I delitti della maschera

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Mirco Vaccaro, Giallo

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Mirco Vaccaro

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I DELITTI DELLA MASCHERA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Mirco Vaccaro ISBN: 978-88-6307-321-8

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 da Digital Print

Segrate – Milano

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Capitolo 1 - L’imboscata

Faceva freddo. Molto freddo. Quella era senza dubbio la notte più gelida del novembre 1944. Nel bosco, acquattati tra gli arbusti, gli undici uomini della squadra partigiana, anche se ben coperti, quasi tremavano, cercando di stare vicini tra di loro per scaldarsi un po’. Il loro respiro si condensava all’istante e formava, appena fuori dalle loro labbra, piccole nuvolette di vapore dalle forme più svariate. «Posso fumare?» chiese a un tratto uno di loro, un ragazzo di trent’anni con una barba nera incolta. «Sarebbe meglio di no» rispose subito il loro caposquadra Alberto Ambrosiani. Naturalmente tutti parlavano sotto voce, e siccome i due erano molto distanti, il ragazzo con la barba non capì. «Come?» «Ho detto» ribadì Ambrosiani «che sarebbe meglio evitare di fumare quella robaccia. Non è il momento di essere intontiti.» Il capo squadra sapeva che il ragazzo avrebbe voluto fumare erba. «Va bene, va bene. Ho capito. Lasciamo perdere.» Ambrosiani era sempre stato orgoglioso di una cosa: i suoi ragazzi non disubbidivano mai. Non potevano permetterselo, in tempo di guerra, e meno che meno in situazioni come quella. Lui e la sua squadra erano appostati in mezzo agli arbusti di quel bosco da due ore almeno, in attesa. I tedeschi sarebbero passati da quelle parti, senza ombra di dubbio, perché quello era, nel contempo, il percorso più breve e più facile per loro. La soffiata era arrivata al loro rifugio il giorno prima: era stata un’autentica fortuna, perché quella squadra tedesca stava cercando proprio loro per farli fuori. In quel momento, la situazione era esattamente invertita. Erano i partigiani che avevano teso la trappola ai tedeschi «Fra poco dovrebbero passare…» disse Ambrosiani. «Io lo spero» rispose un altro soldato, il più giovane del gruppo «non ce la faccio più a stare qui rannicchiato con questo freddo.» «Resistete, figlioli. Ancora un po’. Le armi sono cariche?» Tutti risposero con un “sì” all’unisono. «Cercate di non sprecare proiettili. Abbiamo un solo caricatore a testa.»

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«Quanti sono?» chiese quello che, dopo Ambrosiani, era il più anziano del gruppo. «Dovrebbero essere una quindicina, più o meno. Il messaggio giunto ieri al nostro rifugio era tutto frammentato. La radio si sentiva parecchio male. Almeno, sono riuscito a capire con chiarezza che dovevamo levarci da lì, e anche alla svelta. Silenzio, adesso. Attenzione anche al più piccolo rumore.» La notte stava scorrendo in modo lento, ogni minuto era uguale all’altro. Anche il vento taceva, e in un certo senso era un bene: i passi in avvicinamento si sarebbero sentiti con maggiore chiarezza. La vegetazione in quel punto era abbastanza fitta, per cui non era stato difficile trovare un punto in cui nascondersi in modo tale da confondersi con gli alberi. Ambrosiani era stato molto chiaro: nessuna luce, durante lo spostamento, nonostante fosse notte. La delicatezza e la riservatezza dell’operazione non lo permettevano. Se i tedeschi li avessero notati, vuoi per superiorità numerica vuoi per disponibilità di munizioni, non avrebbero avuto scampo. Erano passati circa venti minuti da quando l’ultimo dei partigiani aveva aperto bocca, durante i quali nulla si era mosso. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Uno di loro si era assopito, tanto che il suo vicino se n’era accorto e gli aveva assestato una gomitata per svegliarlo. «Ma che cavolo fai? Dormi?» «Non dir fesserie. Forse è calata l’attenzione per qualche istante, ma niente di più.» «Se succedesse anche agli altri, i tedeschi avrebbero di che divertirsi. Sarebbe come dire “ammazzateci tutti”.» «Zitti voi due» intervenne Ambrosiani «mi è parso di sentire qualcosa, là in fondo sulla sinistra.» Tutti tesero le orecchie, aspettando di sentire altri rumori. In effetti, qualcosa udirono. Dopo circa un minuto, durante il quale ognuno di loro udiva soltanto il lieve respiro dell’altro, quei rumori si fecero più forti: rametti spezzati, foglie secche schiacciate, forse anche fango fresco calpestato, visto che fino alla notte prima aveva piovuto in abbondanza. Uno di loro, quello che avrebbe tanto voluto fumare l’erba, iniziò a sudare. Qualche goccia di quell’amaro liquido scese dalla sua fronte: la temperatura era, a malapena, di un grado sopra lo zero, e lui sudava. La verità era che la paura e la tensione in corpo potevano fare molto più del freddo. Con molta probabilità, anche se i gradi fossero stati trenta sotto zero, avrebbe cominciato a sudare comunque. Tutti erano pronti, le mitragliette cariche in pugno: Ambrosiani, nella sua mente, aveva cominciato il conto alla rovescia. Sapeva, dentro di sé, che tutti quei rumori appartenevano ai passi dei

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tedeschi in lento avvicinamento. La manciata di secondi che seguì fu la più lunga: il capo squadra si girò verso i suoi soldati, che aspettavano solo il suo via per saltar fuori dal nascondiglio. Il comando arrivò: undici uomini uscirono dagli arbusti secchi, con uno scatto che avrebbe sorpreso chiunque non fosse stato più che all’erta. I tedeschi, in quel momento, proprio non lo erano, visto che tutta la loro attenzione era rivolta a come procedere al buio per cercare di capire dove mettere i piedi. Negli attimi che seguirono il silenzio, che fino a quel momento aveva regnato sovrano, fu rotto da brevi ma numerose raffiche di mitra che illuminarono la zona con le loro scintille. Una volta che il bosco assorbì l’eco dell’ultima deflagrazione, il silenzio tornò di nuovo così come era svanito. Nessuno parlò subito. Ambrosiani fu il primo a rompere il silenzio. Chiamò, per nome, tutti i suoi uomini, che risposero tutti dandogli un grande sollievo. Un paio di loro si era buttati a terra per non essere colpiti da alcuni dei pochi proiettili che i tedeschi avevano tentato di sparare per difendersi, ed erano riusciti a rimanere illesi, come gli altri loro compagni. Sembrava quasi un miracolo che nessuno fosse stato ferito. I ragazzi avrebbero voluto allontanarsi subito da lì per andare verso un altro rifugio partigiano che si trovava poco distante ma Ambrosiani li fermò, questa volta parlando non più sottovoce: «Prima di andare perquisiamo i corpi di questi maledetti» disse. Gli altri annuirono malvolentieri. Ma, in fin dei conti, il capo squadra voleva che si facesse così, e nessuno di loro poteva permettersi di rifiutare. Tutti i ragazzi, e anche Ambrosiani, cominciarono a perquisire i cadaveri. Alcuni trovarono diversi caricatori e li presero, appropriandosi anche dei mitragliatori che gli ufficiali tedeschi possedevano. «Prendete tutto ciò che trovate e che ritenete utile. Tanto, per fortuna, a loro non serve più nulla.» La perquisizione durò pochi minuti: i soldati morti non avevano granché con loro. Tuttavia Ambrosiani, tastando la divisa di uno di questi, sentì un oggetto duro che stava in qualche tasca interna, all’incirca all’altezza dell’addome. Si chinò sul corpo, sbottonò la divisa intrisa di sangue e cercò la possibile tasca. La trovò subito: dopo aver aperto la cerniera, afferrò quella che al tatto sembrava una specie di scatoletta, e la estrasse. Si trattava di una sorta di cofanetto, di un colore che ad Ambrosiani parve molto scuro, forse addirittura nero ebano. Lo rigirò tra le mani, cominciando a scuoterlo, e sentì che all’interno c’era qualcosa. Lo avvicinò agli occhi per vederlo un po’ meglio, anche se in quel bosco, con il buio e con la luce della luna che

