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GIUSEPPE VERDI: L’UOMO, L’ARTISTA E LE SUE OPERE a cura di LUCIANA DISTANTE 01 VOLUME

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GIUSEPPE VERDI:

L’UOMO, L’ARTISTA E LE SUE OPERE

a cura di

LUCIANA DISTANTE

01 VOLUME

1. Giuseppe Verdi: cenni biografici

Giuseppe Fortunino Francesco Verdi (Roncole di Busseto, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901) fu il principale autore d’opera italiano del secondo Ottocento. Ebbe una lunga vita che gli consentì di restare sulle scene per molti decenni e di assistere a numerosi avvenimenti storici di primaria importanza, come per esempio l’Unità d’Ita-lia. Il ruolo di Verdi andò al di là di quello del semplice compositore, e la sua grande popo-larità si estese fino all’ideale figura che aveva rappresentato uno dei primi punti di con-tatto tra le differenti culture della nostra penisola. Giuseppe Verdi nacque nelle campagne della bassa parmense, a Le Roncole (divenuta in seguito Roncole Verdi), frazione di Busseto, il 10 ottobre 1813 da Carlo, oste e ri-venditore di generi alimentari, e Luigia Uttini, filatrice. Carlo proveniva da una fami-glia di agricoltori piacentini (stesse origini della moglie) e, dopo aver messo da parte un pò di denaro, aveva aperto una modesta osteria nella casa delle Roncole, la cui condu-zione alternava al lavoro dei campi. Il registro dei battesimi, all’11 ottobre di quell’an-no, lo indica come “nato ieri”. Il giorno successivo Giuseppe venne battezzato nella chiesa locale di San Michele e gli vennero apposti i nomi di Giuseppe Francesco Fortu-nino. Il terzo giorno della sua nascita il padre di Verdi raggiunse Busseto per notificare la nascita alle autorità locali e venne indicato nel registro comunale coi nomi di Joseph Fortunin François. L’atto di nascita fu redatto in francese, appartenendo in quegli anni Busseto e il suo territorio all’Impero francese creato da Napoleone. Pur essendo un giovane di umile condizione sociale, riuscì a seguire la propria vocazio-ne di compositore grazie al desiderio di apprendere dimostrato. L’organista della chiesa delle Roncole, Pietro Baistrocchi, lo prese a benvolere e gratuitamente lo indirizzò ver-so lo studio della musica e alla pratica dell’organo. Più tardi, Antonio Barezzi, un nego-ziante amante della musica e direttore della locale società filarmonica, divenne suo mecenate e protettore aiutandolo a proseguire gli studi intrapresi. La prima formazione del futuro compositore avvenne tuttavia sia frequentando la ricca biblioteca della Scuola dei Gesuiti a Busseto, sia prendendo lezioni da Ferdinando Pro-vesi, maestro dei locali filarmonici, che gli insegnò i principi della composizione musi-cale e della pratica strumentale. Verdi aveva solo quindici anni quando, nel 1828, una sua sinfonia d’apertura venne eseguita, in luogo di quella di Rossini, nel corso di una rappresentazione de Il barbiere di Siviglia al teatro di Busseto. Nel 1832 si stabilì a Milano, grazie all’aiuto economico di Antonio Barezzi e a una “pensione” elargitagli dal Monte di Pietà di Busseto. Dopo aver tentato vanamente l’in-gresso presso il prestigioso conservatorio di Milano, da cui fu respinto per limiti d’età e per la sua provenienza forestiera (Ducato di Parma e Guastalla), rimase nella città lom-barda studiando privatamente con il maestro La Vigna, discreto operista, direttore d’or-chestra ed insegnante. A Milano, Verdi respirò l’aria della grande città e delle grandi occasioni, tant’è che dopo essere tornato a Busseto, vincendo il locale concorso per il

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posto di maestro di cappella, abbandonò il “posto fisso”per tentare nuovamente l’av-ventura nella difficile Milano. Nel 1836 sposò Margherita Barezzi, ventiduenne figlia del suo benefattore, con la quale due anni più tardi andò a vivere a Milano in una mo-desta abitazione a Porta Ticinese. Nel 1839 riuscì finalmente, dopo quattro anni di la-voro, a far rappresentare la sua prima opera alla Scala: era l’Oberto, Conte di San Boni-facio, su libretto originale di Antonio Piazza, largamente rivisto e riadattato da Temi-stocle Solera. L’Oberto era un lavoro di stampo donizettiano, ma alcune sue peculiarità drammatiche piacquero al pubblico tanto che l’opera ebbe un discreto successo e quat-tordici repliche. 2. L’arte di Verdi nel contesto storico-sociale

La produzione verdiana, che va dall’Oberto (1839) al Falstaff (1893), abbraccia più di cinquant’anni. In questo ampio arco cronologico che vede profonde trasformazioni nel contesto storico e culturale italiano, Verdi delinea un’evoluzione straordinariamente ricca e complessa, rivela una capacità di rinnovamento, una disponibilità ad accogliere diversi stimoli e a farli propri, che ammettono pochi confronti. I primi settant’anni dell’Ottocento, nonostante il Congresso di Vienna e la Santa Alle-anza, che misero fine all’avventura napoleonica e sembravano aver messo definitiva-mente una pietra sopra a tutti gli ideali della rivoluzione francese, vedono la borghesia lottare strenuamente in tutta Europa, spesso alleandosi con operai e contadini contro il ritorno dell’ancien régime. L’aristocraziaperdeva il suo potere politico, il processo di industrializzazione pareva inarrestabile, così come i progressi nella ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica, nell’uso dei mezzi comunicativi. La letteratura, l’arte e quindi la musica diventano più emotive, più sensibili, sconfinan-do inevitabilmente nel dramma passionale. L’opposizione ai poteri aristocratici domi-nanti vuole avvalersi di un consenso il più vasto possibile, usando tutte le espressioni culturali, cercando di sfuggire alle maglie della censura attraverso linguaggi indiretti, allusivi, ma avendo sempre come obiettivo quello di educare il pubblico a coltivare l’esigenza di resistere all’oppressione, anche solo sul piano morale.In Italia dunquela cultura smette di essere un affare privato dell’aristocrazia e diventa occasione di frui-zione pubblica. In particolare i ceti borghesi di qualunque censo possono assistere a spettacoli teatrali e musicali di ottimo livello, dove il messaggio culturale trasmesso appare persino politicamente impegnato, seppure in forma metaforica o simbolica. Il Teatro alla Scala di Milano1, costruito dal Piermarini nel 1778, diventa uno dei più fa-

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1. Il Teatro alla Scala di Milano è situato nell’omonima piazza, affiancato dal Casino Ricordi, oggi sede del Museo teatrale alla Scala. Il teatro prende nome dalla Chiesa di Santa Maria alla Scala, a sua volta così intito-lata in onore della committente Regina della Scala. La chiesa fu demolita alla fine del XVIII secolo per far posto al teatro (“Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala”), inaugurato il 3 agosto 1778 con L'Europa ricono-sciuta, dramma per musica composto per l’occasione da Antonio Salieri. A partire dall'anno di fondazione è sede dell'omonimo coro, dell’orchestra e del corpo di Ballo,dal 1982 anche della Filarmonica.

mosi del mondo. Si tratta ancora di un fenomeno che, rispetto alla gran massa di lavoratori industriali e soprattutto rurali, resta di élite, ma appare destinato a imporsi. L’artista stesso, il com-positore, il concertista, che prima era alle dipendenze di un nobile (laico o ecclesiasti-co) che gli imponeva di scrivere musica a scadenze fisse, per feste o commemorazioni, ora diventa un libero professionista, intenzionato a esprimere un proprio mondo interio-re, che coincide in maniera stupefacente con quello del pubblico pagante. Pur di com-porre nella massima libertà, scontrandosi col conformismo dei poteri dominanti, gli artisti sono persino disposti a pagare il prezzo dell’isolamento e della povertà. La musica cessa di essere un passatempo per gli oziosi e diventava una rappresentazio-ne delle contraddizioni della realtà; non deve soltanto piacere ma anche coinvolgere, non chiede più una semplice partecipazione estetica o intellettuale, ma una immedesi-mazione emotiva, passionale, persino politica. L’arte dei suoni raggiunge una sorta di supremazia su tutte le altre manifestazioni artistiche, proprio perché praticata e fruita da ampi strati della borghesia. Attraverso la musica la piccola borghesia ha l’illusione, pur stando nei loggioni dei teatri, di potersi avvicinare alla grande borghesia e di staccarsi completamente dalle plebi rurali e industriali, del cui consenso comunque ha bisogno se vuole opporsi efficacemente ai regimi reazionari che ancora la governano (in Italia gli austriaci, i borboni, i pontifici). La musica era la sola arte capace di esprimere il sentimento e la sensibilità dell’individuo al più alto grado possibile e nelle sfumature più indefinibili, e poteva essere apprezzata anche da un pubblico non ferrato in materia, anche perché nei teatri la musica veniva accompagnata da recitazione, canto, scenogra-fia e libretto, per non parlare dei dibattiti che si facevano fuori del teatro. Una forte trasformazione di genere musicale avverrà anche nel melodramma, che da romantico passerà ad essere verista.La corrente letteraria e artistica, detta “Realismo” o “Naturalismo”, che si sviluppa negli ultimi decenni dell’Ottocento francese, in Italia prese il nome di “Verismo”, di cui Verga e Capuana furono gli autori più significativi. In campo musicale il punto di riferimento francese era Bizet (conCarmen); in Italia c’erano Puccini (Manon Lescaut) e Mascagni (quest’ultimo si ispirò direttamente alle Novelle rusticane di Verga per comporre la Cavalleria rusticana). Ma indimenticabili restano anche Leoncavallo coi suoi Pagliacci e Giordano col suo Andrea Chenier.Le vicende prese dalla vita quotidiana e trasposte musicalmente nella loro cruda realtà, si avvalevano di una scenografia più semplice, più domestica; la stessa musica doveva restare costantemente legata all’azione di persone del popolo, in grado di agevolare una facile identificazione da parte del pubblico, benché i drammi e le tensioni fossero parti-colarmente acuti.I sentimenti espressi sono portati all’eccesso tramite una vocalità ca-ratterizzata da continui sbalzi e da una ricca orchestrazione. Tra i modi di comporre più vicini ai nuovi bisogni espressivi vi è quello del tema conduttore (Leitmotiv), applicato da H. Berlioz alla sua Sinfonia fantastica e, con rigorosa sistematicità, nelle opere di R. Wagner, ove ogni personaggio è raffigurato da un tema musicale, nel senso che tutte le

