di produre più a bassocosto, utilizzando al massimo tutti iperfezionamenti tecnici. All’uscita dal-la crisi si è stabilito un certo rapporto,più basso del precedente, tra capitalevariabile e capitale totale. Produzioneed accumulazione ricominciano, e conl’aumento del capitale totale per uncerto tempo aumenta anche il capitalesalari e la domanda di lavoro. Duran-te questo intervallo normale il numerodei salariati tende ad aumentare, do-manda e offerta di lavoro sono pressoa poco equilibrate.” (Elementi di eco-nomia marxista, Edizioni il program-ma comunista, 1991, p. 70).

IL PROGRAMMA COMUNISTA10 A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

8 dicembre1857 - 31 dicembre 1857

Con la lettera dell’8 dicembre1857, Marx informa Engels che,secondo l’Economist, “quelli diMincing Lane e di Mark Lane”(strade di Londra: una, centro delcommercio di generi coloniali,l’altra dei cereali, NdR) hanno ri-cevuto nel commercio dei colo-niali e cereali i prestiti per i loroprodotti, ma presto questi sonocessati. E aggiunge che dopo qual-che giorno di una tendenza al rial-zo il prezzo del grano è crollato inconseguenza dei decreti francesiche autorizzavano l’esportazionedi grano e farina e nello stessotempo a causa del crollo del granodel Baltico. I grandi carichi ameri-cani arriveranno in primavera manel frattempo i francesi bombar-deranno l’Inghilterra con grano aqualsiasi prezzo non appena lapressione diverrà molto più seria.E poi: “Secondo la mia opinione[…] se ora seguiranno buoni rac-colti, gli effetti [dell’abolizionedella legge sul grano] in Inghilter-ra sui proprietari fondiari e suicontadini si faranno sentire sol-tanto adesso, sicché la vecchia cri-si dell’agricoltura riprenderà inpieno”. A questo punto Marx con-fida ad Engels di aver pronostica-to, commentando su la “Tribune”il 6 novembre con un suo articolo-editoriale dal titolo “La legge ban-caria del 1844 e la crisi monetariain Inghilterra”, che “entro qualchegiorno si sarebbe avuta la farsadella sospensione della legge, mache non bisognava esagerare trop-po il panico monetario”. Al che il“New York Times” e il “Times” diLondra tre giorni dopo avevanorisposto che la sospensione non cisarebbe stata; il 24 avevano ag-giunto che questa possibilità erasolo una diceria: l’idea di un cracindustriale in Inghilterra era sem-plicemente assurda. Il giorno se-guente, per telegramma dall’“A-tlantic”, arriva la notizia che laBanca aveva sospeso i pagamentidando nello stesso tempo notiziedella crisi industriale. E Marx: “E’proprio bello che i capitalisti chegridano tanto contro il diritto allavoro ora pretendano dappertut-to pubblico appoggio dai governi ead Amburgo, a Berlino, a Stoccol-ma, a Copenaghen e nella stessaInghilterra (nella forma di sospen-sione della legge) facciano insom-ma valere il diritto al profitto aspese della comunità. Ed è altret-tanto bello che i filistei di Amburgosi siano rifiutati di dare ulteriori e-lemosine ai capitalisti”.

La cosa più sorprendente in tuttaquesta storia – scrive ancoraMarx – è il rimpallo d’incapacitàche si fanno Francia, Usa e Inghil-terra. Il corrispondente dell’“Eco-nomist” chiarisce ai suoi lettoriche “non c’era a Parigi la minimapredisposizione a diffondersi di unpanico, sebbene sembrasse che lecircostanze lo giustificassero, esebbene la Francia finora fossestata sempre pronta a cadere nelpanico per il più piccolo motivo. Laborghesia francese, malgrado ilsuo temperamento ottimista, sta

provando effettivamente cosa si-gnifichi questa volta il panico”.L’“Observer” racconta che essen-dosi sparse le voci allarmistichecontro il Credit mobilier, tutti siprecipitarono in Borsa per disfar-si ad ogni costo delle loro azioni.“Il capitale francese è rimasto, nelvero e proprio commercio, pauro-so, taccagno e sospettoso, la specu-lazione, premessa del commercio edell’industria seri, esiste propria-mente soltanto in quei settori dovelo Stato è direttamente o indiretta-mente l’effettivo datore di lavoro.E’ certo che anche un capitalistadella grandezza del governo fran-cese, fallito in sé, si tiene a galla unpo’ più a lungo di un capitalistaprivato”. In quanto ai metalli pre-ziosi, la “proibizione governativadell’esportazione dei metalli pre-ziosi, che era in pieno vigore inFrancia, ma ancor più l’esporta-zione di grano, di seta e di vino aqualsiasi prezzo, ha impedito perqualche settimana il deflusso dallaBanca Centrale. Ma ciononostanteil deflusso comincerà, e, purché losi faccia per vie traverse come nel1856 (ottobre), tutto andrà a farsifottere. […] D’altro lato, grazie alsignor Bonaparte [Napoleone III,NdR] la banca è diventata impre-saria delle costruzioni ferroviarieche avevano subito un arresto. Ap-pena comincerà il deflusso per pri-ma cosa avremo certamente gli as-segnati [certificati di credito, so-stitutivi della moneta, NdR]”. Eancora: “Le tue informazioni sullasituazione di Manchester sono dienorme interesse per me, dato chei giornali le nascondono pudica-mente”. Segue la comunicazionesul lavoro teorico in corso, sullosviluppo dei Grundrisse: “Lavorocome un pazzo le notti intere ariordinare i miei studi economiciper metterne in chiaro almeno legrandi linee prima del Diluvio”.