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filtrava tra i rami molto a fatica, era difficile. Le sue dita vennero a contatto con un tasto: di istinto Ambrosiani lo premette, facendo scattare all’istante una piccola serratura. «Signore!» Lo chiamò uno dei suoi soldati «qui abbiamo finito. Pensiamo che sarebbe meglio muoversi.» «Un momento soltanto, ci muoveremo tra meno di un minuto.» Il capo squadra aprì il cofanetto e si trovò davanti agli occhi una strana pietra, grande all’incirca come un pugno. La tirò fuori per vederla meglio, e notò che luccicava fortemente. Alcune porzioni della sua superficie erano quasi del tutto lisce, come fossero state levigate. Potrebbe anche essere qualche cosa di prezioso pensò non tutte le pietre possono brillare come questa. Decise di mettere la pietra in una tasca della sua giacca, dopo averla richiusa nel cofanetto. Infine si alzò in piedi e raggiunse i suoi uomini che lo aspettavano poco più in là. Nessuno di loro aveva visto che il cofanetto, con il suo contenuto, era finito nelle tasche del loro capo. «Ha trovato qualcosa, signore?» «No, a parte una piccola scatola senza valore che ho buttato via perché non serve a niente» mentì Ambrosiani «dobbiamo viaggiare con lo stretto indispensabile. Voi cosa siete riusciti a recuperare?» A nome di tutti rispose il soldato che prima dell’attacco avrebbe voluto fumare: «Sette mitragliatori da mettere a tracolla e nove caricatori.» «Meglio di niente. Muoviamoci adesso. Mi raccomando: compatti e attenti.» Ambrosiani si mise in testa al gruppo, che si mosse verso Nord-Est. Il passo di tutti quanti era spedito, e non c’era affatto da stupirsi: il fatto di aver eliminato una squadra tedesca non significava affatto aver terminato i brutti incontri. Inoltre, camminando con quel ritmo, tutti quanti avevano cominciato a scaldarsi davvero. Passò un’ora e mezza circa dall’inizio della marcia: nessuno di loro si era ancora fermato un attimo, e Ambrosiani si accorse che una pausa era necessaria, visto che qualcuno cominciava a restare indietro. Giunsero in un punto pianeggiante: gli alberi iniziarono a diradarsi e il caposquadra si fermò dicendo ai ragazzi: «Facciamo una pausa. Credo che tutti quanti ne abbiamo bisogno.» «Possiamo mangiare un po’ di frutta, signore?» chiese uno dei ragazzi che si trovava quasi in fondo alla fila. «Se la trovate, figlioli…» «Si guardi intorno, signore. Siamo finiti in mezzo agli alberi da frutto.» Ambrosiani, con una rapida sbirciata intorno, si rese subito conto che era vero. In quel momento gli venne in mente che sarebbe stato molto

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imprudente continuare il viaggio con addosso l’oggetto da poco recuperato. Decise di allontanarsi qualche minuto dai suoi uomini per cercare un buon posto dove nasconderlo. «Do un’occhiata qua intorno» disse mentre si allontanava «voi non muovetevi. Mangiate tutta la frutta che volete, nel frattempo. Al mio ritorno riprenderemo la marcia.» «È sicuro di voler andar da solo, signore?» «State tranquilli. Mi allontanerò pochissimo.» Ambrosiani procedette a ritroso lungo il percorso appena fatto e si fermò dopo poche decine di passi, nel punto in cui gli alberi da frutto lasciavano il posto ad altro tipo di vegetazione. Estrasse il cofanetto di tasca e iniziò a cercare un punto dove poterlo nascondere: guardandosi intorno vide un albero che aveva un tronco più grande degli altri. Non seppe riconoscerlo, e di certo non c’era il tempo per cercare di capire di quale specie si trattasse. Camminò fino alla base dell’albero, si chinò e cominciò a scavare una piccola buca a mani nude, in quella terra che fortunatamente non si rivelò molto dura. Scavò fino a scendere di circa un metro, poi tirò fuori da un’altra tasca una pezza di panno rosso: prima di avvolgere la scatoletta di metallo al suo interno, la aprì un’ultima volta, tirando fuori la pietra e girandola qualche istante tra le mani. Luccicava davvero molto, tanto che Ambrosiani si convinse sempre più del suo valore. Dopo averla riposta avvolse la scatola nel panno rosso e la calò nella buca ricoprendo il tutto molto velocemente. Fatto questo prese un grosso mucchio di foglie secche e le adagiò in quel punto. C’era soltanto un’ultima cosa da fare: apporre su quell’albero un segno di riconoscimento. Prese dalla sua cintola un piccolo coltello e iniziò a incidere le sue iniziali sulla corteccia, lavoro che gli rubò qualche minuto. Infine ripose il coltello e si alzò in piedi, sbattendo un paio di volte le mani per ripulirle dalla terra, per quanto possibile. Volse le spalle all’albero per tornare dai suoi uomini: sarebbe tornato a riprendersi il cofanetto a guerra finita.

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Capitolo 2 - Le lettere Venne la fine della guerra, nell’aprile 1945. Ambrosiani, viste le condizioni generali in cui la città versava, pensò che non era il momento di andare a recuperare subito l’oggetto nascosto sotto terra. C’era bisogno di aiuto e di assistenza, da prestare soprattutto a coloro che, dato l’esito disastroso del conflitto, avevano perso tutto. Ma, nonostante questo, il pensiero era sempre ai piedi di quell’albero, sotto quell’umida terra che nascondeva un oggetto presumibilmente assai prezioso. Ogni giorno Ambrosiani si riprometteva di tornare in quel luogo per recuperare quanto sepolto. Ma tutte le volte che pensava di mettere materialmente in atto il suo desiderio, qualcosa o qualcuno glielo impediva. La morte del padre, la necessità di trovare un lavoro e una dimora fissa, e altre mille preoccupazioni non gli davano mai la possibilità di porre in essere la sua intenzione. Il tempo passò e giunsero i primi anni cinquanta. Finalmente, un giorno di aprile del 1953, dopo aver pensato bene a ciò che doveva fare, riuscì ad avvicinarsi alla boscaglia dove aveva nascosto il bottino recuperato in tempo di guerra circa nove anni prima. Avvicinarsi. Senza riuscire a fare altro: questa fu la pessima sorpresa che Ambrosiani ebbe quando giunse sui luoghi della guerra. Il terreno dove aveva nascosto pietra e cofanetto era diventato proprietà privata, insieme a buona parte dei terreni circostanti, a causa di una villa che era stata ristrutturata poco dopo il termine del conflitto. I proprietari della nuova dimora, i signori Cambiaso, estremamente ricchi e benestanti, avevano acquistato anche le terre intorno, facendo cintare il tutto con una spessa rete metallica alta più di due metri. In effetti Ambrosiani non si rese subito conto che sarebbe stato impossibile recuperare il cofanetto. Risalendo un sentiero, arrivò davanti alla rete metallica, attraverso la quale riuscì intravedere, in lontananza, quello che sembrava essere il “suo”albero. Non riuscendo a passare da quella che era la via più breve, tentò di cercare altre vie di accesso, ma ben presto si rese conto che non sarebbe stato possibile avanzare più di tanto nella

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boscaglia. Tornò allora sulla strada, e fermò una donna sulla cinquantina chiedendo: «Sia gentile, signora, stavo passeggiando nelle colline qui intorno, ma purtroppo non riesco a seguire il percorso che mi sono prefissato, perché qualunque sentiero io imbocchi, a un certo punto mi trovo davanti a una rete metallica che mi sbarra il cammino. Potrebbe indicarmi se esiste una via di accesso?» La donna si rese subito conto che l’uomo non sapeva nulla dei proprietari della vecchia villa, e rispose: «Prima che i signori Cambiaso facessero ristrutturare la vecchia villa sulla collina, quei boschi erano accessibili a chiunque, e da qualunque sentiero.» «E adesso?» «Da quando i lavori sono stati ultimati e i signori sono diventati i nuovi padroni, buona parte del terreno circostante è stato chiuso al passaggio pubblico, in quanto annesso alla villa su richiesta dei Cambiaso stessi. Certo, avranno sborsato parecchi quattrini, ma da quel poco che so, il denaro per loro non è mai stato un problema.» «Bè, la ringrazio molto» concluse Ambrosiani «buona giornata.» «A lei.» La donna si allontanò e lui si riavviò alla sua vecchia automobile, pensando che non sarebbe più riuscito a recuperare quella pietra. Il rischio era troppo alto: non era proprio il caso, a quarant’anni passati, di finire in galera passando per ladro. Che resti pure dov’è, pensò, prima di allontanarsi da quei luoghi, magari qualcuno più fortunato di me, nel tempo, troverà quel cofanetto. Ai giorni nostri. Anche quella domenica era terminata. Per Guido Valle, trentacinque anni, ciò significava l’inizio di un’altra lunga, interminabile settimana lavorativa. Faceva il meccanico nell’officina di suo padre, che si trovava nella zona di Prato, all’estrema periferia della città di Genova. Non che il mestiere gli fosse mai interessato molto, ma in un periodo in cui altri posti di lavoro non davano la certezza di poter avere un futuro solido, si era accontentato. Suo padre, il signor Ermete, era il titolare dell’officina da circa quarant’anni: l’aveva aperta in posizione molto più centrale, ai tempi, ma successivamente si era deciso a spostarla in periferia dove il terreno del lavoro era molto più fertile. Difatti, dove lui aveva pensato di trasferirla non c’era nessun’altra officina di quel genere. Per questo Ermete era conosciuto da tutti nella zona di Prato e