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volte che sulla scena compare un certo personaggio (o viene anche solo ricordato), si ode il suo tema, più o meno modificato secondo la situazione2. Il Romanticismo, sul piano culturale, aveva cercato di recuperare gli ideali della rivolu-zione francese con la finalità di togliere a clero e aristocrazia la gestione esclusiva delle leve dello Stato. L’Ottocento fu caratterizzato da continui moti popolari, che alla fine sortirono l’effetto sperato di portare la borghesia al potere politico e là dove era neces-sario, come in Italia, cacciare l’oppressore straniero e realizzare l’unificazione naziona-le. Il melodramma recepì questa tensione e questi ideali, alla sua maniera, quella borghese. Chi si è avvicinato di più al sentire popolare è stato proprio Giuseppe Verdi che usò questo genere musicale per far credere nell’idea di liberazione nazionale e di progresso sociale e culturale. La vera rivoluzione popolare, in campo musicale, avviene perciò nel melodramma (mélos = canto, dramma = recitazione), ove si può constatare più facil-mente l’influenza reciproca tra musica e società. In Italia era dunque impensabile sepa-rare Romanticismo da Risorgimento e, non a caso, il compositore più significativo del-l’Ottocento fu Giuseppe Verdi. Quasi tutti gli spartiti da lui composti fra il 1842 e il 1849, nell’epoca più intensa della lotta politica italiana, contengono vicende, frasi, cori in cui si parla di liberazione nazionale (Nabucco, I Lombardi alla prima crociata, La battaglia di Legnano, ecc.). La stessa musica, col suo ritmo energico, incalzante, con la sua persuasività e anche con la facilità con cui molte volte poteva essere memorizzata e riprodotta al di fuori dei teatri, rispecchiava perfettamente gli stati d’animo del tempo. Cerchiamo di comprendere meglio cosa intendiamo per melodramma. Il melodramma è una rappresentazione più atti, di un’azione tragica o comica, i cui personaggi non sono solo cantanti ma anche attori. Veniva anche detto “opera lirica” o semplicemente “opera” (Wagner usò la locuzione “Musikdrama”)3. Nel senso moderno l’origine del melodramma va ricercata alla fine del Cinquecento, per merito di un grup-po di intellettuali, poeti e musicisti, chiamato “camerata fiorentina”4, che discuteva

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2. Anche gli oggetti o i fatti più importanti hanno il loro tema: questo è evidentissimo nell’opera di S. Proko-fiev, Pierino e il lupo. 3. I precedenti storici di questo genere musicale sono antichissimi: già nella tragedia greca la musica veniva unita alla parola. E anche nel Medioevo esistevano combinazioni di musica e azione drammatica. Nel Dram-ma liturgico o nella Sacra rappresentazione gli argomenti tratti dall'Antico o dal Nuovo testamento venivano recitati a dialogo in forma cantata dal celebrante e dal clero, dapprima all’interno delle chiese, poi sul sagrato. Sul piano più profano si usava questo genere nelle feste o per celebrare un avvenimento; in tal senso aveva un carattere leggero e popolaresco, come il celebre Jeu de Robin et de Marion di Adam de la Halle, rappresentato alla corte di Napoli nel 1282. 4. Gruppo di musicisti e letterati che si radunavano in Firenze intorno al conte Giovanni Bardi del Vernio tra il 1573 e il 1587. Viene così designato il movimento che condusse alla nascita del melodramma, proclamando la superiorità della monodia sul contrappunto e dichiarando di rifarsi al modello della musica greca. Le persona-lità più rilevanti che si riunivano intorno al conte Bardi erano Vincenzo Galilei (al quale si deve il Dialogo della musica antica et della moderna), Giulio Caccini, Piero Strozzi e probabilmente Ottavio Rinuccini. Men-

sulla possibilità di creare un nuovo genere monodico, affidato a una sola voce, in con-trasto con le forme polifoniche allora dominanti. L’artista, infatti, doveva recitare can-tando, in forma lirica e drammatica, con l’accompagnamento di vari strumenti musica-li. La riscoperta del mondo classico greco-romano ebbe in questo notevole influenza. Le due opere principali furono quelle di Jacopo Peri, Dafne, rappresentata a Firenze nel 1598, e il dramma Euridice, rappresentato, sempre a Firenze, in occasione delle nozze di Maria De’ Medici con Enrico IV di Francia. Ma è solo con l’opera Orfeo (1607) di Claudio Monteverdi, rappresentante della Scuola Veneta, che il melodramma, coi suoi recitativi, le arie, i cori e alcuni assiemi, assume la sua struttura definitiva. Il melo-dramma diventa organico e rigorosamente logico nei rapporti tra poesia e musica. Con l’apertura, nel 1637, del teatro di San Cassiano, Venezia fu il centro operistico di maggior importanza del secolo XVII. Quando i teatri cominciarono ad aprirsi anche a un pubblico pagante si diffusero in molte città non solo le tragedie e le commedie semplicemente recitate, ma anche il me-lodramma, al punto che le prime compagnie di cantanti itineranti cominciarono ad esi-birsi anche presso le corti europee, usando la lingua italiana. Il cosiddetto “belcanto”, frutto di una perfetta educazione della voce, entusiasmava il pubblico, per quanto gli artisti fossero più che altro dei virtuosisti canori, senza particolari abilità recitative. Sotto questo aspetto, anzi, furono i napoletani Francesco Provenzale e soprattutto Ales-sandro Scarlatti a elaborare dei brani melodici in grado di esprimere i diversi sentimenti e stati d’animo dei personaggi. A quest’ultimo si deve anche l’introduzione, nell’opera, della sinfonia tripartita, la successione ininterrotta di recitativi accompagnati da tutta l’orchestra e lo sviluppo della forma chiamata “aria” col “da capo” (una sorta di tesi-antitesi-sintesi). Per quanto riguarda la struttura del melodramma, occorre invece ricordare che si tratta di una delle forme di spettacolo musicale più complesse, richiede un notevole impegno umano ed economico. Alla sua realizzazione infatti concorrono infatti: − la poesia (la trama letteraria, coi dialoghi e i monologhi, è elaborata dal librettista,

che può trarre l'argomento da un romanzo o tragedia o dramma o commedia); − la scenografia (figuranti, costumisti, scenografi, ovvero tecnici delle arti figurative,

audiovisive e architettoniche); − la recitazione dei cantanti; − la musica (orchestrali, cantanti, cori); − a volte anche la danza. La struttura di un’opera lirica è generalmente articolata in parti fisse:

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tore della Camerata Fiorentina fu Gerolamo Mei, che viveva a Roma e influiva con informazioni, piuttosto arbitrarie, sulla musica greca (in particolare sulla tragedia), cui la Camerata Fiorentina volle ispirarsi nel teorizzare la superiorità del canto monodico sul contrappunto e nel ricercare uno stretto rapporto musica-parola, dove la musica doveva esprimere in forma chiara e in rispettosa subordinazione gli “affetti” del testo.

1. Ouverture (sinfonia d’apertura) per introdurre il pubblico (spesso usando i temi ricorrenti nell’opera) nell’atmosfera in cui l’azione verrà svolta. 2. Aria (cavatina e romanza): un brano melodico-lirico per voce solista, cantato gene-ralmente dai personaggi principali. 3. Duetto: dialogo melodico (vivace, drammatico) in cui due voci (dei personaggi prin-cipali) si alternano, si intrecciano, si uniscono. Se è a tre si chiama terzetto. 4. Recitativo: un breve assolo ritmico, quasi recitato o parlato, usato per chiarire un'a-zione o per collegare due scene. 5. Arioso: una forma che dà risalto ai momenti appassionati dell’opera. 6. Concertato: complesso gioco di voci soliste, a volte unite al coro, per un momento importante (psicologico-drammatico) dell’azione o per la conclusione di un atto. 7. Finale: alla fine di un atto o dell’opera può esserci un momento imponente in cui possono anche fondersi voci soliste, coro e orchestra. 8. Intermezzo: interludio tra un brano musicale e l’altro, prima del levarsi del sipario. Il carattere della musica può essere gioioso o triste, a seconda che l’opera (o la singola azione) sia buffa o seria. L’opera seria può contenere storie con risvolti tragici, commo-venti, drammatici, e può riferirsi a singoli personaggi o a popoli interi, in cui il conflitto tra bene e male appare con una certa evidenza. La ricerca di una realtà più umana e interiorizzata, l’approfondimento dello studio psicologico dei personaggi e delle situa-zioni di una vicenda letteraria (il cui massimo protagonista era stato in letteratura il Manzoni), viene raccolta in campo musicale da quattro grandissimi compositori: Rossi-ni, Bellini, Donizetti e soprattutto Verdi. Il significato dell’opera verdiana va ricercato nell’idea del compositore non meramente musicista, ma capace di accollarsi anche l’onere del drammaturgo e più in generale di essere impresario di sé stesso, al fine di controllare molti aspetti dell’opera, per poi essere sicuro del risultato finale. In un paese in cui gli analfabeti ufficialmente censiti sono il settantotto per cento della popolazione, il romanzo o la poesia restano fatalmente chiusi in un cerchio ristretto. L’unico mezzo artistico e immediato di diffusione delle idee è il teatro. Nell’opera ver-diana è spesso contenuto anche un importante messaggio che ha permesso la divulga-zione della cultura dei grandi scrittori stranieri nel nostro paese, come Byron, Schiller, Shakespeare. Le vicende dei personaggi delle opere inscenavano sempre episodi estre-mamente concreti, reali e tangibili (concetto del “vero”, che già fu di A.Manzoni), e portavano anche avanti alti ed onorevoli ideali secondo la prassi romantica; nonostante spesso le opere finivano con il dramma finale troviamo sempre il messaggio di “redenzione” (catarsi). Ricchissimo fu anche l’epistolario di Verdi con amici, parenti ed impresari, che ci ha permesso di conoscere moltissimi lati della sua “poetica” (l’insieme di regole che egli stesso si diede): egli amava i libretti chiari, concisi e diretti, mentre curiosamente ogni atto era sempre più breve del precedente. Secondo questo concetto, denominato “parola