Nella lettera di Engels a Marx, del9 dicembre 1857, continuano le

informazioni. In un N.B., egli rac-comanda a Marx di non far trape-lare, nel citare i nomi delle ditteinteressate, da dove gli arrivino lenotizie: “Potrei passare dei guaidel diavolo, se si venisse a sapereun simile abuso di notizie confi-denziali”. Si tratta – spiega – di al-cune ditte protagoniste degli av-venimenti ad Amburgo, dove lavecchia e famosa Banca di scontoha peggiorato enormemente lacrisi: una storia di cambiali dellaBanca d’Inghilterra, rimandateindietro protestate come cartastraccia: “soltanto l’argento avevaancora qualche valore!”. E prose-gue: “Le ditte commerciali di Lon-dra e di Liverpool andranno prestoa gambe all’aria. A Liverpool le co-se vanno malissimo, la gente è pro-prio al verde e ormai non ha nean-che la forza di fallire. Le facce allaBorsa di laggiù […] sono tre voltepiù lunghe che qui. Del resto latempesta si va ammassando sem-pre più nera. I proprietari di filan-de e di fabbriche tessili spendono ildenaro che incassano coi loro pro-dotti per i salari e il carbone, e ap-pena sarà finito salteranno. […]Qualcuno mi diceva di conoscerecinque o sei ditte indiane che con leloro merci dovevano per forza an-dare al diavolo in questi giorni.Soltanto adesso questi tipi si ac-corgono che la speculazione finan-ziaria era la cosa meno importan-te della crisi, e quanto più se nerendono conto, tanto più scure di-ventano le loro facce”.

Nella lettera dell’11 dicembre1857, Engels scrive (ne riportia-mo un brano tanto lungo quantoilluminante): “In questa crisi la so-vrapproduzione è stata generalecome non lo era stata prima, è in-negabile anche nei generi colonia-li e anche nel grano. Il bello è que-sto, e avrà delle conseguenze enor-mi. Finché la sovrapproduzione silimitava soltanto all’industria, lecose stavano solo a mezzo, ma da

quando si è estesa anche all’agri-coltura, e nei tropici tanto quantoanche nella zona temperata, la co-sa assume proporzioni grandiose.La forma sotto cui la sovrapprodu-zione si nasconde è sempre, più omeno, l’estensione del credito, maquesta volta, in modo tutto parti-colare, gli imbrogli con le cambia-li. Il sistema di far denaro spiccan-do cambiali su di un banchiere o suuna ditta […] e di coprirle primadella scadenza […] secondo comesi mettono le cose, è di regola sulcontinente e per le ditte continen-tali in Inghilterra. […] Questo siste-ma è stato spinto all’estremo adAmburgo, dove avevano corso piùdi 100 milioni di marchi di cambia-li bancarie. Ma anche altrove im-perversano questi imbrogli con lecambiali […] molte case di Londrasono andare in malora per questo.[…] Qui nell’industria inglese e nelcommercio interno [...] invece dipagare in contanti entro un mese,lasciavano trarre cambiali su di lo-ro con scadenza a tre mesi e paga-vano gli interessi. Nell’industriadella seta questo sistema si svilup-pava nella stessa misura in cui cre-scevano i prezzi della seta. Insom-ma, ciascuno ha lavorato oltre leproprie forze. […] Ma fare delcommercio al di sopra delle pro-prie capacità non è proprio sinoni-mo di sovrapproduzione; però è i-dentico nella sostanza. Un’associa-zione commerciale, che possiedaun capitale di 20 milioni di sterli-ne, ha in questo una certa misuradella sua capacità di produzione,di commercio e di consumo. Se conquesto capitale, attraverso gli im-brogli con le cambiali fa un affareche presuppone un capitale di 30milioni di sterline, aumenta laproduzione del 50%; il consumosale anche grazie alla prosperitàma in misura di gran lunga infe-riore, diciamo 25%. Alla fine di unqualsiasi periodo si verifica neces-sariamente un’accumulazione dimerci superiore del 25% al biso-gno vero, cioè a quello medio an-che di un periodo di prosperità.Basterebbe questo a provocare loscoppio della crisi, anche se il mer-cato monetario, l’indice del com-mercio, non la segnalava già inprecedenza. Lascia dunque chevenga il crac e vedrai che, oltrequesto 25%, un altro 25% almenodello stock di tutti i beni di primanecessità diventa una merce in-vendibile sul mercato. Questo veri-ficarsi della sovrapproduzione in-sieme all’estensione del credito eal commercio oltre le possibilità losi può studiare in tutti i suoi parti-colari nella crisi attuale. Non c’ènulla di nuovo nella cosa in sé, manella chiarezza straordinaria incui ora la cosa si sviluppa. Nel1847 e nel 1837-1842 non è statoaffatto così evidente. Ecco la bellasituazione in cui si trovano ora

Manchester e l’industria cotonie-ra: i prezzi sono abbastanza bassiper consentire quello che il filisteochiama un commercio sano. Maappena si verifica un minimo au-mento di produzione, il cotone vaalle stelle perché a Liverpool nonse ne trova. Sicché bisogna conti-nuare a lavorare a orario ridotto,anche se ci fossero commissioni.Ed ora a dire il vero, ordini ce nesono, ma da località che non han-no ancora provato l’intensità del-la crisi, e i commissionari lo sanno,e perciò non comprano; avrebberodei fastidi senza fine e brutti debi-ti sulle spalle. Oggi il mercato è dinuovo a terra. I filati, che avevanoun valore di 14 pence, 14 pence emezzo, vengono offerti a 11 pencee un quarto, e chi offre 10 e trequarti li ottiene. Gli indiani non sivedono sul mercato. I greci sonfermi col grano, nel quale lavora-vano quasi tutti loro; è la loro ri-sorsa principale (da Galati a Odes-sa). […] Le ditte specializzate nelcommercio interno hanno proibi-to ai loro acquirenti di effettuareanche la minima compera. L’Ame-rica è fuori questione. L’Italia ri-sente della caduta di tutte le ma-terie prime. Altre quattro settima-ne e ci sarà una bella baraonda.Tutti i giorni falliscono piccoliproprietari di filande e di fabbri-che tessili. I Merck [commercianti,NdR], ad Amburgo, hanno rettosoltanto grazie ai 15 milioni di an-ticipo avuti dal governo”.

