Giornale Italiano della Ricerca Educativa 5/10

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Italian Journal of Educational Research

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SIRDSocietà Italiana di Ricerca Didattica

Giornale Italiano della Ricerca Educativa

numero 2/3dicembre 2009

Italian Journal of Educational Research

anno IIInumero 5

dicembre 2010

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DirettoreLUCIANO GALLIANI

CondirettorePIERO LUCISANO

Comitato ScientificoROBERTA CARDARELLOARMANDO CURATOLAFRANCO FRABBONIALESSANDRA LA MARCAGIOVANNI MORETTIACHILLE M. NOTTI

Comitato dei refereeIl Comitato dei referee è composto da 15 studiosi di chiara fama italiani e stranieri. I nomi deirevisori di ogni annata vengono resi pubblici nel primo numero dell’annata successiva. Il re-sponsabile della procedura di referaggio è il condirettore scientifico della Rivista Piero Luci-sano.

Procedura di referaggioOgni articolo, anonimo, è sottoposto al giudizio di due revisori anch’essi anonimi. Sono accet-tati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso un giudizio positivo. I giu-dizi dei revisori vengono comunicati agli autori, comprese eventuali indicazioni di modifica.In tal caso, gli autori devono provvedere a modificare i propri contributi sulla base delle indi-cazioni ricevute dai revisori. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori nonvengono pubblicati.

Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato)

Codice ISSN 2038-9744 (testo on line)

Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010

Editing e stampaPensa MultiMedia Editore s.r.l.

www.pensamultimedia.it

[email protected]

Lecce - Brescia

Progetto grafico copertinaValentina Sansò

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editoriale

ricerche

studi

9 ANTONIO CALVANI • ANTONIO FINI • MARIA RANIERILa competenza digitale nella scuola. Modelli, strumenti, ricerche

23 MARTA CODATOStile d’attaccamento, impegno civico e morale e felicità: un’indagine sul fenomeno italiano della “famiglia lunga”

41 CRISTIANO CORSINIValutazione come classifica e autovalutazione come ricerca

49 ROSSELLA GIOLO • VALENTINA GRIONCostruire corresponsabilità formativa e valutativa nella scuola.Una ricerca sull’idea (non) condivisa di “buon comportamento scolastico”

69 VIVIANA VINCIAnalizzare una conoscenza pratica implicita: le routine di spiegazione degli insegnanti

87 VITO ANTONIO BALDASSARREDidattica della ricerca scientifica in educazioneTra fragilità, valutazione e proposta

95 MARIA CINQUELa creatività come innovazione personale: teorie e prospettive educative

informazioni

115 LUCIANO GALLIANILa ricerca nelle scuole di dottorato in ItaliaDottorandi e docenti a confronto: il seminario SIRD

7 PIETRO LUCISANOSe l’obbedienza non fosse una virtù

SOMMARIO

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hanno collaborato

PIETRO LUCISANODipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Università “Sapienza” Roma

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ANTONIO CALVANIDipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi, Università degli Studi di Firenze

[email protected]

ANTONIO FINIDipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi, Università degli Studi di Firenze

[email protected]

MARIA RANIERIDipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi, Università degli Studi di Firenze

[email protected]

MARTA CODATODipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova

[email protected]

CRISTIANO CORSINIDipartimento di Progettazione Educativa e Didattica, Università Roma TRE

[email protected]

ROSSELLA GIOLODipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova

[email protected]

VALENTINA GRIONDipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova

[email protected]

VIVIANA VINCIDipartimento di Scienze Pedagogiche e Didattiche, Università di Bari

[email protected]

VITO ANTONIO BALDASSARREDipartimento di Scienze Pedagogiche e Didattiche, Università di Bari

[email protected]

MARIA CINQUE Dipartimento di Scienze Umane, Università di Palermo

[email protected]

LUCIANO GALLIANIDipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova

[email protected]

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Se l’obbedienza non fosse una virtù

Il governo ha finalmente approvato il decreto che definisce l’impianto dei percorsi di for-mazione iniziale degli insegnanti e questo non può che essere considerato positivo in quantoviene riattivato il processo di formazione degli insegnanti di scuola secondaria. La SIRD nel convegno del 22 novembre alla Sapienza aveva già avviato un esame del nuovopercorso per la formazione degli insegnanti, con l’obiettivo di valutarne la fattibilità. Non si può che essere soddisfatti del ruolo riconosciuto alle Università per la formazioneiniziale degli insegnanti; al tempo stesso, tuttavia, non possiamo non accorgerci del fatto cheviene riproposto un modello di attivazione simile a quello che diede luogo alle SSIS:“Ci troviamo in emergenza, è necessario impegnarsi per il bene dei laureati che da tre anninon hanno possibilità di accedere a questi percorsi, si sono delineati i fini, dunque partite, imezzi seguiranno, non vi preoccupate”.Per le SSIS ci siamo impegnati più per una militante passione per i fini del progetto che perun’accorta valutazione delle condizioni e dei mezzi necessari per realizzarlo, salvo poi essereaccusati dei limiti, che avevamo indicato inevitabili nelle condizioni date.Se il Governo ha ritenuto necessaria la formazione iniziale degli insegnanti e ne ha deter-minato i percorsi, si tratta ora di realizzarli al meglio. Tuttavia, nell’adempiere a un dovereistituzionale esiste in chi adempie, la necessità di rispettare un codice deontologico. Un professionista, chiamato a attuare una norma per la quale non vengono garantite lecondizioni per una applicazione efficace e per cui è prevedibile un esito diverso dalle finalitàstesse della norma in questione e del contesto normativo ad essa sovraordinato, deve affron-tare un delicato problema deontologico. Un ingegnere può o deve rifiutarsi di costruireponti di marzapane se i suoi studi lo rendono avvertito che non resisteranno al transito dipersone e mezzi? Un chirurgo può o deve rifiutarsi di operare se la sua esperienza profes-sionale lo rende consapevole che, nelle condizioni date, questo costerebbe la vita al suo pa-ziente? Così da studiosi di educazione – dopo aver reso avvertiti i nostri governanti, e assieme lescuole e le università che, in assenza di alcune condizioni, procedere nella attivazione deipercorsi iniziali è un atto dannoso – possiamo assumerne la gestione e ritenere le nostre re-sponsabilità esaurite con l’averlo detto?Per poter realizzare in modo serio la formazione iniziale degli insegnanti occorre il com-pletamento di tutte le procedure che il decreto implica (programmazione dei fabbisogniformativi; definizione dei criteri di selezione, attivazione dei bandi, reclutamento e assegna-zione dei tutor).

