Guida per la lettura - Università degli Studi della...

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1 Modulo 1- Psicologia sociale I PREADOLESCENTI COME OGGETTO DI STUDIO DELLA PSICOLOGIA SOCIALE Patrizia Selleri Indice 1. Introduzione (Scheda 1 - Tante psicologie, un solo Uomo) 2. Chi sono gli psicologi sociali? (Scheda 2 - Autoritarismo e democrazia ) 3. Un grande interrogativo: chi è l’uomo? (Scheda 3 Ciao mamma, come stai?) 4. Conoscere gli altri (Scheda 4 - Chi lavora di più in casa?) 5. Gli atteggiamenti sociali (Scheda 5 – Atteggiamenti, valori, conflitti)) 6. L’amicizia (Scheda 6 – L’aggressività: fattore innato o acquisito?) 7. I gruppi (Scheda 7 – La coerenza nei gruppi ) 8. Riferimenti bibliografici per approfondimenti Guida per la lettura Nel testo troverete i seguenti avvertimenti: Attenzione! Indica un punto importante su cui riflettere Confronta Indica i collegamenti con altre parti del testo Indica un brano tratto dalla Fattoria degli Animali di G. Orwell Indica una scheda che contiene esempi sull’argomento trattato

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Modulo 1- Psicologia sociale

I PREADOLESCENTI COME OGGETTO DI STUDIO DELLA

PSICOLOGIA SOCIALE

Patrizia Selleri

Indice

1. Introduzione (Scheda 1 - Tante psicologie, un solo Uomo)

2. Chi sono gli psicologi sociali? (Scheda 2 - Autoritarismo e democrazia )

3. Un grande interrogativo: chi è l’uomo? (Scheda 3 Ciao mamma, come stai?)

4. Conoscere gli altri (Scheda 4 - Chi lavora di più in casa?)

5. Gli atteggiamenti sociali (Scheda 5 – Atteggiamenti, valori, conflitti))

6. L’amicizia (Scheda 6 – L’aggressività: fattore innato o acquisito?)

7. I gruppi (Scheda 7 – La coerenza nei gruppi )

8. Riferimenti bibliografici per approfondimenti

Guida per la lettura

Nel testo troverete i seguenti avvertimenti:

Attenzione! Indica un punto importante su cui riflettere

Confronta Indica i collegamenti con altre parti del testo

Indica un brano tratto dalla Fattoria degli Animali di G. Orwell

Indica una scheda che contiene esempi sull’argomento trattato

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1. Introduzione

Chi non conosce La fattoria degli animali pubblicata da George Orwell nel 1945?

Probabilmente nessuno, ma se ci fosse qualcuno che ancora non avesse letto il

libro almeno una volta…questo è il momento per farlo!

Un approccio alla psicologia sociale come disciplina che si occupa di approfondire

i rapporti fra gli individui ed i gruppi e che ha, come vedremo, dedicato molto

spazio allo studio del processo di socializzazione, può avvenire proprio attraverso

una lettura curiosa delle pagine del capolavoro di Orwell. Noi ne riporteremo

alcuni passaggi, con lo scopo di far riflettere i lettori sulla natura assolutamente

concreta e quotidiana dei fenomeni studiati dagli psicologi sociali i quali,

utilizzando anche dispositivi sperimentali sofisticati, hanno mostrato il rapporto

diretto che esiste fra comportamento individuale e collettivo, fatto di influenze

reciproche, di stereotipi, giudizi, pregiudizi ed attribuzioni, di forme

comunicative e di aspetti emotivi e cognitivi.

“…Durante il giorno era corsa voce che il Vecchio Maggiore, il verro

Biancocostato premiato a tutte le esposizioni, aveva fatto la notte

precedente un sogno strano che desiderava riferire agli altri animali. Era

stato convenuto che si sarebbero riuniti nel grande granaio

(…)“Compagni, già sapete dello strano sogno che ho fatto la notte scorsa,

ma di questo parlerò più tardi. Ho avuto una vita lunga, ho avuto molto

tempo per pensare mentre me ne stavo solo, sdraiato nel mio stallo, e

credo di poter dire d’avere compreso, meglio di ogni animale vivente, la

natura della vita su questa terra. Di questo desidero parlarvi.”

(Cap.1, pag.5-6)1

1 I brani sono tratti da:

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SCHEDA N.1

Tante psicologie, un solo Uomo

Il campo d'indagine della psicologia è da sempre lo studio dell'uomo, del suo

modo di pensare , di agire e di provare sentimenti, sia in relazione alla crescita ed

allo sviluppo del singolo individuo sia in relazione alla vita nei gruppi sociali.

Sulla base degli interessi che hanno stimolato nei ricercatori l'approfondimento di

alcuni di questi temi, nel panorama della psicologia contemporanea si possono

individuare molte correnti di studio che rendono complessa una illustrazione

sistematica della materia, ma rispetto alle quali occorre sottolineare i rischi di

un’applicazione troppo rigida di eventuali schematizzazioni.

Un possibile criterio per delineare un quadro di riferimento in cui inserire i

principali contributi di ricerca è quello di distinguerli sulla base degli argomenti

attorno ai quali si raccoglie il maggior numero di studi e di ricerche:

- la psicologia fisiologica affronta in modo specifico le relazioni esistenti tra il

comportamento e le caratteristiche neurofisiologiche degli individui; infatti oltre

allo studio dei grandi processi psicologici (apprendimento, memoria, motivazione

ed attenzione) sulla base del funzionamento cerebrale, viene approfondito anche il

modo in cui la chimica del cervello riesce ad influenzare l'umore o le emozioni. In

altre parole, sapere come funziona il nostro corpo, approfondire il progetto

biologico che attraverso un lungo processo evolutivo ci porta ad essere quello che

siamo ed anche pensare al nostro cervello come ad un sofisticato sistema di

controllo, stimolato da agenti chimici, costituisce un approccio utile ed

interessante allo studio del comportamento individuale;

Orwell G. (1945) Animal Farm. Tr.it. La fattoria degli animali, Milano, Mondadori 1947.

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- la psicologia dello sviluppo, o dell’arco di vita, studia i cambiamenti che si

verificano dalla nascita fino all e ultime fasi della vita, con particolare attenzione

agli apprendimenti caratteristici dell'infanzia e dell'adolescenza; in questo senso,

considerando il potenziale di novità legato ad ogni età della vita, si potrebbe

parlare più correttamente di psicologia dell’arco di vita. In ogni caso il maggior

numero di studi è stato condotto sui neonati, sui bambini e sugli adolescenti,

affrontando i temi relativi allo sviluppo del pensiero e del linguaggio, delle abilità

espressive, rappresentative e motorie;

- la psicologia clinica prende in esame il problema del disagio psichico, cioè delle

difficoltà di natura individuale e relazionale che impediscono alle persone di

vivere una vita serena insieme agli altri. Il lavoro clinico, accanto alla ricerca sulla

eziologia dei disturbi, prevede la formulazione di ipotesi di intervento diretto,

sull'individuo o sul nucleo familiare di appartenenza, volte ad alleviare le

difficoltà di chi vive momenti difficili;

- la psicologia sociale approfondisce il rapporto tra il singolo individuo ed i gruppi

sociali a cui appartiene, come la famiglia, i coetanei, le associazioni politiche o

religiose. Hanno ampio risalto i problemi legati al modo in cui le persone danno

giudizi sugli altri, attribuendo ad essi alcune caratteristiche che servono a

mantenere salde le distanze psicologiche, così come è interessante lo studio di

alcune particolari forme di conoscenza, chiamate rappresentazioni sociali,

strumenti di interpretazione della realtà condivisi tra gli individui appartenenti ad

un medesimo gruppo sociale;

- la psicologia dell'educazione si occupa dei processi psicologici che avvengono

in un particolare contesto, appunto quello scolastico o meglio e più in generale nei

contesti formativi; principalmente sono oggetto di studio i rapporti tra insegnante

ed alunni, le strategie di apprendimento e le difficoltà incontrate dai ragazzi nelle

materie di studio;

- la psicologia del lavoro è un ambito relativamente recente, che rapidamente sta

assumendo molta rilevanza, soprattutto per le richieste che giungono dal mondo

economico, interessato ad ottimizzare il rapporto tra risorse umane e sistemi di

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produzione, sia per quanto riguarda la selezione delle persone più idonee a

ricoprire determinati incarichi e mansioni sia per migliorare il funzionamento

delle organizzazioni;

la psicologia di comunità studia i funzionamenti psico-sociali e relazionali

esistenti nelle comunità umane, siano esse scuole, ospedali o centri di accoglienza

per minori, trattando l'ambiente come un elemento su cui agire per modificare i

comportamenti delle singole persone.

2. Chi sono gli psicologi sociali?

La psicologia sociale è una disciplina che ha punti di contatto con molte altre

discipline tra cui la sociologia, per quanto riguarda gli studi sulla struttura e

l’organizzazione della società; l’antropologia, in relazione all’approccio trans-

culturale; la linguistica, per tutto ciò che attiene al linguaggio come strumento di

comunicazione sociale. Questo non significa che la psicologia sociale manchi di

una propria identità, quanto piuttosto che i confini della disciplina si definiscono

nel rapporto costruttivo e dal confronto con ambiti di ricerca diversi.

D’altro canto la psicologia sociale studia da decenni i modi in cui i processi

intraindividuali, riferiti ad ognuno di noi come singolo individuo, si articolano nel

mondo sociale divenendo processi interindividuali, riferiti quindi ad insiemi di

individui che condividono luoghi, ruoli sociali, idee ed ideologie.

