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I c.d. reati satelliti negli abusi edilizi
Durante le indagini in tema di reati edilizi, accade di imbattersi nella consumazione
necessaria o occasionale di ulteriori e diversi reati. Gli interessi economici coinvolti sono
notevoli, mentre l’attività edificatoria è fortemente limitata da una serie di stringenti
parametri legali. Per tale ragione il privato decide spesso di intervenire sulle determinazioni
dell’amministrazione, allo scopo di essere autorizzato a realizzare più del consentito, o
attraverso accordi illeciti o fornendo agli uffici tecnici una falsa rappresentazione della
realtà così da ottenere un titolo abilitativo non altrimenti ottenibile.
Vengono pertanto in rilievo una serie di fattispecie di reato, collegate ai reati edilizi in senso
stretto, che trovano occasione in questi ultimi e che, per quanto possibile, saranno oggetto di
questa relazione.
1 Reati contro la fede pubblica nella formazione del titolo abilitativo: permesso di costruire, d.i.a./s.c.i.a.:
1.1 Con riferimento all'iter di formazione del permesso di costruire, viene in rilievo in primo
luogo la dichiarazione (meglio: relazione) del progettista abilitato di asseverazione della
conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti
edilizi vigenti, alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività
edilizia e, fra l’altro, alle norme igienico-sanitarie.
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La relazione di asseverazione è prevista dall'art. 20 comma 1° D.P.R. n. 380/01 a corredo
della domanda di rilascio del permesso di costruire. Entro sessanta giorni dalla
presentazione della domanda, il responsabile del procedimento cura l'istruttoria, acquisisce i
pareri necessari e, valutata la conformità del progetto alla normativa di settore, formula una
proposta di provvedimento, corredata da una relazione dettagliata, con la qualificazione
giuridica dell'intervento richiesto.
In proposito, l’art. 20 comma 9° D.P.R. n. 380/01 individua una autonoma fattispecie di
reato – sostanzialmente sovrapponibile alla norma generale dell’art. 481 c.p., seppure con
pena edittale notevolmente più alta – per colui (progettista o committente) che renda false
dichiarazioni, attestazioni o asseverazioni in ordine alla esistenza dei requisiti e presupposti
di cui al comma 1°. Si tratta di una ipotesi di responsabilità diretta del progettista che renda
false dichiarazioni, indipendentemente dall’atto finale in cui tali dichiarazioni confluiscano
e dalla eventuale falsità di esso.
Si pone tuttavia il problema ben più rilevante della responsabilità del progettista, il quale
rediga elaborati progettuali riportanti dati falsi o una relazione di asseverazione anch'essa
riportante informazioni false sulla sussistenza dei presupposti per il rilascio del titolo
abilitativo, in relazione alla falsità per induzione del permesso di costruire, che recepisca tali
false informazioni. In proposito si è sostenuto che la documentazione e la eventuale
relazione presentata dal tecnico progettista ai fini del rilascio del permesso di costruire non
avrebbe valore probante e fidefaciente assoluto ai fini della esatta riproduzione dello stato
dei luoghi. Tale documentazione invece costituirebbe solo un dato documentale che illustra
i termini tecnici e fattuali della richiesta di permesso, in ordine ai quali tuttavia il
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competente ufficio tecnico avrebbe ampio potere istruttorio con conseguente dovere di
verifica dell’esattezza dei calcoli del progettista e della conformità del progetto alla
normativa edilizia, di chiedere eventuali chiarimenti ed integrazioni alle parti richiedenti. Ne
conseguirebbe, secondo tale orientamento – invero risalente e ormai minoritario – che il
progettista non potrebbe rispondere della falsità dell’atto derivato, ma solo del reato
autonomo ex art. 481 c.p. (Cass. pen., sez. III, 24.1.2008, n. 9118). Contrariamente
all’indirizzo testé riassunto, prevale nella Suprema Corte la convinzione che risponderà di
falso ideologico per induzione (oltre che di concorso nel reato edilizio posto in essere dal
committente) il tecnico che, nel progetto, abbia dolosamente alterato la realtà dei fatti
inserendo dati non veritieri o omettendo di indicare elementi rilevanti, così da ottenere il
rilascio di un permesso di costruire, contenente dati falsi, che non sarebbe stato rilasciato
ove la rappresentazione dei dati fosse stata fedele. In altri termini quello che occorre, ed è
sufficiente, perché il privato o l’esercente un servizio di pubblica necessità, ai quali si
riconoscono poteri certificativi, rispondano pure della falsità dell’atto altrui derivato dal
proprio e che la immutatio veri cada sull’esistenza di un presupposto in assenza del quale il
provvedimento non avrebbe potuto essere adottato (Cass. pen. Sez. V, 7/12/2007, n. 3146).
Esemplificando, la indicazione di misure inesatte nel progetto, con riferimento alle
superfici, alla dimensione del lotto, alle distanze dagli edifici preesistenti, o anche lo
sviluppo artefatto, perché basato su calcoli o criteri tecnici scientemente inesatti, di misure
nel computo delle volumetrie assentibili, riguardano la esistenza di un presupposto
essenziale del permesso di costruire, in assenza del quale il provvedimento non avrebbe
potuto essere adottato.
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Ulteriore questione è quella della ammissibilità di una doppia incriminazione del progettista
(per falsa attestazione e per falsità dell’atto indotto ai sensi dell’art. 48, 480 c.p.); essa aveva
destato non poche perplessità, che devono ritenersi ormai definitivamente risolte grazie
all’intervento delle Sezioni Unite che, con la sentenza del 28/6/2007, n. 35488, Scelsi,
hanno ribadito – seppure con specifico riferimento al rapporto fra l’ipotesi dell’art. 483 c.p.
e quella dell’art. 48, 479 c.p. - che il delitto di falsa attestazione ben può concorrere, quando
la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato, con quello della falsità
per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto al quale l’attestazione
inerisca, sempreché la dichiarazione non veridica concerna fatti dei quali il certificato o
l’atto del p.u. è destinato a provare la verità e che la falsa indicazione cada sulla esistenza di
un presupposto essenziale dell’atto, in assenza del quale il provvedimento non avrebbe
potuto essere adottato. Circa la compatibilità tra responsabilità del privato per induzione in
errore del pubblico ufficiale e dovere di verifica e controllo da parte di quest’ultimo, il
richiamo al precedente art. 47 c.p. contenuto nello stesso art. 48 c.p. non lascia dubbi in
ordine alla possibilità che la responsabilità dolosa del mentitore, autore mediato, concorra
con una condotta colposa dell’ingannato, autore materiale del fatto reato (condotta della
quale ovviamente costui sarà chiamato a rispondere solo in caso di previsione di un reato
colposo). Ne consegue che l’autore della falsa attestazione che incida su un presupposto
essenziale per la emanazione del permesso di costruire andrà esente da responsabilità per
falso per induzione in errore nella sola ipotesi, di scuola, in cui il pubblico ufficiale sia
caduto in errore solamente per causa propria, mentre siffatta esclusione non opera nel caso
in cui “l’inganno del decipiens e la colpa del deceptus concorrano nel provocare la falsa
rappresentazione”.