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editorialePIETRO LUCISANO

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Per poter procedere occorre, ancora, che siano definite le tabelle per le LM ad hoc per lascuola secondaria (e dunque che si completi l’iter di definizione delle cattedre), ma, ancorpiù, occorre definire i requisiti richiesti per la loro istituzione e attivazione. L’avvio dei percorsi di formazione iniziale degli insegnanti è viziato dalla assenza di qualsi-voglia stanziamento di risorse umane e materiali. Sappiamo che con le attuali risorse di per-sonale non è possibile attivare la formazione iniziale degli insegnanti nel rispetto dei requisitiprevisti dalla corrente normativa in quasi nessuna sede. La possibilità che questa difficoltàvenga risolta liberando le università dai vincoli ritenuti requisiti minimi per gli altri indirizzidi studio appare inaccettabile perché sarebbe come asserire che si tratta di lauree al di sottodei requisiti minimi. Se le risorse di docenza non sono sufficienti, è necessario programmarnel’integrazione, ma sappiamo che le università non sono in grado di integrare gli organicicon le loro risorse.Il nostro è un lavoro gratificante e siamo sempre stati disponibili a impegnarci più del dovuto,ma siamo anche consapevoli che non è educativo, né per il paese, né per i futuri insegnanti,avviare una prima formazione basata solo sulla buona volontà e sulla disponibilità di lavorareoltre ogni orario previsto. Anche la sola preparazione di prove di accesso valide ed affidabiliper selezionare i laureati che avranno la possibilità di diventare insegnanti è materia che ri-chiede l’attivazione di gruppi di lavoro competenti e i tempi necessari per la messa a puntodi strumenti adeguati (validi, affidabili, tarati et cætera).L’esperienza ci ha insegnato che credere nel “intanto partite, poi provvederemo” e nelle“riforme a costo zero” è foriero di esperienze nefaste per chi parte e avvia le riforme con-fidando che, prima o poi, le scorte o i rinforzi arriveranno: per la riforma della scuola medianon sono arrivate, per il 509 non sono arrivate, per il 270 le scorte sono state tagliate. Senzacontare che non di rado, poi, chi è colpevole di non mandare i rinforzi si erge a giudicarelo scarso successo dell’impresa e ne penalizza i protagonisti.Sulla base di queste considerazioni chiediamo alla CRUI di istituire una commissione chedefinisca le condizioni di attivazione dei percorsi di formazione iniziale per insegnanti perevitare che tra gli Atenei si instauri una competizione al massimo ribasso della qualità del-l’offerta formativa. Questa commissione potrebbe stabilire i requisiti minimi per poter atti-vare in modo efficace il servizio richiesto.In assenza di queste garanzie, merita tra colleghi pedagogisti valutare con attenzione qualesia il limite tra un corretto atteggiamento collaborativo e impegnato nei confronti delle isti-tuzioni e la complicità nella gestione dell’ennesimo danno nei confronti dei nostri studenti,della scuola e del paese e di valutare la possibilità di assumere una comune posizione re-sponsabile.

editoriale

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ricercheLa competenza digitale nella scuolaModelli, strumenti, ricerche

Digital competence at schoolModels, tools, researches

Nel corso degli ultimi anni il tema dellacompetenza digitale, nei suoi diversiaspetti, è stato oggetto di attenzionecrescente. In vari documenti e comuni-cazioni, gli organismi internazionalihanno sottolineato la rilevanza di questacompetenza per il lifelong learning eper la piena partecipazione alla cosid-detta ‘società dell’informazione’. In questo contesto, la ricerca educativaha il compito di mettere a punto mo-delli concettuali realistici coerenti congli obiettivi della scuola e facilmente in-tegrabili nel curriculum scolastico. Inquesto lavoro, presenteremo un model-lo teorico per la rappresentazione diquesta competenza, sensibile alle istanzeeducative, ed illustreremo una serie distrumenti per valutarla in ambito scola-stico, ossia l’Instant DCA (iDCA) e ilSituated DCA. Successivamente ci sof-fermeremo sull’iDCA e sui risultati diuna sperimentazione condotta negli ul-timi due anni nella scuola secondariasuperiore.

Parole chiave: competenza digitale,valutazione, scuola dell’obbligo.

Over the last years the theme of the digitalcompetence in its different aspects has beenobject of a growing interest. In a number ofofficial documents and communications, in-ternational bodies underlined the signifi-cance of this competence for lifelong learningand to participate in the so-called ‘informa-tion society’. Within this context, education research hasthe duty to provide realistic conceptual mod-els coherent with the school’s objectives andwhich can be put into practice within theschool curriculum. In the present paper, weshall introduce a theoretical model, educa-tion oriented, to represent this competenceand a set of tools to assess it in the schoolcontext, i.e., the Instant DCA (iDCA)and the Situated DCA. Then we shall fo-cus on iDCA and on the results of the test-ing carried out over the last two years inSecondary School.

Key words: digital competence, assess-ment; K-12 education

ANTONIO CALVANI - ANTONIO FINI - MARIA RANIERI

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1. Introduzione

Negli ultimi decenni il tema della competenza digitale, o digital literacy, si è progressiva-mente affermato contestualmente al processo di digitalizzazione che ha investito gran partedelle attività produttive, sociali e culturali delle nostre società contemporanee. Questo temaha ricevuto grande attenzione da parte degli organismi internazionali, nelle cui raccoman-dazioni si fa sempre più rilevante la richiesta di promuovere e sviluppare nelle nuove gene-razioni la “competenza digitale”. Anche nel mondo della ricerca è sempre più vivo l’interesseper la definizione di questa nuova literacy e la messa a punto di modelli teorici in grado didefinirla e rappresentarla.

Nonostante ciò, sono ancora pochi gli strumenti di cui educatori ed insegnanti possonoavvalersi per valutare e favorire questa competenza nella scuola. Esistono varie certificazionidelle competenze informatiche di base, gestite da fondazioni o società private. In Europa, lapiù nota è l’European Computer Driving License (ECDL). Essa ha avuto il merito di ri-chiamare l’attenzione delle agenzie educative sulla necessità di promuovere abilità informa-tiche di base per tutti. Tuttavia, negli ultimi anni, sono stati messi in evidenza i suoi limitilegati all’eccessivo allineamento sulla operatività dei software proprietari e all’appiattimentodelle prove sulla padronanza di specifiche abilità tecnico-procedurali. Parallelamente altrilavori hanno sottolineato la necessità di prendere le distanze da una visione orientata allapura acquisizione di abilità tecniche: la competenza digitale è un costrutto complesso ericco di sfaccettature, che implica una comprensione critica delle tecnologie e, in particolare,capacità di selezione delle informazioni, nonché dimensioni che investono la consapevolezzaetica e relazionale.

In questo quadro, la ricerca educativa ha il compito di mettere a punto modelli concet-tuali pedagogicamente significativi e, al tempo stesso, coerenti con gli obiettivi della scuolae facilmente integrabili nel curriculum scolastico.

Nel presente contributo, introdurremo un modello di competenza digitale fondato subasi educative, con una forte rilevanza attribuita alla dimensione critica e cognitiva ed illu-streremo una serie di strumenti per valutarla in ambito scolastico, ossia l’Instant DCA (iDCA)e il Situated DCA. Successivamente ci soffermeremo sull’iDCA e sui risultati di una speri-mentazione condotta negli ultimi due anni nella scuola secondaria superiore.

2. La competenza digitale. Uno sguardo alla letteratura

Le espressioni “Digital Literacy” e quella correlata di “Digital Competence” si stanno ormaiaffermando a livello internazionale sia nella ricerca che nei documenti prodotti dagli orga-nismi internazionali. Esiste ormai una discreta convergenza tra i ricercatori nel ritenere chenel concetto di digital literacy confluiscano altre literacies legate alle TIC e più in generaleai media (Tornero, 2004; Martin, 2006; Midoro, 2007; Gapski, 2008). Ciò spiega, da un lato,la varietà dei termini impiegati per riferirsi a questo concetto (i.e. computer/IT Literacy, In-formation Literacy, Media Literacy, Media Education, solo per citare alcune delle espressionipiù comuni), dall’altro l’enfasi che viene di volta in volta data all’uno o all’altro aspetto.

Il primo ad usare l’espressione digital literacy è stato Gilster (1997), che nella sua defini-zione sottolinea soprattutto le capacità di pensiero critico e di valutazione dell’informazionepiù che le abilità tecniche: secondo questo autore, la digital literacy è fondamentalmente unatto cognitivo.

A distanza di dieci anni, le definizioni si sono moltiplicate. Alcuni autori sottolineano

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come la digital literacy sia la risultante di una combinazione stratificata e complessa di ca-pacità, abilità e conoscenze. In quest’ottica Tornero, ad esempio, afferma (Tornero, 2004, p.31) che essa comprende “aspetti puramente tecnici, competenze intellettuali e anche com-petenze legate alla cittadinanza responsabile”. Altri autori, muovendo dalle prospettive teo-riche della Media Education, spostano l’accento sulla comprensione critica dei media e delleloro implicazioni sociali, economiche e culturali (Buckingam, 2007).