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scenica”, le parole del libretto erano semplici, dirette, concrete, immediate; ed anche la musica fece sempre più uso del cosiddetto “declamato melodico” ossia di cellule melo-diche in sostituzione delle estese frasi tradizionali. Vi era infine nelle opere verdiane un “motivo conduttore”, chiamato “tinta musicale”, che divenne elemento portante nell’-ambito di un’opera. Poteva trattarsi di una determinata tonalità sulla quale si insisteva particolarmente, di un’ambientazione ricorrente, di una certa cellula ritmica, o quant’al-tro. Tenendo presenti questi elementi, possiamo affermare che le opere di Verdi sono sud-divisibili in tre gruppi corrispondenti ai tre momenti della sua vita creativa. Il primo periodo, tra il 1839 e il 1853, abbracciava anni di intenso lavoro producendo opere con viva personalità, ma abbastanza fedeli alla tradizione operistica precedente: l’organizzazione era sempre in tre-quattro atti, con una orchestrazione ancora acerba, con largo uso delle forme chiuse (arie, duetti, ecc...). Si ricordano di questo periodo Nabucco (1842), Hernani (1844), Macbeth (1847) su libretto di Shakespeare che pro-poneva elementi sovrannaturali, alquanto inusuali per Verdi, Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata. In queste prime opere esisteva già un forte messaggio verdiano di alti ide-ali, che indicavano come deplorevole e portatrice di sventura il comportarsi in modo disdicevole e scorretto. Il secondo periodo, che abbracciava gli anni tra il 1875 e il 1871, mostrava già una cer-ta evoluzione stilistica, e faceva emergere una notevole varietà nelle vicende dei perso-naggi, con situazioni anche brillanti e comiche. L’orchestrazione divenne più importan-te, mentre si faceva strada un progressivo raffreddamento nei confronti dei vocalizi virtuosistici. Nacquero in questo periodo le figure del soprano e del tenore drammatici. Di questo periodo si ricordano Un ballo in maschera (1859), La forza del destino ( 18-62), Don Carlos (1867), e soprattutto Aida che sfoggiava tre temi caratteristici ricorren-ti (di Aida, di Amneris, sua rivale, e dei Sacerdoti). L’ultimo periodo, che comprendeva gli anni dal 1887 al 1893, vide la produzione del capolavoro Otello, che mostrava la tendenza ormai compiuta di eliminare le forme chiuse, narrando la storia di un personaggio vinto dal destino, secondo una figura non dissimile dal Tristano di Wagner. 2.1. Nabucco Giuseppe Verdi, dopo l’esito positivo dell’Oberto, si ritrovò a comporre su richiesta dell’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, la commedia Un giorno di regno (1840), andata in scena con esito disastroso. L’insuccesso dell’opera fu dovuto, con ogni probabilità, alle condizioni in cui fu composta. Un tremendo dolore attanagliava Verdi a causa della tragica morte della moglie e dei figli. Ciò aveva gettato il musicista nel più profondo sconforto, e per ironia della sorte, l’opera che gli era stata richiesta doveva essere comica. Fu proprio nel biennio ‘40-‘41 che Verdi pensò seriamente di abbandonare la carriera di compositore operista. Tornò sulla sua decisione nel 1842,

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quando Merelli gli consegnò personalmente un libretto di soggetto biblico, il Nabucco, scritto da Temistocle Solera5. L’opera Nabucodonosor (più semplicemente Nabucco) ottenne un caloroso successo e riabilitò pienamente Verdi nel suo ruolo di compositore. L’opera andò in scena il 9 marzo 1842 al Teatro alla Scala e il successo fu questa volta trionfale. Venne replicata ben 64 volte solo nel suo primo anno di esecuzione. Con Na-bucco iniziò la parabola ascendente di Verdi. Sotto il profilo musicale l’opera presenta ancora un impianto belcantistico, in linea con i gusti del pubblico italiano del tempo, ma teatralmente è un’opera riuscita, nonostante la debolezza e alcune ingenuità del libretto. Lo sviluppo dell’azione è rapido, incisivo, e tale caratteristica avrebbe contrad-distinto anche la successiva, e più matura, produzione del compositore. Alcuni perso-naggi, come Nabucodonosor e Abigaille, sono fortemente caratterizzati sotto il profilo drammaturgico, così come il popolo ebraico, che si esprime in forma corale, unitaria, e che forse rappresenta il protagonista vero di questa prima, significativa, creazione ver-diana. Uno dei cori dell’opera, il celebre Va, pensiero, finì col divenire una sorta di canto doloroso o inno contro l’occupante austriaco, diffondendosi rapidamente in Lom-bardia e nel resto d’Italia. In questa prima fase dell’opera verdiana si è soliti scorgere la voce delle istanze rivolu-zionarie del Risorgimento italiano; più precisamente si ravvisa una novità di accento in cui si è riconosciuta per la prima volta, nell’opera italiana, la voce del “quarto stato”. 2.2. Gli “anni di galera” Dopo Nabucco(1842) e per quasi dieci anni Verdi scrisse mediamente un’opera all’an-no. L’anno succesivo Verdi propone, nello stesso teatro, I Lombardi alla prima crocia-ta (1843): opera ricca di grandi scene corali, un’epopea il cui tema sarà interpretato, in un futuro non lontano, in chiave patriottico-risorgimentale. La nuova opera s’impone rapidamente nei teatri in virtù di una musica incalzante, dai ritmi serrati e quasi brutali: caratteristica ricorrenti nelle opere giovanili di Verdi. Oltre ai grandi momenti corali e

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5. Temistocle Solera ebbe una vita movimentata. Apparteneva a una famiglia della borghesia colta progressi-sta. Era figlio di Antonio Solera, avvocato e pretore a Iseo, il quale, arrestato nel 1820 assieme ad altri carbo-nari del Polesine, fu condannato a morte ed ebbe la pena commutata a vent’anni di carcere nella fortezza dello Spielberg. Temistocle Solera poté tuttavia studiare a Vienna nel collegio imperiale Maria Teresa. Si dedicò anche alla composizione musicale e pare abbia avuto esperienze di direttore d’orchestra. Esordì molto giovane come poeta e scrittore di romanzi, dopo aver effettuato studi letterari e musicali. Fu politicamente impegnato nella corrente neoguelfa. Tra il 1840 e il 1845 scrisse quattro opere su libretto proprio, che non raccolsero il successo sperato. Conquistò la notorietà grazie alla collaborazione con Giuseppe Verdi, per il quale scrisse i libretti di Oberto, Conte di San Bonifacio (1839), Nabucco (1842), I Lombardi alla prima crociata (1843), Giovanna d'Arco (1845) e Attila (1846). Dopo il 1845 si trasferì in Spagna, lavorando nel mondo teatrale in varie città, componendo l’opera La hermana de Pelayo e un poema storico intitolato La toma de Loiò. Negli ultimi anni di vita tornò in Italia muovendosi nei retroscena politici di quegli anni, fun-gendo anche da corriere fra Napoleone III e Cavour. Temistocle Solera morì, in solitudine, nel giorno di Pasqua del 1878; i funerali furono celebrati il giorno seguente al Cimitero Monumentale di Milano, dove tuttora riposa.

alle rudi scene di violenza, nei Lombardi si trovano melodie accattivanti profuse a pie-ne mani; e Verdi si dimostra capace anche di pagine delicate come la preghiera di Gi-selda. Le opere giovanili, I Lombardi alla prima crociata (1843), La battaglia di Legnano (1849), I due Foscari (1844), Giovanna d’Arco (1845), Alzira (1845), Attila (1846), Il corsaro (1848), I masnadieri (1847), Ernani (1844) e Macbeth (1847), ad eccezione delle due ultime, pur presentando talvolta al loro interno pagine di acceso lirismo e una lucida visione dei meccanismi e delle dinamiche teatrali, non danno testimonianza di un’evoluzione del maestro verso forme musicali e drammaturgiche più personali e si adagiano su schemi già sperimentati in passato e legati alla tradizione melodica italiana precedente. Furono creazioni generalmente di successo ma composte spesso su com-missione, con ritmi di lavoro talvolta massacranti e non sempre sorrette da una genuina ispirazione. Per tale ragione Verdi definì questo periodo della propria vita “gli anni di galera”. Fra la produzione verdiana dell’epoca spiccano senz’altro, per forza dramma-turgica e fascino melodico due opere, Ernanie Macbeth. Tratta dall’omonimo dramma di Victor Hugo, Ernani fu concepito da Verdi fin dall’e-state del 1843. Musicato nell’inverno successivo su libretto di Francesco Maria Piave6, venne presentato al pubblico veneziano in marzo. La vicenda, ricca di colpi di scena e incentrata su un triplice amore, diede la possibilità a Verdi di approfondire la caratteriz-zazione di alcuni personaggi dal punto di vista drammaturgico e di iniziare ad affran-carsi dall’ingombrante influsso dei grandi compositori italiani dei primi decenni dell’-Ottocento: Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti. Verdi dimostra di saper “costruire” personaggi tutt’altro che schematici, grazie a una musica aderente ai loro mutamenti psicologici e alle loro passioni. Rivela un sicuro istinto teatrale che si evidenzierà sempre più nel corso di questi anni di sperimentazione. Un discorso a sé richiede Macbeth, opera assai più complessa, in cui la fantasia verdia-na, stimolata dal testo shakespeariano, giunge a esiti di eccezionale rilievo già nella prima versione del lavoro, in seguito rivisto e in parte modificato per Parigi (1865). Macbeth, presentata al Teatro La Pergola di Firenze nel 1847, è con ogni probabilità il capolavoro giovanile di Verdi. Musicata su libretto di Francesco Maria Piave, si ispira

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6. Francesco Maria Piave nacque in una famiglia benestante, legata all'industria del vetro. Il padre era stato podestà del comune di Murano durante il periodo napoleonico. Cominciata ma subito interrotta la carriera ecclesiastica, Piave studia a Roma dove si è trasferito con la famiglia. Nel 1842 diventa direttore degli spetta-coli del Teatro La Fenice di Venezia, di cui diverrà poi poeta ufficiale dal 1848 al 1859. Sempre nel 1842 inizia anche una collaborazione con il Teatro alla Scala di Milano, ricevendo la nomina di poeta ufficiale dal 1859 al 1867. La sua migliore, più prolifica e più celebre produzione si ha con il compositore Giuseppe Verdi, per il quale scrive ben 10 libretti. Morì a Milano e riposa ancora oggi nel Cimitero Monumentale della città. I libretti per Giuseppe Verdi: Ernani (1844), I due Foscari (1844), Attila (1846, revisione del libretto di Sole-ra), Macbeth (1847, revisione del libretto e parziale riscrittura di Maffei), Il corsaro (1848), Stiffelio (1850), Rigoletto (1851), La traviata (1853), Simon Boccanegra (1857, poi rivisto e parzialmente riscritto da Boito), La forza del destino (1862).

