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I diritti umani tra le verità dei paradossi e il paradosso della verità oltre il moderno, ciò che non muta 1 di Giuseppe Limone 1. Il paradosso della verità Vorremmo indicare qui una prospettiva ambiziosa e vincolante. Ambiziosa, perché si pone un fine impegnativo; vincolante, perché istituisce legami per un pensare che prende sul serio le sue parole. Diremo alcune cose sul paradosso della verità e altre sulle verità dei paradossi. Ci avvicineremo poi alle idee fondamentali di giustizia e di dignità. Svolgeremo, in questo contesto, alcune riflessioni su ciò che emerge dal confronto intellettuale fra la posizione di Martin Heidegger e quella di Jean-Paul Sartre, perché da questo confronto nasce, a nostro avviso, un varco per capire ciò che entrambi non hanno pensato: la persona. Non parleremo, pertanto, dei diritti umani nel senso della loro elencazione analitica, ma nel senso di ciò che è propedeutico alla loro comprensione. Parleremo cioè dei prolegòmeni ai diritti umani. È necessario capire questi presupposti per capire l’essenza nascosta nell’idea dei diritti umani. Esaminiamo, perciò, alcuni paradossi. Il paradosso è ciò che a prima vista viola il senso comune. Nella società occidentale, in cui viviamo come narcotizzati, non riusciamo veramente a capire se non a condizione di essere colpiti da uno choc. Una delle forme dello choc è il paradosso. I diritti umani vanno capiti sulla base di quel presupposto fondamentale che è la verità. La verità è, nei confronti di ogni concezione ermeneutica e/o relativistica, 1 Relazione al Convegno di studi Europa e diritti dell’uomo. A cento anni dalla nascita di Pietro Tocănel, tenuta presso l’Istituto Teologico romano-cattolico francescano, Bacau (Romania), 1-2 ottobre 2011. Questa relazione si è sviluppata in ideale continuità con quella tenuta a San Leucio, presso la Facoltà di Studi Politici “Jean Monnet”, il giorno 30 settembre 2011 sul tema La proprietà della terra tra agricoltura e usi alternativi.

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I diritti umani tra le verità dei paradossi e il paradosso della verità

oltre il moderno, ciò che non muta1

di Giuseppe Limone

1. Il paradosso della verità

Vorremmo indicare qui una prospettiva ambiziosa e vincolante. Ambiziosa,

perché si pone un fine impegnativo; vincolante, perché istituisce legami per un

pensare che prende sul serio le sue parole. Diremo alcune cose sul paradosso della

verità e altre sulle verità dei paradossi. Ci avvicineremo poi alle idee fondamentali di

giustizia e di dignità. Svolgeremo, in questo contesto, alcune riflessioni su ciò che

emerge dal confronto intellettuale fra la posizione di Martin Heidegger e quella di

Jean-Paul Sartre, perché da questo confronto nasce, a nostro avviso, un varco per

capire ciò che entrambi non hanno pensato: la persona.

Non parleremo, pertanto, dei diritti umani nel senso della loro elencazione

analitica, ma nel senso di ciò che è propedeutico alla loro comprensione. Parleremo

cioè dei prolegòmeni ai diritti umani. È necessario capire questi presupposti per

capire l’essenza nascosta nell’idea dei diritti umani.

Esaminiamo, perciò, alcuni paradossi. Il paradosso è ciò che a prima vista viola

il senso comune. Nella società occidentale, in cui viviamo come narcotizzati, non

riusciamo veramente a capire se non a condizione di essere colpiti da uno choc. Una

delle forme dello choc è il paradosso.

I diritti umani vanno capiti sulla base di quel presupposto fondamentale che è

la verità. La verità è, nei confronti di ogni concezione ermeneutica e/o relativistica,

                                                                                                                         1 Relazione al Convegno di studi Europa e diritti dell’uomo. A cento anni dalla nascita di Pietro Tocănel, tenuta

presso l’Istituto Teologico romano-cattolico francescano, Bacau (Romania), 1-2 ottobre 2011. Questa relazione si è sviluppata in ideale continuità con quella tenuta a San Leucio, presso la Facoltà di Studi Politici “Jean Monnet”, il giorno 30 settembre 2011 sul tema La proprietà della terra tra agricoltura e usi alternativi.

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parola esigente. Che cosa è la verità? Si tratta di una domanda che assomiglia a quella

rivolta da Ponzio Pilato a Cristo2.

La verità si regge su un paradosso. Essa, nella sua forma prima e radicale, è

quell’apertura dell’Essere che si dà nel mio stesso dire, ancor prima che io dica e che

io ne dica. Essa è ciò che, anche se nessuno le credesse, continuerebbe a sussistere. È

ciò che, anche se nessuno consentisse, continuerebbe ad essere. È ciò che, anche se

nessuno di noi esistesse, continuerebbe a valere. In questa prospettiva, la verità non

va semplicemente assimilata al valore. Porre la verità come valore significa ancora

porsi sul terreno della distinzione friabile tra il fatto e il valore. Nell’ipotesi della

distinzione, se pensiamo la verità come semplice valore, noi pensiamo ancora alla

verità come mera opinabile valutazione. Bisogna pensare, invece, alla verità in modo

radicale. Pensarla in modo radicale significa innanzitutto pensarla come fatto.

Situazione di fatto. La verità, pertanto, in quanto fatto, precede la mia stessa

valutazione – e ogni possibile valutazione – su di essa. Dire che ciò sarebbe

atteggiamento dogmatico è non accorgersi che è atteggiamento dogmatico anche

quello che su un tale atteggiamento dogmatico dice la sua negazione. La verità è ciò

di cui non posso semplicemente parlare, perché precede il mio stesso parlare, dando a

questo stesso parlare il fondamento perché possa significare qualcosa. Si tratta di una

situazione paradossale, perché io sto parlando di qualcosa che precede il mio stesso

dirne – qui e ora – qualcosa. Anche il mio dire è un fatto, e costituisce pertanto la

verità del fatto del suo dire. Anche il mentire è un fatto che, nel suo essere un fatto,

contiene una sua paradossale verità. Chi mente produce il fatto del mentire, il quale

fatto è fattualmente vero.

Questo primo passo non basta. Bisogna farne un secondo. C’è un fatto di cui

siamo ogni giorno testimoni senza poterne dubitare. È il fatto del nostro vissuto. Il

vissuto è ciò in cui da sempre io abito, di cui non posso dubitare, in cui abito anche

                                                                                                                         2 Andrea Milano ha svolto una penetrante analisi sulla domanda posta da Ponzio Pilato a Gesù, ragionando sulla

differenza fra «che cosa è verità?» e «che cosa è la verità?». Per questo itinerario, vedi Andrea Milano, Quale verità? Per una critica della ragione teologica, Ed. Dehoniane, Bologna 1999.

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nell’atto del puro pensarlo. Nello stesso pensare il mio vissuto, io vivo il vissuto del

pensarlo.

Questo vissuto ha dentro di sé un altro paradosso, su cui non si riflette

abbastanza. Il vissuto è inosservabile. Nessuna scienza – del passato, del presente o

del futuro – potrà mai osservarlo, posto che osservare significa “vedere dall’esterno”.

