Humana_Mente 01 Laboratorio
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Humana.Mente - Il Pensario della Biblioteca FilosoficaREDAZIONE - Via del Parione 7, Firenze, presso Biblioteca Filosofica - Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi di FirenzeCapo Redattore: Duccio Manetti. Redattori: Scilla Bellucci, Laura Beritelli, Alberto Binazzi, Matteo Borri, Giovanni Casini, Chiara Erbosi, Riccardo Furi, Tommaso Geri, Matteo Leoni, Stefano Liccioli, Umberto Maionchi, Francesco Mariotti, Giovanni Pancani, Daniele Romano, Emilio Troia, Fabio Vannini, Silvano Zipoli.
COMITATO SCIENTIFICO.Alberto Peruzzi, Gaspare Polizzi, Chiara Cantelli, Fabrizio Desideri, Ubaldo Fadini, Rosa Martiniello, Marco Solinas.
Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filoso-fica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblica-zione regolarmente iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.
Intervista a Alberto PeruzziIl neo presidente della Biblioteca Filosofica illustra i progetti della associazione e parla della nascita della rivista.Pag. 2-3
La Società Filosofica ItalianaStoria della sezione fiorentina della SFI dalle origini fino al 1998.Pag. 3-4
Papers• Neuroni Specchio• ComplessitàPag. 5
Conferenze• Gabinetto
Vieusseux• Leggere per non
dimenticare• Dip. FilosofiaPag. 24
Interviste• Adorno• Ginsborg• PollastriPag. 34
Recensioni• Searle• Arendt• Bobbio• Pollastri• Givone• StegmannPag. 44
Il primo numeroNasce Humana.mente, il Pensario della Biblioteca Filosofica.
La Biblioteca Fiorentina, sezione provinciale della Società Filosofica Ita-
liana, con la nuova presidenza affidata al Prof. Alberto Peruzzi, Ordina-
rio di Filosofia Teoretica all’Università di Firenze, ha deciso di rinverdire
la propria attività e di affidare ad un gruppo di giovani laureati, dotto-
randi e ricercatori - “filosofi” in erba - un notiziario che inizialmente
comparirà online all’indirizzo del sito web della Biblioteca, per tramutarsi
– è l’auspicio - in una futura edizione cartacea.
Pensario perché luogo di riflessioni filosofiche. Humana.mente perché in
questo luogo si metteranno in risalto i temi salienti dell’odierna ricerca
filosofica sulla mente umana e non solo.
Ogni numero del Pensario ospiterà in prima pagina un’intervista o un
reportage/inchiesta, mentre nelle pagine interne (visitabili online tramite
link) verrà dato ampio spazio a recensioni, resoconti di eventi ed inizia-
tive di rilevanza filosofica.
Il Pensario sarà il luogo in cui far conoscere i primi lavori (anche se in
forma di sintesi) a opera di giovani studiosi, oltre ad ospitare una rubri-
ca sulla filosofia italiana e una periodica “finestra” sul dibattito filosofico
intorno a temi specifici.
Se intento del notiziario è quello di promuovere le iniziative e i progetti
della Biblioteca Filosofica Fiorentina, un altro è quello di far nascere a
Firenze un laboratorio di pensiero filosofico, in cui affrontare i temi più
avvincenti della filosofia contemporanea, italiana e straniera.
Il notiziario è realizzato da una redazione di 15 giovani neolaureati,
aperta però a nuovi collaboratori, iscritti alla Biblioteca Filosofica. La
Redazione vuole ringraziare il Direttivo della Biblioteca Filosofica per il
sostegno dato ad un gruppo di giovani, offrendo loro la possibilità di
impegnarsi nel difficile compito di raccordare ricerca, informazione e
didattica con un prodotto nuovo nell’ambiente filosofico italiano.
La filosofia italiana ed in particolare quella fiorentina vantano una ge-
nealogia illustre, cui questa rivista vuole esplicitamente rifarsi: in parti-
colare prenderà spunto per riconsiderare la lezione di studiosi come
Eugenio Garin e Giulio Preti, entrambi docenti dell’Ateneo Fiorentino.
Cercheremo anche di smuovere le acque, mettendo a frutto l’insegna-
mento delle figure del passato e di quelle che ci hanno avuto come
studenti e ci sosterranno in questa avventura.
La filosofia però non è disciplina letteraria né storica e, sebbene in que-
sto paese sia accademicamente legata alle lettere e alla storia, ci pare
che all’apertura del terzo millennio possa e debba far rivivere lo spirito
delle sue origini, quando era indagatrice della natura e non si contrap-
poneva a quella che oggi chiamiamo scienza.
In questo stesso numero pubblichiamo un’inchiesta sulla nascita, le
origini e la storia della Biblioteca Filosofica Fiorentina: una storia di
grande prestigio.
Alcuni tra i maggiori filosofi italiani sono passati proprio dall’esperienza
fiorentina e hanno dato impulso allo sviluppo di questa associazione. A
questi precedenti guardiamo con riconoscenza, ma anche con la consa-
pevolezza che non siamo più nell’alveo culturale del Novecento. Abbia-
mo la consapevolezza che la filosofia debba tornare a confrontarsi con
le scienze “dure” fornendo una cornice teoretica all’esperienza scientifi-
ca, ma debba anche prepararsi ad offrire uno spazio epistemologico più
ampio.
Guardiamo quindi con atteggiamento critico il modo carente di insegna-
re filosofia nelle scuole secondarie del nostro paese. L’insegnamento
della filosofia nelle scuole superiori italiane ed anche all’università, sof-
fre di uno sguardo eccessivamente storico, e non anche tematico, che
N O T I Z I E D I F I L O S O F I A E V E N T I C U L T U R A L I L A B O R A T O R I O D I I D E E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 1
Notiziario trimestraleAprile 2007 - Anno I Vol. 1
[email protected] www.unifi.it/bibfil/humana.mente
penalizza un’impostazione problematica, che di per sé non esclude la
considerazione storica.
Humana.mente sarà la voce di giovani studiosi che non vogliono confi-
nare la filosofia ad un ruolo marginale nella società, nella scuola e nel-
l’Università, ma vogliono farla vivere anche fuori dai circuiti tradizionali
dell’accademia.
Il periodico verrà pubblicato ogni tre mesi online.
La Redazione
Intervista ad Alberto PeruzziPresidente della Biblioteca Filosofica Fiorentina
Che cos’è la Biblioteca Filosofica?
La Biblioteca Filosofica è la sezione
fiorentina della SFI. La Biblioteca
Filosofica nacque indipendentemente,
come autonoma associazione, all’ini-
zio del Novecento. L’impronta origina-
ria era abbastanza diversa da quella
che ha oggi. Dopo varie peripezie si è
ricostituita come luogo di promozione
del dialogo fra chi insegna filosofia,
chi fa ricerca in campo filosofico e chi,
pur operando in altri settori disciplinari, è interessato alla discussione di
temi filosofici, anche se lo scopo primario resta quello di sviluppare
iniziative che aiutino gli insegnanti.
Che cos’è la SFI?
La SFI è la Società Filosofica Italiana, fondata nel 1906 e rifondata nel
secondo dopoguerra. Si può trovare una descrizione delle attività della
SFI sul sito internet: http://www.sfi.it/
Quali sono i progetti in corso per rilanciare l’attività della Bi-
blioteca?
Ci sono diversi progetti. Uno è quello di realizzare quest’anno a Firenze
un convegno sul linguaggio come oggetto d’indagine filosofica. La filo-
sofia del Novecento è stata in gran parte filosofia del linguaggio. Di qui
l’opportunità di fare i conti con l’eredità delle diverse linee di ricerca
filosofiche che trovano nel linguaggio un punto comune di incontro. Poi
c’è l’avvio di un seminario con gli insegnanti, orientato alla lettura di
classici, e c’è la nascita di un forum articolato tematicamente su que-
stioni d’interesse didattico, su questo stesso sito: il forum vivrà grazie
alla discussione, quindi è importante che gli iscritti all’associazione co-
mincino a partecipare. Infine, c’è il notiziario periodico, che in futuro
potrebbe diventare una piccola rivista, cui un gruppo di giovani neolau-
reati sta dando vita con grande entusiasmo. Lo si può scaricare (il noti-
ziario, non ancora l’entusiasmo) da questo stesso sito.
Può spiegarci perché la sezione filosofica fiorentina propone un
ciclo di incontri intitolato “Pensare il presente delle scienze” e
non magari una serie di conferenze come quelle che si possono
trovare nei Festival Filosofici a giro per l’Italia durante l’estate
sul futuro del mondo e la sua complessità? Che significato ha
questa diversa prospettiva?
Piaccia o non piaccia, la scienza è una componente fondamentale del
discorso filosofico. Fare i conti con gli apporti della ricerca scientifica
attuale alla impostazione, chiarificazione e possibilmente soluzione, di
più o meno classici problemi filosofici ci è sembrato ineludibile. Nei
prossimi anni, altri potranno essere i temi di questo ciclo, i cui incontri
sono ospitati nella sede di Palazzo Strozzi, grazie alla disponibilità del
Gabinetto Vieusseux. Il tono dell’iniziativa non è quello di un festival, è
vero. Cerchiamo di richiamare l’attenzione del pubblico sulle questioni
che si pongono e sulle differenti risposte, spesso in accesa competizione
l’una con l’altra, mettendo a confronto una prospettiva filosofica e una
prospettiva scientifica. Il successo di pubblico che finora è toccato al-
l’iniziativa ci rincuora: le persone non ne possono più di scienza in pillole
e di filosofia arcana.
Come giudica l’iniziativa di costituire una rivista della Bibliote-
ca Fiorentina, gestita da “giovani leve”?
Spero che dia i suoi frutti, offrendo l’opportunità a molti giovani di far
conoscere le loro prime ricerche e di documentare in modo chiaro eventi
e pubblicazioni d’interesse filosofico. Spero poi che ciò sia utile a tutti
coloro che a Firenze (e altrove) si interessano di filosofia per orientare la
loro attenzione verso i temi della ricerca attuale.
Quale contributo può offrire alla comunità filosofica l’attività
della Biblioteca ed in particolare come si inserisce la SFI fioren-
tina nel tessuto sociale cittadino? E’ possibile che la Filosofia
esca dall’Accademia e circoli e viva nelle “piazze”?
Le piazze odierne sono principalmente quelle offerte dalla rete. Se ri-
usciamo a raccordare questa dimensione con quella relativa al territorio,
ne può scaturire una miscela di formati comunicativi che riesce dove
altri progetti sono falliti o per eccesso di localismo o per una presuntuo-
sa universalità, svincolata dal contesto sociale nel quale chi fa filosofia si
trova a operare. C’è un bisogno di filosofia diffuso e a Firenze cerchiamo
di fare qualcosa per rispondere a questo bisogno, senza chiuderci in una
dimensione cittadina. Dopotutto, le tante belle cose che hanno fatto di
questa città quel che è ci sono perché pensate nello stesso senso. Pro-
viamo a fare, nel nostro piccolo, qualcosa che serva alla scuola e più in
generale alla cultura della città, senza fare troppe concessioni alla “con-
testualità” e senza pompa magna.
Come vede la sua Presidenza nel futuro e come si pone rispetto
alla tradizione idealistica ed hegeliana in cui è nata la Bibliote-
ca Filosofica Fiorentina?
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Non le so dire circa il futuro. Incarichi come questo (e altri consimili che
mi ritrovo) sottraggono molto tempo alla ricerca se davvero si vuole che
l’incarico serva a qualcosa: è doveroso non tirarsi indietro, ma resto un
ricercatore e non posso cambiar pelle.
C’è un pregresso atteggiamento di chiusura dei filosofi nostrani che si
tratta di superare e c’è, malgrado il bisogno di filosofia, un atteggiamen-
to di sospetto verso i filosofi di “professione”. Al termine del mio manda-
to come presidente vorrei aver fatto qualcosa per favorire il dialogo tra
filosofia e scienza, ma anche tra la filosofia e le altre componenti della
nostra cultura, in modo da avvicinare in maniera efficace il mondo della
scuola e quello della ricerca, rendendo meno sfilacciata la consapevo-
lezza del ruolo della filosofia nel tessuto civile. Tuttavia, ha senso che
qualcosa “si apra” se si fa chiarezza sui termini in cui aprirsi. Se no, è
solo velleità. La tradizione poi è quella che è. Non c’è bisogno di osse-
quio e neanche di enfasi su una qualche rottura. La filosofia italiana e in
particolare quella che nella seconda metà del Novecento ha trovato
ospitalità a Firenze ha caratteri alquanto diversi rispetto all’ambiente di
idee che ha visto la nascita della Biblioteca Filosofica, benché tali carat-
teri siano non certo unitari. Questa è la città in cui hanno lavorato Eu-
genio Garin e Giulio Preti: sarebbe bene che la lezione di entrambi non
fosse dimenticata, se non altro per farci i conti in maniera attenta. In
particolare, gli insegnanti di filosofia si sentono isolati e abbandonati a
sé, schiacciati fra programmi mal pensati e una manualistica di dubbio
supporto. La Biblioteca Filosofica può diventare un luogo in cui discutere
apertamente dei problemi relativi e individuare proposte da sviluppare
in sede nazionale. Bisogna crescere di numero, però. Quindi, per chiu-
dere con un appello: iscrivetevi, o amanti di sofia.
Duccio Manetti
La Società Filosofica Italiana. La sezione fiorentina e la “Biblioteca filosofica”.
SS.F.I. è l’acronimo di Società Filosofica Italiana, ma questo non indica
solo la sigla di un’associazione culturale di stampo filosofico. Nel suo
contesto storico la Società Filosofica Italiana, S.F.I. appunto, è una te-
stimonianza dello sviluppo politico e culturale di più di un secolo di vita
italiana.
La Società Filosofica Italiana è nata a Bologna nel 1905 e con non po-
che difficoltà ha superato i momenti significativi e più drammatici del
nostro paese come i conflitti mondiali, il Fascismo o la contestazione del
’68; talvolta è stata protagonista influente o neutrale luogo di disputa,
altre portavoce scomodo dei cambiamenti culturali del paese.
Nel 1909 la S.F.I. ha nel suo organo ufficiale la “Rivista Filosofica”, è
costituita in sezioni denominate dalle regioni d’appartenenza (ad es.
“Sezione Lombarda”, “Sezione Toscana”, ecc.) e annovera tra le sue fila
figure importanti per la vita politica del paese.
Rimane memorabile, come esempio della rilevanza dei temi trattati, il VI
congresso dell’associazione, organizzato a Milano nel 1926 con la parte-
cipazione di Bonaiuti e il rifiuto di Gentile ad intervenire, prevedendo il
tono dei discorsi di Martinetti e De Sarlo in difesa della libertà di pensie-
ro.
Il congresso venne sciolto dal sindaco di Milano Mangiagalli prima del-
l’intervento di Bonaiuti e sciolta venne anche la S.F.I., fino al ’31, quan-
do sarà ricostituita sempre su base associativa ma supervisionata dal-
l’autorità governativa che ne eleggeva gli organi direttivi.
L’associazione ha subito alcune metamorfosi, sia nell’organizzazione sia
nelle linee guida, nel periodo che va dal ’39 al ’52: diventa Associazione
Filosofica Italiana e viene assorbita dall’Istituto di Studi Filosofici ma
solo dopo la guerra può contare sul lavoro di tutte le sezioni e nel ’52,
durante un convegno organizzato dalla sezione lombarda, si ricostituisce
come associazione indipendente.
Il 14 marzo del 1953 torna in attività anche la sezione fiorentina.
Fondata sulle ceneri dell’originaria sezione Toscana, la nuova sezione
fiorentina eredita la vivacità intellettuale e l’impronta filosofica di un’al-
tra grande associazione culturale di Firenze: la “Biblioteca Filosofica”.
La “Biblioteca Filosofica”.
La “Biblioteca Filosofica” di Firenze venne fondata da un gruppo di stu-
diosi grazie al contributo generoso dell’americana Julia H. Scott studiosa
di teosofia.
Fin dall’inizio lo spirito della società era improntato alla difesa della liber-
tà di pensiero e d’espressione e non si caratterizzò mai come un’asso-
ciazione di studi esclusivamente teosofici. Nonostante alcuni elementi
esoterici del primo periodo l’associazione riuscì a comprendere al suo
interno iniziative e linee di pensiero diverse: dai corsi di filosofia indiana
alle lezioni di pragmatismo del Papini, dagli interventi di Calderoni e
Vailati fino ai contributi neoidealistici di Prezzolini, ospitando pure lezioni
o interventi di Croce, Gentile e Levasti.
Quasi contemporaneamente anche a Palermo venne fondata una Biblio-
teca Filosofica d’impronta accademica con poco in comune con la ge-
mella fiorentina; nel paragonare le due Gentile descriveva la prima,
quella palermitana, come un frutto di forma estremamente bella ma un
pò insipida mentre l’altra con la buccia brutta e spinosa e una polpa
molto saporita.
Nel 1908 la Biblioteca Filosofica divenne un vero circolo di filosofia facili-
tando gli incontri di studiosi, gli stessi che frequentavano anche la S.F.I.
e pubblicavano su varie riviste filosofiche come Leonardo o la Rivista di
Filosofia.
Dopo il primo periodo pragmatista, promosso da Vailati Calderoni e
Papini, che speculavano sulle tesi di James e Peirce, nel 1913 l’associa-
zione accentuò l’interesse per la psicologia e i temi sociali perdendo
poco alla volta la sua impostazione antiaccademica. Riuscì a superare a
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fatica la prima guerra mondiale e durante il fascismo perse la sua indi-
pendenza, come la S.F.I. e molte altre associazioni, assorbita dall’Istitu-
to di Studi Filosofici del quale rappresentava la sezione fiorentina.
Finita la guerra, la Biblioteca non riuscì a ritornare in attività, assorbita
dalla Biblioteca di Lettere dell’Università di Firenze. Così il 14 marzo
1953 la rinata sezione fiorentina della S.F.I. divenne erede della tradi-
zione intellettuale della Biblioteca Filosofica. Ne facevano parte Chiavac-
ci, che ne era il presidente, Cesare Luporini, Eugenio Garin, Francesco
Adorno, Vito Fazio-Allmayer, Giulio Preti e altri studiosi di grande levatu-
ra.
L’attività del ‘53/’54 è molto vivace, con importanti cicli di lezioni e con-
ferenze, ma nel ’55, con la morte dell’allora presidente Fazio-Allmayer,
l’attività s’interruppe per ricostituirsi ben dieci anni dopo, nel 1965,
acquisendo, oltre all’identità culturale anche il nome di Bilblioteca Filoso-
fica, un riconoscimento fortemente voluto dal presidente della sezione
Andrea Vasa con i segretari Francesco Adorno e Maria Grazia Sandrini.
Dal ’65 all’80: gli anni d’oro della “Biblioteca”.
L’entusiasmo per la rinata Biblioteca Filosofica ha coinvolto, oltre i sud-
detti presidente e segretari, anche nuovi associati quali Paolo Rossi,
Paola Zambelli, Carlo Monti e Sergio Landucci. Gli eventi organizzati
potevano vantare la partecipazione di Oppenheim (‘68), Szabò (‘70),
Gadamer (‘71). La sezione era molto attiva nella preparazione dei con-
gressi nazionali: L’uomo e la macchina (Pisa,’67), Il problema del dialogo
nella società contemporanea (Padova,’69), Bilancio dell’empirismo con-
temporaneo (L’Aquila,’73). A quest’ultimo parteciparono Andrea Vasa
con la relazione Bilancio dell’empirismo: spazio logico e verificazione
razionale, Ettore Casari con Alcuni temi fondamentali di filosofia della
matematica, oltre interventi di Maria Grazia Sandrini, Maria Luisa Dalla
Chiara, Paolo Parrini e Srgio Bernini.
La direzione nazionale, nel ’71, individuò come tema di lavoro Il posto
della filosofia nell’opinione pubblica e nella società contemporanea e la
riforma dell’insegnamento, sollevando un problema profondo, quale
l’identità della filosofia tra scienze umane, logica e metodologia scientifi-
ca. La sezione vi si dedicò con un ampio progetto che vide la partecipa-
zione anche degli enti amministrativi e finanziari locali e nel ’77 venne
avviato un dibattito sui progetti di riforma della scuola secondaria supe-
riore in relazione all’insegnamento della filosofia. Scriveva Vasa: “Questa
sezione intende appoggiare l’azione che la Società Filosofica già svolge
in sede nazionale per una presenza più “qualificante” della filosofia
nell’area delle materie comuni previste dal progetto di riforma della
scuola secondaria che il Governo ha appena presentato al Parlamento.
Sembra a noi abbastanza strano che la filosofia debba associarsi in
modo esclusivo all’indirizzo sociologico e politico ed essere privata di
ogni sua interferenza con la storia delle scienze matematiche e naturali,
o con la critica letteraria o artistica”. Contribuirono al programma Vitto-
rio Mathieu e Enrico Bellone intervenendo su Filosofia e fisica nel recen-
te volume di G.Toraldo di Francia “Indagine del mondo fisico” e Andrea
Vasa, Paolo Parrini e Antonio Santucci con Storia dell’empirismo con-
temporaneo.
L’impegno della sezione fiorentina rimarrà forte e costante guidato dal-
l’entusiasmo di Vasa (plurieletto presidente) e risentirà della sua scom-
parsa, avvenuta nel 1980, per tutto il decennio successivo. Il desiderio
di Vasa di fare della sezione un centro di studi filosofici aperto alla città
non si era realizzato.
Le difficoltà degli anni ’80.
Alla morte di Vasa divenne presidente ad interim della sezione Aldo
Zanardo. Nonostante l’impegno profuso non si riuscì a mantenere l’alto
profilo dei quindici anni precedenti.
I problemi della sezione fiorentina e parzialmente di tutta la S.F.I. ri-
guardavano in primo luogo la frammentazione della filosofia in rami di
ricerca estremamente specializzati; la disciplina andava scomponendosi
in ambiti altamente variati che in alcuni casi interagivano rendendo la
struttura più dinamica e duttile. Differenziazione e integrazione: la filo-
sofia stava al passo con i tempi, la S.F.I. no, impegnata a concepire un
sistema d’insegnamento unitario da divulgare nella scuola secondaria.
Oltre a questo problema legato a un’accentrazione, esclusivamente
didattico, ne esisteva un altro organizzativo: la sede. L’attività della
sezione si era svolta principalmente tra Piazza S. Marco, la Facoltà di
lettere, l’Accademia della Colombaria in via S. Egidio e a Palazzo Medici
Riccardi, tutti tra loro molto vicini e collegati. Il centro di Firenze non era
però più lo stesso, l’affollamento ed il ritmo accelerato della città diminuì
la facilità di accesso alla sede per chi non abitava in centro, mentre il
Dipartimento di Filosofia in via Bolognese si trovava topograficamente
escluso dalla vita del centro. Anche i soci cominciavano a diminuire e le
attività congiunte con gli enti istituzionali locali si facevano più sporadi-
che; al contrario aumentavano le offerte alternative d’incontri culturali.
Il 20 marzo del 1986 la presidente Maria Grazia Sandrini e il segretario
Amedeo Marinotti si assunsero il compito di riorganizzare la sezione
insieme ad altri volenterosi come Luciano Handjaras, Maria Moneti,
Paolo Rossi, Sergio Landucci e Marzio Vacatello. Grazie a questo sforzo
si poterono organizzare ancora alcuni incontri: con Franco Chiereghin su
La fenomenologia ello spirito di Hegel nella interpretazione di Heideger
(‘86), Brian McGuinness su Wittgenstein e la filosofia della scienza (‘87);
Paolo Rossi su: Il paradigma della riemergenza del passato, Sergio Lan-
ducci su Il fondamento dell’etica nella “Critica della ragion pratica” di
Kant, ancora Chiereghin con La libertà dell’immaginazione in Kant e
Marzio Vacatello Versioni del relativismo etico (‘90); Karl Otto Apel E’
possibile una fondazione ultima non metafisica? (‘91).
Nel 1990/91, dietro invito della segreteria nazionale la sezione collaborò
con il CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) di Firenze
nell’organizzazione di un corso d’aggiornamento dei docenti di filosofia
della scuola media superiore.
L’attività della sezione fiorentina, la “Biblioteca Filosofica”, continuò ad
organizzare eventi, seppur con meno costanza, per tutto il ’93/’94 fino
al ’98, anno della presidenza Moneti.
Riccardo Furi
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Papers I Neuroni Specchio nella Comprensione dell’Azione: un’Interpretazione Deflazionistica.In questo articolo proponiamo alcune riflessioni sul possibile
ruolo dei neuroni specchio (mirror neurons) nella comprensio-
ne dell’azione motoria: in particolare suggeriamo una interpre-
tazione alternativa del ruolo dei neuroni specchio, deflazioni-
stica rispetto ad altri approcci e ipotesi esplicative che esami-
neremo in questa sede. Mostreremo successivamente le impli-
cazioni che tale interpretazione ha nel campo della filosofia
della mente, e le relazioni tra le proprietà sintattiche del movi-
mento da noi ipotizzate e la hand-state hypothesis formulata
da Oztop e Arbib (2002) e proposta nel loro modello MNS1.
INTRODUZIONE
I neuroni specchio, o mirror neurons, sono neuroni presenti nell’area F5
del cervello della scimmia (macaca nemestrina) che si attivano in modo
isomorfo durante l’esecuzione di un’azione diretta ad uno scopo e du-
rante l’osservazione della stessa azione eseguita da un altro individuo1.
Attraverso le connessioni con le aree parietali PF e AIP2, i neuroni spec-
chio formano un circuito neurale deputato al riconoscimento dell’azione
motoria: il funzionamento di questo circuito, chiamato Mirror System
(MSys d’ora in poi), è basato sul matching osservativo-esecutivo3 delle
regioni cerebrali di attivazione. L'ipotesi per cui un simile sistema esiste-
rebbe anche nell’uomo è stata oggetto di svariati esperimenti condotti
con le più avanzate tecniche di brain mapping e brain imaging4. Le in-
terpretazioni funzionali dell’attività del MSys sono molteplici; nella mag-
gior parte dei casi introduzcono concetti intenzionali all’interno della
spiegazione. Alcuni autori sostengono che il funzionamento del MSys sia
fondamentale per la comprensione5 e la rappresentazione6 dell’azione;
altri focalizzano l’attenzione sul possibile legame tra l’evoluzione del
MSys e quella del linguaggio7; altri ancora ipotizzano un ruolo del MSys
nell’evoluzione delle abilità di mind reading8, ovvero la capacità di ascri-
vere ad altri stati mentali e intenzioni.
Scopo di questo articolo è mettere in luce la problematicità, spesso non
considerata dagli autori, legata all’introduzione, in tali interpretazioni, di
concetti intenzionali come scopo e comprensione dell’azione. Forniremo
una differente e deflazionistica interpretazione dell’attività svolta dai
neuroni specchio durante l’osservazione-esecuzione dell’azione. Defi
niamo deflazionistica la nostra interpretazione in quanto esplicitamente
elimina dalla spiegazione qualsiasi elemento di carattere intenzionale,
riducendone sì la portata esplicativa, ma rimanendo più ancorata alle
effettive evidenze sperimentali.
PROBLEMI GENERALI
All’interno delle interpretazioni funzionali dell’attività dei neuroni spec-
chio, compaiono più volte termini e concetti filosoficamente rilevanti:
basti pensare a parole come “rappresentazione”, “azione finalizzata”,
“comprensione”. Il più delle volte questi termini non sono messi in di-
scussione e il loro significato viene assunto come univoco. Si tratta inve-
ce di un lessico che rimanda inevitabilmente a tematiche di carattere
filosofico su cui tuttora si dibatte. Il primo (e più difficile) termine da
considerare sarebbe certamente quello di rappresentazione, ma in que-
sta sede ci concentreremo su altre due questioni: quella della distinzio-
ne tra azioni finalizzate e semplici eventi motori senza scopo, e quella
della comprensione-riconoscimento dell’azione.
In molti articoli riguardanti i Neuroni specchio la suddetta distinzione
tra azioni finalizzate e non, è data spesso per scontata. Gallese ha ten-
tato di chiarire questo punto -seppur passando dal concetto di “com-
prensione dell’azione”- fornendo un’ipotesi sulla base fisiologica del
possesso di uno scopo (embodied goal)9. Tuttavia, nella maggior parte
dei casi, questa distinzione è assunta come auto-evidente. Non lo è più
se, considerando il concetto di scopo, cerchiamo di capire se e come sia
effettivamente possibile distinguere questi due tipi di eventi motori.
Nella letteratura scientifica riguardante i Neuroni specchio, quando gli
autori parlando di azioni finalizzate, generalmente si riferiscono a movi-
menti di prensione di vario genere, che dunque mettono in relazione il
corpo (la mano) del soggetto con un oggetto tridimensionale; spesso si
tratta di cibo, ma non è necessario ai fini della sperimentazione, se non
come rinforzo nelle fasi di addestramento. Le azioni finalizzate vengono
distinte dai semplici eventi motori senza scopo: per esemplificare movi-
menti di questo tipo si potrebbe pensare ai movimenti riflessi, ma non è
questo l’esempio che più comunemente viene riportato. Il più delle volte
infatti si parla di azioni senza scopo riferendosi a semplici movimenti che
non prevedono l’interazione con alcun oggetto e non sembrano neces-
sari a fare alcunché di diverso dal movimento stesso (alzare un braccio,
aprire e chiudere una mano, ecc.). La distinzione sembra palese sen-
nonché, ad un esame più attento, risulta artificiosa. In che senso
un’azione ha o meno un determinato scopo?
Non è l’azione, bensì l’agente a possedere uno scopo. Questo è un pun-
to fondamentale che merita un chiarimento. Pagine importanti sono
state scritte da Hans Jonas su questo argomento, nel suo scritto critico
sulla cibernetica10. Per quanto possa essere “intelligente” una bomba,
l’intenzione sta in chi decide di lanciarla e non nel suo meccanismo
retroattivo di guida. La critica di Jonas si può ricollegare, per certi aspet-
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ti a quella di Richard Taylor11 (sempre nei confronti della cibernetica).
Taylor sottolinea l’impossibilità di dedurre lo scopo di un’azione dalla
pura osservazione esterna, ma le argomentazioni di Taylor non si appli-
cano bene alle interpretazioni funzionali dei Neuroni specchio: se infatti
la maggior parte degli articoli tralascia la problematica della distinzione
di uno scopo solo in base all’osservazione di un’azione, quando questa
viene invece affrontata (vedi Gallese 2001) emerge che non è solo l’os-
servazione che determina la comprensione dello scopo di un’azione.
Gallese per esempio ipotizza qualcos’altro: per ottenere la comprensione
dello scopo dell’azione osservata, agente e osservatore dovrebbero
condividere qualcosa di fisico, cioè il pattern neurale dello schema mo-
torio di quella azione. L’osservatore, secondo Gallese, riconosce l’azione,
e quindi comprende lo scopo, perché è in grado di simularne mental-
mente l’esecuzione. Che si sia d’accordo o meno con questa ipotesi,
resta il fatto che non è possibile opporvi obiezioni sul modello di quelle
che Taylor ha portato al modello cibernetico di Rosenblueth, Weiner e
Bigelow12.
Tenendo dunque presente che è il soggetto, e non l’azione, a possedere
uno scopo, torniamo alla distinzione assunta tra azione finalizzata e non.
Secondo questa distinzione ci sarebbero dunque azioni che un agente
esegue con uno scopo e azioni che esegue senza scopo. Quali azioni
dunque sarebbero senza scopo? Se pensiamo ad un agente che si muo-
ve in un ambiente è difficile immaginarlo compiere azioni senza scopo.
Certo potrebbe inciampare, e cadere senza averne l’intenzione: ma in
questo caso la sua intenzione sarebbe stata semplicemente un’altra,
quella di continuare a camminare. Avere uno scopo non implica neces-
sariamente conseguirlo. Si potrebbe allora pensare ai movimenti riflessi,
come abbiamo suggerito prima, ma nella letteratura relativa ai Neuroni
specchio questi non vengono mai presi in considerazione. In tale lettera-
tura, come esempio di movimento senza scopo si considera solitamente
un movimento volontario dello sperimentatore che non comporti l’inter-
azione con un oggetto.
Nel caso dello sperimentatore, è corretto dire che quando semplicemen-
te alza un braccio la sua azione non ha scopo? L’esecuzione dell’esperi-
mento è certamente uno dei suoi scopi: ma qui entra in gioco lo spinoso
problema dell’intenzionalità, che affronteremo tra breve. Prendiamo
allora solo in considerazione l’evento “osservazione dell’azione”, evento
che inizia al tempo t e finisce al tempo t1: considerando anche solo
questa porzione di tempo, cosa vuol dire che afferrare un oggetto è
un’azione finalizzata, mentre alzare un braccio no? Vuol dire che nel
caso dell’azione di prensione lo scopo, inteso come uno stato finale a
cui il soggetto tende (avere in mano l’oggetto), ricade nell’intervallo
temporale preso in considerazione. Nel caso invece dello sperimentatore
che alza un braccio, si può ipotizzare uno scopo, come la riuscita del-
l’esperimento, che però non ricade all’interno del segmento temporale t-
t1. Dunque, in questo senso particolare, possiamo distinguere le due
azioni l’una come avente uno scopo, l’altra come non avente uno scopo.