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Da segnalare, infine, che il progettista che abbia indotto in errore il pubblico ufficiale nel
rilascio del permesso di costruire risponderà di falso per induzione in autorizzazione
amministrativa (artt. 48, 480 c.p.) e non di falso per induzione in atto pubblico (artt. 48, 479
c.p.). La Suprema Corte, a Sezioni Unite, ha infatti stabilito che il permesso di costruire non
abbia natura giuridica di atto pubblico, bensì di autorizzazione amministrativa. Tale
provvedimento, infatti, ha la funzione di rimuovere un limite di natura pubblicistica
all’esercizio di un diritto (lo ius aedificandi) preesistente in capo al privato destinatario
dell’atto e non di costituirne uno nuovo. Il diritto di edificare infatti inerisce alla proprietà,
ma deve essere esercitato in concreto nei limiti previsti dal regime della edificabilità dei
suoli; una volta accertato che sussistono le condizioni previste dall’ordinamento per il libero
esercizio di tale diritto, il rilascio del permesso di costruire è atto dovuto. Il provvedimento
inoltre è carente delle caratteristiche proprie della concessione amministrativa, in quanto è
atto dovuto, e non discrezionale, irrevocabile e trasmissibile con l’immobile al quale accede
(Cass. pen., Sez. Un., 20/11/1996, n. 673).
1.2 Passando all'esame dell'iter della dichiarazione di inizio attività (D.I.A.) e della
segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.), viene in rilievo la questione della
natura giuridica della relazione di asseverazione prevista dall’art. 23 co. 1° D.P.R. n.
380/01, che il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo di legittimazione deve depositare
a corredo della denuncia di inizio attività. Tale relazione, redatta da un progettista abilitato,
riguarda la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati, il non
contrasto con quelli adottati, la conformità ai regolamenti edilizi vigenti, alle norme di
sicurezza e a quelle igienico-sanitarie. Il tema incide sulla configurabilità del falso previsto
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dall’art. 481 c.p., in caso di dichiarazioni non veritiere in essa contenute, e sulla qualità di
persona esercente un servizio di pubblica necessità attribuita espressamente dalla legge (art.
29 co. 3° D.P.R. n. 380/01) al progettista incaricato di redigere la relazione di asseverazione.
Le considerazioni che seguiranno con riferimento alla D.I.A. riguardano ovviamente anche
la S.C.I.A., di recente introduzione. L’art. 5 comma 2° lett. C) D.L. n. 70/2011, conv. con
modif.. nella L. n. 106/2011, ha infatti definitivamente esteso la applicabilità alla D.I.A in
materia edilizia della disciplina introdotta dal D.L. n. 78/2010 per la S.C.I.A., con la
esclusione dei soli casi in cui la D.I.A. sia alternativa o sostitutiva del permesso di costruire
e dei casi in cui sussistano vincoli, ambientali, paesaggistici o culturali. In tali casi la
S.C.I.A., pur applicabile, non sostituisce gli atti di autorizzazione o nulla osta, comunque
denominati, spettanti agli enti preposti alla tutela dei predetti vincoli. La segnalazione
certificata di inizio attività è anch'essa corredata dalle dichiarazioni sostitutive di
certificazioni e dell’atto di notorietà, per quanto riguarda stati e qualità personali dei
soggetti interessati, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati relative alla
sussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge o da atti amministrativi a
contenuto generale. Per quanto riguarda l’inizio dell’attività edificatoria, l’art. 19 della L. n.
241/90 (nel testo sostituito dal D.L. n. 78/2010) prevede che l’attività oggetto della
segnalazione possa essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione alla
amministrazione competente. In quest’ultima previsione risiede la principale differenza
rispetto alla D.I.A. previgente, nella quale i lavori potevano essere iniziati solo decorsi
trenta giorni dalla sua presentazione allo sportello unico del comune. Anche i poteri di
intervento della amministrazione sono drasticamente limitati, rispetto a quanto previsto per
la D.I.A., una volta decorsi 60 giorni dal ricevimento della segnalazione. Prima di tale
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termine, infatti, la Amministrazione può adottare motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa; decorso tale
termine, alla Amministrazione è consentito invece intervenire solo in presenza del pericolo
di un danno per il patrimonio artistico, culturale, per l’ambiente, per la salute, per la
sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento della impossibilità
di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla
normativa vigente.
Si noti che l'art. 23 comma 6° D.P.R. n. 380/01 prevede, fra l'altro, che il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, in caso di falsa attestazione da parte del
professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria - con conseguente punibilità ex art.
361 c.p. del comportamento omissivo del pubblico ufficiale, il quale, apprendendo la notizia
del reato nell'esercizio delle sue funzioni, abbia l'obbligo di riferire all'Autorità Giudiziaria.
Scendendo più nel concreto, il progettista o tecnico abilitato che redige la relazione di
accompagnamento alla DIA/SCIA (relazione di asseverazione) deve effettuare diverse
operazioni:
- descrivere lo stato dei luoghi prima dell'intervento;
- illustrare i dati progettuali dell'intervento da realizzare;
- asseverare la conformità delle opere previste in progetto agli strumenti urbanistici
approvati, il non contrasto con quelli adottati, con il regolamento edilizio e con le norme di
sicurezza e quelle igienico-sanitarie;
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- rilasciare al termine dei lavori un certificato di collaudo circa la conformità dell’intervento
realizzato al progetto iniziale.
Parte della giurisprudenza, invero minoritaria, ha tentato la strada di distinguere, fra queste
diverse operazioni cui è chiamato il tecnico che redige la relazione di asseverazione, diversi
livelli di responsabilità penale in relazione al diverso grado di affidamento che
l'ordinamento ripone su ciascuno di tali aspetti. Ad esempio si è sostenuto che la parte
progettuale della descrizione delle opere da realizzare sarebbe ascrivibile ad una mera
intenzione del dichiarante, e non ad una realtà oggettiva, e che, come tale, sarebbe priva di
rilievo penale (Cass. pen. Sez. V, n. 7408/2010; 3 maggio 2005, n. 24562; sez. III, n.
27699/2010); si è anche affermato che la attestazione, da parte del tecnico abilitato, della
assenza di vincoli sull'area interessata sarebbe un mero giudizio espresso dal dichiarante,
come tale non necessariamente fondato su dati oggettivi e sicuri e, pertanto, priva di valore
certificativo e di rilievo penale ai sensi dell’art. 481 c.p. Inoltre, si è sostenuto che il
progetto redatto dal tecnico abilitato avrebbe natura di certificato solamente nella parte
(planimetrie, relazioni planimetriche) destinata a rappresentare l’esistente, assolvendo
solamente in detta parte la funzione di fornire alla P.A. una esatta informazione sullo stato
dei luoghi. In realtà, per principio consolidato (Cass. Sez. 5, 22.6.2000, Gamba ed altri; Sez.
5, 24.1.2007, n. 15773, Marigliano) anche un giudizio o una previsione possono essere
ideologicamente falsi, al pari di un enunciato in fatto, quando i parametri di valutazione cui
si riferiscono costituiscano misure obiettivamente verificabili, normativamente determinate
o tecnicamente accertabili, e quando tali giudizi provengano da soggetti cui la legge
riconosce una determinata competenza e perizia e ai quali, per tale ragione, ne riserva la
formulazione. In tali casi, fondandosi il giudizio o la previsione sulla postulazione di criteri
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predeterminati, esso si risolve nella rappresentazione della realtà analoga alla descrizione o
alla constatazione ed è nello stesso modo suscettibile di essere considerata una falsa
certificazione quando perviene a risultati artefatti perché basati su dati predeterminati, o
predeterminabili, falsati.