Accanto alla riflessione teorica di questi autori è importante richiamare i lavori di alcuniorganismi intorno ai concetti di IT Literacy e Information Literacy.

Negli ultimi anni il concetto di IT Literacy è evoluto verso approcci più riflessivi e menotecnicistici verso le TIC, come emerge ad esempio dal Panel sull’ICT Literacy proposto nel2002 dall’ETS (Educational Testing Service) su incarico dell’OECD. Nel Panel il concettodi ICT Literacy sta ad indicare il saper usare le tecnologie e gli strumenti comunicativi peraccedere, gestire, integrare, valutare e creare informazioni allo scopo di agire adeguatamentenella società della conoscenza, riuscendo ad integrarle con successo nella vita di tutti giorni.Nell’ambito dei lavori dell’ETS è in fase di sperimentazione l’ICT Assessment, elaboratonel contesto del PISA. Esso si articola in: basic technical skills, relativa ad abilità informaticheelementari, short scenarios (ad esempio le funzioni di base di un ambiente di posta elettro-nica), web search (saper selezionare e valutare risultati di ricerche in internet) e simulationtask (area più complessa in cui si tratta di studiare le relazioni tra variabili in condizionesperimentale)1.

Parallelamente è andata avanti la riflessione intorno al concetto di Information Literacy.In particolare, nel 2000 la ACRL (Association of College and Research Libraries) ha pro-mosso nuovi standards per la definizione dell’Information Literacy, indicando come com-ponenti di questa competenza la capacità di comprendere i propri bisogni informativi e divalutare criticamente l’informazione e le sue fonti, (ACRL, 2000, pp. 8-13).

Negli anni più recenti, con l’avvento del cosiddetto Web 2.0 e la conseguente enfasi sullaParticipatory Culture (Jenkins et al, 2006) si è ulteriormente accentuata l’attenzione agli aspettietico-sociali. I ricercatori si chiedono se e come il web possa sviluppare ethical minds (Gardner2007), aspetto approfondito in particolare dal New Media Literacy Team presso la MacAr-thur Foundation, dove si sottolinea come al centro dell’indagine vadano poste dimensioniquali identity, ownership, authorship, credibility, partecipation (James et al., 2009).

Anche la comunità europea ha promosso diverse iniziative negli ultimi dieci anni alloscopo di favorire lo sviluppo della digital literacy nei paesi membri dell’UE (Tornero et al,2010). È stato costituito un gruppo di esperti per definire azioni ed interventi, sono statiavviati studi e indagini su ampia scala, e sono state pubblicate una serie di raccomandazioni.In particolare, nel dicembre 2006 il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa hannoemanato la Raccomandazione sulle Competenze Chiave per il Lifelong learning(2006/962/EC), introducendo un nuovo framework per le competenze di base, ossia diquelle competenze necessarie per esercitare pienamente il diritto di cittadinanza nella societàcontemporanea. Secondo la definizione data in questo documento, la competenza digitalecomprende la capacità di utilizzare senza incertezze e in modo critico le ICT nel lavoro,nel tempo libero e nella comunicazione. Comporta una buona conoscenza della natura, delruolo e delle opportunità che le ICT offrono nella vita quotidiana, privata, sociale e lavo-rativa, ed in particolare delle potenzialità di Internet per lo scambio di informazioni e lacollaborazione in rete, l’apprendimento e la ricerca. Si sottolinea altresì che l’uso delle ICTrichiede un atteggiamento critico e riflessivo, ossia un’attenzione verso i problemi legati alla

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SIRD • Ricerche

1 Cfr. ICT Feasibility Study, URL: http://www.oecd.org/dataoecd/37/18/33703768.pdf.

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validità e affidabilità delle informazioni e un interesse ad impegnarsi in comunità e reti perfini culturali, sociali e/o professionali.

Inoltre, la Unione europea ha recentemente commissionato uno studio sulla valutazionedella media e digital literacy (Celot, Tornero, 2009). In questo studio, vengono indicate dueprincipali dimensioni per la media literacy, ossia le competenze individuali e i fattori am-bientali. La prima categoria comprende la capacità personali di accesso, uso e comprensionedei media e una serie di abilitù di carattere più sociale legate alla comunicazione e parteci-pazione sociale. La seconda categoria include fattori di contesto (ad esempio, la disponibilitàdei media o le politiche sulla media literacy) che hanno un impatto sugli individui e sui di-ritti di cittadinanza.

Concludendo, al di là della terminologia impiegata, tutti gli autori e le istituzioni sopracitate, manifestano la consapevolezza di trattare di un aspetto complesso e difficilmente cir-coscrivibile che comporta l’integrazione di dimensioni di varia natura, capacità tecniche,cognitive (e.g., problem solving, pensiero critico) e meta cognitive come pure partecipazionecivica e consapevolezza etica.

3. Un modello concettuale per la competenza digitale

C’è ormai ampio consenso sul fatto che una nozione di competenza digitale, se vuol esserepedagogicamente rilevante, debba spostare l’accento da una accezione puramente tecnicaad una concezione più complessa, che include una maggiore attenzione alle infrastruttureconcettuali e critico logiche, alla capacità di comprendere la natura strutturale dei fenomenitecnologici, oltre che alla conoscenza delle implicazioni sul piano etico e sociale connesseall’impiego delle tecnologie di rete.

Al di là della terminologia impiegata, tutti gli autori e le istituzioni sopra citate, manife-stano la consapevolezza di trattare di un aspetto complesso e difficilmente circoscrivibileche comporta l’integrazione di dimensioni di varia natura.

Nel nostro caso, tra i diversi termini in uso, abbiamo preferito quello di “competenzadigitale”, sia per il richiamo a questo termine nella raccomandazione europea sia perché iltermine “competenza” si sta ormai affermando nel lessico educativo.

Ci sembra tuttavia importante schermare questo concetto da possibili riduzionismi.Nell’ottica che intendiamo perseguire esso è:a) multidimensionale: implica un’integrazione di abilità e capacità di natura cognitiva, re-

lazionale e sociale; non è un concetto univoco e lineare;b) complesso: non è pienamente valutabile con singole prove; una parte di questa compe-

tenza è di difficile valutazione, almeno in tempi brevi, può rimanere latente e richiederetempi lunghi e contesti molto variati per manifestarsi;

c) interconnesso: non può prescindere del tutto da altre capacità di base con cui necessaria-mente si sovrappone (e.g., lettura, numeracy, problem solving, capacità inferenziali e de-duttive, metacognizione);

d) sensibile al contesto socio-culturale: non ha senso pensare ad un modello unico di alfa-betizzazione digitale ritenendolo valido sempre e ovunque, ma occorre declinarlo in re-lazione ai vari contesti d’uso (formazione di base, professionale, specialistica, lifelonglearning).

Ricercando per i nostri fini una definizione ragionevolmente semplice, ma sufficiente-mente esaustiva ci avvarremo della seguente:

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La competenza digitale consiste nel saper esplorare ed affrontare in modo flessibile situazioni tec-nologiche nuove, nel saper analizzare selezionare e valutare criticamente dati e informazioni, nel sapersiavvalere del potenziale delle tecnologie per la rappresentazione e soluzione di problemi e per la costru-zione condivisa e collaborativa della conoscenza, mantenendo la consapevolezza della responsabilitàpersonali, del confine tra sé e gli altri e del rispetto dei diritti/doveri reciproci.

Questa definizione evidenzia la coesistenza di dimensioni più marcate su tre diversi ver-santi, oltre alla loro integrazione:• versante tecnologico: saper esplorare e affrontare con flessibilità problemi e contesti tec-

nologici nuovi;• versante cognitivo: saper leggere, selezionare, interpretare e valutare dati e informazioni

sulla base della loro pertinenza ed attendibilità;• versante etico: saper interagire con altri soggetti in modo costruttivo e responsabile av-

valendosi delle tecnologie;• integrazione delle tre dimensioni: saper comprendere il potenziale offerto dalle tecnologie

per la condivisione delle informazioni e la costruzione collaborativa di nuova conoscenza.