Ma se lo scopo (appunto) delle sperimentazioni che abbiamo preceden-
temente analizzato è quello di capire il funzionamento di certi processi
cognitivi, non si dovrebbe fare ricorso ad una tale distinzione artificiosa,
valida solo all’interno del contesto sperimentale. Si dovrebbe cioè cer-
care di ricreare una situazione sperimentale che non alteri in questo
modo il contesto in cui normalmente si svolge il processo cognitivo che
si sta indagando. Per semplificare la questione si potrebbe rinunciare al
concetto di scopo, e si potrebbe pensare all’attività dei neuroni specchio
semplicemente come correlata all’esecuzione e all’osservazione di azioni
che coinvolgano un oggetto. Ma il concetto di scopo e quello di com-
prensione dello scopo sono concetti chiave per tutte le successive spe-
culazioni sulla nascita della comunicazione intenzionale a partire dall’at-
tività di un MSys nell’uomo.
Alla luce di queste considerazioni, che cosa possiamo dire riguardo alla
comprensione dell’azione che dovrebbe scaturire dall’attività dei Neuroni
specchio? Di che tipo di comprensione si tratta? In molti casi gli autori
preferiscono parlare di meccanismo di riconoscimento dell’azione, ma
spesso, nelle discussioni conclusive degli articoli, sostengono che questo
meccanismo sia alla base della comprensione motoria. Nel caso dei
neuroni specchio il soggetto comprenderebbe l’azione e la sua intenzio-
nalità simulando l’esecuzione di un’azione simile a quella osservata. Si
può dire questo, secondo gli autori, perché i neuroni specchio si attiva-
no, oltre che durante l’osservazione, anche durante l’esecuzione del-
l’azione simile. E’ sufficiente questo per parlare di comprensione del-
l’azione? Dipende da cosa si intende per comprensione. Si può dire
allora che la scimmia che osserva l’azione dello sperimentatore individua
l’intenzionalità dell’agente? A questa domanda non è facile rispondere
affermativamente. Ma anche una risposta negativa sarebbe troppo se-
vera. In sostanza, chi può dirlo? A un certo livello si può dire che, se lo
sperimentatore muove la sua mano verso un oggetto e lo prende, la sua
intenzione è quella di prendere l’oggetto. Le più diverse intenzioni pos-
sono portare a muovere quella mano (compiere l’esperimento, fare il
proprio lavoro, scegliere l’oggetto più vicino, più colorato, meno pesan-
te, ecc.). Ma per un’interpretazione così profonda, come abbiamo già
detto, anche un essere umano avrebbe bisogno di più informazioni che
quelle derivanti dalla sola osservazione. Concentriamoci allora ancora
una volta solo sull’evento “osservazione dell’azione”: comprendere
l’azione significa allora capire che il movimento della mano verso l’og-
getto non è casuale, come non lo è la conformazione dell’apertura delle
dita della mano in quel momento, come non lo è la chiusura della mano
attorno all’oggetto. Capire un’azione significherebbe dunque in questo
caso distinguere un certo insieme (relativamente piccolo) di azioni ri-
spetto a un insieme (molto più grande) di sequenze motorie effettiva-
mente non finalizzate. Quindi, come giustamente osservano gli autori, in
questo caso comprendere significa riconoscere. Ma l’accezione di com-
prensione come riconoscimento è solo un caso particolare dei significati
che questa parola può avere. Dedurre che una certa attività neurale
responsabile della comprensione dell’azione, in questa particolare acce-
zione, possa essere alla base della comprensione degli eventi motori
finalizzati, in toto, sembra essere eccessivamente speculativo. I diversi
significati che noi riuniamo sotto il termine “comprensione” potrebbero
essere correlati ad attività neurali completamente diverse.
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-12936
UN’INTREPRETAZIONE DEFLAZIONISTICA
Tenteremo adesso di fornire un’interpretazione diversa dell’attività dei
Neuroni specchio, e del MSys in generale, deflazionistica rispetto alle
interpretazioni presentate finora. In particolare tenteremo di escludere
dalla nostra interpretazione concetti problematici come quello di inten-
zionalità. Ripartiamo dagli esperimenti: quali sono i dati grezzi da inter-
pretare? Possiamo fare un elenco dei principali risultati sperimentali
ottenuti sulle scimmie e sull’uomo:
- Nel cervello di scimmia esistono dei neuroni, nell’area F5, che godono
sia di proprietà visive che motorie.
- Alcuni di questi neuroni sono sensibili all’osservazione di certi tipi di
azioni, eseguite da altri individui, che coinvolgano un oggetto. Si attiva-
no inoltre durante l’esecuzione dello stesso tipo di azione da parte del
soggetto.
- Studi eseguiti con tecniche di misurazione elettrofisiologica e di brain
imaging sull’uomo hanno suggerito che un meccanismo di osservazio-
ne/esecuzione, del tipo osservato nel cervello di scimmia, possa esistere
anche nell’uomo.
- I risultati degli esperimenti condotti sull’uomo hanno mostrato un’atti-
vazione, relativa a questo meccanismo, in varie aree cerebrali tra cui
l’area 44, di cui fa parte anche l’area di Broca; viste le proprietà lingui-
stiche comunemente ascritte a questa area, è stato ipotizzato un lega-
me tra osservazione/esecuzione dell’azione e linguaggio.
Nell’ambito interpretativo di questi risultati, comunemente vengono
inseriti concetti come riconoscimento, scopo e intenzionalità dell’azione.
Questo apre la strada all’introduzione di concetti ancora più problematici
come quello di comprensione, prima dell’azione, poi dell’espressione
comunicativa gestuale, infine dell’espressione linguistica. Sembra allora
di intravedere un ponte evolutivo che nell’attività dei Neuroni specchio
individua in potenza il fondamento stesso della possibilità di comprende-
re, di riempire di significato azioni ed espressioni e di condividerlo con
altri individui.
Abbiamo già cercato di chiarire la differenza che intercorre tra scopo
posseduto da un agente e scopo attribuito ad un’azione. In realtà solo
nel caso dell’agente ha senso parlare di scopo, mentre riteniamo più
corretto, nel caso dell’azione, parlare di funzione.
Concordiamo pienamente con la posizione di Stamenov13 riguardo alla
cecità del MSys rispetto all’identificazione dell’agente: dunque se si vuol
parlare di comprensione dell’azione come comprensione del suo scopo,
crediamo sia corretto farlo eludendo dallo scopo posseduto dall’agente e
riferendosi esclusivamente alla funzione che l’azione osservata possiede.
Dato che il MSys si attiva sia durante l’esecuzione che durante l’osser-
vazione di uno stesso tipo di azione, la posizione dell’osservatore è irri-
levante: non importa che l’azione osservata sia eseguita dall’osservatore
stesso o da un altro individuo.
Concordiamo inoltre con l’ipotesi di Gallese riguardo alla possibilità che il
MSys si sia sviluppato da un precedente meccanismo deputato al miglio-
ramento del controllo dell’azione; una tale interpretazione sarebbe suffi-
ciente per rendere conto dell’attività di questo meccanismo durante la
sola esecuzione dell’azione senza dover ricorrere al problematico con-
cetto di “rappresentazione”. Ma come spiegare allora l’attività del MSys
durante la sola osservazione dell’azione eseguita da terzi? Come pos-
siamo eliminare dall’interpretazione di tale attività concetti come “com-
prensione” e “intenzionalità”. Riteniamo possibile far questo pensando al
MSys come ad un meccanismo deputato al riconoscimento di particolari
aspetti del movimento, che non hanno a che fare con l’intenzionalità
dell’agente. Riteniamo che un possibile fraintendimento delle interpreta-
zioni dell’attività del MSys, che arrivano ad ipotizzare un suo ruolo nella
comprensione del significato, prima delle azioni, e poi delle espressioni
linguistiche, sia causato dallo spostamento semantico che il termine
“scopo” assume nelle argomentazioni: c’è un progressivo scivolamento
del significato da “scopo dell’azione” a “intenzione dell’agente” senza
una precisa spiegazione di come questo passaggio possa avvenire.
L’interpretazione che proponiamo in questa sede si basa sull’idea che il
MSys sia sensibile solo a certi aspetti del movimento. Quali? Possiamo
distinguere nell’azione due tipi fondamentali di proprietà, che chiame-
remo “semantiche” e “sintattiche”. Il paragone linguistico è puramente
funzionale alla spiegazione e non vuole suggerire alcuna facile omologia
tra struttura dell’azione e struttura dell’espressione linguistica. Ciò che
intendiamo per “proprietà semantiche” dell’azione può essere identifica-
to con lo scopo dell’agente, la sua intenzionalità, il perché esegue una
determinata azione, il significato che egli attribuisce al suo movimento.
Per “proprietà sintattiche” dell’azione intendiamo invece quelle proprietà
strutturali che permettono di classificare un certo movimento all’interno
di un ristretto insieme di azioni funzionalmente caratterizzato. Possiamo
pensare al rapporto che intercorre tra questo insieme e il resto dei mo-
vimenti possibili come proporzionale al rapporto che intercorre, in logica
proposizionale, tra l’insieme delle “formule ben formate” (fbf) e il resto
delle stringhe formate da connettori, variabili e quantificatori disposti
casualmente, in modo non ordinato. Cerchiamo di chiarire meglio que-
sta analogia. Lo sviluppo motorio del bambino passa attraverso varie
fasi di cui è possibile individuare la direzione14: i gradi di libertà motoria
del neonato sono considerevolmente maggiori rispetto a quelli di un
adulto; in compenso il neonato paga questa alta libertà motoria in ter-
mini di scarso controllo del movimento. L’affinamento del controllo del
movimento a livello neurale avviene selettivamente15 e implica una pro-
gressiva diminuzione dei gradi di libertà, compensata dalla specializza-
zione di certe aree cerebrali al controllo di determinate modalità di mo-
vimento. Se consideriamo l’insieme dei movimenti possibili del neonato
e lo paragoniamo con quello dell’adulto, troveremo che il primo è molto
più esteso e molto meno specializzato: troveremo in questo insieme
molti movimenti che si riveleranno inutili all’interazione con l’ambiente,
e che quindi saranno scartati dal processo selettivo. I movimenti possi-
bili dell’adulto sono invece minori in numero, ma più efficaci e adatti
all’interazione con l’ambiente: inoltre, dall’osservazione della loro strut-
tura, sarà possibile enucleare regole che permettano di identificare un
movimento come appartenente o meno alla classe delle “azioni funzio-
nali”, ovvero, secondo la nomenclatura utilizzata da Rizzolatti e dai suoi
colleghi, delle “azioni dotate di scopo”. Analogamente l’insieme delle fbf
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 7
della logica è infinitamente più piccolo rispetto a quello formato da tutte
le possibili sequenze di simboli logici; in compenso è costituito da for-
mule utilizzabili in deduzioni e dimostrazioni, ed esistono regole per
stabilire se una determinata espressione sia o meno un elemento del-
l’insieme delle fbf.
Supponiamo dunque, in continuità con le principali interpretazioni, che il
MSys sia un meccanismo di riconoscimento dell’azione: a quali aspetti
del movimento sarà sensibile? Che cosa permette l’identificazione di un
determinato movimento come elemento di una specifica classe di azio-
ni? Proponiamo di pensare al MSys come ad un meccanismo deputato al
riconoscimento delle fbf del movimento (probabilmente di un sottoin-
sieme delle fbf del movimento). Pensiamo al suo funzionamento durante
l’osservazione di un’azione di prensione: abbiamo detto che il MSys è
cieco rispetto all’identificazione dell’agente; così sarà allora anche per
l’intenzione dell’agente, per lo scopo che muove l’azione. Non è possibi-
le dunque che sia questo aspetto del movimento, quello “semantico”, a
causare l’attivazione del MSys. Altra è la questione se si parla dello sco-
po dell’azione, inteso come la sua “funzione” o “struttura”. Un movimen-
to di prensione specifico, per esempio la presa di precisione, necessita
di una sequenza determinata di movimenti (avvicinamento della mano
all’oggetto, apertura di pollice e indice, etc.) senza la quale il movimento
non adempirebbe alla sua funzione, cioè la prensione dell’oggetto in
questa particolare modalità: per adempiere alla funzione dunque è ne-
cessaria una particolare costruzione dell’azione, intesa come schema
della sequenza corretta di movimenti da eseguire. In questo senso ab-
biamo equiparato prima il termine “funzione” a quello di “struttura”:
sono due facce della stessa medaglia. Per adempiere ad una determina-
ta funzione l’azione deve avere una precisa costruzione e, viceversa,
una specifica struttura sarà riconosciuta tale dal sistema se determinerà
una particolare funzione.
Torniamo adesso alla distinzione tra proprietà semantiche e sintattiche
dell’azione: questa differenza non coincide con quella postulata, nelle
più comuni teorie del linguaggio, tra forma e significato. Proponiamo
invece che esistano due accezioni diverse del termine “significato”: la
prima, prettamente intenzionale, si identifica con ciò che il soggetto
agente o parlante attribuisce alla forma (attiva o comunicativa) che sta
utilizzando; la seconda analoga al concetto di significato che alcune
recenti teorie linguistiche16 attribuiscono a proprietà strutturali del lin-
guaggio. Chiameremo “significato1” il significato funzionale/strutturale
e “significato2” quello intenzionale. Significato1 e significato2 rimandano
a proprietà diverse di un’espressione linguistica, ma entrambe contribui-
scono alla sua comprensione. Se manteniamo questa distinzione nel-
l’ambito delle azioni, possiamo dire che dalla sola struttura di un’azione
è possibile dedurre la sua funzione, il suo significato1. Struttura e signi-
ficato1 sono ciò che abbiamo definito come “proprietà sintattiche” del
movimento; il significato2 resta invece relegato alle “proprietà semanti-
che” del movimento, essendo dipendente da aspetti intenzionali e sog-
gettivi. Riteniamo dunque plausibile che il MSys sia coinvolto nella capa-
cità cognitiva di comprensione del significato1 dell’azione, quello legato
ai soli aspetti strutturali, costruttivi di essa.
Una possibile obiezione a questa interpretazione potrebbe basarsi sul
fatto che il Msys si è rilevato sensibile all’osservazione di soli movimenti
biologici: sembra dunque incoerente con questo dato la supposizione
che le uniche proprietà motorie a cui il MSys sarebbe sensibile siano gli
aspetti funzionali dell’azione. Se la funzione è ciò che conta per il MSys,
perché l’osservazione di azioni eseguite da mani virtuali non attiva il
sistema17? Questa obiezione fraintende che cosa denotiamo in questa
sede con il termine funzione. Quando abbiamo introdotto nella discus-
sione gli “ aspetti funzionali dell’azione”, volutamente abbiamo introdot-
to, equiparandoli, anche gli “aspetti costruttivi”. L’intento era quello di
spostare l’attenzione da ciò che può essere considerato lo scopo funzio-
nale dell’azione alla struttura specifica che consente all’azione di conse-
guire quello scopo. Il fatto che il MSys sia sensibile agli aspetti costrutti-
vi dell’azione (alla sua struttura, a come sono collegati tra loro gli ele-
menti della sequenza motoria) non implica che questa costruzione non
abbia una funzione. Anzi, sosteniamo proprio il contrario, e cioè che gli
aspetti costruttivi dell’azione siano portatori di significato1. Comune-
mente quando si parla di proprietà funzionali si dà per scontata l’ipotesi
della realizzabilità multipla, ovvero la possibilità per sistemi fisicamente
differenti di implementare la stessa funzione18. Ma funzione e realizzabi-
lità multipla sono due concetti distinti. Quando parlo di aspetti funzionali
riferendomi all’azione, intendo gli aspetti fisici specifici che costituiscono
quell’azione: intendo le varie sequenze di contrazione e rilassamento
muscolare che consentono l’esecuzione corretta di quell’azione, che la
fanno funzionare. Questi aspetti funzionali sono dunque strettamente
legati alla biologia del movimento. Il fatto che si possa raggiungere lo
stesso risultato eseguendo un’azione manualmente o per mezzo di un
utensile, non implica che le due azioni siano costruite nello stesso
modo: le sequenze motorie da applicare nei due casi sono estremamen-
te diverse. Riassumendo, se per funzione di un’azione si intende non
solo il risultato dell’esecuzione, ma anche l’insieme degli aspetti costrut-
tivi di tale azione, allora l’interpretazione deflazionistica del MSys che
abbiamo fornito non sembra più inconsistente rispetto alla dimostrata
sensibilità del MSys esclusivamente verso il movimento di natura biolo-
gica.
IMPLICAZIONI FILOSOFICHE
I Neuroni specchio hanno qualcosa da dire riguardo al dibattito tra si-
mulazionisti e teorici della Teoria, tuttora in atto, nell’ambito delle teorie
della mente. Generalizzando, possiamo dire che mentre i primi sosten-
gono che l’abilità di ascrivere ad altri stati mentali, come desideri e
credenze, si basa sulla capacità di mettersi nei panni mentali degli altri
(cioè di compiere una simulazione, di pensare “come se” si fosse un
altro), i secondi sostengono che tale abilità non sia altro che il frutto
dell’applicazione, ai dati provenienti dall’osservazione, di conoscenze di
tipo teorico.
Tra le varie interpretazioni fornite del meccanismo osservativo/esecutivo
dei Neuroni specchio, è stato ipotizzato che una sua funzione possa
essere quella di abilitare un organismo all’individuazione di certi stati
mentali, di individui conspecifici, tramite l’osservazione del loro compor-
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-12938
tamento, o perlomeno che contribuisca al meccanismo sotteso a questa
abilità. I primi ad ipotizzare per i Neuroni specchio il ruolo di precursori
di una più generale abilità di mind-reading, sono stati Vittorio Gallese e
Alvin Goldman in un noto articolo del 199819. Che cosa c’entra il mecca-
nismo di riconoscimento dell’azione, ipotizzato essere la funzione fon-
damentale del MSys, con una qualche capacità di mind-reading? Per
spiegare questo Gallese e Goldman partono da un esempio concreto di
attivazione dei Neuroni specchio. Gallese e Goldman assumono che
un’attivazione dei Neuroni specchio da parte di una fonte interna equi-
valga, in senso stretto, a un piano per eseguire una determinata azione.
A che cosa equivale l’attivazione dei Neuroni specchio se invece la fonte
è esterna? Che cosa accade, cioè, quando l’attivazione è dovuta all’os-
servazione, da parte del soggetto, di un individuo che sta compiendo
un’azione rivolta ad uno scopo? Secondo i due autori, il soggetto compi-
rebbe una simulazione mentale dell’azione osservata, tentando così di
comprendere lo scopo di tale azione. L’ipotesi avanzata dai due autori è
che i Neuroni specchio siano una parte del folk psychologizing mecha-
nism20, ovvero di quel meccanismo che consente a tutti gli uomini di
rappresentare gli stati mentali altrui, come percezioni, desideri, creden-
ze, aspettative, etc. L’attività dei Neuroni specchio sembra riflettere,
seppure in una versione primitiva, un uso retrodittivo della simulazione
mentale: con la sua euristica simulativa, anche se non può costituire il
completo correlato fisico del processo simulativo del mind reading, può
a buon diritto essere considerata il suo possibile precursore filogenetico.
L’esistenza dei Neuroni specchio dunque sembra essere decisamente un
punto a favore per i sostenitori della Simulation Theory of mind (ST
d’ora in poi). E’ nostra opinione tuttavia che entrambe le formulazioni
delle teorie della mente, ST e Theory theory of mind (TT d’ora in poi),
nelle loro versioni radicali, siano incompatibili con una spiegazione esau-
stiva della nostra capacità di attribuire stati mentali agli altri. Le formu-
lazioni radicali di queste due teorie implicano una falsificazione completa
della teoria avversaria: da un lato la ST radicale considera la folk
psychology nient’altro che un’abilità e nega che la sua ontologia sia
legata ad un qualunque tipo di teoria scientifica o popolare; dall’altro la
TT radicale considera l’abilità di ascrivere stati mentali agli altri solo il
risultato dell’applicazione di regole psicofisiche basate su di una cono-
scenza degli altri, ottenuta come ogni altro tipo di conoscenza relativa al
mondo. Nelle formulazioni radicali, cioè, le due teorie disegnano un
modello di cognizione degli stati mentali altrui totalmente improntato o
alla simulazione o all’inferenza teoretica. Questa opposizione tra le due
teorie è basata su un falsa dicotomia. Riteniamo infatti che ci siano
alcuni specifici compiti cognitivi, legati all’attribuzione di stati mentali,
che sono più facilmente spiegabili se si parte dall’approccio teoretico,
mentre altri lo sono se si parte dalla simulazione. E’ un problema di
distribuzione e utilizzo delle risorse cognitive: un punto interessante
della questione potrebbe essere quello di cercare di capire il criterio con
cui decidiamo di applicare l’una o l’altra strategia quando interagiamo
con gli altri. Queste considerazioni trovano riscontro in evidenze empiri-
che: in un recente studio fMRI21, Vogeley ha indagato l’abilità di attribui-
re stati mentali agli altri nelle due differenti modalità cognitive , ovvero
applicando una teoria della mente, o assumendo una prospettiva in
prima persona: l’intento era quello di chiarire se le due modalità impie-
gassero lo stesso o un diverso meccanismo neurale. Il non del tutto
sorprendente risultato è che esse utilizzano meccanismi neurali sia co-
muni che differenti. Se i meccanismi neurali sottesi alle due modalità
fossero due insiemi matematici distinti, avrebbero una vasta intersezio-
ne comune, ma parti delle loro aree resterebbero vicendevolmente
estranee le une alle altre. Questi risultati hanno un peso importante
all’interno del dibattito tra ST e TT. Se la ST nella sua versione radicale
fosse vera, allora questo esperimento avrebbe dovuto produrre risultati
differenti: avrebbe dovuto evidenziare cioè l’attivazione delle stesse aree
associate alla prospettiva in prima persona anche durante ogni compito
di attribuzione di stati mentali. Al contrario, i risultati mostrano una
ulteriore attivazione specifica osservabile durante i compiti associati alla
prospettiva in prima persona e non durante quelli associati all’attribu-
zione di stati mentali. D’altra parte, la formulazione radicale della TT
prevedrebbe, contrariamente ai risultati, che le due modalità non condi-
videssero alcun meccanismo neurale. I risultati di questo esperimento
smentiscono dunque le versioni radicali di entrambe le teorie.
Sembra dunque necessario ridimensionare l’interpretazione del ruolo dei
Neuroni specchio all’interno del dibattito “ST vs. TT” fornita da Gallese e
Goldman. Assumendo come valida l’interpretazione deflazionistica del-
l’attività dei MSys che abbiamo precedentemente fornito, tale ridimen-
sionamento aumenterebbe ulteriormente. Se durante l’osservazione
dell’azione la comprensione del significato di tale movimento avviene
solo in relazione a ciò che abbiamo definito il significato1, allora tutto
ciò che riguarda l’intenzionalità resta al di fuori della competenza di
questo meccanismo. Gallese e Goldman stessi ammettono che l’euristica
simulativa del Msys è sì un processo retrodittivo, ma, a differenza della
simulazione postulata dalla ST, non si risale ad un stato mentale, inten-
zionale: si risale solo allo schema motorio dell’azione osservata. Questo
è un punto cruciale: le caratteristiche individuate dal MSys nell’azione
osservata appartengono all’insieme degli aspetti sintattici, costruttivi del
movimento. Esse sono sì portatrici di significato, ma solo inteso in senso
funzionale/strutturale (significato1), e non in senso intenzionale (signifi-
cato2). Eliminando la componente intenzionale dall’attività del MSys, si
esclude anche la possibilità che lo studio di tale attività abbia un ruolo
fondamentale all’interno del dibattito ST vs. TT che potremmo parafra-
sare come il “dibattito sulla percezione dell’intenzionalità”.
HAND-STATES E PROPRIETA’ SINTATTICHE DEL MOVIMENTO
Il modello MNS1 di Oztop e Arbib22 è un’estensione di un modello pre-
cedente chiamato FARS23: questo è un modello computazionale del
sistema di controllo della prensione nel primate, basato sulle scoperte di
Rizzolatti e Sakata riguardo all’area AIP e alle sue proiezioni corticocorti-
cali verso l’area F5. E’ stato progettato allo scopo di mostrare come F5 e
AIP possano agire come parte del circuito di trasformazione visuomoto-
ria che permette, a partire dalla percezione visiva di un oggetto, di
selezionare il tipo di movimento adeguato alla sua prensione. Le scoper-
te di Sakata riguardo ad AIP e di Rizzolatti su F5 sono state interpretate
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 9
da Arbib e Fagg in termini di elicitazioni (affordances) gibsoniane24: più
precisamente, i due autori hanno cercato di mostrare, da un lato, la
capacità di AIP di rappresentare i movimenti di prensione elicitati dalla
percezione visiva dell’oggetto e, dall’altro, la capacità di F5 di seleziona-
re e guidare l’esecuzione del movimento di prensione adeguato all’og-
getto. Il modello FARS suggerisce inoltre come F5 potrebbe usare in-
formazioni riguardanti, direttamente o indirettamente, i compiti da ese-
guire come vincoli per guidare la scelta in caso di elicitazioni multiple. Il
modello FARS è in realtà molto complesso e un suo esame approfondito
richiederebbe troppo tempo: qui ci concentreremo invece sul modello
MNS1 progettato da Oztop e Arbib, che da FARS direttamente deriva, o
meglio, ne è un’estensione.
L’idea fondamentale del modello MNS1 è che il cervello amplia le pre-
stazioni del meccanismo modellato da FARS (ovvero il meccanismo de-
putato al riconoscimento delle elicitazioni di prensione di un oggetto e
alla loro trasformazione in un programma motorio adeguato) affiancan-
do a questo un meccanismo che riconosce un’azione in base alla con-
formazione della mano (hand-state) e alla relazione tra la traiettoria
d’apertura della mano e le elicitazioni di un oggetto. Il concetto chiave
alla base del modello MNS1 è dunque quello di hand-state, in qualità di
informazione necessaria a determinare, per estrapolazione, se una certa
pre-apertura della mano, associata ad una certa traiettoria di movimen-
to, culminerà o meno in un’azione di prensione adeguata alle affordan-
ces dell’oggetto osservato. Lo hand-state è volutamente definito come
una relazione mano e oggetto; è dunque un concetto neutro rispetto
alla prospettiva dell’osservatore. Questo concetto ci rimanda alle nostre
considerazioni sulla cecità del MSys rispetto all’identità dell’agente. Rite-
niamo che proprio, grazie a questa neutralità, il concetto di hand-state
diventi un buon candidato al ruolo di elemento che consente la genera-
lizzazione “mano del soggetto→mano altrui”. A prescindere dalle ipotesi
“sopravvenientistiche” della genesi di questa generalizzazione, fornite
dai due autori, crediamo che il concetto di hand-state, e anche il ruolo
che a questo concetto viene affidato nel modello, siano compatibili con
il concetto, e relativo ruolo, che abbiamo individuato nelle proprietà
sintattiche dell’azione. Coerentemente con la definizione che abbiamo
dato di proprietà sintattiche, gli hand-states forniscono informazioni
relative alla struttura, alla costruzione dell’azione, che potrebbero con-
sentire una sua classificazione in base a criteri funzionali. Alla luce di
queste analogie, crediamo di poter affermare correttamente che l’inter-
pretazione deflazionistica del MSys da noi fornita sia compatibile e coe-
rente con la struttura del modello MNS1 di Oztop e Arbib.
CONCLUSIONI
La caratteristica modalità di attivazione neuroni specchio poteva sem-
brare solo un’anomalia del sistema percettivo: fin dalla loro scoperta
invece, è stata considerata espressione di un meccanismo neurale il cui
studio avrebbe potuto chiarire molti aspetti della cognizione umana.
L’attivazione isomorfa dei Neuroni specchio durante l’esecuzione di
un’azione finalizzata, e durante l’osservazione della stessa azione com-
piuta da terzi, è stata interpretata dagli studiosi dell’argomento in vari
modi: dall’ipotesi che il MSys si sia evoluto da un semplice meccanismo
di controllo dell’azione, si è arrivati fino a speculazioni riguardanti com-
prensione dello scopo, intenzionalità, genesi evolutiva delle capacità
linguistiche e teorie della mente.
In questo articolo abbiamo analizzato i problemi relativi all’uso di termini
intenzionali non univoci come scopo e comprensione all’interno delle
interpretazioni della funzione del MSys. Abbiamo proposto un’alternativa
e deflazionistica interpretazione della sua attività, che ha eliminato il
concetto di intenzionalità dalla spiegazione. Non si tratta di una sempli-
ce riformulazione terminologica che elude il problema con un gioco
linguistico. E’ invece un’interpretazione sostanzialmente differente da
quelle proposte dagli altri autori, che si limita a considerare l’attività dei
Neuroni specchio, e del MSys in generale, come espressione di un mec-
canismo di riconoscimento delle formule ben formate (fbf) del movi-
mento (o di un loro sottoinsieme). Abbiamo introdotto una distinzione
tra gli aspetti semantici e sintattici del movimento (utilizzando la meta-
fora linguistica puramente a scopo illustrativo), identificando nei primi
l’intenzionalità dell’agente che compie l’azione, nei secondi gli aspetti
costruttivi, strutturali dell’azione eseguita (conformazione della mano,
traiettoria del movimento, successione di sequenze motorie utilizate,
muscoli attivati, etc.). Abbiamo definito “fbf del movimento“ quelle se-
quenze motorie che rispondono a determinati principi funzionali e co-
struttivi. Abbiamo inoltre distinto tra significato1 e significato 2 del-
l’azione, riferendoci al primo come al significato funzionale/costruttivo
dell’azione, ovvero relativo ai suoi aspetti sintattici; al secondo come al
significato intenzionale, ovvero relativo agli aspetti semantici. Sostenia-
mo dunque che il MSys sia effettivamente sensibile allo scopo, al signifi-
cato dell’azione eseguita/osservata, ma solo se per significato intendia-
mo il termine nella sua accezione funzionale-costruttiva, ovvero se stia-
mo parlando del significato1.
L’interpretazione deflazionistica da noi fornita ha comportato alcune
conseguenze sulle implicazioni filosofiche attribuite al MSys: eliminando
infatti il concetto di intenzionalità dalla funzione cognitiva del MSys, si
riduce l’interesse che per la sua scoperta può nutrire il dibattito sulla
teoria della mente.
Il nostro lavoro non mette in discussione la possibile correttezza delle
interpretazioni del MSys sul modello fornito da Gallese e colleghi, ma
vuole distinguere gli aspetti più fondati, più saldamente ancorati ai dati
effettivi, di tali interpretazioni, da quelli più speculativi, rimandando la
discussione di questi ultimi in attesa di future conferme.
Per quanto differente dalle interpretazioni fornite dagli altri autori, quel-
la che proponiamo qui è compatibile con la maggior parte di esse. Una
certa coerenza è stata riscontrata anche con il modello funzionale MNS1
di Oztop e Arbib. Gli hand-states postulati dal loro modello sembrereb-
bero coincidere, funzionalmente, con gli aspetti costruttivi dell’azione
che abbiamo identificato.
Francesco Mariotti
NOTE
1. Di Pellegrino, G., Fadiga, L., Fogassi, L., Gallese, V., Rizzolatti, G. “Understanding Motor Events: a Neurophysiological Study” in Exp.Brain Res., 91 (1992), 176-80.
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129310
2. Gallese, V. et al. “Deficit of hand preshaping after muscimol injection in monkey parietal cortex”, in NeuroReport, , 5 (1994), 1525-9.
3. Rizzolatti, G., Fadiga, L, Gallese, V., Fogassi, L., “Premotor cortex and the recognition of motor actions” in Cog. Brain Res., 3 (1996), 131-41.
4. Fadiga, L. et al. “Motor facilitation during action observation: a ma-gnetic stimulation study” in Journal of Neurophys., 73 (1995), 2608-11. Iacoboni, M. et al. “Cortical Mechanisms of Human Imitation” in Science, 286 (1999), 2526-28. Buccino, G. et al. “Action observation activates premotor and parietal areas in a somatotopic manner: an fMRI study” in Europ.J.Neurosc., 13 (2001), 400-4. Maeda, F. et al. “Experience-dependent modulation of cortico-spinal excitability durino action observation” in Exp.Brain Res., 11 (2001), 628-35. Maeda, F. et al. “Motor Facilitation While Observing Hand Actions: Specificity of the Effect and Role of Observer's Orientation” in J.Neurophysiol., 87 (2002), 1329 – 35. Kohler, E. et al. “Hearing Sounds, Understanding Actions: Action Representation in Mirror Neurons” in Science, 297 (2002), 846-8. Aziz-Zadeh, L. et al. “Lateralization of the Human Mirror Neuron Sy-stem” in Jour.Neurosci. 26, 11 (2006), 2964-70. Molnar-Szakacs, I. et al. “Observing complex action sequences: The role of the fronto-parietal mirror neuron system” in NeuroImage, 33 (2006), 923-35.