Quando la scienza pretende di osservare, attraverso le sue sofisticate attrezzature, il

vissuto, essa sta osservando non il vissuto ma le supposte proiezioni e traduzioni di

quel vissuto nelle forme esteriori (elettroniche, elettrochimiche,

elettroencefalografiche, e così via) in cui si ritiene che quel vissuto si manifesti. La

scienza percepisce non il vissuto, ma il corpo del vissuto. Anzi, il corpo presunto del

vissuto. Del vissuto come fatto, del proprio vissuto come fatto ognuno di noi è –

ognuno per se stesso – testimone, unico testimone, senza poter farlo osservare dagli

altri. Questo vissuto può cercare di esprimersi, a volte, in parole. Il vissuto sottende e

struttura ogni atto del pensiero, anche se questo pensiero si esprimesse nel dubbio, nel

dubitare. Esiste un vissuto del dubitare, e questo vissuto è certo. Un tale vissuto

precede anche il cogito cartesiano.

Questo vissuto, in quanto inosservabile, costituisce l’invalicabile limite di ogni

scienza, che opera all’esterno di quel limite, senza mai riuscire a varcarlo. Ogni

scienza empirica si muove a partire dalla certezza dell’osservazione. Il vissuto, pur

inosservabile, è un fatto. Un fatto inosservabile. Un fatto inosservabile su cui nessuna

scienza potrà elevare un qualsivoglia argomentabile dubbio. Siamo davanti a un

fenomeno che, pur inosservabile, è il più certo dei fenomeni. Più certo anche di

quanto è in modo evidente osservato. Una scienza che pretende di essere certa in

quanto fondata sulle cose osservate non è consapevole del fatto che esiste un

“inosservabile” che è più certo della certezza riguardante l’osservazione: il vissuto. Il

vissuto rappresenta, perciò, il limite insuperabile della scienza, di ogni scienza

empirica. Capire che in un corpo osservato esiste un vissuto è come porsi davanti a

una finestra buia, scoprendo all’improvviso che all’interno si è accesa una luce. Nel

momento in cui capisco che in quel luogo una luce si accende, capisco che in quel

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luogo c’è un “dentro” che prima ignoravo. Chi osserva dall’esterno vede corpi bui;

solo chi scopre di poter mettersi in contatto con un vissuto si accorge che in quel

corpo una luce è accesa. Questa luce accesa si esprime in parole. Nelle sue e nelle

mie parole.

All’interno di questo vissuto può individuarsi un particolare vissuto, che ha

una sua specialissima forza e caratura. Esso, tra i vissuti che viviamo, si caratterizza

in modo più acuto, più penetrante, più certo. Questo vissuto è il dolore. Nel vissuto

del dolore io non dico semplicemente che vivo o che penso o che dubito. Dico, più

specificamente, che sono io e solo io che soffro in questo momento presso di me. Il

dolore mi ritaglia nella mia assoluta singolarità. Esso mi introduce a un altro livello

della certezza, anche per quanto riguarda il pensare e il dubitare. Non mi fa percepire

soltanto che c’è un pensare, un dubitare, un soffrire, ma che sono io a pensare, a

dubitare, a soffrire. La certezza non riguarda semplicemente l’evento, ma me. Se la

certezza si limitasse all’evento, io stesso potrei essere un semplice momento

all’interno di quell’evento, momento della cui auto-consistenza non ancora avrei

certezza. Nell’evento del dolore non ho solo certezza dell’evento ma – all’interno

dell’evento – dell’auto-consistenza irrefutabile del me che lo patisce. Del me. Posso

illudermi di pensare, non posso illudermi di soffrire. Se soffro, nessuno – nemmeno

l’Assolutissimo Dio – potrà mai dimostrarmi che non soffro. Il dolore è assoluto.

Esso mi apre a un’assoluta certezza, che mi fa al tempo stesso sentire la certezza del

me.

Ci si potrebbe domandare perché istituire, a questo primo livello, una

distinzione fra il dolore e le altre forme di vissuto. Anche nel piacere e in una

semplice gioia, come in altre forme, accade una fenomenologica certezza. Nel dolore,

però, si danno due caratteri ulteriori e connessi che ne mutano la cifra: da un lato,

l’accadere di un fenomeno interno che mi spinge a far riflessivamente gravitare il

mio sguardo su esso; dall’altro lato, l’accadere di un trauma specifico che mi spinge a

prendere coscienza di me. Nel dolore, più acutamente e più specificamente che in

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altre forme, si danno quel vettore e quella frattura che illumina sull’emergenza del

me. Nel dolore scoppia la bolla che mi separava da me.

Si tratta di un punto importante, che potrebbe e dovrebbe essere sottolineato

nei confronti di Martin Heidegger quando nella sua lettera sull’umanismo sostiene di

voler essere il pensatore non dell’uomo, ma dell’Essere: non dell’esserci, ma dell’Es-

sere. Per Heidegger io sono solo il pastore dell’Essere perché l’Essere mi precede e

mi sottende, né si risolve nel mio esserci. In me l’Essere trova il suo «qui», il suo

«Da» (esser-ci ossia Da-sein). In questa prospettiva, io mi colloco come un luogo,

come un momento, come un ponte, in cui l’Essere disloca il suo «Da». Il mio esserci,

il mio essere qui, il mio essere la radura dell’Essere. Heidegger, perciò, intende

essere il pensatore non del soggetto, ma dell’Essere. L’Essere precede il soggetto e si

dà nel soggetto, gettandolo nel «qui». Ancor prima che il soggetto guardi all’oggetto

come a una cosa gettata davanti a sé, l’Essere ha già gettato il soggetto nel «qui».

Heidegger assume così una postura ontologica, per la quale l’Essere non è un ente,

perché è quel continuo fluire e durare che in ogni esserci e in ogni ente si dà. L’Es-

sere è il puro scorrere che mi precede e in me qui si dà.

Qui Heidegger sembra non aver meditato abbastanza sull’evento del dolore.

Nell’evento del dolore – nel mio dolore – anche se in me si annuncia l’Essere, si

annuncia attraverso la mia sofferenza, che appartiene a me, solo a me, sulla quale non

posso dubitare (e sulla quale mi sentirei fortemente insultato se dubitassi tu).

L’Essere, nell’annunciarsi in me attraverso il mio dolore, non può affermare che il

dolore è suo, perché è mio. È mio e non di altri. Mi ritaglia nella mia singolarità. Mi

dà certezza della mia singolarità. Non mi dice semplicemente che io penso, ma mi

dice che, in questo pensare – anzi in questo soffrire – sono proprio io e non altri, non

altro. Qui opera un “mio” che non può essere oggetto di generalizzazione né di

neutralizzazione concettuale. Questo mio non è nel senso della proprietà, né nel senso

dell’autore, e nemmeno nel senso dell’appartenenza. È il mio nel senso del suo

coincidere col me, con questa voce che dice io e che io da me ascolto dentro di me. In

questo mio si apre la radura del mio esserci, del mio essere qui, che in modo

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inesorabile e inaccessibile mi ritaglia da ogni altro esserci, in qualche modo

distinguendomi dallo stesso Essere che non si dà solo in me, ma in tutti gli altri simili

a me. Nel momento del dolore, l’Essere intercetta e individua il mio essere – il mio

esserci – e può intercettare ogni altro esserci, ma uno alla volta considerato. Leone

Tolstoj ha icasticamente espresso questa capacità individuante del dolore, là dove ha

scritto – nella sua Anna Karenina – che le famiglie sono tutte felici allo stesso modo,

ma ognuna è infelice a modo suo. Giuseppe Capograssi ha genialmente scritto che nel

mondo del diritto io mi sento individuato nel momento in cui io sono colpito. E

potremmo aggiungere: se con uno spillo pungo qualcuno tra la folla, uno solo grida.