Più di recente la Suprema Corte (Cass. Pen. sez. III, 8 giugno 2011, n. 23072) ha attribuito,
con riferimento particolare alla parte progettuale della relazione di accompagnamento e alla
dichiarazione di conformità delle opere alla pianificazione comunale, ma, in generale, a tutta
la relazione di asseverazione redatta dal tecnico abilitato, particolare solennità, con ciò
riconoscendo ad essa un particolare affidamento da parte degli organi comunali preposti al
controllo, in ordine alla veridicità di tutto il suo contenuto. La principale caratteristica della
DIA, e a maggior ragione della SCIA di recente introduzione (la cui disciplina è oggi
applicabile e quindi sostituisce quella della DIA in edilizia), è quella della sostituzione del
tradizionale modello procedimentale in tema di autorizzazione pubblica con uno schema più
flessibile, in forza del quale l'esercizio delle attività private non è più soggetto alla
emanazione di un formale provvedimento di legittimazione, ma è direttamente comunicabile
alla P.A. ed espletabile, decorso un certo termine (per la DIA) o immediatamente (per la
SCIA), salvo l'esercizio del potere di controllo e di inibizione da parte della P.A. La
struttura della DIA/SCIA comporta una particolare assunzione di responsabilità, da parte del
tecnico abilitato, direttamente proporzionale al maggiore affidamento che l'ordinamento
ripone sulla relazione di asseverazione nel suo complesso. Per tale motivo, la relazione
assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo, e quindi certificativo, con le
ormai note conseguenze in tema di responsabilità penale ex art. 481 c.p.
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Va inoltre aggiunto che l’art. 19 co. 6° L. n. 241/90, di recente introduzione, contempla,
con riferimento alla S.C.I.A., una ulteriore ipotesi di reato: "ove il fatto non costituisca più
grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la
segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei
presupposti di cui al comma 1 è punito con la reclusione da uno a tre anni".
Si tratta del caso della falsità nelle dichiarazioni, attestazioni o asseverazioni che corredano
la segnalazione, o negli elaborati tecnici che accompagnano tali attestazioni, con riferimento
alla esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al co. 1°: la sanzione è la reclusione da 1
a 3 anni, salvo che il fatto costituisca più grave reato. La introduzione di questo nuovo
reato, speciale rispetto alla generale fattispecie dell’art. 481 c.p. (punita con pena più
contenuta - fino ad un anno di reclusione), tuttavia, ad esclusione di una maggiore forza
deterrente per il professionista privato che rediga la relazione di asseverazione, dovuta
all'aumento edittale delle pene, non sembra introdurre prospettive di novità da un punto di
vista strettamente investigativo e processuale, in quanto la previsione della pena massima
fino a 3 anni di reclusione non consente, come prima non consentiva la sanzione edittale
dell'art. 481 c.p., né il ricorso alle attività di intercettazione telefonica, né, circostanza ancor
più rilevante, la applicabilità delle misure cautelari interdittive previste dall'art. 290 c.p.p.
(divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali), per
le quali il limite edittale di pena rimane quello previsto dall'art. 287 c.p. (pena dell'ergastolo
o della reclusione superiore nel massimo a tre anni), con le intuibili ricadute in termini di
reale efficacia dell'attività investigativa.
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Deve tuttavia osservarsi, sempre sotto il profilo strettamente investigativo, che se è pur vero
che la esecuzione di opere edilizie in assenza di DIA/SCIA, se ontologicamente eseguibili
senza fare ricorso al p.d.c., integri una violazione di carattere meramente ammnistrativo, è
sicuramente utile, al fine di rendere più efficace l'azione del Pubblico Ministero, da un lato
disporre il sequestro probatorio delle opere, ove sussista il fumus che si tratti invece di opere
che necessitino di permesso di costruire o della c.d. super-dia, proprio allo scopo di
accertare quale sia la natura giuridica in concreto delle opere edilizie in corso
(eventualmente avvalendosi per la parte descrittiva di una consulenza tecnica o, se del caso,
di una relazione del locale Ufficio Tecnico), e, dall'altro, lato richiedere il sequestro
preventivo della relazione di asseverazione e di tutta la documentazione allegata alla
DIA/SCIA presentata dal privato all'U.T.: in proposito giova ricordare che il sequestro
preventivo è esperibile quando vi è pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente
al reato o del corpo del reato (nella specie della relazione di asseverazione, la cui falsità
integrerebbe il reato ex art. 481 c.p. o ex art. 19 co. 6° L. n. 241/90, a seconda dei casi)
possa protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati. Nel
caso di specie sussiste il pericolo che la falsità della relazione induca definitivamente in
errore l'Amministrazione competente che, a causa di tale falsa e subdola rappresentazione
dei luoghi e/o della normativa edilizia, non attivi i suoi poteri di controllo e verifica, come
purtroppo spesso accade, o lo faccia fuori termine, e così consenta il completamento delle
opere edilizie, con definitiva compromissione dell'interesse al corretto assetto del territorio.
Potrebbe apparire un approccio un pò troppo aggressivo, ma, utilizzato con ponderazione, e
soltanto in presenza di fumus del reato, potrebbe sortire positivi effetti sul piano
processuale.
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2 I delitti contro la p.a.: la giurisprudenza in tema di abuso di ufficio e omissione ex art. 328 c.p. in ambito edilizio.
2.1
In tema di abuso di ufficio occorre partire dalla definizione normativa del reato (rinviando
alla lettura dell’art. 323 c.p.) allo scopo di accertare se tale reato sia configurabile nel
rilascio di un permesso di costruire illegittimo.
Innanzitutto si è posto il problema se la inosservanza degli strumenti urbanistici vigenti
costituisca la violazione di legge o di regolamento integrante la condotta di abuso di
ufficio. In passato infatti si riteneva che tale inosservanza non rientrasse in nessuna delle
due categorie. Questa opzione ermeneutica è stata tuttavia ben presto superata, poiché si è
evidenziato che la inosservanza degli strumenti urbanistici costituisce in realtà violazione di
legge in quanto è la legge stessa (art. 12 comma 1° D.P.R. n. 380/01) a prevedere che il
permesso di costruire sia conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei
regolamenti edilizi e della normativa di settore. Il mancato rispetto degli strumenti
urbanistici, in altre parole, integra la violazione della legge che ad essi rimanda. E’ stato
così ritenuto che la condotta di abuso di ufficio ricorresse non solo nella violazione del
piano regolatore generale, ma anche ad es. del piano di bacino (le cui norme integrano
quelle degli strumenti urbanistici), dei piani di recupero e di riqualificazione urbana (si veda
Cass. pen., Sez. VI, 13.10.2009, n. 46503).
Ci si è chiesti inoltre se la inosservanza del dovere di compiere una adeguata istruttoria per
accertare la sussistenza dei requisiti e presupposti necessari per il rilascio di un permesso di
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costruire costituisca violazione di norme interne o assuma anche rilevanza esterna in quanto
fase procedimentale necessaria, incidente sul contenuto del provvedimento finale di assenso.