alla tragedia omonima di William Shakespeare. L’opera, dalle potenti connotazioni drammatiche, si differenzia dalle precedenti per un maggiore approfondimento psicolo-gico dei protagonisti della tragedia (Macbeth e Lady Macbeth), preannunciando, col suo debordante lirismo, la trilogia popolare di un Verdi entrato nella sua piena maturità espressiva. Vale la pena, a questo punto, aprire una parentesi sull’influsso che i gli scrittori europei ebbero su Giuseppe Verdi. Il giovane compositore esordì attingendo dalla grande storia, dal mito e dalla Bibbia (Oberto, Attila, Nabuccodonosor, I Lombardi alla prima crociata); successivamente si rivolse ai classici del romanticismo europeo (basti pensare a Dumas, Hugo, Byron) e, soprattutto a grandi autori come Schiller e Shakespeare. La sintonia con Schiller, pur fondata sull’ispirazione di ben noti melodrammi (Giovanna d’Arco, Luisa Miller, I masnadieri, Don Carlo) ma legata a valori etici - quali la ragion di stato, il senso dell’onore e del dovere - risulta meno esplicita rispetto a quella dirompente stabilita con Shakespeare fin dalla giovinezza e coltivata per tutta la vita. Specchio delle passioni e di tutte le umane contraddizioni, il drammaturgo di Stratford diventa, in realtà, il simbolo dell’età romantica e, come tale, la dominante della dialettica musicale verdiana. La verità dell’invenzione drammatica di Verdi non stava nell’imitazione “veristica” della realtà ma nel groviglio delle passioni umane tradotte sulla scena nel linguaggio universale della musica. In questo difficile gioco risiede anche la ragione del profondo legame con Shakespeare7. Il poeta rappresentò per Verdi la scoperta di una nuova con-cezione drammaturgica incentrata sulla rappresentazione della condizione umana e delle sue problematiche; la conoscenza di un linguaggio teatrale libero da ogni regola accademica, la mescolanza dei generi, il valore della «parola scenica», lo scardinamen-to della forma «chiusa». Nel Macbeth di Shakespeare (noto nella traduzione italiana di Carlo Rusconi del 1838), Verdi riconosce una “delle più grandi creazioni umane»8 e, quindi, sollecita Francesco Maria Piave di fare almeno una cosa fuori dal comune. L’ “opera indicherà - assicura il librettista –“nuove tendenze alla nostra musica e aprirà nuove strade ai maestri presenti ed avvenire”9. Del resto già nel primo accenno a Macbeth (in una lettera all’impresario fiorentino Lanari, del 17 maggio 1846), il maestro annota a proposito del soggetto: “Non è né politico, né religioso: è fantastico”. Per tradurre tale grandezza, Verdi fa del realismo il punto della sua drammaturgia musicale con una carica innovativa capace di audacie mai più superate. Anche i cantanti vengono chiamati a un ruolo inedito. Non

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Leggiamo nell’epistolario verdiano: “Copiare il vero può essere buona cosa, ma Inventare il vero è meglio, molto meglio” Cfr. L. Bentivoglio,Il mio Verdi, 2000, p. 43. Cfr. L. Bentivoglio, Il mio Verdi, 2000, p. 43.

sono solo voci, ma interpreti e attori; col gesto, la sensibilità e l’intelligenza musicale, con la consapevolezza di non essere semplici strumenti, ma uomini che cantano il dramma di altri uomini. Da un lato riesce così a costruire, in contrasto con il gusto del tempo, un perfetto equilibrio fra parola e musica, la ben nota “parola scenica”, dall’al-tro, dando spazio primario al «cattivo», fa propria la nouvelle vogue romantica. La novità verdiana corrisponde a quella corrente che nella seconda metà dell’Ottocento si andava delineando come “estetica del brutto”, degli emarginati dei diseredati dal punto di vista morale e fisico: è, in sintesi, il naturalismo di Zola, il verismo di Verga, o il realismo di Balzac. L’estetica del brutto, dell’emarginato, iniziata con Macbeth, con-tinua con la cosidetta «trilogia popolare» in cui, i veri protagonisti non sono il Duca, Eleonora o Alfredo, vale a dire i personaggi di rango, bensì Rigoletto, Azucena e Vio-letta, ossia i personaggi inferiori e messi al bando da un lato per il loro ambiguo passa-to, dall’altro perché, tentando di riscattarsi con una passione vera, si oppongono all’or-dine gerarchico. Per il Macbeth, Verdi scrisse che voleva una Lady «brutta e cattiva», che non «cantasse» in senso tradizionale, ma avesse «una voce aspra, soffocata, cupa», che «avesse del diabolico», richiesta, quest’ultima, impensabile pochi anni prima ai tempi di Rossini o anche di Bellini. Altrettanto vale per il protagonista maschile voluto so-prattutto per l’intelligenza interpretativa, per la straordinaria efficacia del canto decla-mato nonché per la figura poco attraente. Con Macbeth prendono avvio anche altre novità: - la triade «amorosa» - tenore, soprano, baritono - viene sostituita dal baritono, sopra-no/contralto, basso; - gli «abbellimenti» vengono trasformati in «canto declamato»; - il plot, come azione teatrale, perde la sua primaria importanza a vantaggio del-l’«azione interiore», dello studio psicologico dei personaggi (per qualcosa di simile nel teatro di prosa bisognerà attendere Pirandello); - l’assenza dell’intreccio amoroso va a favore del confronto straziato, ma lucidissimo, del protagonista con la propria coscienza dal momento dell’esaltazione illusoria a quel-lo della certezza tragica della disfatta, annunziato dalle streghe. Incarnazione del Male e, quindi, centro nodale del dramma, esse rappresentano «un personaggio». In Verdi c’è un’attenzione maniacale per ogni aspetto del dramma, dalla recitazione, ai costumi, alla gestualità, perché tutto doveva concorrere alla valorizzazione della «parola scenica», determinata dalla essenzialità. È quanto apprendiamo dalle numerose lettere inviate al librettista Piave con ossessiva insistenza: “Ti raccomando i versi [...] quanto più saranno brevi tanto più troverai effetto [...] per concludere [...] non trascu-rarmi questo Macbeth [...] brevità e sublimità”; e ancora: “Abbia sempre in mente di dir poche parole [...] poche parole [...] ti ripeto poche parole [...] stile conciso! Hai capi-to?”, o al primo interprete di Macbeth, Felice Varesi: «io non cesserò mai di raccoman-darti di studiare bene la posizione e le parole: la musica viene da sé. Insomma, ho pia-

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cere che servi meglio il poeta del maestro”. 10 Nel 1849, venne presentata al pubblico napoletano Luisa Miller, opera importante per l’evoluzione dello stile musicale e della drammaturgia verdiana. L’orchestrazione si fa più raffinata, il recitativo più incisivo e il compositore scava nella psiche della protago-nista come mai aveva fatto prima di allora. Anche nella creazione successiva, Stiffelio

(Trieste1850), Verdi portò avanti quel lavoro di caratterizzazione psicologica del perso-naggio centrale, iniziato con Macbeth e proseguito in Luisa Miller. L’opera presentava però alcune debolezze strutturali, dovute in parte ai drastici tagli operati dalla censura austriaca, che non le permisero di imporsi al grande pubblico italiano ed europeo. An-cor oggi Stiffelio è rappresentato raramente. Queste ultime due opere sono di grande interesse e segnano un momento di transizione che porterà alla nascita della cosiddetta “trilogia popolare”. 2.3. La rivoluzione della “trilogia popolare”

Dopo Luisa Miller e Stiffelio, nacquero Rigoletto (Venezia 1851), Il Trovatore (Roma 1853) e La Traviata (Venezia 1853), i tre grandi capolavori, noti come “trilogia popo-lare” o “trilogia romantica”, che segnano una svolta nella drammaturgia verdiana. L’-approfondimento psicologico delle figure dei protagonisti assume ben altro rilievo e originalità, il linguaggio musicale verdiano è capace di ricreare complesse situazioni drammatiche, articolando la scena secondo schemi anticonvenzionali. Gli anni immediatamente precedenti a questi tre celebri lavori segnano una svolta an-che nella biografia di Verdi: l’agiatezza conquistata insieme con il successo gli consen-tì di acquistare la villa di Sant’Agata (nel 1848) dove stabilì la propria residenza. Gli fu compagna Giuseppina Strepponi11, che Verdi sposò poi nel 1859. Tratto da una pièce di Victor Hugo, Le roi s’amuse, Rigoletto è un’opera profondamen-te innovativa sotto il profilo drammaturgico e musicale. Per la prima volta al centro della vicenda di un’opera drammatica troviamo un buffone di corte, cioè un personag-gio che, utilizzando una terminologia moderna, potremmo definire un “emarginato”. La dimensione emotiva dei protagonisti è colta da Verdi magistralmente attraverso una partitura messa al servizio del dramma e di straordinaria bellezza melodica. Azione e musica sembrano rincorrersi e sostenersi mutuamente in una vicenda che ha un ritmo di

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10. Cfr. L. Bentivoglio, Il mio Verdi, 2000, p. 157. 11. Giuseppina Strepponi, all’anagrafe Clelia Maria Josepha Strepponi (Lodi, 8 settembre 1815 – Sant’Agata di Villanova sull’Arda, 14 novembre 1897), è stata un soprano italiano. Figlia di musicisti, Giuseppina Strep-poni (detta famigliarmente Peppina) nacque a Lodi, figlia primogenita dei cinque figli di Rosa Cornalba e di Feliciano Strepponi (1797–1832), il quale era organista al Duomo di Monza ed un modesto compositore d’opera che divenne poi assistente del direttore del Teatro Grande di Trieste. Le prime lezioni le pervennero direttamente dal padre che la focalizzò essenzialmente allo studio del pianoforte. Dopo la morte del genitore nel 1832, studiò canto come soprano e pianoforte al Conservatorio di Milano ove sul finire dell’anno 1834 ottenne il primo premio per il bel canto.