Nel foro di quell’esserci l’Essere si dà come radura. In questa radura che io sono, e in

modo speciale nel dolore, si danno appuntamento – inestricabile appuntamento –

l’Essere che si dà in me e il mio contributo assolutamente singolare all’evento

dell’essere. In questa luce il dolore che mi individua nel mio esserci non mi consente

di confondere questo mio esserci con un qualsiasi altro esserci e con qualsiasi altro

momento degli esserci. A questo punto, oltre l’empirica certezza che si dà

nell’osservazione, io sono approdato a due certezze, ben più radicali della prima. Alla

certezza del mio vissuto e alla certezza di quel me che in questo vissuto di dolore si

dà.

Ma è proprio nell’evento del dolore che si compie, a un certo punto, un inatteso

rovesciamento di significati. È precisamente nel dolore – proprio o dell’altro – che

accade la possibile risonanza reale del proprio sé con l’altro e dell’altro col sé.

Proprio nel momento più radicalmente individuale dell’umano accade un movimento

che va oltre l’individualità. Un movimento che costitutivamente trabocca.

Come possiamo dire del dolore, possiamo dire della paura e della morte. Il

dolore non è il concetto del dolore. La morte non è il concetto della morte. La paura

non è il concetto della paura. Il mio dolore, la mia paura e la mia morte non possono

essere concettualizzati. Siamo in un orizzonte di esperienze che hanno una strutturale

paradossalità. Perché si tratta di esperienze di cui non può darsi concetto e di cui non

può non darsi un qualche sfocato concetto: nella forma di una idea.

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Ci troviamo, in questo itinerario, davanti a una sequenza di paradossi che non

possono essere analiticamente scomposti, ma che vanno necessariamente pensati. La

verità si dà anche se nessuno le credesse, anche se nessuno la condividesse, anche se

nessuno le prestasse consenso. La verità non può essere messa ai voti. Non può essere

sottoposta al principio del mercato. Né del sondaggio. Né della statistica. Potrebbe

addirittura dirsi che non è sottoposta nemmeno al principio dell’unanimità. La verità

non è democratica.

Potrebbe, certo, sanamente obiettarsi che nessuno sa qual è la verità. Ma la

verità, così come abbiamo già detto, non è l’oggetto di un’opinione e, in ogni caso,

anche se fosse inconoscibile, non si potrà mai confondere tra il suo essere

inconoscibile e il suo non esistere affatto. Compiere questa confusione è atto più

dogmatico della dogmaticità che l’apparente non dogmaticità della negazione

intenderebbe superare. Chi ritiene superata la verità la sostituisce con la propria.

Determinando, fra l’altro, un conflitto fra più verità che, alla fine, si risolve in quella

catastrofe in cui ritorna la verità.

2. Le verità dei paradossi

Si è parlato del paradosso della verità. Occupiamoci ora delle verità dei

paradossi. I paradossi sono il modo attraverso cui si illumina la notte delle nostre

consapevolezze scontate.

I diritti umani sono certamente, oggi, un’acquisizione importante.

Distingueremmo, però, fra diritti umani e diritti fondamentali. Distingueremmo

perché i diritti umani parlano del contenuto di questi diritti, mentre i diritti

fondamentali, pur parlando ancora di questi contenuti, parlano della forza di questi

diritti, che sono appunto fondamentali, cioè non fondati ma fondanti. Dovremmo

pertanto distinguere tra i diritti umani in quanto si riferiscono al catalogo di questi

contenuti e i diritti fondamentali in quanto si riferiscono alla forza di questo catalogo.

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Questi diritti, essendo fondamentali, si impongono anche contro la forza dello Stato

che li dichiara.

Qui appare un paradosso su cui non si riflette abbastanza. È stato certamente

importante che ci sia stata, con l’ONU, la Dichiarazione universale dei diritti

dell’uomo. Sono state certamente importanti le tante dichiarazioni universali sui

diritti che si sono da allora susseguite. Sono state importanti le Costituzioni che

hanno in più occasioni catalogato quei diritti umani. È stata importante la

Dichiarazione contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU),

così come è stata importante la Carta dei diritti dell’Unione Europea. Ma poniamoci

il problema di queste dichiarazioni dal punto di vista di un pensare radicale. Ci

troviamo, qui, davanti a una sequenza inevitabile di paradossi.

Vediamo il primo paradosso. Nel momento in cui un qualsiasi Potere dichiara i

diritti umani e i diritti fondamentali sta esprimendo una posizione inconsapevolmente

contraddittoria. Questo Potere sta dicendo che i diritti da esso dichiarati esisterebbero

anche se esso non li dichiarasse (e che esisterebbero anche contro di lui). Questo

Potere, nel momento in cui dichiara questi diritti, contemporaneamente presuppone

che questi nascano nel momento in cui li dichiara. Consideriamo questa prospettiva,

che è propria del Potere che si auto-comprende in un orizzonte giuspositivistico: io

Potere dichiaro che esistono questi diritti fondamentali dal momento che li dichiaro e

contemporaneamente dichiaro che questi diritti esistono indipendentemente dalla mia

dichiarazione. A ben riflettere, siamo, a questo punto, davanti allo stesso paradosso

della verità di cui prima dicevamo, portata – questa volta – alla scala del diritto e

dell’esistenza umana, anzi degli esistenti umani. Parliamo di quella verità di cui

abbiamo detto che esisterebbe anche se nessuno la riconoscesse. In prospettiva

analoga, qui parliamo di quegli esseri umani che esisterebbero anche se nessuno ne

riconoscesse l’esistenza.

Noi non riflettiamo mai abbastanza su questa contraddizione – pragmatica

contraddizione –, pur virtuosa, su cui si regge ogni potere che dichiara i diritti

fondamentali. Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si afferma e si

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auspica che il potere di qualsiasi Stato, nel fondare questi diritti, dovrà dichiarare

diritti che esistono indipendentemente dal suo potere, al limite anche contro di lui.

Una tale concezione costituiva, come è noto, già all’epoca della Dichiarazione

universale del 1948, un principio eversivo nei confronti di ogni concezione

pubblicistica, che asseriva come suo dogma fondamentale il principio per cui ogni

diritto soggettivo promanava dallo Stato. La contraddizione, in questa prospettiva,

viene occultata dal Potere dichiarante. Ma la cosa più importante, a questo punto, è

farla venire alla luce. Molto più importante della conoscenza analitica degli stessi

diritti elencati. Il riconoscimento dei diritti fondamentali è un paradosso logico, del

quale bisogna prendere radicale consapevolezza. Dentro quella contraddizione è

nascosta una operosa verità.