Ancora Engels a Marx il 17 dicem-bre 1857: “La crisi mi tiene male-dettamente in sospeso. I prezziscendono ogni giorno […] Manche-ster vi è coinvolta sempre più. Lacontinua pressione sul mercato hadegli effetti grandissimi. Nessunoriesce a vendere. Ogni giorno sisente dire di offerte più basse, chiha ancora un po’ di dignità non of-fre neanche più le sue merci. Tra ifilatori e i tessitori le cose vannomalissimo. Nessun agente in filativende più un filo alle fabbriche tes-sili se non contro denaro contanteo dietro garanzia. Alcuni dei picco-li sono già andati a gambe all’aria,ma questo non è ancora niente. IMerck sono del tutto al verde, siaqui che ad Amburgo, malgrado ledue forti sovvenzioni ricevute. Ci siaspetta che vadano all’aria in que-sti giorni. Soltanto delle circostan-ze straordinarie potrebbero sal-varli. Si dice che la sede di Ambur-go abbia 22 milioni di obbligazionicon 4 o 5 milioni di marchi di capi-tale in banca (13 marchi=1£). Se-condo altre informazioni, pare chela crisi abbia fatto scendere il lorocapitale a 600 mila marchi. Avre-mo ancora quattro diverse crisi: 1)i generi coloniali, 2) grano, 3) fi-lande e fabbriche tessili, 4) com-mercio interno, quest’ultimo al piùpresto in primavera. Nei distrettilanieri comincia sin d’ora, e a dirvero è proprio carina. […] La tua o-pinione sulla Francia è stata in se-guito confermata quasi alla lette-ra dai giornali: il crac è sicuro lag-giù e coinvolgerà per primi gli spe-culatori della Germania centrale esettentrionale. […] La Germania

Dal Carteggio Marx-Engels

Nel mezzo della bufera della crisi1856-58 (III)

Continua a pagina 11

1. Dall’agosto del 1857 al giugno del1858, Marx stendeva il manoscrittoche doveva costituire l’abbozzo delfuturo Capitale. I manoscritti del1857-58 furono pubblicati per la pri-ma volta a Mosca nel 1939-41, sottoil titolo di Grundrisse, o Lineamentifondamentali della critica dell’econo-mia politica.

Le tre lettere, che abbiano pubblicato sul n°6/2015 di questogiornale, datano dal 15 novembre al 7 dicembre 1857. Si tratta dilunghe lettere nelle quali si entra nel merito della crisi industriale.Nella prima del 15 novembre, di Engels, i commenti si soffermanoampiamente sui dati, sull’estensione e sulla durata della crisi dellaseta, “che ha già tolto il pane alla maggior parte dei tessitori eridotto l’orario di lavoro”. Nell’ovest americano, in particolare,l’ingorgo delle riserve dei manufatti è evidente: interi carichivengono rispediti verso Liverpool dove tre quarti delle filaturelavorano solo per riempire i magazzini. Segue un brano pienod’ironia in cui Engels riferisce della rabbia dei capitalisti di frontealle sue profezie più nere e al suo augurio che la crisi diventicronica, “per riscaldare il proletariato che in questo caso colpiscemeglio”. Nella lettera del 24 novembre 1857, Marx scrive a suavolta del panico monetario che si sta scatenando con la crisi, e che atratti sembrava essersi calmato, per riprendere subito dopo. “E’quasi sicuro che, in conseguenza della crisi, in Americaprenderanno il sopravvento i protezionisti”. Con la lettera del 7dicembre, Engels riferisce della colossale caduta dei prezzi dellemerci, il 35% per lo zucchero e il 33% del cotone delle Indieorientali. “I prezzi delle merci in generale cadranno ancor più,mentre i salari sono ridotti di un terzo o della metà”. E ancora:“Alcuni proprietari sono andati a gambe all’aria, altri hannovenduto i cavalli e anche i cani per la caccia alla volpe, uno havenduto anche i suoi servitori. Ad Amburgo non c’è ancora maistato un panico così perfetto. Nulla ha più valore ad eccezionedell’oro e dell’argento. La crisi ha l’effetto di spingere questi filisteia bere parecchio, il consumo di alcool cresce parecchio…”.Proseguiamo ora nella lettura del carteggio.

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settentrionale, ad eccezione di Am-burgo, non è ancora coinvolta nel-la crisi. Ora comincia anch’essa.[…] I tedeschi del nord finora nonhanno avuto quasi altro che perdi-te; da loro, come qui, lo scombusso-lamento del mercato monetarionon ha un effetto così disastrosocome questo protrarsi della diffi-coltà di vendita delle merci. Poiverrà la volta di Vienna […]. Ancheper il proletariato comincianoguai. Per il momento non ci sonoancora molti sintomi di rivoluzio-ne da notare: la lunga prosperitàha avuto un effetto molto demo-ralizzante. Per ora i disoccupatinelle strade mendicano e stannocon le mani in mano. Gli assassiniia scopo di furto aumentano, manon troppo. […]

“Le notizie del mercato di Manche-ster stanno sempre sul Guardiandel sabato e del mercoledì. Oggi nefaccio partire tutto un mucchioper te. Poi, oggi, ci sono di nuovodelle statistiche sugli operai. Micongratulo per la profezia circa lalegge sulla banca”.