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dintorni: oltre che essere una persona estremamente cordiale, era anche molto capace nel suo lavoro. Guido, forse anche a causa dell’esperienza non troppo sviluppata, non era ancora all’altezza di suo padre, ma si sforzava per dare sempre il massimo. Nell’officina lavoravano in tre: lui, suo padre e un suo zio acquisito dalla parte di sua madre. La mattina in cui ebbero inizio i fatti che sto per narrare, Guido giunse al lavoro un po’ più tardi del solito per via di un lavoretto che sua madre gli aveva chiesto di sbrigare in casa. Ermete non borbottò più di tanto, benché non sopportasse i ritardatari. «Tua madre trova sempre il cavillo dell’ultimo minuto» disse a Guido appena entrò in officina «almeno sei già in tuta da lavoro. Bravo, figliolo.» «Buondì, papà» rispose lui come se non avesse sentito il commento «cosa c’è da fare di urgente?» «Dovresti sistemare quella Lancia lì fuori» disse Ermete indicando una vettura blu parcheggiata appena davanti alla porta scorrevole dell’officina «gomme e freni davanti, si è raccomandato il proprietario.» «Bene. E che mi dici di quel rottame?» chiese Guido, alludendo a una vecchia Fiat che si trovava sul ponte sollevatore. Ermete stava per replicare, ma non ne ebbe il tempo: lo zio, che si occupava della contabilità nell’ufficio ricavato sulla sinistra dell’officina, uscì dalla stanzetta su tutte le furie, inveendo contro il nipote: «Inetto che non sei altro! Un rottame quello? Ma ti rendi conto che stai offendendo un pezzo storico?» Sia Ermete che Guido sorrisero, pensando che il loro parente era rimasto fermo con il tempo ad almeno trent’anni prima. «Zio Nino» tentò di rimediare Guido, alla gaffe appena fatta, dicendo la prima frase balenata nella sua mente «non sapevo fossi già qui.» «Storie. È da una vita che io sono qua prima di voi due alla mattina. Sai almeno di che modello si tratta, già che parli tanto?» Guido scosse la testa, arrendendosi di fronte alla cultura che suo zio aveva in merito a veicoli d’epoca. «Ti informo» riprese Nino, prima di tornare ai suoi conti in ufficio «che si tratta di una rarissima Fiat 850 coupè del 1965.» Non aggiunse altro e girò i tacchi. In effetti Guido, osservando meglio quell’automobile d’epoca, non poté non apprezzarla almeno un poco: aveva le sembianze di una piccola spider, senza tettuccio apribile, con un colore blu scuro talmente in perfetto stato da far sembrare che fosse uscita dalla fabbrica una settimana prima.

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«Mi occupo io di quella… ehm… macchina d’epoca» disse Ermete per concludere la conversazione. Guido annuì, poi prese le chiavi della Lancia per portarla all’interno dell’officina e iniziare a lavorare. Come ogni giorno, i tre chiusero l’officina alle sette. Lo zio Nino, che ormai aveva dimenticato il piccolo malinteso della mattina, li salutò con un sorriso e si avviò verso casa sua, nel quartiere del Giro del Fullo, situato pochi chilometri più a valle rispetto a Prato. Guido e suo padre invece abitavano proprio in quella zona, vicino al capolinea degli autobus, a circa trecento metri dall’officina. Nonostante la sua età Guido era ancora in casa con i genitori, ma di lì a breve avrebbe traslocato in un appartamento poco distante dalla sua attuale dimora. La signora Wanda, madre da trentacinque anni e moglie da quaranta, li stava aspettando seduta in cucina a leggere il quotidiano con il cibo già caldo in tavola e con una lettera indirizzata a Guido. Dopo una doccia calda, tutti e tre si prepararono a consumare la cena. «È arrivata questa, caro» gli disse la donna non appena i due si furono seduti a tavola. «Chi la manda?» «Non lo so, non è indicato il mittente.» «La leggerò dopo mamma, con calma.» Terminata la cena, mentre i genitori guardavano il notiziario, Guido, sdraiato sul letto di camera sua in tenuta notturna, aprì la lettera ricevuta. Il suo contenuto non era granché lungo: Carissimo Guido, sono ormai trascorsi più di vent’anni da quando eravamo compagni di classe alle elementari. Te la ricordi la nostra scuola nel comune di Manesseno, vicino a Bolzaneto? Quando eravamo bambini era in semi decadenza, otto anni fa l’hanno ristrutturata, e io non ho resistito alla curiosità di andare a vederla da vicino. È diventata una scuola modernissima, forse tra le più all’avanguardia, oserei dire. Ospita i ragazzini delle scuole medie che, in parte provengono da fuori Genova. Comunque, bando alle ciance. Appena ho rivisto quei luoghi comuni alla nostra infanzia e la scuola, mi è venuta in mente un’idea, e qualche giorno dopo ho fatto una telefonata al direttore, che in passato è stato molto amico del mio defunto padre. Mi sono fatto riconoscere, e gli ho detto ciò che mi passava per la mente: aver la possibilità di riunire tutti i miei vecchi compagni all’interno della scuola per qualche giorno. Ti

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dirò che non è stato facile convincerlo, ma alla fine ha ceduto. Anzi, mi ha suggerito che il periodo migliore per fare una cosa del genere sarebbe quello dell’annuale pausa scolastica, in concomitanza con il periodo di carnevale. Mi ha accennato solo di un inconveniente, relativamente a questo contesto. La scuola, ogni anno, ospita una festa in maschera indetta dal Comune. Per come la vedo io, non sarà un problema: durerà soltanto una sera e anche noi potremo travestirci. Mi è stato detto che partecipano molte persone, vestite con vari costumi: inoltre si ballerà con molta buona musica. Per quanto riguarda vitto e alloggio, non ci sarà di che preoccuparsi. Siccome molti scolari mangiano e dormono nella scuola, avremo a disposizione i loro alloggi per tutta la nostra permanenza. Ti aspetto dunque tra quindici giorni a Bolzaneto, alla vecchia “Villa Cambiaso”. Spero tu venga. Un abbraccio. Il tuo amico Giacomo Belli Giacomo Belli! Pensò Guido, posando la lettera accanto a sé quanto tempo è trascorso. Che potevo aspettarmi? Lui ha sempre avuto la mania di fare rimpatriate, nelle estati che trascorrevano tra un anno scolastico e l’altro. Dovevo immaginare che, prima o poi, sarebbe arrivata una sua chiamata. Tornò con il pensiero a quel periodo, e chiuse gli occhi: era stato un altro suo amico di infanzia, Carlo Rasi, a convincere sua mamma a iscriverlo in quella scuola. Lei all’inizio aveva arricciato un po’ il naso, vista la distanza da quella che allora era la loro casa. Ma alla fine aveva ceduto alle suppliche di Carlo, che, quasi tra le lacrime, le aveva detto che senza Guido come compagno lui si sarebbe trovato senza nessuna conoscenza. Al tempo la scuola non dava ancora alloggio agli scolari, quindi ogni mattina loro arrivavano e ogni primo pomeriggio, alle quattordici precise, uscivano per andare a casa. Tutti i giorni Guido aveva fatto questo, insieme ad altri sedici compagni, per cinque lunghi anni. Dopo non era riuscito più a vedere o sentire nessuno di loro, e il tempo intanto era trascorso con una inesorabile velocità. Pensò che quella era un’occasione unica per rivedere tutti i suoi più vecchi amici, per cui decise, senza un attimo di esitazione, di accettare l’invito dell’amico. Sapeva che suo padre, con il giusto preavviso, non avrebbe fatto storie, anche perché erano due anni che non chiedeva un giorno di permesso. Dopo circa un quarto d’ora

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Guido si addormentò, con i ricordi del periodo scolastico che, a ritmo incalzante, comparivano come tanti piccoli flash-back nella sua mente. Carlo Rasi entrò in casa sua verso le otto di sera circa. I suoi due bambini gli corsero incontro come due cicloni, mentre sua moglie in cucina stava finendo di apparecchiare la tavola. Posò la sua valigetta a terra prese in braccio entrambi i piccoli pargoli, regalando loro un grande sorriso e un bacio ciascuno. Dopo qualche istante li mise a terra, per poi andare in cucina insieme a loro per salutare la moglie Ornella. Subito dopo lei gli disse: «Guarda quanta roba è arrivata per posta» e gli indicò la mensola su cui stava appoggiata il tutto. Lui scartabellò tutto quanto e disse: «Come al solito, i tre quarti di questa roba possono finire direttamente nella spazzatura. Guarda qui, pubblicità su pubblicità. Magari teniamo questo catalogo di arredamento e… questa cos’è?» Alludeva a una busta sulla quale il mittente non era indicato. «Non so cosa sia, c’è soltanto il tuo nome sopra e non l’ho aperta.» «Beh, scopriamo il misterioso contenuto» disse lui, aprendo la busta da un lato. Si sedette e tirò fuori il foglietto accuratamente ripiegato al suo interno. Il suo contenuto era identico a quello della lettera recapitata a Guido, tranne per il nome all’inizio che era ovviamente cambiato. Un sorriso si dipinse sul suo volto mentre i suoi occhi scorrevano sulle righe di quel piccolo foglio. Sua moglie alla fine chiese: «Chi è, caro?» «Ti ho mai parlato della mia vecchia scuola elementare?» «Si, parecchio tempo fa.» «Quello che una volta era il più diligente della scuola adesso ha invitato tutti i suoi vecchi compagni, me compreso, a trascorrere una settimana insieme proprio nella vecchia bicocca. Mi scrive che la scuola è stata ampliata, ristrutturata e modernizzata.» «Ne sei contento, vero? Te lo leggo negli occhi.» «Sono felicissimo, ma non credo di andare.» «Perché mai? Non ti fa piacere rivedere i tuoi vecchi amici?» «Non posso lasciarvi soli tutti e tre per una settimana intera.» I bambini nel frattempo, dopo esser andati per un momento in camera loro, erano tornati in cucina giusto per sentire la conversazione tra i loro genitori. Ornella disse: «Noi ce la caveremo benissimo, vero miei cari?» chiese ai piccoli, rivolgendo loro uno sguardo ammiccante. Loro annuirono, poi lei aggiunse:

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«Vai pure tranquillo. Le rimpatriate tra vecchi amici capitano poche volte nella vita.» Carlo meditò un istante, poi disse: «Va bene, andrò, ma a un patto: vi chiamerò tutti i giorni, e al minimo problema io sarò subito di ritorno.» Ornella annuì poi chiese: «Piuttosto, come farai con il tuo principale? Non ti ha mai dato vacanza facilmente.» «Ho molti giorni di ferie arretrati. Vedrai che non farà storie con un po’ di pressione.» Detto ciò, tutti e quattro cominciarono a cenare. Mercoledì mattina, di buon’ora, Giacomo Belli uscì dal portone di casa sua per imbucare le ultime sei lettere da spedire. Benché lavorasse come insegnante in una scuola del ponente, abitava da tutt’altra parte, nella località di Nervi. Dopo aver inserito le lettere nella buca che si trova vicino al tabacchino di fronte a casa sua, salì sulla sua automobile e partì alla volta della sua scuola. Quella giornata di lavoro, tutto sommato, poteva dirsi non troppo pesante: le sue lezioni sarebbero cominciate alle otto e sarebbero terminate alle undici. Non poteva andare meglio: difatti, non appena terminato il suo dovere, si sarebbe diretto alla scuola di Manesseno, per discutere con il direttore quelli che erano gli ultimi dettagli inerenti alla rimpatriata. Nel tragitto, ripeté più volte nella sua mente l’elenco dei suoi compagni, per essere certo di non aver scordato nessuno. Per esser completamente certo di non aver fatto errori, si era preparato un piccolo elenco con tutti i nomi e i relativi indirizzi. L’elenco in quel momento stava accuratamente piegato nella tasca della sua giacca: lo avrebbe controllato al primo intervallo dopo le lezioni. Una volta uscito dalla suo posto di lavoro, Giacomo salì in auto e si diresse verso Manesseno. Quando giunse davanti al viale di accesso dell’edificio, si fermò davanti al cancello elettrico di ingresso e scese per suonare il citofono. Attese qualche secondo, poi d’altra parte una voce maschile disse: «Chi è?» «Sono Giacomo Belli, ho un appuntamento con il vostro direttore.» «Attenda.» Dopo qualche istante venne azionata l’apertura del cancello elettrico d’ingresso. Giacomo risalì sul veicolo e percorse il viale di accesso che si inerpicava tra gli alberi. Giunse nel cortile antistante la scuola e parcheggiò quasi davanti al portone. Dopo essere sceso, si soffermò per un istante sull’edificio che, anni prima, era stato il suo primo luogo di studi. Al tempo era tutto molto diverso: il cancello che

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aveva oltrepassato pochi attimi prima non era affatto elettrico. Ogni santo giorno, uno dei due custodi della scuola si preoccupava di aprirlo al mattino e chiuderlo al pomeriggio, dovendo anche fare parecchia fatica perché era molto pesante. La strada, oltre che essere più stretta, era anche sterrata: grazie ai lavori di ristrutturazione generale, gli operai erano riusciti a strappare un po’ di spazio alla vegetazione per allargare il percorso di circa un metro. Le pareti esterne dell’edificio, rifatte completamente anch’esse e verniciate con una tinta giallo pallido, erano al tempo grigie e non molto curate. Giacomo si ricordava alla perfezione che su una facciata l’edera aveva trovato addirittura il modo di arrampicarsi. Infine le persiane, sostituite da più moderne tapparelle, erano verdi, in parte con la vernice scrostata ed estremamente cigolanti. Va bè, basta con i ricordi, entriamo pensò Giacomo: dopo aver varcato il portone salutò il portinaio e i bidelli di turno. Uno di loro, un uomo di quarant’anni di bassa statura, gli si avvicinò e disse soltanto: «Ha parlato con me un attimo fa al citofono. Mi segua: il direttore la aspetta nel suo ufficio.» Giacomo lo seguì. Salendo le scale che conducevano ai piani superiori, notò come fosse profondamente cambiato l’aspetto di quell’edificio, ben poche cose erano rimaste come lui le ricordava. L’ufficio del direttore si trovava al secondo piano, sulla destra, in fondo al corridoio lungo il quale si trovavano sei stanze con le porte tutte chiuse, oltre le quali si sentivano voci adulte intente a dare spiegazioni. Giunti davanti alla porta che portava la targhetta “Giorgio Bassi: DIRETTORE”, il bidello bussò e aprì l’uscio quel tanto che bastava per far sporgere la testa nell’interno della stanza. «È arrivato Giacomo Belli» disse, poi si scansò, aprì la porta del tutto e aggiunse: «Si accomodi.» Poi si allontanò e tornò al piano inferiore senza dire altro. Non deve essere granché loquace, pensò Giacomo. Varcò la soglia ed entrò nell’ufficio: in fondo, dietro a una scrivania, stava seduto un uomo con i capelli tutti bianchi che lo fissava sorridendo. Si avvicinò, delineando a sua volta un sorriso tra le labbra. Quando furono uno di fronte all’altro, il direttore si alzò in piedi e i due si strinsero calorosamente la mano. «Che piacere rivederti» disse, con voce un poco roca. Giacomo non sapeva se dare del lei o del tu all’uomo che aveva di fronte: lo conosceva e da ragazzino lo vedeva spesso, ma era anche vero che dall’ultima volta erano passati circa vent’anni.

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«È un vero piacere anche per me» rispose infine, tenendosi sul vago. Si guardò intorno, ma non riuscì a ricordare esattamente quale funzione avesse quella stanza al tempo in cui lui era scolaro. Il computer era uno dei pochi oggetti moderni nell’ufficio: gli altri erano la stampante, lo scanner e la fotocopiatrice. Tutto il restante arredamento non aveva nulla a che fare con l’elettronica. In fondo alla stanza, proprio dietro alla scrivania, era collocata una grande libreria che ospitava circa quattrocento volumi di narrativa: quei libri venivano usati dai ragazzi per la biblioteca scolastica. Sul lato sinistro della stanza c’erano alcune mensole con varie fotografie, alcune delle quali fatte appositamente in bianco e nero, che raffiguravano quella che pareva essere Genova all’inizio del secolo. Le foto a colori ritraevano invece soltanto paesaggi naturali, montagne per la maggior parte. Il lato destro era sgombro da ogni mobilio e presentava un’ampia finestra che, nelle giornate di sole come quella, riusciva a far passare abbastanza luce da illuminare abbondantemente tutta la stanza. «Che effetto fa?» chiese il direttore a Giacomo, distogliendolo dalla sua curiosità riguardo all’arredamento. «Cosa?» «Essere tornato tra queste mura dopo tanto tempo.» «Non sono capace di dirlo con esattezza. Forse nostalgia e contentezza allo stesso momento.» Il direttore sorrise un’altra volta e disse: «Mettiti comodo, immagino che tu voglia parlarmi nel dettaglio di quello che hai organizzato con i tuoi vecchi amici.» Giacomo annuì, poi prese una seggiola e si sedette per cominciare a parlare. La chiacchierata tra i due si protrasse per la successiva ora e mezza, in quanto da una parte Giacomo non voleva trascurare nemmeno il più piccolo dettaglio, e dall’altra i direttore voleva avere ben chiaro che cosa sarebbe accaduto nella scuola in sua assenza. Questi comunque non aveva avuto nulla su cui ribattere: Giacomo aveva organizzato tutto davvero alla perfezione. Alla fine il direttore Bassi disse: «Complimenti hai fatto un ottimo lavoro. Spero di non creare eccessivo scompiglio nei tuoi piani lasciando a lavorare qui il portinaio e i due bidelli che hai visto appena sei arrivato.» «Oh…» disse Giacomo «e perché mai?» «Beh, ho pensato che qualcuno dovrà occuparsi di fare la spesa, riordinare le stanze da letto, fare comunque le pulizie per quando le lezioni riprenderanno, e via dicendo.»