Veniamo al secondo paradosso. Potrà osservarsi che accanto alla Dichiarazione

universale dei diritti dell’uomo ci saranno poi tante altre Dichiarazioni universali:

quella dei Paesi africani, quella dei Paesi islamici, quella dei Paesi orientali e così via.

Partendo da ciò potrà affermarsi che tutte le dichiarazioni universali sono

contrassegnate dalla loro storica e geografica relatività. C’è però, a questo proposito,

un punto da chiarire. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 è

stata importante perché ha dichiarato che esistono limiti al potere di uno Stato. Ci

sono, però, su questo punto molte altre diverse Dichiarazioni. Il fatto che ci siano

tante Dichiarazioni universali sui diritti dell’uomo non è tanto importante perché esse

dicano – in modo opinabile – questi diritti, ma perché tutte insieme riconoscono che

esiste un limite al potere di un qualsiasi Stato nei confronti degli esseri umani. Se

trasferiamo questo discorso sul piano del problema che concerne la verità, possiamo

dire che non è tanto importante l’affermare una determinata verità indipendente dal

consenso o dalla forza, ma è importante il fatto che si riconosca ci sia una verità, pur

non conosciuta o pur diversamente conosciuta, che costituisca un limite al Potere o

alla Forza. Non è importante che si sappia quale sia la verità indipendente dal

consenso e dalla forza, ma è importante sapere che questa verità c’è.

Corrispondentemente, non è tanto importante sapere quali siano i diritti soggettivi

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indipendenti dal consenso e dalla forza, ma è importante sapere che questi diritti ci

sono e che derivano dalla mera esistenza dell’uomo come tale, del singolo uomo

come tale, del singolo uomo ancor prima che abbia operato alcunché. Siamo, qui,

davanti allo stesso paradosso della verità, portato alla scala dell’umano: dei diritti

umani.

In realtà, va compreso che dentro la Dichiarazione universale dei diritti dell’uo-

mo è nascosta un’altra – ben più profonda – dichiarazione, con la quale si riconosce

che esiste una verità indipendente dalla dichiarazione stessa e che questa verità si

sostanzia nella verità di quel singolo uomo che esiste come tale e che reclama il

diritto di essere riconosciuto tale. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo

sta, in realtà, confessando che c’è una verità concreta che la precede, sostanziata

nell’esistenza del singolo uomo. Quella Dichiarazione, cioè, sta nel suo fondo

presupponendo un’altra dichiarazione, più importante di ciò che quella Dichiarazione

esplicitamente dice.

Quella dichiarazione dei limiti costituisce, perciò, una confessione. La

confessione concerne il fatto che, contro gli stessi interessi costitutivi del potere

dichiarante, si riconosce questo limite e che questo limite c’è. In questa luce, è

secondario il capire in che modo e secondo quali varianti culturali un tale limite

debba interpretarsi. Il modo di interpretare questa verità potrà essere anche

culturalmente variabile, ma riposerà pur sempre sull’evento – universalmente

riconosciuto – che questo limite c’è. Si tratta di un evento che non può e non deve

essere occultato.

Siamo al terzo paradosso, la cui individuazione è importante, per capire la

nostra epoca e per andare oltre di essa. Siamo abituati a contrapporre, secondo un

criterio superficiale e pericoloso, natura e storia. Anzi, dovremmo più radicalmente

dire: ontologia e storia. Secondo questa impostazione, ci sono dei diritti naturali e

eterni e c’è una storia mobile e relativa. Una tale prospettazione è superficiale e

negligente. La storia non va pensata secondo una modalità che la contrappone alla

natura o, se vogliamo, all’ontologia. La storia è da considerare piuttosto il modo

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attraverso cui, nello spazio e nel tempo, la natura – anzi l’ontologia – si fa storia: si

storifica. Potremmo dire: la “natura” necessariamente si storifica nelle modalità in

cui nello spazio e nel tempo appare. Nella storia si dà permanentemente la necessità

dello storificarsi di una “natura” che soggiace, o che si postula soggiaccia. Questa

“natura”, in realtà, è null’altro che il mondo della vita. Non si tratta della natura come

oggetto del discorso, ma del mondo della vita che precede, sottende e struttura ogni

discorso su di esso. In questa prospettiva, è astratto e fuorviante, espressione di una

cattiva astrazione, il contrapporre natura e storia, perché la natura si dà sempre e non

può non darsi in forma di storia. La natura necessariamente si dà nella forma mobile

della storia. Lo stesso “diritto naturale” non può non darsi – necessariamente si dà –

in forma storica. La storicità del suo darsi non esclude la sua naturalità, anzi la fa

apparire alla luce. La “natura” si dà, e non può non darsi, nella maschera della storia,

anche se si darà in forme diverse e contrastanti. La pluralità, quindi, appartiene a

quello stesso mondo dell’ontologia che la precede e la sottende, mentre solo in forme

parziali e provvisorie si dà.

La contrapposizione, pigramente ripetuta, tra natura e storia è perciò

contrapposizione negligente, che non ha pensato in modo radicale i termini che

contrappone. Siamo davanti al paradosso del necessario storificarsi di ciò che è

naturale e del necessario storificarsi di ciò che è ontologico. L’ontologico si storifica

in modo parziale e plurale; ma, d’altra parte, più importante della sua pluralità è il

fatto che rispetto al potere qualche cosa sempre imperiosamente resiste. Per altro

verso, però, quella pluralità non è arbitraria, o meglio non può ragionevolmente

ritenersi che lo sia. Questo plurale resiste, in quanto non è arbitrario e in quanto non

si dissolve e non può dissolversi in un arbitrario artificio.

Potrebbe certamente obiettarsi che, se quell’ontologia è plurale, potrebbe

diventare arbitraria e che, se diventa arbitraria, nessun limite più si ergerebbe nei

confronti di un qualsiasi Potere. Una tale obiezione, però, non riflette abbastanza sul

fatto che dalla storia stessa emerge il fenomeno per cui non qualsiasi arbitrio è

possibile e che, quando qualche forza una tale arbitrarietà abbia praticato,

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l’esperienza umana si è trovata consegnata davanti allo spettacolo di un intollerabile e

universale orrore. Ciò che dalla storia si apprende è che, da un lato, appaiono costanti

antropologiche, pur in varia forma manifeste, e che, dall’altro lato, quando alcune di

queste costanti sono state violate, universale e dura è stata la storica reazione. Dal

grembo stesso della storia emerge, pertanto, attraverso il sentimento di una catastrofe

comune, la resistenza della storia alla storia come pratica dell’arbitrio intollerabile. In

un tale storico succedersi di azioni e di reazioni l’evento fenomenologico delle

Dichiarazioni universali non è semplicemente un fatto storico fra gli altri, ma un

referto che la storia traccia su se stessa, riflettendo sui limiti di quanto è tollerabile

dall’uomo. Dal grembo della storia emerge uno storico referto, che è una tornante

riflessione su di sé. Qui la verità si rivela essere nient’altro che il confine.