sviluppo rapido, senza cedimenti né parti superflue. Il miracolo si ripeté con Il trovatore (Roma, 1853), opera dall’impianto più tradiziona-le, ma altrettanto affascinante. Dramma di grande originalità perché si struttura su una vicenda povera di avvenimenti e dove i protagonisti o sono proiettati verso un futuro gravido di incognite, o immersi nei ricordi di un passato lontano che ne condiziona l'azione e che li sospinge verso un destino di morte ineluttabile. Con quest’opera Verdi scrisse alcune fra le sue pagine più alte, ricche di patos e suggestioni tardo-romantiche che sarebbero nuovamente emerse pochi mesi più tardi, nella terza opera, in ordine cronologico, della trilogia: La traviata. La traviata (Venezia, 1853) ruota attorno alla storia di una cortigiana travolta dall’amo-re per un giovane di buona famiglia. Più che su alcuni accadimenti esteriori, la vicenda viene vissuta all’interno della coscienza della protagonista la cui natura umana è scan-dagliata da Verdi in tutte le sue sfumature. Le scelte stilistiche del compositore risulta-no adeguate alla complessa drammaturgia dell’opera e si traducono in un raffinamento orchestrale e in una complessità armonica la cui modernità non venne all’epoca piena-mente recepita. Oggigiorno alcuni critici considerano La Traviata una vera e propria pietra miliare nella creazione del dramma borghese degli ultimi decenni dell’Ottocento e ne evidenziano l’influenza su Puccini e gli autori veristi suoi contemporanei12. Dopo La Traviata l’attività del compositore subì un rallentamento, cui corrispose una ricerca sempre più ampia e meditata. Verdi con la Trilogia aveva scardinato gli assi portanti della tradizione lirica italiana, apportando una serie di novità e rivoluzioni tali da segnare un punto di svolta: la nasci-ta di un nuovo melodramma. I concetti di tempo, spazio, parola, melodia vengono uti-lizzati in modo nuovo, stravolti e reinventati. Di punto in bianco, con Rigoletto, il melodramma verdiano si svincola volutamente dai modelli consueti, a cominciare dagli argomenti che escono completamente dalla moda librettistica del tempo. Una poetica innovativa che non investe solo la scelta del sogget-to,ma anche la sua veste formale. A partire da Rigoletto, la drammaturgia verdiana non è più riempita di contenuti generici: l’impostazione degli atti, il taglio delle scene, la loro articolazione nel tempo e nello spazio, gli argomenti e la distribuzione dei dialoghi e dei monologhi, le forme musicali e la scelta dei materiali discendono per deduzione dal contenuto drammatico del soggetto, mentre i vari strati compositivi – letterario, scenografico, drammatico, musicale – acquistano una indipendenza così stretta che li condiziona a vicenda e conferisce all'opera una poderosa unità. Tra l’argomento e la veste formale si stabilisce una compenetrazione assoluta: nulla è più neppur minima-

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12. Fra questi, René Leibowitz, secondo il quale “è presente quel lirismo realistico che già fa presagire il verismo di certi successori di Verdi fin da La traviata”. (René Leibowitz, Storia dell'Opera, Milano, Garzanti Ed., 1966, pag. 226 traduzione di Maria Galli De Furlani dall’originale francese dello stesso autore Histoire de l’Opéra, Ed. Bouchet/Chastel, Parigi 1957).

mente fungibile. L’uso che Verdi fa di alcuni elementi è emblematico per meglio comprendere il genio del compositore. Il concetto di tempo, ad esempio, assume un ruolo fondamentale nelle trilogia popolare. Sin dal Nabucco, Verdi compie una operazione sul tempo: le lentezze, le dilatazioni, le simmetrie a distanza dei dialoghi in musica, i lunghi interventi orchestrali tra una battu-ta e l’altra, la ripetizione delle parole, in una parola, la definizione di un tempo ideale come condizione comunicativa a priori viene sostituita da un tempo molto più realisti-co, che mira a rappresentare i ritmi della vita. Ma, non esiste un solo modo di vivere il tempo dell’esistenza: nella trilogia popolare Verdi scopre che la musica ha il potere di rappresentarne diversi, e in tal senso differenzia Rigoletto, Il trovatore e La traviata. Rigoletto è l’opera del tempo sospeso. Dopo la comparsa di Monterone che sbarra la cascata ritmica e sonora della festa iniziale, tutto si svolge nell’attesa che la maledizio-ne faccia il suo effetto. Il tempo del Rigoletto è quello della paura, del sospetto, del presagio, dell’incertezza; è il tempo delle domande senza risposta, delle sorprese, dei tuffi al cuoreche spezzano la parola e che, insieme all’idea fissa della maledizione, tor-mentano il protagonista, generando situazioni sospese. Dal secondo quadro in poi, tutta l’opera è una lunga attesa. Persino la natura vi partecipa, con il lento addensarsi della tempesta che si scatena, finalmente, nel momento in cui la maledizione s’avvera. Il tempo sospeso di Rigoletto tende a rallentare senza far cadere, anzi aumentando la ten-sione drammatica (un vero miracolo di virtuosismo compositivo, come mostrano la seconda parte di “Cortigiani, vil razza dannata” e del Quartetto) e diventa incompati-bile con le forme su larga scala: Rigoletto è un’opera senza arie (tranne quella, con ca-baletta, del Duca) secondo la stessa definizione di Verdi, sostituite da una serie di duet-ti. Le forme adottate sono brevi, rotte, spezzate da pause o da interventi esterni, in qual-che modo aperte. Il tarlo corrosivo è il declamato di cui Rigoletto è il portatore princi-pale, un declamato di tipo nuovo, che s’infiltra ovunque a cogliere i fatti nella loro im-mediatezza fenomenica. Del tutto diverso il tempo nel Trovatore, che non è quello empirico dei fenomeni, ma quello metafisico dell’immaginazione. Qui non contano tanto i fatti ma le visioni che, sorprendentemente, si avverano, cancellando la differenza tra passato, presente e futu-ro, mentre la realtà si ribalta nel sogno: “Sei tu dal ciel disceso o in ciel son io conte?”. Per rappresentare questa regione ambigua dell’esistenza, questo tempo fuori dal tempo, Verdi usa forme regolari, ben articolate, compatte, dove l’autosufficienza delle imma-gini interiori è espressa in forme musicali rigorosamente chiuse, solo qua e là sottopo-ste a inattesi terremoti (ad esempio nel racconto di Azucena). Nel Trovatore il decla-mato è un’eccezione: la melodia simmetrica trionfa, e quasi sempre nasconde la parola. Il suono, non il semantema, è portatore di significato. In questo tempo metafisico l’a-zione quasi nonesiste: ben poco succede nel Trovatore ma, per uno strano ossimoro, la staticità è percorsa da una frenetica velocità temporale, come la fiamma che sta ferma

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ma, nello stesso tempo, si muove. Se Rigoletto è un’opera di fenomeni, il Trovatore è un’opera di essenze: mai, nel melodramma italiano, s’era avuto nulla di simile. Il tempo della Traviata ci riporta sulla terra, ma lo scorrere dell’esistenza è totalmente diverso rispetto a quello di Rigoletto. Domina un’ansia precipitosa: il tempo corre, la giovinezza sfiorisce, le notti sono troppo corte per divertirsi appieno; e, soprattutto, c'è un il limite, fissato dal destino, alla possibilità di amare. “É tardi!” esclama Violetta nell’ultimo atto. Ma è sempre tardi nella Traviata. Così, se il tempo sospeso di Rigolet-to tende a rallentare, quello ansioso della Traviata, spinto dal perdurante ritmo di val-zer, va verso l’accelerazione. Questo conferisce alle forme chiuse della Traviata, so-vente modellate sullo schema francese dell’aria a couplets, un dinamismo del tutto di-verso dalla mobilità immobile che caratterizza le fiamme reali e metaforiche del Trova-tore. Nella sovrabbondanza melodica della Traviata la parola non è ostentata, come in Rigoletto, né conculcata come nel Trovatore; nella parte di Violetta essa nutre la melo-dia con i suoi accenti, le dà verità e spessore, si fa tramite di esperienze interiori. Verdi conferisce ai soggetti della trilogia popolare una predisposizione speciale all’in-contro con la musica. Mai più userà, ad esempio, con la stessa efficacia lo choc allusivo della reminiscenza, che afferma la continuità del tempo, ripresentando a distanza i temi musicali collegati con le idee fisse che condizionano le esistenze di Rigoletto, Azucena e Violetta: l’idea della maledizione, quella del fuoco e quella dell’amore redentore. Considerando il rapporto tra la musica e l’esperienza del tempo, si capisce perché Rigo-letto, Il trovatore e La traviata si siano imposte alla coscienza moderna come le tre incarnazioni più tipiche del melodramma assoluto. Nella trilogia popolare, la ricerca timbrica non si limita più ad una funzione aneddotica e pittoresca ma crea una dialettica scenografica che diventa parte integrante della dram-maturgia. Ogni quadro ha,così, un colore che contrasta con quello dei quadri adiacenti e crea contrappunti a distanza, efficacissimi per stringere l’intero dramma in una com-pattezza piena di energia. Una chiara funzione architettonica acquista, ad esempio, ne-gli otto quadri del Trovatore, l’alternanza, resa musicalmente, di scuro-chiaro, notte-giorno, freddo-caldo, nero delle tenebre-rosso del fuoco; oppure, nella Traviata, la con-trapposizione dei suoni squillanti e volutamente sfacciati che rappresentano l’ambiente mondano dei due quadri di festa, con i delicati pastelli di quelli privati; o ancora, in Rigoletto, il contrasto tra il buio della notte, negli esterni del secondo e quarto quadro, con il luccichio del palazzo ducale, negli interni del primo e nel terzo. Sono corrispon-denze così esplicite nelle loro simmetrie che non hanno bisogno di commento. Alla funzione del colore, essenziale per definire l’unità del quadro, si aggiunge anche un nuovo impiego dello spazio. Non si tratta dei soliti effetti di voci e strumenti fuori scena, ma di una ricostruzione musicale dello spazio inteso come proiezione dell’inte-riorità. Il dispositivo determinante è quello di rendere il primo piano indipendente dallo sfondo. Del tutto indipendenti sono infatti, nella festa che apre Rigoletto, il canto in primo piano e le danze nelle sale interne. Questo genera due spazi distinti, con uno

