Gruppi Multifamiliari - completa

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Tesi in: Gruppi Multifamiliari Facoltà di: Medicina e Psicologia: Psicologia, Pedagogia e Servizio Sociale Corso di laurea in: Scienze e tecniche psicologiche di valutazioni clinica nell’infanzia nell’adolescenza e nella famiglia Cattedra di: Psicodinamica di Gruppo Candidato: Fulvio Aquino Matricola: 1226217 Relatore: Paolo Cruciani A/A: 2011/2012

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Gruppi Multifamiliari

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Tesi in: Gruppi Multifamiliari

Facoltà di: Medicina e Psicologia: Psicologia, Pedagogia

e Servizio Sociale

Corso di laurea in: Scienze e tecniche psicologiche di

valutazioni clinica nell’infanzia nell’adolescenza e nella

famiglia

Cattedra di: Psicodinamica di Gruppo

Candidato: Fulvio Aquino

Matricola: 1226217

Relatore: Paolo Cruciani

A/A: 2011/2012

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Indice

Abstract

Capitolo I: Il gruppo e l’individuo

Capitolo II: Il gruppo multifamiliare secondo Jorge E. Garcia Badaracco

Capitolo III: Il gruppo multifamiliare secondo Alfredo Canevaro

Capitolo IV: Riflessioni conclusive

Bibliografia e Sitografia

p. I

p. 5

p. 10

p. 16

p. 21

p. 24

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2

Tutte le teorie sono legittime

e nessuna ha importanza.

Ciò che importa è quello che si fa con esse.

J.L.Borges

“dall’introduzione di Psicoanalisi multifamiliare, J.E.G. Badaracco

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I

Abstract

In questo breve elaborato si è cercato di presentare l’esperienza di due terapeuti quali

Jorge Garcia Badaracco e Alfredo Canevaro, evidenziando il loro contributo alla

terapia di gruppo e più specificatamente ai gruppi multi familiari o GMF.

Il primo capitolo è stato dedicato ad un introduzione sul concetto di gruppo

terapeutico, sia in chiave psicodinamica che sistemico-relazionale attraverso contributi

di Minuchin, Whitacker e Andolfi sulla terapia familiare.

Nel secondo capitolo ci si è concentrati sull’esperienza clinica di Badaracco e la

nascita del GMF come trattamento innovativo delle psicosi, secondo un approccio

psicoanalitico ma integrante la struttura sanitaria ospedaliera, con contributi dello

psicoanalista Andrea Narracci operante in Italia con vari GMF.

Nel terzo capitolo viene evidenziata la sostanziale trasformazione da parte di Canevaro

del GMF tradizionale di tipo psicoanalitico, integrato con aspetti esperienziali propri

della sua formazione terapeutica.

Nel quarto capitolo vengo avviate delle considerazioni generali e conclusive sul GMF

come paradigma di rottura e innovazione nella gestione delle comunità terapeutiche e

nell’integrazione di varie teorie psicoterapeutiche.

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Il gruppo e l’individuo

Anche se l’individuo nasce come essere sociale, ed è completamente immerso in una

realtà che fa dei gruppi la sua base fondante, lo studio riguardante questo fenomeno

sociale è relativamente giovane. Il termine gruppo sociale nasce in sociologia ed è visto

come un insieme di persone che interagiscono in modo ordinato secondo le aspettative

riguardanti il rispettivo comportamento. “Gli altri non sono esterni a noi, ma sono parte

del nostro funzionamento psicologico” (Mantovani, 2003, p.148), la famiglia per

esempio rappresenta il gruppo per eccellenza nello sviluppo mentale di un individuo, il

gruppo di lavoro è il cardine su cui si base la nostra attuale società, possiamo inoltre

affermare che la nostra identità sociale è basata sull’appartenenza a più gruppi di vario

tipo e competenza. Dal punto di vista psicologico il gruppo può essere utilizzato come

strumento di terapia, di intervento nell’ambito istituzionale e come strumento di

formazione, designandosi quindi come dispositivo polivalente.

In generale la terapia è sempre stata considerata in termini duali, Freud introdusse il

setting psicoanalitico come lo conosciamo oggi, e lo ideò formato da paziente e analista;

il transfert e controtransfert furono postulati partendo dalla relazione diadica formatasi

tra i due attori della terapia, ma già da “Totem e Tabù” (Freud 1912-1913) e

“Psicologia delle Masse e analisi dell’Io” (Freud 1921) si introduce nel pensiero

psicoanalitico uno studio sul gruppo e le masse che portò all’attenzione di molti

l’importanza di questo costrutto sociale.