“…Dunque, compagni, non è chiaro come il cristallo che tutti i mali della

nostra vita nascono dalla tirannia dell’uomo? Eliminiamo l’uomo e il

prodotto del nostro lavoro sarà nostro. Prima di sera potremmo divenire

ricchi e liberi (…) Questo è il mio messaggio a voi, compagni:

Rivoluzione!” (Cap.1, pag.8)

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Nel 1895 il giornalista Gustave Le Bon pubblica un lavoro ormai passato alla

storia, La psicologia delle folle, in cui egli esamina l’agire degli individui che si

trovano in gruppi numerosi: parla di capi e gregari, di potere e dipendenza, di

comportamenti che emergono solo nei momenti di grande eccitazione collettiva; il

suo fantasma è il socialismo che avanza, sono le lotte proletarie, è il timore che la

borghesia perda i propri privilegi, ma è comunemente accettato che il lavoro di Le

Bon sia l’origine della psicologia sociale europea.

Negli Stati Uniti il clima politico e culturale dell’epoca è radicalmente diverso; è

un paese in espansione, ben disposto ad accettare le novità dove l’idea di industria

e di progresso accelera enormemente lo sviluppo sociale. Fortissime sono state le

ondate immigratorie ed in breve tempo la società si trova organizzata in gruppi più

o meno numerosi, importanti, potenti: c’è la nazionalità, la religione, il ceto

sociale; il mito del self-made-man è realtà, il benessere si può raggiungere anche

partendo da condizioni disperate, il sogno americano avanza. Comportamento

individuale e caratteristiche della collettività sono il capo di studio di sociologi e

psicologi; gli psicologi entrano nelle fabbriche, studiano le condizioni lavorative

dei dipendenti per migliorare la produzione; il behaviorismo2 è l’ambito culturale

da cui gli psicologi sociali prendono lentamente, ed un po’ faticosamente, le

distanze.

La prima metà del XX secolo è stato comunque il periodo di affermazione della

psicologia sociale, soprattutto attraverso l’apporto di personaggi illustri come

Kurt Lewin, nato nel 1890 in un paesino prussiano e morto nel 1947 negli Stati

Uniti, dove era emigrato prima della seconda guerra mondiale a causa della

persecuzione contro gli ebrei.

Egli elabora la Field-Theory, o teoria di campo, una rappresentazione geometrica

dei rapporti fra individuo e mondo sociale, una configurazione di elementi e di

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forze che costituiscono un sistema di relazioni umane; il campo è l’insieme degli

elementi presenti in un certo momento dell’esperienza individuale: un primo

gruppo di elementi rappresenta lo spazio di vita del soggetto quindi l’esperienza

soggettiva, un secondo gruppo lo spazio, conosciuto ed oggettivo, che in quel

momento è esterno all’esperienza soggettiva, un terzo gruppo rappresenta il

confine fra la dimensione soggettiva e quella oggettiva ed è il luogo in cui il

soggetto agisce concretamente.

In questa prospettiva il comportamento dell’uomo è sempre spinto da desideri e

motivazioni, da scelte e decisioni, da bisogni ed aspirazioni e l’individuo, in

quanto appartenente ad un campo, non può quindi essere studiato senza

considerare il contesto in cui egli si trova in quel preciso momento. Così

l’individuale ed il sociale si trovano sempre articolati fra loro in modo dinamico

poiché, riprendendo le parole dell’autore

“ Tale procedimento rispecchia una delle fondamentali proprietà della vita di

gruppo. Qualsiasi tipo di azione di gruppo o di azione individuale, compresa

quella del folle, è regolato da processi causali circolari del seguente tipo: la

percezione individuale o la “rilevazione dei fatti” – come ad esempio, un

procedimento di clacolo – è connessa con l’azione individuale o con quella di

gruppo in modo tale che il contenuto della percezione o della rilevazione dei fatti

dipenda dal modo in cui la situazione viene mutata attraverso l’azione. Il risultato

della rilevazione dei fatti influenza a sua volta l’azione o la guida” (Lewin 1951,

tr.it 1972, pag. 261).3

Stimolati dalla riflessione di Lewin gli psicologi sociali indirizzano quindi i loro

interessi sui rapporti fra individuo e gruppo; si studia il sistema di giudizi e di

2 Il termine è molto usato in psicologia per riferirsi alla corrente comportamentista (paradigma Stimolo-Risposta) e neo-comportamentista, (paradigma Stimolo-Risposta-Stimolo) 3 Lewin K. (1951) Field Theory in Social Science, New York, Harper & Row. Tr. it Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, 1972.

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pregiudizi, l’attribuzione causale, l’autoritarismo, l’interazione sociale, il

processo di socializzazione, la dinamica dei gruppi ed i processi di influenza fra

gruppi sociali.

Attorno agli anni ’60, però, la strada della psicologia sociale torna ad essere

separata dall’oceano.

Negli Stati Uniti si sviluppa la corrente del cognitivismo, che cerca di ricostruire i

processi di elaborazione del pensiero attraverso la realizzazione di modelli di

funzionamento, fino a teorizzare che l’uomo elabori le informazioni attraverso un

procedimento sequenziale simile a quello compiuto dal computer; in Europa c’è

invece un rinnovato interesse per le componenti sociali dell’esperienza umana, si

studiano i processi di categorizzazione all’interno dei gruppi e fra gruppi diversi,

le rappresentazioni sociali costruite nella vita quotidiana e condivise dai gruppi

sociali, il linguaggio come costruzione sociale del pensiero e delle idee.

SCHEDA N.2

Autoritarismo e democrazia

Nel 1939 Lewin Lippitt e White, probabilmente stimolati dal clima dell’epoca,

condussero una ricerca sugli effetti dello stile di conduzione dei gruppi.

Furono formati dei gruppi di ragazzi di 10-11 anni, tutti maschi ed omogenei per

età, scuola frequentata e condizione socio-economica, ai quali fu dato il compito

di costruire insieme degli oggetti, durante ore pomeridiane di attività extra-

scolastiche; ogni gruppo era guidato da un responsabile che, seguendo il disegno

sperimentale, poteva comportarsi in modo direttivo ed autoritario (decidere

l’attività, assegnare i ruoli, dare premi e punizioni senza spiegare il perché);

oppure in modo democratico lasciando spazio alle idee dei ragazzi, favorendo la

loro organizzazione, facendo valutazioni positive con fare scherzoso; oppure

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poteva limitarsi a intervenire solo su richiesta, lasciando fare i ragazzi, senza

aiutare nei momenti difficili (laissez-faire è il termine usato per indicarlo). A metà

degli incontri il responsabile veniva cambiato e sostituito da un altro, che adottava

uno stile di conduzione del gruppo diverso.

Dalle osservazioni condotte apparve subito evidente come i gruppi “democratici”

favorissero la collaborazione fra i membri ed un clima di soddisfazione generale

per il lavoro svolto, mentre nei gruppi “autoritari” le tensioni erano molto

frequenti e sfociavano spesso in fenomeni di aggressività manifesta nei confronti

di alcuni membri, i “capri espiatori” di una situazione difficile per tutti; oppure nei

gruppi “autoritari” si assisteva gradatamente all’emergere di fenomeni di apatia e

disinteresse per i membri del gruppo e per il lavoro.

Per quanto riguarda il lavoro prodotto, mentre all’inizio furono i gruppi a

conduzione “autoritaria” ad avere risultati migliori, dopo breve tempo i gruppi

“democratici” riuscirono a realizzare più lavoro ed anche di qualità migliore; i

gruppi “autoritari” si irrigidivano nelle procedure, cominciavano a “soffrire” se

mancava il leader o se c’erano novità e cambiamenti imprevisti.

I gruppi a conduzione laissez-faire si dimostrarono disorganizzati, in difficoltà

nell’arrivare a concludere i lavori, senza una strategia generale di suddivisione dei

compiti, carenti quindi di una guida.

L’esperimento è stato condotto 60 anni fa, ma i risultati ci possono far riflettere

anche oggi.

Gli operatori sociali sono in grado di affrontare un problema adottando un’ottica

“di campo lewiniano”? In altre parole, quando in classe, in un centro giovanile, in

un soggiorno estivo vediamo un gruppetto di ragazzi apatici e disinteressati, siamo

in grado di non giungere subito a conclusioni individualiste (“non gli interessa

niente”, “non è motivato”) ma di considerare, per esempio, il clima sociale creato

da chi ha la responsabilità del gruppo?

E inoltre, quante volte la conduzione democratica si confonde con quella laissez-

faire? Siamo tutti sicuri che……

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Approfondiremo il nostro percorso affrontando altri temi.

NOTA: per un maggior dettaglio dell’esperimento si veda Carugati F., Selleri P.

(1996) Psicologia sociale dell’educazione. Bologna, Il Mulino, pag.230 -231.

3 . Un grande interrogativo: chi è l’uomo?

La psicologia si è da sempre interrogata su una delle domande fondamentali della

vita e cioè “ Chi sono io?”

“..Ho dodici anni e ho avuto più di quattrocento figli. Questa è la

naturale vita di un maiale. Ma nessun animale sfugge infine al coltello

crudele. Voi, giovani lattonzoli che mi sedete dinanzi, voi tutti entro un

anno griderete per il fuggir della vita.” (Cap.1, pag.7-8)

Per la psicologia sociale un contributo importante è quello offerto da G.H. Mead

nel 1934. Partendo dall’analisi del comportamento sociale degli individui, l’autore

ricostruisce le tappe dello sviluppo dell’identità, che inizia nei primi anni di vita,

quando attraverso la relazione con gli adulti il bambino interiorizza una sorta di

"conversazione a gesti" ed impara a condividerne i l significato; sono i gesti e le

parole che si riferiscono proprio a lui, che hanno lui come oggetto. E’ questo

processo che dà origine al Sé, poiché il bambino impara gradualmente ad essere

consapevole di se stesso, a riconoscersi come diverso e separato dagli altri,

acquistando un’individualità via via sempre più precisa. Quindi il Sé e la Mente

non esistono alla nascita, ma sono il frutto delle relazioni e dell’esperienza sociale;

lo sviluppo dell’identità è quindi favorito dalla qualità delle relazioni familiari,

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dai gruppi di riferimento, dalle istituzioni che accolgono il bambino nel corso

dello sviluppo.