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«Davvero, non è in alcun modo necessario. Garantisco che troverà la scuola così come la l’ha lasciata.» «Non ho alcun dubbio a riguardo.» replicò il direttore «ma, in qualche modo, i miei collaboratori devono per forza essere presenti. Loro hanno anche il compito di curare l’allestimento della palestra, che sarà la stanza principale nella quale si svolgerà la festa in maschera.» Di fronte a una tale necessità, Giacomo non poté che arrendersi. Terminata la chiacchierata prese congedo dal direttore e scese al piano inferiore, pensando che in fondo un aiuto in più da parte di portinaio e bidelli non sarebbe guastato. Quando giunse all’ultimo gradino della scala notò che, appesa alla parete, c’era una dettagliata planimetria che raffigurava tutti i piani costituenti l’edificio. Il primo piano, quello che aveva appena percorso, oltre a ospitare l’ufficio del direttore e le sei aule scolastiche, aveva anche i servizi da usare nei normali orari di lezione e nel pomeriggio. All’ultimo piano c’era il dormitorio con altri servizi destinati a essere usati dai ragazzi quando erano appena svegli o poco prima di andare a dormire. Inoltre vi era anche una stanza adibita a contenere i vari ricambi di lenzuola, coperte e cose simili. Al piano terreno c’erano la palestra, la sala mensa e altre quattro grandi aule dove i ragazzi, due pomeriggi alla settimana, facevano attività extra didattiche. Proprio al piano di ingresso si trovavano anche le uniche stanze della scuola non più in uso, che fungevano ormai solo da ripostiglio. Osservando la mappa Giacomo ebbe la definitiva conferma su quanto fosse mutata la struttura dopo i lavori che erano stati compiuti. Si diresse verso l’uscita e, dopo aver salutato portinaio e bidelli, uscì e salì in automobile per tornare verso casa. Era davvero contento come poche altre volte: di lì a pochi giorni, avrebbe passato un po’ di tempo con i suoi più vecchi amici.

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Capitolo 3 - In totale quattordici Arrivò il venerdì, ovvero il giorno prima del grande ritrovo. In quell’ultima giornata scolastica prima della pausa di una settimana, i ragazzi uscirono da scuola alle tredici e trovarono i loro genitori ad accoglierli. Il direttore Bassi, come era consuetudine, uscì in cortile per salutare i genitori e scambiare alcune chiacchiere con qualcuno di loro. Meno di venti minuti dopo l’uscita dei ragazzi, il cortile antistante la scuola era tornato a essere deserto. Giacomo Belli arrivò alla scuola di Manesseno intorno alle quindici e trenta. Tra le varie chiacchiere fatte con il direttore due giorni prima, aveva chiesto se vi era possibilità di alloggiare nella scuola una notte in più rispetto agli altri suoi compagni, avendo quindi modo di accoglierli senza problemi il mattino seguente. La richiesta era stata accordata. Giacomo scaricò dal bagagliaio le due valigie che aveva con se ed entrò subito nella scuola: il freddo, quel giorno, era pungente e non era granché piacevole stare all’aperto, nonostante il bel tempo. Trovò ad accoglierlo il portinaio, che gli andò incontro e si presentò: «L’altra volta non c’è stata occasione di fare conoscenza» disse «mi chiamo Enzo Porrini.» Giacomo posò a terra le valigie, poi i due si strinsero la mano. «Il direttore l’ha attesa per salutarla, prima di andare. Lasci pure qui le valigie: penserò io stesso a portarle in camera sua.» «Grazie molte. Il direttore è nel suo ufficio?» «No, sono qui.» La sua voce risuonò all’improvviso dietro a Giacomo, che si voltò e lo vide in cima alla prima rampa di scala, con la sua valigetta nera in mano. «Ti ho visto arrivare dalla finestra, nel frattempo mi sono preparato per andare via.» Scese le scale e andò verso Giacomo, mentre Porrini si avviava verso l’ultimo piano con le valigie. «Si ricordi che la sua stanza è la numero quattro» disse soltanto. «Ho dato disposizioni ai miei collaboratori» disse il direttore a Giacomo «di sistemare tutte le stanze del dormitorio, in modo che fossero pronte già per questa sera. Ti ricordo che sia il portinaio che i due bidelli sono a vostra completa disposizione.»

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«A proposito» chiese Giacomo «dove sono gli altri due collaboratori?» «Li ho mandati a fare un paio di commissioni e ho chiesto di mettere insieme già un po’ di provviste, anche per quanto riguarda la serata della festa.» «Capisco… spero di non essere risultato antipatico quando sono arrivato mercoledì.» «Sarebbe a dire?» «Beh, la persona che mi ha accompagnato nel suo ufficio, a mio parere, non mi ha preso molto in simpatia,» Il direttore rise e rispose: «Oh, non devi preoccuparti. Lui ha una carattere estremamente chiuso, parla pochissimo. Ma, in compenso, è estremamente efficiente, vedrai,» «Non ne dubito,» «Allora ti saluto…» disse il direttore tendendo la mano, poi aggiunse: «Non mi hai mai dato del lei da ragazzino. Non vorrai iniziare adesso?» Giacomo si accorse che in effetti aveva dato del lei al vecchio amico di suo padre. «Dopo molti anni, mi è venuto istintivo» rispose un po’ imbarazzato. «Sciocchezze. Il figlio del mio migliore amico deve darmi del tu. Passa una buona settimana. Telefonerò prima dell’ultima sera per sapere come è andata.» Giacomo gli strinse la mano e disse: «Arrivederci… scusa. Ciao.» Il direttore uscì dalla scuola e si allontanò a bordo della sua automobile. I due bidelli rientrarono verso le cinque per Giacomo scoprì che si chiamavano Claudio Naso e Antonello Orsi. Quest’ultimo era colui che due giorni prima lo aveva accompagnato nell’ufficio del direttore. Erano rientrati con parecchie borse della spesa: Giacomo insistette per aiutare a riporre il cibo e per terminare la sistemazione delle quattro stanze dormitorio che sarebbero state occupate da lui e dai suoi vecchi compagni. Alla sera, appena prima di andare a dormire, Giacomo volle parlare con i tre uomini che quel pomeriggio avevano lavorato per rendere la scuola accogliente: i due bidelli e il portinaio ricevettero i più sinceri ringraziamenti, anche per aver deciso di rimanere in servizio nonostante la settimana di interruzione delle lezioni. A turno si sarebbero occupati di cucinare, far la spesa, sbrigare le pulizie e tutto il resto. «Non so come ringraziarvi» disse loro Giacomo «da solo non sarei mai riuscito a organizzare tutto questo.» Prima di salutarli augurando loro la buonanotte, chiese:

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«Qualcuno di voi conosce, per caso, un negozio che vende costumi? Io e i miei compagni forse parteciperemo alla festa di carnevale di mercoledì sera.» «Ho visto qualcosa di interessante in un negozio di Rivarolo» rispose il portinaio «c’erano costumi per tutti i gusti, da quelli classici di Arlecchino e Pulcinella a quelli più particolari. Mi hanno molto colpito quello di Cyrano de Bergerac, della principessa Sissi e di Milady de Winter.» «Molto interessante» disse Giacomo annuendo debolmente «peccato solo che acquistare costumi come quelli costerà di certo una cifra astronomica.» «Non credo sia un problema» continuò il portinaio. «Sarebbe a dire?» «Credo che il negoziante, se non ho letto male un cartello attaccato a una delle vetrate, li affitti a prezzi abbastanza modici.» «Possiamo fare così.» concluse Giacomo «domani mattina, verso le otto, scenderò un attimo nel quartiere di Rivarolo per dare un’occhiata a quei costumi. Poi tornerò per ricevere i miei compagni, che dovrebbero arrivare tra le dieci e le undici.» «Non si preoccupi» rispose Porrini «possiamo andare noi. Intanto approfitteremo per comprare le ultime cose, che serviranno anche per allestire la palestra proprio in occasione della festa.» Giacomo rispose: «Se la cosa non vi reca disturbo, grazie infinite. Se troverà conferma su ciò che suppone, la prego di chiedere il prezzo per l’affitto dei costumi per una sera.» «Il negoziante potrebbe storcere il naso per l’affitto di una sera soltanto» obiettò uno dei bidelli. Giacomo pensò che aveva ragione, per cui propose: «Dite al negoziante che gli pagherò un prezzo maggiore: inoltre, mi occuperò io stesso di rendergli i costumi puliti perché li farò lavare nella mia personale lavanderia.» «Come desidera, signor Belli.» «Giacomo… prego tutti e tre di chiamarmi per nome.» Subito dopo, augurò a tutti e tre la buonanotte e si spostò nella sua stanza da letto.