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L’uso del gruppo in terapia ha quindi reso possibile un approccio diverso alle

psicopatologie e un apertura importante è stata costruita dalla così detta terapia

familiare.

La terapia familiare è un modello di intervento terapeutico che deriva dalle teorie

sistemico-relazionali, esistono modelli di intervento familiare anche di derivazione

psicoanalitica, particolarmente sviluppati, che hanno preso particolare ispirazione, fra

l'altro, dai modelli psicoanalitici di funzionamento dei gruppi (Wilfred Bion e altri) e

dei gruppi familiari (Donald Meltzer e Martha Harris). Il gruppo famiglia è sempre stato

un punto di vista importante anche in psicoanalisi, per i terapeuti interessati ad una

visione più ampia della malattia mentale. Secondo l'approccio psicoanalitico, la famiglia

è un particolare tipo di gruppo in cui, come nei gruppi in generale, gli ostacoli al

funzionamento possono derivare da conflitti fra le funzioni, i compiti e i ruoli dei vari

membri, tra "gruppo di lavoro", e le pulsioni sottostanti non coscienti: gli assunti di base

(Bion, 1961). Approcci importanti come la teorizzazione del legame simbiotico con la

madre (Mahler, 1958), lo studio della relazione simbiotica tra madre e figlio nella

schizofrenia (Hill, 1956), introdussero in modo graduale l’importanza della diade e

quindi della famiglia nell’eziopatogenesi della malattia mentale. Divenne evidente come

le varie carenze affettive, la privazione improvvisa della madre, l’interruzione delle

relazioni affettive con i genitori, contribuivano all’insorgere di gravi disturbi del

comportamento: impulsività, ansia, mancanza di empatia e contatto affettivo. Il

principio secondo il quale è il campo, e non solo l’individuo, l’unità di studio più

significativa, deriva da studi condotti da Sullivan e la psicoanalisi interpersonale,

sottolineando come l’individuo e la sua personalità prendano forma in un ambiente

composto da altre persone, quindi in situazioni interpersonali (Sullivan, 1953). Sullivan

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affermò come il bambino sia profondamente influenzato dalle persone che lo

circondano, e indicò questa diffusione contagiosa con il nome di legame empatico.

La famiglia entrò a far parte quindi dello studio e del trattamento delle malattia mentali,

anche gravi come la schizofrenia, ipotizzando lo schizofrenico come un soggetto

sintomatico di una patologia che può essere considera della famiglia in generale

(Bowen, 1960) e considerando le relazioni familiari come importanti fattori causali

nella psicopatologia. La tendenza della psicoanalisi a sottolineare l’esclusività della

diade madre bambino andò progressivamente spostandosi verso un attribuzione

maggiore della figura paterna (Lacan, 1995).

L’approccio relazione alla terapia familiare nasce invece intorno agli anni ’50, nel

settore della psicologia emerge la tendenza del ricercatore a spostare la sua attenzione

clinica dai fattori intrapsichici, già ampiamente approfonditi in ambito psicoanalitico, ai

fenomeni interpersonali e ai contesti in cui essi hanno luogo, secondo un approccio più

olistico ai cosiddetti sistemi complessi (Bateson, 1984). Attraverso la teoria dei sistemi

è stato possibile postulare una teoria che connette i diversi settori della conoscenza

attraverso i concetti di sistema, organizzazione, autoregolazione, causalità circolare e

equifinalità con i quali si sottolinea l’importanza di valutare ogni fenomeno nella

prospettiva dell’intero e l’impossibilità di considerarlo come una somma delle parti

scomponibili, analizzabili in termini di causa-effetto. La nuova psicologia relazionale si

forma quindi sulla base di teorie sistemiche costatando che sono proprio le interazioni

umane ad organizzarsi secondo criteri e le caratteristiche di un sistema. Con il termine

“omeostasi familiare” (Jackson, 1961), Jackson identificò una tendenza del sistema

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familiare all’equilibrio, in cui il cambiamento che si verifica in un membro della

famiglia produce cambiamenti negli altri membri tendendo a ristabilire l’equilibrio.

