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Hanan al-Shaykh La sposa ribelle Traduzione dall’arabo di Ashraf Hassan e Serena Tolino

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Hanan al-Shaykh

La sposa ribelleTraduzione dall’arabo di

Ashraf Hassan e Serena Tolino

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Copyright © 2009 by Hanan al-Shaykh Originally published in Lebanon by Dar Al Adab, Beirut, as Hikayati sharhun yatul in 2005.Published in the UK in a slightly amended form by Bloomsbury as The Locust and the Bird in 2009.

I Edizione Piemme Bestseller, gennaio 2011

© 2010 - EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it

Anno 2011-2012-2013 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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Mentre un re passeggiava nel suo giardino, una locusta s’infilò nell’ampia manica del suo abito. Immediatamente un passero

la seguì. Il re allora cucì la manica, si accomodò sul suo trono e chiese al popolo: «Cosa c’è dentro la mia manica?».

Nessuno seppe rispondere, quand’ecco che si fece avanti un uomo di nome Passero, pazzo d’amore per una donna chiamata Locusta.

Non riusciva a pensare ad altro che alla sua amata. Esordì dicendo: «Storie tragiche, lunghe da raccontare...

Senza la locusta, il passero non sarebbe rimasto intrappolato».

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HANAN

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Prologo

Sono a bordo di una delle tre limousine nere che sfrecciano a tutta velocità per le strade di New York come farebbe un barracuda sotto l’effetto di sostanze dopanti.

Guardo le luci della città e ne sento i rumori. Rose bianche decorano l’acconciatura di mia figlia e una co-lor avorio è appuntata sulla giacca del suo fidanzato. È la prima volta che vedo i suoi capelli in ordine. Oggi è il giorno del loro matrimonio.

Non avrei mai immaginato che i miei figli si sarebbero sposati tra centinaia d’invitati e che avrebbero deciso di organizzare una festa a tema, come è ormai consuetudine nei matrimoni arabi. Me ne ricordo una ispirata alla nascita di Venere: la sposa usciva da una conchiglia che si apriva con un meccanismo elet-tronico. D’altronde, neppure avrei immaginato che mia figlia convolasse a nozze come avevo fatto io, trentatré anni prima, senza festa e senza nemmeno il vestito da sposa.

Non indossa l’abito di pelle bianca che aveva sognato e che mi aveva descritto ben prima di innamorarsi e di pensare al matrimonio, e nemmeno un velo di tulle come quello che pretese da suo padre per mascherarsi alla festa di Santa Bar-bara. Mi viene in mente il velo che avevo regalato alla giovane marocchina che mi dava una mano in casa e stava per sposarsi. Chissà, magari si trova ancora in Marocco e viene passato da una sposa all’altra: forse l’unico velo inglese che sia stato mai

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usato per nascondere la timidezza di una sposa berbera in trepidante attesa che lo sposo glielo sollevi per guardarla in faccia per la prima volta.

Mia figlia ha scelto un tailleur di lana morbida, giacca corta e gonna al ginocchio a quadretti blu, rosa e panna.

Il vestito del mio matrimonio era estremamente semplice, corto, blu, tipico degli anni Sessanta. All’improvviso mi viene in mente che, per ironia della sorte, mia madre aveva invece indossato un vestito bianco per il suo matrimonio. Matrimo-nio? No. Non posso proprio dire che fosse stata una festa di nozze. Anzi, l’avevano condotta al patibolo.

Provo a scacciare il pensiero di mia madre, ma non riesco più a vedere le luci di New York, né a sentirne il chiasso e la confusione. Lei mi appare, costretta contro la sua volontà a indossare l’abito da sposa e una corona di fiori finti. Eccola che se la toglie con tanta forza da strapparsi anche una ciocca di capelli, e ora straccia il vestito e lo getta via. Si arrotola in un sacco di juta usato per lavare i pavimenti, corre verso il fornello a cherosene e le pentole sporcandosi la testa di fulig-gine e urlando come un’ossessa. Cerca di allontanare le mani che la circondano. Mia madre, un pesciolino finito nella rete.

Mia figlia mi manda un bacio, e anche suo marito. Riescono a riportarmi in questo giorno felice. Tento di dimenticare i dolori di mia madre, però vengo subito assalita dal senso di colpa e mi domando perché non le avevo fatto sapere del mio matrimonio.