Una rappresentazione di sintesi del modello adottato è rappresentata in fig. 1.

Figura 1- Digital Competence Framework

4. Prove instant e situate

Muovendo dal modello concettuale sopra delineato e considerando la complessità del co-strutto, abbiamo sviluppato due diverse tipologie di test per differenti livelli di età e ordinescolastico, ossia l’iDCA (instant Digital Competence Assessment) e il Situated DCA. In que-sto lavoro, ci soffermeremo sull’iDCA, mentre ci limiteremo a fare solo un rapido cennoalle Situated DCA.

Le prove situate rispondono alla necessità di valutare la competenza digitale “in situa-

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SIRD • Ricerche

E

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zione”, ossia dinanzi a compiti più complessi rispetto a quelli valutabili con un test o unquestionario.

Esse si basano sulla presentazione di situazioni di uso delle tecnologie simili a quelle chesi possono incontrare nella vita reale, ossia situazioni in cui non si tratta solo di applicareuna specifica conoscenza bensì di confrontarsi con un problem solving tecnologico, attra-verso la mobilitazione di conoscenze, capacità o atteggiamenti allo stesso tempo.

Le prove sono costituite da una batteria di 4 x 2 (4 tipologie, due livelli di complessità): • nella prima tipologia (Esplorazione tecnologica) ci si deve confrontare con una interfaccia

tecnologica sconosciuta che bisogna imparare a padroneggiare; • nella seconda tipologia (Simulazione) si chiede di elaborare sperimentalmente dei dati

formulando ipotesi sulle relazioni possibili; • nella terza tipologia (Inquiry) si chiede di selezionare criticamente e raccogliere delle in-

formazioni pertinenti ed affidabili intorno ad un tema prefissato;• nella quarta tipologia (Collaborazione) si deve partecipare ad una compilazione collabo-

rativa di un documento, inserendo apporti reciproci, revisioni e commenti.

L’Instant DCA, che qui presentiamo più dettagliatamente, è uno strumento “a largo spet-tro”, sensibile alle diverse conoscenze e capacità linguistiche e concettuali che, rilevabili conun test strutturato, in varia misura possono essere considerati parte del concetto di compe-tenza digitale. Questo strumento è stato pensato come uno mezzo rapido di verifica, utiliz-zabile da interi istituti scolastici o da docenti di singole classi, in modo da offrire unavalutazione automatica, di facile somministrazione e gestione.

Operativamente gli item sono stati suddivisi nelle tre dimensioni (tecnologica, cognitiva,etica) presentate in figura 1 e ulteriormente articolate nelle seguenti sottocategorie (vedifigura 2).

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F 2 M d l d d ll’Instant DCA

Figura 2 – Mappa degli indicatori dell’Instant DCA

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Per la dimensione tecnologica ci siamo limitati a tre sottocategorie, due di livello più ap-plicativo (riconoscere interfacce e risolvere problemi comuni) ed una più astratta (com-prendere il funzionamento tecnologico sotteso).

Per la cognitiva, che è quella che assume maggior risalto, abbiamo valorizzato attività co-me estrarre dati rilevanti da un testo, valutare l’affidabilità di un’informazione, comparareinformazioni contrastanti, organizzare dati con tabelle e compiere inferenze, che rappresen-tano un evidente punto d’intersezione tra le literacies tradizionali e la competenza digitale.

Le tematiche di ordine etico e sociale sono state articolate nelle tre sottocategorie, dellasalvaguardia, del rispetto e della consapevolezza delle diseguaglianze tecnologiche.

I test iDCA si presentano nella forma di quesiti chiusi, per lo più a scelta multipla, anchese agli item etici è spesso possibile aggiungere un commento personale. Gli item sono statiformulati tenendo conto delle capacità linguistiche ed astrattive medie di un alunno di unadeterminata età (14-16 anni), normalmente scolarizzato, che abbia già avuto frequentazionealmeno di base con il computer. I test vengono applicati online utilizzando il LMS OpenSource Moodle nell’aula informatica della scuola con la supervisione del docente2.

Figura 3 - Esempio di quesito a scelta multipla, punteggio e feed-back

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SIRD • Ricerche

2 Sul sito www.digitalcompetence.org/moodle sono disponibili le prove online in lingua italiana e in linguainglese. Gli insegnanti interessati possono richiedere gratuitamente le password di accesso per le loro classie gestire autonomamente la somministrazione dei test ai propri studenti.

0-21 Compiti adatti per un computer e umani Ci sono delle cose che un computer, se ben programmato, può fare molto bene, anche meglio degli esseri umani. Per altre cose invece non riesce a cavarsela bene, anche se ben programmato. Indica, tra le seguenti, le azioni nelle quali il computer, anche se ben programmato, NON PUO' SOSTITUIRE l'uomo: (devi indicare QUATTRO risposte): Points Answers -0,25 a. Calcolare guadagni e ricavi nell’attività finanziaria di un’azienda +0,25 b. Consigliare quale tipo di studi è opportuno intraprendere -0,25 c. Consigliare una buona mossa in una partita a scacchi

-0,25 d. Controllare se le parole in un testo sono scritte in modo ortograficamente corrette

+0,25 e. Fare una perfetta traduzione di un testo letterario da una lingua ad un'altra

-0,25 f. Calcolare i livelli di temperature raggiunti da un gas sottoposto ad una determinata pressione

+0,25 g. Fare una battuta di spirito

+0,25 h. Interpretare un testo (ad esempio riassumerlo e commentarlo in modo sensato)

-0,25 i. Calcolare i tempi di arrivo di un missile sulla Luna

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5. idca – somministrazioni nella scuola

Nel corso degli ultimo anni l’iDCA è stato somministrato più volte nella scuola italiana eanche all’estero. In particolare, il test è stato validate attraverso due applicazioni nelle scuoleitaliane d è poi stato tradotto prima in inglese e poi in cinese per essere somministrato inCina (Li, Ranieri, 2010).

Oltre a ciò, un’indagine su larga scala con il coinvolgimento di oltre mille studenti, èstata attuata in Italia per valutare I livelli di competenza digitale degli studenti del bienniodella scuola superiore. In questo paragrafo ci soffermeremo su queste applicazioni.

Il test di validazione e la Ricerca Italia-Cina

La prima versione delle prove, destinata agli adolescenti (studenti del biennio delle scuolesuperiori), è stata realizzata sotto forma di questionario cartaceo. Questa prima fase elabo-rativa ha condotto alla costruzione di un questionario cartaceo, composto da 87 domande.Il questionario è stato somministrato, con la collaborazione di alcune scuole superiori, a di-verse classi prime e seconde di tre diversi Istituti di Istruzione Superiore, sotto il controllodei ricercatori. Questa fase è stata affiancata da un ulteriore giro di opinioni, effettuata affi-dando il questionario ad un gruppo selezionato di esperti, che potevano costituire un validocriterio di riferimento per la validità di contenuto.

I risultati congiunti di queste operazioni, costituite dall’item analysis sui risultati dellaprima fase, dai feedback provenienti dai docenti collaboratori e dai ricercatori osservatori,dai commenti e dai suggerimenti del panel di esperti, hanno portato alla modifica, integra-zione ed anche alla eliminazione di alcuni item. In particolare, sono stati rimossi o revisionatigli item sui quali gli esperti avessero espresso dubbi o la cui risposta non corrispondesse allarisposta attesa.

Gli item ridefiniti e selezionati dopo questa prima fase sono stati complessivamente 85.Questo gruppo di item è stato quindi implementato su un’applicazione web, per consentirnela sperimentazione su scala più ampia e verificare la realizzabilità di un’applicazione auto-matizzata dei test.