Il gioco dei bambini ha una funzione costruttiva in questo processo; il gioco “libero” è

quello in cui il bambino gioca “a qualcosa”, al poliziotto, alla mamma, alla maestra

assumendo ruoli diversi; spesso gioca considerando se stesso un personaggio, per

esempio quando “si offre un dolce” o “si parla” come se fosse una seconda persona;

possiamo dire che queste sono le prime dimostrazioni dell’aver compreso che nel

mondo sociale esistono altri individui, quasi delle comparse nella sua attività

rappresentativa. Il discorso cambia quando il gioco da libero diventa “organizzato”; ci

sono ruoli precisi da ricoprire in accordo con i compagni, ci sono regole da rispettare

reciprocamente, non è più sufficiente trattare gli altri come comparse, ma occorre

riconoscere loro un ruolo di attori, accettando la loro visione del gioco. Mead parla a

questo proposito della necessità di assumere la prospettiva di un “Altro

generalizzato”, cioè del gruppo o della comunità sociale cui il bambino appartiene, in

questo modo il bambino diventa un membro cosciente nel gruppo dei compagni e, più

in generale, della società.

E’ a partire da questa tappa importante che il Sé del bambino inizia a costruirsi come

oggetto, riconoscibile nel tempo e nelle situazioni; in esso si possono riconoscere due

aspetti diversi, in costante dialogo fra loro:

- l’Io che rappresenta il Sé come soggetto vero e proprio; è la parte creativa del Sé,

quella capace di modificarsi in relazione agli altri,

- il Me che rappresenta il Sé come oggetto; è la parte che raccoglie i giudizi ricevuti

dagli altri sull’Io.

L’articolazione fra le due componenti ne rispetta le specificità; il Me indirizza l’Io

verso i comportamenti più adeguati nelle diverse situazioni; l’Io possiede le risorse

per porsi agli altri in modo tale da far variare anche i reciproci giudizi.

L’identità è la nozione che offre al Sé la dimensione spazio-temporale: sono e resto

me stesso nel tempo ( quando ero piccolo, l’anno scorso e l’anno che verrà) e nello

spazio (a casa, a scuola, con gli amici).

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La conoscenza di Sé è poi diversa dalla consapevolezza di Sé; il secondo termine

indica un livello di elaborazione cognitiva superiore al primo, poiché implica “sapere

..di sapere chi sono”! In altre parole la consapevolezza di Sé entra in gioco quando

dobbiamo fermarci a riflettere su noi stessi, sulle nostre idee e sulle nostre azioni.

La conoscenza di Sé, invece, si articola attraverso diverse componenti, tutte del

medesimo livello:

- la percezione di sé, con le proprie caratteristiche individuali, fisiche e psichiche;

- la rappresentazione di sé, legata al riconoscimento fisico;

- il concetto di sé, comprendente ciò che ogni soggetto conosce su se stesso anche in

relazione al giudizio degli altri;

la presentazione di sé, relativa alle caratteristiche che ogni individuo sceglie di “far

conoscere” agli altri nelle diverse situazioni sociali.

Per fare un esempio, pensiamo alle persone che subiscono un serio intervento di

chirurgia plastica al volto: la conoscenza di Sé ne viene inevitabilmente riorganizzata,

poiché cambia la percezione e la rappresentazione di sé, tanto che spesso dopo

l’intervento i soggetti dichiarano “di non riconoscersi più”.

Vorremmo richiamare il lettore sull’eco che la prospettiva psico-sociale di G.H Mead

può avere “nella parte di memoria in cui sono accatastate le informazioni sulla

psicologia”; diciamo questo in tono scherzoso perché è molto difficile immaginare a

priori le conoscenze che il pubblico può avere nell’ambito di un settore scientifico.

Chi ha studiato psicologia sarà riuscito a collocare “ al posto giusto” il pensiero di

Mead, ad altri saranno venuti in mente altri autori, per esempio Piaget, che ha studiato

nei medesimi anni il gioco dei bambini (i suoi figli!) ed ha individuato l’imitazione

differita come momento in cui ha inizio l’attività rappresentativa, caratteristica del

passaggio ad uno stadio di sviluppo seguente; ma attenzione, Piaget studia lo

sviluppo cognitivo, per lui il riconoscimento di se stessi è un’espressione di

intelligenza; oppure Freud, quando parla di Es, Io e Super Io, ma in questo caso siamo

di fronte ad una teoria dello sviluppo affettivo ed emozionale e non dell’identità.

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Ciò che ci preme sottolineare è che sul medesimo individuo possono coesistere più

teorie che lo riguardano; alcune teorie sono più individuali di altre, ognuna di esse

tratta un aspetto dell’individuo; parlare di un qualsiasi soggetto utilizzando una sola

teoria (o un solo approccio interpretativo) significa compiere un’operazione riduttiva;

la difficoltà del lavoro sociale risiede anche nella difficoltà di poter considerare gli

individui in una prospettiva longitudinale: ciò che io sono oggi va messo in relazione

con ciò che sono stato e con le mie aspettative sul futuro.

Naturalmente il dibattito scientifico sull’identità e sullo sviluppo del Sé, nei settanta

anni seguenti il contributo di G.H.Mead, si è arricchito di molti contributi importanti;

per esempio in ambito cognitivista 4 il Sé viene descritto come un sistema di

conoscenze reticolare, in grado di guidare l’elaborazione delle informazioni

provenienti dall’esterno e di immagazzinarle in memoria all’interno di un sistema di

rappresentazione concettuale centrato sul Sé; più è forte il legame fra l’informazione

raccolta e la rappresentazione di Sé, più rapidamente l’informazione entrerà a far parte

del “Chi sono io”. Facendo un esempio: se io so di essere una brava cuoca ed uso

questa informazione per rispondere alla domanda “Chi sono io?”, essere riuscita a

preparare una cena per venti persone sarà immagazzinata come “ complimenti ricevuti

dagli ospiti” e l’informazione potrà essere usata per confermare una caratteristica della

mia identità a cui tengo molto.

Vale la pena di sottolineare che, ancora una volta, gli approcci teorici non si

escludono a vicenda, ma lo sforzo dei ricercatori dovrebbe proprio essere quello di

favorirne l’integrazione.

4 Markus H., Sentis K.P. (1982) The self in social information processing, in J. Suls (a cura di) Psychological perspectives on the self, vol. I, Hillsdale (NJ) Erlbaum.

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SCHEDA 3

Ciao mamma, come stai?

Il brano seguente è tratto da un volume un po’ particolare, scritto da un agente della

Polizia di Stato che ha lavorato per un certo periodo di tempo a contatto con l’Ufficio

Minori della Questura di Bologna. Vi si raccontano le due facce della stessa

medaglia: la difficoltà degli agenti e dei minorenni nel cercare vie d’uscita in percorsi

di vita spesso segnati da tanti problemi. Chi scrive è un ragazzo di 17 anni, che ha

finto una falsa identità per abbandonare una famiglia in cui non si era mai sentito

accettato; affidato ai servizi sociali decide dopo qualche mese di scrivere alla madre:

“ Ciao mamma, come stai? Ti scrivo per farti sapere che sto benissimo e

che non mi manca niente. Vi sarete domandati dove sia finito e perché,

fini adesso non mi sono fatto sentire, con questa mia lontananza ti

dimostro che ormai so cavarmela da solo. Non potevo più vivere con voi,

stavo impazzendo: non venivo mai ascoltato e nessuno si curava dei miei

problemi (…) Io non riuscivo mai ad avere la mia tranquillità e non avevo

mai un momento per pensare a me stesso, tu sapendo dei miei problemi a

scuola dicevi che i problemi me li inventavo io e volevi avere per forza

ragione. Tutti mi dicevate che ero fissato, e poi gli stessi problemi al

lavoro per cui venivo trattato male in tutti i posti. (…) Crescendo si

cambia, sia il carattere che il modo di vedere le cose e si hanno altre

esigenze (…) Avevo il diritto di decidere della mia vita e ti parlavo delle

mie aspirazioni, tutti però mi scoraggiavate e mi dicevate di lasciare

perdere. Sono partito quella famosa mattina di primavera senza dire niente

in modo da non dover aver paura di essere trovato, era tutto premeditato.

Da mesi ci pensavo e ho aspettato per vedere se ci sarebbero stati dei

cambiamenti che non ci sono stati e ho preso la grande decisione. (…) Qui

vengo seguito da educatori e assistenti sociali che mi hanno fatto avere

una borsa lavoro in una fattoria che mi permette di lavorare dalle 9.00

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all’una e di andare a scuola la sera (…) a diciotto anni lavorerò in un

canile, che mi permetterà di essere indipendente e di gestire bene la mia

vita. (…) Questa gente ha influito molto sulla mia personalità, sono

cambiato come persona insicura ma sono un altro: non cammino più

rigido e quando vado per strada non mi sento più osservato come prima.

(…) Questa è la mia nuova vita….”

Il lettore è invitato a fare un esercizio ed a trovare traccia, nelle parole di questo

ragazzo, di quanto è stato detto a proposito della costruzione sociale dell’identità.

IL compito è piuttosto facile!

Nota: il brano è tratto da Matrone M. (1995) Poliziotti e minorenni. Bologna, Cleub,

pag. 66-67-68.

Anche gli animali della fattoria, dopo l’inizio della rivoluzione devono trovare una

nuova identità ed il primo passo riguarda l’abolizione degli abbellimenti a cui il

padrone li obbligava

“…Palla di Neve gettò pure sul fuoco i nastri con cui la signora Jones usava ornare

le criniere e le code dei cavalli nei giorni di mercato.