La verità è che io non ho vissuto con mia madre. Potrei anzi contare sulle dita di una mano le volte in cui l’ho vista nel corso di tutta la mia infanzia. Quando andavo a trovarla, avevo la sensazione di andare a far visita a una parente o a una vicina di casa un po’ confusionaria. Non aveva alcun potere su di me. Se capitava che la facessi arrabbiare, come quella volta in cui mi ero messa ad ascoltare per la decima volta La poupée qui fait non sul mangianastri che mi seguiva ovunque andassi, il massimo che sapeva fare era lamentarsi.

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Ma, nonostante tutto, è possibile che una figlia si sposi senza che chi le ha dato la vita ne sia messa al corrente?

Mi sposai in segreto, senza neanche una festa. Mio padre seppe del mio matrimonio quando un suo amico gli fece le congratulazioni. Vedendo che sul viso di mio padre si erano dipinti confusione, dubbio, incredulità e panico, l’amico gli portò una copia del giornale in cui lavorava e gli lesse la no-tizia del mio matrimonio. Mio padre prese a schiaffeggiarsi, a piangere e a battersi il petto, poi urlò. Tornato a casa, trovò un telegramma sulla porta e corse dai vicini, perché sapeva leggere soltanto il Corano, che in realtà ripeteva a memoria. «Caro papà stop mi sono sposata stop Con affetto stop Hanan...»

Mio padre, che desiderava ardentemente che mi sposassi con un uomo religioso che avesse studiato a Najaf, una delle principali città sante sciite, si era già rassegnato all’idea che questo suo sogno non si sarebbe mai avverato quando si era accorto che diventavo ogni giorno più ribelle. Si era fatto la convinzione che non mi sarei mai sposata con uno che rispettasse i doveri religiosi, e l’aveva accettata a malincuore. Ma che io potessi sposarmi con uno che non professava la mia stessa fede era per lui una cosa lontana mille anni luce. Al contrario, quando mia sorella comunicò a mia madre, come se nulla fosse, che mi ero sposata, lei sembrò toccare il cielo con un dito, urlò di gioia e ballò, tirando un sospiro di sollievo, nonostante non avessi ancora neanche ventitré anni. Mi ricordo che, quando c’incontrammo a due mesi dal matrimonio, mi prese in braccio e cercò di sollevarmi. Poi mi disse, ridendosela, che aveva dato la mano alla statua di un poeta che aveva lo stesso cognome di mio marito, esclamando: «Adesso siamo parenti, a quanto pare!».

Le mie nozze rappresentarono per mia madre una rivincita contro tutti quelli che avevano previsto che io e mia sorella non avremmo mai concluso un buon matrimonio, non per la modestia della nostra famiglia, ma perché eravamo figlie

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di una donna che era scappata di casa per sposare il suo amante. Sicuramente anche noi, pensava la gente, un giorno avremmo fatto la stessa cosa, come dice il proverbio: «Tale madre, tale figlia».

E poi io, per la mentalità della gente che mi circondava, non ero proprio quella che si dice una ragazza da matrimonio: a diciotto anni me ne ero andata al Cairo per studiare e avevo dato scandalo sia là sia in Libano, perché mi ero innamorata di un famoso scrittore egiziano che aveva il doppio dei miei anni ed era sposato.

Ero sicura che mia madre non avrebbe dato peso al fatto che mi fossi sposata con un uomo di un’altra religione. Anzi, questo l’avrebbe resa orgogliosa e fiera, e in più le avrebbe consentito di salire parecchi gradini nella scala sociale. Mi ero sposata con un uomo appartenente a una famiglia famosa, a cui era stato dedicato più di un libro. E allora perché non le avevo fatto sapere del mio matrimonio?

In realtà, quando avevamo deciso di sposarci, non mi era proprio passato per la mente che mia madre potesse aver voglia di condividere la nostra felicità, per il semplice fatto che da molti anni lei non faceva più parte dei miei pensieri. Quando ci abbandonò, io avevo sette anni. La chiusi in una scatola e la nascosi in un angolo della mia mente. Mi misi in testa di essere nata da una voce: una voce che mi teneva compagnia, che ascoltavo con passione, che mi descriveva il mondo, che mi poneva domande. Fu quella stessa voce a insegnarmi come prendermi cura di me, a spiegare alle mie mani come infilarmi un vestito, allacciarmi le scarpe e intrecciarmi i capelli.

Mi allontanai anche da mio padre, nonostante l’amore che provava per me e per mia sorella, la sua tenerezza e la sua dolcezza nei nostri confronti. Passava la maggior parte del tempo a pregare e a supplicare Dio, con gli occhi rossi come tizzoni roventi e il segno lasciato sulla fronte dallo sfregamento durante le prostrazioni a terra.