5. Cfr. n. 3. Rizzolatti, G. et al. “The Mirror System in Humans” in Stamenov, M.I. & Gallese, V. (Eds.) “Mirror Neurons and the evolution of brain and lan-guage”, John Benjamins Pub., Amsetrdam / Philadelphia (2002), 37-59.
6. Fadiga, L. et al. “Visuomotor neurons: ambiguity of the discharge or “motor” perception?” in International Journal of Psychophysiology, 35 (2000), 165-77.
7. Rizzolatti, G. & Arbib, M.A., “Language within our grasp” in Trends in Neuroscience, 21, 5 (1998), 188-94.
8. Gallese, V. & Goldman, A. “Mirror neurons and the simulation theory of mind-reading”, in Trends in Cog. Sci., 2, 12 (1998), 493-501. Gallese, V. “The SharedManifold Hypothesis” in Thompson,E. “Betwe-en Ourselves: Second-person issues in the study of consciousness”, Imprintic Academic Ed. (2001), 33-50. Gallese, V. “La molteplice natura delle relazioni interpersonali: la ricer-ca di un commune meccanismo reurofisiologico” in Networks, 1 (2004), 24-47. 9. Gallese, V. (2001), vedi nota 8.
10. Jonas, H., “La cibernetica e lo scopo: una critica”, Ed. ETS, Pisa (1999).
11. Taylor, R., "Comments on a Mechanistic Conception of Purposeful-ness," in Philosophy of Science, 17 (1950), 310-317. Su Richard Taylor cfr. Tamburrini, G. “I matematici e le macchine intelli-genti”, Ed. Bruno Mondatori, Matematica e dintorni (2002), 5-28.
12. Rosenblueth, A., Wiener, N., Bigelow,J. "Behavior, Purpose and Te-leology" in Philosophy of Science, 10 (1943), 18-24.
13. Stamenov, M.I. “Some features that make mirror neurons and hu-man language faculty unique” in Stamenov, M.I. & Gallese, V. (Eds) “Mirror Neurons and the evolution of brain and language”, John Benja-mins Pub., Amsetrdam / Philadelphia (2002), 249-271.
14. Il problema dello sviluppo del controllo motorio rimane un dibattito aperto. La generalizzazione della direzione di questo sviluppo che qui proponiamo non vuole negare la possibilità di un adattamento non li-neare del controllo motorio, attraverso alternanze di bloccaggio e sbloc-caggio di gradi di libertà. Qui si vuole solo estrapolare uno schizzo del disegno generale, e soprattutto della direzione, verso cui tende questo sviluppo. Su questo argomento cfr.:
-Bernstein, N. “The coordination and regulation of movements” New York: Pergamon (1967); -Taga, G.“Freezing and freeing degrees of freedom in a model neu-ro-musculo skeletal systems for the development of locomotion” in Proc. of the 16th Int. Society of Biomechanics Congress, (1997), 47.
15. Edelman, G. “Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection”, Basic Books, New York (1987). 16. Ci riferiamo alle varie formulazioni della Construction Grammar di cui qui possiamo riassumere così l’idea fondamentale: le costruzioni sono corrispondenze forma-significato che esistono indipendentemente dal significato degli elementi lessicali che le riempiono; le costruzioni stesse sono portatrici di significato indipendentemente dalle parole contenute nella frase. Su questo argomento cfr.: -Fillmore, C.J. “The Case of Case” in Bach, E., Harms, R.T. ,“Universals and Linguistic Theory’’, Rinehart and Winston (1966), 01-88. -Fillmore, C.J. “Frames and the Semantics of Understanding” in V. Raskin (ed.) “Round Table Discussion on Frame/Script Semantics” Part I, Quaderni di Semantica VI: 2 (1985), 222-54.-Fillmore, C.J. et al. “Regularity and idiomacity in grammatical construc-tions ; The case of {\it let alone}” in Language, 64 (1988), 501-38. Goldberg, A.E. “Constructions: A Construction Grammar Approach to Argument Structure”, Chicago (1995), The University Press of Chicago.
17. Decety, J. et al. “Mapping motor representations with positron emission tomography” in Nature, 371 (1994), 600-2.
18. Il concetto di Multiple Realizability è stato introdotto in filosofia della mente da Hilary Putnam. Cfr.: Putnam, H. “Mind, Language, and Reality: Philosophical Papers”, vol. 2., Cambridge (1975), Cambridge University Press. Per una discussione di questo concetto cfr.: Fodor, J. “Representations”, cap. 4, Cambridge MA (1981): MIT Press.
19. Gallese, V. & Goldman, A. “Mirror neurons and the simulation theory of mind-reading”, in Trends in Cog. Sci., 2, 12 (1998), 493-501.
20. Davies, M. & Stone, T. (Eds.) “Mental Simulation – Readings in Mind & Language”, Oxford U.K. (1995), Blackwell Publishers. Greenwood, J.D. (Ed.) “The future of folk psychology”, Cambridge University Press (1991).
21. Vogeley, K. et al. “Mind Reading: Neural Mechanisms of Theory of Mind and Self-Perspective” in NeuroImage, 14 (2001), 170-181.
22. Oztop, E. & Arbib, M.A. “Schema desing and implementation of the grasp-related mirror neuron system” in Biol. Cybern., 87 (2002), 116-140. Oztop, E. et al. “Mirror neurons and imitation: A computationallygui-ded review” in Neural Networks, 19 (2006), 254-71.
23. Fagg, A.H. & Arbib, M.A. “Modelling parietal-premotor interactions in primate control of grasping” in Neural Networks, 11 (1998), 1277-303.
24. Il termine “elicitazione” (affordance), ripreso da quello di Gibson, si riferisce a quei parametri per l’interazione motoria che sono segnalati da cues sensoriali senza bisogno di coinvolgere processi di alto livello di riconoscimento dell’azione. Cfr.: Gibson, J.J. “The senses considerated as perceptual systems” Houghton Mifflin, Boston (1966).
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Spiegare la ComplessitàI. Affrontare la complessità: un problema per le metodologie
scientifiche tradizionali
Lo studio dei sistemi complessi è un ambito di ricerca oggi in pieno
sviluppo. Lo studio matematico di questo tipo di sistemi nasce soprattut-
to per rispondere a due esigenze: da un lato i difficili tentativi di mate-
matizzazione all’interno di molte scienze cosiddette “speciali”, quali
l’economia, la sociologia e la biologia, e dall’altro la nascente attenzione,
in fisica, allo studio di sistemi aperti con attrattori. Negli anni ’50-’60
tentò di venire incontro a queste esigenze la cosiddetta Teoria Generale
dei Sistemi, orizzonte di ricerca dal programma fortemente interdiscipli-
nare (e probabilmente anche fortemente dispersivo)1. L’impostazione
della Teoria Generale dei Sistemi è stata ereditata quasi immutata dalla
teoria dei sistemi complessi, caratterizzata però anche da un uso mas-
siccio del computer e da una particolare attenzione rivolta ai sistemi
caotici ed ai sistemi auto-organizzanti.
La fisica di stampo classico è sempre stata legata ad un’impostazione di
tipo analitico/lineare, che basa lo studio di un sistema su una scomposi-
zione dello stesso in elementi analizzabili indipendentemente e sull’esa-
me del suo comportamento in relazione a poche variabili rilevanti, con-
siderando il resto dei dati come “condizioni al contorno”.
[...] la fisica [...] ha potuto scoprire leggi di natura. Questa scoperta è stata resa
possibile da esperimenti – reali o di pensiero – nei quali vengono mutati soltanto
pochi parametri (o soltanto un parametro): ad esempio l’altezza o il peso negli
esperimenti di Galileo sulla caduta dei gravi. A questa metodologia è associata una
tendenza egualmente importante: la ricerca di “elementi” semplici attraverso la
scomposizione dei sistemi nelle loro parti.2
Un’impostazione del genere è quindi legata ad un approccio che punta
alla modularizzazione dell’oggetto di studio e all’analisi di ogni compo-
nente indipendentemente; a sua volta ogni componente può essere
sottoposta a una nuova modularizzazione, procedendo quindi attraverso
una gerarchia di sistemi descritti in maniera sempre più
particolareggiata.3 Questa impostazione è andata avanti di pari passo
con un approccio riduzionista, secondo cui una spiegazione ad un qua-
lunque livello di descrizione può essere ridotta, almeno in linea di prin-
cipio, ad una spiegazione di livello inferiore, fino a ridursi a spiegazioni
al livello micro-fisico.
Cercando di spiegare un sistema in riferimento alle sue parti, è proce-
dimento comune assumere sia che tale sistema sia fortemente modula-
re, sia che abbia una struttura gerarchica.
[...]
Nella pratica scientifica, l’assunzione che i sistemi abbiano una struttura modulare
e gerarchica tende a favorire programmi di tipo riduzionistico. [...] Poca attenzione
viene rivolta all’organizzazione, dato che questa viene considerata lineare e relati-
vamente poco importante. La maggior parte della ricerca viene rivolta alla com-
prensione delle parti.4
Un approccio del genere è però risultato fallimentare nel momento in
cui la scienza si è dovuta confrontare con lo studio di sistemi altamente
complessi. Non vi è una definizione universalmente accettata di ‘sistema
complesso’, ma in generale possiamo dire che un sistema è considerato
complesso se è costituito da un alto numero di parti interconnesse, tale
che non è possibile spiegare il suo comportamento senza prendere in
considerazione il ‘livello organizzativo’; questo livello di analisi può esse-
re definito come lo studio delle interazioni fra le varie componenti di un
sistema, finalizzato al riconoscimento dei vincoli a cui è sottoposto il
comportamento di ogni elemento in relazione al comportamento degli
altri elementi, andando quindi ad identificare all’interno del sistema
particolari strutture, come gruppi e gerarchie, la cui presenza risulta
rilevante per la caratterizzazione del comportamento del sistema. 5
L’attenzione che deve essere rivolta al livello organizzativo diviene un
forte ostacolo al programma riduzionista poichè diviene necessaria
l’analisi della topologia del sistema: almeno parte della spiegazione non
è quindi riducibile allo studio dei sotto-sistemi isolati, ma corrisponde
all’interazione fra essi.
[…] di fronte a tale organizzazione, le spiegazioni che fanno uso solo di informa-
zioni ottenute investigando a livelli inferiori falliscono, e spiegazioni adeguate
necessitano di una esposizione di come l’organizzazione nel sistema generi il
fenomeno.6
Nella sua accezione più forte, la nozione di sistema complesso è forte-
mente olistica e l’impostazione sistemica è focalizzata sullo studio delle
interazioni fra le parti, astraendo il più possibile dalla specifica natura
fisica di queste (perlomeno tralasciando tutte le caratteristiche che non
influiscono sulla natura delle interazioni). Il livello di complessità di un
sistema si pone quindi all’interno di un continuum che va da sistemi
altamente modulari, con sotto-sistemi dai comportamenti distinti, a
sistemi in cui le uniche proprietà rilevanti sono di carattere topologico
globale ed i cui componenti sono interscambiabili fra di loro;7 la maggior
parte dei sistemi che i ricercatori si trovano di fronte si pongono però ad
un livello intermedio, in cui le parti presentano comportamenti distinti,
ma che vengono vincolati dal tipo di interazioni che esse intrattengono.
Ad un estremo abbiamo sistemi che esibiscono particolari proprietà semplicemente
perchè essa è posseduta dalle parti del sistema. [...] All’altro capo di questo conti-
nuum incontriamo sistemi il cui comportamento è imputabile quasi esclusivamente
al modo in cui le parti sono messe insieme. Nei casi più estremi, le componenti
sono funzionalmente identiche, e quindi intercambiabili.
[...] Nel mezzo troviamo sistemi le cui parti forniscono contributi caratteristici, ma
la maniera in cui queste sono aggregate impone interessanti vincoli all’azione delle
singole parti e conduce a comportamenti inattesi del sistema considerato
integralmente.8
Il livello organizzativo è quindi centrale nello studio della complessità e
difatti la tassonomia dei sistemi si basa generalmente sulla natura delle
interazioni fra le componenti e sull’evoluzione che queste interazioni
hanno nel tempo. Prima di tutto possiamo differenziare i sistemi in ‘sta-
tici’ e ‘dinamici’. In questi ultimi almeno parte delle interazioni fra le
componenti mutano nel tempo, mentre nei primi le interazioni riman-
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 13
gono fisse (ad esempio in un cristallo, ma anche la maggior parte dei
processi interni di un organismo adulto); la staticità del sistema è legata
al tipo di analisi che siamo interessati a svolgere, alle variabili che rite-
niamo rilevanti, visto che ognuno di questi sistemi, ad un diverso livello
di osservazione, si presta ad essere considerato dinamico (ad esempio,
nell’organismo adulto i molti processi interni che possono essere consi-
derati stabili, perché caratterizzati da equilibri biochimici che si manten-
gono costanti, si rivelano ovviamente dinamici nel momento in cui an-
diamo a studiare i processi metabolici che sottostanno a tali equilibri).
Un sistema dinamico può essere ‘organizzato’ o ‘disordinato’: nel siste-
ma organizzato le dinamiche di ogni componente sono vincolate dalle
interazioni che intrattiene con le altre componenti (come in un flusso di
liquido, in cui il movimento di una particella non è libero, ma vincolato
in velocità e direzione a quello delle altre particelle), mentre nel sistema
disordinato il comportamento di ogni elemento è ‘libero’, cioè non è
vincolato da quello delle altre parti (ad esempio un volume di gas ideale
in uno stato di equilibrio, in cui per ogni particella ogni direzione di mo-
vimento è ugualmente probabile). L’analisi dei sistemi organizzati tratta
quindi l’organizzazione per mezzo di insiemi di variabili mutuamente
dipendenti.
Un sistema si distingue in ‘aperto’ o ‘chiuso’ a seconda che abbia o me-
no un interscambio di materia o energia con l’ambiente attorno. La
fisica classica ha principalmente studiato sistemi chiusi, come il volume
di gas ideale isolabile dall’ambiente esterno tipico della termodinamica
classica. Per questi sistemi vale la seconda legge della termodinamica,
secondo cui un sistema tende sempre verso uno stato di equilibrio,
caratterizzato dal maggiore disordine (aumento dell’entropia). Quando
parliamo di sistema chiuso, come pure di sistema assolutamente disor-
dinato (nel senso visto sopra di assoluta mancanza di reciproci vincoli
fra gli elementi), stiamo ovviamente facendo delle idealizzazioni: ad
esempio i sistemi chiusi di gas ideale della termodinamica classica sono
un modello teorico di riferimento, utile per descrivere il comportamento
dei reali sistemi gassosi utilizzati nelle procedure sperimentali. Tali si-
stemi reali sono ‘quasi’ chiusi e costituiti da elementi con un comporta-
mento ‘quasi’ libero, nel senso che le interazioni del sistema con l’am-
biente e fra le particelle sono talmente poco rilevanti da permettere di
sviluppare modelli che non le considerano.
Per quanto riguarda invece i sistemi aperti, un classico esempio è un
qualunque organismo vivente, che per il proprio mantenimento deve
assumere energia dall’ambiente, restituendo materiali energeticamente
degradati. Più precisamente in questo caso stiamo parlando di sistemi
‘dissipativi’, cioè sistemi organizzati in maniera tale da poter utilizzare un
flusso di energia in ingresso per mantenere o evolvere la propria strut-
tura, senza permetterle di cadere in uno stato disordinato. Molte scienze
non fisiche (ad es. biologia, sociologia, economia, psicologia) ed anche
nuovi campi della fisica (come lo studio dei sistemi caotici) hanno a che
fare con sistemi per definizione aperti, che possono essere analizzati
come sistemi dissipativi.
Un caso particolare di sistema dissipativo è rappresentato dai sistemi
‘auto-organizzanti’, cioè sistemi aperti che tendono autonomamente
verso il raggiungimento ed il mantenimento di uno stato ordinato.
Un sistema si definisce auto-organizzato quando esibisce una struttura
interna organizzata, la cui generazione e mantenimento è il risultato
delle interazioni collettive fra gli elementi del sistema. In tali sistemi, il
passaggio ad uno stato ordinato viene sì indotto da variazioni ambienta-
li, visto che stiamo parlando di sistemi dissipativi (che quindi necessita-
no di particolari scambi di energia e/o materia con l’ambiente), ma
l’emergere di tale comportamento ordinato non può essere spiegato
facendo riferimento a forme di controllo esterne al sistema o presenti in
esso in forma centralizzata; non abbiamo altra possibilità che vederlo
come un risultato del comportamento locale dei singoli elementi.
Facciamo un esempio classico e molto semplice: le celle di Bénard.
Prendiamo una quantità d’acqua a temperatura ambiente: essa sarà un
sistema disordinato (non si tratta di un gas ideale e il movimento di ogni
particella sarà moderatamente vincolato dal movimento delle particelle
vicine, ma in maniera così poco rilevante per i nostri interessi che pos-
siamo permetterci di parlare di movimento casuale). Scaldiamo l’acqua
dal basso, mantenendo la superficie superiore a temperatura ambiente:
il liquido in basso, riscaldato, risulterà di peso specifico minore di quello
in alto e tenterà di salire, mentre il liquido in alto, più pesante, tenderà
a muoversi verso il basso. Al raggiungimento di una temperatura critica,
il movimento dell’acqua si organizzerà nelle celle di Bénard, cioè in una
serie di flussi ciclici paralleli che vincolano il movimento dell’acqua nel
sistema.
Figura 1: movimento casuale delle molecole di un liquido (sinistra) e
movimento organizzato nelle celle di Bérnard (destra)
Il fenomeno di Bénard è un esempio di sistema auto-organizzato: in
risposta ad una particolare condizione ambientale le dinamiche degli
elementi del sistema si coordinano spontaneamente in una forma orga-
nizzata e stabile, finché le condizioni ambientali non mutano in maniera
rilevante. Si tratta quindi di un sistema aperto che, in risposta a certe
condizioni ambientali, passa autonomamente da uno stato disordinato
ad uno organizzato e lo mantiene finché le condizioni ambientali lo per-
mettono.
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129314
Nonostante l’approccio sistemico sia fortemente olistico, un approccio
modulare all’analisi del sistema non gli è comunque estraneo, e quando
è possibile l’oggetto di studio viene strutturato in una gerarchia organiz-
zativa: ambiente, sistemi e sottosistemi. Questa gerarchia risulta però
ben più complessa che nell’approccio analitico. Il problema non è tanto
nell’identificare le componenti del sistema, che possono essere indivi-
duate tramite metodi sperimentali;9 il problema reale è capire se il com-
portamento di tali componenti possa essere studiato indipendentemente
dal resto del sistema.
Affinché il sistema sia distinguibile dal suo ambiente, o che una porzione
di un sistema sia definibile come sottosistema, è necessario che il grado
di interdipendenza fra le sue componenti risulti considerevolmente più
elevato del grado di interazione con l’esterno. Un sistema deve essere
quindi chiaramente distinto dal suo ambiente, ma al contempo aperto a
certi tipi di interazioni con l’esterno legate alla propria gestione energe-
tica (l’interazione del sistema con l’esterno deve essere selettiva, come
ad esempio la permeabilità di una membrana cellulare). Un buon di-
scriminante per la demarcazione di un sistema organizzato, per quanto
sempre con un alto grado di arbitrarietà nella sua applicazione, è la sua
stabilità in relazione ai mutamenti esterni, definita come ‘chiusura orga-
nizzativa’: un sistema è chiuso organizzativamente rispetto al proprio
ambiente se al suo interno è completamente definita una struttura fon-
data su feed-back negativi che rende il comportamento del sistema
relativamente stabile in rapporto alle dinamiche ambientali. Un sistema
dissipativo deve quindi per definizione essere termodinamicamente
aperto, ma organizzativamente chiuso verso l’esterno.
Un’importante nozione legata allo studio dei sistemi organizzati è quella
di ‘emergenza’: una proprietà è emergente se non è deducibile dalle
proprietà delle singole parti, ma è il risultato del comportamento del
sistema nella sua totalità, cioè dalla natura delle parti e dal particolare
modo in cui interagiscono.
Una proprietà F di un sistema S , costituito dalle componenti in una certa relazio-
ne R fra di loro, è emergente se e solo se (a) vi è una legge che abbia per effetto
che tutti i sistemi con quella stessa struttura soddisfino F, e se (b) nonostante ciò,
a partire dalle leggi generali della scienza naturale, che si applicano a tutti i tipi di
oggetti e non solo ad oggetti come in una certa relazione R fra di loro, non è
possibile provare che sistemi che abbiano la stessa struttura di S abbiano tutte le
caratteristiche (o esibiscano esattamente quel comportamento) che sono proprie
della proprietà F.10
Anche la nozione di proprietà emergente è quindi legata al livello orga-
nizzativo del sistema, visto che si tratta di proprietà che non dipendono
solo dalle componenti del sistema, ma soprattutto da come queste sono
organizzate.
Tre aspetti sono fondamentali per la nozione di emergenza:
- ‘Sopravvenienza’: la proprietà emergente non esiste più se il livello
inferiore viene rimosso (non c’è divisione “mistica” fra i due livelli); in
particolare una proprietà A sopravviene su un insieme di proprietà B se
e solo se non è possibile che due oggetti identici in relazione all’insieme
delle proprietà B differiscano per la proprietà A. Il fatto che l’oggetto
soddisfi l’insieme di proprietà B implica che l’oggetto soddisfi anche la
proprietà A, ed non è possibile una variazione relativa alla proprietà A se
non vi è una corrispondente variazione nell’insieme di proprietà B.11
- Le strutture emergenti non sono aggregati, cioè non sono risultati
prevedibili dalla “somma” delle proprietà delle parti.
- Le proprietà emergenti possono avere effetti causali sulle proprietà di
livello più basso (‘causalità verso il basso’).12
La nozione di emergenza si pone quindi come “avversario diretto” della
nozione di riduzione, sottolineando come nei sistemi complessi vi siano
alcune proprietà la cui natura non sia esaminabile tramite un approccio
rigidamente analitico, riducendole a proprietà delle parti componenti del
sistema.
Questa breve presentazione delle caratteristiche più distintive dei siste-
mi complessi e dell’impostazione sistemica ha voluto mettere in rilievo
come in questo ambito divenga fondamentale lo studio della maniera in
cui le varie componenti del sistema interagiscono fra di loro e, nel caso
dei sistemi auto-organizzanti, anche di come queste interazioni evolvano
nel tempo. Questa linea di ricerca si contrappone alla classica imposta-
zione analitica, e, di conseguenza, lo studio della complessità porta con
sé un forte cambiamento nell’approccio metodologico e in alcuni concet-
ti ad esso correlati, come quello di riduzione. Questi cambiamenti, oltre-
tutto, hanno un carattere fortemente interdisciplinare, visto che i sistemi
complessi sono oggetto di studio in molti ambiti.
II. Gli strumenti formali per lo studio dei sistemi complessi
Andiamo ora a vedere alcuni degli strumenti che più tipicamente vengo-
no usati per l’analisi dei sistemi complessi.
Come già accennato, si è soliti formalizzare l’organizzazione di un siste-
ma per mezzo di un insieme di variabili mutuamente dipendenti.
Lo stato di un sistema viene quindi definito dal valore di una serie di
variabili, che si muovono all’interno di un intervallo finito o infinito, di-
screto o continuo, e che inizialmente assumiamo possano variare indi-
pendentemente l’una dall’altra. Quindi, scelte le variabili rilevanti e spe-
cificata la loro natura, lo stato s di un sistema a n variabili viene defi-
nito da una stringa di valori . Col termine ‘spazio degli stati’ si intende
l’insieme di tutte le possibili configurazioni del sistema con le relative
transizioni di stato, e possiamo darne una rappresentazione geometrica
attribuendo ad ogni variabile del sistema una dimensione. Lo spazio
degli stati è uno strumento tipico della fisica13 e utile soprattutto per lo
studio dell’evoluzione dei sistemi dinamici.14
Prendiamo ad esempio il caso di un gas ideale: il sistema è composto da
N particelle (in genere parliamo di cifre dell’ordine del numero di Avo-
gadro, ) e lo stato di ogni particella è definito da 6 variabili (3 per la
posizione della particella nello spazio e 3 per il suo momento); in linea
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 15
di principio il comportamento del sistema potrebbe essere quindi de-
scritto in uno spazio di stati a 6N dimensioni.
Nella maggior parte dei casi lo spazio degli stati rimane un’astrazione
teorica inutilizzabile nella pratica sperimentale: la maggior parte dei
sistemi complessi in natura hanno, come nel caso precedente, un nume-
ro di variabili intrattabile, il cui valore è solitamente anche impossibile
da determinare tramite osservazione.
I processi di auto-organizzazione vengono formalizzati nello spazio degli
stati attraverso la teoria degli ‘attrattori’. I processi dinamici di un siste-
ma si traducono in una traiettoria all’interno dello spazio degli stati, in
cui ogni punto corrisponde allo stato del sistema in un dato momento.
Per attrattore si definisce un sottoinsieme dello spazio degli stati tale
che la traiettoria del sistema tende a entrare al suo interno ed a rima-
nervi, anche partendo da stati iniziali che differiscono fra loro in maniera
rilevante. Esistono molte forme di attrattore: i più semplici sono quello
puntuale (il sistema raggiunge uno stato di equilibrio) e quello ciclico (il
sistema rimane “intrappolato” in un comportamento periodico, di cui un
esempio sono le celle di Bénard viste sopra). Esistono comunque vari
altri tipi di attrattori: cicli antilimite, attrattori toroidali, fino agli attrattori
dei sistemi caotici,15 caratterizzati da una dimensione non intera, fratta-
le.
Ad ogni attrattore è legato un ‘bacino di attrazione’; questo è un sotto-
insieme dello spazio degli stati che circonda un attrattore e i cui elemen-
ti corrispondono a tutti gli stati del sistema che evolvono necessaria-
mente in tale attrattore.
Quindi, mentre nei sistemi chiusi una variazione nelle condizioni iniziali
porta ad una variazione nelle condizioni finali, nei sistemi aperti è invece
possibile che uno stesso stato finale sia raggiungibile a partire da diver-
se condizioni iniziali. Lo studio degli attrattori ha così introdotto in fisica
due concetti inaspettati e strettamente legati fra di loro: l’ ‘equifinalità’
(più stati possono tendere verso uno stesso comportamento) e l’ ‘irre-
versibilità’ (se il comportamento di un sistema si trova all’interno dell’at-
trattore non è possibile ricostruire la storia passata del sistema).
Gli studi dei sistemi caotici16 e dei sistemi auto-organizzanti si centra
fondamentalmente sulla ricostruzione dell’attrattore all’interno spazio
degli stati in base ai dati e sulla formalizzazione delle sue caratteristiche
attraverso equazioni differenziali.
Le equazioni differenziali sono lo strumento matematico principale per lo
studio dei sistemi complessi. La forma più generale di questo tipo di
equazioni è
0),...,,,,( )('' =′ nyyyyxF
in cui x è la variabile di ingresso del sistema (nei sistemi che stiamo
trattando corrisponderà alla stringa di variabili che definisce un punto
nello spazio degli stati), mentre y è la funzione, ignota, che definisce il
comportamento del sistema, cioè che associa lo stato x del sistema al
tempo t con lo stato x’ del sistema al tempo t+1. la funzione F mette in
relazione x con la funzione y e le sue derivate di ordine da 1 a n, tutte
trattate come variabili indipendenti. La funzione y, che definisce il com-
portamento del sistema, non è quindi una funzione fissa, ma varia la
sua natura in relazione allo stato del sistema, definito da x.
Un’altra tipologia di strumento per lo studio della complessità è rappre-
sentata da insiemi di unità a stati discreti interconnesse: reti neurali, reti
booleane e automi cellulari. In tutti e tre i casi si tratta di unità a stati
discreti (attivo (1) o inattivo (0)) a n ingressi ed una uscita, in cui ad
ogni istante ogni unità aggiorna il proprio stato in base agli input ricevu-
ti all’istante precedente. Queste reti manifestano spesso un comporta-
mento auto-organizzante, poiché, data una configurazione iniziale, il
sistema tende a “congelarsi” in una particolare configurazione di attiva-
zione dei nodi (attrattore puntuale) o ad attraversare periodicamente
cicli più o meno brevi di attivazione (attrattore ciclico). Il loro compor-
tamento dipende in massima parte dallo stato di attivazione iniziale
della rete e dalle sue caratteristiche topologiche (l’organizzazione della
rete, cioè la mappa delle interconnessioni fra i vari nodi). Le reti neura-
li17 sono usate principalmente nelle neuroscienze e le loro capacità au-
to-organizzanti vengono usate principalmente per studi sulla memoriz-
zazione e il riconoscimento degli input percettivi. Le reti booleane (fon-
damentalmente una versione semplificata delle reti neurali)18 e gli au-
tomi cellulari19 sono stati usati principalmente in biologia, praticamente
a tutti i livelli, a partire dall’analisi dell’attività cellulare in biologia mole-
colare fino allo studio degli ecosistemi.
Fra le metodologie per descrivere i sistemi complessi, non è infine da
sottovalutare l’importanza dell’uso di raffigurazioni grafiche finalizzate
alla descrizione delle interazioni fra le parti del sistema. La maggior
parte dei testi di biologia o di fisica propongono alcune immagini che
descrivono graficamente la struttura dei processi descritti. Finché l’orga-
nizzazione dei processi del sistema osservato è di tipo sequenziale, o
comunque poco complessa, il cuore della spiegazione resta nel testo e
l’immagine ha una funzione esplicativa secondaria, semplicemente per
rendere più immediata la comprensione della struttura. Se la topologia
delle componenti del sistema, però, diviene assai complessa, l’immagine
diviene parte integrante ed ineliminabile della spiegazione, poiché divie-
ne assai difficoltoso affidarsi solo ad una descrizione verbale. A titolo
esemplificativo mostriamo un’immagine che descrive l’organizzazione
Figura 2: rappresentazione del processo di fermentazione dell'acido
lattico (da W. Bechtel, R. C. Richardson, Emergent Phenomena and
Complex Systems, p.273)
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129316
del processo di fermentazione dell’acido lattico, ma aprendo un qualun-
que testo di biologia molecolare potremo trovare molte figure che de-
scrivono sistemi di reazioni chimiche altrettanto o più complessi.
III. I problemi per la spiegazione di tipo causale e la spiegazio-
ne teoretica
Per quanto riguarda il tema della spiegazione, la filosofia della scienza
“classica” ha il suo punto di riferimento nel modello nomologico-dedutti-
vo di Hempel e Oppenheim. Esso si basa su una struttura logica di tipo
deduttivo che pone come premesse dell’inferenza delle espressioni ge-
nerali che abbiano almeno una validità locale (leggi) e le condizioni
iniziali o al contorno; da queste premesse deriveremo il fenomeno che
vogliamo spiegare.
Resoconto delle condizioni antecedenti
Explanans
Leggi generali
____________________________________________________
E Descrizione del fenomeno empirico che deve
Essere spiegato
Explanandum
Figura 3: struttura logica della spiegazione nomologico-deduttiva
Negli anni è stato ripetutamente evidenziato come questo modello non
fornisca una caratterizzazione soddisfacente della spiegazione scientifi-
ca, e la struttura di molti tipi di spiegazione che la scienza produce e
accetta si discosta sensibilmente dallo schema di Hempel e Oppen-
heim; ciononostante tale schema rimane un punto di riferimento da cui
partire per caratterizzare una particolare tipologia di spiegazione, evi-
denziando come questa si discosti da esso e per quali motivi.
L’impianto nomologico-deduttivo ha manifestato molti problemi proprio
nella caratterizzazione delle spiegazioni di tipo causale, ma, se ci affi-
diamo ad un nozione di causalità di tipo ‘regolarista’, che cioè indica
come una proprietà essenziale della nozione di causa la regolarità della
connessione (considerando quindi le singole connessioni causali come
istanze di leggi causali che regolano il nostro mondo), la struttura no-
mologica-deduttiva della spiegazione si presenta come una possibile
condizione necessaria, ma non sufficiente, per la caratterizzazione di tali
spiegazioni: spiegare un fenomeno significa inserirlo all’interno di una
sequenza temporale di eventi che, “coperti” dalle regolarità espresse da
leggi di tipo causale, sono legati logicamente fra di loro.
Anche se ci affidiamo ad un approccio ‘singolarista’, che non lega la
nozione di causa a generalizzazioni legiformi, prima di tutto resta il fatto
che i processi causali vengono spiegati per mezzo di sequenze lineari di
eventi, singole catene causali, ed inoltre non possiamo comunque nega-
re che nella maggior parte dei casi il fine dello scienziato non sia l’iden-
tificazione di singole ‘storie’ causali, ma la ricerca delle regolarità, delle
generalizzazione legiformi che stanno dietro tali storie.