Veniamo al quarto paradosso. Solo i paradossi – oggi – riescono a darci a

pensare, bucando la banalità della nostra inconsapevole narcosi. Si tratta di un

paradosso messo in scena dalla stessa scienza, anzi dall’insieme di tutte le scienze

nell’evolversi del loro straordinario progresso. Si parla del paradosso, di cui altrove

abbiamo già detto e che chiameremmo delle quantità cognitive decrescenti. Più la

scienza conosce, meno riesce a prevedere e a governare gli effetti che produce

conoscendo. Più le scienze conoscono, meno riescono a controllare e a governare gli

effetti che producono. Più velocemente mi indirizzo verso la meta, più la meta si

allontana.

Veniamo a un quinto paradosso, che potremmo chiamare delle quantità

antropologiche decrescenti. Più cresce la potenza delle scienze, più diventa piccolo il

numero di coloro che possono produrre effetti devastanti sul pianeta. Navighiamo

verso il limite all’altezza del quale un singolo uomo – una persona – potrà produrre

effetti devastanti sull’intero pianeta. Il crescere della potenza scientifica va,

paradossalmente, in direzione del crescere della potenza di un singolo uomo, di una

persona, indipendentemente dalla sua consapevolezza. Assistiamo a una radicale

democratizzazione del potere di dare la morte a tutti. La persona, in questo orizzonte,

acquista, all’interno della storia della complessità e della velocità generate dalle

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scienze, una paradossale nuova centralità in negativo. Si tratta di una scoperta

inquietante che può avere, rovesciata in modo virtuoso, una sua tragica bellezza. Una

catastrofica bellezza che può diventare un monito etico di tipo nuovo.

Veniamo a un sesto paradosso, che chiameremmo delle quantità spaziali

decrescenti. È il paradosso per cui da angoli sempre più piccoli e remoti dell’intero

pianeta possono prodursi effetti dirompenti sull’intero pianeta. Un tale fenomeno

rompe ogni gerarchia consolidata dei rapporti fra centro e periferia. Ogni punto del

pianeta può diventare, in qualsiasi momento, centro di effetti inattesi, mentre sta

all’occhio intelligente sapere che viviamo all’interno di questa permanente

possibilità.

Il singolo, che era, nelle concezioni consolidate, il semplice – e povero –

membro di una classe, può diventare in ogni momento decisivo dell’insieme.

L’importanza di un tale sguardo su questo sopravvenuto potere del singolo diventa

oggi necessità non semplicemente per una decisione etica, ma per una illuminazione

epistemologica, che investe la rottura del tradizionale modo di vedere il rapporto tra

oggetto e conoscenza.

Possiamo, a questo punto, intercettare un settimo paradosso, sul quale

dobbiamo imparare a meditare. Si tratta di un paradosso che può avere importanti

effetti virtuosi. È il paradosso per il quale noi possiamo meglio individuare il bene –

possiamo meglio identificarlo nei suoi confini – a partire dal massimo male. Lo

chiameremmo il paradosso del massimo male, ossia il paradosso della catastrofe

come rivelativa di verità.

Si tratta di un’impostazione che batte in breccia ogni forma di non

cognitivismo etico: ogni forma di relativismo inteso in senso banale. Viviamo in un

tempo in cui il discorso sui valori è preceduto da un atteggiamento di arbitrario

shopping delle scelte. In tale contesto, ogni scelta è, in quanto tale, puramente

intellettuale e arbitraria. E, in quanto arbitraria, esercitabile secondo il puro criterio

del piacimento. Si assume, rispetto ai valori, il punto di vista degustativo che

potrebbe aversi davanti a una vetrina di merci. Di pasticcini. Esiste in questo

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shopping un momento topico, in cui esso si rivela, attraverso il consumarsi di un

crollo, nella sua improvvisa verità. È il momento in cui noi siamo posti davanti al

fatto della catastrofe che ci accumuna e del dolore che l’accompagna. Qui la

catastrofe accomuna all’interno del suo evento quello stesso soggetto umano che

arbitrariamente sceglieva. L’evento della catastrofe – il massimo male – ci rivela che

le nostre arbitrarie preferenze erano solo esercitazioni da salotto, ignare della loro

strutturale deriva. In quel momento, a partire dal massimo male, si comprende

riflettendo a ritroso, sui contorni del bene che avevamo dimenticato e che l’insieme

salottiero delle preferenze aveva voluttuosamente offuscato, impedendoci lo sguardo

sulla deriva. A partire dalla catastrofe noi possiamo, a questo punto, identificare il

valore. Per dir così, l’invisibile valore si fa avanti, si fa sperimentare a partire dalla

visibile catastrofe. Costituisce una dura verità del mondo umano quella di dover

capire – troppo tardi – il bene a partire dal male. Hegel diceva che la filosofia arriva

troppo tardi. Noi dovremmo piuttosto dire che è la comprensione del valore ad

arrivare troppo tardi. Capire, infatti, non è il semplice capire: è capire l’importanza di

ciò che si è capito. Perciò, si può capire senza capire. Se non si capisce a partire dalla

possibile catastrofe, non si capisce affatto. La catastrofe è il limite oggettivo

all’arbitraria cecità verso il valore. Il relativismo inteso in senso banale rivela qui la

sua strutturale incapacità di capire. Semplicemente perché ignora il presupposto

radicale su cui è seduto e da cui prende alimenti: la forma della vita. Si tratta di un

presupposto radicale, che non è mero presupposto logico di ciò che si dice, ma

presupposto ontologico di ciò che in un dicente agisce e che gli consente di dire. Qui

la vera intelligenza si rivela l’intelligenza dei bordi.

Tutto ciò illumina in modo nuovo la stessa idea di comunità. La comunità,

infatti, non si comprende a partire dal fatto che, essendo noi in comunità, ci vogliamo

bene. Essa si comprende, invece, a partire dal fatto che noi, essendo in questo luogo

comune, siamo insieme esposti a un comune pericolo di cui la catastrofe potrà essere

la strutturale rivelazione: l’epifania. Potremmo, in questa prospettiva, parlare di una

comunità in sé e di una comunità per sé. Noi siamo comunità in sé, cioè esposti a un

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comune pericolo, anche se non lo sappiamo. Possiamo diventare comunità per sé

quando cominciamo ad accorgercene. In ogni caso – sia che siamo comunità in sé, sia

che siamo comunità per sé – non siamo comunità in quanto ci vogliamo bene, ma

siamo comunità in quanto siamo e ci percepiamo esposti alla possibilità della comune

catastrofe, la quale non è altro che la spia strutturale della individuale e comune

fragilità. Solo in seconda istanza – in quanto sappiamo di poter sperimentare la

catastrofe, in quanto subliminalmente la pre-sentiamo e in quanto empaticamente la

sentiamo – possiamo vivere il soccorrerci e il volerci bene, cioè il nutrire reciproca

volontà buona, promuovendo così l’essere in comunità all’ulteriore grado della sua

eticità.