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Fu proprio quella voce che riuscì a limitare i danni dell’as-senza di mia madre in casa. M’invitava a fissare il suo armadio nella camera da letto che condividevo con mio padre e sua moglie. Guardavo le cose della mia matrigna e mi chiedevo come il pavimento potesse continuare a sorridere – aveva un disegno che ricordava un’allegra faccia giapponese – nono-stante le scarpe che lo calpestavano fossero della mia matrigna e non di mia madre.

Fu quella stessa voce che mi convinse a scrivere del com-plotto tra mia madre e il suo amante contro di me, contro mio padre, contro mia nonna, contro lo zio e la sua famiglia e tutti quelli che vivevano in casa. L’unica eccezione era mia sorella, che sembrava essere legata da sempre a mia madre e a quell’uomo. Era sempre gioiosa, felice e aspettava ansiosa di vederli.

Usai la sua assenza per attirare su di me l’interesse delle persone. Lo feci anche con la mia insegnante di musica: mi portò al cinema a vedere Preferisco mio marito, un film che raccontava di una madre che abbandona la figlia. Mi sentii felice e piena di orgoglio perché la mia vita era più vicina al mondo del cinema che a quella dei miei coetanei del quartiere o della scuola.

Su suggerimento di quella voce, mi legai al polso un fi-lo con delle monete: in questo modo, quando sbattevo sul tavolo, esse tintinnavano e mi facevano sentire più grande, responsabile, libera e capace di sopportare le provocazioni dei ragazzini della zona che mi prendevano in giro perché mia madre aveva lasciato papà. Quella stessa voce mi aiutò a sedurli, come una maga: raccontavo loro storie, imitavo gli abitanti del quartiere, li facevo divertire e ridere. Mostravo loro la mia indifferenza per l’assenza di mia madre, nonostante essa rappresentasse paradossalmente una specie di presenza, come quando un quadro appeso al muro cade all’improvviso andando in frantumi e lascia la sua impronta evidente proprio là dov’era appeso.

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Anch’io desideravo continuamente fuggire. Me ne andai finalmente di casa soltanto quando mi iscrissi a un collegio di Sidone. Dopo lunghe insistenze, mio padre accettò a con-dizione che Dio si mostrasse favorevole. Lo consultò allora con i grani del suo rosario e il parere fu positivo. A scuola incontrai Leila Khaled, la ribelle palestinese che nel 1969 sarebbe diventata la prima donna a dirottare un aereo.

Diventammo amiche e spostammo i nostri letti in una cantina così fredda e umida che ci si poteva nuotare dentro. Ora, quando rifletto sul motivo per cui fossimo così felici di occupare una stanza sul cui pavimento nudo le lumache stri-sciavano abbondanti, mi dico che doveva essere per un senso di alienazione. Leila aveva passato tutta la vita in un campo di rifugiati, allontanata contro la propria volontà dalla sua casa e dalla sua patria, e anch’io stavo scappando dalla mia famiglia.

Due anni dopo, quando avevo diciotto anni, quella voce mi sfidò di nuovo, convincendomi ad andare a studiare al Cairo, dopo aver sentito la canzone che faceva: «Take me back to Cairo... Beside the river Nile...». Quando incontrai uno studente libanese che mi disse che al liceo classico egiziano non si studiavano l’algebra e la geometria, presi ad ascoltare ininterrottamente quella canzone.

Dovevo mettere da parte dei soldi per convincere mio padre che avevo preso sul serio il mio proposito di andare a studiare al Cairo e così cominciai a bussare alle porte dei giornali per convincere i capiredattori a lasciarmi scrivere qualche articolo. Andavo armata di storielle sentimentali e riflessioni varie che avevo scritto e pubblicato nella pagina dedicata agli studenti sul famoso giornale «al-Nahar». Dopo due mesi mi presentai da mio padre per mostrargli i soldi e gli articoli che avevo pubblicato. Gli ripetevo il hadith: «Cercate la scienza dalla culla alla tomba. Cercate la scienza anche in Cina».

L’Egitto era più vicino della Cina, e fu lì che mi recai dopo aver bussato alle porte di tutti i vicini di casa finché non trovai qualcuno disposto a prestarmi una valigia, nonostante mio

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padre cercasse di convincermi che non c’era niente di male nel mettere tutte le mie cose in una scatola di cartone.