Marx ad Engels, 18 dicembre1857: “Ho ricevuto proprio in que-sto momento degli avvisi di paga-mento, il terzo e ultimo avviso daquel porco dell’esattore […] Seperciò ti è possibile mandami qual-che sterlina per lunedì. […] Lavoromoltissimo. Per lo più fino alle 4del mattino. Perché è un lavorodoppio:1) elaborazione delle lineefondamentali dell’economia 1. (E’assolutamente necessario andarea fondo della questione per il pub-blico, e per me, personalmente, li-berarmi da questo incubo). 2) Lacrisi attuale. Su di essa, oltre agliarticoli per la “Tribune”, mi limitoa prendere appunti, cosa che peròrichiede un tempo notevole. Pensoche all’incirca in primavera, potre-mo scrivere insieme un pamphletsulla faccenda, a mo’ di riappari-zione davanti al pubblico tedesco,per dire che siamo sempre qui,sempre gli stessi. Ho progettatotre grossi volumi: Inghilterra, Ger-mania, Francia. Per la storiadell’America tutto il materiale sitrova sulla“Tribune”. Lo si può ela-borare in seguito. Del resto deside-rerei che se possibile, tu mi man-dassi il “Guardian” giornalmente.Dovermi guardare tutto insieme u-na settimana intera o pressappocoè una cosa che mi raddoppia il la-voro e mi porta delle complicazio-ni. In Francia saranno probabil-mente i ‘tedeschi’ – che ora in ge-nerale bisogna cominciare a pren-dere in considerazione – special-mente a Le Havre, ad aprire ladanza nel commercio. Inoltre - aprescindere dalla putrefazione ge-nerale dello Stato che fa bancarot-ta – c’è del marcio perfino nel com-mercio a Marsiglia e a Bordeaux, edovunque i miserabili rospi sonostati spinti, dagli elementi stranie-ri, che si sono intrufolati e messi inmezzo, ad andar oltre la loro me-schina miserabile spilorceria epaura. In fondo un Credit mobi-lier era possibile e necessario sol-

tanto in un paese così immobile[…]Scrivimi ogni volta che ne haitempo, perché altrimenti ritar-dando finisci per dimenticare tut-ta questa ‘cronaca scandalosa’della crisi che è così necessaria; iofaccio estratti dalle tue lettere e litrascrivo nei miei volumoni”.

Nella lettera ad Engels del 25 di-cembre 1857, interamente dedi-cata alla situazione francese,Marx scrive che è necessario “ve-der chiaro sulla situazione di crisiriguardante commercio e indu-stria”. In sei punti, la lettera af-fronta tutti i temi della realtàfrancese: “1) Le crisi inglese, ame-ricana e nordiche non hanno maiprovocato direttamente una ‘crisifrancese’, ma soltanto delle conse-guenze passive, miseria, limitazio-ne della produzione, stagnazionedel commercio e disagio generale.Cause: La bilancia commercialefrancese è favorevole nei confrontidegli Usa, delle città anseatiche,dell’Inghilterra e della Danimarca,mentre è sfavorevole nei confrontidella Svezia e della Norvegia. Perquesto motivo queste crisi non pos-sono produrre in Francia un de-flusso di metallo prezioso, dunqueun vero e proprio panico moneta-rio. Se tuttavia la banca alza il tas-so di interesse, lo fa per impedire aicapitalisti di investire più vantag-giosamente il loro denaro in questipaesi. Finché questo deflusso non èla conseguenza necessaria dellabilancia commerciale ma soltantodell’avidità di guadagno dei profit-tatori può essere impedito permezzo della polizia. Se, il paese,con una bilancia commerciale fa-vorevole, non ha accordato creditia lungo termine, né accumulatoprodotti da esportare nelle localitàpiù toccate dalla crisi, avrà da af-frontare perdite, ma non una crisiacuta. 2) Ammesso ciò, la prima fa-se della crisi ha avuto sull’indu-stria e sul commercio francesi uneffetto peggiore di quanto si siamai avuto in simili occasioni. 3)Come primo effetto della crisi inFrancia limitazione di spese e affa-ri. Quindi accumulazione di dena-ro nella Banca di Francia insiemeall’enorme caduta della circolazio-ne nelle operazioni di sconto. Acausa della crisi e dei possibili tor-bidi politici alla fine dell’anno, se sidovesse elevare il tasso di interesseall’atto del regolamento dei conti,ribasso del tasso d’interesse a di-cembre. […] 4) Il fatto che si rendadisponibile del capitale nell’indu-stria e nel commercio provocherànello stesso tempo una maggioretendenza al rialzo nella Borsa. 5)La vera e propria crisi francesenon scoppia se non quando la crisigenerale è giunta ad un certo livel-lo in Olanda, Belgio, nello Zollve-rein, in Italia (inclusa Trieste), nelLevante e in Russia (Odessa) per-ché in questi paesi la bilancia com-merciale è notevolmente sfavore-vole alla Francia e quindi la pres-sione ha come suo effetto direttoun panico monetario in Francia. Eappena è scoppiata in Francia es-sa si ripercuote in modo veramen-te ammirevole su quei paesi. 6)Quando scoppia la vera e propriacrisi francese, il mercato dei titoli e

la garanzia di questo mercato,cioè lo Stato, se ne vanno al diavo-lo (e questo potrà anche avere ef-fetto sull’Inghilterra che al mo-mento specula splendidamente suititoli stranieri). La speculazionepraticata ad Amburgo, in Inghil-terra, negli Usa, da capitalisti pri-vati, in Francia l’ha praticata loStato stesso e i mercantuncolifrancesi nel commercio erano tut-ti giocatori di Borsa. Già il con-traccolpo della crisi angloameri-cana ha portato le ferrovie al ri-stagno. Cosa ha fatto il signor Bo-naparte? Costringe la Banca diFrancia a diventare di fatto impre-sario ferroviario […] il piano èquello di fare della Banca di Fran-cia l’imprenditore generale di tut-te le sue truffe per mezzo del capi-tale che essa non possiede ma cheè soltanto depositato presso di es-sa, e che se ne andrà, al primo se-gnale nei paesi vicini. Questo inrealtà, va benissimo per mandareall’aria anche la banca. Quello chenon può venirgli in mente è quellodi far pagare alla Banca le richie-ste degli azionisti”. A questo pun-to, Marx enumera tutte le compa-gnie e le richieste di denaro deitedeschi, olandesi, svizzeri egrandi proprietari di titoli. E con-tinua: “Alla malora se i francesi sa-ranno mai in grado di pagare que-ste richieste di denaro. Gli stessi lisvenderanno a qualsiasi prezzo alprimo serio allarme di depressioneo in Francia o a casa propria. Cosìpare difficile che Bonaparte possasuperare il 1858, a meno che nonsi regga per un tempo maggioreper lo stato d’assedio e gli asse-gnati. Tutta la vecchia merda sene va al diavolo, e quello slancio ri-dicolarmente audace che il merca-to dei titoli aveva preso in Inghil-terra, ecc, farà una brutta fine”.