La famiglia da gruppo organizzato venne quindi analizzata anche secondo criteri

sistemici; un sistema famiglia caratterizzato quindi da una forte tendenza a mantenere

l’omeostasi, organizzato da regole comunicative e relazionali. Il concetto di doppio

legame introdotto da Bateson (Bateson, 1956), è il prodotto di questo pensiero sistemico

relazionale. Il doppio legame indica una situazione in cui, tra due individui uniti da una

relazione emotivamente rilevante, la comunicazione dell'uno verso l'altro presenta una

incongruenza tra il livello del discorso esplicito e un ulteriore livello metacomunicativo,

non verbale, come possono essere i gesti, gli atteggiamenti, il tono di voce, e la

situazione sia tale per cui il ricevente del messaggio non abbia la possibilità di decidere

quale dei due livelli, contraddittori, accettare come valido, e nemmeno di far notare a

livello esplicito l'incongruenza. La terapia familiare si allontanò man mano da una

concezione rigida di diade, sposando una visione triadica (Minuchin, 1976) e

multigenerazionale (Whitaker, 1989), la triade, composta da madre padre e bambino

diventa l’unità di misura su cui valutare il funzionamento familiare, unita ad una

concezione di famiglia come sistema in evoluzione nel tempo e composto da più sistemi

generazionali che intercorrono nel suo funzionamento.

L’adozione di una prospettiva sistemico-relazione consente alla psicologia di orientarsi

quindi verso un rinnovato modello di uomo-paziente, mettendo in discussione la visione

monadica di un individuo malato nel suo “interno”, sostituendola con un immagine di

essere sociale, il cui comportamento è comprensibile solo attraverso lo studio

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dell’organizzazione e del funzionamento del sistema di relazioni in cui è inserito

(Andolfi, 2003).

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Il gruppo multifamiliare secondo Jorge E. Garcia

Badaracco

Fin dall'inizio la carriera di Jorge E. Garcia Badaracco è stata segnata da un profondo

interesse verso la dimensione relazionale della psicopatologia individuale e duale,

comprendendo come, la psicopatologia, sia il risultato di conflitti relazionali che si

verificano già dall’infanzia e sostenuti nel tempo da una complessa rete interdipendenze

familiari patogene che impediscono il futuro processo di differenziazione e di

individuazione.

Spinto da una visione umanizzante nell’affrontare la malattia mentale e le gravi psicosi,

Badaracco identificò nel processo terapeutico l’importanza di integrare varie risorse e

dispostivi che consentano un’adeguata integrazione dell’approccio individuale, di

gruppo e familiare, il risultato di questa strategia terapeutica è il gruppo multifamiliare,

o GMF.

Per Jorge Garcia Badaracco, è la società l’origine e la causa della malattia mentale, ed è

proprio in questo “contesto” che ritené giusto affrontarla.

Inizialmente il GMF fu proposto come una cornice spontanea di contenimento di

carattere psicoeducativo, difatti i pazienti si avvicinavano a lui in un momento di libertà,

come in una pausa dalle attività ospedaliere, e pian piano questi spazi si aprirono a

chiunque volesse partecipare nelle modalità che più gli si confacevano.

A partire dai pazienti psicotici furono con il tempo incluse le famiglie, i medici e il

personale sanitario interessato a partecipare, formando quindi un innovativo

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esperimento terapeutico, in cui la partecipazione di molteplici figure del reparto

ospedaliero conferì l’aspetto di una comunità terapeutica.

Risulta chiaro come l’esperienza unica del GMF sia fortemente legata alla realtà

sanitaria e terapeutica in cui si svolge: oltre ad essere un innovativa concezione della

terapia alle psicosi, alla terapia di gruppo e della psicoanalisi, il GMF “ha ri-significato”

(Narracci, 2011, p.14) le risorse disponibili, facilitando un modo di lavorare condiviso

che rischiava di scomparire con l’avvento delle specializzazioni e offrendolo come un

“meta-strumento” che ha consentito di risolvere momenti di impasse sia terapeutica che

istituzionale.

Il gruppo multifamiliare si costituisce quindi come uno spazio in cui pazienti e familiari

possono condividere l'ansia e l'incertezza che si verificano durante tutto il processo

terapeutico.

In questo contesto, Badaracco si concentrò sull’interazione e l’ascolto tra i partecipanti,

ponendosi come conduttore silente.

Attraverso, inoltre, l'impegno emotivo dei partecipanti e il contributo personale delle

varie esperienze di vita dei pazienti e dei suoi familiari, tutto il gruppo si pone come co-

terapeuta attivo nel processo di cambiamento.