Tornai a Beirut dopo quattro anni, e la voce riprese a farsi sentire per consigliarmi stavolta di tenere a bada la sensa-zione di soffocamento che mi accompagnava da quando ero rientrata. Dovevo guardare la vita da un altro punto di vista, sopportare la convivenza con la mia famiglia, pensare che la nostra casa non fosse altro che un albergo gratuito, la moglie di mio padre un’impiegata priva di misericordia e di pietà e il mio adorato papà un sufi che viveva in un tempio privato. Le sue lacrime scorrevano abbondanti perché era preoccupato per me, che, secondo le sue credenze, sarei finita all’inferno e non in paradiso: non pregavo, non rispettavo il digiuno, rifiutavo di mettermi il velo e non mi coprivo le braccia.

Me ne andai di casa e mi trasferii in un ostello per ragaz-ze, vicino al mare. Godevo di una libertà assoluta, lavoravo ininterrottamente tra giornali e trasmissioni radio, e quella voce viveva con me, senza abbandonarmi mai. Anzi, mi tenne per mano e mi affidò all’uomo con cui decisi di sposarmi. Quando lui quel giorno mi chiese cosa avrebbe pensato la mia famiglia, gli risposi: «Non pensare né a mio padre né a mia madre», e gli strinsi le mani.

Non mi era venuto in mente neppure allora che mia madre un giorno mi avrebbe obbligata a fare i conti con il passato, riportando a galla il rancore travolgente che avevo messo da parte e dimenticato. Non avrei mai pensato che mia madre mi avrebbe costretta a rivederla, perché era la prima volta in vita mia che mi forzava a fare qualcosa.

Ci sedemmo, come facevamo ogni volta che visitavo Beirut, sul balcone che dava sulla stazione di el-Nuwairi, sui taxi che suonavano il clacson per attirare l’attenzione dei clienti, sulle macchine private che a loro volta suonavano ai taxi perché si sbrigassero, e su un ambulante che dal suo camion urlava con un megafono a tutto il mondo: «Cipolle! Le migliori cipolle... Patate! Le migliori patate...».

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Mia madre aveva trasformato il suo balcone in un piccolo giardino rigoglioso, circondato su entrambi i lati da piantine. In un angolo era poggiato un piccolo frangipani, lo stesso da quarant’anni.

All’improvviso sbucò un amico di famiglia accompagnato dalla figlia sedicenne. Mia madre li accolse fingendosi fin troppo stupita e sorpresa, e ciò mi convinse che la visita non doveva essere casuale, nonostante mia madre sapesse benissimo che quando andavo a trovarla preferivo stare sola con lei, piuttosto che circondata da decine di vicini, parenti, amici, amici di amici.

L’ospite mi chiese senza mezzi termini se potevo dare un’occhiata a quello che aveva scritto sua figlia e darle qualche consiglio su come diventare una scrittrice. Quasi strappò il quaderno che la figlia teneva in mano insieme agli occhiali da sole. Me lo porse e sparì dopo aver salutato me e scherzato con mia madre.

Le strizzai l’occhio per mostrarle che avevo capito che la visita non era casuale, e lei mi rivolse un sorriso.

Chiesi alla ragazza quando avesse iniziato a scrivere, e lei balbettò qualcosa. Mi stupì, perché a sua volta mi domandò se mi ricordassi della prima cosa che avevo scritto. Mi venne da ridere. «Avevo scritto di una piccola mosca che era entrata nel naso di Muhammad e lo aveva fatto impazzire.» Poi mi girai verso mia madre. «Mamma, ti ricordi quando Muham-mad andò nella tenda di tuo padre indossando un completo elegante con quel caldo asfissiante e una mosca gli si infilò nel naso? Lui iniziò a starnutire, starnutire, starnutire!»

Ridemmo entrambe e lei aggiunse, piena di tenerezza: «Un uomo come Muhammad, convinto di essere forte, grosso e prepotente, che perde la testa per una minuscola mosca...».

Aprii il quaderno della ragazza: aveva scritto in rosso il titolo, in blu la storia e in lilla il suo nome. Non riuscii a leg-gere più di qualche frase, poi, girando pagina, mi accorsi che aveva disegnato Madonna. «Quindi ti piace anche disegnare?»

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La ragazza arrossì e mi rispose, piena di entusiasmo, che amava scrivere, dipingere, recitare e ballare. «Ma senza dub-bio preferisco su tutto la scrittura.»

Le restituii il quaderno dicendo: «La scrittura sarà la tua migliore amica».

Mia madre avrebbe sicuramente voluto che io la lodassi e le facessi qualche complimento, ma proprio non ci riuscii. Mi accorsi che mia madre mi scrutava con occhio indagatore, poi mi chiese: «A proposito, hai scritto nei tuoi romanzi di Muhammad e della mosca?».