I risultati che otteniamo nell’analisi dei sistemi complessi mal si adatta-
no, però, all’identificazione di regolarità causali. La difficoltà di trattare il
comportamento dei sistemi complessi all’interno di una cornice causale
viene già messa in rilievo da von Bertalanffy, che sottolinea come una
delle differenze fondamentali fra l’approccio sistemico e il tradizionale
approccio analitico della fisica classica sia l’impossibilità del primo di
fornire modelli caratterizzati da singole catene causali isolate.
L’unico scopo della scienza risultava essere di tipo analitico, e cioè tale
da consistere nella suddivisione della realtà in unità sempre più piccole
e nell’isolamento di singoli treni causali. In tal modo la realtà fisica veni-
va frantumata in masse puntiformi e in atomi, l’organismo vivente in
cellule, il comportamento in riflessi, la percezione in sensazioni puntuali,
ecc. Corrispondentemente, la causalità era, in sostanza, a senso unico:
un certo sole attrae un certo pianeta nell’ambito della meccanica new-
toniana, un certo gene nell’ovulo fertilizzato produce questa o quella
malattia, gli elementi mentali sono allineati, come i grani in una collana
di perle, mediante le leggi di associazione. […]
Possiamo affermare, come caratteristico della scienza moderna, che
questo schema in termini di unità isolabili si è rivelato insufficiente.20
Perché il modello analitico con treni causali isolati si rivela insufficiente
per i sistemi complessi? Abbiamo detto che un sistema complesso è tale
in quanto i comportamenti delle varie parti si vincolano tra di loro in
maniera tale da non poter analizzare il comportamento di una parte
senza considerare il tipo di interazione che essa intrattiene con le altre.
Al livello dell’organizzazione del sistema questo si traduce generalmente
in complesse sequenze di processi, altamente ramificate e solitamente
con molti processi di retroazione.21 Uno schema come quello della fig. 2
è esemplificativo della non isolabilità di sequenze lineari di processi
all’interno di un sistema complesso. Ciò si traduce in una chiara difficol-
tà nell’identificare il ruolo causale che il comportamento di una parte ha
in relazione al comportamento di un’altra.22
[…] vi possono essere feedback significanti da stadi “successivi” a stadi
“precedenti”. In quest’ultimo caso non è più chiaro cosa è funzionalmen-
te dipendente. L’interazione fra i componenti diviene critica. Meccanismi
di quest’ultimo tipo sono sistemi complessi, o addirittura sistemi integra-
ti. In tali casi, tentare di comprendere il comportamento dell’intera mac-
china seguendo semplicemente le attività in ogni componente risulterà
inutile.23
Lo stesso problema, come ha messo in rilievo Wagner24, può essere
evidenziato anche analizzando la formalizzazione matematica che viene
più usata nell’analisi dei sistemi complessi, praticamente in ogni discipli-
na, cioè le equazioni differenziali.
Il modello matematico di un sistema fornisce relazioni funzionali fra le
variabili di stato, associando cioè uno stato del sistema (cioè una se-
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quenza di valori di variabili) al tempo t ad un altro stato al tempo t+Δt.
Ogni variazione nel valore di una variabile nello stato iniziale viene con-
siderata una causa, mentre l’effetto corrisponde al valore delle variabili
negli istanti seguenti. La configurazione completa dello stato iniziale
verrà considerata quindi la causa dell’evoluzione seguente del sistema,
ma, come detto sopra, l’interesse dello scienziato non è quello di identi-
ficare cause ‘singolari’, ma cause ‘regolari’, cioè generalizzazioni sulle
istanze causa-effetto.
Al fine di ottenere tali generalizzazioni lo scienziato agisce sperimental-
mente per poter valutare quanto il valore di ogni variabile pesi nell’evo-
luzione del sistema: la tecnica di base consiste nell’eseguire esperimenti
in cui lo stato iniziale del sistema presenti valori differenti per quanto
riguarda una variabile, mantenendo costanti i valori delle altre variabili
(che vengono quindi considerati come condizioni di contorno). Alla va-
riabile presa in considerazione verrà attribuito un ruolo causale nella
determinazione del comportamento del sistema proporzionale al peso
che la sua variazione ha avuto nell’evoluzione del sistema.
Nel caso di sistemi il cui comportamento viene descritto da equazioni
differenziali questo procedimento non porta però a niente: per la stessa
natura di tali equazioni la funzione che descrive il comportamento del
sistema non è definita, ma varia ad ogni istante a seconda dello stato
del sistema, cioè del valore di ogni variabile. Il peso che una variabile ha
nelle dinamiche del sistema muta quindi ad ogni istante a seconda del
valore delle altre variabili: in questo tipo di formalizzazione la distinzione
fra condizioni di contorno ed evento causante collassa.
Uno stesso tipo di osservazione sembrerebbe argomentabile anche per
quanto riguarda le reti neurali. Le reti neurali si stanno dimostrando
sempre più potenti ed efficaci, ma il loro punto debole è che la cono-
scenza immagazzinata in esse non ha forma esplicita e non è controlla-
bile. Negli ultimi anni molti tentativi sono stati fatti per elaborare metodi
di ‘estrazione di regole’ da reti neurali, cioè per descrivere il comporta-
mento di una rete neurale per mezzo di un insieme di regole di produ-
zione di tipo , cioè “un input di tipo A causa una risposta della rete di
tipo B”. Queste ricerche si sono dimostrate poco efficaci, limitandosi
soltanto a produrre generalizzazioni approssimative e poco soddisfacenti
sulle istanze input-output delle reti.25
Lo studio dei sistemi complessi si trova di fronte a due principali limiti
per poter fornire spiegazioni di tipo causale: un alto numero di variabili
(impossibili da misurare o comunque non trattabili dal punto di vista
computazionale) e l’importanza assunta dal livello organizzativo del
sistema. Entrambe queste caratteristiche sono legate all’impossibilità di
affrontare lo studio di questi sistemi con un approccio analitico, modula-
rizzando il sistema in più parti analizzabili separatamente.
Nell’approccio scientifico tradizionale, nel caso di sistemi non modulariz-
zabili, un alto numero di variabili può essere gestito tramite un approc-
cio statistico, come nel caso dello studio di una mole di gas ideale in
termodinamica: in questo caso le misurazioni vengono fatte su proprietà
come temperatura e pressione, i cui valori vengono interpretati come
macro-stati del sistema, ognuno dei quali corrisponde ad un insieme di
micro-stati.
Un approccio di tipo statistico, astraendo dalle particolari proprietà di
ogni componente del sistema, è applicabile in sistemi disordinati come i
gas ideali, in cui il comportamento di un componente non influisce su
quello degli altri. Non è invece applicabile nel caso dei sistemi comples-
si. Nelle dinamiche di un sistema complesso il particolare conta: nel-
l’analisi di molti sistemi tralasciare anche una singola interazione fra le
componenti può significare distorcere completamente il tipo di compor-
tamento che questi manifestano.
La gestione delle variabili nell’analisi di un sistema complesso risulta
difficoltosa da vari punti di vista: prima di tutto, per le stesse argomen-
tazioni presentate poco sopra per la nozione di causa, identificare quali
variabili siano rilevanti per lo studio del sistema può essere molto pro-
blematico, poiché non è chiaro quale sia il loro peso nell’evoluzione del
sistema; spesso, inoltre, la misurazione di queste variabili può risultare
impossibile con i mezzi odierni; infine il numero di variabili e di loro
possibili valori può risultare in uno spazio degli stati computazionalmen-
te intrattabile.
Per quanto riguarda invece la dimensione organizzativa, essa è stata
sempre considerata dalla fisica classica come una condizione al contor-
no, un tipo di dato da porre fra le premesse particolari alla spiegazione
(all’interno dell’insieme di premesse nella spiegazione nomologico-de-
duttiva, v. Fig. 3) e che non doveva essere trattato all’interno della
dimensione nomologica. Questo, come fa notare Küppers26, perchè nei
sistemi semplici della fisica classica, tipicamente di natura disordinata, la
dimensione organizzativa non è rilevante ed i valori delle variabili non
sono fra loro vincolati, e sono trattati come “contingenti”. Poiché con i
sistemi complessi l’interazione fra le componenti, e quindi i vincoli fra le
variabili, divengono essenziali alla comprensione del sistema, essi esco-
no dalla dimensione della contingenza, inserendosi all’interno dell’expla-
nandum e pretendendo quindi un trattamento a livello nomologico.
Questa è un’esigenza che si fa sentire con forza maggiore nello studio
dei sistemi dissipativi (in particolare quelli auto-organizzanti e caotici),
nei quali la questione centrale è proprio come il sistema riesca a svilup-
pare e mantenere l’organizzazione interna che ne determina il compor-
tamento.
I sistemi complessi possono essere definiti come sistemi che dipendono
molto sensibilmente dalle condizioni al contorno. [...] Le condizioni al
contorno di semplici sistemi fisici, come la posizione ed il momento di
una particella in un particolare istante, sono quantità contingenti. In
questo contesto “contingente” significa che le condizioni al contorno
possono essere scelte arbitrariamente. Sono quelle quantità a margine
che in un esperimento possono essere scelte liberamente ed i cui valori
sono vincolati solo dall’estensione della validità delle leggi naturali in
questione.
Le condizioni al contorno di sistemi complessi, d’altro canto, sono quan-
tità non contingenti, visto che ogni alterazione significativa in tali condi-
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zioni al contorno modificherebbe significativamente anche le dinamiche
del sistema, e quindi le sue proprietà. [...]
Ora [...] le condizioni al contorno di fenomeni complessi non vengono
più considerate come quantità contingenti, ma come non-contingenti,
tali che necessitano anch’esse di essere spiegate; esse si spostano
quindi al centro della spiegazione.
[...] La contingenza dei processi naturali, precedentemente fondata
saldamente sulla contingenza delle condizioni al contorno di un fenome-
no naturale, ora diviene essa stessa l’oggetto della spiegazione
scientifica.27
Affrontando la complessità i fisici hanno fin dall’inizio sperato di trovare
leggi che regolassero le dinamiche dei sistemi dissipativi o che, addirit-
tura, potessero spiegare ogni transizione di fase;28 la sinergetica, ad
esempio, è una disciplina nata con lo scopo di spiegare proprio questo
tipo di fenomeni.29 Per ora le speranze sono state vane e le aspettative
vanno sempre più diminuendo. Finora sui sistemi dissipativi sono state
possibili solo generalizzazioni di tipo molto locale in base alla natura
degli attrattori.
La mancanza di leggi forti riguardanti il livello organizzativo risulta sicu-
ramente un forte handicap per poter spiegare il comportamento dei
sistemi complessi. Si tratta comunque di una mancanza che niente im-
pedisce di pensare come risolvibile in futuro; non si può dire altrettanto
per quanto riguarda la trattabilità delle variabili rilevanti allo studio del
sistema.
Abbiamo quindi visto come i sistemi complessi non si prestino ad essere
trattati con spiegazioni di tipo causale. Si pone quindi il problema di
capire di che tipo siano le spiegazioni che ci vengono fornite riguardo le
dinamiche di questo tipo di sistemi.
Kitcher si è posto il problema se in certi casi siano utili tipi di spiegazio-
ne diversi da quello di tipo causale. Citiamo qui un suo passo, un po’
lungo, ma molto utile alla nostra discussione.
[…] Ciononostante, anche quando sono disponibili storie causali, esse
potrebbero non essere ciò che la spiegazione richiede. Due esempi
illustreranno la morale.
D. Esiste uno scherzo in cui una persona “annoda” un cavo telefonico
attorno ad un paio di forbici. In realtà non viene creato nessun reale
nodo, e le forbici possono essere rimosse facilmente (ed il cavo riporta-
to alla suo configurazione normale) se all’inizio la vittima compie una
mossa particolare e non ovvia. Quelli che non compiono la giusta mossa
iniziale possono impegnarsi per ore senza arrivare a niente. Cosa spiega
il loro fallimento? In ognuno di questi casi potremmo senza dubbio for-
nire I dettagli causali, mostrando come le azioni eseguita abbiano con-
dotto a configurazioni ancora più ingarbugliate. Tutto ciò, però, omette-
rebbe ciò che dovrebbe stare al centro della spiegazione, e cioè il fatto
che le caratteristiche topologiche della situazione permettono solo quel-
le soluzioni che soddisfano una specifica condizione, in modo tale che le
sequenze di azioni che non soddisfano tale condizione sono condannate
al fallimento. Abbiamo bisogno di conoscere la struttura topologica che
sta dietro le vicissitudini del particolare tentativo e del particolare falli-
mento.
E. Supponiamo di scoprire che, in una particolare città e su un periodo
di cento anni, il rapporto fra i due sessi alla nascita, calcolato su tutti gli
ospedali, risulta molto vicino ad 1,04 su 1, con i maschi in lieve maggio-
ranza. Vi è una storia completamente causale che sottostà a tale fatto:
essa chiama in causa un enorme numero di dettagli relativi alla produ-
zione di sperma ed uova, circostanze di accoppiamento, eventi intra-u-
terini e così via. Ciononostante, nello spiegare il rapporto fra i sessi, noi
non vogliamo alcune di queste informazioni; al contrario, è sufficiente
mostrare che vi sono pressioni selettive sugli individui di Homo Sapiens
che danno come risultato il raggiungimento approssimativo di un rap-
porto fra i sessi 1:1 in età riproduttiva, e che una maggiore mortalità
maschile fra la nascita e la riproduzione necessita di un rapporto fra i
sessi alla nascita di 1,04 ad 1. Ottenere un rapporto fra i sessi 1:1 in età
riproduttiva è un equilibrio evolutivo per specie come la nostra, e noi
spieghiamo I dati demografici da un’ampia popolazione locale mostran-
do come questi approssimano l’equilibrio evolutivo.
In entrambi i casi, l’approccio causale sembra sbagliare, ignorando il
fatto che il particolare fenomeno che deve essere spiegato è un esem-
pio appartenente ad una classe, tale che tutti i suoi membri esemplifi-
cano una regolarità generale.
[...] Negli esempi D ed E, l’identificazione della regolarità è un ingre-
diente della spiegazione.
[...]
Il risultato negativo di questi esempi è che la caratterizzazione della
singola spiegazione necessita di essere corretta in modo da permettere
che per le spiegazioni non sia necessario, e delle volte nemmeno auspi-
cabile, fornire informazioni riguardo la storia causale di una particolare
occorrenza. Il risultato positivo riguarda il fatto che le spiegazioni singo-
le vengono penetrate da spiegazioni teoriche. Saremmo tentati di crede-
re che le spiegazioni di singole proposizioni potrebbero essere studiate
autonomamente senza preoccuparsi della dimensione teorica della spie-
gazione. Esempi D ed E intendono mostrare che questa è un’illusione.30
Kitcher qui non si occupa del problema della spiegazione in relazione ai
sistemi complessi, ma gli esempi che propone sono particolarmente
significativi per il nostro problema.
L’esempio D, relativo allo scherzo del nodo, indica come una descrizione
delle caratteristiche topologiche del nodo vada a spiegare la ragione dei
fallimenti delle vittime in maniera molto migliore di una complessa de-
scrizione di tutti i movimenti che questi hanno compiuto. L’esempio E
prende invece in considerazione la questione del rapporto fra i sessi,
che risulta pari a 1:1 nelle popolazioni di molti animali: una spiegazione
di tipo causale sarebbe, oltre che inaffrontabile, poco chiarificatrice. Il
rapporto 1:1 fra i sessi è stato invece spiegato nel 1931 da Fischer at-
traverso il riferimento a pressioni selettive.
Kitcher considera queste due spiegazioni come esempi di spiegazioni
‘teoriche’, cioè di spiegazioni che non inseriscono il fenomeno studiato
all’interno di una catena causale, ma si limitano a dire che esso appar-
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tiene ad una certa classe di fenomeni, i quali manifestano certe regola-
rità. Per dirla in maniera semplice con le parole di Richardson:
[…] i dettagli delle spiegazioni causali non sono necessari alla spiega-
zione del risultato. L’adeguatezza di una spiegazione dipende interamen-
te sul fatto che essa catturi o no gli schemi del cambiamento, e come
un’istanza specifica sia inseribile all’interno di questi schemi più
astratti.31
L’esempio D è analogo al problema della spiegazione nei sistemi com-
plessi statici, come quello descritto nella fig. 2: fondamentale per la
comprensione del fenomeno è la descrizione del livello organizzativo del
sistema, della sua conformazione interna; ciò è sufficiente per com-
prendere le caratteristiche generali del comportamento del sistema.
L’esempio E richiama invece le spiegazioni fornite in fisica per il compor-
tamento dei sistemi dissipativi: il riferimento al rapporto 1:1 come allo
stato stabile verso cui il sistema si muove e a cui ritorna in caso di per-
turbazioni è analogo al ruolo degli attrattori nella spiegazione del com-
portamento dei sistemi dissipativi, nonostante nel loro caso non ci siano
pressioni esterne come la selezione a spiegare l’esistenza di questo
stato stabile.32
Per i sistemi complessi l’unico tipo di spiegazione che riusciamo a fornire
sembrerebbe quindi quella di tipo teorico, la cui funzione è quella di
indicare certe caratteristiche e regolarità del comportamento di un si-
stema.
IV. La dimensione teleologica nei sistemi complessi
Abbiamo visto come sia difficoltoso spiegare i sistemi complessi all’in-
terno del modello causale della spiegazione e che le spiegazioni che
riusciamo a fornire siano di carattere teorico. È importante vedere an-
che quanto la dimensione teleologica pesi all’interno di queste spiega-
zioni.
Una dimensione finalistica nel comportamento dei sistemi complessi è
sicuramente presente, come sottolinea con forza von Bertalanffy.33 Il
riferimento ad uno stato verso cui il sistema tende è presente nella
descrizione dei sistemi dissipativi in genere, visto che il comportamento
del sistema è finalizzato al mantenimento della propria struttura; ad
esempio in biologia si usa frequentemente la nozione di ‘omeostasi’
quando analizziamo il comportamento del sistema in base al suo tende-
re verso uno stato d’equilibrio stabile. Nei sistemi complessi della fisica
la dimensione teleologica è forse ancora più forte, visto che l’analisi del
comportamento del sistema è centrata totalmente sullo studio dell’at-
trattore.
La spiegazione teleologica ha sempre però comportato problemi, soprat-
tutto per il fatto che l’introduzione della nozione di scopo nell’analisi del
comportamento di un sistema fisico si presta all’accusa di applicare una
dimensione antropomorfa all’interno delle spiegazioni scientifiche. Cio-
nonostante la spiegazione teleologica, insieme a quella funzionale, è
parte integrante di molte scienze “speciali”, prima fra tutte la biologia.
Per questo la filosofia della scienza ha lavorato per restituire dignità
scientifica alle spiegazioni con caratteri finalistici e funzionali.
Questa “riabilitazione” è stata possibile solo accettando la spiegazione
teleologica nel caso in cui sia riducibile ad una spiegazione di tipo cau-
sale.
Seguendo Salmon34, la formulazione di riferimento per la spiegazione
teleologica è quella fornita da Wright nel 1976. L’idea di base è quella
che un certo comportamento sia analizzabile come finalizzato al rag-
giungimento di un certo scopo solo se è stato selezionato perché nel
passato è stato causalmente efficace nel raggiungimento di tale scopo.
Quindi un sistema S manifesta il comportamento B al fine di ottenere G
se e solo se:
- B porta all’ottenimento di G.
- B è presente perché nel passato aveva portato all’ottenimento di G.
Secondo l’analisi di Wright i comportamenti qualificabili come teleologici
sono dunque quelli che vengono realizzati perché nel passato avevano
manifestato la capacità di portare all’ottenimento di un preciso scopo. In
questa tipologia rientrano quindi i comportamenti manifestati da sistemi
intenzionali, quelli risultanti dall’opera della selezione naturale, quelli
manifestati dai congegni a retroazione della cibernetica (per i quali la
selezione del comportamento in base alla sua efficacia per il raggiungi-
mento di uno scopo viene effettuata dai progettisti) e, aggiungiamo noi,
quelli manifestati dai sistemi dell’intelligenza artificiale in grado di mo-
strare delle forme di apprendimento.
La dimensione teleologica è quindi introducibile per quanto riguarda le
spiegazioni dei sistemi complessi in biologia (a partire dal livello biochi-
mico fino allo studio degli ecosistemi) e non ci dovrebbero essere pro-
blemi anche per quanto riguarda l’analisi dei sistemi in altre scienze
speciali quali l’economia, la sociologia e l’antropologia, per le quali è
presumibile poter spiegare la presenza di strutture con una certa fun-
zione e comportamenti con un certo scopo sulla base di pressioni selet-
tive o di selezioni di tipo intenzionale.
Questo per quanto riguarda le scienze “speciali”; i problemi si pongono
per lo studio dei sistemi dinamici auto-organizzanti o dei sistemi caotici
in fisica. Anche in questo caso la presenza di una dimensione teleologica
nella spiegazione del loro comportamento è innegabile: in questi casi
l’analisi del comportamento è totalmente basata sull’analisi dell’attratto-
re, cioè il comportamento stabile verso cui il sistema tende autonoma-
mente.
Il problema è che il tendere del sistema verso l’attrattore non può asso-
lutamente essere spiegato in base ad un processo selettivo: la presenza
dell’attrattore è un dato di fatto, una proprietà di tipo fisico del sistema,
estranea quindi a processi selettivi od intenzionali.
Il problema è quello che abbiamo evidenziato precedentemente: la
mancanza di leggi in fisica riguardanti il livello organizzativo dei sistemi.
In futuro è auspicabile che avremo una spiegazione della presenza degli
attrattori sulla base di questo tipo di leggi. Per ora, però, questa spiega-
zione non c’è: non c’è per il comportamento auto-organizzante e per il
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comportamento caotico, come in generale non c’è per ogni tipo di pas-
saggio di fase.
Una dimensione teleologica nelle spiegazioni dei sistemi complessi è
quindi presente e in generale non dà problemi. L’unica anomalia è rap-
presentata dalle spiegazioni centrate sulla nozione di attrattore, che
pongono il problema di sistemi che regolano il proprio comportamento
in relazione al raggiungimento ed al mantenimento di uno stato finale,
senza che questo sia spiegabile sulla base della presenza di forze di tipo
causale.
Giovanni Casini
NOTE
1. Il testo più classico per la presentazione dell’approccio sistemico è L. von Bertalanffy, Teoria Generale dei Sistemi, Mondadori, Milano 1983.
2. H. Haken, L’approccio della sinergetica al problema dei sistemi com-plessi, in La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi, M. Ceruti, Fel-trinelli, Milano 1985, p. 194. Il punto di riferimento per la descrizione di questa metodologia di ricerca è universalmente considerato H. E. Si-mon, The Science of Artificial, The MIT Press, Cambridge 1969 (v. an-che T. W. Zawidzki, Competing Models of Stability in Complex, Evolving Systems: Kauffman vs. Simon, «Biology and Philosophy», 13, 1998, pp. 541-554.
3. W. Bechtel, R. C. Richardson, Emergent Phenomena and Complex Systems, in Emergence or reduction?, ed. by A. Beckermann, J. Kim, Walter de Gruyter, New York 1992, p. 264-265.
4. Generalmente si ritiene che lo studio del livello organizzativo diviene necessario quando la natura delle interazioni fra le componenti è di tipo non-lineare. “[...] riteniamo che le proprietà vadano considerate emer-genti quando la forma dell’organizzazione risulta non essere lineare, poichè quando è lineare generalmente possiamo predire prontamente come si comporterà l’intero sistema.” Ivi, p. 266.
5. Ivi, p. 279.
6. Tali casi sono estremamente rari: fra i sistemi artificiali vi sono le reti neurali, in fisica potremmo indicare lo studio della dinamica dei flussi.
7. Ivi, p. 266.
8. “[…] gli scienziati spesso identificano le parti di un sistemi per mezzo di processi sperimentali che effettuano sul sistema. Ciò potrebbe richie-dere l’uso di tecniche di visualizzazione, come il microscopio, o procedu-re sperimentali, come la centrifugazione. In entrambi i casi, […] l’identi-ficazione delle parti è in parte un risultato di tale esperienza procedurale.L’identificazione delle parti è solo un’attività preliminare all’effettiva costruzione della spiegazione di come il sistema operi.” Ivi, p. 262.
9. A. Beckermann, Reductive and Nonreductive Physicalism, in Eme gence or reduction?, ed. by A. Beckermann, J. Kim, Walter de Gruyter, New York 1992, p. 17.
10.“Un insieme A di proprietà sopravviene su un insieme B di proprietà se e solo se ogni coppia di oggetti indistinguibili in relazione alle pro-prietà di tipo B sono indistinguibili anche in relazione alle loro proprietà di tipo A; cioè, se ogni coppia di oggetti che differisce rispetto a qualche proprietà di tipo A differisce anche rispetto ad almeno una proprietà di tipo B.” Ivi, pp. 11-12.Possiamo dire che ci troviamo di fronte a casi di ‘causazione verso il basso’ quando le caratteristiche organizzative interne al sistema impon-gono dei vincoli sul comportamento delle parti. Un esempio molto sem-plice è quello fornito da Küppers:“Consideriamo due reagenti in equilibrio chimico. Nessuna delle moleco-le di tale sistema “sa” di trovarsi in un equilibrio chimico e che deve manifestare un certo comportamento dinamico, in modo da preservare tale equilibrio. Ciononostante, il sistema si mantiene stabilmente in uno
stato di equilibrio. Difatti, a causare il comportamento regolare delle molecole è un qualche tipo di causazione verso il basso, o macrodeter-minazione.” B. O. Küppers, Understanding Complexity, in Emergence or reduction?, ed. by A. Beckermann, H. Flohr, J. Kim, Walter de Gruyter, New York 1992, p. 245.
11. Ciononostante la teoria dei sistemi auto-organizzanti e dei sistemi caotici sta raccogliendo moltissimo interesse in discipline come l’econo-mia, la sociologia e la biologia (in particolare per il progetto dell’Artificial Life, v. S. A. Kauffman, The Origins of Order, Self-Organization and Se-lection in Evolution, Oxford University Press, New York 1993, S. A. Kauffman, Investigations, Oxford University Press, New York 2000, C. Taylor, D. Jefferson, Artificial Life as a Tool for Biological Inquiry, in Arti-ficial Life: an overview, ed. by C. G. Langton, MIT Press, Cambridge 1995, pp. 1-14), tutti campi in cui è presente da molto tempo, a livello qualitativo, una nozione di organizzazione spontanea.
12. In biologia molecolare viene spesso usato uno strumento formal-mente analogo: lo spazio delle sequenze. Esso non viene usato per lo studio delle dinamiche di un sistema, ma per lo studio di possibili se-quenze molecolari, ad esempio per prendere in considerazione tutte le possibili sequenze proteiche o di DNA di una data lunghezza n.
13. Un sistema è considerato caotico se, dati due stati di partenza arbi-trariamente vicini, le traiettorie del sistema nello spazio degli stati diver-gono in maniera esponenziale. Il sistema è quindi estremamente sensi-bile alle condizioni iniziali. È da notare come il comportamento di un sistema caotico non sia predicibile in linea di principio, se non a breve termine: anche se avessimo delle equazioni corrette riguardo l’evoluzio-ne del sistema, le misurazioni dello stato di partenza porterebbero ne-cessariamente in sé un errore sufficiente a vanificare ogni predizione.
14. v. in particolare J. Koperski, Models, confirmation, and Chaos, «Phi-losophy of Science», 65, 1999, pp. 624-648.
15. Per una introduzione alle reti neurali v. I. Alexander, H. Morton, An Introduction to Neural Computing, Chapman & Hall, London 1990.
16. v. S. A. Kauffman, The Origins of Order, Self-Organization and Se-lection in Evolution, Oxford University Press, New York 1993, pp. 188-191.
17. v. C. G. Langton (ed.), Artificial Life: an overview, MIT Press, Cam-bridge 1995, pp. 65-66.
18. L. von Bertalanffy, Teoria Generale dei Sistemi, Mondadori, Milano 1983, p. 83.
19. L’identificazione di molti processi a retroazione è una costante nel-l’analisi dei sistemi dissipativi, generalmente caratterizzati da un buon livello di stabilità in relazione alle variazioni ambientali. L’importanza di una nozione come quella di ‘omeostasi’ in biologia ne è un esempio.
20. A livello di sperimentazione l’identificazione del ruolo causale che una parte A del sistema ha su una parte B si traduce nella misurazione di quanto una variazione nel comportamento di A influisce sul compor-tamento di B. In biologia, ad esempio, questo procedimento viene spes-so portato avanti con la lesione o la sovra-stimolazione di una certa parte dell’organismo per andare poi a vedere come ciò vada ad influire sul comportamento dell’intero organismo o di altre parti di esso. In fisica e chimica, invece, generalmente si tende a variare un certo valore all’interno del sistema (ad esempio l’intensità di una forza o la concen-trazione di un certo reagente), mantenendo tutti gli altri valori inalterati (e identificandoli quindi come “condizioni di contorno”), per andare poi a vedere come tale variazione ha influito sullo stato del sistema. Fon-damentalmente si tratta del metodo delle variazioni concomitanti de-scritto da J. S. Mill nel XIX secolo.
21. W. Bechtel, R. C. Richardson, Discovering Complexity, Decomposi-tion and Localization as Strategies in Scientific Research, Princeton Uni-versity Press, Princeton 1993, p. 18.
22. A. Wagner, Causality in Complex Systems, «Biology and Philoso-phy», 14, 1999, pp. 83-101.
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 21
23. R. Andrews, J. Diederich, A. B. Tickle, Survey and critique of tech-niques for extracting rules from trained artificial neural networks, «Knowledge-based systems», 8, 1995, pp. 373-389.
24. B. O. Küppers, op. cit.
25. B. O. Küppers, Ivi, p. 251.
26. “Ecco un bel problema per i fisici teorici: dimostrare che, se si au-menta o si diminuisce la temperatura dell’acqua, ci saranno cambiamen-ti di fase che daranno vapore o ghiaccio. Un bel problema sì… ma trop-po difficile per noi! Noi siamo troppo lontani dal poter fornire la dimo-strazione richiesta. In effetti non c’è un solo tipo di atomo o di molecola per cui si possa fornire la dimostrazione richiesta. In effetti non c’è un solo tipo di atomo o di molecola per cui si possa dimostrare che, a bas-se temperature, si verificherà la cristallizzazione. Questi sono problemi troppo difficili per noi.” D. Ruelle, Caso e Caos, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 136.
27. H. Haken, op. cit., p. 251.
28. P. Kitcher, Explanatory Unification and the Causal Structure of the World, in Scientific Explanation, Minnesota Studies in the Philosophy of Science, vol. XIII, ed. by P. Kitcher, W. C. Salmon, University of Minne-sota Press, Minneapolis 1989, pp. 426-427.
29. R. C. Richardson, Complexity, Self-Organization and Selection, «Bio-logy and Philosophy», 16, 2001, p. 666.
30. L’esempio della spiegazione del rapporto 1:1 fra i sessi era stato anche precedentemente usato in Sober E. (1983), articolo in cui l’autore critica la pretesa che l’unica vera spiegazione scientifica sia quella di tipo causale ed offre la spiegazione elaborata da Fisher come un esempio di “spiegazione di equilibrio”. La descrizione che dà di questo tipo di spie-gazione rientra senza problemi nella categoria della spiegazione teorica proposta da Kitcher (“La spiegazione causale si focalizza esclusivamente sull’attuale traiettoria della popolazione; la spiegazione di equilibrio posiziona tale traiettoria attuale all’interno di una struttura più ampia. In tal maniera le spiegazioni di equilibrio possono risultare più esplicativa delle spiegazioni causali, nonostante le prime forniscano meno informa-zioni riguardo le reali cause del fatto.” E. Sober, Equilibrium Explanation, «Philosophical Studies», 43, 1983, p.207).
31. L. von Bertalanffy, op. cit., pp. 124-130.
32. W. C. Salmon, Four Decades of Scientific Explanation, in Scientific Explanation, Minnesota Studies in the Philosophy of Science, vol. XIII, ed. by P. Kitcher, W. C. Salmon, University of Minnesota Press, Minnea-polis 1989, pp. 111-116.
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 23
ConferenzePensare il presente delle scienze Ciclo di conferenze al Gabinetto Viesseux
Mente e Cervello Relatori: Edoardo Boncinelli e Corrado Sinigallia
Ha avuto luogo il 10 Marzo presso il Gabinetto Vieusseux la conferenza
dal titolo, “Mente e Cervello”, un interessante dibattito, tra scienza e
filosofia, in merito al ruolo del cervello nella determinazione e nella
definizione del concetto di mente.
Il crescente interessamento delle discipline neurofisiologiche apre sem-
pre nuovi interrogativi riguardo alle prospettive ed ai limiti della catego-
ria degli “oggetti” mentali.