Segue una lettera del 31 dicembre1857 di Engels a Marx, in cui silegge: “Sulla Francia, per quantone posso giudicare io, tu hai ragio-ne in ogni particolare. Anche là fi-nora lo sviluppo degli avvenimentiè normale […] Qui, nel commerciointerno la faccenda comincia ades-so; le ditte di Londra che commer-ciano con Manchester apparten-gono a questa categoria. Ma que-sto non è che il principio; questasarà trascinata nel gorgo, in modoserio, soltanto se la pressione du-rerà da otto a dodici mesi. Mi sem-bra che lo sviluppo di tutta la crisisi avvicini a quello del 1837-1842più che a qualsiasi altra, a prescin-dere dal fatto che questa di ora èmagnifica e generale e diffusa in o-gni dove. Per il momento la gentedi qui si culla nell’illusione che lacrisi è finita, perché la prima fase,la crisi finanziaria con le sue con-seguenze immediate, è passata. Infondo ogni singolo borghese credeancor sempre che il suo particola-re ramo d’affari e soprattutto lapropria azienda sia stata assoluta-mente sana, e, dato che hanno de-gli speculatori standard […] si lu-singano di essere virtuosissimi.[...]fra marzo e aprile tutti i faticositentativi di risollevare il mercatodei prodotti falliranno regolar-mente con i bastimenti in arrivo.Pare che ora ci sia gelo e ventodell’est, di modo che nessuna navepuò entrare. Se dura così una o duesettimane, tutti i prodotti saliran-no di sicuro, per cadere tanto piùpazzamente al primo vento dell’o-vest che porterà qui una flotta in-tera. Ecco che cosa si chiama offer-ta e domanda in tempo di crisi. […]io credo che qui avremo [nel mer-cato del cotone, NdR] dei leggerialti e bassi con una tendenza com-plessiva al ribasso, forse anche unpo’ al rialzo, non lo si può dire dipreciso, finché non cada un altro

Atti di guerra contro il

proletariato mondiale

Nel comunicato diramato in varie lingue dopo i “fatti di Parigi” 1, ab-biamo ricordato che le guerre che hanno imperversato negli ultimi de-cenni in modo particolare “non sono certo guerre etniche o religiose,né guerre per affermare questo o quel preteso ‘principio di naziona-lità’, ma guerre per difendere ed estendere gli interessi economici na-zionali”. Soprattutto, sono “atti di guerra contro il proletariato mon-diale”. Un giovane simpatizzante che frequenta una delle nostre se-zioni ha chiesto di precisare meglio che cosa s’intende per “atti diguerra contro il proletariato mondiale”. Gli abbiamo risposto che, perprima cosa, le vittime immediate, i grandi numeri di questi massacri(e di quelli che seguiranno inevitabilmente, fino a un prossimo terzomacello mondiale), sono masse proletarie o in via di proletarizzazio-ne: non è una novità, e continuerà a essere una sanguinosa realtà fin-ché il modo di produzione capitalistico trascinerà la propria esisten-za scatenando conflitti, esportando e utilizzando armi di distruzionedi massa. Ci par di sentire, a questo punto, l’obiezione dello “statiti-sco”: “Be’, non saranno poi tutti proletari quelli che rimangono ucci-si nelle guerre!”. Certo che no; ma a noi la “statistica”, nel suo cinicoindifferentismo, non interessa: sotto le rovine di città e paesi distrut-ti, restano nella grande totalità coloro che non possono sfollare in zo-ne sicure e che comunque devono tirare a campare sotto i bombarda-menti e i rastrellamenti; e le migliaia e migliaia di profughi, ormaiprivi di ogni mezzo di sussistenza, in fuga da vere e proprie terre bru-ciate potranno anche non essere, all’anagrafe, proletari puri, ma talisono destinati a divenire... Non si tratta dunque di sola statistica, di conta dei morti. Questi mas-sacri (come d’altra parte gli episodi di “terrorismo diffuso”, opera diquesta o quell’organizzazione, al soldo di questo o quell’interesse lo-cale o nazionale o inter-nazionale) sono atti di guerra contro il pro-letariato mondiale anche in un altro senso, forse più sottile, meno ap-pariscente e sanguinoso, ma dalle conseguenze non meno devastan-ti. Questi massacri non fanno altro che rinfocolare ed esasperare le di-visioni all’interno del proletariato lungo linee etniche, religiose, lin-guistiche, culturali – divisioni già alimentate dagli sviluppi stessi (i-neguali, contraddittori, distruttivi) del capitalismo a livello mondiale,specie nella sua fase imperialista. Sono atti di guerra praticati a livel-lo ideologico, sovrastrutturale, ma le loro ricadute sono ben materia-li, concrete: la paura, la diffidenza, il sospetto, l’odio nei confronti deldiverso, dello straniero, dell’immigrato, si traducono in azioni e rea-zioni a livello sia individuale che collettivo, sia istintivo che istitu-zionale; e reclamano o giustificano i provvedimenti che gli Stati viavia introducono a livello legislativo: ulteriori strumenti d’intimida-zione e repressione, oggi rivolti contro potenziali o equivoci “terrori-sti”, ma domani pronti all’uso nei confronti di proletari che possanoimboccare la strada non democratica dell’antagonismo di classe. Non solo. I contrasti inter-imperialistici, tra fazioni borghesi in lottafra di loro per strapparsi fette di rendita e plusvalore, in quella guerradi tutti contro tutti che è il capitalismo, hanno la loro maledetta rica-duta anche nelle stesse lotte che i proletari sono costretti a ingaggia-re con padroni e Stato, per “vendere cara la propria pelle”: le guerrefra Stati o tra fazioni borghesi, che infiammano aree più o meno pe-riferiche, si riflettono cioè negativamente anche dentro gli schiera-menti in lotta, suscitano altre divisioni, altre incomprensioni, altre o-stilità – altra guerra fra poveri. Già ne abbiamo avuto esempi: siaquando, in certe fasi della mobilitazione all’interno della logistica, inItalia, lavoratori egiziani pro-Morsi si sono scontrati con lavoratori e-giziani pro-Al Sisi indebolendo in maniera determinante un fronte dilotta, sia quando settori di proletari vengono strumentalizzati pro ocontro altri settori, sulla base di quanto sta avvenendo “in patria”. Leguerre alimentano il nazionalismo, e il nazionalismo è uno strumen-to di preparazione alle guerre: agisce per mettere proletari contro pro-letari, e soprattutto per legare i proletari alla Nazione, per farne sud-diti obbedienti in base ai credo religiosi e alle affiliazioni politiche, al-la retorica patriottica o religiosa, per trasformarli in carne da canno-ne che opera all’insegna della sublime consegna capitalistica “mortetua, vita mia”.Atti di guerra contro il proletariato mondiale: sia nelle carni strazia-te di centinaia di migliaia di proletari attuali e futuri sia nelle perver-sioni nazionaliste e razziste, quanto sta succedendo nel mondo – leguerre, le stragi, gli attentati, le esplosioni di collera e le vendette, e leloro variegate coperture e ricadute ideologiche, mediatiche e politi-che – non può essere definito in altro modo.