«Mmm... Non mi ricordo!»La ragazza si alzò, diede un bacio a mia madre, mi baciò

sulle guance e se ne andò tenendo stretto il suo quaderno.«Allora? Quando ti decidi a scrivere la storia della mia

vita?»Mi ripeteva quella domanda da quando avevo iniziato a

fare la giornalista. Mia madre, che era analfabeta, trovava sempre qualcuno cui chiedere di leggerle quello che scrive-vo, ma la scintilla era scattata quando avevo pubblicato una serie di interviste ad alcune donne libanesi famose in campi diversi, attive in politica, negli affari, nelle loro professioni, nella società.

«Quelle donne di cui hai scritto sono figlie di famiglie im-portanti o colte. Forse nessuno le avrà incoraggiate a fare quello che hanno fatto, ma sicuramente nessuno gliel’ha impedito o le ha oppresse. Perché non scrivi di quelle che vengono trattate dalle loro famiglie come se non fossero neppure esseri umani, solo perché sono nate femmine? Non c’è bisogno di andare tanto lontano, io sono una di loro. Qui, davanti a te. Dai, intervistami. Posso raccontarti di tuo nonno, che mi vendette per dieci lire d’oro, di come mi hanno costretta a sposare tuo padre quando avevo appena quattordici anni, e di come hanno organizzato il mio fidanzamento quando ne avevo undici.»

Mia madre parlava alla giovane giornalista che ero allora e le sue parole, così cariche di entusiasmo, di passione e di

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dolore, mi scivolavano addosso come gocce d’acqua su un impermeabile. Svanivano senza lasciar traccia.

Col passare del tempo cominciai ad abituarmi alle sue sup-pliche. Ogni volta che pubblicavo un romanzo o un racconto breve, mi diceva: «Scommetti che la mia storia è più bella di quella che hai pubblicato?».

Ma io non le davo ascolto. Mi ero fatta la convinzione di sapere già tutto su di lei: si era sposata con mio padre contro la sua volontà, si era innamorata di Muhammad e aveva ab-bandonato il tetto coniugale. Tutto qui.

Mi ricordo che nel 2001, quando la invitai alla presentazio-ne del mio libro Questa è Londra, caro mio, mi chiese: «Cosa hai scritto stavolta?».

«Il romanzo parla di donne arabe che vivono a Londra» le risposi «e che dopo numerosi tentativi scoprono che la vita è diversa da quello che appare.»

«Io non capisco...» mi interruppe. «Ma perché ti ostini a guardare l’erba del vicino?»

«Non ti dico già abbastanza quanto mi ispiri? Quando ti chiedo di quell’aneddoto, di quel personaggio, non sai che sto prendendo spunto da te per le mie storie?»

«Io non voglio che tu prenda spunto da me. Questo significa che tu vedi le cose dal tuo punto di vista, non dal mio. Per esempio, il tuo racconto Il tappeto persiano. Ecco, parliamone: hai dipinto la madre come una ladra. È lei che ruba il tappeto e, anche se tutti accusano Elia il tappezziere, a lei non importa un fico secco! Io volevo bene a Elia, gli davo da mangiare, cantavo per lui... E poi, perché non hai detto che la mamma aveva dato tutto e rinunciato a tutto ciò che era suo di diritto per scappare da un marito che aveva il doppio dei suoi anni, che era stata obbligata a sposare contro la sua volontà? Ne-anche hai menzionato che il marito le aveva preso tutti i suoi gioielli per ipotecare il negozio che altrimenti sarebbe fallito!»

«Mamma, la storia raccontava di una ragazzina che si era infatuata di Elia il tappezziere perché era capace di riparare

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le sedie nonostante la sua cecità...» Mi fermai senza riuscire a proseguire, perché mi venne in mente come quella ragazzina avesse iniziato a tremare, tanta era la rabbia quando il suo sguardo era caduto sul tappeto smarrito, che si trovava nella nuova casa di sua madre, dove era andata in visita per la prima volta dopo il divorzio dei genitori. Alla ragazzina non bastava che la madre la sciogliesse dal suo abbraccio: aveva il desiderio fortissimo di affondare i denti nella sua carne bianca e di darle un morso, perché era stata lei a rubare quel tappeto e a permettere che le accuse cadessero su Elia il cieco.

«Questo vuol dire forse che una donna divorziata non può affezionarsi a un tappetino? Era suo di diritto!» protestò mia madre.