La composizione eterogenea del GMF, fu sostenuta da Badaracco come cardine centrale

del processo terapeutico, proprio perché, la complessità fenomenica che si presentava

era in stretto contatto con la realtà del paziente con cui aveva intenzione di lavorare. Il

reparto, realtà attuale del paziente ospedalizzato, iniziò a funzionare come una vera e

proprio comunità terapeutica, come “contenitore” delle componenti malate del paziente

e luogo in cui la malattia mentale è tollerata ed elaborata.

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La funzione di contenitore non è nuova nella terapia di gruppo è può essere confrontata

a partire dal concetto bioniano di contenimento che si rifà al termine “rêverie”: la

madre, attraverso un processo di rêverie, elabora e trasforma le proiezioni del suo

bambino, tra le quali angoscia e terrore, e le restituisce moderate dal pensiero e

dall'affetto; il piccolo introiettando tali esperienze così trasformate ne acquisisce anche

la funzione α. Intendiamo per funzione α la funzione in grado di trasformare sensazioni

corporee confuse, indefinite ed indeterminate, in sensazioni più precise, in pensieri più

chiari che possono poi andare verso la simbolizzazione attraverso il linguaggio.

I vari sviluppi successivi della terapia di gruppo portano alla generalizzazione del

pensiero di Bion ai fenomeni gruppali, identificando il gruppo come un contenitore in

grado di metabolizzare attraverso il pensiero di gruppo gli elementi sensoriali, le

tensioni e i frammenti di emozioni che sono presenti nel campo, dobbiamo a Corrao il

termine di “funzione Gamma”, con cui identifica il corrispettivo per il gruppo della

“funzione Alfa” per l’individuo (Corrao, 1981), è proprio tramite questa funzione unica

del gruppo che i fenomeni inconsci ed emozionali possono prendere forma, e rendersi

“leggibili” a tutti, in linguaggio più consono alla terapia.

Il GMF si rivelò presto anche un notevole contenitore di aspetti transferali individuabili

nelle varie relazioni interpersonali, e fu proprio la loro elaborazione l’aspetto

terapeutico più importante da valutare, i transfert psicotici dei pazienti mentali gravi

non trattabili nel contesto bipersonale trovarono presto spazio nel contesto

multifamiliare, infatti i transfert portati in terapia si disperdevano in transfert multipli,

invece di concentrarsi su una persona sola, per esempio l’analista, ciò permise

l’elaborazione dei singoli momenti transferali. L’idea di contenitori adattata da

Badaracco verte sulla capacità del GMF di “[…] destrutturare le formazioni patologiche

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con potere patogeno, ed è questo potere destrutturante che chiamiamo potere di

disalienazione” ( Badaracco, 2003, p. 202 ), facendosi carico “[…] delle componenti più

malate e dei momenti più regressivi.” (ibid.).

Alla basa della psicopatologia Badaracco identificò la tendenza del malato nel

mantenere le varie costruzioni mentali originate per neutralizzare una sofferenza

psichica intensa, attraverso la creazione di un’ “interdipendenza patogena primitiva”. Lo

scopo della terapia diventò quindi quello di decostruire le costruzioni patologiche nel

malato attraverso un esperienza di gruppo basata sulla tolleranza e la formazione di un

clima adatto, in cui l’analista si pone come terzo polo mediatore e promotore di

interdipendenze sane, e attraverso l’aiuto di “altri significativi”, la famiglia, presenti

con il malato in seduta, che rappresentavo la fonte di queste interrelazioni patologiche.

La presenza di familiari e di non-familiari nel gruppo permise di allontanare l’idea di un

paziente come unico protagonista della terapia e creò la possibilità di mettere in

evidenza la varietà dei comportamenti possibili del paziente in un contesto sociale

protetto dall’istituzione e dai terapeuti, sottolineando come il gruppo e il GMF siano la

realtà adatta per la cura delle psicosi in un ottica più relazionale.

Alla base del successo terapeutico c’è lo smantellamento delle interdipendenze

patogene che bloccano l’individuo, cristallizzando la patologia mentale; il gruppo

multifamiliare si costituisce come una “microsocietà, in cui il compito più importante è

“quello di visualizzare le somiglianze tra quanto accade a una famiglia e quanto accade

a un’altra” (Badaracco, 2003, p.79 ) permettendo una metaforizzazione. Badaracco

partendo dalle sue osservazioni cliniche giunge ad identificare delle forme di

espressione della patologia, dei “vincoli attualizzati”: le interdipendenze patogene

vissute in passato, che hanno formato il mondo interno del paziente, nella realtà

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patologica dei pazienti si mantengono ancora valide dal punto di vista patogeno e si

manifestano con forza nel gruppo multifamiliare, la presenza di “aspetti caricaturali”,

che cercano di nascondere la personalità sana ancora presente nel paziente, costretto ad

interpretare vari personaggi, essendo abitati, secondo Badaracco “da una molteplicità di

personaggi, spesso incompatibili tra loro, che hanno impedito lo sviluppo del loro vero

Sé” ed infine il transfert psicotico, evidenziato dalla riattivazione e attualizzazione di

“aspetti di vincolo”, denominatori comuni nelle psicosi.