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Sabato mattina, ore dieci e trenta. Carlo Rasi giunse con l’automobile di fronte al cancello della sua vecchia scuola e scese per suonare il citofono. Dopo pochi secondi si trovò a salire il viale d’accesso che conduceva al piazzale dove aveva spesso corso tanti anni prima. Subito dopo aver parcheggiato ed essere sceso, rimase sinceramente stupito dal rinnovato aspetto che l’edificio aveva assunto: lo ricordava molto più decadente. Sembrava quasi che fosse stato raso al suolo e ricostruito di sana pianta. Sul portone di ingresso vide Giacomo Belli che lo guardava con le braccia conserte, sorridendo. Carlo si avvicinò a lui, sorridendo a sua volta, e quando i due furono abbastanza vicini si abbracciarono per qualche secondo, per poi guardarsi in faccia, senza parlare. Fu Giacomo a rompere il silenzio: «Che piacere rivederti. Sono passati più di vent’anni.» «Lo so» rispose Carlo «non ricordarmelo. Sembra solo ieri che siamo usciti per sempre dalla…» «…vecchia bicocca» terminò Giacomo per lui. «Già, proprio lei. L’hanno sistemata per bene eh?» «Puoi ben dirlo. Quando l’ho rivista per la prima volta pochi giorni fa, non credevo ai miei occhi. Non hai ancora visto come l’hanno combinata dentro. Vieni, facciamo un giro.» I due stavano per volgere le spalle al cortile per entrare quando due colpi di clacson richiamarono la loro attenzione. Un’automobile modello famigliare posteggiò vicino a quella di Carlo. Sia lui che Giacomo rimasero un istante in attesa, finché dall’auto non scese un uomo calvo, non particolarmente alto, con un paio di grandi lenti da vista. «Ma chi è quello?» Chiese Giacomo «Non mi dire che non riconosci l’uomo che aveva gli occhiali più grandi in tutta la scuola… e a quanto vedo il suo stile non è cambiato.» «Vorresti dire che quello è…» «Stefano Savio, in carne e ossa.» «Da non credere» disse Giacomo, mentre Stefano si avvicinava a loro sorridendo e alzando la mano a mo’ di saluto «dove ha messo tutti i suoi riccioli neri?» «Perché non glielo chiedi?» rispose Carlo di rimando. «Spiritoso.» «Beh?» disse Stefano appena fu un po’ più vicino a loro «non mi salutate neanche, dopo tutti questi anni?» Giacomo e Carlo lo abbracciarono fortissimo, e subito dopo quest’ultimo disse:

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«Devi scusare tanto il qui presente organizzatore della rimpatriata. Ha avuto qualche problema a metterti a fuoco.» «Scusami Stefano, io…» tentò di giustificarsi Giacomo. «Suvvia, stai tranquillo. Da quando in testa non ho più i miei riccioli, stento a riconoscermi anche io.» «Però i mega occhiali non li hai persi, eh?» disse Carlo ironicamente. «E che vuoi farci amico mio? I difetti restano sempre.» I tre entrarono, e per la successiva mezzora non giunse nessun altro. Giacomo ne approfittò per mostrare ai due vecchi amici la nuova scuola. Entrambi rimasero stupiti vedendo come era stata cambiata: ben poco era rimasto di quella vecchia. Le dodici e trenta arrivarono in un lampo. A quell’ora, tutti erano arrivati, si erano salutati, stretti la mano, abbracciati e baciati. Nel frattempo erano anche rientrati il signor Porrini, il signor Naso e il signor Orsi, i quali, dopo essere stati presentati a tutti, si erano messi subito all’opera per preparare il pranzo. Giacomo era molto felice nel notare che l’antica armonia che regnava tra i vecchi amici non si era dissolta, nonostante tutti gli anni trascorsi senza vedersi. Tutti si radunarono nell’atrio: Giacomo richiamò l’attenzione degli altri dicendo: «Ora, per star sicuri di essere tutti presenti, andremo in classe e faremo l’appello.» «Come, l’appello?» disse una donna con lunghi capelli neri raccolti in una coda. «Certo cara, l’appello. Non vorrei che qualcuno si fosse scordato di venire a questa importante riunione.» Nel dire questo Giacomo strizzò l’occhio agli altri, poi si avviò su per le scale verso un’aula, seguito a ruota da tutti quanti. Li condusse nella classe che ospitava una delle prime classi medie: dopo che tutti ebbero preso posto, lui si sedette alla cattedra e tirò fuori di tasca un foglietto ripiegato. «Vediamo un po’, Carlo Rasi e Stefano Savio li ho già visti… Ornella Urbini?» «Presente, caro» era lei la donna che un attimo prima, nell’atrio, pareva non credere alla storia dell’appello. «Angelo Rossi?» «Qua in fondo, come sempre, quando non avevo voglia di stare attento.» Gli altri risero. «Corrado Urzino?»

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«Immancabilmente presente.» «Guido Valle?» «In fondo, dove mi sedevo sempre.» «Claudia Stefanelli?» «Non avrei mai potuto non esserci, scherzi?» «Cristiano Lombardi?» silenzio. «Amanda Risso?» «Qui a destra.» Giacomo notò che molti rispondevano in modo spiritoso, e la cosa non gli dispiacque affatto: la compagnia e l’ironia dei vecchi amici avrebbe sicuramente portato tanta allegria anche nei giorni seguenti. Continuò: «Ermanno Orlandini?» «Presente come sempre.» «Gino Derosa?» di nuovo silenzio. «Giuliano e Marco Nardi?» «Eccoci, solo che devi distinguerci.» I gemelli Nardi sembravano l’uno il clone dell’altro: capelli castano-rossicci, occhi castani, lievi lentiggini su buona parte del viso. «Non mi fregate più, cari miei» disse sicuro Giacomo «quel piccolo neo che hai sotto la guancia, Marco, è l’unica cosa che ti distingue chiaramente da Giuliano. Dopo tutti i dispetti che mi avete fatto, ho imparato a distinguervi senza difficoltà.» Proseguì lungo la lista, giunta quasi al termine: «Le sorelle Olivia e Ada Romei, ci sono pure loro?» «Con grande piacere, Giacomino.» Era stata Ada a rispondere. Altezza a parte, le due sorelle erano diverse in tutto: Olivia i aveva capelli a caschetto color dell’ebano come gli occhi, magra e vestita in maniera molto eccentrica, con colori vivacissimi e un buffo cappellino in testa. Ada indossava invece una gonna lunga e un maglione di scuro, aveva capelli biondo cenere sciolti fino a toccar le spalle e occhi verde smeraldo. Mancava soltanto l’ultimo nome per finir l’elenco. «Bruno Ambrosiani?» Anche questa volta nessuno rispose. Giacomo alzò subito gli occhi dal foglio per osservare i suoi compagni. In totale, tre non avevano risposto all’appello. Prese parola Ermanno Orlandini: «Mi sembrava strano che Bruno fosse puntuale.» «In effetti» intervenne anche Giuliano, uno dei gemelli «era famoso in tutta la scuola per i suoi ritardi continui alle lezioni. Non vi ricordate? Qualche volta il direttore di allora l’ha pure fatto venire accompagnato dai genitori.»

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«Vero» confermò Giacomo, poi guardò l’orologio «bè, aspettiamo un po’. Arriverà di certo. Che mi dite degli altri due?» Amanda Risso disse: «Da quel che mi ricordo, Gino non è mai stato un grande amante di queste cose. Se ben ricordate, non veniva mai né alle feste di compleanno né a quelle di fine anno a scuola. Per quanto riguarda Cristiano, non so dare spiegazione.» Nessuno aggiunse altro. Per la mezz’ora successiva i quattordici presenti non si mossero dall’aula. Chiacchierarono di tutto ciò che avevano fatto nella vita da quando avevano preso congedo da quella scuola, parlando di lavoro, di matrimoni, di figli, di fidanzamenti infelici, di lauree prese e mancate. Di Bruno Ambrosiani, Gino Derosa e Cristiano Lombardi, tuttavia, nemmeno l’ombra. Giacomo disse: «Facciamo così: voi intanto scendete nell’atrio. Il portinaio vi accompagnerà nella sala mensa, che sarà la nostra sala da pranzo e da cena per tutta la settimana. Nel frattempo, io cercherò di telefonare a questi tre tiratardi.» Tutti scesero al pian terreno e, guidati dal signor Porrini, in pochissimo tempo presero posto nel grande tavolo che era stato messo apposta per l’occasione dentro alla sala mensa della scuola. Dalle finestre della stanza, molto grandi, filtrava parecchia luce, anche grazie alla meravigliosa giornata di sole, che dal primo mattino svettava alto nel cielo. La tavola era naturalmente già apparecchiata, e ognuno dei ragazzi aveva il proprio posto assegnato. Mancava soltanto Giacomo, momentaneamente assente perché impegnato a telefonare agli amici ritardatari, poi il pranzo avrebbe preso il via. Lui arrivò dopo poco tempo, entrando silenzioso in sala. Gli altri chiacchieravano tranquilli, e fu soltanto Ornella ad accorgersi dell’espressione attonita sul volto di Giacomo. Lei richiamò subito l’attenzione degli altri, che si voltarono verso il loro amico, facendo subito silenzio e divennero d’improvviso seri. Egli disse, scuro in volto: «Amanda, su Gino avevi ragione tu. È a casa sua, e non ha intenzione di partecipare, anche se saluta caldamente tutti quanti. Cristiano, invece, è all’estero per lavoro e non tornerà prima di venti giorni. Ho parlato con sua moglie.» Tacque. «E Bruno? Hai parlato pure con lui?» chiese Ermanno Orlandini. Giacomo pronunciò soltanto altre tre parole. «Bruno è morto.»