La domanda avrebbe dovuto essere posta in un altro modo. Perché quella donna, dopo il divorzio, non si era affezionata invece alle sue figlie? Non erano sue di diritto anche loro? Mia madre avrebbe dovuto dirmi perché non aveva almeno provato, non aveva lottato per avere la nostra custodia, anche se era certa che le possibilità di ottenerla erano le stesse che ha una nave di pietra di riuscire a stare a galla.

Mi fermai scossa dai brividi, prossima a scoppiare per la violenza di quelle domande che mi si erano bloccate in gola. Riuscii a inghiottirle, accontentandomi di esporre a mia ma-dre il famoso cliché letterario per cui le persone reali, fatte di carne e ossa, non appena vengono messe sulla carta si trasformano semplicemente in personaggi immaginari, diven-tano arte. Mia madre mi ascoltò con attenzione. Si accese una sigaretta e diede un tiro, poi un altro, mentre io immaginavo i suoi polmoni riempirsi di fumo fin quasi a esplodere da un momento all’altro.

«Bene. Se la scrittura trasforma le persone in personaggi immaginari, perché io e Muhammad non siamo cambiati? E perché neanche tu sei cambiata, nel tuo romanzo Mio signore, mio carnefice? Hai descritto gli stessi luoghi, gli stessi avveni-menti, esattamente com’erano nella realtà. L’unica differenza è

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che tuo zio Ibrahim è diventato tuo padre. Ma lasciamo stare quel libro. Oddio, come mi sono sentita quando me l’hanno letto... come se tu avessi passato il mio cuore in un tritacarne.»

Mia madre sospirò prima che io potessi proferire parola. Scacciò dal viso una mosca che ronzava tra di noi.

«Dai, vai in cucina. Troverai qualcosa da mangiare.»Risi e tirai un sospiro di sollievo. «Mamma, ti ricordi quan-

do buttavi il formaggio ai topolini in soffitta?»Mia madre ridacchiò e, battendo le mani, disse: «Poveri,

ho smesso quando non so chi mi avvertì che così facendo sarebbero diventati dei grossi ratti». Poi, all’improvviso, ag-giunse: «Voglio dire, nel romanzo Mio signore, mio carnefice io e Muhammad ti facciamo piangere fino a singhiozzare, e tutto il mondo ti sente. Invece noi, a essere sinceri, ti siamo sempre rimasti vicini. Tu ci hai dipinti severi, senza cuore. Dio mio, da dove hai preso tutta questa amarezza?».

Feci per andarmene, ma come potevo lasciarla in quello stato di disperazione? Sapevo che se me ne fossi andata in quel momento si sarebbe rimproverata per avermi fatto arrabbiare.

Tornai a sedermi e improvvisamente lei cambiò argomento.«Hai notato le scarpe di quella ragazza? Enormi e alte

come lampioni.»L’abbracciai dicendole: «Oddio, mamma, sei troppo in-

telligente e sveglia!».Mi trovai a pensare: “L’ho scritto veramente? Davvero ho

messo questo nel mio romanzo Mio signore, mio carnefice?”. Posi questa domanda al nulla, ai rumori della strada, a mia madre, al libro stesso. Mi domandai chi ero vent’anni prima, cosa pensavo. “Cosa volevo dire?”

Quando nell’inverno del 1976 mi misi a scrivere Mio si-gnore, mio carnefice, in un piccolo appartamento in affitto a Londra, accanto a me c’erano soltanto due valigie, mio figlio che non aveva ancora due anni e mia figlia di sei mesi, ed eravamo appena fuggiti dalla guerra civile. Mi ricordo che lasciai le valigie intatte per due mesi, ripromettendomi di

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tornare in Libano il prima possibile. E invece ci tornavamo ogni sera, ma soltanto per qualche secondo, accompagnati dalla musica del telegiornale della televisione britannica: vedevo Beirut, racchiusa in un bozzolo nero come la pece, trasformata in una palla di fuoco dalle milizie e dai guerri-glieri, mentre i suoi abitanti scappavano in preda al panico. Cercavano riparo qua e là nei rifugi sotto le case o cadevano per strada sotto i colpi dei cecchini, che erano dappertutto. Erano persone misteriose, che tiravano un sospiro di sollievo soltanto quando la loro preda cadeva a terra.

Era stato proprio quando avevo avuto la certezza che un giorno anch’io sarei stata colpita dalla pallottola di un cec-chino, ovunque mi fossi nascosta, e avevo iniziato a vivere accompagnata dalla paura, anzi, dal panico per la sicurezza dei miei figli, che avevo deciso di scappare, non soltanto da Beirut, ma proprio dal Libano.