La versione online così elaborata è stata utilizzata nel periodo febbraio-dicembre 2008.I casi raccolti in questa prima applicazione sono stati complessivamente 220 (al 1/6/2009),costituiti da alunni di classi del biennio di Istituti Superiori Statali. Grazie a questa applica-zione è stata effettuata una prima item analysis significativa.

Gli item sono stati successivamente tradotti in lingua inglese. A seguito di contatti conun istituto Universitario in Cina3 è stata infine realizzata una versione ridotta del test, de-nominata “Sperimentazione ITA-Cina”.

Questi item sono stati selezionati all’inizio della sperimentazione, tenendo conto sia deirisultati dell’item analysis effettuata in precedenza sia della possibilità di adattamento degliitem al contesto specifico cinese.

La sperimentazione, condotta sia in Italia che in Cina, ha consentito l’effettuazione diuna ulteriore e più completa item analysis. Il test ha confermato di possedere un buon livellodi attendibilità. Infatti, il valore del coefficiente alpha di Cronbach è risultato soddisfacente,sia con il campione cinese (0,77) che con quello italiano (0,79).

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3 Si tratta della Zeijan University di Hangzhou. La professoressa Yan Li ha effettuato il test presso alcunescuole del Jiangdong District, Ningbo City, nella provincia dello Zhejiang.

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Questo ha portato alla definizione dei 35 item utilizzati infine per la terza tappa dellasperimentazione, diretta alle scuole superiori italiane, svoltasi nel periodo settembre 2009-gennaio 2010, presentata in modo dettagliato nel paragrafo seguente.

L’indagine su larga scala nella scuola italiana

Nel periodo settembre 2009-gennaio 2010 il test iDCA è stato somministrato ad uncampione di studenti tratto dalle scuole secondarie superiori italiane con lo scopo di valutarele “stato” della competenza digitale degli studenti italiani. Il sistema scolastico italiano pre-vede tre canali principali di scuole secondarie di secondo grado (high schools): i licei, chepreparano esclusivamente per i successivi studi universitari, gli istituti tecnici, divisi in indi-rizzi specifici orientati al mondo delle imprese e gli istituti professionali, maggiormenteorientati ad un rapido inserimento nel mondo del lavoro (vocational training).

Data la formulazione dei quesiti ed il loro adattamento all’età abbiamo supposto che leprove risultassero in genere superabili da allievi considerabili “competenti digitali”, e chequesti potessero dunque raggiungere un punteggio ragionevolmente alto, immaginando, invia puramente ipotetica una media complessiva di risposte corrette non inferiore alla sogliadel 75%.

È stato effettuato un campionamento di tipo stratificato partendo da una codifica preli-minare di tutte le scuole secondarie superiori italiane, impiegando, oltre che la tipologia discuola, anche una distinzione della macro-area geografica (Nord Ovest, Nord Est, Centro,Sud, Isole).

Il numero totale dei rispondenti è stato pari a 1056 unità da 34 scuole e l’età media deglistudenti era di 15 anni.

Se esaminiamo i punteggi complessivi, i risultati risultano più bassi di quanto avevamosupposto: il punteggio medio ottenuto è stato infatti 62,5 (DEV.ST=15,8). Se applichiamola soglia del 75% di superamento da noi ipotizzata per definire uno studente competentedigitale, solo un quarto dei soggetti arriva a tale soglia (tabella 1).

Distribuzione generale dei punteggi

% di rispondenti % cumulata

>= 75% 24% 100%Tra 50% e 75% 52% 76%Tra 25% e 50% 23% 24%Meno di 25% 1% 1%

Tabella 1 – Distribuzione dei punteggi complessivi

Per quanto riguarda le single dimensioni e sottocategorie, una rappresentazione com-plessiva dei risultati è data nel grafico seguente (figura 4):

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Figura 4 – Percentuali dei punteggi medi per ogni indicatore

È evidente la netta differenza tra i dati ottenuti alle prime due sottocategorie rispetto atutte le altre. Applicando la soglia da noi assunta (75%) questi adolescenti potrebbero essereconsiderati competenti digitali solo se identificassimo questo concetto con la capacità di ri-conoscimento iconico delle più comuni interfacce, o con la capacità di risolvere un ele-mentare problema di malfunzionamento tecnico (accensione, caricamento, stampante, audio,video).

Al di là di queste conoscenze tecnologiche di base le cose si complicano se ci spostiamoai quesiti che implicano una conoscenza tecnologica di complessità concettuale più alta. Adesempio se chiediamo cosa può far sì che una mail non raggiunga il destinatario, 1/3 ri-sponde che dipende da un programma e-mail “non aggiornato” o dalla “scarsità” di me-moria del computer; se chiediamo perché a volte la visualizzazione di un sito è lenta, quasila metà ritiene che dipende da un errore di impostazione del sistema operativo; se li inter-pelliamo su quali possono essere gli effetti di un virus, circa 1/3 crede che un virus puòprodurre un guasto all’impianto elettrico del computer; se poi consideriamo che cosa si ri-tiene rientri nelle possibilità operative di un computer circa la metà dei rispondenti è con-vinto che un computer possa fare una perfetta traduzione letteraria da una lingua ad un’altra.

Tutte le sottocategorie definite come cognitive non arrivano a conseguire la soglia del75%, salvo qualche sporadico item risultato relativamente semplice, come schematizzare gra-ficamente un breve testo, leggere un istogramma e valutare una singola informazione pococredibile reperita sul web.

Complessi risultano gli item legati ad attività quali il trattamento di dati testuali, la ge-rarchizzazione di informazioni e la loro sintesi, la scelta di parole chiave come anche inter-pretare grafici dinamici (la percentuale di successo si colloca un po’ al di sotto del 70%).

Anche circa la capacità di valutare criticamente le informazioni su Internet, di conside-rarne la pertinenza e l’affidabilità i punteggi di riuscita scendono intorno al 60% con unparticolare abbassamento nell’interpretazione dei risultati dei motori di ricerca: se chiediamo

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quali sono i fattori che influiscono sull’ordine di risultati in una ricerca, oltre la metà dei ri-spondenti sembra ignorare che ciò dipenda dai criteri adottati dal motore di ricerca.

La sottocategoria che risulta complessivamente la peggiore è quella che riguarda gli itemche chiedono di manipolare, interpretare e formulare inferenze a partire da dati organizzatiin tabelle o di selezionare la raffigurazione grafica di un algoritmo corrispondente ad unasuccessione di eventi (media intorno al 43%) con punteggi solo lievemente superiori quandoci si confronta con problemi logico-formali, che comportano ad es. l’impiego degli operatoribooleani (oltre un quarto mostra di non saperli usare).

Sul versante etico la situazione appare variegata: se da un lato i giovani riconoscono edisapprovano comportamenti di ciberbullismo, aspetto accentuato dai numerosi commentiaggiuntivi personali (“è un atto di bullismo virtuale, istiga la violenza” “non si prendono ingiro i difetti altrui pubblicamente”), non hanno però idee molto chiare relativamente al ri-spetto della privacy e alla sicurezza personale.

La domanda risultata più difficile in assoluto è quella sul digital divide che rivela la scarsaconsapevolezza relativa alle problematiche dell’accessibilità ed alle difficoltà tecniche chepaesi in via di sviluppo possono avere nella comunicazione via Internet: circa la metà deglistudenti afferma che la qualità di una comunicazione dipende tout court dalla quantità diimmagini, audio e video, e non condivide l’opinione che un’eccessiva quantità di multime-dialità possa comportare qualche problema. Questo atteggiamento è anche in questo casoconfermato dalle numerose annotazioni del tipo “se ho un bel video, non capisco perchénon posso inviarlo”).