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strano effetto di vuoto intermedio prodotto dal lungo intervento iniziale della musica fuori scena, nel silenzio dell’orchestra. Gli spazi si moltiplicano in seguito, quando entrano in gioco addirittura quattro fonti sonore: i cantanti, l’orchestra che suona in modo intermittente, la banda interna e un gruppo di archi sul palcoscenico. La frantumazione dello spazio potenzia, in Rigoletto, l’espressione del tempo sospeso: si veda la pantomima di “Caro nome” con Gilda che appare in strada, sparisce dentro la casa, riappare sulla terrazza, mentre in primo piano il coro dei rapitori, trattenendo il respiro, ne commenta la bellezza; oppure la stamberga di Sparafucile, vista in sezione e divisa tra alto e basso, fuori e dentro, centro di una frantumazione spaziale che si esten-de al paesaggio, con i suoni e i rumori del vento, del tuono, dell’orologio che segna le ore, di Gilda che batte alla porta, della canzone del duca, tutti provenienti da punti di-versi, vicini e lontani, segno della casualità del destino che sta per colpire gli uomini. Nel Trovatore i casi frequenti di voci e i suoni fuori scena hanno altre funzioni: deter-minano sempre una peripezia; concretano le immagini evocate nel tempo metafisico delle visioni; ci trasportano in una dimensione assoluta, in cui avviene lo scontro tra principi primordiali, come quello tra amore e morte nella scena del «Miserere» o tra sacro e profano in quella del chiostro. Nella prima scena della Traviata, il contrasto tra la festa che continua nelle stanze in-terne, e il dramma privato che si svolge in primo piano, rende la contrapposizione tra Violetta e l’ambiente da cui lei si staccherà, ritrovando se stessa. Per non dire dello straordinario effetto determinato, alla fine del primo atto, dal canto fuori scena di Alfre-do, così ricco di valenze psicologiche, spaziali, semiotiche, memoriali che sarebbe qui troppo lungo illustrare e che danno a quel canto una forza impressiva adeguata al con-tenuto che deve rappresentare. La funzione espressiva ottenuta attraverso l’articolazio-ne sonora dello spazio non si esaurisce, infatti, nel singolo quadro ma finisce per river-berarsi su tutta l’opera: essa, infatti, non solo esalta contenuti specifici, ma presta una dimensione fisica alla durata interiore. L’ unità dei singoli quadri, fissata nel tempo, nel colore e nello spazio, poggia sul prin-cipio dialettico del contrasto che, sin dall’inizio, caratterizza il teatro di Verdi. La sua opera può essere definita come “arte del contrasto”. Anche sotto questo aspetto Rigolet-to, Il trovatore e La traviata presentano un salto di qualità: le violente contrapposizioni di situazioni, forme, stili, melodie, ritmi, timbri, tonalità che nelle prime opere mirava-no a scaricare sullo spettatore una serie di choc ad effetto, dal Rigoletto in poi diventa-no una funzione organica della drammaturgia musicale; e se prima i contrasti tendeva-no a disarticolare la struttura, ora si attraggono come poli opposti, generando energia e compattezza. Cosi, tutto diventa naturale, a cominciare dalla costruzione della melodia, asse portante del melodramma di Verdi. A partire, da Rigoletto, la fusione dei vari stili melodici, la ricerca dell’accostamento che genera energia diventano così naturali che le melodie appaiono semplici, immediate, fortemente orecchiabili, pur nascondendo una realizzazione complessa: l’irregolarità fraseologica diventa un raffinato elemento, la

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varietà del vocabolario è assortita con tale souplesse che l’ascoltatore se ne accorge, a posteriori, solo leggendo lo spartito. Inoltre, nella trilogia popolare la melodia diventa così sovrabbondante da superare gli argini della forma chiusa, tracimando nel recitati-vo, sino a inzuppare intimamente la prosodia, i ritmi, gli accenti della parola. Per di-ventare espressivo, il recitativo non ha più bisogno di trasformarsi in arioso, come av-veniva di solito, ma può mantenere tutta la sua plasticità declamatoria, e nello stesso tempo farsi “cantabile”, come se le frasi fossero “montate” attraverso frammenti di arie destrutturate. Il metodo è nuovo e trascina con sé importanti conseguenze. Ogni nota di quello che era il vecchio recitativo acquista importanza, e la compenetra-zione di musica e parola diventa così stretta che Verdi ordina di eseguire senza le solite appoggiature, cioè esattamente come è scritto, il formidabile declamato che precede e invade il terzetto nell’ultimo atto di Rigoletto: le frasi, infatti, non traggono più la loro giustificazione dal testo verbale ma dalla interna coerenza melodica degli intervalli. Essendo divenuto così pregnante, il recitativo può concedersi anche una notevole esten-sione: la furiosa e schematica brevità, imposta a Piave nel Macbeth, ora non è più così necessaria, a tutto vantaggio dell’azione. Altri esempi di declamato sottratto agli stereo-tipi delle cadenze tradizionali, troviamo as esempio in Traviata, nella lunga scena in-troduttiva all’inizio del terzo atto. Infine, nel momento in cui il recitativo acquista spessore e organicità, cade la disconti-nuità che da sempre aveva regolato la drammaturgia dell’opera italiana, con l’alternan-za di materiale interstiziale neutro e blocchi musicali significanti, comprensione ed espressione, divenire ed essere. Anche i dialoghi posseggono ora musica pregnante. Ne consegue una rivoluzione dell’ascolto, che non conosce più il vecchio movimento a fisarmonica di rilassamento e tensione, distrazione e attenzione. Nella rappresentazione della verità tutto è in continua tensione: il che non significa sovreccitazione permanen-te, bensì recitazione “shakespeariana”, intensa, misurata e vera, come indicano le ab-bondantissime prescrizioni di “piano” e “pianissimo” che costellano le tre partiture. In tal modo Verdi tronca ogni legame con l’antica concezione ludica del melodramma fondata sul continuo pendolare tra il tempo, musicalmente vuoto, del recitativo, e quel-lo assoluto del pezzo musicale: se il gioco è presente nelle opere di Verdi, esso è ora inteso come condizione esistenziale, non più come forma della rappresentazione. Così, il tradizionale melodramma italiano, sovraccaricato di responsabilità espressive, finisce per crollare sotto il proprio peso. Il teatro musicale è veramente riplasmato, ricreato dalle sue fondamenta, e completa-mente conquistato alle istanze di verità che, come visto, caratterizzano l’arte romantica. 2.4. L’esperienza francese

Verdi, a cavallo tra la prima metà e la seconda metà dell’Ottocento sperimenta la via d’oltralpe, alla volta di Parigi. Grande è la forza d’attrazione esercitata dalla capitale francese sugli operisti italiani: Parigi consente maggiore libertà intellettuale rispetto a

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quella vigente negli stati italiani, inoltre, permette lauti guadagni e una maggiore difesa contro la pirateria musicale, senza contare che al compositore è riconosciuto uno status sociale e professionale assai superiore rispetto a quello italiano. Verdi, profondo cono-scitore delle principali opere del repertorio francese, si reca a Parigi nel 1847, quattro anni prima di mettere mano alla “trilogia popolare”, per provare il suo primo grand opéra con Jérusalem, adattamento dei Lombardi alla prima crociata. Con il grand opé-ra13 e con il complesso sistema teatrale francesce Verdi avrà del resto modo di familia-rizzare durante il suo secondo soggiorno parigino, tra la fine del 1853 e quella del 185-5, entrando quindi in contatto diretto con le opere francesi di Meyerbeer, Halévy e Gounod. L’attenzione crescente per gli sviluppi del teatro musicale europeo corrispon-de a un’esigenza largamente avvertita tra i nuovi ceti che, in epoca postunitaria, acce-dono ai teatri e alla cultura in generale: l’esigenza di sprovincializzarsi, di dar voce a nuovi valori, di superare quell’idealismo risorgimentale che aveva accompagnato le fasi più gloriose del melodramma romantico. In questa ottica va quindi letta la creazio-ne di Le vépres siciliennes, rappresentati nel 1855 all’Opéra di Parigi, massimo teatro francese dell’epoca, seguiti a dodici anni di distanza dall’altrettanto “grandioso” Don Carlos. Eugène Scribe14, all’epoca librettista dell’Opéra di Parigi, propose al compositore un testo in francese per un’opera da rappresentare nella Ville Lumière. Ne uscì un’opera, Les vêpres siciliennes (1855), di notevole impatto musicale ma poco convincente sotto

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13. Il grand opéra ha dominato la scena francese fra gli anni venti e gli anni ottanta dell’Ottocento, sostituen-dosi alla tragédie lyrique. I primi esempisono: La muta di Portici (La muette de Portici) di Auber (1828) e Guglielmo Tell (Guillaume Tell) di Rossini (1829). Fra gli autori più rappresentativi del genere va segnalato Giacomo Meyerbeer (1791-1864), compositore tedesco trasferitosi a Parigi dal 1827, che raggiunse il succes-so grazie ad alcune pregevoli opere quali Roberto il diavolo (Robert le diable) del 1831, Gli Ugonotti (Les Huguenots) del 1836, Il profeta (Le prophète) del 1849 e L'Africana (L'Africaine). Tali creazioni vedono impegnato come librettista Eugène Scribe (generalmente in coppia con altri librettisti), uno tra più importanti drammaturghi francesi dell’Ottocento. Nei tratti essenziali del grand opéra di Meyerbeer-Scribe confluiscono le acquisizioni del teatro francese già riscontrabili nell’opéra-comique e nella tragédie lyrique del primo ventennio del XIX secolo. I libretti si incentrano su soggetti a sfondo storico, con forti contrasti passionali, bruschi cambi di situazione e colpi di scena. Nel grand opéra acquistano particolare rilievo le scene spettacolari, caratterizzate dall’impiego di numerose comparse, cortei, sfilate e balletti. Ai cori viene affidato un ruolo di primaria importanza. L’orche-strazione è costituita da un organico fortemente ampliato, onde poter accentuare la spettacolarità e la tensione drammatica della pièce. Vengono utilizzati temi musicali e motivi ricorrenti che riaffiorano nel corso della rappresentazione e che si ricollegano a determinati personaggi, stati d'animo o atmosfere. L’opera si articola generalmente in cinque atti. Il suo pubblico appartiene prevalentemente ai ceti della borghesia urbana medio-alta. 14. Augustin Eugène Scribe (Parigi, 24 dicembre 1791 – Parigi, 20 febbraio 1861) è stato uno scrittore, drammaturgo e librettista francese. Figlio di un mercante di sete, compì i suoi studi presso il collegio di Santa Barbara in Parigi. Appassionato di teatro, a diciotto anni scrisse con i suoi amici Casimir Delavigne, Henri Dupin, Charles-Gaspard Delestre-Poirson alcune pièces teatrali che passarono tuttavia inosservate: I dervisci (1811), L’Albergo, ovvero Briganti senza saperlo (1812), Thibault, conte di Champagne (1813), Il Baccellie-

il profilo drammaturgico. L’opera, inquadrabile nel genere del grand opéra, con spetta-colari messe in scena, coreografie e movimenti di massa, poco si addiceva al genio verdiano, approdato con La Traviata a un tipo di drammaturgia più intimista, psicologi-ca. Maggior successo avrebbe avuto, pochi mesi più tardi, la versione italiana, I vespri siciliani (Parma, 1855), con la quale si sono cimentati, nel secondo dopoguerra alcuni fra i maggiori direttori d’orchestra e interpreti della grande lirica internazionale15. 2.5. Gli anni della maturità