“I nastri – disse – vanno considerati come i vestiti che sono il segno dell’essere

umano. Tutti gli animali devono andare nudi.” (cap.2, pag.18)

Attenzione!

Per il discorso che qui ci interessa, cioè i preadolescenti, il tema dell’identità è

certamente da ritenersi di cruciale importanza; i cambiamenti che intervengono nella

vita dei ragazzi sono talmente dirompenti da richiedere più di una riorganizzazione del

Sé. Pensiamo al corpo che cambia quasi fino a non essere più riconoscibile, pensiamo

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al varco che nella loro vita si apre con lo sviluppo sessuale, pensiamo al passaggio

dalle scuole elementari alle medie inferiori e poi all’ingresso nelle scuole superiori;

nella loro esperienza quotidiana tutto cambia così rapidamente da dare la sensazione

di non avere punti fermi a cui aggrapparsi.

Ricordiamolo sempre, prima di trovarli “strani” o “diversi”!

4. Conoscere gli altri

Nella nostra vita di relazione, fatta di scambi sociali e di conoscenza vecchie e nuove,

ci interroghiamo molto spesso sulle persone con cui entriamo in contatto, cercando di

individuarne i gusti, le opinioni, i tratti di carattere, la fede politica o le intenzioni

messe in atto nei nostri confronti. Il percorso che porta dalla conoscenza generica di

“un altro “ diverso da noi è sempre un processo appassionante, costellato di conferme

e di delusioni, di sentimenti piacevoli e di dubbi, ma che la termine offre, come

premio, la possibilità di stabilire una relazione sufficientemente sicura con un ex-

sconosciuto che ne frattempo è diventato una persona che riteniamo “di conoscere”.

Nella Fattoria Padronale, trasformata in Fattoria degli Animali, tutti si conoscono

abbastanza bene:

“..tutti lavoravano secondo la loro capacità (…) Nessuno schivava o

quasi nessuno. Mollie, è vero , stentava ad alzarsi al mattino e aveva un

modo tutto suo di lasciar presto il lavoro (…) E il comportamento del

gatto aveva pure qualcosa di strano. Fu presto notato che quando c’era

lavoro da fare il gatto era introvabile. Spariva per ore intere (…) ma

portava sì eccellenti scuse e faceva le fusa tanto gentilmente che era

impossibile non credere alle sue buone intenzioni…” (Cap.3, pag.25)

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Nei fatti, però, le cose non vanno sempre via lisce, perché il tempo a nostra

disposizione per la conoscenza dell’altro è spesso molto scarso e la verifica delle

nostre ipotesi può avvenire solo a distanza di mesi se non addirittura di anni.

Quando gli individui cercano di sistematizzare le informazioni che possiedono su

aspetti della realtà, nel caso specifico con le persone, elaborano i dati a disposizione

cercando di dare loro coerenza, utilizzando anche indicatori che derivano

dall’esperienza individuale e collettiva.

Infatti c’è chi non si fida dei cambiamenti; quando nella Fattoria i maiali fondano i

”Comitati di Rieducazione dei Compagni Selvatici” scoprono che non è poi così facile

rieducare, perché le bestie selvatiche

“..continuavano a comportarsi come prima, e, se trattate con generosità,

non facevano che approfittarsene. Il gatto si unì al “Comitato di

Rieducazione” e per qualche giorno si mostrò molto attivo. Lo si vide una

volta seduto sopra un tetto mentre arringava dei passeri che erano al di

fuori della portata delle sue grinfie. Diceva loro che tutti gli animali

erano ora compagni e che qualunque passero avrebbe potuto adesso

venirsi a posare sulle sue zampe; ma i passeri si mantennero a rispettosa

distanza” (Cap. 3, pag.27 )

Il processo di categorizzazione è un modo per organizzare la propria esperienza

sensoriale, cognitiva e sociale.

Gli elementi che appartengono ad una categoria fanno riferimento ad un prototipo in

essa contenuto, che possiede il maggior numero di caratteristiche comuni a tutti gli

altri elementi.

Per quanto riguarda le categorie di persone e le relative immagini prototipiche , le

caratteristiche comunemente rilevate si riferiscono all’aspetto fisico, al

comportamento ed ai tratti di personalità come la gentilezza, l’accuratezza o l’incuria.

Per esempio, gli attributi che costituiscono il prototipo della “segretaria” differiscono

18

da quelli del prototipo di “artista” non solo immaginandone l’aspetto fisico (portare o

non portare una divisa) ma anche dovendone immaginare la casa (ben curata – in

disordine), le abitudini nel tempo libero ( palestra – serate di teatro d’avanguardia), i

gusti e le preferenze.

La capacità di attribuire un elemento ad una categoria dipende quindi dalla maggiore

o minore congruenza dell’elemento con la nostra esperienza relativa al prototipo della

categoria stessa; le conoscenze contenute in una categoria sono poi organizzate

gerarchicamente, sistemate in classi e legate da rapporti di inclusione.

Alcune caratteristiche di un elemento hanno poi una rilevanza maggiore nel processo

di categorizzazione, poiché permettono di decidere più velocemente se l’esemplare in

esame appartiene alla categoria; inoltre i confini fra una categoria ed un’altra sono

molto influenzati dal contesto sociale e culturale in cui si trova il soggetto che deve

decidere. Per esempio una ricerca condotta nell’ambito della psichiatria5 ha mostrato

come gli psichiatri tendano ad avere immagini prototipiche molto ricche circa alcuni

pazienti, come i maniaco-depressivi, usando però una serie di caratteristiche che

derivano loro dalle definizioni presenti nei manuali di psichiatria; la categorizzazione

in questo caso è quindi il prodotto di una ridefinizione di tipo professionale e pratico,

guidato dalla conoscenza e dall’esperienza.

Per quanto riguarda più direttamente le persone, ci viene i aiuto la nozione di schema

di persona, inteso come l’insieme delle conoscenze relative ad fenomeno sociale;

questa struttura può funzionare come un modello di riferimento per un particolare

aspetto della realtà e permette quindi di riconoscere nelle nuove informazioni le

caratteristiche che le fanno appartenere a schemi diversi.

Ogni schema ha una parte costante, che definisce le caratteristiche costitutive del

concetto a cui si riferisce, ed una parte che può variare.

Facciamo un esempio: quale può essere lo schema riferito al concetto di “pompiere”?

Un uomo, fra i trenta ed i quarant’anni, muscoloso, che non ha paura ne dell’acqua ne

5 Cantor e col. (1980) in Arcuri L. (1985) Conoscenza sociale e processi psicologici. Bologna, Il Mulino.

19

del fuoco ne di salire sulle scale ad altezze vertiginose; ora vediamo invece la parte

dello schema che può variare: indossare una bella divisa arancione, trovarsi in mezzo

alle fiamme o su una barca, dirigere i getti d’acqua sulle fiamme o recuperare dai tetti

delle case gli alluvionati.

Inoltre quando le informazioni raccolte su una persona sono lacunose, lo schema offre

la possibilità di completare i dati mancanti.

Continuiamo l’esempio precedente: se vediamo una uomo, con una bella divisa

arancione e l’elmetto salire una scala appoggiata ad un palazzo e dirigersi verso una

finestra da cui esce fumo….attiviamo lo schema del pompiere e….gli attribuiamo la

caratteristica di saper governare la paura!

Le persone con cui entriamo in contatto equivalgono, per i nostri processi cognitivi,

ad unità concettuali, poichè vi confluiscono un gran numero di informazioni; questo

significa che, per esempio, nel ricordare una serie di eventi le persone in essi coinvolti

fungono da indicatori e ci permettono di effettuare le prime categorizzazioni (siamo a

casa – al lavoro; la discussione era accesa – pacata; ero d’accordo –in disaccordo).

Inoltre alcune ricerche hanno indicato come il potere diagnostico delle informazioni,

nei termini di organizzazione gerarchica delle conoscenze e di funzione-guida nello

schema di persona costruito a partire dalla produzione di ipotesi sugli individui, sia

maggiore se si parte da tratti a valenza negativa, in quanto sono soprattutto i

comportamenti percepiti come “anormali” dall’osservatore ad essere considerati

indicativi di caratteristiche individuali negli osservati. In altre parole il

comportamento aggressivo di un ragazzino potrebbe essere considerato come una sua

caratteristica “innata”: è solo lui che…; è il suo temperamento..; è l’unico della

famiglia che…..!

(Attenzione! Si vada a confrontare la scheda 6 sull’aggressività!)

Però la variabilità presente nella vita di tutti i giorni è tale che spesso noi manchiamo

degli schemi interpreatativi adeguati, per cui dobbiamo compiere ulteriori processi di

20

generalizzazione , come le inferenze di tipo causale, a cui facciamo ricorso quando

cerchiamo di individuare le origini di un fenomeno, per poi tentarne una spiegazione.

In molte situazioni quotidiane, dovendo fare scelte, esprimere giudizi o gestire un

evento sociale per noi nuovo, siamo costretti a far ricorso ad alcune procedure

semplificate di ragionamento dette euristiche.

Quando dobbiamo decidere se un individuo appartiene o meno ad una categoria

professionale (quest’uomo è un pompiere sì o no?) possiamo utilizzare l’euristica

della rappresentatività, valutando in quale grado la persona che abbiamo di fronte

possieda le caratteristiche salienti della categoria (è maschio; è muscoloso; ha la

divisa..) e quindi vi appartenga.

Un’altra euristica comunemente utilizzata è quella della disponibilità, una strategia

che permette di prevedere, per esempio, il comportamento di una persona a partire

dalle informazioni sulla categoria già possedute (è un pompiere, quindi si comporterà

come tutti gli altri pompieri che ho visto all’opera..).