1. Vedi il n.6/2015 di questo giornale e il nostro sito www.partitoco-munistainternazionale.org.

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fulmine, in qualche parte. In ognicaso verrà una brutta annata per ifilatori e i tessitori, se non altro perla scarsezza di domanda e per l’ec-cesso di importazioni: pressionestagnante, ecco quel che c’è di piùpericoloso per i borghesi di qui. Quile crisi monetarie non fanno granche, perché tutti i crediti sono abrevissima scadenza (da due a seisettimane)”.

Alla fine dell’anno, dunque, la cri-si morde ancora e l’economia non

accenna a riprendersi. Industrialie speculatori continuano a illu-dersi e a sperare, ma, dall’oscilla-zione dei prezzi, si avverte l’incer-tezza degli avvenimenti. Il lavorodi Marx sul Capitale continua: unasua lettera a Engels del 2 aprile1858 chiarirà la dimensione chesta prendendo questo lavoro. Esegnerà in un certo modo anche“lo scioglimento della crisi”.

(Continuazione e fine al prossimo numero)

IL PROGRAMMA COMUNISTA12 A. LxIv, n. 1, gennaio-febbraio 2016

sostenere e rafforzare: il nome di Al-lah, di Cristo, di Santa Democraziadeve risuonare alto e forte. Qui, nel-la propaganda quotidiana tra le po-polazioni, non serve indicare il giocodegli interessi economici contrastan-ti, ma proporre un bersaglio, dare unvolto e un’identità, “personificare” ilnemico, raccontandone la “cattive-ria” con motivazioni non più econo-miche ma da cercare invece nelle“teste deviate, oscure e malvagie” dicerti gruppi e individui... Così, nellediatribe attorno agli attentati di Pari-gi, si sprecano i tentativi, nei paesioccidentali, di cercare le vere causedegli attentati o nel “terrorismo isla-mico” (magari nella sua più ampiaaccezione), o in certe sue frange e-stremiste, nel suo “oscurantismo”;oppure, specularmente, come nellastessa rilevante propaganda dell’I-SIS, nella “civiltà occidentale”, nellesue “libertà”, nei suoi “lussi degene-rati”. Nell’uno e nell’altro caso, tuttorisulta praticamente slegato dalle ra-dici economiche, dagli intrecci di in-teressi, che vanno invece maschera-ti e nascosti.

Quale terrorismo?Ma da dove spunta questa nuova ver-sione, “islamica”, del “terrorismo”?Da una “vera o falsa” lettura e inter-pretazione del Corano e dell’Islam,da una sua “forzatura”, come si fa in-tendere più o meno apertamente neipaesi occidentali (a partire dagli U-SA, fin dall’attacco alle Torri Ge-melle nel 2001, per finire agli Statieuropei attuali)? Bisogna essere de-menti (o più o meno colti ipocritiprezzolati, del tipo di quelli cheaffollano i dibattiti televisivi) per nonvedere che questo “terrorismo” nonha niente a che vedere con le “inter-pretazioni” del Corano, ma è solol’ennesima creatura degli stessi Sta-ti, dei loro giochi criminali, semprepiù pericolosi man mano che proce-de la crisi regionale e mondiale. E’ ilDio Profitto, che da quando è in pie-di il sistema capitalistico, non può fa-re altro, per salvare se stesso, che ali-mentare e scatenare, in qualunquetempo e latitudine, le furie dellaguerra, gli odi, le divisioni nazionali,religiose, tribali e di qualunque altrotipo. Puntare il dito contro il Corano,contro la “matrice islamica”, oppureinsistere sulla “caccia al terrorista”quale “personificatore” quasi assolu-to del “Male” (quest’entità metafisi-ca) o sulla salvaguardia della “civiltàe cultura occidentale” (idem!), non èaltro che il lurido gioco ipocrita pra-ticato da sempre dagli Stati borghesi,per difendere, sostenere e rafforzareil terrorismo congenito del sistemacapitalistico che, con tutti i suoi orro-ri infiniti, a ogni livello, per lor Si-gnori resta intangibile: “il miglioredei mondi possibili”. I travisamenti della realtà storica so-no continui e l’elenco sarebbe infini-to. Gli stessi storici e politici borghe-si non mancano ogni tanto (bontà lo-ro!) di “rivelarceli”, se non addirittu-ra “denunciarli”… ma solo quando èil momento, e soprattutto “quandocambia il vento”. La storia, poi, è sta-ta ed è oggi più che mai piena di “ter-roristi”: basta la minaccia ostentata odichiarata da parte di uno Stato con-tro un altro per guadagnarsi il titolodi “Stato canaglia”, di “Stato del Ma-le” e così via. Chi minaccia gli inte-ressi economici di un altro Stato nonè solamente un nemico, ma diventaanche un “terrorista”; e ciò sia neirapporti con gli altri Stati, sia e so-prattutto nei rapporti e conflitti so-ciali. Insomma, chi minaccia il Pro-fitto di qualche Stato a favore di altriStati non può essere che un terrori-sta, magari... potenziale. Ed è vero. Che cosa c’è di più impor-tante e sacro, per le grandi multina-