“Noi lavoriamo con una lettura psicoanalitica” (Badaracco, 2003, p.178), nell’enorme

lavoro clinico svolto da Badaracco veste un ruolo importante l’enorme repertorio

teorico della psicoanalisi, ma nello stesso tempo il GMF non rappresenta una

trasposizione esatta delle teorie psicoanalitiche al gruppo, ma si fa promotore di una

vera e propria “riformulazione e ricontestualizzazione del pensiero psicoanalitico”.

Freud nel 1923 con “L’Io e L’Es” introdusse il modello strutturale, alla base della

nevrosi troviamo un conflitto tra istanze, la maggiore conoscenza di sé attraverso

l’insight, l’elaborazione, l’integrazione delle dissociazioni sono gli obbiettivi principali

nella terapia psicoanalitica, obbiettivi che secondo Badaracco “non contemplano a

sufficienza concetti quali maturazione della personalità, maggiore plasticità e autonomia

dell’Io” (Badaracco, 2003, p.179), con questo il GMF vuole porsi come luogo di

maturazione di nuove funzioni dette appunto “risorse dell’Io”.

Il GMF come contesto “psicologicamente sicuro”, permette la ri-attuazione di situazioni

traumatiche, attraverso complesse dinamiche multi-transferali, il gruppo formato senza

selezionare patologie simili, permette di offrire “specchi” meno simili ma più

arricchenti, in cui i disagi delle varie malattie trovano comprensione nella condivisa

dimensione familiare del GMF.

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Il transfert secondo Badaracco “è un fenomeno universale, che è presente in tutte le

relazioni umane, di tutti contro tutti” (Narracci, 2011, p.63 ), e ancora: all’interno del

movimento psicoanalitico si scoprì che il transfert aveva a che fare necessariamente con

un altro fenomeno, il controtransfert, quindi non era solo una proiezione di fantasie o

pensieri […], ma era anche una partecipazione particolare dell’analista rispetto al

paziente. (Narracci, 2011, p.62), da questa analisi è comprensibile come il ruolo di

terapeuta e conduttore del GMF sia fortemente legato alla qualità relazionale ed emotiva

presente durante la seduta, ricreando perfettamente, anche in un contesto cosi

particolare, un vero e proprio setting terapeutico gruppale in grado di generare transfert

multipli.

Con il nuovo concetto di interdipendenze patogene Badaracco sottolinea come il

paziente sia bloccato dal “ruolo” di malato, privato delle necessarie risorse dell’Io, in

grado di far fronte a queste costrizioni.

La famiglia con la sua complessa rete di relazioni e fantasie si impone come fattore

oggettivante. Nel GMF Badaracco chiama a se la famiglia per mettere al servizio del

gruppo questi fattori oggettivanti, le interdipendenze, “veicoli” in grado di smascherare

i veri nodi patologici.

Da Sartre: “[…] libertà non significa raggiungere ciò che si vuole, bensì determinarsi a

volere, mediante se stessi” (Codato, 2010, p.93), questo determinarsi a volere è

possibile solo nel riconoscimento soggettivo del paziente, attraverso la presa in carico

del proprio vissuto, riconoscendo i vari fattori che hanno determinato questo sviluppo e

allargando la visione del disagio individuale in un ottica familiare e gruppale.

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Il gruppo multifamiliare secondo Alfredo Canevaro

“L’uomo è un essere in relazione” (Canevaro, 2011, p.19), Canevaro porta avanti la sua

esperienza clinica nel campo dei GMF affermando come “ è assurdo considerare

l’individuo come un essere a sé stante, una monade; per cui lavorare con la famiglia,

lavorare con e nelle relazione, significa riconoscere che esistono “relazioni privilegiate”

soprattutto nel sistema familiare natio dove si ricevono (oltre il codice genetico, il nome

e il sangue) le migliaia e migliaia di interazioni […] (ibid.).

La necessità di cambiamento nei riguardi di un “setting” divenuto forse troppo stretto e

di un istituzione, che secondo Badaracco e Canevaro non rispondeva adeguatamente

alle esigenze del paziente e delle famiglie, fu il perno della terapia multifamiliare e del

GMF come innovativo esperimento psico-sociale per le istituzioni curanti.