Trattandosi, come è già stato detto, di procedure semplificate di tipo empirico, le fonti

d’errore sono naturalmente molto numerose utilizzando entrambe le strategie e per

quanto riguarda l’euristica della disponibilità alcuni studi hanno mostrato come venga

frequentemente utilizzata in modo tendenzioso soprattutto se ci viene chiesto di

esprimere un giudizio di natura sociale

Da un alto, coerentemente col fatto che la nostra attenzione è attratta in modo selettivo

dagli stimoli inconsueti, rispetto alle persone che per qualche ragione si trovano in una

condizione di maggiore visibilità, è possibile che si verifichi una sovrastima delle

loro qualità, per esempio la partecipazione all’evento, dovuta in realtà al maggior

numero di informazioni raccolte e disponibili per essere utilizzate; dall’altro lato c’è il

problema della valutazione dell’altro espressa in una situazione che mette in gioco

anche la valutazione di noi stessi o del nostro operato, quindi la sovrastima potrebbe

in questo caso avere una valenza fortemente egocentrica e riguardare solo l’evidenza

di aspetti negativi.

21

Queste tendenze sistematiche all’errore sono indicate con il termine inglese bias; essi

agiscono in tutte le fasi del processo inferenziale, partendo dal momento in cui

raccogliamo informazioni su cui elaborare ipotesi e giudizi, perché anche la scelta di

una particolare teoria di riferimento (L’intelligenza di un alunno è un dono di natura o

è una potenzialità che si sviluppa?), funzionante come una griglia di riferimento per

scegliere le informazioni adeguate a verificarla, può essere un grave errore iniziale,

che rende tendenzioso il processo di attribuzione di un giudizio.

SCHEDA 4

Chi lavora di più in casa?

In una ricerca condotta da Ross e Sicoly (1979) è stato affrontato il problema dei bias

egocentrici utilizzando il problema dell’attribuzione di responsabilità fa i coniugi.

Sono state esaminate le risposte di 37 coppie di coniugi date ad un questionario in

cui ognuno dei due doveva graduare su di una scala la quantità di responsabilità

attribuita a se stesso nello svolgimento di venti attività domestiche, oltre

all’indicazione del modo in cui egli stesso ed il proprio partner contribuivano

all’esecuzione dell’attività in esame. Considerando ogni coppia come unità d’analisi

gli Autori hanno individuato una precisa tendenza verso la sovrastima personale, sia

per quanto riguarda la responsabilità sia per l’impegno individuale.

In altre parole è possibile che un’attenzione diversa al proprio comportamento porti

ad una maggiore disponibilità dell’informazione nel momento del recupero.

Infatti la conoscenza di noi stessi è un processo di natura esperienziale, interpretabile

anche in termini di schema e quindi articolato in ricordi, comportamenti, aspettative e

giudizi.

(Attenzione! Rivedere gli aspetti relativi alla costruzione dell’identità nel paragrafo 3)

E chi provasse a fare la domanda a due genitori a proposito del figlio (responsabilità,

impegno, attività…)?

22

Il risultato sarebbe interessante e dovrebbe farci riflettere quando ascoltiamo ciò che le

persone ci raccontano; raramente mentono consapevolmente, più spesso hanno delle

distorsioni di giudizio, così come accade a noi in circostanze analoghe.

Sono meccanismi cognitivi che esistono, funzionano in ognuno di noi, devono solo

essere conosciuti per contenerne gli effetti

Nota: i l lavoro di Ross e Sicoly (1979) si trova citato in Arcuri L. (1985) Conoscenza sociale e processi psicologici. Bologna, Il Mulino.

5 . Gli atteggiamenti sociali

Qual è il mio atteggiamento verso lo studio? Dipende!

Per esempio, poiché mi piace molto leggere e scrivere, mi piacciono i testi di storia e

di letteratura, non mi piace il latino perché non lo capisco, della matematica mi

piacciono solo i problemi. Questa potrebbe essere una risposta data da un ragazzino

qualsiasi interrogato sulla scuola frequentata e sulle abilità di studio.

Il termine atteggiamento non è stato ancora definito, ma nessun lettore avrà

sicuramente avuto dubbi interpretativi.

Cos’è un atteggiamento? Sono giudizi valutativi che derivano da informazioni di

natura cognitiva (cosa penso), affettive ( mi piace-non mi piace) e comportamentali (

cosa ho fatto in passato – cosa farò in futuro); si esprimono nei confronti di un oggetto

sociale esterno al soggetto ed hanno una funzione regolatoria del comportamento

individuale.

Avere un atteggiamento significa quindi mettere in atto una valutazione (favorevole o

sfavorevole) nei confronti di oggetti, persone, gruppi, ideologie e via di questo passo.

Si potrebbe fare una semplice simulazione: occorrono alcuni amici riuniti a cena

attorno ad un tavolo ed il padrone di casa che introduca nella conversazione un tema

di grande attualità. Poi sarà sufficiente seguire il concatenamento dei discorsi

:atteggiamenti favorevoli e sfavorevoli saranno sostenuti da argomentazioni logiche

23

(ho sempre pensato che…), passeranno rapidamente ad esprimere punti di vista

personali (a me fanno molta paura…), si concluderanno con indicazioni sul

comportamento (io fare…); la serata si potrebbe intitolare “A cena con gli

atteggiamenti!”

Poi i maiali decidono di costruire un mulino a vento, per fornire l’energia elettrica

alla fattoria

“..Tutta la fattoria era profondamente divisa a proposito del mulino a

vento. Palla di Neve non negava che la sua costruzione sarebbe stata

difficile (…) E dopo, dichiarava, si sarebbe risparmiato tanto lavoro che

gli animali non avrebbero avuto bisogno di affaticarsi che tre giorni alla

settimana. D’altra parte Napoleon dimostrava che la grande necessità del

momento era quella di accrescere la produzione dei viveri (…) Gli

animali si divisero in due fazioni (…) Benjamin fu l’unico che non

parteggiasse né per l’una né per l’altra fazione (…) Mulino o non mulino,

diceva, la vita andrà avanti come è sempre andata, cioè male. (Cap.5,

pag.44)

Nessuno di noi è esente da atteggiamenti positivi e negativi, che nell’esperienza

individuale sono molto importanti essendo:

- un’eco del processo di socializzazione, un po’ come dire che gli atteggiamenti “si

imparano in famiglia”; a parte gli scherzi, condividere gli atteggiamenti verso

determinati oggetti sociali è anche uno strumento di coesione dell’individuo nel

suo gruppo di riferimento, sia esso famiglia, scuola, lavoro o altro;

- una tendenza a valutare “nello stesso modo” e quindi sul piano cognitivo sono un

indicatore di maggiore o minore flessibilità nell’accettare i cambiamenti;

- uno strumento di conoscenza sociale, in quanto influenzano i processi di memoria

e di giudizio;

24

- un modo per consolidare l’immagine di sé, nel senso che l’oggetto

dell’atteggiamento può essere un’idea politica, un valore etico-morale, un ideale

civile o religioso;

- un elemento che indirizza il comportamento sociale, una predisposizione ad agire

a favore o contro qualcuno o qualcosa.

Forse non tutti siamo consapevoli del fatto che gli atteggiamenti si costruiscono in

ognuno di noi anche solo per “essere stati esposti” all’influenza dei mezzi di

comunicazione; per esempio, quando un fatto di cronaca cruento viene trattato con

molta rilevanza da giornali e televisione, quando vengono riportate sistematicamente

le interviste con i diretti interessati, con le madri dei bambini scomparsi, con i parenti

delle vittime e degli accusati, ognuno di noi acquista sempre maggiori informazioni

sul fatto accaduto ed inizia a farsi un’idea del fatto (cosa penso), a cui si unisce una

componente affettiva ed emotiva (sono inorridito) ed una comportamentale (se

accadesse a me io..).

Inoltre se si possiede un esperienza diretta dell’oggetto sociale, l’atteggiamento è più

preciso e radicato nell’individuo, che lo difende con maggiori argomentazioni.

Attenzione!

Da questo momento in avanti cercheremo di focalizzare il discorso sui preadolescenti,

poiché come abbiamo visto gli atteggiamenti sono il risultato di una costruzione

sociale che inizia molto precocemente, forse oggi più precocemente di ieri se

pensiamo, tanto per dirne una, a quanto i nostri ragazzini “sono esposti” alle fonti

d’informazione.

Come può comportarsi un ragazzino di fronte ad un atteggiamento radicato in famiglia

o nel gruppo dei pari?

Può accettarlo senza riflettere, per acquiescenza, senza interrogarsi molto su ciò che

lui pensa; è un modo per mostrare un accordo, spesso più di sola facciata, con le

persone che lo circondano.

Oppure il ragazzino può identificarsi con chi esprime l’atteggiamento, arrivando a

“pensarla come lui” e questo si verifica quando è fondamentale mantenere la relazione

25

con la fonte dell’atteggiamento, sia essa un familiare, un adulto significativo (un

professore, un capo scout, un religioso, un capo clan), un amico; in questo caso

l’atteggiamento è stabile e manifestato dal soggetto senza incertezze.

In altri casi si ha un’interiorizzazione dell’atteggiamento, quando il ragazzino sulla

base delle informazioni raccolte rivede i propri atteggiamenti e colloca quello nuovo

in continuità o discontinuità con i precedenti, compiendo una riflessione socio-

cognitiva che riorganizza l’intero sistema.

Va da sé che in questo processo si possono generare molte situazioni conflittuali;

possono essere conflitti interpersonali, quando per esempio gli atteggiamenti trasmessi

in famiglia sono in contrasto con gli atteggiamenti manifestati dal gruppo dei pari;

possono essere di natura intra-individuale quando per esempio l’esperienza diretta

dell’oggetto ne mette in discussione l’atteggiamento.