Ha sostenuto la Corte in proposito che l'istruttoria amministrativa è imposta da una norma
generale sul procedimento amministrativo (art. 3 L. n. 241/90). Non si tratta quindi di
violazione di norme interne al procedimento, in quanto il procedimento amministrativo, in
particolare quello relativo al rilascio del permesso di costruire, è disciplinato da norme
generali e di settore che prevedono necessariamente una istruttoria prima della decisione
finale, assunta sulla base della corretta ponderazione di interessi pubblici e privati (Cass.
pen., Sez. VI, 14.6.2007, n. 37531).
Ben più complessa e rilevante è tuttavia la questione relativa alla sussistenza dell'elemento
soggettivo del reato di abuso di ufficio in ambito edilizio. Come noto, è necessaria la
intenzionalità di arrecare un ingiusto vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno e
quindi la consapevolezza di violare la legge allo scopo precipuo di favorire o di danneggiare
taluno. E' stata quindi esclusa la configurabilità del reato allorquando il pubblico ufficiale
abbia perseguito finalità di interesse pubblico e, a tale scopo, abbia violato consapevolmente
la legge (caso di scuola è quello del sindaco che abbia rilasciato un p.d.c. in violazione della
normativa sul risanamento del centro storico, il quale assuma di averlo fatto per favorire il
recupero di abitanti all'interno del centro storico, a rischio di spopolamento e abbandono).
Tuttavia è stato anche ritenuto che il perseguimento del fine pubblico da parte dell'agente
non vale ad escludere il dolo intenzionale quando esso rappresenti un mero pretesto
dell’agire illecito. Particolarmente rilevante il caso affrontato da Cass. pen., Sez. III,
13.5.2011 n. 18895: "... il vantaggio o il danno per il privato può essere affiancato anche da
una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o pretesto per coprire la condotta
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illecita. La finalità pubblica non deve essere confusa con il fine politico dell'agente, con
l'esigenza di dimostrare la propria capacità di governo ai consociati, con la smania di
protagonismo, con la finalità propagandistica, con l'aspirazione ad aumentare il proprio
consenso elettorale, perché questi sono motivi egoistici che si pongono in antitesi con la
finalità altruistica e collettiva che deve connotare la finalità pubblica". Più in generale la
Cassazione ha affermato che la intenzionalità del dolo può desumersi da una serie di
elementi sintomatici del rapporto collusivo fra il privato e il funzionario pubblico, quali la
assenza di effettiva istruttoria nel rilascio del p.d.c., la estrema rapidità del procedimento
volto al rilascio del p.d.c., il macroscopico ed evidente contrasto del p.d.c. con la normativa
urbanistica vigente (Cass. pen., Sez. III, 12.1.2012, n. 649).
Quanto infine al vantaggio patrimoniale, altro elemento costituivo del reato ex art. 323
c.p., esso è stato ricondotto al complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale e
quindi non solo al caso in cui l'abuso sia volto a procurare beni materiali o altro, ma a
qualunque accrescimento della situazione giuridica soggettiva del beneficiario (quindi anche
all'ottenimento di un permesso di costruire, a prescindere dalla effettiva costruzione del
bene). In proposito è necessario ribadire che, perché il privato beneficiario del permesso di
costruire possa concorrere nel reato di abuso di ufficio commesso dal pubblico ufficiale che
lo abbia rilasciato, non è sufficiente la mera presentazione dell'istanza, ma è necessaria la
dimostrazione che questi abbia commesso una condotta causalmente rilevante nella
realizzazione della fattispecie, volta a determinare o istigare il pubblico ufficiale oppure ad
accordarsi con quest'ultimo (Cass. pen., Sez. VI, 14.6.2007, n. 3751). Analoghe
considerazioni devono farsi con riferimento al diverso caso del concorso del dirigente
dell’U.T., il quale abbia rilasciato un permesso di costruire illegittimo, nel reato edilizio
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commesso dal titolare del p.d.c. o dal committente o dal costruttore. Anche in questo caso la
giurisprudenza oggi prevalente ritiene di applicare gli ordinari criteri di attribuibilità del
concorso dell’extraneus nel reato proprio (contributo causale cosciente e volontario alla
commissione del reato edilizio da parte del titolare del p.d.c.), piuttosto che i criteri di
attribuzione della responsabilità per omesso impedimento dell'evento ex art. 40 cpv. c.p.
La doverosità dei compiti di vigilanza e di adozione dei provvedimenti sanzionatori nel caso
di abuso edilizio può comportare la responsabilità per abuso di ufficio in capo al dirigente
dell'U.T. che, pur consapevole della esistenza di una violazione edilizia, perché ad esempio
segnalatagli formalmente o informalmente dagli organi di p.g. o da un privato, ometta di
adottare i doverosi provvedimenti di sospensione dei lavori e di conseguente emissione
dell'ordine di demolizione. In tal caso la violazione di legge è evidente e risiede nella
inosservanza dei doveri di attivarsi previsti dall'art. 27 D.P.R. n. 380/01. Caso particolare è
invece quello della responsabilità per abuso di ufficio del Sindaco, il quale, pur non avendo
specifici doveri di intervento rilevanti ai sensi dell'art. 40 comma 2° c.p., rimane depositario
di un più generico dovere di controllo e direttiva nei confronti degli uffici tecnici ed
amministrativi del Comune, affinché siano efficacemente osservate le procedure in tema di
edilizia. Si veda in proposito Cass. Sez. Pen., Sez. VI, 28.1.2004 n.21085: risponderà anche
il Sindaco di abuso di ufficio, ove abbia intenzionalmente favorito gli interessi dei
proprietari, attivamente intralciando l'opera degli uffici tecnici e di polizia urbanistica del
Comune con l'adozione di provvedimenti amministrativi di carattere organizzativo volti ad
impedirne i doverosi ed urgenti adempimenti in materia edilizia.
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Un cenno particolare merita infine la recente pronuncia, prontamente diffusa sulle mailing
list specializzate, della Cass. pen., Sez. II, n.2245 del 20 gennaio 2014 (Cc. 11 dic. 2013)
Ric. Vitale, relativa alla realizzazione in Calabria di un imponente complesso edilizio
alberghiero. La pronuncia riveste interesse in quanto affronta il caso della contestazione dei
delitti di abuso di ufficio e di falsità in atto pubblico a carico del responsabile dell’U.T., fra i
quali viene ritenuto sussistente il concorso di reati - e non il fenomeno dell'assorbimento del
delitto di cui all’art 323 c.p. nel più grave delitto di falsità in atto pubblico - in ragione in
primo luogo del diverso ambito operativo dei beni giuridici protetti (il primo garantisce
l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, il secondo la genuinità
degli atti pubblici) e del fatto che la condotta di abuso di ufficio non si esaurisce in quella
del delitto di falso, non coincidendo con essa. Inoltre la pronuncia affronta anche il tema
della compatibilità della contestazione del reato di falsità ideologica in atto pubblico con
condotte consistenti nella formulazione di giudizi che siano espressione della c.d.
discrezionalità tecnica, laddove vi siano a monte previsioni normative recanti criteri di
valutazione che impongano verifiche di conformità del dato fattuale a parametri
predeterminati.
2.2
In tema di omissione penalmente rilevante, infine, la configurabilità del reato di cui all'art.