La seconda metà degli anni cinquanta dell’Ottocento, furono anni di travaglio: Verdi poteva finalmente comporre senza fretta, ma l’intero mondo musicale stava lentamente cambiando. Simon Boccanegra segna il nuovo incontro tra Verdi e la drammaturgia spagnola dopo Il trovatore. Alla “prima” veneziana del 1857 l’opera è un fiasco clamoroso. L’insuc-cesso sarà riscattato, vent’anni più tardi, da una seconda versione, profondamente rima-neggiata nel libretto (sul quale una seconda versione, profondamente rimaneggiata nel libretto (sul quale interviene Arrigo Boito) e nella partitura. Con questa nuova versione, presentata alla Scala il 24 marzo 1881, Verdi crea un’opera di esemplare coerenza drammatica, dominata da una tinta scura e dalle voci maschili gravi: un’opera capace di imporsi sulle scene teatrali per la sua grandezza tragica. Simon Boccanegra, rappresenta un esito che, pur non privo di contraddizioni, va già considerato tra i più ricchi e significativi nell’ambito dell’ultima evoluzione verdiana. Essa si svolge nel mutato clima storico dell’Italia postrisorgimentale, accogliendo sti-moli e arricchimenti anche da quegli artisti delle nuove generazioni che contro Verdi avevano polemizzato e le cui istanze di rinnovamento furono portate a compimento proprio dall'anziano compositore. Nel suo mondo le sottigliezze chiaroscurali assumo-no un peso crescente e la sua complessa drammaturgia non ammette più la concentra-zione pressoché esclusiva su uno o pochi personaggi. Due anni più tardi vedeva la luce, dopo varie vicissitudini prima con la censura napole-tana poi con quella romana, Un ballo in maschera (Roma, 1859), opera di successo

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re di Salamanca, La Pompa funebre (1815). Finalmente, nel 1815, la commedia Una notte della guardia nazionale, scritta in collaborazione con l’amico Delestre-Poirson ebbe successo e diede inizio alla sua carrie-ra di drammaturgo. Da allora per Scribe ci fu una lunga serie di successi. Grazie ai numerosi collaboratori, Scribe fu uno dei più prolifici scrittori francesi ed uno dei librettisti d’opera più fecondi. Le sue pièces teatra-li, in gran parte vaudevilles, erano il frutto di una ripartizione quasi industriale del lavoro. Scribe forniva le idee e distribuiva una indicazione generale dei contenuti ai suoi numerosi collaboratori, ciascuno dei quali doveva scrivere un tipo di scena specificamente assegnatagli: dialoghi, strofe, facezie, etc. In tal modo, com-pose circa cinquecento lavori. Scribe raggiunse la fama internazionale come librettista di numerosi e famosi compositori d’opera, primo fra tutti Giacomo Meyerbeer (da Gli Ugonotti, fino a L'Africana), ma tra gli altri anche Adolphe Adam, Daniel Auber, François-Adrien Boieldieu, Jacques Fromental Halévy, Gioachino Rossini e Giuseppe Verdi. 15. Celebre fu la rappresentazione scaligera di De Sabata-Callas del 1951.

nella quale Verdi mescolò sapientemente elementi provenienti dal teatro tragico e da quello leggero. Creazione musicalmente e drammaturgicamente raffinata, dallo stile elegante e delicato, in Un ballo in maschera affiora un’umanità vagamente inquieta, non esente da ambiguità, che trova nella relazione fra i due protagonisti i suoi momenti liricamente più elevati. L’opera segna un’altra tappa fondamentale per la drammaturgia verdiana: vi si rivela la tendenza, inaugurata in modo così vistoso da Rigoletto, a scava-re nella psicologia di personaggi complessi e tutt’altro che univoci. La commistione di stile tragico e tono da commedia assume qui la massima evidenza, sino a sfociare in una certa eterogeneità stilistica: l’opera sembra dunque seguire i dettami del teatro ro-mantico francese, che della commistione dei registri aveva fatto un punto programmati-co. La finezza e la precisione con cui è ritratto l’ambiente di corte nel Ballo in masche-rasono essenziali per la concezione di quest’opera, che è un nuovo indiscusso capola-voro, fatto di sapienti equilibri, di profonde intuizioni drammatiche, ma anche di leg-giadre eleganze. La commistione di comico e tragico è ancora più palese nella Forza del destino, l’opera che Verdi scrisse per il Teatro Imperiale di Pietroburgo nel 1862. Il linguaggio realisti-co e apertamente comico nelle scene dell’osteria e dell’accampamento, unito a uno stile musicale da commedia che già prelude a Falstaff, contrasta singolarmente sia con le grandi scene nello stile del grand opéra francese, sia con l’idea centrale dell’opera, quella del destino inesorabile che guida e condiziona le azioni dei personaggi. L’opera possiede un indubbio vigore musicale anche se appare in alcuni punti meno compatta, meno unitaria della precedente sotto il profilo teatrale. Ne La forza del destino Verdi riesce ad elaborare un linguaggio ancor più realistico che in passato, anticipando l’ope-ra successiva, Don Carlo, presentata al pubblico parigino nel 1867. Don Carlo è oggi considerato uno dei grandi capolavori verdiani. In quest’opera il compositore, pur facendo proprie alcune impostazioni del Grand opéra (fra cui l’arti-colazione in cinque atti, l’inserimento di un balletto fra il terzo e quarto atto e la crea-zione di alcune scene particolarmente spettacolari), riesce a scavare in profondità nella psicologia dei protagonisti, offrendoci una poderosa raffigurazione del dramma umano e politico che sconvolse la Spagna nella seconda metà del XVI secolo e che ruota attor-no alla logica spietata della ragion di stato. Tale periodo di massima maturazione umana ed artistica culminò con Aida. L’opera, nata su commissione delle autorità egiziane, che intendevano allestire nel teatro d’ope-ra appena costruito al Cairo un soggetto “nazionale”, mette in scena una vicenda le cui radici affondano nell’antico Egitto. Aida fu presentata la vigilia di Natale del 1871, in una cornice fastosa e mondana, alla presenza di ambasciatori e regnanti. Il nuovo lavo-ro verdiano accoglieva molte caratteristiche del grand opéra francese, prima fra tutte la propensione alla spettacolarità, esaltata dalle danze e dalla celebre scena del trionfo. Eppure il baricentro della più spettacolare tra le opere verdiane sta in un conflitto di natura tutta privata, che permette a Verdi di spingere a fondo l’introspezione psicologi-

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ca. La prima rappresentazione italiana di Aida, alla Scala di Milano l’8 febbraio 1872, fu seguita e controllata da Verdi stesso. Per questo allestimento – che ottenne tutto il successo sperato – Verdi volle con sé lo scenografo Girolamo Magnani,16 al quale fece avere copie dei figurini dei costumi del Cairo. Magnani ricercò nelle sue scene, assieme alla fedele riproduzione dell’Egitto faraonico, l’evocazione di un’atmosfera consona alla situazione drammatica. Le sue scene, in particolare quella finale della morte dei due amanti, divennero note ovunque e furono copiate e riproposte nel corso di innume-revoli allestimenti, finanche nel Novecento. Aida costituisce un ulteriore, grande passo in avanti verso la modernità. Il quasi com-pleto abbandono dei pezzi a forma chiusa, l’uso ancor più accentuato che in passato di temi e motivi musicali ricorrenti potrebbero fare accostare tale opera al dramma wa-gneriano. In realtà Verdi aveva seguito un percorso del tutto autonomo in Aida, opera fondamentalmente intimista e poggiata su una vocalità dalle caratteristiche prettamente italiane. In Aidasi nota la capacità di scavare nell’intimo di alcuni personaggi riducendo a sfondo la spettacolare ambientazione. Dopo Aida, Verdi decise di ritirarsi a vita privata. Iniziò così il periodo del grande si-lenzio, sia pure interrotto dalla Messa di Requiem scritta in occasione della morte di Alessandro Manzoni. A far uscire Verdi dall’isolamento fu Arrigo Boito17, il composi-tore scapigliato che lo aveva pubblicamente offeso nel 1863 ritenendolo causa del pro-vincialismo e dell’arretratezza della musica italiana del tempo.