Cosa possiamo aspettarci da un tipo di indagine ispirata da parametri di
tipo fisiologico–organico nella ricerca dell’origine del pensiero? Gli stimo-
li e le provocazioni offerte dalle neuroscienze, da una parte hanno indot-
to i filosofi a rivedere alcune idee e concezioni relative ad aspetti fon-
danti della vita cosciente, d'altra parte hanno portato molti ad accresce-
re la portata dell’indagine filosofica, conducendola oltre il regno delle
funzioni, per indagare con rigore e precisione, in termini analitici, l’og-
getto che sembra essere portatore di queste funzioni: il cervello. Il neu-
roscienziato Edoardo Boncinelli e il filosofo Corrado Sinigaglia si sono
confrontati sui confini di queste prospettive.
Boncinelli ha dato il via al seminario con un breve excursus introduttivo
sul sistema nervoso, chiedendosi qual sia il ruolo che può avere oggi la
biologia nella determinazione dell’ontologia del mentale e in che misura
si possa considerare la mente come prodotto del cervello. Alcuni autori
del passato – ricorda Boncinelli - ci hanno donato altre visioni; Omero,
ad esempio era (almeno sembra) persuaso che la mente non fosse
nemmeno dentro di noi, e che avesse una struttura frammentaria; una
concezione ben lontana dalle nostre ipotesi, anche da quelle del senso
comune. Come dobbiamo muoverci, su un terreno così scivoloso, per
favorire l’appressamento di scienza e filosofia?
Boncinelli suggerisce di cominciare da ciò che più ci è noto; cos’è il
cervello lo sappiamo, entro certi limiti. Sappiamo che è un organo tan-
gibile, fatto di tantissime cellule, cento miliardi circa, le quali sono con-
nesse le une con le altre tramite dei collegamenti detti sinapsi, nell’ordi-
ne di diecimila per ogni corpo cellulare, per un totale di un milione di
miliardi di collegamenti. Questo di per sé è un dato impressionante, ma
non esaurisce la complessità della centralina della vita intelligente; le
relazioni cellulari tendono a consolidarsi in nuclei che funzionano come
circuiti unici: la corteccia frontale anteriore, ad esempio, è quasi un
circuito unico, che si programma di nuovo ogni giorno sulla base di
elaborazioni istantanee. Ciò significa che ogni atto percettivo comporta
un allargamento e un rinnovamento, seppur minimo, delle architetture
neurali. Questo della versione a “circuito unico” rappresenta soltanto un
aspetto dell’organizzazione cerebrale – ricorda il neuroscienziato - in
realtà esiste anche una notevole componente integrativa tra le varie
aree, o circuiti, che rende il cervello un organo la cui complessità non
deriva tanto dal numero delle cellule, o dai nuclei isolati che queste
compongono, quanto dall’interazione ricorsiva ed ininterrotta, tra tutte
le regioni dell’encefalo.
Ad esempio, quando si pronuncia una frase qualunque, non vengono
coinvolti solo i centri della parola. L’atto linguistico richiede una collabo-
razione circolare tra le aree del linguaggio, quelle associative che rinvia-
no ad ogni oggetto il fonema corrispondente, e quelle motorie, il cui
corretto coinvolgimento è indispensabile per articolare i suoni in manie-
ra precisa.
Una volta appurato che il cervello è questo complesso intreccio di neu-
roni, distribuiti in molteplici aree specifiche, ma altamente integrate ed
interagenti, ci si domanda come questo inestricabile reticolo venga a
formarsi e quale sia l’origine di questa struttura.
Come si stabiliscono le connessioni? In prima istanza, la genesi del
sistema nervoso, è veicolata dal patrimonio genetico, ed in questo sen-
so potremmo attribuirgli un certo grado di predeterminazione; è altresì
evidente che il contributo dello schema genico, è necessario ma non
sufficiente a giustificare, più che la formazione, la continua evoluzione e
l’assestamento del reticolo neurale. Questo lo si può indurre da aspetti
quotidiani della vita, come l’apprendimento del linguaggio.
L’emisfero del linguaggio è influenzato dall’ambiente, dagli incontri e da
episodi accidentali e per questo deve essere provvisto, come le altre
regioni, di una notevole plasticità che esula dai rigidi schemi genetici;
queste influenze ecologiche si possono chiamare “contributo biografico”.
Per cinquanta anni si è dibattuto su quale fonte avesse maggior peso,
quella genetica, o quella biografica. I numeri – come riporta Boncinelli -
non hanno mostrato alcuna prevalenza. Da questo fatto si è fatta deri-
vare l’ipotesi che dovesse esserci una terza forza determinante a com-
pletare l’opera; visto che ogni cervello è diverso da qualunque altro,
l’ultima parte in causa è stata individuata come puramente prodotta dal
caso; e sembra che nessuna abbia più portanza delle altre, ma ciascuna
influisca per un terzo.
A questo punto torniamo al quesito iniziale della conferenza: la mente è
il cervello? O meglio, la mente è tutto quello che fa il cervello?
Per Boncinelli in alcune circostanze l’essere umano non mostra difficoltà
ad imputare al cervello la produzione di certe attività: come per esem-
pio quando si segue la traiettoria di una palla da tennis; quando però ci
troviamo davanti alle cosiddette “attività superiori” (la memoria, la per-
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cezione, il ragionamento, gli stimoli emotivi), allora subentra un certo
pudore, o reticenza a considerarle unicamente il frutto, sia pur comples-
so, di attività organiche e biologiche.
E’ qui che la controversia si fa complicata: nessuno infatti si oppone alla
diretta dipendenza dal cervello, di atti di “coscienza” quali l’evitare una
pallonata; quando entrano in gioco però elaborati psichici, comincia a
diventare difficile, soprattutto per il senso comune, imputarli ad attiva-
zioni neurali. Il senso di sé e la consapevolezza che questi vissuti men-
tali siano dotati di una componente personale e biografica, e sopra ad
ogni cosa, l’impressione di poterli osservare nella loro forma semantica
e individuale, non favoriscono talvolta nemmeno il beneficio del dubbio
sulla loro origine e natura: non possono essere soltanto stati fisici!
La circostanza che crea una sfumatura, si individua nel fatto che noi
abbiamo un duplice accesso alla mente. Da una parte possiamo osser-
vare il comportamento degli altri da cui si inferiscono stati mentali vissu-
ti ecc.., e possiamo studiare i cervelli come organi qualunque; dall’altra
possiamo conoscere il nostro “cervello” attraverso l’esperienza indiretta.
Per secoli ci si è rivolti all’indagine della coscienza, supponendo come
oggetto di analisi la propria, senza considerare che ciò che la produce è
per l’auto osservazione, inaccessibile, e fondamentalmente che questa,
e tutto ciò che la riguarda, si trovano al di fuori della mente.
Boncinelli ricorda che possiamo individuare una coscienza immediata,
relativa a dove siamo e a cosa stiamo facendo, soltanto da fuori.
I filosofi, hanno avuto infine il merito di mostrare – rileva Boncinelli -,
che debba esserci anche una coscienza fenomenica, in grado di dare
una coloritura emotiva quando si vivono certe esperienze; questa terza
forma di consapevolezza è meno certo che la si possa ridurre in termini
cellulari. Per il resto si può – per Boncinelli - cercare di impegnarci a
fondo, per trovare un correlato biologico, il più completo possibile per
unificare le due grandi metà dell’uomo.
Nella seconda parte della conferenza è intervenuto il Prof. Sinigaglia,
che ha completato la discussione, assumendo da subito le vesti proprie
del filosofo:
Si deve discutere del rapporto tra filosofia e scienza; a questo proposito,
ci sono due modi per affrontare il mind/body problem: o lo si fa da
filosofi della mente (magari in maniera funzionale) o lo si fa da filosofi
della scienza, i quali se scoprono che il cervello funziona diversamente
da come ipotizzato, sono soliti cambiarne la struttura.
Qualcuno sostiene che non ci sia bisogno di studiare il cervello, ma che
basti indagare le strutture funzionali della mente e che dove è imple-
mentata, poco importa; è comunque vero che non è possibile fare a
meno di una teoria del mentale o dell’esperienza, propone qualcun
altro, perché anche quando si ipotizza di potervi rinunciare, poi in realtà
la si introduce surrettiziamente, in quanto il vero problema non riguarda
strettamente la coniugazione di mente e cervello, ma sulla base di quale
teoria, della mente o dell’esperienza, ciò sia possibile.
Per Sinigaglia si dovrebbe affrontare la questione, riflettendo su cosa sia
ad esempio un fatto percettivo dal punto di vista neurale, considerando
però, che talvolta è più difficile attribuire a questo un corrispettivo
mentale.
Il “filosofo” Sinigaglia ammette che è quindi difficile se non impossibile,
fare filosofia della mente senza conoscere il cervello. Va però aggiunto,
a suo modo di vedere il problema, che per completare il quadro illustra-
to dal Prof. Boncinelli, sarebbe doveroso introdurre un’altra forma di
coscienza, quella intenzionale, ovvero quella consapevolezza che rende
evidente che ogni coscienza è sempre coscienza di qualcosa, che ogni
desiderio, volontà o altro è sempre intenzionato da e per qualcosa.
Questa aggiunta appesantisce di domande il lavoro del neuroscienziato:
come agisce causalmente la coscienza intenzionale sul sistema nervoso?
Quali gruppi neuronali sono attivi quando compio atti mentali?
La scoperta dei neuroni specchio – di cui proprio Sinigaglia è stato atti-
vo interprete e teorico (avendo pubblicato di recente insieme a Giacomo
Rizzolatti, il neuroscienziato autore di questa scoperta, il testo So quel
che fai, il cervello che agisce e i neuroni a specchio, Raffaelle Cortina
Editore, Milano 2006) impone una rivisitazione completa del concetto di
mente, e dei rapporti mente – cervello.
I neuroni specchio sono un tipo particolare di neuroni che si attivano sia
quando compio un’azione, sia quando la osservo compiere. Una scoper-
ta del genere ha una portata rivoluzionaria anche in chiave epistemolo-
gica. Potrebbe trattarsi – lo accenna soltanto Sinigaglia - non solo dei
meccanismi alla base dell’apprendimento, ma perfino delle origini biolo-
giche dell’empatia. Mentre ti osservo soffrire ho attivi gli stessi gruppi
neurali tuoi; non quelli somatosensoriali, altrimenti proverei lo stesso
dolore, bensì quelli motori (tendo a riprodurre le stesse smorfie di dolo-
re) e quelli dell’insula, (ho un sentimento di angoscia simile a chi sof-
fre). Molti filosofi della mente hanno ipotizzato che queste funzioni neu-
rali si accompagnassero alla presenza del linguaggio, senza il quale si è
sostenuto spesso che non si possono sviluppare funzioni mentali.
Una scoperta del genere mette tuttavia in discussione il concetto di
mente, come correlato necessario del linguaggio, e costringe ad ipotiz-
zare anche che, compiere inferenze, comprendere e riconoscere
un’emozione non sia più soltanto prerogativa umana, ma se non altro
anche delle scimmie makaki, che posseggono come noi questa funzione
mirror in alcuni neuroni.
Fabio Vannini
La fisica ha bisogno della filo-sofia? Relatori: Carlo Bernardini e Paolo Parrini
Carlo Bernardini: fisico, è una delle figure più attive nell’ambiente scien-
tifico italiano degli ultimi 50’anni. Ha collaborato con Enrico Persico, è
stato ordinario di Metodi matematici per la fisica presso l'Università La
Sapienza, ha pubblicato manuali di fisica e di storia della scienza.
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Pur riconoscendo che la fisica nasce nella tradizione occidentale come
philosophia naturalis, oggi il giudizio dei fisici sui filosofi è molto critico.
Tale giudizio si può riassumere attraverso le parole di Goethe, il quale,
nel Faust, fa dire al personaggio di Mefistofele:
La fabbrica delle idee funziona come il telaio del tessitore, dove un pedale muove mille fili, le spole volano su e giù, i fili scorrono invisibili, un colpo allaccia mille vincoli. Entra il filosofo, e vi dimostra che deve essere così per forza: se così sono Primo e Secondo, così saranno il Terzo e il Quarto; se non ci fossero il Primo e il Secondo non ci sarebbero il Terzo e il Quarto. Gli allievi vanno ovunque in visibilio, ma nessuno diventa tessitore.
Nel passo di Goethe possiamo sicuramente riconoscere un certo tipo di
filosofia e forse, più in generale, anche una tendenza diffusa nella filo-
sofia del Novecento; tuttavia se vogliamo interrogarci seriamente sui
rapporti tra fisica e filosofia dobbiamo, secondo Bernardini, portare la
discussione sul piano del linguaggio e, in particolare, sulla specificità del
linguaggio delle scienze contemporanee, proprio laddove oggi la filosofia
sembra arrancare. L'opera cui fa riferimento è “Manuale di critica scien-
tifica e filosofica” di R. V. Mises, fisico e matematico, appartenente al
circolo di Vienna, secondo il quale la particolarità dei linguaggi scientifici
rappresenta un mondo a parte, intraducibile attraverso il linguaggio
proposizionale.
Un esperimento condotto in Francia sulle attività del neonato i primi
mesi di vita, mostrava come quest'ultimo costruisse delle rappresenta-
zioni mentali, della madre per esempio, che, ovviamente, non passava-
no per il linguaggio convenzionale, ma attraverso quello che Russell
chiamava “linguaggio dell'inferenza fisiologica” e Stephen Pinker chiama
“mentalese”. Questo linguaggio estremamente operativo dell'induzione
se ne va con l'arrivo del linguaggio proposizionale che prepara il bambi-
no alla chiacchera e alla giustificazione, diminuendo fino a scomparire,
durante l'arco degli studi scolastici, l'elaborazione induttiva del soggetto.
Le grandi invenzioni scientifiche passano attraverso rappresentazioni
mentali non traducibili nel linguaggio comune, per questo motivo è
necessario che il ricercatore riattivi in lui il “mentalese” assopito. Un
esempio famoso di come opera questo tipo di linguaggio ci viene da
Einstein; lavorando sullo spazio e sul tempo, dunque non nominando la
materia, egli giunge alla formulazione E=mc² che non era nelle premes-
se.
La chiave di volta è dunque la struttura linguistica delle scienze contem-
poranee: interrogarsi sul perché della straordinaria efficacia delle rap-
presentazioni mentali prodotte utilizzando questo tipo di forma linguisti-
ca, proprio ai filosofi viene rivolto, dai fisici, questo perché.
Paolo Parrini: professore ordinario di filosofia teoretica presso l'Universi-
tà di Firenze, allievo di Giulio Preti, si è occupato di filosofia della cono-
scenza, filosofia della scienza, storia della filosofia.
“La scienza senza l'epistemologia seppur la si può immaginare è primiti-
va e informe, d'altra parte un'epistemologia senza scienza sarebbe una
cosa vuota”.
“Io, come scienziato, non posso seguire l'epistemologo in tutto il suo
percorso”.
In queste due frasi di Einstein risuona un aspetto fondamentale del suo
modo di concepire il rapporto tra fisica e filosofia, quello che viene
spesso chiamato “opportunismo metodologico”. C'è nel filosofo, e nel-
l'epistemologo in particolare, un'esigenza di compattezza, di arrivare a
una concezione esaustiva, il cui pericolo è proprio quello denunciato nel
passo di Goethe citato da Bernardini: tutto trova il suo posto nella spie-
gazione. Come scienziato, Einstein non può seguire questo cammino, i
vincoli che l'esperienza gli pone lo portano a questo “opportunismo
metodologico”, che è platonico o empirista o idealista trascendentale, a
seconda dell'aspetto del suo lavoro che intende sottolineare.
“I filosofi sono filosofi, perseguono i propri obbiettivi come li perseguo-
no i fisici”, dunque è necessario secondo Parrini che, affrontando la
questione del rapporto tra filosofia e scienza, si eviti qualsiasi forma di
normativismo, ovvero l'idea che ci possa essere qualcosa di prescrittivo.
Lasciando dunque ad ognuno le proprie competenze, la questione che si
pone è: nel perseguimento autonomo di questi obbiettivi quali possono
essere i punti d'incontro?
Escludendo i problemi etici, mai basati solo su premesse normative, ma
anche conoscitive, dunque, riprendendo il pensiero di Preti, gli sviluppi
della scienza possono facilmente far vacillare le fondamenta che reggo-
no un qualsiasi sistema di etica, possiamo distinguere tre ordini di pro-
blemi:
I. La fisica, non più provincia della filosofia, ma disciplina autonoma, è
giunta a risultati talmente importanti da influenzare la riflessione filoso-
fica stessa; tuttavia permangono resistenze da entrambe le parti. Un
esempio ci viene dalle neuroscienze poste davanti al problema mente-
corpo: filosofi di tendenza wittgensteiniana lo ritengono un problema di
categorie generali, per il quale l'analisi filosofica è autosufficiente; in
antitesi si pensa invece che le scienze cognitive possano risolvere tale
questione filosofica (Churchland & Churchland).
Altri esempi ci illustrano come la filosofia abitui ad atteggiamenti critici
molto funzionali alle scienze, liberandoci da concezioni dominanti e
permettendo ai ricercatori di uscire da schemi prestabiliti; Einstein af-
ferma che non sarebbe potuto arrivare alla teoria della relatività se non
fosse stato influenzato profondamente da analisi critiche filosofiche
come quelle di Hume sulla causalità, grazie alle quali si è potuto estra-
niare dalla nozione tradizionale di simultaneità.
II Ordine di problemi. Quello che Kuhn considera una sorta di irraziona-
lità del mutamento scientifico diminuisce se si considera che l'affermarsi
di una nuova teoria è spesso accompagnato da un dibattito filosofico
attento alle scienze; dunque la filosofia apre alla possibilità di portare un
chiarimento di quelle innovazioni concettuali che spesso rappresentano
l'ostacolo principale per accettare nuove teorie scientifiche. In questo
caso la funzione della filosofia è un'attività a posteriori che tenta una
comprensione del perchè di una nuova formula, che cerca di ricostruire
un tessuto di continuità nella dinamica delle scoperte scientifiche.
III Ordine di problemi. Ci viene posto da Sellars e riguarda il nostro
convivere con due immagini del mondo, quella “scientifica” e quella
“manifesta” (del senso comune). Cercare di capire il rapporto tra queste
due immagini ci porta su quel terreno scivoloso di cui parlava Einstein
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nella frase sopra citata. L'epistemologo potrebbe voler rendere più ar-
moniosa la visione del mondo ricercando una forma di unità, non per
forza incorrendo nella derisione di Goethe; nonostante tutto, il problema
della coerenza non è posto solo dal filosofo allo scienziato, ma anche
dai suoi colleghi scienziati, come quando fu rimproverato ad Einstein di
non voler accettare una nuova teoria che poggiava sulle stesse basi
epistemiche della relatività generale, egli si difese dicendo: “un bel gio-
co non deve essere ripetuto più di una volta....”
Tommaso Geri
Che cos’è la coscienza?Relatori: Roberta Lanfredini e Arnaldo Benini
La coscienza consiste in una serie di stati e processi soggetti-vi. Essi sono stati di consapevolezza di sé, interiori, qualitativi e individuali. La coscienza è allora quella cosa che comincia ad apparire al mattino, quando dallo stato di sogno e di sonno passiamo allo stato di veglia e permane per tutta la durata del giorno fino alla sera, quando, tornando a dormire, diventiamo incoscienti. Questo è per me il significato del termine “co-scienza”.John R. Searle, in “Cervelli che parlano: il dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale” Mondadori, Milano, 2003, p.185.
In occasione della manifestazione “Pensare il presente delle scienze”,
filosofi e scienziati a confronto, organizzata dalla SFI sezione di Firenze,
si è tenuto il 15 febbraio 2007, nella sala conferenze del Gabinetto
Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze, un incontro dal titolo:
“Che cos’è la coscienza”?
Relatori della conferenza-incontro sono stati Roberta Lanfredini, profes-
sore ordinario di Gnoseologia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Uni-
versità di Firenze e Arnaldo Benini, primario di Neurochirurgia alla Facol-
tà di Medicina di Zurigo.
Il tema della coscienza da sempre affascina studiosi di diversi orienta-
menti e fino a pochi anni fa era di pertinenza esclusiva di filosofi e psi-
cologi teorici.
Oggi però, grazie all’utilizzo di nuovi strumenti d’indagine scientifica
come la PET, la risonanza magnetica funzionale e le cosiddette tecniche
di neuroimmagine, è possibile fornire risposte dettagliate su base spe-
rimentale a domande che appena cinquant’anni fa erano considerate di
puro interesse “filosofico”.
Che cosa c’è, infatti, di più umano che interrogarci sulla nostra capacità
di percepire noi stessi come un tutto unico e coerente? È possibile de-
scrivere in termini neuroscientifici (potenziali evocati, correlati neurali,
sincronizzazione neuronale ecc.) che cosa accade dentro le nostre sca-
tole craniche, mentre pensiamo a tali quesiti?
In che senso (fenomenologicamente) possiamo definirci esseri dotati di
intenzionalità e autocoscienza?
È ipotizzabile una strategia riduzionista che possa risolvere queste que-
stioni?
Esiste un luogo (cerebrale) della coscienza?
I due studiosi, pur con orientamenti diversi (fenomenologico e neuro-
scientifico), sembrano essere d’accordo su una cosa: la non completa
riducibilità della coscienza ad oggetto di indagine (e comprensione)
neurofisiologica. In altri termini, la coscienza, al momento attuale, sfug-
ge ad una completa spiegazione da parte delle neuroscienze.
Possiamo domandarci allora: “Perché sfugge?” Probabilmente perché,
come sosteneva William James, “ogni pensiero tende a fare parte di una
coscienza personale” che è sempre in movimento.
La coscienza allora, “è interessata (come l’atto di pensiero) ad alcuni
oggetti ad esclusione di altri e sceglie, insomma, tra essi”.
Roberta Lanfredini ha trattato il fenomeno della coscienza da un punto
di vista “teorico-descrittivo”, concependolo come “fenomeno intenziona-
le” e allo stesso tempo “non intenzionale” (la natura sensoriale della
coscienza), come “dimensione” e come “autocoscienza”, mettendo in
risalto il punto di vista del soggetto cosciente.
Il “flusso di vissuti” si situa in una temporalità diversa da quella fisica e
la coscienza si caratterizza per la sua dimensione intenzionale: essa è
direzionale e orientata spazialmente.
Come sostenuto da Husserl, infatti, la coscienza è sempre “coscienza di”
e l’intenzionalità rappresenta la struttura fondamentale del rapporto con
il mondo.
Viene allora naturale domandarci se sia possibile concepire la coscienza
indipendentemente da unpunto di vista: siamo più o meno tutti d’ac-
cordo infatti, che esiste un oggetto della coscienza che èil soggetto e
allo stesso tempo l’oggetto della percezione da parte del soggetto, infat-
ti, è lecito chiederci: “Cosa stai percependo?”.
Ma anche: “Chi prova la sensazione di dolore?”. Questa ambiguità, “l’es-
sere una volta sfondo, una volta figura da parte della coscienza”, la
rende simile ad una figura percettivamente impossibile, della quale però
è naturale immaginare due suoi stati contemporaneamente (si pensi al
cubo di Necker: l’impossibilità sta nel non potere, in un senso “neurale”,
percepire la figura nei due modi contemporaneamente ).
“Tutti gli stati di coscienza sono intenzionali?” La risposta sembra nega-
tiva: infatti, gli attacchi di panico, gli stati di ansia generalizzata, o di
angoscia, sono esempi di stati di coscienza non intenzionali, essi cioè
sono “sensoriali” e all’apparenza non mediati da contenuto interno (nel
quadro di un’analisi fenomenologica): essi vengono allora esperiti in un
senso pre-intenzionale e sono per così dire, “la spia di una chiusura nei
confronti del mondo”.
La concezione kantiana dell’Io, che unifica i vissuti con il significato
intenzionale della soggettività, superando i limiti cartesiani di una co-
scienza disincarnata e astratta, rende legittima la definizione di “Io”
come “il mioflusso di coscienza”; ma se noi possiamo farne esperienza,
la coscienza “sembra escludere l’Io stesso”; infatti, se essa può essere
vissuta , “non può allo stesso tempo essere intenzionata”, tanto da dubi-
tare che “la soggettività stessa possa essere oggetto di qualche cosa”.
Arnaldo Benini ammette che allo stato attuale noi non sappiamo che
cosa sia la coscienza.
Questo però non significa che non sia possibile darne alcune definizioni:
“L’Io così caro ai filosofi, l’io che pensa, si è materializzato e sta nel
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cervello”, e se “l’uomo è il suo cervello, allora la coscienza è un insieme
di stati qualitativi (memoria, percezione, riflessione, ecc.) suscettibili di
misurazione”.
Da un punto di vista neuroscientifico, infatti, non solo gli stati di co-
scienza di cui parlano i filosofi della mente esistono, (in un senso fisico),
ma è possibile darne una descrizione scientifica dettagliata: in questo
senso, per esempio, il sapore del gelato sarebbe uno stato qualitati-
voben definito (ben esperito, si potrebbe dire) che il fisiologo è in grado
di descrivere con precisione. Ora, dice Benini, gli stati di coscienza sono
talmente reali, e non oggetti cartesiani dell’iperuranio, che sono suscet-
tibili di alterazione chimica, e che è possibile descrivere con indici neu-
rocomportamentali.
Infatti, per un medico, lo stato di vigilanza di base, la consapevolezza
dell’identità corporea e la coscienza autobiografica, per esempio, sono
stati di coscienza ben osservabili. Uno stato di coscienza alterato non
‘rappresenta’qualche cosa, ma è un ‘sintomo’ di qualche cosa; inoltre
oggi possiamo definire i costrutti classici della psicologia e della filosofia
della mente, in termini di correlati neurali corticali (NCC) (si fa l’ipotesi
che le funzioni superiori dipendano in gran parte dall’attività della cor-
teccia cerebrale, anche se oggi sappiamo, in realtà, che sono implicate
anche alcune regioni subcorticali) e attraverso le tecniche di neuroim-
magine è possibile osservare in vivo l’attività metabolica dei nostri si-
stemi nervosi alle prese con i compiti più disparati.
Allora, cosa possiamo dire del fenomeno della coscienza dal punto di
vista del neuroscienziato?
Gli studi pioneristici di Roger Sperry indicavano la coscienza come una
capacità dell’emisfero sinistro: questo sembra possedere, come poi
evidenzato dal neurofisiologo Michel Gazzaniga, un’innata natura inter-
pretativa e “logogena” che l’emisfero destro non possiede (il sinistro è
considerato l’emisfero del linguaggio e sembra che alterazioni nella
comprensione del linguaggio si accompagnino spesso a compromissioni
delle funzioni cognitive superiori, tra cui l’intenzionalità, per esempio).
Oppure, ricordando Damasio, la coscienza rappresenterebbe “l’equilibrio
neurale” tra i centri prefrontali (filogeneticamente recenti e sede, sem-
bra, dei comportamenti cognitivi complessi come il ragionamento, la
memoria di lavoro, l’attenzione) e le regioni profonde (amigdala, ippo-
campo, nuclei subcorticali) alla base dei meccanismi coinvolti nei pro-
cessi mnemonici e nell’elaborazione degli stati emotivi.
“Noi non siamo altro che l’equilibrio tra le aree frontali e i centri dell’af-
fettività, e sono quest’ultimi che ci fanno diversi l’uno dall’altro”, sostie-
ne Benini; infatti, il numero delle fibre nervose che vanno dai centri
profondi a quelli anteriori, è il doppio delle fibre che fanno il percorso
inverso.
Benini concorda con Lanfredini sulla natura non intenzionale di ogni
contenuto di coscienza; in altre parole non tutto quello che riguarda la
coscienza è intenzionale: pazienti con tumore maligno dei lobi temporali
sono colpiti da attacchi di ansia incontrollabili senza cause reali appa-
renti.
“Di che cosa si preoccupa allora il paziente?”
È interessante osservare che il paziente di fatto ‘non lo sa’, dato che gli
attacchi in questione gli accadono e basta. Qui l’elemento di “chiusura
nei confronti del mondo degli stati di coscienza alterati, appare in tutta
la sua drammaticità”, sostiene Lanfredini.
Benini cita inoltre la scoperta dei neuroni specchio e il ruolo giocato
dall’intenzionallità motoriain funzione dell’acquisizione del pensiero, la
funzione della formazione reticolare attivante nella regolazione delle
funzioni degli organi interni e nel mantenimento dello stato di vigilanza
(il tutto senza che emerga ad un livello di coscienza) e dei nuclei talami-
ci che costituiscono la principale stazione di ritrasmissione del cervello
(dal talamo le informazioni sensoriali vengono trasmesse alla corteccia
dove avvengono elaborazioni più raffinate degli stimoli).
Alcuni problemi però rimangono aperti: la natura della causazione men-
tale e il problema della chiusura cognitiva (“il cervello non sembra in
grado di oggettivare completamente se stesso”), la questione del libero
arbitrio, la natura del pensiero (o i formati del pensiero), i ‘qualia’ e il
rapporto mente-corpo.
Indipendentemente dal fatto se sia lecito dire “io ho un cervello o io
sono un cervello”, Benini, un po’ sorprendentemente, conclude che la
coscienza “non verrà mai spiegata completamente”.
Potrebbe essere anche vero, ma non capiamo la necessità di quel ‘com-
pletamente’.
La comprensione di un problema scientifico complesso come la coscien-
za, sarà probabilmente incompleta ancora per un po’, ma è ben altra
cosa dire che questa resterà una specie di “mistero” o un fenomeno
incomprensibile per sempre.
Alberto Binazzi
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129328
Leggere per non dimenticare Ciclo di conferenze alla Biblioteca Comunale
La forza del pudore e Storia dell’indifferenzaPresentano gli autori A. Tagliapietra e S. Ghisu
Nell’ambito del ciclo d’incontri “Leggere per non dimenticare”, a cura di
Anna Benedetti, il 7 febbraio alla Biblioteca Comunale Centrale si è te-
nuta una duplice presentazione: La forza del pudore (Rizzoli, Milano
2006) di Andrea Tagliapietra e Storia dell’indifferenza (Besa, Lecce
2006) di Sebastiano Ghisu.
Due libri che, a detta degli autori, descrivono entrambi un movimento
che si inserisce nella medesima cornice, quella del ritirarsi, della distan-
za, dell’allontanamento.
Il ‘pudore’ non è da identificarsi con la vergogna o la paura, ma va inte-
so come il modo individuale di proteggersi, una sana reazione di allon-
tanamento che consente di difendersi dalla pluralità dei ruoli imposti
dalla società odierna, e, in ultimo, di salvaguardare la propria libertà.
Allo stesso modo nel testo di Ghisu ‘l’indifferenza’ perde la connotazione
negativa di senso comune, per assumere quella di un movimento di
allontanamento coincidente in ultimo con la dinamica della razionalità
occidentale.
Per attuare un uso critico della ragione è necessario non appartenere a
ciò che si giudica, ma altresì imparare ad acquisire un ‘punto decentrato’
da cui osservare e giudicare; Ghisu, attraverso figure mitologiche, qua-
dri, narrazioni, illustra proprio la genealogia di questa acquisizione, che
parte dall’inizio della filosofia per arrivare sino a noi.
I due autori concordano sul fatto che tanto la nozione di ‘pudore’ quan-
to quella di ‘indifferenza’, rimandano a un movimento che è quello ese-
guito dalla filosofia quando analizza le cose del mondo: una dinamica di
distanziamento che esclude l’interesse finalizzato, che si ritrae dalle cose
e dal loro quotidiano e costante appello per meglio giudicarle.
Matteo Leoni
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 29
La mente e i fenomeni: filosofia, neuroscienze, psicopatologia a confrontoDipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze
Problemi epistemologici sulla natura del mentaleRelatori: Roberta Lanfredini, Marco Salucci.
“Niente mi sembra più naturale che supporre che nel cervello non c’è alcun processo che abbia a che fare con l’associazio-ne mentale o con il pensare, così che sarebbe impossibile risa-lire dai processi del cervello ai processi del pensiero. […] Perché una qualunque cosa, di qualunque specie sia, dovrebbe essere immagazzinata in una qualche forma? Perché dovrebbe esservi stata lasciata una traccia? Perché non potrebbe esser-vi una regolarità psicologica cui non corrisponde alcuna re-golarità fisiologica? Se ciò sconvolge il nostro concetto di causalità, vuol dire che era tempo che fosse sconvolto”.
L.Wittgenstein, Zettel, Basil Blackwell, Oxford 1967, par. 608-610.
“Tutto è rappresentazione? Tutto ha bisogno di un portatore senza il quale non avrebbe consistenza? Io mi sono considera-to portatore delle mie rappresentazioni, ma non sono per caso anch’io una rappresentazione? Mi pare di stare su di un diva-no, di vedere le punte di un paio di stivali, il davanti di un paio di pantaloni, un gilet, dei bottoni, parti di una giacca, due mani, qualche pelo di barba, il profilo sfuocato del naso. E io sarei questa associazione di impressioni visibili, questa rappresentazione complessiva?”
Gottlob Frege, Ricerche logiche, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 64.
In occasione del ciclo di incontri “La mente e i fenomeni: filosofia, neu-
roscienze, psicopatologia a confronto”, si è tenuto, presso il Dipartimen-
to di Filosofia dell’Università di Firenze, un incontro dal tema: “Problemi
epistemologici della teoria dell’identità”.