Immaginiamo una situazione: l’atteggiamento della famiglia verso la scuola è sempre

stato positivo ed il comportamento dei genitori improntato all’interesse; il ragazzino

va alle scuole medie e capita (il termine indica proprio la grande casualità

dell’inserimento!) in una sezione dove:

a – gli alunni sono moto numerosi

b – sono stati fatti tre o quattro inserimenti di ”alunni difficili”

c – c’è un enorme cambio d’insegnanti nel corso dell’anno

d – un professore si dimostra molto “amico” dei ragazzi e per “tenerli buoni” non dà

compiti, non interroga e fa discorsi sul fatto che “sarà poi la vita a premiare i

migliori”.

Il nostro ragazzino finisce col mettere in discussione il proprio atteggiamento verso la

scuola e lo studio; pensava che la scuola media (oggetto sociale) fosse una certa cosa,

gli piace di più o di meno di quanto si aspettava, come sceglie di comportarsi? Se si

mette a non far niente come gli altri entra in conflitto con la famiglia, ma se continua a

comportarsi come “se niente fosse” si mette in antitesi con il clima complessivo della

classe. Naturalmente la risoluzione di questi conflitti, personali e relazionali, può

essere migliore o peggiore in funzione dei diversi livelli delle variabili in gioco; se

l’atteggiamento raccolto in famiglia non è di sola acquiescenza allora la riflessione del

26

soggetto lo porterà comunque a mantenere il nucleo forte dell’atteggiamento, variando

solo un po’ il comportamento (“la scuola è importante, ma poiché non mi chiedono di

lavorare io mi adeguo”); in caso contrario potrebbe essere l’atteggiamento a

modificarsi (ho sempre saputo che la scuola non mi piace, quindi adesso posso non

fare niente).

L’esempio proposto è molto banale e semplicistico, ma il suo scopo è quello di far

riflettere il lettore su come ogni comportamento, anche il più deprecabile, possa

essere spiegato in vari modi e partendo da aspetti diversi dell’esperienza soggettiva.

Un’altra considerazione: nel paragrafo 2 abbiamo parlato di stili “autoritari” nella

conduzione dei gruppi; se provassimo a considerare la famiglia un piccolo gruppo così

come la classe? Genitori autoritari ed insegnanti autoritari, oppure democratici o

laissez-faire trasmettono i loro atteggiamenti ed i ragazzini……acquiescenza?

Identificazione? Interiorizzazione? Difficile fare una corrispondenza termine a temine,

però c’è spazio per riflettere!

SCHEDA 5

Atteggiamenti, valori, conflitti

Nel 1943 Newcomb studiò in un college americano il modo in cui si modificano gli

atteggiamenti in una situazione che vede l’influenza di gruppi di riferimento con

atteggiamenti e valori diversi. All’epoca della ricerca il college era frequentato quasi

esclusivamente da studenti bianchi, protestati, di elevato ceto sociale, provenienti da

famiglie conservatrici; il college aveva uno stile di vita molto democratico, in cui

erano favoriti i rapporti sociali e gli scambi fra studenti ed insegnati.

Il ricercatore fu colpito dal fatto che mentre le matricole dimostravano idee

conservatrici, gli studenti più anziani mostravano atteggiamenti liberal-democratici;

27

decise allora di seguire un gruppo di studenti dall’ingresso al college fino al diploma,

in una ricerca longitudinale ed utilizzando questionari ed interviste.

Nel gruppo studiato alcuni studenti dimostrarono un maggior cambiamento nei loro

atteggiamenti politici; si trattava degli studenti meglio integrati nella vita del college,

più rispettati dai loro compagni per le idee liberali professate, più distaccati dalla

famiglia rispetto alla quale avevano assunto una posizione di messa in discussione e di

indipendenza.

E gli altri? Quasi l’esatto contrario: più marginali nella vita di college, meno sicuri di

sé, più dipendenti dalla famiglia.

Come si può notare il cambiamento è spesso produttivo! Ciò che non sappiamo è il

modo in cui le famiglie d’origine abbiano accolto l’inizio di questo cambiamento, se

con disponibilità o chiusura, ma ancora una volta si coglie la stretta articolazione fra il

sociale e l’individuale.

Nota: il brano è adattato da Trentin R. (1995) Gli atteggiamenti sociali, In L. Arcuri

Manuale di psicologia sociale, Bologna Il Mulino.

Newcomb T.M (1943) Personality and social change:attitude formation in a student community. New York, Rinheart & Winston.

Per ragioni di correttezza, non conoscendo personalmente i lettori e quindi per non

offendere in nessun modo il loro punto di vista, gli esempi che abbiamo fatto fino ad

ora sono stati volutamente “neutri”, hanno riguardato oggetti sociali (come la scuola)

su cui esprimere un atteggiamento non richiama più di tanto la sfera dei valori e delle

ideologie. Però non possiamo non parlare anche di questo, infatti le ideologie vengono

considerate concezioni generali sul mondo sociale da cui derivano gli atteggiamenti.

Pensiamo alla pena capitale: siamo favorevoli o contrari ? E l’Aids è solo una

terribile malattia o una sorta di punizione per aver avuto comportamenti sessuali

discutibili?

Pensiamo alle ondate di immigrazione nel nostro paese: abbiamo mai avuto

atteggiamenti razzisti? Quando e per chi in particolare?

28

Ed infine politica liberale o conservatrice?

Senza parlare poi dei pregiudizi, cioè di un atteggiamento sfavorevole che tende ad

essere rigido e stereotipato, che induce forti emozioni e che difficilmente si modifica

anche di fronte all’evidenza fornita da informazioni contrarie a quelle possedute dai

soggetti. Per fare un esempio, su una scala a 7 punti (1= assolutamente in disaccordo ;

7 = assolutamente d’accordo) provate a rispondere all’affermazione

“Manderei via dall’Italia gli zingari perché sono tutti ladri”

Poi provate a discutere dell’argomento con chi ha segnato un punteggio pari a 6 o 7!

Ad ogni argomentazione favorevole controbatterà con una contraria e di fronte ad caso

concreto, magari anche da lui ben conosciuto, lo liquiderà con la frase “E’ l’esempio

che conferma la regola!”.

D’altro canto il pregiudizio che più orrore ha prodotto negli ultimi decenni è

sicuramente quello razziale, dal quale nessun paese è stato indenne; anche oggi

esistono forti pregiudizi soprattutto nei confronti delle classi sociali più deboli e

svantaggiate ( di cui gli immigrai sono solo una parte!)

Lasciamo al lettore la riflessione, ma ricordiamo che al centro di essa dovrebbe essere

posto un preadoloscente: quale differenza di atteggiamento possiamo trovare nei

confronti di un ragazzino un tunisino o verso i compagni di nostro figlio? Essere

sieropositivi non è certo una colpa, ma lasceremmo giocare nostro figlio con un

ragazzino sieropositivo?

Domande senza risposta…risposte che generano domande!

6 . L’amicizia

Nella Fattoria degli animali, preparando la rivoluzione, ci si interroga su chi siano gli

amici ed i nemici

29

“… e fra voi animali ci sia perfetta unità di vedute, solidarietà perfetta in

questa lotta. Tutti gli uomini sono nemici. Tutti gli animali sono

compagni”. Avvenne qui un tremendo scompiglio. (…) Il Vecchio

maggiore alzò la zampa per imporre il silenzio.

“Compagni – disse – ecco un punto che deve essere chiarito. Le creature

selvatiche come i topi e i conigli sono nostri amici o nostri nemici?

Mettiamo la questione ai voti. Propongo all’assemblea il seguente

quesito: i topi sono compagni? (Cap.1, pag. 9)

Essere amici significa “condividere” un parte della vita: i divertimenti, le confidenze, i

drammi; vuol dire aiutarsi, non pensare solo a se stessi, a volte anche soffrire o

rischiare in prima persona.

Ma cosa si può definire come amicizia in campo psicologico? Cosa cambia nelle

diverse età della vita?

Attenzione!

Cercheremo di focalizzare il discorso sui preadolescenti, offrendo soprattutto esempi

su di loro; ovviamente gli studi sull’amicizia sono molti di più e riguardano tutte le

fasce d’età!

Come si può rispondere alla domanda “Cosa mi aspetto da un amico”?

I bambini (6-9 anni) col crescere dell’età ne danno una risposta in termini di :

- “stare insieme”: mi aspetto che il mio migliore amico giochi con me, che passi il

suo tempo con me ( i soggetti più giovani);

- “regole”: mi aspetto che il mio amico rispetti come me le regole del gioco, che

condivida le idee sulle cose giuste e su quelle sbagliate; le caratteristiche del mio

amico sono la simpatia, la generosità, i modi gentili, non aggressivi;

- “empatia”: mi aspetto che il mio amica mi capisca, che condivida i miei sentimenti

e le mie emozioni; un amico mi deve piacere, mi deve parlare dei suoi problemi,

divertirsi con me.

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Come si può notare si passa dal bisogno di “stare insieme” al bisogno di

“comprensione”; non si tratta però di un percorso rigidamente evolutivo, quanto

piuttosto di una sistematizzazione dell’argomento, nel senso che le tre modalità

relative all’amicizia coesistono anche negli adulti, perché certo un amico mi deve

capire, ma per questo mi piace passare del tempo con lui.

Relativamente invece al modo in cui “si diventa amici”, mentre i bambini più piccoli

(6-7 anni ) sostengono che anche due estranei possono diventare amici se “trascorrono

molto tempo insieme” i preadolescenti sostengono invece che occorre prima scoprire

delle somiglianze fra le persone, stabilire delle relazioni di reciprocità che diventano

la base per far nascere un’amicizia; queste relazioni sono fondamentalmente :

condividere attività, interessi e sentimenti personali.