328 comma 2° c.p. richiede la presenza della doppia condizione della omessa attivazione
dei provvedimenti doverosi di cui all'art. 27 cit., nonostante il decorso del termine di trenta
giorni dalla richiesta e dalla messa in mora da parte del soggetto richiedente e, in aggiunta,
la mancata risposta all'interessato sulle ragioni del ritardo. Solo pertanto la richiesta del
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soggetto pubblico, successivamente sollecitata sotto forma di diffida, fa scattare in capo al
funzionario il dovere di intervenire sull'istanza o di rispondere per esporre le ragioni del
ritardo (espressamente previsto dall'art. 16 L. n. 86/90).
Non trova applicazione, invece, in materia di edilizia e urbanistica, la diversa fattispecie
dell’art. 328 comma 1° c.p. che, come noto, si perfeziona con la semplice omissione del
provvedimento doveroso, incidente su beni di valore primario, non ricorrendo nel caso di
specie quelle ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità
necessarie ai fini della configurabilità del reato.
3 La prosecuzione dei lavori in pendenza di sequestro: il reato di violazioni di sigilli (art. 349 c.p.); casistica.
Il reato di violazione di sigilli spesso accompagna le violazioni edilizie e urbanistiche, in
quanto si configura nei casi di prosecuzione dei lavori in un cantiere già sottoposto a
sequestro. Si tratta di una norma penale posta a garanzia del vincolo di immodificabilità
apposto sulla cosa soggetta a sequestro, nell’interesse della amministrazione della giustizia.
La funzione del sigillo è quella di garantire la percepibilità o conoscibilità erga omnes della
esistenza del vincolo sul bene sottoposto a sequestro, ma, nel caso in cui a commettere il
reato sia il custode giudiziario nominato nel verbale di sequestro, la apposizione materiale
del sigillo non ha effetti sulla configurabilità del reato.
La giurisprudenza sul punto è davvero nutrita, in quanto affronta una casistica ampia, della
quale occorre limitare l’attenzione alle sole questioni di particolare rilevanza.
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Innanzitutto non è necessaria la effettiva rottura dei sigilli, potendosi configurare il reato
mediante la esecuzione di opere distinte ma collegate con l'immobile in sequestro o nel caso
in cui i sigilli siano apposti solo su una parte delle opere sequestrate (Cass. Sez. Fer.
16.10.2008, n. 39050).
Il requisito della flagranza del reato commesso dal custode giudiziario (che consente
l'arresto facoltativo da parte della p.g.) va valutato non al momento della effettiva rottura del
sigillo, bensì al momento in cui il responsabile, introducendosi nel bene e facendone uso,
violi il vincolo di indisponibilità del bene stesso (Cass. pen., Sez. III, 6-9-2007, n. 34151).
Il reato non è escluso dalla omessa sottoscrizione del verbale di nomina da parte del custode
giudiziario, in quanto la custodia costituisce munus publicum obbligatorio, che prescinde
dalla accettazione del custode, il quale è comunque tenuto all'adempimento dei doveri
previsti ex art. 81 co. 3° disp. att. c.p.p. (Cass. pen., Sez. III, 10-7-2008. n. 28224).
Il custode può essere nominato senza particolari formalità e risponde di violazione di sigilli
in tutti i casi in cui non riesca a dimostrare la sussistenza del caso fortuito o della forza
maggiore . Egli, in quanto destinatario di una posizione di garanzia e gravato dall'obbligo
giuridico di attivarsi per impedire l'evento rilevante ex art. 40 co. 2° c.p., è obbligato ad
esercitare sulla cosa sottoposta a sequestro e sulla integrità dei relativi sigilli una custodia
attenta e continua. Non può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive ragioni di
impedimento e, quindi chiedendo ed ottenendo di essere sostituito, ovvero, qualora non
abbia avuto il tempo e la possibilità di farlo, fornendo la prova del caso fortuito o della
forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare la dovuta vigilanza (Cass. pen., Sez.
III, 9.3.2011, n. 9280).
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L'elemento psicologico del reato è integrato anche dal c.d. dolo eventuale, non rilevando la
buona fede in capo all'agente, il quale, nei casi dubbi, ha l'onere di chiedere informazioni
all'autorità procedente o ad un legale (Cass. pen., Sez. III, 30.5.2008, n. 21918).
Nel caso di violazione dei sigilli su di un bene sottoposto a sequestro, la materiale nuova
apposizione dei sigilli non richiede un espresso provvedimento giudiziario, stante la
permanenza degli effetti del sequestro già disposto in origine (Cass. pen. Sez. III, 16-12-
2005, n. 45631); in caso di reiterazione della violazione dei sigilli da parte dello stesso
custode giudiziario, peraltro, occorre valutare la possibilità di richiedere la applicazione di
misure coercitive in quanto i limiti edittali di pena lo consentono.
In caso di concorso di persone nel reato di violazione dei sigilli commesso dal custode
giudiziario, la circostanza aggravante di cui al secondo comma (e il relativo trattamento
sanzionatorio) si estende ai concorrenti, con il solo temperamento che essi ne abbiano avuto
conoscenza, o la ignorino per errore derivante da colpa.
E’ configurabile la continuazione tra violazione dei sigilli e violazione edilizia (commessa
dolosamente) in quanto può ritenersi che il soggetto che ha deciso di realizzare una
costruzione edilizia abusiva, verosimilmente si sia prefigurato anche la possibilità di violare
eventuali sequestri, pur di proseguire e completare la costruzione abusiva (Cass. pen., Sez.
VI, 13.11.1992, n. 2996); la violazione più grave da prendere in considerazione ai fini del
calcolo della pena ai sensi dell’art. 81 cpv. c.p. è ovviamente quella prevista per il delitto di
cui all'art. 349 c.p.
Da un punto di vista strettamente investigativo è consigliabile, ai fini della prova della
reiterata violazione di sigilli ma anche del reato edilizio in generale, acquisire le
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riproduzioni aerofotogrammetriche effettuate periodicamente da ditte private per conto
delle amministrazioni comunali e regionali (o anche per conto del Ministero dell'Agricoltura
e quindi facilmente acquisibili dal Corpo Forestale dello Stato), ad esempio ai fini di
aggiornamento delle cartografie comunali e regionali. Tali riprese, effettuate dall'alto ma
molto precise grazie anche all'esistenza di programmi informatici che consentono addirittura
la visione tridimensionale della immagine, consegnano al Pubblico Ministero dettagliate
informazioni sia in ordine alla effettiva epoca di realizzazione delle opere sia in ordine alla
puntuale consistenza delle stesse e sono liberamente acquisibili in ogni momento come
documenti in dibattimento ai sensi dell'art. 234 c.p.p. E’ utile inoltre sollecitare la polizia
giudiziaria incaricata delle indagini (e comunque tenuta accertamento della notizia di reato
ai sensi dell'art. 55 c.p.p.) a vincere eventuali resistenze all'accesso sui luoghi, opposte dal
proprietario o da altre persone presenti in cantiere, ricorrendo alla perquisizione di urgenza,
esperibile come noto di iniziativa della p.g. in tutti i casi in cui si versi nella flagranza del
reato. E' necessario quindi che appaia dall'esterno del cantiere, o sulla base di elementi di
valutazione desumibili aliunde, che siano in corso lavori edilizi abusivi. In assenza di tali
condizioni, appare invece prudente contattare il p.m. di turno per attendere direttive, in
particolare eventuali decreti di perquisizione delegati.