6. Conclusioni

La competenza digitale rappresenta una sfida rilevante per i sistemi educativi del nuovo se-colo. Importante è comprendere come il concetto non sia riducibile ad un’unica compo-nente, né valutabile con un’unica tipologia di prove: occorre optare per un approccioflessibile ed integrato, definendo anche metodologie che consentano una ragionevole com-parabilità dei dati raccolti dalle diverse scuole.

In questa prospettiva, abbiamo sviluppato una serie di strumenti per valutare la compe-tenza digitale a differenti livelli di complessità e per diversi target di età. In questo lavoro cisiamo focalizzati sull’iDCA e sulle applicazioni di questo atrumento nella scuola superior.In particolare, abbiamo presentato le varie fasi di validazione dello strumento e i risultati diun’indagine su ampia scala condotta nelle scuole italiane tra Settembre 2009 e Gennaio2010.

Nel test da noi somministrato man mano che i quesiti implicano livelli cognitivi, criticio logici più alti, i punteggi si abbassano: gli adolescenti rispondono correttamente a quesitirelativi ad attività tecnologiche cognitivamente poco impegnative ma, in linea con altrilavori (Eagleton et al., 2003; Ravestein et al., 2007; Bennet et al., 2008), conseguono risultatimodesti laddove entrano in gioco aspetti concettuali di complessità maggiore, quali quelliimpliciti in attività quali confrontare informazioni contrastanti, valutare criticamente l’affi-dabilità di un sito o di un’informazione, compiere inferenze da dati.

Anche sul piano più strettamente etico-sociale, gli adolescenti, pur riconoscendo e giu-dicando riprovevoli i comportamenti di cyberbullismo, rivelano scarsa sensibilità verso lanecessità di assumere comportamenti online adeguati per la propria sicurezza e rispettosidella privacy e mostrano una completa ignoranza delle problematiche connesse alle dise-guaglianze tecnologiche e al digital divide.

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Questi aspetti ripropongono una tematica classica della psicologia, da Piaget (1964) inpoi, quella dell’egocentrismo infantile ed adolescenziale, cioè la sua difficoltà a comprendereche altri posseggono punti di vista diversi dai propri. Per così dire, Internet fa da cassa am-plificante dell’egocentrismo giovanile. Il “net- egocentrism” spinge ad esempio a non con-siderare che gli altri possono non disporre della stessa tecnologia, che loro necessità edaspettative dei lettori possono non corrispondere alle proprie (Katz, MackLin, 2007) e cheun’informazione inserita in un blog possa essere letta da soggetti diversi da quelli attesi(James et al, 2009).

Tutto questo comporta una maggiore rilevanza del ruolo della scuola: questa, da un latodovrebbe indirizzare la sua attenzione su due obiettivi: da un lato assicurare che le stesseconoscenze ed abilità tecnologiche di base siano acquisite da tutti, eliminando le disparitàche attualmente si conservano per il gap socio-economico e culturale esistente, dall’altrogarantire, attraverso specifici interventi finalizzati, che quel tessuto di nozioni ed abilità tec-nologiche di base, acquisibile in buona parte anche attraverso pratiche spontanee, si integriin una dimensione cognitiva più articolata, adeguatamente connessa con altre rilevanti ca-pacità o competenze significative, entrando a far parte di una personalità critica, eticamentee socialmente consapevole (Buckingham, 2006; Jenkins et al., 2006; Calvani, Fini, Ranieri,2010).

Successivi lavori e ricerche della comunità internazionale dovrebbero allora concentrarsisulla identificazione e predisposizione di attività didattiche basate su dimostrazione e workedexamples, particolarmente efficaci nel suscitare riflessività e consapevolezza negli adolescenticirca le implicazioni cognitive ed etico-sociali in gioco nell’impiego delle tecnologie.

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Stile d’attaccamento, impegno civico e morale e felicità:un’indagine sul fenomeno italiano della “famiglia lunga”

Attachment style, moral and civic engagement and happinessa survey on the Italian phenomenon of the “long family”

In Italia, il passaggio dall’adolescenza al-l’età adulta si sta temporalmente allun-gando. Alcuni sostengono che questo siaun sano adattamento alle attuali condi-zioni socio-economiche, altri che sia unsegno di eccessiva dipendenza e di attac-camento insicuro ansioso (Maione, Fran-ceschini, 1999; Flett, Endler, Besser,2009; Scabini, Cigoli, 1997; Scabini,Marta, 1996). Qui segnaliamo uno stu-dio condotto con 1570 studenti italianipresso l’Università di Padova, che esplorale relazioni esistenti tra scelta abitativa,stile di attaccamento, convinzioni reli-giose, spirituali e personali, disimpegnocivico e morale, felicità percepita. Vivereper conto proprio è risultato essere asso-ciato ad un attaccamento evitante o si-curo, ad un maggiore impegno sociale, apiù forti convinzioni personali e spiri-tuali. Vivere ancora con i genitori e in al-tre condizioni abitative (come ildormitorio) si associa ad un attaccamen-to ansioso, a più deboli convinzioni per-sonali ma a più forti credenze religiose,ad un maggiore disimpegno civico emorale e a una più elevata infelicità. In-dipendentemente dalla situazione abita-tiva, l’attaccamento ansioso si è collegatoal disimpegno civico e morale, a più de-boli convinzioni personali e a una mag-giore infelicità. L’attaccamento insicuroevitante è risultato essere connesso a undisimpegno civico e morale e a più de-boli credenze religiose e spirituali.

Parole-chiave: attaccamento, spirituali-tà, impegno civico e morale, benessere

In Italy, the transition from adolescence toadulthood has been lengthening. There is dis-agreement about whether this is a healthyadaptation to current socioeconomic conditionsor a sign of excessive dependency and insecureanxious attachment (Maione, Franceschini,1999; Flett, Endler, Besser, 2009; Scabini,Cigoli, 1997; Scabini, Marta, 1996). Herewe report a study of 1570 Italian undergrad-uates at the University of Padua exploringrelations among living choice; attachmentstyle; religious, spiritual, and personal beliefs;civic and moral disengagement; and perceivedhappiness. Living on one’s own was associat-ed with avoidant or secure attachment, beingmore engaged in society, and stronger personaland spiritual beliefs. Living both with parentsand in other living conditions was associatedwith anxious attachment, weaker personal be-liefs but stronger religious beliefs, greater civicand moral disengagement, and greater unhap-piness. Regardless of living arrangements,anxious attachment was related to civic andmoral disengagement, weaker personal beliefs,and greater unhappiness. Insecure avoidant at-tachment was related to civic and moral dis-engagement and weaker religious andspiritual beliefs.

Keywords: attachment, spirituality, civicand moral engagement, well-being

MARTA CODATO

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ricerche

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1. Problema di partenza

La presente indagine è nata dalla volontà di comprendere a fondo la questione della protrattapermanenza dei giovani adulti italiani presso la casa genitoriale. Tale fenomeno definito “fa-miglia lunga” nel 1988 da Scabini e Donati, risulta problematico in quanto ostacola il rea-lizzarsi di una reale emancipazione dei figli nei confronti dei genitori. I mummy’s boys &girls, invece di assumersi le responsabilità tipiche dell’adultità, quali la costruzione di una fa-miglia e di una propria figura professionale, continuano ad libitum a vagare nell’ossimorico(Scabini, Donati, 1988) limbo della ‘giovane-adultità’, caratterizzato da un infinito numerodi opzioni e potenzialità, tra le quali nessuna viene scelta e si attualizza radicalmente a di-scapito delle altre. Il problema in questione è facilmente osservabile comparando il com-portamento del tipico studente italiano e dello stereotipico studente americano, all’ultimoanno della scuola superiore: se l’americano medio, già dall’inizio dell’ultimo anno di scuola,invierà molteplici applications alle migliori università americane che possano rispondere aisuoi bisogni formativi, considerando altamente probabile l’allontanamento di migliaia dimiglia dalla casa genitoriale; l’italiano attenderà la fine dell’anno scolastico (anzi la fine dellesuccessive vacanze estive!) per iscriversi alla facoltà più vicina alla casa di ‘mamma e papà’anche a costo di non rispettare i propri desideri e talenti (Alesina, Ichino, 2009). Va detto inoltre, mutuando le parole di Galimberti (2007) e Testoni (1997), che i giovani