Inoltre vengono spesso scelti come amici i ragazzini percepiti come “più simili a sé”,

e quindi percepiti già in partenza come più disponibili.

SCHEDA 6

L’aggressività: fattore innato o acquisito?

Aggressività è un termine di cui si fa un largo uso, ma non sempre lo si utilizza per

indicare il medesimo fenomeno; si va dal bambino di asilo nido che morde

ripetutamente i compagni, si passa dai piccoli “bulli”, si arriva all’adulto “emergente”

con un atteggiamento aggressivo nei confronti dei colleghi. Come riassume Caprara

(1995), utilizzando il contributo di vari autori:

“.. geni ed ambiente interagiscono fin dal concepimento assicurando all’organismo

non solo di piegarsi alle esigenze dell’ambiente, ma di agire profondamente su di

esso. Anche per il biologo le varie fonti di aggressione, come ogni altra

manifestazione comportamentale, si iscrivono e trovano senso nel “dialogo continuo

tra l’organismo e l’ambiente”

Ancor più oggi che in passato, i progressi della biologia e della genetica avvalorano

la convinzione che “non vi è alcuna evidenza fisiologica a favore di una stimolazione

31

alla lotta spontanea emergente all’interno dell’organismo” e che “ non è la natura

dell’uomo, ma il modo in cui l’uomo viene cresciuto in questo mondo che richiede la

nostra attenzione” (1)

Quindi, in questa prospettiva i comportamenti aggressivi nell’uomo e nel bambino

non sarebbero mai prodotti “dall’istinto di sopravvivenza” o dalla forza della

“selezione naturale”, quanto piuttosto dai contesti dello sviluppo e

dell’apprendimento; un ragazzino aggressivo non è quindi un soggetto che cerca di

affermare se stesso usando strategie ataviche, una sorta di “troglodita”

comportamentale, quanto piuttosto il risultato di una cultura nella quale l’aggressività

trova spazio in forma diverse, ideali, verbali e fisiche.

Seguendo un approccio psico-sociale occorre approfondire la dimensione dei rapporti

interpersonali che interessano un soggetto.

Facile partire dalla famiglia (genitori autoritari i cui figli hanno spesso comportamenti

aggressivi, ma anche genitori laissez-faire che non riescono a contenere l’aggressività

manifestata dai figli dentro le mura domestiche), più complesso è immaginare la

famiglia come un elemento di un sistema culturale che può fare della violenza, e

dell’aggressività come manifestazione diretta, un valore da rispettare; più triste

immaginare che fratelli, parenti amici possano più o meno intenzionalmente rinforzare

comportamenti aggressivi; umiliante ascoltare i dialoghi di alcuni uomini adulti, e

quindi anche di alcuni ragazzini, quando parlano del genere femminile o di chi fatica

a trovare un’dentità di genere; irritante assistere a quanto si verifica in classe se un

“maschio” non ama giocare a pallone oppure non gradisce i giochi fisici e preferisce

giochi tranquilli, anche in compagnia delle femmine.

Ma la cultura è un prodotto sociale e noi tutti vi contribuiamo attivamente ed anche

passivamente, lasciando che le cose accadano senza intervenire; inoltre su questi

aspetti gli adulti sono spesso ambivalenti, poiché allo stadio “possono sfogarsi” e

dirne di tutti i colori, magari in presenza dei figli, ai quali raccomandano la mattina

dopo “di non dire parolacce e di ascoltare i professori”.

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(1) Caprara G. V. (1995) Aggressività ed altruismo, in L. Arcuri Manuale di psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, pag.347. Il brano riportato contiene la citazione di altri autori (Karli 1984; Scott 1958; Montagu 1968) per i quali rimandiamo al testo originale.

Seguendo un approccio diverso, lo studio dell’amicizia si inserisce nell’ambito degli

studi relativi al processo di socializzazione, poiché entra a far parte di quella che

Corsaro6 definisce “Cultura dei coetanei” e cioè un insieme stabile di attività, valori,

interessi ed obiettivi comuni che i bambini condividono nel corso delle interazioni con

i coetanei.

Con questa prospettiva più contestuale e meno propensa ad individuare “tappe

forzate” nello sviluppo dei bambini, è possibile cogliere come attraverso le relazioni

di amicizia passino i conflitti ed i cambiamenti che interessano in modo radicale le

prime età della vita; non si tratta di un gioco di parole per non usare il termine

“adolescenza”, che ovviamente risuona tra le righe, ma di un’attenzione di chi scrive a

non guidare il lettore verso conclusioni affrettate. I conflitti sono caratteristici di ogni

età della vita; in alcuni periodi, fra questi l’adolescenza, si intensificano e spesso

contrappongono il ragazzo alle regole della famiglia e della società; per gli adulti sono

episodi “più salienti”, tutti i genitori se li aspettano, nei discorsi di tutti i giorni

l’adolescenza è descritta più in termini di conflitti che di acquisizioni. Ovviamente il

rapporto fra le due componenti è di maggiore equilibrio e l’adolescenza non è solo

“un età difficile”.

Riprendendo il filo del discorso, il primo indicatore di cambiamento anche nei

rapporti di amicizia è la separazione tra i sessi, che culmina nei preadolescenti per poi

ricomporsi in seguito; i gruppetti di amici ed amiche si incontrano o si sfiorano dentro

e fuori dalla scuola, ma soprattutto discutono al loro interno.

Di cosa discutono? Fanno pettegolezzi sugli assenti, dimostrando così anche quanto

sia forte per tutti il bisogno di stare fisicamente insieme ( le ricerche dicono che

6 Corsaro W.A., Eder D. (1990) Children’s Peer Cultures, American Review of Sociology, 16, pp.197-200. Il tema è approfondito in: Carugati F., Selleri P (19959 Il processo di socializzazione. In L. Arcuri Manuale di psicologia sociale, Bologna, Il Mulino.

33

questo riguarda di più le ragazzine….), si raccontano più e più volte gli episodi

accaduti a scuola, accompagnati dai loro commenti e dalle valutazioni sui professori

(costruiscono il loro significato dell’esperienza scolastica), confrontano le diverse

regole familiari per individuare strategie di negoziazione con i genitori (mettono in

discussione le regole e l’autorità degli adulti).

Essere amici implica quindi anche la capacità di adattarsi progressivamente ai

cambiamenti e questo compito è facilitato dal rispetto guadagnato presso gli altri e

dalla sicurezza sulla propria identità (Confronta con il paragrafo 3!).

In altre parole ciò che conta è possedere uno status sociale positivo, godere per

esempio di popolarità far i compagni, al contrario esistono ragazzini marginali se non

addirittura rifiutati; su quest’ultimo tema si può addirittura parlare di una “carriera”

dei ragazzi marginali, che sono tali fin dalla scuola elementare e così restano negli

anni successivi. In questi bambini si trovano spesso due caratteristiche, in alcuni casi

associate pericolosamente fra loro: la scarsità di abilità sociali (entrare nei giochi,

saper negoziare, argomentare…) e comportamenti più o meno aggressivi.

Sono frequentemente questi ragazzini marginali a preoccuparci di più, perché in loro

temiamo di riconoscere i “sintomi” di problemi futuri o di devianza; ma

ripercorriamo un attimo il discorso fatto fino ad ora e chiediamoci dove sono gli

adulti.

Cosa dovrebbe fare un educatore quando si accorge delle scarse abilità sociali di un

bambino? Dovrebbe aiutarlo a costruirle.

Come, direte? Per esempio facendogli vedere in atto le routine di accesso ai giochi

(“se un gruppo di bambini gioca con la palla, l’ultimo arrivato non può inserirsi di

colpo, ma deve prima osservare, poi raccogliere la palla caduta, poi avvicinarsi

lentamente fino a quando non gli verrà consentito di partecipare”), anticipando cosa

può accadere se si fa prendere dalla rabbia e diventa aggressivo (“ se tu fai

questo…allora..); in altre parole accompagnando il bambino marginale nel suo

percorso di acquisizione di abilità sociali e di controllo dell’aggressività.

E non basta farlo una sola volta; i bambini marginali devono essere individuati

precocemente, osservati ed aiutati fin da piccoli, per evitare che si inneschino

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meccanismi “di carriera” (ricordate quanto è stato detto nel paragrafo 4 a proposito

delle euristiche nella costruzione del giudizio sugli altri? Se io penso che sia un

ragazzino prepotente….tutto ciò che accade mi serve per confermare la mia idea.. e

quindi la carriera è segnata!).

Comunque riconoscere i propri amici è difficile, anche nella Fattoria degli Animali; la

distinzione fra amici e nemici verrà poi riassunta dall’abile maiale Palla di Neve

in un’unica massima, e cioè …“Quattro gambe, buono; due gambe cattivo”. Ciò, disse, contiene il principio

essenziale dell’Animalismo. Chi si fosse bene imbevuto di tale massima sarebbe stato

al sicuro da ogni influenza umana…(Cap. 3, pag.28)

7 . I gruppi Nella Fattoria gli animali sono uniti nella lotta contro l’Uomo, oppressore e causa di tutti i mali; occorre però darsi delle regole:

“… Essi spiegarono che , con lo studio dei tre ultimi mesi, i maiali erano

riusciti a concretare i principi dell’Animalismo in Sette Comandamenti.

(…) I comandamenti furono scritti su un muro incatramato, a grandi

lettere bianche che si potevano leggere alla distanza di trenta metri.