4 La c.d. truffa edilizia (art. 640 comma 2° n. 2° c.p.).
Si tratta di una fattispecie di creazione giurisprudenziale oggetto di vivo dibattito. Le
vicende poste all'esame della giurisprudenza, soprattutto di merito, hanno riguardato il
rilascio di permesso di costruire fraudolentemente ottenuto mediante una falsa
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rappresentazione della realtà o mediante la esecuzione di un mutamento di destinazione
d'uso diverso da quello previsto nel provvedimento di assenso.
E’ il caso, ad esempio, di elaborati progettuali nei quali vengono alterate le distanze fra
edifici vicini o viene indicato il possesso di una superficie di lotto maggiore di quella reale,
perché, in caso contrario, i limiti previsti per l'indice di fabbricabilità fondiaria
determinerebbero il rigetto della istanza di rilascio di permesso di costruire, oppure ancora il
caso, molto frequente nella prassi, di domande di condono edilizio fondate su dichiarazioni
false in ordine alla data di ultimazione delle opere, sullo stato di consistenza delle opere
stesse (in realtà ben lungi dall'essere terminate), sulla inesistenza di vincoli paesaggistici su
di esse.
Le soluzioni interpretative appaiono non conformi e condizionate dalla obiezione di fondo
che non vi sarebbe possibilità di induzione in errore della P.A., in quanto il responsabile del
procedimento, appartenente all’Ufficio Tecnico, ha il potere, oltre che il dovere, di
verificare anche con sopralluoghi e richieste di chiarimenti e integrazioni di
documentazione, la conformità di quanto richiesto all'effettivo stato dei luoghi. Ma in
proposito occorre rilevare che la legge non prevede un obbligo specifico in capo al
responsabile dell'Ufficio Tecnico di recarsi in loco per verificare di persona quanto
richiesto, per cui può realmente accadere che egli sia in concreto indotto in errore dal
progettista che dolosamente alteri la progettazione. Nella pratica ci sono casi, come quello
della predisposizione della domanda di condono edilizio, in cui il privato si limita a
compilare un modello prestampato, indicando con una crocetta i requisiti di ammissibilità
della domanda (per esempio sulla inesistenza di vincoli sul bene).
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Ma in proposito giova richiamare un principio interpretativo generale che riguarda il reato
di truffa. La fattispecie di cui all'art. 640 c.p. non richiede per la sussistenza del reato una
particolare diligenza della persona offesa. Per aversi truffa, quanto meno sotto forma di
tentativo punibile, è sufficiente che la condotta del privato sia stata quanto meno idonea ad
indurre in errore la persona offesa e se la induzione in errore è concretamente avvenuta il
giudice non dovrà verificarne la astratta idoneità in quanto tale idoneità è in re ipsa.
Altra obiezione è quella connessa con la necessità di individuare un danno patrimoniale che
l'ente territoriale subisca in conseguenza della illecita condotta. Si è ritenuto che tale danno
patrimonialmente valutabile (e direttamente ascrivibile alla condotta truffaldina posta in
essere dal privato) non possa ravvisarsi nella lesione di interessi collettivi (quale quello
all'ordinato assetto urbanistico di cui il comune è portatore), mentre esso assume
concretezza nei casi in cui, attraverso il fraudolento conseguimento del permesso di
costruire, si venga a gravare l'ente di oneri di urbanizzazione diversi e maggiori rispetto a
quelli derivanti dal progetto assentito e quindi già posti a carico del richiedente, e ad
imporre all'ente un dispendio per l'attività di autotutela necessaria a rimuovere il
provvedimento oggettivamente illegittimo e gli effetti di esso (Cass. pen., Sez. II, 5.5.2011,
n. 20806; Cass., Sez. II, 19.6.2000, n. 7259), o che può essere rappresentato anche dal
dispendio dei mezzi per il ripristino dello stato dei luoghi o dall'apprestamento di opere di
urbanizzazione eventualmente resesi necessarie dal permanere della costruzione nonostante
la illegalità originaria.
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5 I reati in tema di conglomerato cementizio armato; profili problematici.
Raccogliendo la sollecitazione proveniente da un collega partecipante al corso, occorre
individuare in primo luogo quali siano in concreto le opere per le quali è richiesta la
denuncia dei lavori al competente ufficio comunale e l'inoltro all'ufficio tecnico regionale e,
conseguentemente, per quali opere è necessaria l'iniziativa penale in caso di inosservanza
dell'obbligo di denuncia. L'ambito applicativo della norma in esame riguarda tutte le opere
in conglomerato cementizio armato normale, precompresso (nel quale si imprime
artificialmente una sollecitazione addizionale tale da assicurare l'effetto statico voluto) e le
strutture metalliche, che assolvano ad una funzione statica. Parte della giurisprudenza ha
sostenuto che il riferimento normativo al "complesso di strutture" in conglomerato
cementizio contenuto nell'art. 53 lett. a) D.P.R. n. 380/01, comporta che un'opera, per essere
sottoposta alla disciplina in oggetto, debba risultare dal concorso di una pluralità di strutture
e che restino fuori da tale normativa le opere costituite da una struttura unica, come ad
esempio, il solaio di una stalla o l'architrave di una porta. L'ambito di applicazione della
normativa è comunque definito dalla Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n.
11951/1974 ed è limitato alle c.d. opere di ingegneria civile; non quindi le opere di
ingegneria meccanica, navale, aerea per le parti che si riferiscono alle macchine ed organi di
macchine. A titolo esemplificativo, sono soggette alla normativa in esame e all'obbligo di
preventiva denuncia le opere edilizie ad uso industriale (fabbriche, capannoni, stabilimenti,
magazzini, depositi, tettoie, pensiline, ciminiere), le opere idrauliche, quali dighe, pontili,
ponti, acquedotti, impianti idroelettrici, le opere stradali, quali ponti e viadotti, sottovie,
gallerie artificiali, stazioni di servizio nelle quali siano realizzati manufatti edilizi, in
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particolare anche le strutture metalliche in conglomerato cementizio prefabbricato (quindi,
secondo parte della giurisprudenza i manufatti prefabbricati - Cass. pen., sez. IV, 12.6.2009,
n. 27450). E' inoltre irrilevante la natura dei lavori (ad es. che si tratti di interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria o di interventi di nuova costruzione), in quanto
l'applicabilità delle norme presuppone che si tratti solo di lavori che comportino l'utilizzo di
cemento armato e che assolvano ad una funzione statica.
Gli art. 64-71 D.P.R. n. 380/01 prevedono la responsabilità diretta del progettista, da
individuarsi in un tecnico abilitato iscritto al relativo albo (ingegnere o architetto), in
relazione alla progettazione esecutiva di opere in conglomerato cementizio armato o
precompresso o in struttura metallica, nonché la responsabilità del direttore dei lavori
(anch'egli tecnico abilitato iscritto ad apposito albo) e del costruttore in relazione alla
rispondenza dell'opera eseguita al progetto, all'osservanza delle prescrizioni di esecuzione
del progetto, alla qualità dei materiali utilizzati. L'inosservanza di tali disposizioni (e quindi
la redazione del progetto o la direzione lavori effettuata da soggetto non abilitato)
comportano la applicazione di una sanzione penale.
Poiché trattasi di reato proprio, il proprietario delle opere potrà rispondere di tali reati solo
nel caso in cui abbia assunto una delle suddette qualifiche cui la legge connette
espressamente responsabilità penali. Alla semplice qualità di proprietario non può
connettersi infatti un generale dovere di controllo, dalla cui violazione derivi una
responsabilità penale (Cass. pen, Sez. III, 15.1.2013, n. 8579).