L’esposizione alla catastrofe non è esorcizzabile a partire da arbitrarie

esercitazioni relativistiche. La catastrofe e l’esposizione alla catastrofe illuminano di

nuova luce le preferenze che fino a quel momento avevamo privilegiato,

collaudandole alla luce dei valori. La contemplazione della comune catastrofe

impedisce di vedere il colpito all’interno di una prospettazione indifferente. In quel

momento noi non siamo in atteggiamento relativistico, ma relazionale. La relazione

col dolore altrui non può essere relativizzata. Né può essere ridotta a disincarnata

noesi. In questo orizzonte di riferimenti, il massimo male diventa, paradossalmente,

istitutivo della possibilità non relativistica di rapportarsi con quella verità che si dà

alla luce come dolore.

Esiste un ulteriore paradosso: l’ottavo. Lo chiameremmo il paradosso del

particolare che sfonda. Siamo abituati a pensare che il particolare è come una mela

che, essendo fuori del canestro delle mele, attende solo di essere in quel canestro

deposta e classificata, semplice membro della classe delle mele. In questa prospettiva,

nella quale quel particolare è solo un membro generico dell’insieme, il mio compito

sarà solo quello di collocare la mela nel canestro della sua classe perché questa mela,

confondendosi fra le tante, sia finalmente considerata una delle tante. Oggi siamo

collocati nella condizione di pensare in modo radicalmente diverso. Noi possiamo

oggi, infatti, pensare che il particolare è il modo nuovo con cui comincia daccapo

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l’universale. Nessuno possiede interamente il canestro del genere, perché sempre

daccapo un particolare annuncia un nuovo modo di essere di quel genere, mai chiuso,

non concettualmente circoscrivibile in maniera definitiva, e pertanto sempre aperto a

nuove possibilità. Non si tratta però, in questa visione, semplicemente del guardare

alla novità di una variante all’interno di un genere, perché si tratta – ben più

radicalmente – di capire l’unicità di ogni esistenza concreta in quanto tale. Così come

non può darsi concetto del dolore, della paura e della morte, non può darsi concetto

dell’esistenza concreta, di questa mia esistenza concreta, di questa tua esistenza

concreta. Anzi, questa esistenza concreta è il livello più radicale in cui si annuncia la

stessa irriducibilità del dolore, della paura e della morte. In questo senso, il momento

esistenziale diventa l’occasione rivelatrice di un momento della logica, e non

viceversa.

Una tale impostazione significa, in realtà, avvicinarsi al problema dei diritti

umani in modo nuovo, cercando di andare in direzione di ogni singola persona,

esistenzialmente sempre nuova, vivente nella comunità sempre aperta degli umani.

Non bisogna confondere ciò che è logicamente comune con ciò che è

esistenzialmente comunitario: questo “comune” concerne gli enti logici; questa

“comunità” concerne gli esistenti reali. La persona non è uno schema. Se fosse uno

schema sarebbe misera cosa. Non è un che, ma un chi.

Una tale impostazione può essere guardata anche nella prospettiva evangelica,

se è vero, come è vero, che l’evangelo esprime sempre il punto di vista dell’ultimo.

La persona è il punto di vista della pietra scartata. Il vissuto della pietra scartata. La

fatticità della sua verità.

Il problema della verità, in questa luce, non è il problema della verità come

corrispondenza. La verità come corrispondenza ha da fare con il problema

dell’enunciato linguistico. O, tutt’al più, dell’approccio puramente noetico. La verità

non è solo la verità come corrispondenza. La verità è, innanzitutto, quel fatto che si

impone anche se io non lo riconoscessi. C’è una verità come fatto che si dà

indipendentemente dal mio vederla. Questa verità è la fatticità di un vissuto, che

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appare ancor meglio, ma non soltanto, nella fatticità del suo dolore. Se questo è il

dato di fatto da cui partire, dobbiamo saper capire che questa verità è il singolo. Non

nel senso che il singolo abbia la verità, ma nel senso che questo singolo è la verità, o

meglio, una parte importante e inevitabile di essa. Una tale verità si sottrae a qualsiasi

potere. Il singolo è il fatto del suo vissuto, l’atto del suo vissuto e l’evento del suo

vissuto. Ma l’evento del suo vissuto dice null’altro che l’evento del suo esistere

concreto, che non può essere ridotto a un concetto che ne dica. Ma non c’è solo un

esistere concreto. Ci sono tanti esistenti concreti. Ogni esistente è, in quanto tale, una

verità. E questa verità, che è la mia e la tua, nel momento del dolore mi tocca. Ti

tocca. Ci tocca. Se non ci tocca, la catastrofe è già accaduta. E, a questo punto,

daccapo ci toccherà.

Ciò significa che non c’è una sola verità, ma tante verità. E ciò, d’altra parte,

significa che ogni volta la verità comincia daccapo. Perché ogni volta la verità si dà

in una forma di cui non possediamo schema precostituito.

Non c’è legislatore, non c’è Assemblea dell’ONU, non c’è storia che possa

esaustivamente contenere ciò che si dà e si darà. Tutta la storia del mondo è, rispetto

a ogni nuova esistenza, in quanto manca di essa e delle altre, una misera cosa.

3. Una partita intellettuale del Novecento: Martin Heidegger e Jean-Paul

Sartre

Qui si apre la possibilità di percepire una partita intellettuale che si è giocata

nella prima metà del Novecento, soprattutto nel secondo dopoguerra, tra Martin

Heidegger e Jean-Paul Sartre. Martin Heidegger, anche se non sempre lo si coglie,

era un grande estimatore di Sartre. Lo testimonia anche una lettera a Sartre, a cui

Sartre non rispose (ne dà conto il curatore della Lettera sull’umanismo)3.

                                                                                                                         3 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1995.

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Quali sono gli elementi strutturali di questa intellettuale partita? Si sta

parlando, in realtà, del modo di intendere l’essere umano e la verità. Heidegger, come

è noto, sostiene, contro le posizioni esistenzialiste (di cui Sartre è portatore), che non

c’è il soggetto, ma l’Essere. E che perciò bisogna far centro non sul soggetto, ma

sull’Essere. Per Heidegger l’uomo è il pastore dell’Essere. Egli porta – nel suo esserci

– l’Essere. Egli coltiva l’Essere nel linguaggio. Se l’uomo tenta di definire quest’Es-

sere, arriva a ritenere che la verità sia semplice corrispondenza. Ma questo soggetto,

che non c’è perché non auto-consiste, deve essere inteso, nel suo esserci, come

l’Essere che si dà qui: in questo mio essere qui. Il Da-sein esprime, perciò, l’Essere

che in questo momento qui in me si dà. Io sono il suo esser-ci. Il suo essere qui. Io

sono il tramite nel quale passa e si disloca l’Essere. In questo senso, mentre il

soggetto pensa di proiettare davanti a sé l’oggetto, per Heidegger lo stesso soggetto è

qualcosa di gettato dall’Essere. Il soggetto è null’altro che l’esserci che l’Essere ha

qui in me gettato.