italiani soffrono di un male chiamato ‘nichilismo’, caratterizzato dalla mancanza di orizzonti,passione, investimento nel futuro e da un ripiegamento nell’attimo presente, se non addiritturanella passata infanzia. Da quanto è emerso in una ricerca svolta da Ciairano, Kliewer e Raba-glietti (2009), i giovani italiani evidenziano, rispetto agli olandesi, un livello più elevato dicomportamenti a rischio, quali la delinquenza, l’uso di marijuana e di tabacco. D’altra parteuna ricerca svolta da Passini ed Emiliani (2009) ha mostrato come gli Italian youths, in com-parazione agli albanesi, non diano importanza all’autonomia e all’indipendenza, credano chei diritti individuali debbano essere tutelati da altri, che i doveri non siano necessariamente le-gati ai diritti e che il benessere individuale sia contrapposto al benessere sociale. Nel 2003 Te-stoni e Zamperini (p.102) scrivevano come coloro i quali si perdono nelle strade delledipendenze, arrivando addirittura ad uccidere se stessi e gli altri, non siano tanto i figli del di-sagio e della miseria culturale, quanto dell’eccessivo benessere. Sono giovani che, abituati avivere in un ‘paradiso’ in cui tutto è disponibile sempre, si annoiano. Davanti al loro malesseregli adulti, spesso, si chiedono cosa gli manchi, cosa ancora debba esser loro garantito.

2. Teorie di riferimento

Per quanto riguarda le variabili che concorrono a condizionare tale situazione problematica,sono state analizzate differenti dimensioni: sociale, educativa, filosofica e psicologica. Dal punto di vista sociale: si ritiene che il fenomeno dell’amoral familism (Banfield, 1958) –

diffusosi particolarmente durante il secondo dopoguerra, nel Meridione – sia stato un direttoantecedente di quello della famiglia lunga. Si parla di ‘familismo’ quando gli individui per-seguono soltanto gli interessi della propria famiglia nucleare, e non quelli della comunità,che richiede la cooperazione tra soggetti non consanguinei. L’‘amoralità’ riguarda l’assenzadi ethos comunitario, la mancanza di relazioni sociali morali con individui esterni alla fami-glia. In base a tale fenomeno, la famiglia risulta molto più importante di tutto il resto dellasocietà, nei cui confronti c’è estrema diffidenza. Per quanto riguarda la dimensione educativa: sempre nel secondo dopoguerra, e in parti-

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colare tra gli anni ’60 e ’70, in corrispondenza dei rivolgimenti studenteschi, si è realizzatauna notevole trasformazione delle pratiche educative all’interno delle famiglie italiane. Daun modello di famiglia normativa, nella quale i figli seguivano pedissequamente le regolegenitoriali, arrivando a percepire come una liberazione dalla ‘prigionia’ il matrimonio equindi l’uscita dalla famiglia d’origine; si è passati alla cosiddetta famiglia affettiva, entro cuigli scambi affettivi sono molto più frequenti e le pratiche educative, inseribili entro lo stiledi parenting materno, conducono alla dipendenza dei figli piuttosto che ad una loro autono-mia. All’interno della famiglia affettiva spesso viene a crearsi una sorta di squilibrio tra vici-

nanza ed autonomia, definito dalle ricerche internazionali come intrusiveness. Questo ultimoconcetto implica il fatto di trattare il figlio come se fosse più giovane di quello che è; nonriuscire a fornire l’adeguato supporto alla sua autonomia; controllarlo troppo, essendo ec-cessivamente critici ed esigenti nei suoi confronti; investire in una pseudo-mutualità rela-zionale; non rispettare i confini interpersonali (Barber, Harmon, 2002; Biringen, Robinson,Emde, 2000; Conger, Conger, Scaramella, 1997; Laing, Esterson, 1964; Minuchin, 1974). Laparental intrusiveness è stata valutata sia tramite osservazioni comportamentali (Biringen etal., 2000) che con scale autocompilative (Deci, Schwartz, Sheinman, Ryan, 1981; Gavazzi,Reese, Sabatelli, 1998). Tale atteggiamento è più tipico delle madri con uno stile d’attacca-mento insicuro ansioso (Adam, Gunnar, Tanaka, 2004), e si associa a difficoltà sociali ed emo-zionali nei figli, come un attaccamento insicuro (Pederson, Gleason, Moran, Bento, 1998),una bassa autostima (Gramzow, Elliot, Asher, McGregor, 2003), un basso senso di autoeffi-cacia (Frodi, Bridges, Grolnick, 1985), scarse competenze sociali e abilità cognitive (Swanson,Beckwith, Howard, 2000), più elevata depressione (Blatt, 2004). Ciò, in adolescenza, si collegaanche ad una bassa opinione di sé, a problemi mentali e ad uno scarso rendimento scolastico(vedi Barber, Harmon, 2002). In accordo con Lavy, Mikulincer e Shaver (2010) e in base anumerose altre ricerche, sia longitudinali che correlazionali, un figlio cresciuto in un am-biente familiare iperprotettivo-intrusivo, sviluppa quello che Bowlby (1982) chiama attac-camento insicuro (Cassidy, Shaver, 2008). Dal punto di vista filosofico: il fenomeno della famiglia lunga può agevolmente essere in-

serito all’interno del più ampio pensiero nichilista occidentale. Quest’ultimo, sorto nell’anticaGrecia, e in particolare con la riflessione ontologica parmenidea (Severino, 1997; Testoni,2008), implica la concezione di ogni ente come diveniente, ossia come uscente dal nulla eal nulla ritornante. All’interno di questa prospettiva la lunga permanenza a casa dei giovaniitaliani può essere interpretata come un atto mirante alla salvaguardia di sé nei confrontidella forza trascinante e angosciante del nulla.

La filosofia è la culla della tragedia greca. E della tragedia della nostra epoca. Legamiessenziali uniscono alla tragedia greca la civiltà della tecnica e la tragedia del paradisodella tecnica, verso cui la nostra civiltà si sta portando (Severino, 1997, pp. 233-234).

In termini psicologici: si è ipotizzata un’associazione tra la protratta permanenza dei giovaniitaliani presso l’abitazione genitoriale ed una loro tendenza al possesso di uno stile d’attac-camento insicuro ansioso. Ciò anche in collegamento a quanto è stato affermato da Maionee Franceschini durante la Fedora Psyche Conference svoltasi a Copenaghen nel 1999:

do young people have a real insecure (or ambivalent) attachment, or could they simplybe only just a little opportunist, or even astute and well adapted to the social conditionsoffered by the country they live in?

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Lo stile d’attaccamento insicuro ansioso giustificherebbe la forte ansia di morte connessaalla separazione dalle figure d’attaccamento, in accordo con gli studi della Terror ManagementTheory (Florian, Mikulincer, Hirschberger, 2002; Mikulincer, Florian, 2000; Mikulincer, Flo-rian, Birnbaum, Malinshkevich, 2002). Inoltre il fenomeno della famiglia lunga italiana èstato letto in relazione alle dimensioni dell’impegno morale-civile, del benessere soggettivoe del possesso di convinzioni personali, spirituali e religiose, da parte dei giovani studentipartecipanti alla ricerca.