Direttamente connessa con la suddetta previsione normativa è quella dei limiti alla
competenza del geometra nella progettazione e/o direzione dei lavori di opere in cemento
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armato e, pertanto, della conseguente responsabilità del geometra per esercizio abusivo
della professione (art. 348 c.p.): i continui riferimenti alle figure di tecnico qualificato
pongono il problema del se il geometra possa progettare opere in cemento armato.
L'orientamento ormai predominante consente al geometra solo la progettazione in cemento
armato di opere con destinazione agricola, di modesta entità, che non richiedano particolari
operazioni di calcolo e che, per la loro destinazione, non comportino pericolo per la loro
incolumità. In caso contrario risponderà del reato di cui all'art. 348 c.p.
Gli artt. 65-72-73 D.P.R. n. 380/01 prevedono in primo luogo che commette reato il
costruttore il quale, prima dell'inizio dei lavori, non presenti denuncia dei lavori al
competente sportello unico, che poi curerà la trasmissione all'ufficio tecnico regionale. La
denuncia dei lavori contiene una serie di informazioni relative alle caratteristiche e materiali
costruttivi dell'opera, fra cui il progetto dell'opera in triplice copia e una relazione
illustrativa. All'obbligo di denuncia sono soggette anche le varianti che si presentino nel
corso dei lavori. Lo sportello unico rilascia al costruttore l'attestazione dell'avvenuto
deposito della denuncia. A strutture ultimate, invece, il direttore dei lavori deposita presso
lo stesso sportello unico una relazione finale redatta in triplice copia sugli adempimenti
sopra descritti, contenente fra l'altro l'esito delle prove di carico effettuate. In caso di
inosservanza di tali obblighi, risponderanno penalmente, a seconda dei casi, il costruttore e
il direttore dei lavori.
Con particolare riferimento al reato di omesso deposito della denuncia, si discute se di
esso possa rispondere solo il costruttore, trattandosi di reato omissivo proprio, o anche il
direttore dei lavori, il quale ad esempio avendo l'obbligo di conservare presso il cantiere la
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denuncia e la relazione illustrativa con la copia dell'attestato di deposito, abbia altresì in
virtù di tale specifico obbligo un ulteriore onere di sollecitate il costruttore ad effettuare tale
adempimento. Sul punto la Cassazione ha invece escluso tale possibilità, evidenziando che
il direttore dei lavori non è titolare di una posizione di garanzia in tema di denuncia dei
lavori e di deposito presso lo sportello unico, in grado di far scattare in capo ad esso una
responsabilità ex art. 40 comma 2° c.p. Tale posizione di garanzia grava esclusivamente sul
costruttore; tutt'al più il committente o il direttore dei lavori potranno concorrere quali
extranei nel reato, proprio in forza dei principi generali del concorso ex art. 110 c.p., solo
qualora siano dimostrati il contributo morale o materiale alla causazione del reato da parte
del concorrente extraneus e la coscienza e volontà dello stesso di concorrere nel reato (cfr.
Cass. Sez. III, 19.4.2012, n. 15184).
Gli artt. 67-74 D.P.R. n.380/01 prevedono il collaudo statico dell'opera edilizia realizzata
in cemento armato e le sanzioni penali connesse alla sua omissione. In generale, infatti,
tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità
devono essere sottoposte a collaudo statico. Il certificato di collaudo statico deve essere
redatto da un ingegnere o da un architetto iscritto all'albo da almeno dieci anni, che non sia
già intervenuto nelle fasi di progettazione, direzione ed esecuzione delle opere (quindi deve
trattarsi di un soggetto terzo), il cui atto di nomina da parte del committente deve essere
allegato alla denuncia dei lavori da parte del direttore dei lavori prima dell'inizio dei lavori.
Tale certificato ha la funzione di verificare la conformità dell'opera al progetto, sotto il
profilo statico ovviamente, di dare atto della stabilità e sicurezza del manufatto, della
regolare destinazione all'uso previsto. Completata la struttura con la relativa copertura, il
direttore dei lavori ne dà comunicazione allo sportello unico e al collaudatore, il quale ha 60
27
giorni di tempo per effettuare il collaudo, scaduti i quali risponde penalmente. Il
collaudatore che redigerà un collaudo statico falso risponderà del reato di falsità in
certificato ex art. 481 c.p.
L'art. 75 D.P.R.n. 380/01 prevede un divieto assoluto di utilizzazione delle costruzioni
prima del rilascio del certificato di collaudo. L'inosservanza di tale norma integra reato:
poiché la norma penale sanziona chiunque consenta la utilizzazione, il divieto deve
interpretarsi erga omnes. Quindi si pone nella pratica il caso in cui il committente delle
opere abbia alienato a terzi la costruzione in assenza del certificato di collaudo e prima del
suo rilascio. Secondo un orientamento giurisprudenziale, nel caso in cui il soggetto che
abbia posto in essere una causa dell'evento di un reato permanente sia impossibilitato
(appunto per la intervenuta alienazione) a far cessare la situazione antigiuridica, che
prosegue ad opera di terze persone, non risponde della condotta successiva posta in essere
da altri. Ma tale orientamento non convince, perché non è vero che, una volta occupato
l'immobile da altri, il committente non abbia più la possibilità di far cessare la condotta
antigiuridica. La consumazione del reato previsto dall'art. 75, come per tutti i reati
permanenti, cessa o con l'interruzione della illecita utilizzazione o con il rilascio del
certificato di collaudo, che potrà essere sempre richiesto dal committente e rilasciato. La
vendita dell'immobile non gli consentirà di ottenere la interruzione dell'uso dell'immobile,
ormai non più nella sua disponibilità, ma non gli precluderà di certo la possibilità di
chiedere ed ottenere il certificato di collaudo. Altro problema che si pone nella pratica è se il
terzo acquirente o altro soggetto che utilizzi l'immobile privo di certificato di collaudo possa
rispondere del predetto reato. Se si tiene conto del fine della norma, che è quello di tutelare
la incolumità di coloro che utilizzano l'immobile in maniera stabile o occasionale, o anche il
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semplice passante nei pressi dell'immobile, non può non ritenersi che il precetto della norma
ponga un divieto erga omnes di utilizzazione.
L'art. 68 D.P.R. n. 380/01 prevede infine un dovere di vigilanza del responsabile
dell'Ufficio Tecnico comunale, interessato dalle opere in conglomerato cementizio, sulla
osservanza degli adempimenti previsti dalla normativa sulla realizzazione di opere in
conglomerato cementizio armato (in particolare sulla effettuazione della denuncia al Genio
Civile, sulla conservazione nel cantiere della denuncia, dell'attestato di deposito, della
relazione illustrativa, del giornale dei lavori da parte del direttore dei lavori, sulla
corrispondenza fra le caratteristiche generali dell'opera in esecuzione e il progetto). In caso
di riscontrate irregolarità di rilievo penale, gli agenti comunali dovranno redigere verbale
che, a cura del dirigente o altro responsabile dell'U.T., andranno trasmessi all'Autorità
Giudiziaria quali notizie di reato.