Nel mio nuovo paese, l’Inghilterra, mi immersi in una nuo-va società e in una nuova lingua, che mi portavano a pensare al posto da cui ero venuta, all’ambiente in cui ero cresciuta, alla cultura che mi aveva reso quella che ero e a ciò che avevo lasciato dietro di me. Volli scrivere della violenza per poterla comprendere, e per capire perché Beirut fosse diventata un campo da giochi per i demoni. Un nome lugubre, tanto che anche i libanesi evitavano di pronunciarlo. La mia confusione e il mio panico facevano sì che, ogni volta che mi sedevo a scrivere, vedessi me stessa come una bambina di cinque anni che si nascondeva con la madre dietro una porta, scossa da brividi di paura. Mia madre mi metteva una mano davanti alla bocca per non farmi parlare, perché c’era quel viso che appariva e che sembrava spiarci. Questa immagine si ripe-teva nella mia mente una, due, tre volte. Perché la guerra si era scatenata dentro di me mentre ero a Londra? Cominciai a graffiare vecchie cicatrici che credevo ormai rimarginate. Mi ero convinta che, col matrimonio e poi con i figli, avessi tirato fuori mia madre da quella scatola in cui l’avevo chiusa

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per nasconderla in un angolo della mia testa, che l’abisso che c’era tra di noi fosse scomparso, e invece ecco che una penna stilografica mi strappava al gelo di Londra per catapultarmi in quella camera buia, a Beirut, in cui c’eravamo nascoste dietro la porta. Sentivo di nuovo l’incertezza e la confusione che ribollivano dentro di me ogni volta che prendevamo una strada diversa da quella che doveva portarci dal medico che mi faceva l’iniezione di calcio, la cui carenza mi causava l’inarcamento delle gambe, a quanto diceva mia madre. Invece di scorgere la ringhiera nera davanti alla porta di vetro dello studio del medico e il suo riflesso colorato, entravo in una camera immersa nel buio, dai mobili marrone scuro. E invece di vedere il faccione rotondo e piatto del medico e i suoi ca-pelli rossi, acconciati con un riporto che doveva nascondere la loro radezza ma riusciva solo a farli sembrare vermicelli, mi trovavo davanti un uomo alto, dai capelli lisci, castani e folti, che indossava un completo a quadretti bianchi e neri, lo stesso uomo che mi aveva dato un pupazzo di gomma rosa delle dimensioni di un dito.

Col passare dei giorni capii che mia madre mi voleva ac-canto a sé come un’arancia navelina con il suo ombelico. Ogni volta che si incontrava con l’uomo dai capelli folti e castani, io mi trovavo a condividere con lei i suoi segreti, a essere testimone delle sue bugie e delle sue menzogne. Contribuiva senza accorgersene alla mia confusione e alla mia indecisione. Confondevo visi e luoghi, e i medici con gli amanti.

Ricordo quella volta sotto il mandorlo e le montagne brulle, le colline, le valli, le pietre rosse, i rovi nel villaggio di Bham-doun. Ero piccola, correvo con mia sorella e nostra madre, che non era tanto più grande di noi. Correvamo con nostra cugina Mariam, ed ecco che mi apparve l’uomo alto dai capelli castani, folti e lisci, con cui mia madre parlava il cosiddetto “linguaggio degli uccellini”. Non capivo nulla di quello che dicevano, e neppure capivo perché, se proprio dovevano imitare gli uccellini, parlassero invece di cinguettare.

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Vedevo quell’uomo disteso con la testa appoggiata alle cosce di mia madre e gli occhi color miele aperti solo a metà. Dormiva o ci stava solo provando? Non sapevo allora che quello era il sogno di un innamorato. Mia madre gli cantava la ninna nanna Oh tu che dormi. Mi chiedevo perché lo cullasse per dormire se non era più un bambino, e perché quando c’incontravamo con lui dovessimo cominciare a correre per andargli incontro. Chissà, forse perché mia madre non vedeva l’ora di cantargli la ninna nanna.

Quel giorno ci venne scattata una foto, che avrei rivisto poi insieme ad altre foto quando mia madre le tirò fuori dal suo reggiseno per mostrarle a mia cugina Mariam. Nella foto io sto in piedi accanto a mia sorella, ed entrambe guardiamo l’uomo che solleva mia madre tra le sue braccia, come se fosse una bambina. Come se si fossero scambiati i ruoli, e ciascuno di loro facesse il bambino a turno.