I due relatori, Roberta Lanfredini ordinaria di Gnoseologia all’Università
di Firenze e Marco Salucci, professore a contratto di Storia della filosofia
del linguaggio presso la Facoltà di Psicologia di Firenze, hanno discusso i
rapporti che la teoria dell’identità intrattiene con le neuroscienze da un
lato, e con la riflessione fenomenologica dall’altro.
Marco Salucci, come già argomentato nel suo libro La teoria dell’identi-
tà, alle origini della filosofia della mente, (Le Monnier 2005), ha soste-
nuto che la teoria dell’identità si differenzia sia dal comportamentismo,
sia dalle teorie precedenti al comportamentismo: infatti, “per i sosteni-
tori della teoria dell’identità, la tesi secondo cui gli stati mentali sono
stati cerebrali, è un ipotesi empirica”e il compito dei sostenitori della
teoria è allora “quello di mostrare come l’identità in questione sia coe-
rente e non possa essere rifiutata con argomenti a priori”.
I teorici dell’identità psicofisica infatti, ammettono stati interni che cau-
sano i comportamenti, ma a differenza dei dualisti (che non sono tenuti
a postularlo), assumono che gli stati interni siano stati fisici, cioè stati
del sistema nervoso centrale.
“Astenendosi dal pronunciarsi su ciò che è reale o sulla natura della
realtà”, essi affermano che “se la tesi dell’identità non è necessariamen-
te falsa e non può essere rifiutata per motivi logici, e se non è nemme-
no necessariamente vera e il negarla non dà luogo a contraddizioni,
allora la verità o la falsità della teoria deve essere accertata in sede di
indagine empirica”.
Come argomentato in (PLACE, 1956), infatti, “accettare la nozione di
processo interiore non implica il dualismo e la tesi secondo la quale la
coscienza è un processo cerebrale non può essere respinta con argo-
mentazioni logiche”.
Quindi, dice Salucci, secondo i teorici della teoria dell’identità, se si
riesce a mostrare che non ci sono motivi logici per rifiutare la teoria,
allora essa potrebbe essere di fatto vera e quindi diventare un’ipotesi
scientificamente praticabile. Per un teorico dell’identità, se uno stato
mentale M ha una proprietà P che lo individua come M, (l’accesso priva-
to, per esempio), allora P o è di natura fisica o no lo è; ma questa pro-
prietà non può che essere di natura fisica perché altrimenti, si violereb-
be il criterio della chiusura causale (se qualcosa di fisico è causa di
qualcosa di fisico, questo deve essere di natura fisica). Non resta altro
che spiegare, allora, come l’emergenza di P non possa essere di natura
diversa da M.
Salucci argomenta che se M è realizzato da F, e allo stesso tempo M
causa M1 (credenza che causa un’altra credenza), allora M sarà realiz-
zato da F e M1 sarà realizzato da F1 (lo stato fisico corrispondente a
M1).
Ora, ipotizzando che F e F1 possano essere identificati con cervelli, (o
microchip, o altro), M1 ha due cause M e F1. Allora, si domanda Saluc-
ci: “Questa resta un’ipotesi sostenibile nel quadro di un’ontologia dei
livelli ?”
Il problema per un dualista, allora, rimane quello di provare, attraverso un’analisi logica, l’insostenibilità della teoria del-l’identità e stabilire che tipo di efficacia causale c’è tra uno stato mentale e un determinato comportamento.
Secondo Roberta Lanfredini, i teorici dell’identità sono “antidualisti e
antieliminativisti” e il riduzionismo ontologico afferma, in realtà, che gli
stati mentali e gli stati cerebrali sono “differenti tipologie di processi”.
Analizzare la teoria dell’identità allora, significa essenzialmente doman-
darci che tipo di identità sia quella di cui parlano questi teorici.
Come argomentato in (PLACE, 1956) infatti, “l’opinione quasi universal-
mente accettata che un’asserzione di identità tra coscienza e stati cere-
brali possa essere respinta per ragioni puramente logiche, deriva dalla
mancata distinzione fra ciò che possiamo chiamare “l’è” per definizione
e “l’è” per composizione”: infatti, si domanda Roberta Lanfredini, un
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enunciato come “uno stato mentale è uno stato cerebrale” appare
diverso se confrontato con “una nuvola è una massa di particelle in
sospensione” e “il lampo è un movimento di scariche elettriche”.
Ora il secondo è un enunciato “osservativo”, mentre il terzo è “osserva-
tivo-teorico”: ma il primo (uno stato mentale è uno stato cerebrale) che
tipo di enunciato è?
Infatti secondo Roberta Lanfredini è addirittura dubbio considerare uno
stato cerebrale come un’entità teorica: come mostrato da Kant e da
Husserl, lo stato di coscienza non è un oggetto di conoscenza, ma è
oggetto di riflessione.
“Noi infatti non siamo passivi nei confronti del mentale”, e la differenza
sostanziale tra stato mentale e cerebrale è che lo stato mentale può
essere sia in prima che in terza persona mentre lo stato cerebrale sol-
tanto in terza.
Prendiamo per esempio l’esempio fregeano di Venere : “la stella della
sera è la stella del mattino”; ora si chiede Roberta Lanfredini, “qual è
l’analogo di Venere per stati mentali e stati cerebrali? Esiste? Può esser-
ci causa, senza oggetto fenomenico? Noi, in realtà accediamo ad og-
getti di tipo qualitativo diverso (e ricadiamo nel dualismo).
Occorre allora distinguere in un ottica “antirealista”, tra l’esperienza di
un oggetto e l’oggetto esperito.
Perché allora, costituisce una fallacia dare legittimità ontolo-gica a oggetti fenomenici? Perché le entità fenomeniche devo-no essere escluse dall’assetto del mondo?
E inoltre: “Può esservi causazione tra enti di natura diversa? Possiamo
ridurre ad oggetto di conoscenza scientifica “la percezione della co-
scienza?”.
Come sostenuto in (ARMSTRONG, 1980) “la coscienza non è nient’altro
se non la percezione o la consapevolezza degli stati della nostra mente.
[…] Kant, con un’espressione efficace parlava di senso interno”.
Noi infatti, non siamo in grado di osservare direttamente la mente degli
altri, ma possiamo percepire la nostra propria mente e di “percepire ciò
che gli accade”. Già, ma come fa a rendere oggetto di conoscenza ciò
che gli accade? “Come si fa a rendere oggetto di conoscenza l’introspe-
zione?”
Come si fa, si domanda Roberta Lanfredini, a rendere oggetto di cono-
scenza il dolore? “Certamente è corretto dire che viviamo il dolore”.
Allora come fa una proprietà di natura fisico-chimica a causare l’evento
“provare dolore?” Inoltre se esiste correlazione, allora esistono due
entità, dato che non si può stabilire una correlazione di uno stato men-
tale con se stesso; infatti come sostenuto in (SMART, 1959), “dire che
sensazioni visive, uditive, tattili, dolori e sofferenze, sono correlati con
processi cerebrali non ci aiuta, perché dire che sono correlati, equivale a
dire che sono qualcosa di ulteriore”.
Dunque, sostiene Roberta Lanfredini, o si è dualisti o si è eliminativisti:
non c’è spazio per l’identità.
Come argomentato in (SHAFFER, 1961),
Gli M stati sono di fatto identici ai C processi? […] In genera-le è senza speranza aspettarsi di riuscire a definire le proprie-tà psichiche in termini di proprietà fisiche e continuare a so-stenere, come fanno i teorici dell’identità, che l’identità tra gli M-stati e i C-processi è una scoperta empirica. A meno che
non ci siano caratteristiche speciali che ci permettono di iden-tificare indipendentemente gli M-stati non saremo mai in con-dizione di scoprire la loro identità de facto con i C-processi.1
Quali sono allora due caratteristiche, che possiamo, con prudenza, attri-
buire agli eventi mentali?
“La proprietà dell’accesso privato degli stati mentali e il rapporto di
correlazione tra stati mentali e stati cerebrali; ma ad oggi non possiamo
andare oltre alla correlazione”, ammette Marco Salucci.
Allora siamo in grado oggi di dare una descrizione esaustiva della no-
stra vita mentale?
“Una buona teoria deve soddisfare i seguenti criteri”, afferma Salucci:
“realismo, efficacia causale, chiusura causale, realizzazione fisica”. Deve
dimostrare “che gli stati mentali esistono in quanto stati mentali,” che
hanno un ruolo causale, (il ‘credere che P’ causa il comportamento Q),
assunto antiepifenomenista, che se gli stati mentali sono qualcosa di
fisico, e se hanno un ruolo causale, questo deve essere a sua volta di
natura fisica, e infine, che se gli stati mentali sono qualcosa di fisico,
allora essi devono possedere una realizzazione fisica (il cervello).
Al momento attuale, concordano Salucci e Lanfredini, noi non abbiamo
una teoria del mentale che soddisfi tutti e quattro i criteri contempora-
neamente.
Alberto Binazzi
NOTE
1. J.Shaffer, (1961), p.135
BIBLIOGRAFIA
Armstrong, D.M. The Nature of Mind, in The Nature of Mind and Ot-her Essays, Cornell University Press, Ithaca-NewYork, 1980.Place, U.T. Is Consciousness a Brain Process?, «The British Journal of Psyhology», 47, 1956.Salucci, M. La teoria dell’identità. Alle origini della filosofia della mente, Le Monnier, Firenze 2005.Shaffer, J. Could Mental State be Brain Process?, «The Journal of Phi-losophy», 58, 1961.73-389.
Neuroni a specchio e intenzio-nalità motoriaRelatore: Corrado Sinigaglia.
Venerdì 23 Febbraio, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università
degli Studi di Firenze, il Prof. Corrado Sinigaglia ha tenuto una lezione
su Neuroni a specchio e intenzionalità motoria, nel ciclo di Incontri pro-
mossi dal Seminario di Epistemologia 2007.
Sinigaglia, Professore di Filosofia della Scienza ed Epistemologia all’Uni-
versità Statale di Milano ha da poco pubblicato, insieme al neuroscien-
ziato italiano Giacomo Rizzolatti, un testo divulgativo sui neuroni spec-
chio, che sta riscuotendo un enorme successo e che sta facendo cono-
scere anche al grande pubblico questa scoperta. Il libro s’intitola So
quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni specchio (Giorello Editore,
2006). Sinigaglia ha collaborato con l’Istituto di Neuroscienze di Parma
(dove Rizzolatti lavora) e ha potuto rielaborare teoricamente le scoperte
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 31
condotte da Rizzolatti e dal suo staff, composto da ricercatori di tutto il
mondo.
15 anni fa - per la precisione nel 1992 - Rizzolatti fece conoscere i risul-
tati delle sue prime ricerche sui neuroni a specchio realizzate con la
tecnica del neuroimaging (risonanze magnetiche FMRI) sulle piccole
scimmie makaki.
Gli stessi neuroni che si attivano quando l’animale compie un gesto, si
attivano quando lo stesso gesto è compiuto dallo sperimentatore. Ci
deve essere la visione di un’azione o di un’interazione specifica e quindi
congruenza nell’attivarsi motorio, perché questi neuroni entrino in fun-
zione. La prima ipotesi sul funzionamento di questi neuroni non canonici
era che rispondessero ad una funzione e capacità imitativa. Ma, a di-
spetto di quello che si potrebbe comunemente pensare, i makaki non
sono in grado di imitare.
Scartata questa ipotesi, l’idea che sta alla base ancora oggi dell’interpre-
tazione teorica dei neuroni a specchio è che ci sia una sorta di mappatu-
ra tra informazione motoria e informazione sensoriale.
Il nostro apparato sensoriale “codifica” infatti prendendo significati dal
dizionario motorio (come lo chiama Rizzolatti) di cui dovremmo disporre
sulla base di queste scoperte.
Sinigaglia ricorda che la scoperta dei neuroni a specchio ha conseguen-
ze epistemologicamente rilevanti e sostiene che queste riportano in
auge quella filosofia dell’azione e della percezione, che vedeva per
esempio in Merleau-Ponty (l’illustre fenomenologo della percezione) un
precursore.
Merleau-Ponty diceva che il semplice gesto dell’afferrare possiede in sé
una qualche forma di magia: la mano incontra l’oggetto senza essere
guidata da alcuna rappresentazione.
Criticava l’idea che ogni comportamento dovesse essere riflesso o deli-
berativo-intenzionale. L’idea che l’elemento intenzionale è quello che
causa e che il resto sia puro movimento fisico. L’idea che il processo
motorio non sia altro che quella parte del nostro cervello che mette in
atto decisioni prese altrove.
Nella corteccia motoria uno stesso neurone governa anche atti motori
antagonisti, come l’aprirsi o il chiudersi in opposizione di una mano.
L’oggetto viene catalogato dal sistema motorio in termini delle sue af-
fordances motorie (quelle proprietà funzionali di oggetti in interazione
con l'osservatore; ad esempio uno sgabello suggerisce l’idea della pos-
sibilità di sedercisi sopra), dai modi in cui può essere preso un oggetto.
L’informazione per agire sugli oggetti non è data da una semantica che
ci dice cos’è l’oggetto. Per esempio l’oggetto <tazzina> è una modalità
di prese che si consolidano rispetto ad altre. I neuroni nel cervello non
scaricano se non c’è interazione specifica con l’oggetto. Scaricano quan-
do la mano non si muove a caso, ma va diretta alla scopo. Come diceva
Merleau-Ponty basta vedere l’oggetto per capirne gli usi.
Soltanto la capacità visuomotoria del cervello - per Sinigaglia - spiega
quindi i neuroni a specchio.
C’è una combinazione diretta (così sembrerebbe secondo questa ipotesi)
tra informazione sensoriale e motoria. Lo stimolo visivo viene “mappato”
dall’informazione motoria. Noi vediamo (o più in generale percepiamo)
gli oggetti del mondo già confezionati e carichi del significato che gli usi
di quell’oggetto potrebbero suggerire. Il pacchetto motorio ci fa vedere
il mondo in direzioni già definite. L’informazione visiva ad un certo punto
può anche venir meno, perché c’è una codificazione motoria. Anche i
rumori stessi vengono classificati dalla corteccia parietale in base alla
possibile azione, cui possono essere associati, anche se l’azione legata
al rumore non la sentiamo, ma la vediamo e basta. Sinigaglia ci dice:
“Il motorio dà la chiave per comprendere il contenuto intenzionale del-
l’azione” .
Il cervello codifica alla stessa maniera informazioni sensoriali diverse
(vedere e sentire un rumore) perché associate ad una stessa affordance
motoria (in un esperimento citato da Sinigaglia il semplice rumore dello
strappo di un foglio).
Il sistema motorio non organizza per singole catene di azioni, ma è
fluido e ha una fase di anticipazione efficiente dell’azione; se la prefigu-
ra prima.
I neuroni a specchio mettono in luce una forma di intentional under-
standing, un carattere predittivo delle risposte motorie.
Per Sinigaglia questo tipo di attivazione mirror a livello neurale rappre-
senta a livello non neurale la nostra intenzionalità motoria.
Il significato intenzionale è quell’insieme che dà e riconosce la specifica
interazione con l’oggetto. C’è una fase di comprensione motoria altrui
che non richiede per forza la mentalizzazione (un ricorso cioè a stati
proposizionali mentali del livello cognitivo).
La capacità di agire è quindi il motore della capacità di capire. Questo
dicono i neuroni a specchio. La capacità di rappresentazione motoria
innesta la comprensione di repertori d’azione.
Se questa – come ci dice Sinigaglia - è davvero la conseguenza episte-
mologica delle scoperte sui neuroni a specchio, erta sarà la salita per
parte della fenomenologia e filosofia della mente, che avevano fatto dei
contenuti intenzionali degli stati mentali un dolmen indiscutibile.
Duccio Manetti
Psicopatolagia del senso comu-neRelatore: Giovanni Stanghellini
La domanda che porta uno psichiatra a parlare del suo lavoro in un’aula
di filosofia è quanto mai attuale perché si tratta di capire se un rapporto
di reciprocità possa essere utile allo sviluppo di entrambi gli studi, in
quale misura e secondo quali criteri.
E’ innanzitutto doveroso rispettare la premessa fatta da Giovanni Stan-
ghellini: che ogni domanda, ogni dubbio, ogni affermazione riguardo al
tema trattato debbano considerare la reale, imprescindibile, esistenza
delle persone a cui ci riferiamo.
Ciò risulterà più chiaro considerando che il tema su cui verterà la lezione
è la schizofrenia.
H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129332
La schizofrenia viene determinata dalla compresenza di due tipi fonda-
mentali di disturbo. Il primo si qualifica come disturbo della coscienza
fenomenica e disturbo della coscienza del sé, il secondo come disturbo
dell’intersoggettività.
Essi si manifestano, rispettivamente, nella perdita dell’immediata perce-
zione di se stessi e nell’incapacità a relazionarsi con gli altri.
La persona schizofrenica, per colmare la prima di queste assenze, attua
dei meccanismi che portano ad un progressivo incremento di quella che
viene chiamata coscienza iper-riflessiva (di contro alla coscienza pre-ri-
flessiva, andata perduta), ovvero una costante osservazione di se stessi,
percepiti non più come soggetti, ma come oggetti d’osservazione.
Per supplire, invece, all’altra mancanza cerca di rappresentarsi una
struttura di regole comportamentali secondo uno schema prevalente-
mente di tipo matematico. In sostanza, l’individuo non riesce più a ritro-
vare un orizzonte di senso comune con gli altri e tenta di rispondere alla
presenza di altre persone figurandosi una sorta di algebra dei rapporti
interpersonali. In questo senso è molto significativa una testimonianza,
riportata dal relatore, in cui la forma di rappresentazione delle relazioni
intersoggettive viene indicata dalla parola ‘algoritmo’.
Entrambe le reazioni, nel corso del loro sviluppo, possono portare al
manifestarsi di episodi psicotici e allucinazioni, soprattutto uditive. La
mente schizofrenica, infatti, persegue un cammino di costante oggetti-
vazione del mondo, sia interiore che esteriore, fino a perderne comple-
tamente la comune nozione. La formazione di neologismi e gli episodi di
cenestopatia sono dimostrativi di questo aspetto.
Questo non può essere altro che un breve ed imperfetto accenno all’ar-
gomento, tuttavia, in esso si possono scorgere le radici di molte do-
mande che portano non solo vicino, ma dentro alla filosofia:
Il riconoscimento di un’anomalia laddove operano proprio quelle forze
logiche e matematiche che possiamo riconoscere come il primo motore
della nostra attuale società.
L’importanza di quella parte del percepire che non si può localizzare, né
verbalizzare secondo gli abiti dell’esperienza sensibile.
La complessità dolorosamente reale del rapporto tra la mente ed il cor-
po, tra la mente ed i corpi.
Credo che questi interrogativi possano essere una traccia della possibili-
tà, per questi due campi d’indagine, di trarre profitto da una reciproca
attenzione. In questa prospettiva è ipotizzabile che possa esserci qual-
che sentiero percorribile di analisi nel cercare di comprendere quale
statuto ontologico assumano gli oggetti che compongono la realtà di un
soggetto schizofrenico.
Scilla Bellucci
H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 33
IntervisteFrancesco AdornoE’ una piovosa mattina di Lunedì a Fi-
renze quando mi reco in via S.Egidio
dov’è situata l’Accademia della Colomba-
ria presieduta dal prof. Francesco Ador-
no con cui ho appuntamento per un’in-
tervista.
Segretario della sezione fiorentina nel
’65, il professor Adorno è un personag-
gio significativo nella vicenda culturale di
Firenze nella seconda metà del novecen-
to.
Lo trovo seduto alla sua scrivania chino su appunti e documenti e a
dispetto della sua età, noto subito, da come mi saluta che la sua curiosi-
tà intellettuale e il suo acume sono tuttora brillanti e vivissimi.
Professore, Lei è stato segretario della Biblioteca filosofica nel
’65 dopo già svariati anni di militanza nella Società Filosofica
Italiana insieme a intellettuali del calibro di Fazio-Allmayer e
Garin. Cosa ricorda della sua esperienza?
Ero ancora un ragazzo quando ho conosciuto Garin. Me lo presentò
Mario Rossi che allora era il mio professore di filosofia al liceo e a cui
devo la mia comprensione di Kant. Era il 1938 quando strinsi la mano a
Garin: lui era già uno studioso affermato mentre io un promettente
giovane studente di filosofia.
Il Fascismo e poi la guerra non erano proprio congeniali per lo
sviluppo culturale di Firenze. Come siete riusciti a mantenere
l’impegno filosofico con l’associazione?
Con molta fatica e non pochi pericoli; io, Garin e Fazio-Allmayer erava-
mo i più attivi ma il nostro sforzo non consisteva soltanto nella produ-
zione intellettuale. Era assai importante anche la raccolta di testi e do-
cumenti storici e la loro conservazione. Mi ricordo che più volte dovem-
mo cercare tra le macerie importanti opere di valoro storico e culturale
ancora conservate qui alla Colombaria.
Proprio l’Accademia della Colombaria è stata nel ’53, anno di
rifondazione della “Biblioteca”, una delle sedi della sezione.
Si. L’accademia si confaceva come luogo e per lo spirito che tramanda-
va. Fù fondata dalla famiglia Pazzi nel 1735 dove vari intellettuali del
l’epoca discutevano e raccoglievano “cose” rarissime. Ci sembrò appro-
priata.
E lo sarebbe ancora. Tornando al presente: la vita culturale del
paese e della città è molto cambiata. Pensa che sia ancora pos
sibile, nella società attuale così frenetica, l’interesse per la ri-
flessione filosofica?
Sarebbe auspicabile. Purtroppo ci sono evidenti limiti nelle persone che
oggi lo possono fare, sia nella concezione di coloro che possono fruire
della riflessione filosofica sia nell’espressione terminologica e concettua-
le. Come ho scritto in un recente articolo apparso sulla rivista “Il Porto-
lano” (numero 43/44-Luglio/Dicembre 2005. N.d.r.) abbiamo bisogno di
un portolano della navigazione umana.
Cosa intende per “portolano della navigazione umana”?
Vede, il portolano è quel libro di navigazione contenente rotte e carte
marine, valori della profondità del mare, indicazioni sulle maree, i parti-
colari delle coste e dei porti. Oggi usato anche per le rotte aeree. Da un
punto di vista fenomenologico, se vogliamo, non Le pare che ogni no-
stra indagine sull’uomo e sul suo farsi corrisponde ad una “navigazio-
ne”?
Dunque pensa che oggi sia necessario avere un punto di riferi-
mento per la nostra “navigazione”?
L’uomo va considerato complessivamente nel suo contesto storico. Mai
andare al prima con il nostro poi. Bisogna cercare per ogni epoca come
si pensa e perchè, il linguaggio che si usa e perchè, da parte di chi e
perchè, storicamente. Oggi non sappiamo perchè usiamo certe parole e
da dove derivano e hanno origine, condizionati dai media o da altri che
non sanno pensare storicamente. Ecco perchè abbiamo bisogno di un
portolano dell’ “esserci”, del nostro pensare e parlare, per non incappare
in quelle sabbie mobili di significati che di volta in volta propongono
stupidi modi di credersi attuali. Usare termini o fare come coloro che
comprano quel che viene loro detto di comprare, dai lavapiedi ai deter-
sivi e via dicendo, correndo tutti ad un tempo da un evento all’altro,
stupidamente, facendo manina manina alla televisione.
Abbiamo bisogno di un portolano della storia dell’uomo, comprendendo
i modi di pensare attuali, rifacendosi alle tappe, ai porti, alle rotte segui-
te dall’uomo nella sua storia per poter comprendere intelligentemente il
presente e, senza uscire da sè, costruire il futuro. In “La politica come
intelligenza” (in “Pensare storicamente: quarant’anni di studi e ricerche”
pp. 263 e segg., Olschki, Firenze 1995. N.d.r.) ho scritto che oggi è
“cafoneria obligè” far mostra della propria individuale bravura gonfiando
N O T I Z I E D I F I L O S O F I A E V E N T I C U L T U R A L I L A B O R A T O R I O D I I D E E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 34
in smisurate ipertrofie dell’io il “privato”, in greco idiota, a scapito della
dimensione pubblica, la politeia, per cui ci troviamo in una idiotocrazia.
Sono dunque i mutamenti della società il male che ci ha allon-
tanato dalla dimensione pubblica e collettiva?
No, niente di male se il diverso, come è bene, muta correttamente. Il
guaio è quando, per insipienza e incapacità di ben pensare si usano
termini che significano altro, o meglio, non dicono nulla. Aveva ragione
Goethe quando sosteneva che male non è l’ignoranza, male è l’ignoran-
za attiva, ormai superattiva.
Pensa che sia vano tentare di portare la riflessione filosofica ad
una dimensione pubblica nella società attuale?
Certamente non si può pretendere che ognuno rifletta storicamente su
di sè e sul suo ruolo nella società ma un gruppo di persone sapendo ciò
dovrebbe proporre un portolano della navigazione umana. Ognuno nel
suo campo dovrebbe saper fare il mestiere più difficile che ci sia: il me-
stiere di uomo.
Smettiamola con questi prestigiatori populisti che sanno muovere solo
velocemente le dita e formare illusioni da dare in pasto alla gente. Ten-
tiamo invece di essere uomini, ossia persone civili.
Tenteremo professore, magari onorando la tradizione della
Bibiloteca Filosofica di Firenze. La ringrazio molto del suo tem-
po.
Saluto così uno dei più grandi intellettuali di Firenze che ha collaborato
con i grandi filosofi italiani, che ha conosciuto Sartre di persona e che
con grande disponibilità mi ha mostrato il suo punto di vista sulla socie-
tà attuale. Imbonitori, politici imprenditori, calciatori e veline; e mi viene
da pensare che è un peccato che il pensiero critico non si venda al mer-
cato, magari quello di S.Lorenzo.
D’altra parte, se si vendesse non sarebbe più ciò che è.
Riccardo Furi
Paul GinsborgCom’è nata l’idea di questo suo ultimo libro “La Democrazia che
non c’è”?
L’idea è venuta alla casa editrice. Hanno
inventato questa collana, Le Vele, e mi
hanno invitato a scrivere un contributo,
pubblicato con un prezzo molto accessi-
bile. Ho pensato che sarebbe stata una
bella idea sviluppare l’ultimo capitolo de
Il tempo di cambiare perché non avevo
tutto lo spazio in un capitolo solo per
sviluppare il discorso sulla democrazia. In più sono stato coinvolto con
Alberto Asor Rosa in una piccola avventura politica: abbiamo cercato di
inventare un forum della sinistra italiana, La Camera di Consultazione,
con l’idea di mettere insieme tutte le forze di sinistra in questo paese e
superare la frantumazione presente. Sindacalisti, sinistra DS, Verdi,
Comunisti Italiani, associazioni della società civile; questo tentativo è
durato poco più di un anno ed è naufragato davanti alle diffidenze dei
partitini della sinistra; c’è stata elaborazione teorica e politica, c’era Luigi
Ferraioli, Rossana Rossanda, e molti altri coinvolti. Avevo letto un paper
sulla questione della democrazia ed è stata in quella occasione che mi è
venuta in mente l’idea di fare incontrare Mill e Marx.
Un cambiamento d’identità del cittadino come soggetto di tra-
sformazione democratica ed il tentativo di rinnovare il conte-
nuto delle sue virtù civiche: tutto questo attraverso una lettura
di John Stuart Mill. Ci può spiegare di cosa si tratta?
Si, molto volentieri. Sono rimasto abbastanza sorpreso tornando a John
Stuart Mill dopo molti anni; lo avevo studiato all’Università, quando ero
studente, ma poi andai abbastanza lontano dal suo pensiero.
Tornandoci sopra ho scoperto, ma è stata una scoperta solo per me, gli
esperti su Mill lo sanno da molto tempo, che Mill aveva un’idea dell’indi-
viduo e del cittadino molto particolare; è stato interpretato soprattutto
come il grande difensore della sfera privata dallo Stato ed è stato utiliz-
zato, diciamo ideologicamente, come colui che parla della libertà, in
contrasto con i comunisti che invadono la libertà individuali e costringo-
no gli individui a conformarsi.
Se però torniamo al suo lavoro, On liberty, e lo osserviamo attentamen-
te, si vede che certamente c’è questa idea della necessità di proteggere
l’individuo, ma uno dei temi più forti è la liberazione l’individuo dal con-
formismo della società che lo circonda; l’idea, che onestamente ha fatto
il giro d’Italia, dato il successo del libro, che i cittadini devono essere
attivi e dissenzienti Mill la ha nei riguardi del conformismo soffocante
della chiesa anglicana e della cultura vittoriana in generale.
Come reazione a tutto questo Mill cercò un’ immagine di cittadinanza
molto attiva, coinvolta nelle cose politiche; e soprattutto creò un’idea di
cittadino che pensasse autonomamente, per se stesso, non semplice-
mente che assorbisse gli impulsi più forti che venivano dalla chiesa,
dalla cultura e dalla politica, che è proprio quello che avviene ora con la
televisione e la pubblicità, che crea una sfera pubblica molto conformi-
sta ed un consumismo di massa.
Dunque una rilettura di Mill, che per me era di un’attualità scottante.
Nell’ambito del sistema di connessioni da lei proposto le fami-
glie sono collegate alla società civile dall’associazionismo (pg
59) Ma come si combinano queste ultime e la società civile agli
organi di governo? Quali sono queste nuove forme di democra-
zia che combinano rappresentanza e partecipazione?
H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 35
Questa è una domanda molto vasta. Tutta la seconda parte del libro è
dedicata ad esplorare le forme di questa connessione. Posso dare qual-
che esempio, molto attuale, anche perché un altro tema forte di questo
libro è che o la democrazia rinasce a livello locale o non rinasce. Non si
può pensare che arriverà da Bruxelles.
E’ talmente ampio è il deficit democratico nell’UE che ci vuole un fortis-
simo impulso dal basso, e questo è un altro dei fili rossi del libro.
Detto questo, facciamo un esempio: parlavo ieri con il sindaco di San
Piero a Sieve, dove hanno deciso di sperimentare quest’anno un bilancio
partecipato, seguendo il modello di Porto Alegre; penso di poter dare
per scontato per i vostri lettori la conoscenza dell’esistenza di questo
modello.
Il sindaco mi ha spiegato che hanno deciso di mettere a disposizione
della popolazione metà del bilancio, al netto ovviamente degli stipendi,
un milione di euro.
Attraverso un processo partecipato i cittadini devono stabilire le priorità
per il loro comune nel prossimo anno.
Hanno cominciato con le assemblee di quartiere di quartiere, di frazio-
ne, per fare una scelta fra progetti per la spesa di questi soldi. I tecnici,
gli amministratori, ma anche i membri del consiglio comunale erano
costretti o fortemente incoraggiati a venire a queste assemblee cittadine
e spiegare in modo trasparente e semplice virtù e difetti di questi pro-
getti.
Queste hanno avuto una partecipazione limitata: una delle lezioni più
interessanti per me uscite da San Piero a Sieve è che la cittadinanza
non è per niente abituata ad avere un ruolo, ed il grado di partecipazio-
ne non superava il 10%.
La cittadinanza, e questo credo sia molto interessante a livello teorico, è
concepita adesso, nelle società avanzate, soprattutto come una cittadi-
nanza passiva.
Addirittura parecchi cittadini hanno detto al sindaco: ma perché la ab-
biamo eletto? Spetta a lei prendere la decisione, non a noi.
Questo proprio per dire: noi non vogliamo la partecipazione, non dovete
scocciarci e questo è interessante. Nonostante ciò la sperimentazione è
andata avanti ed alla fine hanno fatto una scelta tra 5 progetti: è stato
chiesto alla cittadinanza tutta di esprimere una preferenza attraverso
una scheda elettorale.
Dunque erano coinvolti non solo coloro che partecipavano alle assem-
blee, un numero come si è visto piuttosto limitato, ma tutti potevano
votare per questi progetti. Molto interessante il fatto che il progetto
vincitore è stato quello per la riconversione ed il recupero di un vecchio
cinema, trasformato in un centro culturale.
E’ dalla scelta del sindaco, molto favorevole a questo tipo di partecipa-
zione, che è emersa questa scelta così illuminata.
Tutto il libro, come mi è stato fatto notare più volte, è giocato fra la
teoria e gli esempi reali: questo piccolo esempio, in un comune di
15.000 abitanti, è interessante per spiegare meglio il sistema di connes-
sioni e la difficoltà a stabilirlo.
A Porto Alegre, dopo un inizio con solo 3000 individui coinvolti su una
popolazione di 1.300.000 si è arrivati a 30.000: hanno decuplicato.
Questo a Porto Alegre. Bisogna vedere cosa succederà a San Piero a
Sieve. Il sindaco, donna, è determinato a continuare.
Che rapporto c’è secondo lei fra i deficit organizzativi delle libe-
raldemocrazia e la valutazione della società civile fatta da
Gramsci nei Quaderni del carcere? Nonostante le sue pecche
ed il ruolo necessariamente onnicomprensivo del partito, non è
proprio Gramsci a teorizzare una lenta conquista del potere in
Occidente attraverso la società civile?