zionali, per i grandi banchieri e spe-culatori, della salvaguardia e dell’au-mento dei loro Profitti? e di più terri-bile della minaccia o dell’attaccocontro di essi? La società capitalisti-ca è fondata sulla concorrenza, cheda stimolo allo sviluppo economicoin alcune fasi (specie dopo i generalibagni di sangue e la distruzione diforze produttive operati dalle guerremondali), diventa, in altre fasi, di cri-si generalizzata, fattore di conflitticontinui sia all’interno della stessaclasse capitalista con le sue divisionistatali sia contro la classe storica-mente nemica: la classe proletaria. Intale situazione, i motivi per lanciareo subire l’accusa di “terrorismo” nonmancano di certo!

Alcuni Stati borghesi (quelli cosid-detti confessionali) fanno appello a-pertamente alle tradizioni religiose,mostrano di legare strettamente ipropri interessi economici a quelletradizioni, per poterli meglio difen-dere e salvaguardare. Ma le normereligiose imposte non sono mai stateil “fondamento” di tali Stati: ne sonopiuttosto il grande sostegno e sup-porto. All’ombra delle norme più “o-scurantiste” del Corano, sono emer-se, in Arabia Saudita, Qatar, EmiratiArabi, ecc., civilissime megalopoli, ilgrande affarismo finanziario con lasua rete internazionale di interessi.Le norme del Corano non hanno maifrenato, o condizionato in qualchemodo, il forsennato sviluppo di tali“civiltà”, la grande corsa al Profitto:piuttosto, è stato sempre il Profitto aservirsi del Corano, delle sue norme“oscurantiste”, per imporre sviluppo,insieme a pacificazione e ordine so-ciale. La stessa rivoluzione islamicairaniana khomeinista del 1979, con ilsuo iniziale ostentato anti-occidenta-lismo, diede allora a molti, compresisettori del cosiddetto estremismo disinistra occidentale, l’illusione che,“finalmente!”, le “regole confessio-nali del Corano” potessero costituirela base della “nuova società” che do-veva nascere (o comunque condizio-narla). Invece, la copertura religiosaservì molto bene alla difesa degli in-teressi economici borghesi naziona-li, sia nell’immediata, decennaleguerra contro l’Irak, sia per sedare inumerosi, sanguinosi conflitti socia-li che vi si produssero. La recente fi-ne del lungo embargo occidentale el’accordo sul nucleare siglato per vo-lere degli USA (che paiono aver orariscoperto nell’Iran una pedina da u-sare per i propri giochi strategici inMedioriente) hanno ora cambiato ilsuo status: e così, fra le alte protesteisraeliane, l’Iran adesso non è più“canaglia” o “terrorista”...

Anche nella sanguinosa guerra neiBalcani dei primi anni ’90 del secoloscorso è stata l’insaziabile sete diprofitto degli USA e della Germaniaa scatenare e alimentare ferocissimiodi etnici e religiosi, facendoli appa-rire come “vera causa” del conflitto.Si trattava invece, soprattutto, di sot-trarre all’influenza serba e del suoantico alleato russo il più prosperomercato di Slovenia e Croazia, già daanni orbitante attorno all’economia eal marco tedeschi. Gli odi nazionali ereligiosi allora suscitati per realizza-re l’obiettivo mostravano ancora unavolta, e in modo plateale, che per ilgrande Capitale le cosiddette “que-stioni etniche e religiose” sono solosemplici pretesti e strumenti da uti-lizzare per i suoi interessi, senza tan-ti scrupoli per le “paci nazionali” o le“libertà religiose” sempre tanto ipo-critamente invocati. Nel 2003, in I-rak, gli USA non hanno esitato a ser-virsi dell’islamismo sciita, scatenatocontro quello sunnita, per metterefuori combattimento l’ex amico Sad-dam Hussein, divenuto “canaglia”per le sue mire territoriali ed econo-miche nel Kuwait in funzione anti-USA (oltre che per la detenzione, ri-

sultata poi falsa come da ufficialeammissione, di “armi di distruzionedi massa”).La storia è piena di odi nazionali, tri-bali, religiosi, creati e rinfocolati adarte dall’imperialismo e dai suoi in-teressi economici – odi spacciati co-me le vere cause e motivazioni deiconflitti. Nella sua stessa morfologiageopolitica, l’Africa porta ancora isegni delle divisioni nazionali, triba-li, religiose, create e imposte dallegrandi potenze allo scopo di sfruttar-ne le immense risorse. In Asia, gli U-SA sostennero (come fanno ancoraoggi) il nazionalismo separatista diFormosa o quello coreano, in funzio-ne anticinese. In Vietnam, tentarono,senza alla fine riuscirvi, di dividerein due parti il paese, come avevanofatto in Corea. Tutti i continenti sonostati (e sono) fortemente segnati dal-le divisioni nazionali e religiose im-poste dall’imperialismo capitalista.Il detto “divide et impera”, insiemeal suo compare “mors tua vita mea”,si adatta da sempre alla logica di svi-luppo del Capitale. I conflitti mon-diali, prodotti dalle crisi ineliminabi-li del sistema capitalistico e scoppia-ti per ristabilire nuove sfere di in-fluenza economici e territoriali, sonostati spacciati, dagli Stati vincitoricome da quelli vinti, come conflittidi carattere nazionale, religioso, diciviltà, tra “sistemi economici diver-si”, e altre gigantesche, ipocrite fal-sificazioni.