Secondo Canevaro “il segreto della terapia sta nel coinvolgere, nel mettere a favore del

processo terapeutico tutte le risorse possibili […]” (Canevaro, 2011, p. 21), intendendo

per risorse la famiglia e le relazioni più vicine e significative per il paziente; difatti i

GMF “funzionano come una famiglia estesa, solidale, chiassosa e confusionaria […],

ma con una grande forza data dalle diverse figure di accudimento e dai diversi modelli

di identificazione” (ibid.) rivelandosi come uno strumento terapeutico notevole in grado

di raggiungere “il massimo grado di azione terapeutico in una condizione faccia a faccia

tra terapeuta e i pazienti” e come “strumento psico-sociale che fa risparmiare

all’istituzione tempo, energie e soldi, per il trattamento multiplo e simultaneo di più

famiglie” (Canevaro, 2011, p.24).

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Canevaro secondo un ottica relazionale intende il gruppo come un sistema di famiglie in

grado di lavorare insieme, non soffermandosi sulle varie dinamiche inconsce tipiche del

GMF psicoanalitico; il sistema famiglia come sistema trigenerazionale risponde a due

“vincoli” uno di filiazione e l’altro di alleanza, sono queste le dinamiche, non più

inconsce ma relazionali, che governano il sistema secondo Canevaro, e si esprimono al

meglio durante il GMF.

Il vincolo di filiazione (intra-familiare) “unisce i genitori con i propri figli, […] collega

le generazioni tra loro” (Canevaro, 2011, p.25) e ancora “[…] il vincolo di alleanza

(inter-familiare) unisce i due rappresentanti di due gruppi, […] due membri di un’unica

coppia che in realtà appartengono a due organizzazioni familiari diverse […]; è un

vincolo esogamico” entrambi si incontrano nella coppia, diventando a sua volta “il

punto nodale dell’intero sistema trigenerazionale” (Canevaro, 2011, p.25).

Il sistema trigenerazionale per Canevaro è elevato a modello teorico per comprendere la

genesi della patologia: “il punto nodale è ovviamente la coppia, sulla quale il più delle

volte ricade il peso delle tensioni, ma anche lo sforzo terapeutico che permetterà di

ristrutturare il sistema.” (Canevaro, 2011, p.124). Nella genesi familiare “il vincolo di

alleanza è inversamente proporzionale al vincolo di filiazione” (ibid.), ed è proprio il

vincolo di alleanza il valore che gestisce la “vicinanza” dalla famiglia d’origine o dai

figli e “la chiave del lavoro è capire come questo vincolo regola il fluire del tempo e

della crescita dei sistemi e delle persone che lo compongono”. Il vincolo di alleanza è

un fattore essenziale nella genesi familiare, delineando un rapporto di tipo orizzontale

tra la coppia e permettendo la differenziazione dei sistemi intergenerazionali (vincolo di

filiazione), è proprio nella mancata differenziazione che avvengono le coalizioni

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intergenerazionali, causa dei sintomi disfunzionali. Il processo terapeutico definito

come “dell’armonia intergenerazionale” (Canevaro, 2011, p.125) si snoda nel

riassestamento di queste dinamiche relazionali attraverso il riequilibrio delle relazioni e

dei vincoli tra le generazioni che compongono la famiglia.

Lo scopo principale del GMF secondo quest’ottica relazionale è “definire le

problematiche comuni a tutte le famiglie e le persone presenti, di concentrarsi

sull’interazione familiare, di enfatizzare le relazioni familiari previlegiando le alleanza

attuali o potenziali tra i membri delle diverse famiglie basandosi sulle somiglianze di

età, sesso, problemi o ruoli familiari” (Canevaro, 2011, p.27) è chiaro come il fine

ultimo di questo approccio sia quello di valorizzare a pieno le risorse di un setting

gruppale esteso talvolta anche a novanta persone, situazione unica per far propri i valori

della terapia di gruppo e porli come obbiettivi teraputici.

Altri autori hanno analizzato i fattori terapeutici del GMF, a partire da O’Shea e Phelps

(1985), Laquer (1976) e McFarlane (1983), secondo l’ottica gruppale il GMF si

presenta come un microcosmo del e nel contesto sociale e culturale in cui prende forma,

già con Badaracco è stato sottolineato quanto un GMF sia “figlio” e si sviluppi

parallelamente con l’istituzione da cui prende forma, citando O’Shea (O’Shea, 1985,

p.555): “[…] il gruppo evolve, si crea un piccolo mondo che è quasi una replica di una

parte della società esterna, perché le persone che partecipano sono di età diverse, di

generazioni diverse, in varie fasi del ciclo vitale, con ruoli differenti.”