La posizione di Sartre è diversa. Egli parla di un’esistenza che precede

l’essenza, che non si riduce all’essenza. Il soggetto, in quanto esistente, c’è, mentre è

proprio l’Essere a mancare, potendosi esso dare soltanto nella forma del Niente. Del

Ni-ente. A ben riflettere, sia ad Heidegger che a Sartre manca qualcosa. C’è un quid

che manca a tutti e due. E che, mancando a tutti e due, può tenerli – d’altra parte –

insieme. Ad Heidegger manca la considerazione per cui, nel passaggio dell’Essere

nell’esserci, si dà un sé unico e autoconsistente, della cui unicità l’esserci stesso

testimonia. Di ciò appare insuperabile esperienza la traccia del dolore. Del dolore non

sono possibili duplicazioni. Non è possibile, cioè, un raddoppiamento noetico – tutto

intellettuale – del dolore. Nel dolore l’esserci afferma e sente la sua unicità. In Sartre,

invece, manca la traccia dell’Essere che nel soggetto si dà. La domanda che, a questo

punto, a Sartre è possibile rivolgere è: se soltanto nel soggetto si danno il pensare e il

sapere, che ne è mai di questo pensare e di questo sapere se nel niente non c’è? Non è

forse quel soggetto tracciato da un Essere che nel suo pensare, nel suo sapere – e

ancor più nel suo soffrire – si dà? La domanda che, a questo punto, è possibile

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rivolgere a entrambi, è: in questo dolore non accade per caso che nell’esserci vivono

contemporaneamente il suo esser tracciato dall’Essere e il suo esser tracciato dal sé, o

meglio il suo esser-tracciato come il suo medesimo sé?

Che cosa a Heidegger e Sartre sembra mancare? A entrambi, in realtà, manca

l’anello che li tiene insieme. L’anello che potrebbe tenerli insieme: la persona, il suo

atto di essere. Il suo auto-consistente atto di essere.

A ben riflettere, il dolore è l’evento nel quale, in modo più evidente che negli

altri vissuti, si rivela un nesso che è – fra più eventi – ponte e crocevia. Nel dolore si

vive la traccia inconfutabile del proprio unico essere e dell’Essere che nel proprio

esserci si dà. Nel dolore percepisco più nettamente che io unicitariamente sono-

tracciato, stando in un Essere da cui sono tracciato. La domanda impossibile che, a

questo punto, può formularsi è: sono io che vivo l’essere o è l’essere che vive me?

Nel mio vivere l’energia che mi precede e mi attraversa, sembra che prevalga

l’essere; nell’evento del mio pensare, sembra che prevalga io; ma in realtà, è sempre

impossibile, in questo nesso, un taglio di spada che separi. Se guardiamo all’evento

del dolore, qui un chi vive la frontiera fra l’io e l’essere, in cui intanto vibra ogni altro

io. È ciò che accade nel dolore e nel mio essere memoria (essere memoria, non

semplicemente aver memoria). Non solo. Nel dolore io vivo – posso vivere – l’evento

dell’incoercibile risonanza con l’altro, che dal dolore mi chiama e che nel dolore

sento di chiamare. Se vedo davanti ai miei occhi l’altro sgozzato, questo evento

incoercibilmente mi devasta. Il dolore è l’evento in cui si dà la triplice traccia della

propria unicità, dell’essere e dell’altro. Attraverso il dolore si accede a

quell’esperienza unicitaria che è l’esperienza della propria persona come atto di

esistere del sé, dell’essere che nel sé abita e dell’altro, che nel proprio sé e nell’altro

risuona. In Heidegger c’è l’Essere e c’è l’esserci, ma manca la persona, perché manca

la singolarità che si auto-costituisce nella sua unicità. In Sartre c’è il soggetto e c’è il

Niente, ma manca la persona, perché manca l’Essere che in quella persona si dà.

Nell’uno e nell’altro manca la persona. Forse perché a entrambi manca la medesima

cosa: una rigorosa meditazione sul dolore.

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4. Per una prospettiva che rovescia

Crediamo che la Chiesa debba ancora molto meditare su questo punto, perché

la meditazione sulla persona è cosa troppo preziosa per lasciarla ai soli credenti. La

persona è una ricchezza da cui possono – speculativamente e esistenzialmente –

imparare credenti e non credenti. Troppo spesso i non credenti non parlano di

“persona” solo perché ritengono che l’idea di persona sia un semplice affare culturale

per credenti.

La persona è l’evento che, sussistendo, in me si dà, di cui io non dispongo, in

cui, anche attraverso il mio dolore, io testimonio la mia unicità, ma sapendo che io

sono il luogo in cui passa e si rivela l’Essere. Per dir così, l’Essere si annuncia in me,

ma si annuncia a mie spese. Io contribuisco, con la spesa del mio dolore, all’annuncio

dell’Essere. La persona è, quindi, il luogo dell’apertura dell’Essere che, sussistendo

nel mio essere, apre sull’ente di cui può disporre e/o di cui non può disporre. La

persona diventa la verità, ma questa verità, che è la verità dell’essere ciò che sono, in

cui si apre l’Essere che mi precede e mi sottende e che si apre al mondo e dice sul

mondo nel quale è.

Questa verità che in me si dà è triplice. Come in una formula trinitaria. Esiste,

in questa verità, una singolare trinitarietà, tutta sempre daccapo da pensare, a partire

da me. Questa verità che io sono – e nel cui orizzonte ognuno può dire “io sono” – è

trinitaria, perché è la verità di chi dice quel che dice e che, sentendosi unico, esiste e

soffre. È la verità che dentro di me si rivela, di cui nella mia unicità sento, di cui

nemmeno io dispongo, alla quale pure dò voce, che è la mia profondità, mentre è, al

tempo stesso, la verità della relazione in cui sempre sono – risuono, empaticamente

risuono – con l’altro: relazione costitutiva, e non semplicemente aggiuntiva, del me,

là dove quella che è la costitutività e non l’aggiuntività della relazione dice che c’è un

essere di quella persona che è nel mancare. Un mancare che è, in realtà, un chiamare

e un esser chiamati. Questo mancare è un essere, nel senso che è un segreto aspirare

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a rivelare altri aspetti di sé alla luce della relazione con l’altro: è un apofatico essere

che, dandosi nel mancare, è in attesa di tante nuove possibili relazioni in cui svelare

parti di sé, mentre segretamente tende a svelare parti nascoste nell’altrui mancare. La

verità è, contemporaneamente, nel sé e nella relazione col sé. Io posso offendere la

verità anche quando, mentre dico il vero come contenuto, víolo la relazione con

l’altro ledendo la sua dignità. In questo caso, io sto affermando la verità come

contenuto nello stesso momento in cui la sto violando come relazione. Ciò può

accadere anche nell’agire. Posso regalare a qualcuno qualcosa non per fargli del bene,

ma per stracciare la sua dignità.

Questa verità, che è trinitaria in modo radicalmente laico e che si sviluppa nelle

tre coordinate dell’unicità, del legame e della profondità, è una verità fondamentale

nel senso che si pone come limite a ogni sguardo conoscitivo e a ogni potere

manipolante. In questo senso, questa verità triplice – l’Essere che in me si dà,

l’autenticità che in me parla e la relazione in cui risuono e risuona – rivela un quarto

livello, che tutti e tre attraversa e congiunge: è la verità come contro-limite nei

confronti di ogni pensiero e di ogni agire, e quindi di ogni Potere e di ogni Agire.