Questo ci porta su un terreno molto complicato. Non c’è dubbio che
l’idea di una guerra di posizione nella società civile, un lento avanza-
mento attraverso un programma culturale e politico che permetta al
Principe Moderno di conquistare sempre più spazio nella società civile, è
qualcosa di molto avanzato.
Non per caso Togliatti ha utilizzato a modo suo questa idea dopo la
Seconda Guerra Mondiale. E’ una cosa che corrisponde benissimo al-
l’idea di una democrazia basata sui diritti civili, politici, ed in parte sociali
ed anche sulla democrazia rappresentativa.
Bisogna però dire, e questo cerco di dirlo chiaramente nel libro, che
questo ci porta dentro una controversia di non poco conto, cioè la defi-
nizione di società civile. Gramsci ha una definizione molto inclusiva e, se
così si può dire, spaziale della società civile, che include non l’economia,
ma certamente tutte le associazioni che stanno fra la famiglia, su cui
Gramsci non offre una riflessione, e lo Stato.
Allora anche la Chiesa cattolica si rivela un elemento portante della
società civile. Nella discussione più recente tra gli storici, e non oso dire
nulla sui filosofi, è emersa la proposta di Jurgen Kocka, dell’Università di
Berlino, che in un articolo recente definisce la società civile come un
“progetto illuminista”, un progetto che è cambiato da quando è stato
per la prima volta utilizzato dall’Illuminismo scozzese, da Ferguson, ed
altri.
Ovviamente i contenuti di questo progetto illuminista nel 1780 non sono
gli stessi del progetto di Micnik e degli altri polacchi e cecoslovacchi
negli anni Ottanta del Novecento, ma Kocka secondo me pone lo sguar-
do molto convincentemente sul fatto che non si può definire la società
civile senza un elemento normativo. E Gramsci non fa questo passo: la
parte normativa appartiene ad un solo soggetto, il Principe Moderno,
cioè il Partito Comunista, che assorbe e conquista tutto ciò che stà nella
società civile, mentre il progetto illuminista è un’altra cosa, non vede
questo ruolo di dominio del partito politico, anzi diffida abbastanza del
partito politico.
Leggendo la seconda parte del suo libro si ha l’impressione che
la società civile si trovi di fronte a grandi prospettive ma anche
ad enormi ostacoli: necessità di autodisciplina, carattere fluido
dell’associazionismo e necessità di un appoggio da parte della
politica istituzionale (addirittura lei arriva ad affermare a pg 60
che “non può esistere società civile senza il sostegno e l’inco-
raggiamento attivo dello stato democratico”). Com’è possibile
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129336
nel concreto attuare un cambiamento come quello che lei au-
spica all’interno della democrazia italiana?
Penso che siamo arrivati ad un nodo non indifferente. Sono ancor più
convinto di questo punto di quando l’ho scritto nel libro: sempre più
andando avanti sono convinto che la società civile, nel senso che ab-
biamo appena delineato, non ce la fa da sola.
Questo soprattutto per la natura stessa della società civile, perché i
movimenti della società civile vanno e vengono.
Sono personalmente reduce da una bella esperienza, quella del Labora-
torio per la Democrazia di Firenze, un’esperienza che è durata ben oltre
4 anni di intensa attività di pressione sui partiti sia a livello locale, sia,
come sappiamo, attraverso il Movimento dei Girotondi, a livello naziona-
le.
Una pressione sui partiti per cambiare il modo di gestire la sfera politica,
i modi di reclutamento, tutti quei valori della politica che per loro sono
fortemente indirizzati in un certo senso.
Questo era un forte movimento, ad un certo punto è riuscito a mobilita-
re un milione di cittadini a Piazza San Giovanni a Roma nel settembre
del 2002, ma di fronte ad una resistenza da muro di gomma da parte
dei partiti, il movimento, a parte un grande eco internazionale, è venuto
meno.
Questo movimento pur essendo bello e innovativo, come tutti i movi-
menti della società civile non aveva regole precise; era terreno di scontri
personali di non facile soluzione: nell’assenza di regole c’è anche il peri-
colo della creazione di leader carismatici, di mancanza di chiarezza sulle
regole del comportamento individuale in una collettività.
Quasi che ci voglia un “catechismo” della società civile, o almeno una
chiara condivisione sui modi di comportamento.
Ma allo stesso tempo cerchiamo che la società civile rimanga fluida,
spontanea, che non si inaridisca…
Per terminare questo punto cruciale: la società civile può essere bella,
innovativa, gioiosa, ma anche molto vulnerabile. Tocca alla sfera politica
allora, e qui torno a livello locale, proteggere questi spazi, incoraggiarli
nella loro autonomia, dare possibilità alle idee della società civile di
permeare il governo locale.
Per tornare a San Piero a Sieve il sindaco ha affermato di aver voluto
condividere il potere, ed è un’espressione molto felice.
Nel libro elenco tutta una serie di misure che il governo locale, provin-
ciale e regionale può adottare per aiutare una continuità di azione nella
società civile in modo che crescano, ed è questo il cuore di tutto, dei
cerchi sempre più grandi di cittadini attivi ed istruiti, perché questa è la
difesa della democrazia: se non c’è continuità, se c’è sperimentazione a
San Piero per un anno e poi si lascia cadere tutto, se non si creano
questi circoli attivi di cittadini istruiti e dissenzienti, per tornare a Mill,
non si va da nessuna parte per quanto riguarda la democrazia parteci-
pata.
Da soli i cittadini non ce la fanno: tornano al privato dopo un’esperienza
come il Laboratorio per la Democrazia: noi avevamo bisogno, se posso
dirlo, di essere un po’ festeggiati e messi in condizione di dare continui-
tà: quelle condizioni però non sono venute fuori.
Ed in un contesto più ampio, in relazione alla democrazia in
Europa, cosa si sta muovendo secondo lei?
Non c’è dubbio che le sperimentazioni sulla partecipazione, o sulla de-
mocrazia deliberativa, se vogliamo usare il termine scientificamente più
adoperato, si contano a centinaia.
Ci sono forme molto diverse: ci sono quelli come Luigi Bobbio che dan-
no la priorità alle giurie popolari, agli electronic town meeting, a queste
cose basate su un campione di cittadini che devono, informati di un
caso e dopo la deliberazione, raggiungere delle conclusioni che formino
la base di un consiglio al governo, a vari livelli.
In Francia esiste per le grandi opere un altro esempio della stessa cosa:
c’è tutta una struttura istituzionale, le débat public, per cui i cittadini
possono essere consultati. Io e Luigi Bobbio non la vediamo esatta-
mente nello stesso modo, ma si potrebbe dire che questo tipo di espe-
rienza, se non è dato un elemento di continuità, appartiene ad uno
spettro generale di consultazione dei cittadini più che ad una partecipa-
zione nel processo decisionale.
Nel modello si San Piero a Sieve si vede chiaramente che una parte dei
cittadini sono chiamati a decidere; nel modello della giuria popolare o
nel town meeting invece un campione di cittadini sono semplicemente
chiamati ad una consultazione, ma non c’è nulla che costringe i politici e
gli amministratori di adoperare le scelte espresse. C’è una bella differen-
za.
Sono però d’accordo con quelli che affermano che bisogna sperimentare
tutte queste forme per vedere cosa corrisponde a quale situazione:
perché non è vero che ci sia un modello che si applichi a tutte le situa-
zioni.
Cosa può fare in concreto la società civile per stimolare o per
costringere il potere politico, anche locale, a creare forme par-
tecipative?
Bisogna, come intellettuali, come cittadini attivi, informare il più possibi-
le gli amministratori locali sulle vere possibilità di queste cose. Avevo
detto in un’intervista all’Unità, con un vecchissimo slogan, di creare 1,
10, 100 San Piero a Sieve.
Mi sembra che molte persone non agiscono per ignoranza, per mancan-
za di cultura. Molti politici invece sono molto titubanti perché hanno
veramente paura di cedere una quota del loro potere. A volte queste
stesse persone teorizzano questa paura dicendo che loro sono stati
eletti per governare in un sistema rappresentativo e basta, che la storia
si chiude lì.
Credo però che la democrazia rappresentativa non sia in buona salute, e
moltissimi politologi di ogni estrazione sono d’accordo con quest’ affer-
mazione; il terreno per creare delle sperimentazioni integranti ed alter-
native è molto vasto.
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 37
Abbiamo l’esperienza del movimento del Nuovo Municipio che cerca di
informare gli operatori a livello locale di queste nuove esperienze. E’ un
momento molto interessante per queste cose, anche perché si vede che
la democrazia rappresentativa nella sua forma attuale non basta e che i
cittadini sono molto lontani dalle istituzioni, in Svezia come in Italia.
Giovanni Pancani
Neri PollastriE’ il dodici febbraio quando
incontro Neri Pollastri. Sia-
mo a Firenze, la città dove
vive ed esercita il mestiere
di consulente filosofico.
Riceve i suoi ‘consultanti’ –
è così che chiama coloro
che gli si rivolgono - in uno
studio privato, nella prima periferia cittadina. E’ disarmante come sia
impossibile un’interlocuzione sintetica tra filosofi; la mia lista di doman-
de ben circostanziate finisce repentinamente nel cestino e cominciamo a
parlare di filosofia e di come sia possibile applicarne le specifiche com-
petenze alla libera professione, senza scadere in un sottoprodotto della
psicologia clinica, senza trasformare il filosofo in un professionista del-
l’aiuto e senza, ultima questione ma non per questo minore, dar vita ad
una costellazione di rapporti morbosi, ripetendo modelli più o meno
odiosi quale, un esempio valga qui per tutti, la guida spirituale. Abbiamo
quindi discusso di psicologia, psicoterapia e psichiatria per capire l’uni-
verso concettuale che le differenzia dalla consulenza filosofica, dato che
studio privato, colloquio a due e parcella richiamano il formulario di
stratagemmi funzionali, studiati da ormai più di un secolo ed impiegati
in un solo tipo di rapporto, quello tra medico e paziente; ovvero rientra-
no non solo per l’immaginario collettivo, ma a pieno titolo, tra gli stru-
menti di cui si servono quelle pratiche terapeutiche per rendere mag-
giormente controllabile l’incontro.
Discutiamo poi di cosa può dare al mondo degli studi la ‘ pratica filosofi-
ca ’ e viceversa come gli studi classici vengano reinterpretati dalla con-
sulenza ( Pollastri è, per altro, un hegeliano).
Sono certa che i pensieri espressi da Pollastri nel corso dell’intervista
lasceranno in alcuni delle perplessità; altri si chiederanno soltanto se ci
fosse bisogno di questa nuova figura professionale, ovvero se il suo sia
un lavoro così diverso da altri già esistenti; ma non credo di sbagliare
dicendo che il suo tentativo di portare tra le persone gli approcci, il
modo di meditare sulle cose e la molteplicità di linguaggi di cui è stata,
ed è ancora, capace la filosofia, non sia che un’affermazione vitale del
suo amore per il pensiero.
Oggi, in Italia, la consulenza filosofica è ancora in cerca di un pieno
riconoscimento, nonostante susciti l’interesse di molti per le aspettative
economiche, in senso ampio, che implica: a partire dalla possibile aper-
tura del mercato del lavoro ai laureati in filosofia fino al possibile inve-
stimento di capitali privati per la formazione della nuova figura profes-
sionale. E’ vano tuttavia discutere di potenzialità economiche (inclusa
un’ormai insperata progettualità per la filosofia da parte del settore
pubblico), fintanto che non si sarà ascoltato con attenzione quello che la
consulenza ha da dire e quindi si giudicherà escludibile o meno dall’am-
bito della filosofia il suo operato. A tale riguardo, è forse giusto chiarire
che all’accademia la pratica filosofica non chiede il riconoscimento in
quanto professione, ma di essere conosciuta nella sua natura di vera e
propria corrente di pensiero, che ha una sua storia - quella della philo-
sophische praxis -, e una sua letteratura - che Neri Pollastri riconosce
essere purtroppo dispersa.
I dubbi e le resistenze sono d’altronde legittimi: trovo infatti che non ci
sia alcuna chiarezza o garanzia riguardo alla formazione dei consulenti e
che ci si affidi alla formazione culturale personale. Il ‘ lasciar fare ’ equi-
vale a non prendersi responsabilità civile dell’uso di un ruolo, quello del
filosofo, che da anni era rimasto piacevolmente innocuo. Inoltre, non
esistendo né un organo di controllo né una deontologia professionale
comunemente riconosciuta (tanto meno qualcosa come un albo profes-
sionale ), la pratica filosofica tende a disperdersi in troppe possibilità e a
realizzarsi per lo più in forme ibride. Ma, a maggior ragione, qualora si
ritenesse illegittimo l’esercizio di questa professione, si rivelerebbe ne-
cessario aprire un dibattito pubblico e conoscerne l’effettività.
Siamo in compagnia del Dottor Neri Pollastri, per parlare della
consulenza filosofica. Poiché le suggestioni che il nome di que-
sta pratica evoca sono disparate e gli interrogativi di ordine
molto diverso tra loro, muovendosi dal piano strettamente de-
scrittivo di una consulenza-tipo a quello di un possibile orizzon-
te interpretativo della filosofia, cercheremo di toccare molti
aspetti e di far emergere senza forzature le priorità concettuali
che il discorso stesso reclama. A partire, direi, dal rapporto tra
consulente filosofico e ‘consultante’. Di che tipo di relazione si
tratta?
La maggioranza dei consulenti filosofici parla di relazione d’amicizia. Ho
avuto recentemente occasione di sentire una bella frase di Giuseppe
Ferraro, docente universitario a Napoli, che ha scritto cose interessanti
sulle pratiche filosofiche, secondo cui la filosofia è l’unica disciplina che
contenga un sentimento nella sua traduzione.
Questo aspetto è storicamente condiviso da tutti i consulenti o
appartiene solo ad alcune scuole di pratica filosofica?
Diciamo che è un tema ripreso da tutti. Il primo a parlarne è il pioniere
delle pratiche filosofiche Matthew Lipman, che negli anni settanta dette
vita a quella che è oggi nota come philosophy for children. Lipman insi-
ste molto sul fare filosofia per i bambini, poiché in questo modo si crea
una comunità di ricerca; e si tratta di una comunità proprio perché,
grazie alla ricerca comune intorno all’oggetto, nascono anche dei legami
emotivi. Io ritengo che questo punto sia importante per capire la consu-
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129338
lenza filosofica, nel cui ambito la relazione non si fonda attraverso l’uso
di strumenti psicologici di ascolto, attenzione, accoglienza e instaurazio-
ne della relazione stessa, ma scaturisce dal lavorare assieme attorno ad
un oggetto comune.
Il consulente come gestisce la domanda e il bisogno di affida-
mento del consultante? Esiste una questione deontologica,
nonostante la professione non si avvalga di tecniche o proto-
colli d’intervento?
Qui bisognerebbe chiedersi prima se la consulenza filosofica si ‘faccia
carico ’ del consultante o meno. Io penso di no, che non lo faccia e non
lo debba fare. L’accoglienza nel nostro caso non sta nel sostenere l’altro,
ma nell’essere interessato a quel che dice; sta nel ‘ qui ed ora ’ di un: ‘
io sono interessato al tuo problema e adesso me ne occupo attivamente
assieme a te ’.
Dunque, nonostante l’aspetto emotivo emerso poco fa, il suo è
un approccio distaccato? Che ruolo gioca l’empatia?
Penso che nella consulenza filosofica l’empatia possa essere messa
sostanzialmente da parte. Certamente conta, ma non è l’oggetto. Nella
consulenza filosofica l’oggetto è l’intersoggettività, poiché è attraverso la
relazione intersoggettiva, incentrata sul logos, che costruiamo un di-
scorso comune. Il che non significa però un vero e proprio ‘distacco’: in
filosofia è essenziale la philia, quindi un ‘legame’ con l’altro c’è sempre.
Da quel che capisco, si tratta di una condivisione e di una pro-
duzione di senso; si tratta di lavorare insieme all’oggetto e for-
giarlo.
Sì, infatti il discorso è comune proprio perché siamo insieme e costruia-
mo in accordo. Ad esempio, se il consultante mi dice che quel pezzo del
discorso nella sua vita non ce lo può proprio portare, io non insisterò,
ma gli farò anche notare quello che vuole metterci e che viceversa non
può starci. Con le mie competenze formali posso dire che in una teoria
non ci possono stare contemporaneamente questo e quello e che, sic-
come un vuoto non possiamo lasciarlo, dobbiamo metterci qualcos’altro.
Andremo poi insieme a cercare cosa…
Si accusa la psicoterapia di creare un legame talvolta difficile
da sciogliere. Vale anche per la consulenza? Cosa intende per ‘
non prendersi carico ’?
Credo che il ‘ non prendersi carico ’ sia un elemento precipuo della con-
sulenza filosofica rispetto alla terapia. La consulenza filosofica è filoso-
fia, e la filosofia non è terapia, nonostante talune scuole del passato
l’abbiano sostenuto. In filosofia non ci si occupa di ‘sostenere emotiva-
mente ’ qualcuno, ma di comprendere la realtà, di ricercare nessi di
senso.
Siete tutti d’accordo? Può raccontarci del suo rapporto con
altre scuole di pensiero sulla pratica filosofica e della posizione
della consulenza filosofica nei loro confronti?
Potrei esemplificare riferendomi a Romano Màdera, docente a Milano -e
prima ancora a Venezia- che da anni si occupa di pratiche filosofiche in
maniera molto diversa dalla mia, perché è psicanalista junghiano, oltre
che filosofo. Màdera, per la pratica filosofica, fa riferimento alle scuole
ellenistiche, in particolare ad Epicuro. Nonostante il mio massimo rispet-
to per tali scuole, e nonostante anch’io possa talvolta riferirmi ad esse,
credo tuttavia che restino una goccia nel mare della filosofia e che non
si possa dire che siano il solo modello della pratica filosofica, quanto
piuttosto uno dei suoi molteplici fenomeni.
E quale è il suo rapporto con le tradizioni di pensiero? Come nel
caso delle scuole ellenistiche, si riserva di prenderne a prestito
qualcosa?
Certamente. Ma allo stesso modo che per l’ellenismo, posso criticare
tanta filosofia, ad esempio alcune sue espressioni del Novecento in cui
si era eccessivamente parzializzata o altre forme da essa assunte, in cui
risultava completamente accademica, senza più una corrispondenza tra
pensiero e realtà. Achembach, in maniera forbita, le chiama ‘scorie ac-
cademiche ’, o prodotti ad uso e consumo di chi li fa. Ma non per questo
sono da buttare, sono da rivitalizzare…
Cosa intende per ‘rivitalizzare’?
Intendo rimettere in contatto l’astrazione con la concretezza, il pensiero
con la vita, guardando la realtà con l’attenzione, lo spirito critico, la
capacità di comprensione sistematica che conosciamo dalla frequenta-
zione del pensiero filosofico. Le ‘dottrine’ definitive vanno contro lo spiri-
to della filosofia.
Per filosofia, quindi, intende un pensiero che pensa in libertà?
Intendo il processo di pensiero che va in gioco nella storia del pensiero
filosofico. Uno spirito critico che mette sempre in discussione i suoi
stessi capisaldi. Se si dice che nel giardino non si poteva mettere in
discussione la parola di Epicuro, allora ciò che accadeva nel giardino
non cade nell’ambito della filosofia, almeno per questo aspetto, che mi
sembra capitale.
Dato che siamo entrati in argomento, proviamo a dire cosa
significa per lei ‘filosofico’. Nell’ancor giovane ambito profes-
sionale in cui si muove, sembra costituire un problema termi-
nologico fondamentale.
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 39
Dobbiamo metterci d’accordo, lo so. Oggi di solito si simula un unanime
riconoscimento del significato dell’aggettivo ‘filosofico’, senza spiegarlo
nel dettaglio (cosa che spesso porterebbe a paradossi e contraddizioni),
salvo poi utilizzarlo come un’accetta per dirti: ‘questo non è filosofico ’.
Tale giudizio può essere legittimo solo se si sia specificato cos’è ‘filosofi-
co’ e, con ciò, dato spazio anche a chi lo specifichi in modo diverso.
Ribadisco: per me ‘filosofico’ è quanto viene elaborato attraverso un
processo di riflessione attenta e rigorosa, ma anche che conserva
un’apertura verso la sua stessa ridiscussione, potenzialmente al suo
superamento e abbandono.
Lei in quale tipo di pregiudizio o fraintendimento si è imbattu-
to, portando avanti la pratica ‘filosofica’?
‘Filosofico’ è stato spesso inteso come ‘ da qualche parte si deve citare
qualcuno ’ o ‘qualcosa che sta nella libreria e che è difficile da capire ’;
poiché ciò che faccio non risponde a nessuna delle due definizioni, allo-
ra ciò che faccio viene giudicato non ‘filosofico’.
I suoi consultanti cosa ne pensano?
Ho avuto più di un caso di consultanti ‘colti’ che, per esempio, hanno
posto il problema della scelta e della mancanza di libertà nella scelta, un
discorso non lontano dall’esser-gettato heideggeriano… I consultanti in
questione si costruivano delle splendide giustificazioni per non scegliere,
il che è sensato finché è utile per vivere bene, ma non quando divenga
lo strumento per vivere male. Il problema della scelta rimaneva lì,
drammatico, ed il lavorarci intorno sul piano esistenziale in termini di
chiarificazione filosofica consisteva proprio nel riportarsi al dato reale.
Inizialmente è stato sentito dai consultanti come un involgarimento, ma
solo per scoprire, la maggior parte delle volte, che il loro discorso non
conseguiva.
C’è un altro aspetto interessante del rapporto col consultante:
immagino che lei si arricchisca, ogni volta che fa consulenza.
Se ti avvicini a una persona pensando che le vicissitudini che ti narrerà
saranno banali, non ci sarà una relazione né filosofica, né proficua.
Dunque le capita anche di mettersi in questione, a partire da
un’esperienza di vita condivisa?
E’ un’occorrenza che serve a mettere a punto modelli. In consulenza si
sta costruendo un nuovo oggetto, ma per farlo non è possibile usare
modalità standardizzate, dato che ogni situazione è unica, perché unica
è ogni persona. Achembach lo mise in rilievo da subito come specificità
della consulenza filosofica rispetto alla terapia.
Su questo versante, in cosa si differenziano consulenza e tera-
pia psicologica?
Sempre Achembach sosteneva che la psicologia cerca di rendere i suoi
pazienti conformi alle proprie teorie, piuttosto che costruire teorie in
base alla realtà dei loro pazienti. Ma applicare un intero codice di leggi
ad una persona non può andar bene, essendo le persone molto com-
plesse, sfumate, diverse…il valore delle ‘ leggi di comportamento ’ può
al limite essere considerato un dato statistico, che è bene talvolta far
loro presente.
La psicoterapia è stata interpretata anche come una forma di
controllo sociale, con il compito di conformare le menti. La con-
sulenza filosofica lavora dichiaratamente in opposizione a que-
sto, quando sottolinea la specificità degli individui e di ogni
singolo piano esistenziale?
Si, alla sua nascita c’è stato questo e senz’altro anche adesso c’è una
certa rivendicazione di un modo di occuparsi di sé stessi diverso. Anche
se a me non piace parlare di ‘ sé stessi ’. Ad esempio, Rovatti, che è
foucaultiano, sottolinea proprio questo aspetto e parla molto della ‘ cura
di sé ’. Nella nostra cultura il ‘sé’ è un concetto che svolge indiscutibil-
mente un ruolo importante, per cui è praticamente impossibile che esso
non entri in un dialogo di consulenza; tuttavia, credo opportuno, sia a
livello di introduzione del discorso consulenziale sia a livello di epistemo-
logia della materia, non partire da qualcosa di così strutturato.
Per partire invece da cosa?
Dal logos, appunto. Prima c’è il discorso, poi chi, con la sua voce, lo
emette.
E Neri Pollastri in particolare come si rapporta alla psicotera-
pia?
Recentemente, sono stato ad un incontro cui partecipavano psicotera-
peuti; uno di loro aveva censito i libri apparsi sulla consulenza filosofica
e diceva che in tutti ci si confrontava con le psicoterapie e che questo
era segno di una parentela. Io gli ho risposto che il censimento era
corretto e che io stesso avevo dedicato nel mio libro ampio spazio al
confronto; ma che, proprio per questo, adesso avrei smesso. Era neces-
sario, perché tutti chiedono sempre che ci si pronunci su questo con-
fronto, ma ora basta, altrimenti si finisce col trascurare la definizione in
positivo della propria identità.
Rispondendo a pur lecite domande, si finisce per non asserire
mai, ed il discorso può portarci lontano…Il suo percorso qual è
stato?
Nel mio Il pensiero e la vita ho dato ampio spazio alla problematicità
della terapia. Introduco le tesi di un’opera che allora non era tradotta e
che oggi esce come Il nuovo conformismo, di Frank Furedi, sociologo
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ungherese che vive e lavora in Inghilterra. La sua tesi è che la stragran-
de maggioranza delle patologie psichiche siano in realtà normali pro-
blemi materiali che, irrisolti, fanno star male le persone. La loro soluzio-
ne, perciò, non sta nel curare le persone sofferenti, ma nel risolvere i
problemi materiali, cosa che spetta alla comunità, sia nella sua forma
sociale, sia in quella istituzionale e politica. Senza una socialità condivisa
l’individuo è isolato e costretto a rivolgersi ad ogni genere di specialista.
Esiste quindi un altro aspetto che la consulenza filosofica con-
sidera, quello sociale. Ma se accettiamo che questo è il tempo
di un disagio generalizzato, per prendere coscienza del quale e
reagire pochi hanno i mezzi; che c’è dunque la tendenza a cer-
care soluzioni personali e che queste attingono a ciò che il
mercato di 'specialisti dell’aiuto' offre; allora la consulenza
filosofica non viene forse riconosciuta come una tra le suddette
'professioni dell’aiuto', come un 'prodotto' del nostro tempo?
In parte soltanto. Io non credo che sia davvero così, che siamo solo
individui. Ad esempio, quando un uomo muore, qualcosa del suo ‘sen-
so’, di ciò che egli era ‘ per gli altri ’ nella relazione intersoggettiva, resta
e non si esaurisce con la morte. Sei morto come individuo, ma non
come ciò per cui non sei solo individuo. Noi siamo al tempo stesso 'indi-
vidui' e 'più che individui'. Infine, con buona pace di Furedi, secondo me
professionisti che si occupino specificamente di situazioni personali sono
necessari e lo saranno sempre. Una società ideale che assolva a tutti i
bisogni non è pensabile.
Su altre e più gravi corde si è svolto il discorso antipsichiatrico
che cercò di intervenire su pratiche tristemente note per la loro
inumanità. La consulenza filosofica ha tra i suoi stimoli il rico-
noscimento dell’errore e dell’aspetto violento di tali pratiche?
Il problema della psichiatria sta nelle sue definizioni. Per essa, 'patologi-
co' significa ' potenzialmente produttivo di pericolosità sociale '; in que-
sta prospettiva, il manicomio ai dissidenti è solo una conseguenza logi-
ca, non un abuso. Il dissidente è socialmente pericoloso, mettendo a
rischio la coesione sociale stessa. Ma ancora più critica è la definizione
del 'normaloide', che significa ' colui che mantiene la patologia sotto
soglia '. Per la psichiatria ogni persona è potenzialmente un pericolo
sociale - ed è vero, nella misura in cui tutti una volta sono andati oltre il
limite di velocità sui viali - e perciò malato psichico - cosa della quale
invece pare lecito dubitare. Ciò rende il clima assai greve ed è chiaro
che, come filosofi, considerati questi principii e tratte le dovute conse-
guenze logiche, non possiamo che prendere posizioni critiche. Ma l’av-
versione può sfociare tanto nella critica azzerante quanto in una critica
ancora filosofica, che guarda le cose con atteggiamento problematico, e
attento.
Tecnica e filosofia, un connubio che resta impossibile anche
nella pratica filosofica?
E’, in effetti, un altro caposaldo della differenza tra terapie e pratica
filosofica. E che coincide con la specificità della filosofia stessa. La filo-
sofia è, assieme al gioco e all’arte, qualcosa che si fa in modo gratuito,
senz’altro fine del piacere di farlo. La ragione è intrinseca all’azione. E
neppure indicare nella ' ricerca della verità ' il fine della filosofia ci ripor-
ta all’agire tecnico-strumentale, giacché sappiamo bene che la ricerca
della verità, più che un fine, è un orientamento, un ideale regolativo; e
che la ricerca non ha fine.
Quindi la consulenza filosofica non adotterà metodi strumentali
o tecnici, mantenendosi apertura, orizzonte?
Se non abbiamo fini non usiamo nemmeno strumenti, nell’accezione
tecnica del termine. Il che non significa che i filosofi procedano a caso.
Hanno a disposizione una grande pluralità di metodi e tecniche che,
nella storia della filosofia, sono state messe a punto, adottate e risultate
utili nella ricerca. In ogni caso, nessuno di questi 'strumenti' è indispen-
sabile, nessuno caratterizza in modo esclusivo la filosofia. Se ad esem-
pio la fenomenologia fosse strumento esclusivo, sarebbe anche indi-
spensabile, ed invece alcuni filosofi non la adottano.
Dunque la consulenza filosofica non ha nemmeno pretese di
scientificità, come la psicologia, proprio per il piano su cui si
svolge?
La consulenza filosofica non può essere una disciplina scientifica come
lo è la psicologia, né esserlo nel senso delle scienze naturali o delle
scienze umane, le quali fanno tutte riferimento alla modalità empirica.
In filosofia l’empiria non ha lo stesso ruolo di conferma che ha, ad
esempio, in astrofisica. E, proprio perché non funziona così, non si dota
di strumenti pratici, come di un cannocchiale, né può avere una tecno-
logia.
Ma la psicologia nasce come discorso sulla psiche, piuttosto
che come tecnologia o come logica di intervento…
Psicologia e psicoterapia vanno distinte. La psicologia studia l’uomo e
produce teorie su di esso. Si può discutere la pretesa di scientificità
della psicologia, ma questo è un problema epistemologico che non ha a
che vedere con la sua intenzione, che è conoscitiva. Quando invece da
questa scienza si traggono strumenti d’intervento, una tecnologia, allora
la si usa per intervenire causalmente nel ‘ sistema uomo ’ e modificarlo.
Questo è quel che fa la psicoterapia. Ora, la filosofia non lo può proprio
fare, perché la conoscenza che produce non è di tipo causale: la filoso-
fia si occupa di ragioni, non di cause. Quel che posso ‘produrre’ con la
filosofia è un cambiamento nel modo di pensare di una persona che ha
un pensiero, ad esempio, governato da un sillogismo errato, che lo
rende scorretto o deficiente di qualche passaggio; oppure che ha un
conflitto tra valori e neppure se ne accorge. E ciò vale per tutti noi.
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Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 41
Anche questo è filosofico: il verificare continuamente che il proprio
sistema di valori poggi davvero su un sapere intersoggettivo, piuttosto
che sul proprio sapere parziale.
Quando si affronta il problema epistemologico, come si pone il
consulente filosofico in quanto rappresentante di un pensiero e
di una vera e propria professione?
Credo che sulla cosiddetta epistemologia della consulenza filosofica ci
sia una confusione di fondo: come ho detto, questa attività non poggia
su una scienza specializzata, come accade per le professioni ‘tecniche’,
ma sulla filosofia; perciò, l’epistemologia della consulenza filosofica
coincide con l’epistemologia della filosofia stessa! Stabilito questo, io
credo che la consulenza filosofica abbia già oggi un’epistemologia tut-
t’altro che scadente, che si può trovare nella letteratura del settore. La
lacuna che ancora si sente riguarda non più e non tanto la consulenza,
ma la filosofia.
Dunque la consulenza filosofica, riguardo alla questione epi-
stemologica, propone un orizzonte interpretativo per la filoso-
fia tutta?
Fare pratica filosofica è fare filosofia ed è in questo settore che io credo
debba essere calata la filosofia. Se vogliamo dire che la pratica filosofica
deve avere una epistemologia diversa perchè è ' a due ', perchè accade
' in studio ' o perché ' c’è una domanda a cui dare risposta ', io non
posso che dire di no, e rispondere che la sua epistemologia è quella
stessa della filosofia; e che se ha un’epistemologia particolare, ce l’ha
nella misura in cui qualcosa di particolare e diverso tra loro hanno le
epistemologie delle diverse filosofie nella storia, dai Greci ad Husserl:
ogni prospettiva filosofica condivide con le altre qualcosa a livello epi-
stemologico, ma nessuna condivide tutto.
E per lei cosa differenzia la consulenza dalle altre filosofie?
L’orizzonte generale delle ' pratiche filosofiche ', che è più ampio della
sola consulenza, si differenzia dall’operare filosofico tradizionale per due
aspetti: si fa con non-filosofi e ha ad oggetto questioni particolari
E nessun consultante le ha posto problemi di ordine generale?