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Capitolo 4 - Le maschere Un gelo invisibile calò su tutte le persone presenti nella stanza. Il silenzio regnò per un minuto, forse più. Quell’improvvisa brutta notizia aveva, in modo fulmineo, trafitto il cuore di tutti i presenti. Fu Carlo a parlare per primo: «Morto? Come sarebbe? Quando?» Giacomo si sedette lentamente, seguito dallo sguardo di tutti gli amici, poi rispose: «Ho parlato con sua madre al telefono. Quando gli ho spedito la lettera per riunirci, era già morto da cinque mesi. Un tumore al cervello se l’è portato via in breve tempo.» Tutte le donne iniziarono a piangere, rimanendo sedute, mentre quasi tutti maschi si alzarono dal tavolo per uscire fuori in cortile. Corrado e Angelo furono gli unici a rimanere all’interno con le donne e con Giacomo. Uno dei collaboratori scolastici, ignaro della notizia, arrivò nella stanza portando la pentola con il primo piatto: si accorse subito che qualcosa non quadrava. Giacomo gli disse: «Sia gentile, conservi tutto il pranzo per la serata. Credo che a tutti noi l’appetito sia passato in un colpo.» L’uomo non chiese nulla, intuendo che doveva essere accaduto qualcosa di brutto: si limitò a uscire dalla stanza per riportare la pentola dove l’aveva presa. Meno di un’ora più tardi i bidelli e il portinaio furono informati da Giacomo circa la notizia della morte di Bruno Ambrosiani. Mentre loro venivano messi al corrente degli ultimi avvenimenti, i vecchi compagni si trovavano ognuno nella propria camera, all’ultimo piano. I dormitori occupati, in totale, erano quattro: ognuno possedeva tre o quattro posti letto, che erano separati gli uni dagli altri tramite appositi tendaggi. Per via dei tre assenti, Giacomo concluse che avrebbe dormito da solo. Ada Romei e Giuliano Nardi, gli unici a non essere nei dormitori, erano fuori dalla scuola a passeggiare, chiacchierando di tutti quei ricordi che avevano come protagonista il loro compagno scomparso. A un certo momento, Ada portò a galla un argomento che Giuliano non ricordava: «Te la ricordi la storia della pietra di cui Bruno parlava sempre?»

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«Per niente. Lui raccontava sempre tante di quelle cose che è impossibile farle tornare tutte alla mente.» Ada insistette: «Lui l’aveva appresa da suo nonno, che era stato partigiano e aveva lottato contro i tedeschi nelle zone qui intorno.» «Proprio non mi viene in mente. Tu la ricordi bene?» «Non tanto. Bruno me ne parlò soltanto una volta: mi disse che, stando a quello che suo nonno gli narrò, i tedeschi trovarono, durante uno dei loro pattugliamenti, una strana pietra nascosta chissà dove qui intorno. I soldati, spinti dalla curiosità per la particolare forma della pietra, decisero di rubarla. Qualche giorno dopo caddero in un’imboscata della squadra partigiana di cui il nonno di Bruno faceva parte: quasi tutti i soldati furono uccisi, compreso quello che portava la pietra addosso.» «Sì, ora che la sento di nuovo mi pare di ricordarla, questa storia.» «Non sei mai stato forte con la memoria» lo canzonò Ada. «Ma questa pietra dove è andata a finire, secondo te?» «Bruno mi disse solo che era stata nascosta da suo nonno qui da qualche parte. Con ogni probabilità doveva essere molto preziosa, stando alla descrizione che il nonno stesso gli aveva fatto.» I due, tra un discorso e l’altro, avevano lentamente compiuto il giro di tutta la scuola. In quel momento si trovavano quasi davanti al portone di ingresso. Giuliano disse: «Chissà che razza di pietra era quella lì…» «Credo che in questa storia ci sia anche una parte di leggenda: se davvero lo fosse stata, forse il nonno di Bruno non l’avrebbe abbandonata…» «Ma dove siete finiti, voi due?» La voce di Giacomo Belli richiamò l’attenzione dei due amici, che guardarono verso l’ingresso della scuola distolti all’improvviso dalla loro conversazione. «Abbiamo fatto due passi e chiacchierato un po’, caro» rispose dolcemente Ada «hai bisogno di noi?» «Vi stiamo aspettando tutti quanti nella stanza da pranzo, per parlare un po’ di come organizzare la settimana.» I due amici seguirono Giacomo, e dopo poco tempo tutti quanti, compreso il personale di servizio, si trovarono riuniti all’interno della stanza. Belli fece qualche passo prima di cominciare a parlare davanti al gruppetto di persone, le quali si erano sedute disponendosi a semicerchio. «La notizia sulla morte del caro Bruno ha fatto calare un velo di tristezza su tutti noi.» Fece una pausa, poi riprese: «Probabilmente, se avessi saputo prima di ciò che è accaduto, avrei quantomeno posticipato la rimpatriata. Tuttavia non voglio che tutti i

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momenti che passeremo assieme siano tristi. Sicuramente vi ricorderete tutti quanti che cosa vi ho scritto nella lettera circa la festa di carnevale che si terrà qui nella scuola la sera di mercoledì.» Gli altri annuirono, pensando che in effetti Giacomo aveva ragione: quella settimana sarebbe passata in un soffio, e la tristezza certo non avrebbe tenuto su il morale di nessuno. «Sarebbe molto divertente partecipare a questa specie di ballo in maschera, se tutti quanti siete d’accordo. I qui presenti collaboratori scolastici si sono adoperati molto per raccogliere informazioni circa il noleggio dei costumi e stanno tuttora lavorando all’allestimento della palestra.» «Quindi stai proponendo a tutti quanti noi di travestirci? Ma è grandioso!» Ornella parve sul serio entusiasta della cosa, come più o meno tutti gli altri. Giacomo, nel frattempo, si sedette. Marco Nardi, il gemello di Giuliano, sollevò tuttavia una piccola obiezione: «Passi il travestimento, ma vorrei ricordare a tutti quanti che io, mentre ballo, ho la stessa grazia di un manico di scopa.» Tutti scoppiarono a ridere. Quando tornò il silenzio, intervenne Guido: «Penso che nessuno sia obbligato a ballare, se non vuole. Ci mettiamo i costumi, e in qualche modo la serata passerà, giusto?» Nel fare la domanda si rivolse a Giacomo, il quale rispose: «Ma certo, ognuno sarà libero di passare la serata di mercoledì come meglio riterrà opportuno. Chiedo a voi, amici miei, di partecipare però almeno mettendo il costume. Sarà una cosa bellissima, senza ombra di dubbio, perché a fine festa, quando i partecipanti esterni saranno già andati via, faremo una foto ricordo.» Tutti furono d’accordo sul fatto di partecipare alla festa: Giacomo, dopo esser sicuro di aver avuto il consenso di tutti, si alzò in piedi rivolgendosi al portinaio: «Signor Porrini, che cosa mi dice del negozio che vende e noleggia costumi? È riuscito a sapere qualcosa di preciso?» «Quando siamo arrivati a Rivarolo era appena chiuso per la pausa pranzo. L’orario di apertura pomeridiana è fissato per le tre» rispose lui. «Oh… Beh, in tal caso… è possibile telefonare al negozio?» «Certo, ho memorizzato il nome apposta per cercarlo sull’elenco del telefono.» «Perfetto. Ascolti, se non le reca disturbo, può farmi la cortesia di fare lei stesso la telefonata? Chieda di quali costumi si tratta, quanto è il prezzo per il noleggio, e soprattutto sia ben chiaro su come lo ricompenserò se sarà così cortese da affittare i costumi per una sola sera.» Il portinaio annuì e subito dopo si alzò per uscire dalla stanza.