Eccone il testo:

I SETTE COMANDAMENTI

1) Tutto ciò che va su due gambe è nemico 2) Tutto ciò che va su quatto gambe o ha ali è amico 3) Nessun animale vestirà abiti 4) Nessun animale dormirà in un letto 5) Nessun animale berrà alcolici 6) Nessun animale ucciderà un altro animale 7) Tutti gli animali sono eguali

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(Cap.2, pag.21)

Si deve a Kurt Lewin (confronta paragrafo 2) la definizione psico-sociale del gruppo,

intesa non solo come somiglianza o differenza fra gli individui che ne fanno parte, ma

come un insieme di soggetti legati da forme di interazione sociale; si tratta quindi di

un insieme che ha come forza l’interdipendenza dei suoi membri. Inoltre il gruppo

deve essere riconosciuto come tale da altri gruppi, deve quindi avere una sorta di

identità specifica, che metta in luce verso l’esterno le differenze e verso l’interno le

somiglianze.

I membri di un gruppo condividono un “destino comune”, che ne rappresenta la forza

dinamica.

Vediamo ora quali sono le dinamiche principali che attraversano i gruppi:

- lo status dei membri, cioè la posizione sociale che ognuno di essi occupa. I membri

di status più elevato sono coloro che godono di maggior rispetto, guadagnato con le

azioni in funzione del gruppo, quelli che “pensano” per il gruppo e dai quali gli altri

membri si aspettano che...si comportino in un certo modo, ma sempre per il bene del

gruppo;

- il ruolo dei membri, cioè la posizione occupata nella gerarchia; c’è l’ultimo arrivato

e quello che ha il ruolo “di guida”, a cui gli altri si rivolgono; c’è il “capro espiatorio”

con la funzione di raccogliere su di sé le dinamiche negative, c’è l’anziano e il saggio;

spesso i ruoli producono molti conflitti, ma servono anche a dare chiarezza e sicurezza

al gruppo;

- le regole e le norme del gruppo, in alcuni casi imposte ed in altri definite insieme;

hanno lo scopo di contenere le differenziazioni e le differenze interindividuali, per cui

dalle norme sul comportamento si può arrivare anche a quelle sull’abbigliamento; la

loro funzione è in ogni caso di coesione fra i membri;

- la comunicazione, per quanto riguarda i membri (centrali – periferici), lo stile

comunicativo ( più formale o informale), il gergo utilizzato (serve per

riconoscersi!).

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Attenzione!

Dopo queste poche righe varrebbe la pena che il lettore “si guardasse intorno”,

individuando un qualsiasi preadolescente ed osservandolo per un po’ di tempo,

raccogliendo un po’ di informazioni:

- quale scuola frequenta?

- Come si valuta nelle materie: bravo, mediocre, insufficiente?

- Chi sono i suoi migliori amici?

- Qual è il compagno più” ascoltato”

- In quale modo non potrebbe mai andare vestito a scuola?

- Qual è l’offesa più frequente che sente indirizzare a ragazzini di una scuola

diversa o di una razza diversa?

- Quando sta con gli amici, di cosa parlano più spesso?

Ovviamente non si tratta di un’indagine scientifica, ma della possibilità di prendersi

una pausa nello studio, per vedere se le cose lette e studiate fino ad ora … riguardano

veramente i preadolescenti. Inoltre occorre riflettere sul fatto che spesso i ragazzini

che incontriamo e che crediamo di conoscere appartengono a contesti molto ristretti:

se è nostro figlio è stato socializzato nella nostra famiglia e ne rispecchia in larga

misura le caratteristiche; se lo abbiamo incontrato in un centro ricreativo lo

osserveremo sempre in relazione alle caratteristiche di quel particolare contesto; se ci

siamo occupati di lui in quanto “a rischio” ci troviamo di fronte a casi estremi e le

caratteristiche del suo gruppo di appartenenza ci potrebbero essere sconosciute.

E’ vero ancora una volta che le euristiche possono venirci in aiuto (confronta

paragrafo4).. ma a questo punto nessuno di noi cadrebbe più ingenuamente in questo

trabocchetto.

Scheda 7

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La coerenza nei gruppi

Nel film Il verdetto di Sidney Lumet dodici giurati devono decidere sull’innocenza o

la colpevolezza di un giovane accusato dell’assassinio del padre; uno solo di essi

(interpretato da Henry Fonda) ha un dubbio e resistendo passivamente ai tentativi fatti

dagli altri undici per convincerlo riesce a far sorgere “il ragionevole dubbio” che

porta al verdetto di non colpevolezza (1) . Il comportamento di questo membro di un

gruppo certamente particolare (i giurati non si sono scelti, sono molto diversi fra loro,

hanno idee diverse ma hanno un destino comune che deriva da un principio etico-

morale) è improntato alla serietà, è risoluto, argomentativo, sicuro di sé; il suo ruolo è

identico a quello degli altri, ma il suo status cambia lentamente e “ viene ascoltato” ,

per la sua lucidità e per la sua coerenza. Serge Moscovici nel suo volume su influenza

sociale e il cambiamento (1976) afferma che la forza dei singoli o dei piccoli gruppi

(quindi delle minoranze!) va ricercato nel loro stile di comportamento, capace di

influenzare (Positivamente? Negativamente?) gli altri. Una minoranza deve avere una

posizione ben definita su di un problema, rimanendovi “fedele nel tempo”, resistendo

alla pressione della maggioranza.

E i nostri preadolescenti? Si possono formulare ipotesi sul perché, nei casi difficili,

non sia sufficiente spiegare che un certo comportamento è ”a rischio”, oppure che è

consigliabile non frequentare troppo una certa compagnia di amici? Il processo di

influenza nei gruppi è una dinamica molto sottile, ma potente; la fonte d’influenza

potrebbe essere anche negativa, con tutte le conseguenze del caso.

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Nota – Adattato da: Hewstone M., Stroebe W., Codol J-P., Stephenson G. (1988) Introduzione alla psicologia sociale, Tr. it Bologna, Il Mulino, pag.401.

I gruppi, in quanto entità sociale, ripropongono con alcune variazioni dei fenomeni

che si incontrano nei singoli; per esempio assistiamo a fenomeni di categorizzazione

verso gli “altri gruppi”:

- noi siamo studenti della scuola XYZ, nella quale andavano anche i nostri genitori

e molti di loro erano addirittura compagni di scuola poi hanno fatto il liceo

insieme;

- poi in un certo anno scolastico alla nostra scuola ne viene accorpata un’altra, che

si trova in un quartiere diverso.

- Allora NOI, che ci pensiamo in un certo modo e ci giudichiamo positivamente,

attribuiamo a LORO caratteristiche negative (sono peggio di noi, sono vestiti male

e peggio….), usiamo più facilmente stereotipi ed i pregiudizi;

- se ci mettono in competizione diventiamo aggressivi.

Nel famoso campeggio studiato da Sherif 7(1966), i due gruppi di ragazzini che erano

stati contrapposti sperimentalmente (Aquile contro Serpenti a Sonagli) riuscirono a

ridurre la loro ostilità intergruppo solo introducendo (in modo altrettanto

sperimentale) uno scopo sovraordinato. Venne chiusa la conduttura dell’acqua ed ai

ragazzi fu detto che avrebbero dovuto coordinare i loro sforzi per eliminare il

problema e permettere alla vacanza di continuare. I ragazzi lentamente iniziarono a

cooperare ed in poco tempo i reciproci giudizi negativi si attenuarono.

Ancora una volta ci sembra di poter dire che occorre conoscersi prima di dare giudizi

sugli altri.

7 Sherif M. (1966) Group conflict and cooperation: their social psychology. Londra, Routledge.

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Nella Fattoria degli animali, però, le cose stanno lentamente cambiando; le

regole dell’Animalismo, idea fondamentale del gruppo, subiscono lievi modifiche, che

gli animali sembrano non notare

“…Tuttavia gli animali furono turbati nell’udire che i maiali non solo

prendevano i pasti in cucina e usavano il salotto come luogo di

ricreazione, ma che anche dormivano nei letti (…) “Muriel – disse Berta

– leggimi il quarto comandamento. Non dice qualcosa in merito al non

dover dormire mai in un letto?”

(…) Muriel compitò “Dice: Nessun animale dovrà dormire in un letto con

lenzuola – annunziò finalmente (Cap. 6, pag. 57).

Poi fra scopi sovraordinati ( deve essere sempre costruito e ricostruito un mulino a

vento nei momenti di crisi!), adesione completa alla causa, individuazione di un capro

espiatorio, un giorno i comandamenti diventarono uno solo

TUTTI GLI ANIMALI SONO EGUALI MA ALCUNI ANIMALI SONO PIU’ EGUALI DEGLI ALTRI

Ed i maiali, seduti a tavola con i nuovi amici Uomini, non si distinguevano più dai

loro commensali.

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Bibliografia di approfondimento

1 - E’ utile cercare gli approfondimenti che più interessano riguardo ai temi della

psicologia sociale utilizzando alcuni manuali:

- Amerio P. (1995) Fondamenti teorici di Psicologia sociale. Bologna, Il Mulino.

- Arcuri L. (1995, a cura di) Manuale di Psicologia sociale. Bologna, Il Mulino.

- Zani B. (1995, a cura di) Le dimensioni della psicologia sociale. Roma, La

Nuova Italia Scioentifica.

2 - Notizie dettagliate sui lavori di Lewin si possono trovare in:

Marrow A.J. (1969) Kurt Lewin tra teoria e pratica, Firenze, La Nuova Italia,

1977.

3 - Un approfondimento dello sviluppo dell’identità si trova in :

Carugati, Palmonari, Cavazza (1999) Lo sviluppo dell’identità. In M.W.

Battacchi (a cura di) Trattato enciclopedico di psicologia dell’età dello sviluppo ,

Piccin Padova.

Identità ed etnia:

Cacciaguerra F. (1994) Il contagio razzista nei figli, Torino, Oasi Editrice.

4 – Sull’adolescenza:

Palmonari A. (1997, a cura di) Psicologia dell’adolescenza. Bologna, Il Mulino.

5- In generale, per leggere, passarsi il tempo e riflettere:

Potok C. (1999) Zebra ed altre storie. Milano , Garzanti.