Con riferimento all'accertamento di conformità, solo un cenno è necessario per ricordare
che, mentre il rilascio di permesso di costruire in sanatoria non estingue anche i reati
specifici in tema di opere in conglomerato cementizio armato (in considerazione della
oggettività giuridica diversa dei due reati), diversamente avviene in caso di condono
edilizio, istituto di carattere eccezionale e comunque limitato nel tempo (almeno così
dovrebbe essere), il cui effetto estintivo si spiega anche sui c.d. abusi tecnici, sia a causa
della maggiore assimilabilità delle due situazioni di illegalità, sia in forza di espressi
richiami alla normativa specifica contenuti nelle norme riguardanti il condono edilizio.
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6 La contestazione della frode in pubbliche forniture negli interventi lottizzatori abusivi: una prima applicazione concreta.
Un caso particolare - affrontato dalla Procura di Bari - è quello della applicazione del reato
di frode in pubbliche forniture negli interventi lottizzatori abusivi. La vicenda merita un
cenno perché si tratta di un indagine innovativa; non mi risultano infatti altri casi analoghi.
E' doveroso segnalare tuttavia che l'indagine non ha trovato riscontro nel giudizio, ma le
perplessità del giudicante non hanno riguardato la astratta configurabilità del reato di cui
all'art. 356 c.p. nella lottizzazione edilizia abusiva.
Sono stati rinviati a giudizio dalla Procura di Bari alcuni imprenditori e alcuni funzionari
pubblici per aver commesso frode nella esecuzione di una convenzione generale attuativa di
un accordo di programma (ex L. 179/92) relativo alla esecuzione del Programma di
Riqualificazione Urbana San Paolo-Lama Balice.
La finalità del P.Ri.U. era il recupero edilizio e funzionale di ambiti urbani degradati
attraverso opere pubbliche di urbanizzazione primaria e secondaria, la realizzazione di
interventi di edilizia non residenziale che contribuiscono al miglioramento della qualità
della vita, la realizzazione di interventi di edilizia residenziale che inneschino processi di
riqualificazione fisica dell'ambito considerato. In violazione di tale convenzione, che
prevedeva un espresso impegno a progettare e realizzare nei tempi previsti da apposito
cronoprogramma una serie di opere pubbliche (quali allacci, infrastrutture, collegamenti a
servizi, scuole comunali, parchi naturali attrezzati) e a non realizzare le opere private senza
che quelle pubbliche preordinate restassero inattuate, gli imputati avevano dolosamente
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invertito l'ordine delle priorità previste dal cronoprogramma trascurando le opere pubbliche
e portando celermente a compimento quelle private, ascrivendo peraltro in maniera capziosa
la mancata esecuzione e completamento delle prime ad alcuni sequestri posti in essere dalla
Procura, intervenuti in realtà ad oltre un anno di distanza dalla data prevista per l'inizio delle
opere pubbliche e in aree del tutto diverse.
Il contributo concorsuale ascritto ai funzionari imputati era quello di aver prontamente
rilasciato i p.d.c. relativi alle opere private, senza aver preventivamente rilasciato le
autorizzazioni per le opere pubbliche, omettendo anche di adempiere agli obblighi di
vigilanza sulla corretta esecuzione del cronoprogramma. Il Comune infatti aveva importanti
strumenti d'intervento per garantire la corretta osservanza del cronoprogramma e la effettiva
realizzazione delle opere pubbliche: poteva intervenire in danno dei privati utilizzando le
somme garantite con polizze fideiussorie in relazione alle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria, poteva sospendere il rilascio dei permessi di costruire delle opere private,
annullare quelli già rilasciati, subordinare il rilascio del certificato di abitabilità alla verifica
delle urbanizzazioni interne a ciascun permesso di costruire.
In tal modo gli imputati avevano commesso frode nell'adempimento della convenzione
contrattuale attuativa del P.Ri.U., consegnando un'opera (o meglio una serie di opere)
sostanzialmente diversa da quella contrattualmente prevista e conseguendo ingenti profitti
derivanti dallo scomputo degli oneri di urbanizzazione, dal mancato o parziale versamento
dei costi di costruzione, dai proventi derivanti dalla realizzazione e vendita di edilizia
residenziale privata senza che a ciò corrispondesse la correlata spesa per la realizzazione
delle opere pubbliche preordinate.
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Le argomentazioni adoperate dal Gup - che ha assolto tutti gli imputati in sede di rito
abbreviato - riguardavano innanzitutto l'elemento psicologico del reato di frode in pubbliche
forniture e del concorso di tutti gli imputati nella perpetrazione del reato. Si tratta, come
noto, di reato doloso: è sufficiente il dolo generico costituito dalla consapevolezza di
effettuare una prestazione diversa per qualità e quantità da quella dovuta (Cass. pen., Sez.
Sez. VI, 26.8.2003, n. 34952). Tuttavia il reato oggetto del vaglio processuale riguardava
numerosi soggetti, che rivestivano qualifiche soggettive diverse, in particolare anche
funzioni pubblicistiche indipendenti l'una dall'altra, e, pertanto, era necessario dimostrare un
accordo illecito fra tutti gli imputati, o quanto meno un rafforzamento dell'altrui proposito
criminoso, uno stimolo o un maggiore senso di sicurezza nell'azione compiuta dall'esecutore
materiale del reato grazie al contributo morale dei concorrenti. Ma in entrambi i casi era
necessaria la prova che tali comportamenti, secondo la teoria generale del concorso di
persone nel reato, fossero finalisticamente collegati fra loro e che vi fosse la coscienza e
volontà di portare un contributo materiale o morale all'illecito perseguito da tutti gli altri
concorrenti.
E di tutto questo, ad avviso del giudicante, non vi era prova nel processo.
Altro fattore di disomogeneità fra le condotte contestate agli imputati era rappresentato,
secondo il giudicante, dalle cause del ritardo accumulatosi nella esecuzione delle opere
pubbliche. Molte di queste opere avevano infatti comportato l'intervento di diverse autorità
pubbliche, ciascuna chiamata a valutazioni autonome, per cui si è verificato uno slittamento
"a cascata" dei termini e della emissione dei provvedimenti necessari.
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Infine sono intervenuti decreti ministeriali che prorogavano il termine di durata dei
programmi di riqualificazione urbana e, conseguentemente, il termine di consegna delle
opere. Sotto questo versante, non poteva sostenersi – secondo il Gup - nel caso di specie che
vi sia stato un inadempimento a causa della consegna di una "cosa diversa" da quella
pattuita, perché detta valutazione potrebbe essere fatto solo alla scadenza del citato termine,
che, per le considerazioni innanzi dette, non era ancora scaduto. "Il delitto di frode in
pubbliche forniture - infatti - quando oggetto del contratto siano beni destinati alla P.A. (e
non contratti di fornitura con esecuzione periodica) si consuma nel momento e nel luogo
della sua fraudolenta esecuzione, da identificarsi in quello in cui avviene la consegna della
cosa" (Cass. pen., Sez. III, 9.6.2010, n. 22024).
In definitiva i soggetti attuatori erano ancora nei termini per la realizzazione del
cronoprogramma, avendo il soggetto titolare del bene-interesse tutelato dalla norma (cioè il
Ministero competente) ritenuto meritevole di "spostamento" il termine finale per la
realizzazione (e la conseguente verifica) di tutte le opere del P.Ri.U. Tale decisione,
ovviamente, non era sindacabile da parte dell'A.G. in termini di opportunità e discrezionalità
amministrativa.
Marco d'Agostino
Sostituto Procuratore della Repubblica
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