Rivedendo quella foto anni dopo, sentii una fitta al cuore. Fissai le rocce, il mandorlo, il cielo estivo, il sorriso di mia madre e le scarpe che stavano per caderle. Dove ero finita io? E Fatima? Al nostro posto c’era una macchia bianca. Ma io c’ero stata davvero lì, insieme a mia sorella? Avevo davvero sentito mia madre che cantava a quell’uomo Oh tu che dormi?

C’è un’altra foto che ritrae tutti i membri della mia famiglia sul terrazzo di casa. Siamo intorno a nostro cugino che sta per imbarcarsi per gli Stati Uniti. Avrei voluto cancellare il viso di mia madre da quella foto, come lei aveva cancellato me e mia sorella, ma alla fine non feci nulla.

Dopo molti anni mi fu chiaro perché avevo cambiato idea: mia madre era in mezzo a tutti noi, però sembrava distante; in realtà non era con noi. Guardava lontano, verso un futuro di cui non facevamo parte.

«Perché sei così silenziosa e non mi rispondi? Perché non vuoi scrivere la storia della mia vita? Io davvero non capisco... Non sei curiosa di conoscere la mia infanzia e sapere perché vi ho abbandonate?»

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Eravamo ancora sedute sul balcone rumoroso, davanti a noi un posacenere che conteneva decine di cicche. “No, non voglio sentire la tua storia. Forse ho paura di provare compassione per te o di essere invasa dalla tristezza. Non voglio ricomporre il passato, che ormai ci ha lasciato e se n’è andato, dopo che gli anni l’hanno scolorito.”

«Ascolta Hanan, amore di mamma, non ce la faccio. Giuro, non ce la faccio a tenere la mia storia chiusa nel cuore. Guarda, se non mi ascolterai e non la scriverai, chiederò alla ragazza con le scarpe come lampioni di farlo per me!»

Non ero pronta. Avevo paura che mia madre mi seducesse come fa l’acqua del mare nelle torride giornate estive: sembra rinfrescante e in realtà è gelida.

Avevo paura che tessesse attorno a me un incantesimo di dolcezza e di fascino, che mi catturasse in una ragnatela di zucchero. Avrei finito per arrendermi, come avevano fatto prima di me tanti, piccoli e grandi, uomini e donne. Da allora avrei creduto a ogni parola che mi avesse detto, anche qualora avessi dubitato di lei. Mi ero convinta che lei volesse svelarmi tutti i segreti del suo cuore per giustificare il suo abbandono. In pratica cercava il perdono da parte nostra, né più né meno.

Ma come poteva pretendere che io dimenticassi la prima volta che avevo capito che erano i luoghi a sottrarci le persone che amiamo, e che era lo studio del falso medico ad allontanare mia madre da noi? Come poteva sperare che io dimenticassi le volte in cui mi ero chiesta se anche lei sentisse i tuoni nella sua nuova casa come li sentivo io, e se vedesse il bagliore dei fulmini nello stesso momento in cui io gridavo: «Eeeh! Eccolo!», perché il vento portasse la mia voce fino a lei.

Come poteva chiedermi di spegnere la sua voce, quella che aveva cantato per la mia bambola, stringendola al suo petto e piangendo come se fosse la sua bambina?

Bambolina mia, dormi nel lettinofin quando viene il passero, e ti sveglia al mattino.

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E che dire delle volte in cui non ero io a voler affondare i denti nella sua carne, ma era lei a mordermi, lasciando il segno dei suoi denti sul mio braccio, come un orologio, perché in fondo a quei tempi era ancora una bambina che mordeva quando era arrabbiata? Picchiare i figli era invece cosa da madri adulte.

Mi offrì una sigaretta, nonostante sapesse perfettamente che non fumavo. Era tutta la vita che le facevo la predica perché smettesse anche lei. Le chiesi se aveva voglia di andare a un caffè sul lungomare. Mi rispose: «Giuro sulla mia vita che non ho mai desiderato tanto quanto adesso saper leggere e scrivere, soltanto per poter scrivere la mia storia. Oddio, quanto mi ferisce che un pezzo di legno e di grafite possa avere la meglio su di me!».

Le chiesi cosa intendesse dire. «La matita non è fatta di legno e di grafite?»A quel punto guardai la mia mano: non si vedevano i segni

dei denti. Anzi, era pronta e teneva una penna. Sentii di voler liberare il passato tenuto prigioniero fino a quel momento e portarlo alla luce.

«Dai, iniziamo» dissi alla fine.Mia madre esordì con una frase in arabo classico che con-

tinua a risuonare nella mia testa: «Storie tragiche, lunghe da raccontare... Senza la locusta, il passero non sarebbe rimasto intrappolato».