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Gli altri bidelli lo seguirono, ma prima di uscire uno di loro si voltò e chiese a Giacomo: «Una domanda, signor Belli. Visto che nessuno di voi ha pranzato, dobbiamo conservare tutto quanto è stato cucinato per questa sera?» «Io direi di non buttare via nulla se non i cibi che eventualmente possono andare a male. In questi tempi di crisi è meglio non sprecare niente.» «Come desidera, signor Belli» rispose l’uomo. «Le ripeto, può chiamarmi soltanto Giacomo.» I vecchi compagni parvero divertiti dal modo in cui il bidello parlò. Si era espresso in modo velocissimo, balbettando appena. «Non ridete mai davanti a lui quando lo sentite parlare così. A quanto mi ha detto il direttore quando sono venuto ad accordarmi sulla nostra permanenza, è molto permaloso» parlò sottovoce Giacomo. Alle tre e venti circa il portinaio Porrini tornò nella sala dove tutti i compagni erano riuniti. Si rivolse a Giacomo e, sventolando un foglietto di carta, disse: «È stata molto dura, ma alla fine sono riuscito a convincere il negoziante ad affittare i costumi per una sera. Mi ha detto che ne ha ancora in disponibilità una ventina, ma dobbiamo affrettarci a prenderli se vogliamo avere un minimo di scelta.» «Eccellente!» disse Giacomo «dunque, dobbiamo muoverci.» «Posso andare io senza nessun problema» disse il portinaio «ma naturalmente avrò bisogno di un aiuto. Se qualcuno dei suoi amici potesse accompagnarmi…» «Sono sicuro di sì… giusto ragazzi?» Giacomo rivolse lo sguardo agli altri, i quali non risposero subito. Per la verità, la voglia di muoversi non era molta. Tuttavia, dopo qualche istante, i gemelli Nardi dissero al portinaio: «Possiamo accompagnarla noi.» Anche Amanda, Angelo, Corrado, Ornella e Guido si unirono ai gemelli. Poco dopo, due macchine partirono dalla scuola alla volta di Rivarolo. Il negozio di costumi si trovava sulla strada principale del quartiere, la quale era particolarmente trafficata quel sabato pomeriggio. I ragazzi parcheggiarono le macchine quasi di fronte alla bottega e, accompagnati dal portinaio, entrarono. Il negozio non era molto grande, ma era fornito di qualunque genere di oggetto riferito al periodo di carnevale. Dietro al bancone stava un uomo corpulento, più o meno

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sulla cinquantina, con una folta chioma bianca lunga fino a metà schiena raccolta in un codino. «Posso esservi utile, signori?» disse rivolgendosi al gruppo. Fu il portinaio a rispondere: «Ho chiamato poco fa per il noleggio di quattordici costumi per una serata di…» «Oh, lei» rispose l’uomo senza nemmeno aspettare la fine della frase «ho terminato quasi in questo istante di metter da parte i costumi da mostrarvi. Se qualcuno di voi vuole seguirmi nel retrobottega…» Corrado e Ornella seguirono l’uomo mentre gli altri attesero vicino all’ingresso. Nel frattempo, alla scuola, Giacomo e gli altri compagni stavano passeggiando nel cortile intorno all’edificio. «Il frutteto esisterà ancora?» chiese Ermanno. «Penso di sì, anche se non saprei dire in quali condizioni si trova. Non è mai stato curato particolarmente, a mia memoria: chi se ne occupava, faceva giusto lo stretto indispensabile per evitare che fosse divorato dalle troppe erbacce» rispose Giacomo «spero solo che quegli alberi esistano ancora. Quando i frutti maturavano, avevano un sapore eccezionale, rammentate?» «Come no?» disse Stefano «il guardiano si lamentava sempre perché facevamo sparire tutta la frutta dagli alberi. Vi ricordate quando andò male?» «Certo» disse Carlo Rasi «non potrei mai scordarlo, visto che fui il diretto protagonista della faccenda.» «Che cosa accadde?» chiese Olivia Romei «non ricordo questa storia.» Carlo prese a raccontare: «Il periodo scolastico era quasi giunto al termine, mi pare che fosse la fine del mese di maggio. Con Guido e Amanda avevamo deciso di tentare una sortita nel frutteto per una bella abbuffata fuori programma. Stranamente il guardiano non era presente in quel momento e quindi per noi fu un giochetto avvicinare gli alberi, che erano oltremodo carichi di frutta. Io, con la mia ingordigia, ebbi la pretesa di arrampicarmi su un ramo per agguantare un frutto particolarmente succoso. Mentre Guido mi incitava, Amanda mi invitava invece alla prudenza. Com’era ovvio, presi ad arrampicarmi, senza considerare che il ramo in questione non avrebbe mai potuto reggere il mio peso perché troppo sottile. Quando iniziai a sentire uno scricchiolio sinistro, mi resi conto che era troppo tardi. Il ramo si spezzò e io caddi, slogandomi un

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polso. Il guardiano del frutteto arrivò poco dopo: impiegò ben poco a capire cosa era accaduto, anche perché Guido e Amanda si erano subito chinati su di me per soccorrermi.» «Come andò a finire la faccenda?» chiese Ada, sorella di Olivia. «Con una bella lavata di tes…» le chiacchiere dei ragazzi furono interrotte da un rumore in lontananza. «Cosa è stato?» chiese Stefano. «Sembrava un vetro in frantumi!» disse Giacomo. Tutti presero a correre nella direzione dalla quale il rumore era arrivato, e quando giunsero sul posto trovarono già i due bidelli a controllare. «Che cosa è successo?» chiese Giacomo non appena giunse vicino a loro con i suoi compagni. Uno dei bidelli, quello che balbettava, sembrava essere quello più terrorizzato. Indicò il vetro che formava l’unica finestra della portineria: era frantumato vicino alla maniglia e scheggiato in diverse parti. «Non c’è granché da dire» disse l’altro bidello. «Ovvero?» provò a ridomandare Giacomo. «Questa pietra ha sfondato un attimo fa il vetro e ha rischiato di colpire entrambi.» Il bidello mostrò la pietra piombata un istante prima in portineria. Giacomo la prese e chiese subito: «Quando le due macchine sono uscite dal cancello elettrico, lo avete richiuso subito?» «Immediatamente.» «Appena siete usciti, non avete visto nessuno?» Entrambi i bidelli scuoterono il capo. «Forse» azzardò Ada Romei «si è trattato semplicemente di qualche monellaccio che si è intrufolato qui appena sono uscite le macchine.» «Quindi, Ada» chiese Giacomo «tu pensi a un dispetto?» «Sì. Nel quartiere qui sotto ho visto un sacco di ragazzi con un aspetto poco raccomandabile.» «Va bè…» disse sottovoce Giacomo gettando la pietra poco più in là «vi siete fatti male?» chiese ai bidelli. Il balbuziente rispose: «N… No. P… Però per poco la pietra non mi colpiva alla t… testa.» «Sicuramente oramai sarà lontano… però un incidente di questo tipo non doveva accadere in alcun modo. In qualche maniera, me ne sento responsabile.» «È perché mai? » volle sapere Ada. «Perché il direttore di me si fida molto, soprattutto perché mi conosce da molti anni. Mi ha affidato la scuola per tutta la settimana, e dopo nemmeno mezza giornata già succede qualcosa di strano.»

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«Casomai, siamo tutti responsabili» disse ancora Ada «siamo tutti qui per lo stesso motivo.» Giacomo annuì debolmente, poi si voltò verso la finestra frantumata e disse: «Cerchiamo di sistemare provvisoriamente un telo di plastica sul vetro frantumato per evitare che, magari, possa piovere dentro alla portineria.» Tutti, infine, rientrarono all’interno della scuola. Il portinaio e gli altri ragazzi rientrarono da Rivarolo circa un’ora dopo gli ultimi eventi verificatisi. I quattordici costumi erano stati tutti noleggiati ed erano a dir poco perfetti. Erano stati accuratamente piegati e adagiati in due scatole, tra le mille raccomandazioni del negoziante. I ragazzi scaricarono le scatole e le portarono dentro alla scuola: nessuno si accorse del danno alla finestra, perché era già stato sistemato come meglio era possibile. Giacomo e tutti quelli che non si erano mossi dall’edificio stavano chiacchierando nella stanza da pranzo quando gli altri entrarono tutti contenti per aver trovato i costumi. Giacomo disse: «Guarderemo i costumi dopo. È successo un guaio.» «Che altro c’è, ora?» chiese Marco Nardi mentre, con l’aiuto del gemello e di Corrado, adagiava una delle scatole in un angolo. «Andate a vedere il vetro della portineria.» Porrini, essendo uno dei diretti interessati, precedette gli altri per andare a vedere l’accaduto. Trovò i suoi due colleghi intenti a verificare la solidità, seppur fittizia, della temporanea riparazione. «Bè?» disse soltanto, appena giunto all’ingresso di quello che lui chiamava il suo “ufficio”. «Una pietra ha sfondato un v… vetro» disse il balbuziente. «Ancora? È già la seconda volta in poco meno di sette mesi!» Porrini era furibondo. «Vorrei sapere chi ce l’ha tanto con la portineria…» «O con lei, magari» disse Amanda. «Con me? Io non rompo le scatole a nessuno, se è questo che intende dire» il suo tono si alzò leggermente e ad Amanda ciò non piacque, tanto che fece per replicare quando intervenne Ornella: «Suvvia, non è il caso di agitarsi per così poco, nevvero? Credo che sia stato un semplice dispetto, no?» Amanda non disse nulla e Porrini disse: «Diciamo di sì…» ma non parve affatto convinto. La piccola discussione terminò comunque lì. Tutti, tranne lui e gli altri bidelli, lasciarono la portineria per tornare nella stanza da pranzo. FINE ANTEPRIMACONTINUA...