Non si tratta di una verità generica. Quando Pilato si trova davanti a Gesù e gli

domanda che cosa sia verità4, trova davanti a se stesso una risposta muta, che gli

appare nella forma della presenza di un uomo, di una persona che davanti a lui è

verità. Non verità enunciata, ma in carne e ossa. Verità è colui che in quel momento è

davanti a lui. Inerme, povero e solo. Pilato cerca che cosa sia vero nel senso

dell’aggettivale, ma si trova davanti a una persona, che è vera non per la sua

aggettivalità, ma per la sua sostanza. Quella persona è un limite al suo potere: è la

verità del suo essere persona. Si tratta di una verità a lui così evidente, che egli sente

la necessità urgente di lavarsene in pubblico le mani. Qui appare tutta la miseria di

una democrazia fondata sul principio della maggioranza, o del consenso, per quanto

straordinariamente esteso fino a poter essere plebiscitario. Una democrazia

puramente maggioritaria – in cui, cioè, la maggioranza pretenda di poter decidere

                                                                                                                         4 Sul punto vedi A. Milano, Quale verità, cit.

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qualsiasi cosa – è una tirannide della maggioranza. La verità è sempre un limite al

potere. Sia politico, sia giuridico, sia scientifico, sia noetico. Anche qui, la verità è

nient’altro che confine.

I diritti umani, guardati in questo orizzonte, ossia in quella caratura

fondamentale che non si riduce al loro contenuto, sono un modo di dirsi e d’imporsi

della verità. L’essere i diritti fondamentali si riferisce, in questa luce, non al loro

contenuto, ma alla loro forza: fondante e non fondata. Come la verità è tale

indipendentemente da chi vi consenta, così i diritti fondamentali sono un limite al

potere. La verità è un limite al potere, come un limite al potere è verità. Si tratta non

di un limite generico, ma specifico, carnale, qui e ora collocato. Consistente nel fatto

di quel vissuto che io sono e che, come me, qualsiasi altro io è.

Non basta. C’è la verità di questo qui e ci sono le verità di questi qui. E c’è la

verità che tiene insieme tutte queste verità, senza mai esaustivamente risolversi in

nessuna di esse. Una tale verità si rivela anche nella possibile catastrofe che si

annuncia quando è violata la comunità in cui abita ognuna di quelle verità. Non si

tratta di una comunità operosa, ma di una comunità che le precede, le sottende e le

attraversa, rivelandosi in ognuna di esse. Dove una sola è violata, è violata l’intera

comunità. Perché è violata la persona che da quella comunità è indivisibile e in cui

quella comunità necessariamente si dà.

Si rovescia, così, ogni prospettiva sulla giustizia e sulla dignità. Non abbiamo

più da fare con uno schema di dignità e/o di giustizia calato dall’alto da parte di un

Potere che lo dichiara. Abbiamo, invece, da fare con le verità dei singoli in cui

necessariamente abitano la giustizia e la dignità. In questa prospettiva, la giustizia

non è uno schema intellettuale, perché si risolve nel riconoscimento delle singole

libertà e dignità, che quello schema – nella forma di limiti – precedono ed eccedono.

Ogni persona, in quanto esistente sempre nuovo, costituisce pertanto il limite

invalicabile – il contro-limite – nei confronti di ogni Potere, e di ogni Sapere che in

quel Potere vive radicato. Qui si coglie la provvisorietà strutturale di ogni schema che

pretenda dire quella giustizia e quella dignità. Anzi, più radicalmente, qui si coglie la

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contraddittorietà di ogni Potere che intenda dichiarare l’esistenza di diritti

indipendenti dal suo potere, da un Potere che, contemporaneamente, si presenta come

costituente. Un tale limite, anche se si esprimerà in forme storicamente diverse, sarà

limite perenne. Ciò che va intanto, speculativamente capito, è che cosa tiene insieme

quelle forme storiche diverse.

Stiamo parlando non della dignità dell’uomo in quanto specie, ma della dignità

di ogni singolo uomo, distinto da ogni altro, che è – in quanto tale – persona. Se si

parlasse, infatti, della dignità dell’essere umano come specie, potremmo

paradossalmente sostenere che anche i nazisti ne possedevano il senso, facendo

consistere tale dignità in quella dell’essere umano bianco di razza ariana. La dignità

esprime il significato dell’axios, ossia di ciò che è principiale, fondante. Di ciò che ha

la forza di fondare e che è adeguato a fondare. L’axios ha da fare con l’assioma, che è

il principio fondante. Tolto l’assioma, l’intero edificio crolla. In questa prospettiva, è

quel singolo il fondamento dell’edificio umano. Ogni singolo, nessuno escluso, a

partire dall’ultimo. Anche se non fosse ancora nato. Rispettare l’inviolabile di ogni

singola persona, nessuna esclusa, a partire dall’ultima, non è affermazione enfatica,

perché ha un preciso contenuto etico e metodologico, puntualmente chiarificabile e

vincolante. Una tale prospettiva ribalta quella per cui – pur nelle migliori intenzioni –

si sostiene l’etica di una progressiva inclusione degli esclusi. La vulgata

dell’inclusione va, in questa diversa visione, rovesciata. Non si tratta di includere

progressivamente gli esclusi. Non si tratta di rimediare, nel bus planetario degli

inclusi, uno strapuntino per il prossimo disperato della lista. Si tratta, invece, di

ripensare e garantire l’universo umano a partire dall’inviolabilità degli ultimi. Non la

sovrabbondanza dei diritti deve progressivamente includere l’ultimo, ma la

salvaguardia dell’ultimo deve poter consentire il formarsi eventuale di una qualsiasi

sovrabbondanza. In questo orizzonte, la singola esistenza, in quanto limite

all’ordinamento e in quanto inseparabile da ogni altra esistenza, è direttamente bene

comune.

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Se vediamo questa prospettiva dal punto di vista religioso, ci accorgiamo della

profondità dell’affermazione per cui la pietra scartata può essere la testata d’angolo.

Anzi, è la testata d’angolo. Si tratta della dignità di un esistente che è un fatto e non

semplicemente un valore.

Un medesimo discorso vale per la giustizia. Essa non è un concetto, ma è l’idea

attraverso cui si va – sempre daccapo, all’interno di un universo comune, mai esaurito

e mai esauribile – in direzione della dignità di ognuno. Una tale idea della giustizia si

risolve, in realtà, nell’alfabeto delle singole libertà e delle singole dignità. Questa

giustizia ha, perciò, sempre da fare non con un concetto, e nemmeno con una idea,

ma con una domanda di giustizia che sorge dal bisogno concreto delle singole

identità. Si squaderna qui il limite di tutti gli ordinamenti del mondo là dove questi,

cercando di dichiarare i diritti fondamentali, non si avvedono di dimenticare il

paradosso che loro si offre come perennemente da pensare.

Possiamo, a questo punto, pervenire al nodo nascosto e impensato all’interno

dello stesso aforisma di Kant, «il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me».

Qui è necessario capire che la stessa legge morale vive radicata nella diversificazione

di ogni singola dignità. È lo stesso cielo stellato degli ordinamenti umani che deve –

ogni volta daccapo – piegarsi davanti al limite di ogni singola dignità.