A me è successo una volta che mi fosse chiesto di affrontare un pro-
blema di ordine puramente etico. Ma normalmente non è così, le perso-
ne vengono perchè hanno un problema concreto - il che non significa
che si risolva in maniera pragmatica…
Vuol dire che non si suggeriscono comportamenti?
No, infatti. Può capitare anche di farlo, come in un qualsiasi dialogo
amichevole, ma si tratta di un aspetto residuale. Nel caso del classico
dilemma per una scelta apparentemente impossibile da compiere, per-
chè comporta in ogni caso gravi conseguenze per una o più persone, si
comincerà valutando il principio etico che determina tale situazione. Il
lavoro consiste nel capire a fondo la priorità dei propri principi, una
volta che questi siano stati enucleati e messi alla prova ' in vitro ', ovve-
ro in esperimenti mentali paradigmatici. La ricaduta pragmatica è solo la
conseguenza del piano teoretico aderente alla questione e cui ci siamo
attenuti. In filosofia, questo spesso non accade, perché si tende ad
elaborare teorie universali e a divulgare quelle.
Il che, mi permetto, non è molto diverso, perchè attraverso la
pubblicazione di quelle teorie si alimenta un logos…
Ed infatti questo è ciò in cui le due attività sono uguali. Il filosofo elabo-
ra teorie universali e il consulente filosofico elabora un logos a partire
da un punto preciso e ritornandoci. E’ elaborazione di un logos con
modalità che sono affini, ma non uguali. Il filosofo che lavora con i con-
sultanti non fa una teoria a priori, ma un lavoro ' a pendolo ', passando
continuamente dall’astratto al concreto.
Lei chiama così il suo modo di filosofare insieme ai consultanti,
un pensiero 'pendolare'?
Sì. Una collega di Pinerolo, Luisa Sesino, forse più poetica di me, l’ha
definito ' un movimento di sistole e diastole ', al cuore dell’agire pratico-
filosofico; come i due momenti dello stesso movimento, quello della
contrazione sul concreto e quello dell’espansione sull’astratto. E questo
movimento è continuo e i due momenti si arricchiscono l’uno l’altro. A
questo proposito, ho posizioni apparentemente diverse da quelle di un
collega di Roma che è stato mio 'discepolo'. Tuttavia, alla sua prima
consulenza, quando gli è stato chiesto qualcosa da leggere, proprio lui è
riuscito a trovare gli spunti giusti: non difficili, ma di contenuto.
Il caso di questo suo collega è quindi un esempio di come l’al-
lontanamento dalla problematizzazione generale non comporti
necessariamente l’abbandono del modo tradizionale di fare
filosofia?
Esatto. La pratica non disdegna la letteratura filosofica, fa solo meno
separazione tra i due aspetti, concreto e astratto. Credo che sia un
modo interessante di rivitalizzare la filosofia.
E’ così che la consulenza può ambire a portare la filosofia anche
nelle aziende? E’ questo ' passaggio rivitalizzante ' che le con-
sentirebbe di rientrare nel mondo?
Oggi si parla di ' morte della filosofia ': sempre meno persone si iscrivo-
no ai corsi di studi universitari in filosofia; i finanziamenti vanno cercati
presso i privati, ma le aziende non investono nella filosofia perché ' non
serve a niente ' - dove 'servire' è inteso in termini tecnico-strumentali.
In questo contesto, la filosofia ' non serve a niente ' nella misura in cui
H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129342
produce oggetti che servono soltanto ai filosofi. C’è, a proposito, una
frase di Achembach che cito spesso, secondo cui la filosofia di solito
dice come la realtà dovrebbe essere, in senso normativo, etico e di
ordine di significati; poi accade che la realtà non corrisponda all’astratta
normatività e che, di fronte a questo, la filosofia dica che la realtà è
sbagliata.
C’è anche chi dice che non esiste…
Sì, ma per lo più dice che è sbagliata e per retaggio di un concetto di
verità platonico, che a noi arriva rafforzato dal cristianesimo. Il concetto
è il vero e sta fuori dalla mutevole realtà, la quale di conseguenza è
falsa perché non corrisponde al vero. Inoltre, il fatto che il filosofo possa
riservarsi di attingere al vero cos’è, se non un modo per non fare i conti
con la complessità della realtà? Nella consulenza filosofica, se un con-
sultante argomenta con me fino alla fine che, viste le sue esigenze,
condizioni, dolore e princìpi, allora dovrebbe far questo, ma che ciono-
nostante non gli riesce, ciò non significa che lui o la sua realtà siano
sbagliati, ma che ci siamo persi un pezzo dell’interpretazione del reale.
Un pezzo che gli psicanalisti chiamerebbero inconscio e che noi, invece,
vogliamo e dobbiamo capire.
Anche l’inconscio è un’invenzione per non riconoscere la com-
plessità della realtà?
L’inconscio - nel senso della vulgata, perché poi di concetti di inconscio
ce ne sono molti e assai diversi tra loro - è qualcosa che sta lì, non si sa
che cosa sia ma si sa che agisce causalmente. E’ l’idea platonica che
dalla volta celeste è scesa nelle fogne.
Tornando al suo modo di lavorare nella consulenza, mi sembra
possa ricordare l’ermeneutica filosofica, un lavoro interpretati-
vo continuo e pulsante di chiarificazione…
E’ un altro modo di dare un significato filosofico alla consulenza. Credo
che il mio sia un lavoro ermeneutico nella misura in cui è la reinterpre-
tazione di una narrazione – ho scritto anche un articolo a proposito. Il
consultante viene da te e ti racconta una storia. Possiamo dire che quel-
la è la storia che sta scrivendo, non sulla carta ma nella realtà: è la sua
vita. Il nostro lavoro consisterà allora nel ripensare insieme quei passi,
ricollocarne il senso, fare una serie di valutazioni anche solo ipotetiche
su cosa accadrà dopo e sulla possibilità di conferire un senso diverso
alla storia che c’è stata fino ad oggi. Questo è un lavoro puramente
ermeneutico.
Con un linguaggio più nelle mie corde, io parlo di muoversi momento
per momento, valutare passo per passo le singole parole e le singole
vicende.
E come chiama questo ' muoversi passo per passo '?
Achembach lo chiama Lebenskönnerschaft, ' capacità di saper vivere '.
Significa andare avanti con un bagaglio di strumenti, comportamenti e
principi, sapendo che prima di metterne in atto uno, devi ogni volta
valutare se sia il caso o meno. La capacità di saper vivere consiste nel
buttare via i tuoi principi ogni volta che non sono più adeguati.
Una volta dati al consultante i mezzi per superare la propria
empasse, come affronta la questione del distacco?
Può capitare che il consultante abbia timore di perdere questa nuova
prospettiva e che chieda quindi di continuare ad 'esercitare' il pensiero.
E’ per venire incontro a questo genere di esigenza che Achembach ha
organizzato dei seminari di gruppo.
Secondo lei questo significa qualcosa? Che quel che cercano i
consultanti, al di là della consulenza, è anche un osservatorio
privilegiato sul mondo?
I non-filosofi vengono da noi e pagano: è una forma palese, ma indiret-
ta, di educazione degli adulti. Ed è interessante anche per il filosofo che
presiede e partecipa, perché le persone ti costringono a rielaborare le
cose in maniera diversa; l’obiezione 'volgare' è proprio quella a cui devi
essere in grado di dare una risposta coerente e persuasiva. Perché se
non sai fare questo, allora non sei competente.
La consulenza filosofica dunque è anche prendersi il tempo
necessario allo svolgimento di un tema, alla comprensione di
un dubbio, alla possibile risoluzione di un interrogativo? E’ ri-
conquistare un tempo 'inutile'?
Le rispondo con un esempio. Mi è capitato di ascoltare una trasmissione
radiofonica che poneva la seguente questione: perché in Italia si legge
poco? Era stato chiamato ad intervenire uno studioso, che non ha potu-
to spiegare niente, visto che il conduttore del programma lo interrom-
peva di continuo, anticipando le conclusioni – per due volte, oltretutto,
sbagliandole - perché doveva passare la pubblicità. Un attento osserva-
tore esterno avrebbe concluso che il motivo per cui in Italia non si legge
è che non ce ne prendiamo il tempo. Tuttavia questa, che per me è
un’autoevidenza, lo diventa per altri solo quando imparano a guardare
le cose da un punto di vista diverso. Ed è questo, credo, ciò in cui la
filosofia si è specializzata e che ha da offrire: punti di vista diversi.
Laura Beritelli
H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 43
Recensioni
“Libertà e neurobiologia. Rifles-sioni sul libero arbitrio, il lin-guaggio e il potere politico”
John Searle (Mondadori, Milano 2005).
“La persistenza del problema del libero arbi-
trio, in filosofia, mi sembra costituisca una
sorta di scandalo”1. Con queste parole John
Searle apre il suo saggio Libertà e neurobio-
logia. Riflessioni sul libero arbitrio, il lin-
guaggio e il potere politico. Lo scandalo di
cui parla Searle è costituito dalla difficoltà di
conciliare la realtà naturale ed oggettiva con una mente soggettiva e
individuale:
Da un lato abbiamo una credenza o un insieme di credenze alle quali riteniamo di non poter rinunciare, dall’altro abbia-mo una credenza o un insieme di credenze che entrano in con-traddizione con le precedenti, pur avendo tutta l’aria di essere ugualmente cogenti. […] Crediamo infatti che il corpo sia interamente composto da particelle materiali che si muovono entro campi di forza, ma crediamo anche che esista nel mondo un fenomeno immateriale: la coscienza. Per noi è una difficol-tà, poiché non sembriamo in grado di associare il materiale e l’immateriale in una rappresentazione coerente dell’ univer-so2.
Costitutiva della coscienza sembra dunque essere l’autonomia dai feno-
meni naturali e dalle ferree leggi della natura che li regolano secondo
nessi imprescindibili di causa-effetto.
Per Searle è estremamente difficoltoso rinunciare all’idea secondo la
quale l’uomo dispone di un libero arbitrio, alla convinzione che ad un
agente che compie una determinata scelta sia data la possibilità di
compiere azioni diverse da quella fatta. Dall’altra parte però “tutti i no-
stri stati mentali sono causati da processi neurobiologici che si produco-
no nel cervello”3, cioè non possono che essere il prodotto di attività
cerebrali regolate da leggi fisiche. Siamo dunque di fronte ad un conflit-
to tra l’esperienza dell’autonomia di scelta e il determinismo dei feno-
meni fisici. È dunque questo lo scandalo di cui parla Searle: la difficoltà
di conciliare il libero arbitrio con la visione scientifica del mondo.
Ora, secondo Searle, “la coscienza è una caratteristica biologica superio-
re del cervello”4, una sua proprietà intrinseca. “Se il libero arbitrio è una
caratteristica del mondo e non semplicemente un’illusione, allora esso
deve avere una realtà neurobiologica: alcune caratteristiche del cervello
devono essere all’origine del libero arbitrio”5; e
aggiunge: “al livello del sistema abbiamo la
coscienza, l’intenzionalità, le decisioni e le in-
tenzioni. Al microlivello abbiamo i neuroni, le
sinapsi e i neurotrasmettitori. Il comportamen-
to dei microelementi che compongono il siste-
ma determina le caratteristiche del sistema”6.
Per spiegare meglio questo concetto, Searle ricorre all’esempio di una
ruota che scende da una collina. La ruota è costituita solo ed esclusiva-
mente di molecole, unite fra di loro da forze fisiche. La solidità condizio-
na il comportamento delle molecole, ma quando si sostiene che questa
interviene causalmente nel comportamento delle molecole che compon-
gono la ruota, non si intende affermare che è qualcosa che si aggiunge
alle molecole, “ma che essa è piuttosto una condizione nella quale le
molecole si trovano”7. Questa analogia, secondo Searle, può essere
applicata alla relazione che unisce la coscienza al cervello: “allo stesso
modo in cui il comportamento delle molecole è causalmente costitutivo
della solidità, il comportamento dei neuroni è causalmente costitutivo
della coscienza. […] La coscienza è una caratteristica del cervello allo
stesso titolo in cui la solidità è una caratteristica della ruota”8.
Searle però non esita a constatare che l’analogia appena proposta non è
esente da difficoltà. In primo luogo, perché il comportamento della
ruota è assolutamente determinato, mentre se si presuppone il libero
arbitrio, si deve assumere che i processi mentali non siano totalmente
deterministici. In secondo luogo, perché, mentre la solidità della ruota è
ontologicamente riducibile al comportamento delle molecole, “la co-
scienza, contrariamente alla solidità, non è ontologicamente riducibile a
microstrutture fisiche”9. Questo non perché la coscienza sia “qualcosa
che interviene sopra e al di sopra del comportamento neuronale”10 ma
perché possiede un’ontologia soggettiva.
Emergono qui due punti importanti dell’argomentazione di Searle. Il
primo riguarda l’ipotesi che “gli aspetti del cervello relativi all’assunzione
di una decisione volontaria non siano deterministici”11. Searle osserva
che le motivazioni che portano a prendere una determinata decisione
non sono causalmente sufficienti per imporre quella particolare scelta e,
allo stesso modo, che la decisione presa non è causalmente sufficiente
per costringere ad una certa azione:
nelle situazioni tipiche della deliberazione e dell’azione c’è uno scarto o una serie di scarti, fra le cause che intervengono nelle diverse tappe della deliberazione, della decisione, del-l’azione, e in occasione delle tappe successive. […] Ad ogni tappa facciamo esperienza di stati coscienti che non ci sem-brano sufficienti per imporre il successivo stato cosciente12.
N O T I Z I E D I F I L O S O F I A E V E N T I C U L T U R A L I L A B O R A T O R I O D I I D E E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-1293 44
Searle ritorna più volte su questo punto e infatti più avanti nel saggio
precisa ancora:
Tutte le caratteristiche del sé cosciente, in qualunque momen-to, sono interamente determinate dallo stato, in questo istante, dei microelementi, dei neuroni, ecc. Le caratteristiche sistemi-che sono interamente fissate dai microelementi, perché da un punto di vista causale non c’è nulla se non dei microelementi. Lo stato dei neuroni determina lo stato della coscienza. Tutta-via, ogni determinato stato dei neuroni/della coscienza non è causalmente sufficiente per provocare lo stato successivo. […] In ogni istante, lo stato totale della coscienza è fissato dal comportamento dei neuroni, ma da un istante all’altro, lo stato totale del sistema, non è causalmente sufficiente a de-terminare lo stato successivo. Se davvero esiste, il libero arbi-trio è un fenomeno nel tempo13.
Searle lega dunque la possibilità di intervento di un agente libero allo
spazio temporale che separa i vari stati del cervello che conducono ad
una determinata decisione. Ogni stato infatti è causalmente insufficiente
per dare luogo alla fase successiva.
L’altro aspetto importante è che solo postulando un sé relativamente
autonomo dai fenomeni fisici e deterministici è possibile parlare di liber-
tà di scelta e di decisione, quindi di libero arbitrio: “per spiegare il no-
stro comportamento apparentemente libero dobbiamo postulare una
nozione non riducibile del sé”14. Un sé cosciente è per Searle il presup-
posto fondamentale per l’esercizio della libertà, ma è vero anche che
ogni stato cosciente ha una precisa corrispondenza con ciò che avviene
a livello cerebrale. Per questo Searle afferma che “il cervello causa e
sostiene l’esistenza di un sé cosciente capace di prendere decisioni ra-
zionali e di tradurle in azioni”15.
Chiara Erbosi
NOTE
1. Searle, J. Libertà e neurobiologia. Riflessioni sul libero arbitrio, il linguaggio e il potere politico, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 32. Ivi, p. 43. Ivi, p. 74. Ivi, p. 85. Ivi, p. 326. Ivi, p. 337. Ivi, p. 198. Ivi, p. 209. Ivi, p. 2010. Ivi, p. 2011. Ivi, p. 4012. Ivi, p. 10-1113. Ivi, p. 40-4114. Ivi, p. 3115. Ivi, p. 49
“Alcune questioni di filosofia morale” Hannah Arendt (Einaudi, Torino 2006).
Nel 2006 l’editore Einaudi ha deciso di dare forma autonoma ad un
saggio di Hannah Arendt intitolato Alcune
questioni di filosofia morale, frutto di rifles-
sioni che Arendt espose in una serie di lezio-
ni tenute tra il 1965 ed il 1966 in due uni-
versità statunitensi: la New School for Social
Research di New York e la Chicago Univer-
sity. In questo periodo erano ancora vive le
polemiche suscitate da un altro libro della
Arendt, La banalità del male. Eichmann a
Gerusalemme (1963), che aveva contrariato
molti ebrei e non solo, per alcune tesi ivi
sostenute, come quella secondo cui il male,
anche se si concretizza in un evento tragico come la Shoah, può co-
munque avere un aspetto normale, ordinario, banale appunto.
In Alcune questioni di filosofia morale Arendt sembra voler sviluppare il
discorso avviato con La banalità del male, al fine di approfondire i pro-
blemi etici che la dittatura hitleriana ha sollevato. La società nazista ha
rappresentato a suo parere l’esempio di una vera e propria rivoluzione
morale: Hitler ed i suoi seguaci sono riusciti a sovvertire i valori, a cam-
biare improvvisamente i mores, gli usi e costumi, proprio come si pos-
sono mutare «da un giorno all’altro le nostre abitudini a tavola». Invece
secondo lei non è stato così nell’Unione Sovietica in cui i crimini stalinia-
ni sono rimasti giudicabili con i parametri della tradizione: i misfatti sono
stati nascosti oppure giustificati in vista di una buona causa.
Hannah Arendt sostiene che i casi rilevanti a livello filosofico sono rap-
presentati da quelle persone comuni che hanno compiuto azioni malva-
gie, solo perché hanno obbedito ad ordini esterni ed anche alla loro
coscienza che aveva cambiato però standard morali. Questi casi pongo-
no dei problemi: come giudicare questi individui? Cosa avrebbero dovu-
to fare? E cosa faremmo noi qualora ci trovassimo nelle loro condizioni?
Davanti a questi interrogativi Arendt mette a confronto le analisi e le
possibili soluzioni proposte da Socrate, secondo cui «è meglio patire il
male che infliggerlo», e Nietzsche, passando per l’insegnamento di Gesù
e Kant con il suo imperativo categorico. Da parte sua l’autrice afferma
che la morale riguarda l’individuo nella sua singolarità; in altre parole,
una persona non può fare certe cose perché facendole sa che non po-
trebbe vivere con se stessa: in questo essere in pace con se stessi con-
sisterebbe la felicità. Nonostante ciò Arendt osserva che è davanti agli
occhi di tutti il fatto che l’esperienza quotidiana ci offra e ci offrirà sem-
pre persone da evitare, individui che preferiscono fare il male ed avere
esempi morali negativi.
Delle dense pagine di Alcune questioni di filosofia morale, è importante
mettere in risalto due considerazioni che l’autrice fa, sempre con uno
H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 45
stile dialogico ed efficace. La prima sottolinea l’importanza del ricordo
nella condotta morale; ricordare significa mettere radici, che danno
stabilità agli uomini e impediscono loro di compiere azioni negative
senza nessun freno, di macchiarsi di orrori indicibili: «il peggior male
non è il male radicale, ma un male senza radici». L’altra considerazione
interessante è il pericolo dell’indifferenza sul piano politico e morale: la
non-volontà di scegliere i propri esempi etici e la propria compagnia
nasconde «l’orrore e la banalità del male». Due considerazioni acute e
valide per ogni tempo.
Stefano Liccioli
“Dal fascismo alla democrazia. I regimi, le ideologie, le figure e le culture politiche” Norberto Bobbio (a cura di Michelangelo Bovero, Baldini Castoldi editore, Milano 1997).
Il volume raccoglie dodici brevi saggi che Bobbio scrisse in un arco tem-
porale che abbraccia oltre trent’anni,
essendo il primo degli scritti del 1960,
l’ultimo del 1992. Nonostante la sepa-
razione cronologica dei diversi contri-
buti – già pubblicati precedentemente
in varie riviste o in opere collettanee –
l’intreccio storico e teorico che Bobbio
offre al lettore rende il volume omoge-
neo ed ordinato, rispondendo esclusi-
vamente alla struttura del problema
affrontato: quello, appunto, del rappor-
to tra fascismo e democrazia.
Questo rapporto viene ricostruito attraverso i saggi seguendo un doppio
ordine diacronico, corrispondente alle due parti di cui si compone l’ope-
ra.
Il volume si apre col saggio “Il regime fascista”, dove l’autore ricostrui-
sce la genesi e l’instaurazione del fascismo; i successivi cinque saggi –
“L’ideologia del fascismo”, “Fascismo ed antifascismo”, “La caduta del
fascismo”, “La resistenza: una guerra civile?” , ed “Origine e caratteri
della costituzione” – concludono la prima parte del volume, in cui viene
più direttamente ed approfonditamente affrontato il rapporto storico e
teorico tra fascismo e democrazia.
Infatti in questa prima parte il fascismo è considerato da Bobbio sia
come fatto - da cui la possibile lettura del volume quasi fosse un testo
storico - sia come problema - da cui l’altrettanto valida, e forse ancor
più suggestiva possibile lettura del libro come un testo “analitico”, ri-
guardante le origini ideali ed i caratteri ideologici delle diverse anime del
fascismo stesso. La seconda parte del volume, comprendente i succes-
sivi sei saggi, è invece incentrata sulle singole personalità intellettual-
mente più rilevanti dell’arco storico considerato. I primi due saggi sono
dedicati a Gentile e Croce, ovvero al massimo filosofo del fascismo ed al
suo principale antagonista.
Nel primo dei due saggi Bobbio, richiamandosi ad un suo scritto del
1955, “Politica vecchia e cultura nuova”, espone e precisa il suo giudizio,
complessivamente negativo, su Gentile e l’attualismo, distinguendo però
l’uno dall’altro, come già fece a suo tempo Gobetti.
Di Croce, Bobbio ricorda invece i tratti che per la formazione morale e
civile della sua generazione furono più importanti: Croce come “mae-
stro di libertà negli anni della dittatura, l’autore delle due storie d’Italia e
d’Europa e della Storia come pensiero e azione” (pag 217)
Il terzo saggio, il più ampio e per certi aspetti il più complesso del volu-
me, è dedicato a Luigi Einaudi: il pensiero politico dell’economista e
uomo di stato è esplorato come portatore di una visione liberale profon-
damente diversa sia da quella di Croce, che a maggior ragione, da quel-
la di Gentile.
Gli ultimi tre saggi sono dedicati rispettivamente al pensiero politico –
giuridico del giovane Aldo Moro, al contributo dato da Togliatti alla Co-
stituente, ed infine alla figura di Piero Calamandrei. Di Aldo Moro sono
analizzati i corsi universitari del 1943-45, in cui il giovanissimo docente
di filosofia del diritto – allora appena ventottenne – manifesta già chia-
ramente alcuni tratti della cultura politica dei cattolici democratici: in
particolare Bobbio pone in rilievo l’importanza attribuita da Moro alla
dignità della persona umana.
Palmiro Togliatti è invece visto nel suo apporto alla creazione della Co-
stituzione attraverso alcuni discorsi tenuti di fronte all’Assemblea nel
1947. In questi discorsi, fra le altre cose, è pienamente riconosciuta
quella convergenza di visione e di idee tra socialismo e liberaldemocra-
zia di ispirazione cattolica sui temi della solidarietà e dell’estensione dei
diritti civili.
Il pensiero giuridico-politico di Piero Calamandrei - un nesso indissolubi-
le secondo Bobbio - è invece tratteggiato sia in relazione alle “rivoluzio-
narie” promesse contenute nella Costituzione, sia come animatore e
mente del socialismo liberale, nelle differenze ed affinità con Aldo Capi-
tini, Guido Calogero, Aldo Garosci e Carlo Rosselli.
Giovanni Pancani
H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129346
“Il pensiero e la vita ” Neri Pollastri (Apogeo, Milano 2005).
Può la filosofia assumere la forma della
‘pratica filosofica’ ?
La sua denominazione, letteralmente ‘amo-
re per il sapere’, sembra distanziarla di
principio da ogni contatto con la vita ‘prati-
ca’. Attraverso il pensiero filosofico non
possiamo agire direttamente sul mondo o
sull’uomo per indurvi modificazioni che si
rivelino utili in vista del raggiungimento di
un determinato fine. Soprattutto, mediante
esso non possiamo risolvere problemi o
fornire soluzioni pratiche. La filosofia è semmai una forma di sapere
teorico-speculativo che, lungi dall’approntare risposte, si caratterizza
come indagine continua, incessante problematizzazione della realtà che
aggiunge domande a domande.
Per Neri Pollastri, e in linea di principio per tutti coloro che praticano la
‘consulenza filosofica’, ciò che non aiuta in alcun modo a padroneggiare
il mondo esterno può tuttavia rappresentare un percorso in grado di
fare luce su incoerenze, contraddizioni, nodi irrisolti, che sono alla base
dei disagi esistenziali covati dall’uomo contemporaneo, troppo sovente
catalogati come patologie.
Chi manifesta un disagio esistenziale viene immediatamente considerato
“malato”, e quindi trattato di conseguenza, ovvero sottoposto ad una
serie di pratiche terapeutiche finalizzate a ricondurlo a ciò che viene
catalogato come ‘normalità’.
Di contro alla patologizzazione eccessiva di tutto ciò che è disagio, Neri
Pollastri ci presenta la possibilità di avviare un dialogo filosofico tra‘con-
sulente’ e‘consultante’: un dialogo che proprio grazie all’assenza di me-
todologie scientifiche definite e finalisticamente orientate, può contribui-
re ad operare una chiarificazione nel ‘sistema di valori’ del consultante.
Neri Pollastri può essere considerato uno dei primi filosofi che hanno
aperto in Italia uno studio di consulenza filosofica: socio fondatore e
membro del consiglio direttivo di Phronesis, Associazione Italiana per la
Consulenza Filosofica, dal 2003 offre un servizio gratuito di consulenza
presso il quartiere 4 di Firenze, e dal 2005 insegna ‘Teoria e Prassi della
consulenza filosofica’ presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Il suo libro Il pensiero e la vita (Apogeo, Milano 2005) ripercorre la
storia della consulenza filosofica e rappresenta uno strumento indispen-
sabile a chiunque intenda iniziare a muoversi nel vasto e variegato pa-
norama di una disciplina tanto interessante quanto ancora scarsamente
nota nel nostro paese, uno strumento arricchito in molte delle sue parti
dal contributo personale di chi pratica da tempo, e con serietà, la consu-
lenza filosofica.
Matteo Leoni
“Dostoevskij e la filosofia ” Sergio Givone (Laterza, Roma-Bari 2006).
A ventidue anni dalla prima edizione
(1984), Laterza ripropone al pubblico Do-
stoevskij e la filosofia di Sergio Givone.
Un testo sempre attuale, perché attuali
sono gli interrogativi suscitati da Do-
stoevskij con i suoi romanzi: l’autore russo
ci mette di fronte alle grandi questioni ri-
guardanti ‘le cose ultime’, il senso della vita,
la libertà, e così facendo irrompe letteral-
mente nell’ambito della filosofia, benchè, ci
dice Givone, resti fondamentalmente estra-
neo ad essa.
Givone afferma sin dall’introduzione che nell’opera di Dostoevskij non
v’è traccia di una formazione filosofica, così come è assente ogni con-
fronto diretto con una qualsivoglia scuola di pensiero.
Questo tuttavia non basta ad impedire che i suoi romanzi sprigionino
una “potenza critica che […] chiama direttamente in causa la filosofia. E
la mette in questione: scuotendola nel suo stesso orizzonte, spingendola
al punto di rottura.” (Givone).
Dostoevskij resta sempre uno scrittore, non un filosofo; non è assolu-
tamente possibile estrapolare dalla lettura dei suoi romanzi un sistema
coerente di pensiero, poiché esso, afferma Givone, non c’è. Allo stesso
modo si opererebbe un’indebita forzatura cercando di trasporre in un
linguaggio filosofico la sua opera; ciononostante attraverso la lettura di
Dostoevskij siamo pungolati, stimolati a porci un genere di questioni che
sono poi quelle proprie della filosofia: domande su ciò che ha senso e
ciò che non ha senso, e sul bene, il male, la libertà.
Il saggio di Sergio Givone rappresenta un importante tramite ed un
prezioso strumento per accostarsi in maniera consapevole ad un autore
tanto famoso quanto complesso.
Matteo Leoni
“Genetic Information as In-structional Content” Ulrich E. Stegmann (Philosophy of Science, 2005, pp 425-443).
Quando una metafora si impone come visione
scientifica dominante, criticarla senza uscire dai
suoi schemi di ragionamento è il rischio più grande
a cui i filosofi della scienza possano andare incon-
tro. L’idea di una ‘informazione genetica’ è stata
importante per lo sviluppo della biologia genetica e
dello sviluppo, non tanto per le pratiche investigati-
H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 47
ve e sperimentali, quanto per la loro divulgazione. Stando a questa
teoria, il DNA conterrebbe ‘informazioni’ che, interpretate dalle strutture
proteiche, permettono lo sviluppo dell’organismo e la definizione dei
tratti somatici. Recenti sviluppi della disciplina hanno tuttavia mostrato
che i geni ricoprono, in questi processi, un ruolo prioritario ma parziale.
In questo articolo, Stegmann raccoglie due dei tentativi compiuti per
salvare il concetto di informazione in biologia ed adeguarlo in rapporto a
questi cambiamenti.
Da una parte, troviamo il tentativo di Griffiths di estendere la sua appli-
cabilità utilizzando la nozione causale dell’informazione, un concetto
sottratto alla teoria della comunicazione, per la quale qualunque sistema
è in grado di trasmettere informazioni ad un altro sistema. In quest’otti-
ca anche l’ambiente esterno potrebbe fornire informazioni per lo svilup-
po dell’organismo, così come il DNA. Sul versante opposto, Stegmann
stesso riprende le idee di Crick (1958), alle quali collega la propria pro-
posta. Afferma che, sebbene risulti complesso e alle volte controverso
parlare di informazione in processi articolati come lo sviluppo di un or-
ganismo, è possibile individuare sistemi semplici e circoscritti che mo-
strano proprietà semantiche, in particolare “il DNA contiene informazioni
relative solo ai suoi effetti più immediati”. Analizza dunque i processi di
trascrizione e di duplicazione e mostra come questi rispondano alle tre
caratteristiche fondamentali che un contenuto semantico deve mostra-
re: avere un contenuto intenzionale, rivolto verso un’altra entità (about-
ness), contemplare la possibilità di un errore nel risultato ottenuto (er-
ror) e avere una struttura in grado di conservare tutte le informazioni
(store). Conclude l’articolo affermando che “se si accetta che in un pro-
cesso come quello di replicazione […] le tipologie e l’ordine delle inter-
azioni chimiche determinino le tipologie e l’ordine lineare delle compo-
nenti prodotte”, laddove tali interazioni sono specificate nel DNA, dob-
biamo accettare che esse manifestino un contenuto semantico.
In realtà non è così facile accettare questa condizione. Nei processi
presi in considerazione il DNA è un’entità che non agisce: sono gli enzi-
mi, i complessi proteici, il contesto cellulare e quello intercellulare a
determinare come e quando il DNA deve essere trascritto o duplicato;
ne consegue che la scelta di prossimità dei processi effettuata da Steg-
mann è, in quest’ottica, del tutto arbitraria e poco indicativa. Per questi
motivi, non si può parlare di contenuto intenzionale nel DNA. Poco chia-
ro è anche lo scopo di questa proposta. Il pregio principale della ‘gene-
tic information’ è quello di fornire un criterio di spiegazione, seppure
carente, valido su tutti i livelli di analisi, dalla sintesi di una proteina allo
sviluppo dell’organismo nella sua interezza. Non ha senso interpretare
semanticamente quei processi meglio ricostruibili come interazioni cau-
sali di ordine chimico-meccanico, se poi l’autore afferma che, ‘allonta-
nandoci’ dal DNA, questa analisi diventa “più problematica”.
Concludendo, la metafora dell’informazione nella biologia è poco effica-
ce, anche quando il ruolo del DNA non viene decentrato. La maggior
parte dei processi di eredità epigenetica, come il Chromatin Marking
System (Jablonka, Lamb, 1995), si sviluppano proprio al livello di descri-
zione individuato da Stegmann; questi processi non rispettano le pro-
prietà semantiche di intenzionalità e di conservazione delle informazioni,
in quanto cause ed effetti sono solo parzialmente determinabili e non
circoscrivibili, ma sono comunque il prodotto dei processi di trascrizione
e di replicazione. Come si reinseriscono questi processi nella teoria di
Stegmann? E se si possono trattare allo stesso modo, come possiamo
parlare di informazione per il processo di trascrizione e per quello evolu-
tivo, senza riuscire a fare altrettanto per tutti i livelli di analisi biologica
intermedi, come lo sviluppo?
Daniele Romano
BIBLIOGRAFIA
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H U M A N A . M E N T E
Humana.Mente Anno I Vol 1 - ISSN 1972-129348