La presenza di un contesto allargato di famiglia che comprende anche più generazioni

stimola le narrazioni familiari e da spessore al “qui e ora” della terapia con il GMF;

mentre più pazienti designati permettono una elaborazione condivisa e diluita dello

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stigma della malattia mentale rendendo evidente come “non sia più importante chi si è

ricoverato, perché umanante si affronta un dramma esistenziale che tutti condividono.”

(Canevaro, 2011, p. 45).

Oltre il paziente tutto il sistema famiglia è in grado di evolvere e mettersi in gioco

attraverso fenomeni essenziali per il buon fine della terapia, il GMF deve essere in

grado di permettere una modificazione dei confini familiari, delle norme e dei miti di

cui ogni famiglia si fa portatrice, essendo questi i focus che una terapia relazionale e

sistemica prende in considerazione e utilizza come cardini del processo terapeutico.

“La storia delle generazioni passate trasmette significati anche quando ad essa non si

attinge in maniera diretta e consapevole, ma attraverso le mediazioni dei genitori che

con ricordi, le abitudini di vita e il loro modo di rapportarsi ad altri significativi, si

informano sulle relazioni passate e sui valori acquisiti nel corso dell’esistenza”

(Canevaro, 2011, p.36), tutto ciò è chiamato identità culturale di una famiglia e prende

corpo nel così detto mito familiare. A partire da un modello di famiglia normale,

costruito sulla base di un immagine condivisa, il mito familiare corrisponde a questo

modello assolutizzato, e funge sia da “chiave di lettura” degli eventi e delle relazioni

familiari, sia come potente strumento di assegnazione di ruoli e gerarchie.

Come nei miti di antica tradizione, è poco importante la verità esatta dell’evento

“tramandato”, ma è rilevante la forte carica simbolica e la capacità di trasmettere

materiale condiviso e significativo per la famiglia, “conduce alla cristallizzazione di

alcune idee intorno ai fatti, oggetti, personaggi o relazioni fra essi, […] non riguardano

l’oggetto mitico in sé, quanto piuttosto l’insieme dei soggetti che hanno contribuito e

contribuiscono a mantenere in vita il mito” (Canevaro, 2011, p.38).

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I miti familiari si pongono come tramite tra la ricerca di individualità e l’appartenenza

alla famiglia e al proprio modello di valori, risultando talvolta da ostacolo ad una sana

individuazione di sé. Come nella terapia relazionale, nel GMF il mito viene elaborato e

svelato, permettendo al singolo di “separarsi da tutto ciò che in esso è rappresentato, ma

anche contemporaneamente di accettarlo e farlo proprio per quelle parti che non

contrastano con la ricerca di un identità autonoma” (Canevaro, 2011, p.41), questa

elaborazione del mito nel GMF è facilitata dal gruppo terapeutico nel suo insieme, in

sede gruppale le famiglie svolgono un ruolo di sostegno e comprensione, mettendo a

nudo le proprie debolezze e i propri vissuti, il GMF si trasforma gradualmente da

gruppo terapeutico a gruppo di mutuo-auto-iuto.

La trasformazione secondo Canevaro è stimolata da un approccio partecipativo dei

conduttori e da un ottica esperienziale, un ottica dove i vissuti e le emozioni sono il

vettore principale; denominati “esercizi esperienziali“ (Canevaro, 2011, p. 69), invita a

tenersi per mano, sedersi vicini, rivolgere lo sguardo o chiudere un intervento con un

abbraccio tra famigliari, Canevaro ne fa ampio, per sciogliere i nodi emotivi e

promuovere l’interazione e il confronto.

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Riflessioni conclusive

È evidente come il GMF sia uno “strumento” terapeutico trasversale e duttile in grado

di essere utilizzato proficuamente da più terapeuti avente teorie di base diverse,

Badaracco illustra perfettamente questa peculiarità del GMF: “è propriamente il

contesto multifamiliare quello che produce una molteplicità di risorse terapeutiche,

mettendo in evidenza più di ogni altro che la rigidità e la mancanza di esperienza

permettono di trovare soluzioni creative se si tiene cono di quello che dicono gli altri, e

che lo stimolo della creatività di ciascuno fa sì che uno trovi da solo la soluzione al suo

problema” (Badaracco, 2004, p.55), rimandando con “mancanza di esperienza” al

concetto di curiosità scientifica, o di “assenza di memoria e desiderio”,

ricontestualizzazione fatta da Bion per identificare uno stato mentale aperto alla

complessità.