Ritornando all’ISIS, il compito chesi pone non è solo di mettere in luce eristabilire come alla base della suanascita e sviluppo stiano cause eco-nomiche e geostrategiche, e non reli-giose, ma di seguire anche l’intrecciodegli interessi economici dei variStati, grandi, medi o piccoli, che sinasconde sotto tale travestimento: siadi quelli che per coprire i propri inte-ressi e ambizioni da potenza regiona-le o mondiale hanno contribuito acreare e mettere in piedi questa enne-sima “creatura terrorista”, sia diquelli che se ne servono in qualchemodo per i propri fini (si veda la re-cente polemica russo-turca) – oppurene subiscono gli effetti, dopo esser-sene magari serviti.

Il groviglio d’interessi, la fluiditàdella situazione a livello mondiale enella regione mediorientale in parti-colare, impediscono ancora ai variStati di agire più apertamente e diret-tamente, mostrando con chiarezza ilproprio volto e la propria identità. O-gnuno d’essi dichiara, più o menosolennemente, di voler debellarequella “creatura”: ma questa “creatu-ra” o è ancora necessaria a coloroche l’hanno messa in piedi, oppure èutilizzata da alcuni (la Turchia, per e-sempio) contro altri (i Curdi, per e-sempio) o viene addirittura valutatacome elemento di equilibrio regiona-le in una situazione estremamentecomplicata, aggravata dalla guerrasiriana. I bombardamenti della “coa-lizione a direzione USA” hanno di-mostrato infatti che essa non vuoleaffatto debellare il “mostro” (comefece, per esempio, con i bombarda-menti ben più consistenti e miraticontro la Serbia), ma servirsene perora, in qualche modo, nella stessaguerra siriana e nella complicata si-tuazione regionale, come strumentodi equilibrio. I russi sono poi interve-nuti contro l’ISIS, ma, in maniera e-splicita, soprattutto in funzione di di-fesa del regime siriano di Assad e peraffermare, sfruttando le debolezzedecisioniste altrui, le proprie mire dapotenza regionale. Dopo gli attentati di Parigi, lo Statofrancese è intervenuto militarmentein modo più pesante di quanto nonabbia fatto prima: ma il suo vero sco-po non è solo di combattere i terrori-sti prevenendone possibili attacchi infuturo, ma piuttosto di mostrare imuscoli alle potenze che vorrebbero

ridimensionare la sua forza nella re-gione mediorientale. Dietro le lacri-me degli attentati, la borghesia fran-cese non può vedere altro che uno“smacco” da parte dalle potenze re-gionali della regione. La “Marsiglie-se” non è certo risuonata per piange-re le vittime: è stata un “inno di guer-ra”, non semplicemente contro lamanovalanza terrorista, bensì controle potenze che stanno dietro gli atten-tati e che si coprono con la mascheradi Allah. Pure il Regno Unito e laGermania sono dovuti intervenire eaggregarsi militarmente, ma dietro lacopertura della lotta ai “terroristi” viè soprattutto il contrasto con il deci-sionismo militare russo e francese,con il loro “patto militare”.

La lunga instabilità dell’area medio-rientale, aggravata fortemente dallaguerra siriana (una guerra che si tra-scina “troppo per le lunghe” a causadei grossi e delicati equilibri tra lepotenze e della debolezza dello Statoirakeno, travolto in poco tempo etanto facilmente dall’offensivadell’ISIS), è alla base della nascita edello sviluppo di quest’ultimo, unsoggetto visto da alcuni Stati comeutile a spostare equilibri altrimentiimmobili, e che non doveva apparireapertamente come espressione deglistessi Stati e dei loro giochi econo-mici e strategici nell’area, ma comeun qualcosa di autonomo, a sé stante,con i tratti criminali non delle stessepotenze economiche ispiratrici, macon quelli, “feroci”, islamici e an-tioccidentali. Dietro l’attacco al ter-rorismo, dietro i terroristi (molti deiquali di nazionalità europea), non viè che la solita guerra camuffata tra lestesse potenze, per le loro ambizioni

sulla regione e nel mondo. Il proble-ma non è dunque l’ISIS, ma il grovi-glio di interessi e ambizioni tra le va-rie potenze che vi sta dietro.

I nostri compitiScopo delle analisi del nostro partitosulle vicende politiche ed economi-che degli Stati borghesi non è certodi tipo “culturale” o “storiografico”,né tanto meno quello di “potersi me-glio schierare” a fianco di questo oquello Stato in conflitto. Si tratta in-vece di seguire l’aggravarsi, l’avvici-narsi o meno a situazioni di più forteinstabilità, nella convinzione, forma-ta da tutta l’esperienza storica di lot-ta del nostro partito sulla linea delmarxismo rivoluzionario, che tali di-namiche, con tutti i loro orrori, non cidaranno mai, da sole, una situazionerivoluzionaria se non quando si saràriusciti a rimettere in piedi un solidoe consistente partito comunista mon-diale. Nessun appoggio, dunque, aStati borghesi (che vanno tutti deci-samente denunciati e combattuti co-me nemici del proletariato) potrà fa-cilitare tale processo, ma solo la soli-darietà crescente del proletariato,sviluppata attraverso la lotta intransi-gente in difesa delle proprie condi-zioni economiche e a stretto contattocon il partito. Solo il lavoro di partitoalla testa di un proletariato divenutovera “classe per sé” attraverso quellalotta intransigente potrà porre le con-dizioni di una vera lotta politica perl’abbattimento degli Stati borghesi.Compito gigantesco, come gigante-sche saranno le prove e le sofferenzeche il proletariato dovrà ancora af-frontare e subire sotto un regime ca-pitalistico sempre più violento e indistruttive convulsioni.

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Chiuso in tipografia 27/01/2016

Edito a cura dell’Istituto Programma Comunista

Direttore responsabile: Lella Cusin

Registrazione Trib. Milano 2839/’52

Stampa: Arti Grafiche Fiorin SpA, Sesto Ulteriano (Milano)

“Creature”...

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