2.6. Gli ultimi capolavori Con gli anni, Boito aveva compreso che solo Verdi avrebbe potuto portare l’Italia mu-sicale al passo con l’Europa e, col fondamentale aiuto dell’editore Giulio Ricordi18, si riconciliò con lui. Primo frutto della collaborazione fra il grande musicista e l’ex scapi-

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16. Girolamo Magnani (Borgo San Donnino, 23 maggio 1815 – Parma, 24 settembre 1889) è stato un decora-tore e scenografo italiano. Il 26 ottobre 1861 venne inaugurato, con Il Trovatore di Giuseppe Verdi, il nuovo Teatro di Borgo San Donnino dove Magnani trasfuse le sue miglior qualità di decoratore. Chiamato nel 1871 da Giuseppe Verdi realizzò la scenografia per la prima dell'Aida. Magnani dipinse le scene di ben 20 opere di Verdi. 17. Il movimento tardo-romantico che si sviluppò in Italia,ed a Milano in particolare, sul finire dell’800 e l’inizio del ‘900 sotto il nome di “scapigliatura”, indicava il primo tentativo di distacco dagli ideali romantici, in una vena alquanto polemica che, in musica, si tradusse con un rinnovato interesse per l'opera di stampo francese, come valida antitesi allo strapotere verdiano. Figura di spicco fu quella del librettista e compositore Arrigo Boito (1842-1918). I suoi esordi come critico e teorico furono da subito fortemente polemici nei confronti dell’opera verdiana, per poi moderarsi con l’età grazie anche alla sua collaborazione con il compositore in alcune opere della maturità (Otello ed Aida su tutte). 18. Figlio dell’editore Tito I Ricordi, diresse la casa editrice di famiglia dal 1888 al 1912. Con lui Casa Ri-cordi raggiunse l’apice della fortuna e della fama. Nei primi anni del ‘900 aprì diverse succursali della casa editrice. Giulio contribuì al prestigio culturale di Casa Ricordi anche attraverso i periodici musicali “La Gaz-zetta Musicale di Milano”, “Musica e Musicisti” e “Ars et Labor”. Giulio Ricordi è passato alla storia soprat-

gliato fu il rifacimento del Simon Boccanegra, rappresentato con grande successo al Teatro alla Scala di Milano nel 1881. La collaborazione con Boito fu determinante nella genesi delle due ultime opere, Otello (Milano 1887) e Falstaff (Milano 1893) entrambe ispirate a Shakespeare e concepite ormai al di fuori degli schemi dei pezzi chiusi, della distinzione tra aria e recitativo, schemi già prima più volte messi in discussione, ma qui definitivamente aboliti. Le due opere, entrambe rappresentate alla Scala, ebbero esiti diversi. Se Otello incontrò immediatamente i gusti del pubblico, affermandosi stabilmente in repertorio, Falstaff lasciò, in un primo momento, perplesso il grande pubblico verdiano e, più in generale, i melomani italiani. Nei sedici anni che separano Aida (1871) da Otello (1887) la distanza che separa le opere non è solo temporale: Otello è lontana dalle forme melodrammatiche tradizionali. É un’opera profondamente radicata nel suo tempo, non foss’altro che per gli aspetti inquietanti, per la psicologia patologica di personaggi dominati da passioni esacerbate e distruttive (la gelosia di Otello, l’odio di Jago): motivi che hanno le fondamenta in una cultura e in una sensibilità, all’epoca, largamente generalizzata. Otello, nel teatro ver-diano, è anche il logico punto di approdo di un percorso tutto personale, che dai tempi lontani dell’idealismo risorgimentale e degli eroi romantici conduce, per gradi, a scan-dagliare sempre più a fondo gli abissi dell’animo umano, svelandone gli aspetti più riposti. In Falstaff, capolavoro comico, le vestigia delle forme melodrammatiche tradizionali si dissolvono del tutto: un’azione mobilissima, dal ritmo indiavolato, è sostenuta da un continuo declamato vocale e da un’invenzione orchestrale incessante, che produce l’ef-fetto di un caleidoscopio, di una scoppiettante girandola d’immagini. Al vitalismo delle scene incentrate sul protagonista e sulle burle, fanno da contrappeso gli episodi di Fen-ton e Nannetta, inseriti nella trama – per felice intuizione di Boito – come motivo pa-rallelo, e contrastante, rispetto alla comicità pura della vicenda principale. Con Falstaff, per la prima volta dopo lo sfortunato Un giorno di regno, l’anziano Verdi si cimentava nel teatro comico, ma con la sua estrema commedia aveva accantonato in un sol colpo tutte le convenzioni formali dell’opera italiana, dando prova di una vitalità artistica, di uno spirito aperto alla modernità e di un’energia creativa sorprendenti. Fal-staff fu sempre amato dai compositori ed esercitò un influsso decisivo sui giovani ope-risti, da Puccini agli autori della Generazione dell’Ottanta. La distaccata comicità di Falstaff, con i suoi risvolti sorridenti e amari, con le sue ambiguità e le sue disincantate

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tutto per essere stato l’editore di Giuseppe Verdi, di Amilcare Ponchielli e di alcuni compositori della Giova-ne Scuola, tra cui Giacomo Puccini, Alfredo Catalani e Umberto Giordano. Fu anche compositore adottando lo pseudonimo di Jules Burgmein. Il 12 febbraio 1882 fu nominato commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia da Umberto I Re d’Italia. Giulio Ricordi morì nel 1912, a lui successe il figlio Tito II nella direzione di Casa Ricordi.

ironie, segna l’addio al teatro dell'anziano compositore, che negli ultimi anni compose ancora soltanto i Quattro pezzi sacri (1886-97). Giuseppe Verdi trascorse gli ultimi anni tra Sant’Agata e Milano. Aveva oramai perso gli ultimi amici di gioventù: Andrea Maffei e sua moglie Clara, Tito I Ricordi ed Ema-nuele Muzio. Nel 1897 la moglie Giuseppina morì, lasciandolo solo nella sua lunga vecchiaia. Verdi morì a Milano in un appartamento dove era solito alloggiare dal 1872 al Grand Hotel et De Milan, il 27 gennaio 1901, a 87 anni. 2.7. Il catalogo delle opere

Oberto, Conte di San Bonifacio (Teatro alla Scala di Milano, 17 novembre 1839) - Dramma in due atti di Temistocle Solera. Un giorno di regno (Teatro alla Scala di Milano, 5 settembre1840) - Melodramma giocoso in due atti di Felice Romani. Nabucco (Teatro alla Scala di Milano 9 marzo1842) - Dramma lirico in quattro parti di Temistocle Solera. I Lombardi alla prima crociata (Teatro alla Scala di Milano, 11 febbraio1843) - Dramma lirico in quattro atti di Temistocle Solera. Ernani (Teatro La Fenice di Venezia, 9 marzo 1844) - Dramma lirico in quattro parti di Francesco Maria Piave. I due Foscari (Teatro Argentina di Roma, 3 novembre1844) - Tragedia lirica in tre atti di Francesco Maria Piave. Giovanna d’Arco (Teatro alla Scala di Milano, 15 febbraio1845) - Dramma lirico in un prologo e tre atti di Temistocle Solera. Alzira (Teatro San Carlo di Napoli, 12 agosto1845) - Tragedia lirica in un prologo e due atti di Salvadore Cammarano. Attila (Teatro La Fenice di Venezia, 17 marzo1846) - Dramma lirico in un prologo e tre atti di Temistocle Solera. Macbeth (Teatro della Pergola di Firenze, 14 marzo1847) - Melodramma in quattro parti di Francesco Maria Piave. I masnadieri (Her Majesty's Theatre di Londra, 22 luglio1847) - Melodramma tragico in quattro parti di Andrea Maffei. Jérusalem (Teatro de l'Opéra di Parigi, 26 novembre1847) - Opera in quattro atti di Alphonses Royer e Gustave Vaëz, rifacimento de I Lombardi alla prima crociata. Il corsaro (Teatro Grande di Trieste, 25 ottobre1848) - Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave. La battaglia di Legnano (Teatro Argentina di Roma, 27 gennaio1849) - Tragedia lirica in quattro atti di Salvadore Cammarano. Luisa Miller (Teatro San Carlo di Napoli, 8 dicembre1849) - Melodramma tragico in tre atti di Salvadore Cammarano. Stiffelio (Teatro Grande di Trieste, 16 novembre1850) - Melodramma in tre atti di

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Francesco Maria Piave. Rigoletto (Teatro La Fenice di Venezia, 11 marzo1851) - Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave. Il trovatore (Teatro Apollo di Roma, 19 gennaio1853) - Dramma in quattro parti di Salvadore Cammarano, con aggiunte di Leone Emanuele Bardare. La traviata (Teatro La Fenice, 6 marzo1853) - Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave. Les vêpres siciliennes (Teatro dell'Opéra di Parigi, 13 giugno1855) - Dramma in cinque atti di Eugène Scribe e Charles Duveyrier). Simon Boccanegra (Teatro La Fenice, 12 marzo1857) - Melodramma in un prologo e tre atti di Francesco Maria Piave; seconda versione, su libretto rivisto e ampliato da Arrigo Boito (Teatro alla Scala di Milano, 24 marzo1881). Aroldo (Teatro Nuovo di Rimini, 16 agosto1857) - Melodramma in quattro atti di Francesco Maria Piave, rifacimento di Stiffelio. Un ballo in maschera (Teatro Apollo di Roma, 17 febbraio1859) - Melodramma in tre atti di Antonio Somma. La forza del destino (Teatro Imperiale di San Pietroburgo, 10 novembre1862) - Ope-ra in quattro atti di Francesco Maria Piave. Don Carlo (Teatro de l'Opéra di Parigi, 11 marzo1867) - Opera in cinque atti di Jo-seph Méry e Camille du Locle. Aida (Teatro khediviale dell'Opera del Cairo, 24 dicembre1871) - Opera in quattro atti di Antonio Ghislanzoni. Otello (Teatro alla Scala di Milano, 5 febbraio1887) - Dramma lirico in quattro atti di Arrigo Boito. Falstaff (Teatro alla Scala di Milano, 9 febbraio1893) - Commedia lirica in tre atti di Arrigo Boito.

INDICE

GIUSEPPE VERDI:

L’UOMO, L’ARTISTA E LE SUE OPERE.

1. Giuseppe Verdi: cenni biografici 2. L’arte di Verdi nel contesto storico sociale 2.1. Nabucco 2.2. Gli “anni di galera” 2.3. La rivoluzione della “trilogia popolare” 2.4. L’esperienza francese 2.5. Gli anni della maturità 2.6. Gli ultimi capolavori 2.7. Il catalogo delle opere Indice Bibliografia

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Indice della collana, pubblicata con la rivista ASSODOLAB del 20

dicembre 2013. 1. Giuseppe Verdi: L’uomo, l’artista e le sue Opere. 2. Il trittico di Puccini: Fonti e Librettisti 3. Il superamento dell’opera: L’Otello di Giuseppe Verdi. 4. La Cenerentola di Gioacchino Rossini. 5. Le folli donne di Gaetano Donizetti. 6. L’Orientalismo di Giacomo Puccini. 7. Pietro Mascagni e i suoi librettisti. 8. Romeo e Giulietta: L’opera di un amore impossibile. 9. Voce e registri nell’Opera Lirica. 10. Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart.

Volume n. 1

Allegato alla rivista ASSODOLAB - Anno XIV n. 3 del 20.12.2013.

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