Nella sua opera Badaracco chiama le varie controversie tra scuole come “falsi

problemi” (Badaracco, 2004, p.53), a dimostrazione di ciò possiamo confrontare le

diverse teorie sulla famiglia dei due autori citati in questo lavoro, è chiaro come un

costrutto nato nella psicoanalisi di gruppo non si scontri con un ottica sistemica

relazionale della famiglia come quella di Canevaro, citando Badaracco: “un altro dei

falsi problemi che si dissolvono nel contesto multifamiliare è la differenza fra la

psicoterapia individuale e la terapia familiare. […] come vedremo il mio modo di

pensare si contrappone al riduzionismo, e sostiene il rispetto della complessità della

mente nei termini di una auto-eco-organizzazione che tenga conto di tutte le

implicazioni del modo di considerare gli “altri significativi.” (Badaracco, 2004, p.55), e

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ancora, “[…] cominciare a lavorare, nel 1960, con i gruppi multifamiliari mi ha

consentito di rispettare l’ipercomplessità come inerente alla natura delle cose e di

utilizzare coscientemente i modelli teorici solo per considerarne alcuni aspetti parziali.”

(Badaracco, 2004, p.56).

Nel rispetto dell’ipercomplessità sopra citata, nei vari GMF si possono riscontare delle

caratteristiche comuni che ne fanno uno strumento innovativo nella terapia di gruppo,

caratteristiche che uniscono, al difuori delle diverse esperienze cliniche degli autori; in

primis il collegamento stretto tra istituzione e GMF.

Ogni GMF, rappresenta uno spazio neutro tra paziente e struttura assistenziale, un

tramite talvolta assente, che porta ad una separazione netta tra pazienti e famiglia, tra

operatori e assistiti; non è quindi di secondaria importanza la presenza in seduta di tutti

gli operatori facente parte di una comunità terapeutica o di un reparto ospedaliero,

insieme in seduta si è team operante ma anche “pazienti” disponibili a condividere

testimonianze e storie con l’assistito e i suoi famigliari. In Badaracco il GMF è servito

per unire un reparto ospedaliero prima e per creare su base nuova una comunità

terapeutica di “struttura multifamiliare” (Badaracco, 1997), che faceva del GMF il

perno principale, permettendo un approccio anche riabilitativo e risocializzante.

Oltre l’istituzione, nel lavoro terapeutico il GMF è stato il metodo per superare varie

impasse, per risolvere casi fallimentari: “Ci sono situazioni in cui il setting deve essere

adattato alle necessità, affinché i pazienti possano manifestare le loro difficoltà, cosa

che fanno solo se percepiscono che il terapeuta, i terapeuti o il contesto, possono

contenerle.” (Canevaro, 2011, p.18); il GMF quindi si è posto come gruppo aperto ed

accogliente in grado di comprendere prima che curare.

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Dal punto di vista della terapia di gruppo il GMF ha dato un contributo importante

quanto innovativo: la peculiare composizione della seduta (aperta a famigliari e

operatori, fino anche a novanta partecipanti) e il ruolo del conduttore, come facilitatore;

sono: “[…] il contributo che i partecipanti (a partire dal conduttore e dai co-terapeuti,

ma non solo) possono dare con loro diversificate prospettive esistenziali, non solo

professionali, alla costruzione di quella che con una felice espressione, Badaracco

propone come mente ampliada (Ficacci, 2000) una mente composta da pareri diversi

che in un certo senso proteggono e generano quell’atteggiamento di ipercomplessità che

è essenziale per chi si avvicina al GMF come esperienza terapeutica.

Prendendo visione dei vari approcci teorici e pratici al GMF è evidente come il filo

conduttore che unisce le varie esperienze non così dissimili e la ricerca di una

rivalutazione e presa in carico di tutte le componenti affettive e relazionali del paziente,

per permettere una modificazione sostanziale all’interno dei gruppi familiari patologici,

modificazione che va direttamente ad influire sulla visione del malato come isolato ed

incurabile; tutto ciò per aprire la strada ad un approccio che non vuole essere

contenitivo ma psicoterapeutico e riabilitativo-risocializzante sia per il paziente che per

la comunità in cui è inserito.

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