Fenomeno della famiglia lunga e attaccamento insicuro

Sorta dalla compenetrazione di teorie etologiche, evoluzionistiche, psicanalitiche e co-gnitive, la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969-82; 1973) introduce il concetto di sistemad’attaccamento, in base al quale il comportamento si struttura in modi che tendono ad in-crementare le possibilità di sopravvivenza e riproduzione di un individuo, nonostante gliinevitabili pericoli ambientali. La relazione d’attaccamento, definibile come un rapportocon una determinata persona cui si fa riferimento quando si ha bisogno di protezione, pos-siede tre caratteristiche principali (Weiss, 1982):la ricerca della vicinanza; l’effetto ‘base sicura’ per il quale la figura d’attaccamento svolge

il ruolo biologico e psicosociale di piattaforma da cui affacciarsi verso il mondo esterno ea cui poter tornare, in ogni momento, sapendo di ottenere accoglienza, nutrimento, conforto(Bowlby, 1988); un’altra importante prova della presenza di un legame d’attaccamento con-siste nella ‘protesta per la separazione’. Un concetto chiave della teoria dell’attaccamento è quello di ‘modello operativo interno’

(internal working model, Bowlby, 1969; 1982), in base al quale le risposte dei caregivers alle do-mande di prossimità e protezione vengono indelebilmente memorizzate e producono effettia lungo termine nella rappresentazione che il soggetto ha di sé e dell’altro (Bowlby, 1973citato da Mikulincer e Shaver, 2007, p. 22). Gli internal working models (Bowlby, 1969; 1982;1973 citato da Mikulincer, Shaver, 2007, p. 23) riproducono gli aspetti strutturali della realtà,consentendo ad una persona di predire le future interazioni e di pianificare il proprio com-portamento (Bowlby, 1988). Il termine ‘operativo’ suggerisce che le rappresentazioni noncostituiscono un prodotto statico, costruito una volta per tutte dall’individuo, ma al contrarioun processo dinamico condizionato dall’ambiente in cui la persona è inserita. La teoria è stata originariamente testata in ricerche sul rapporto madre-bambino, utiliz-

zando una procedura di valutazione laboratoriale chiamata Strange Situation (Ainsworth, Ble-har, Waters, Wall, 1978). Ainsworth e i suoi colleghi scoprirono che potevano classificare, inmodo affidabile, i bambini come sicuri, ansiosi o evitanti e che tali classificazioni erano pre-vedibili attraverso l’osservazione domestica delle interazioni madre-bambino. Più avanti neltempo altri ricercatori (vedi l’antologia curata da Grossmann, Grossmann, Waters, 2005)compresero come le classificazioni infantili risultanti dalla Strange Situation predicevano losviluppo sociale ed emozionale di un individuo lungo l’infanzia e l’adolescenza. Nel 1987,Hazan e Shaver notarono che i medesimi costrutti riguardanti le differenze tra individui –sicurezza nell’attaccamento, ansietà ed evitamento – avrebbero potuto essere utilizzati instudi concernenti relazioni romantiche o di coppia nell’adolescenza e nell’adultità. Successivamente, fu elaborato uno strumento a tre categorie per dar vita a misure bidi-

mensionali di ansietà ed evitamento nell’attaccamento (e.g. Bartholomew, Horowitz, 1991;Brennan, Clark, Shaver, 1998), che danno vita a quattro differenti stili d’attaccamento: sicuro,evitante, preoccupato e spaventato. Le misure dell’attaccamento adulto sono state successi-vamente usate in centinaia di studi, corrette e integrate da Mikulincer e Shaver (2007). Que-

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sti studi mostrano che gli stili d’attaccamento valutati con strumenti autocompilativi sonocollegati sia ai risultati della valutazione della storia familiare, sia a misure del successivo fun-zionamento relazionale e dell’adattamento psicosociale.

Impegno civico e morale

Un giovane adulto che lascia la casa genitoriale e inizia a funzionare autonomamente,deve badare a se stesso, fare le spese, cucinare, pulire, pagare le bollette (etc.) senza un sup-porto da parte dei genitori. L’assunzione di questo genere di responsabilità può facilmenteestendersi ad altri domini esperienziali – come ad esempio quello della società – declinandosiconcretamente in attività filantropiche. Ci si aspettava che gli studenti che vivevano ancoracon i genitori, fossero meno impegnati dal punto di vista civile e morale (Gillath, Shaver,Mikulincer, Nitzberg, Erez, van IJzendoorn, 2005).

Intensità delle convinzioni personali, spirituali e religiose

Un aspetto della letteratura riguardante la famiglia lunga consiste nella preoccupazioneche i giovani adulti dipendenti che ancora vivono con i genitori non abbiano la forza discardinare il proprio pensiero da quello genitoriale (Diamanti, 1999). In accordo con la sud-detta preoccupazione essi non sono in grado di sviluppare delle forti e autonome convin-zioni riguardo alla natura della realtà e al ruolo sociale degli individui. Di conseguenza sitrovano ad accettare passivamente le convinzioni genitoriali, che in molte famiglie italianecorrispondono alla religione cattolica.In collegamento con tali riflessioni, ci si attendeva che gli studenti universitari che vive-

vano ancora presso la casa genitoriale avrebbero avuto una poco sviluppata filosofia personale(deboli convinzioni personali) e delle più forti convinzioni religiose.

Benessere soggettivo

Dall’indagine IARD (Buzzi et al., 2007) è emerso che i giovani adulti che vivono perconto proprio sono più soddisfatti della propria vita rispetto a coloro che continuano avivere con i genitori. Ci si aspettava di ottenere dei risultati simili oltre all’esistenza di unaconnessione tra attaccamento ansioso e basso grado di benessere.

3. Metodo

I partecipanti

Nella ricerca sono stati coinvolti n. 1570 soggetti di età compresa tra i 18 e i 38 anni,con una media di 22,11 (std. 2,508). Tra i partecipanti all’indagine, dei quali 580 sono maschi(37%) e 990 femmine (63%), alcuni appartenevano a facoltà inscrivibili nella categoria dellascientificità o nomoteticità; altri stavano frequentavando facoltà umanistiche; altri eranoiscritti a facoltà definibili ‘umanistico-scientifiche’ in quanto intersecanti quelle prettamenteumanistiche e le scientifiche. Le facoltà d’appartenenza dei partecipanti sono: Medicina eChirurgia (11,0%), Ingegneria (13,0%), Scienze MM. FF. NN (12,8%), Farmacia (11,7%),

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Lettere e Filosofia (13,1%), Scienze della Formazione (17,6%), Giurisprudenza (10,6%), Psi-cologia (10,2%).

Figura 1 - Distribuzione dei partecipanti in relazione alla Facoltà di appartenenza

Materiali e procedura

I soggetti sono stati contattati all’interno delle aule universitarie ed è stato loro propostodi partecipare ad una ricerca rivolta agli studenti dell’università di Padova. Ai fini di determinare se la salienza di mortalità (il fatto di ricordare ai soggetti la morte)

potesse influenzare la compilazione della restante parte del questionario, in accordo con glistudi della Terror Management Theory (Arndt, Greenberg, Simon, Pyszczynski, Solomon, 1998),metà dei questionari è stata consegnata con questo tipo di manipolazione e nell’altra metànon si è menzionato il concetto di morte fino alla fine. Il questionario include la ‘misura-zione’ di molteplici variabili: • Lo status anagrafico è stato indagato tramite alcune domande relative all’età, al genere, altitolo di studio, al lavoro, allo stato civile, alla situazione abitativa (per conto proprio;presso la casa dei genitori o in un’altra situazione residenziale);

• Lo stile d’attaccamento è stato misurato con il Relationship Scales Questionnaire o RSQ(Griffin, Bartholomew, 1994a; 1994b), una scala di autovalutazione costituita da 30 breviasserzioni ricavate dalla misura dell’attaccamento di Hazan e Shaver (1987), dal RelationshipQuestionnaire di Bartholomew e Horowitz (1991) e dalla Scala dell’Attaccamento Adulto diCollins e Read (1990). Nella scala a 5 livelli dell’RSQ i rispondenti devono scegliere ilgrado che meglio descrive la loro tipica modalità di gestire le relazioni intime. Tale stru-mento si focalizza sugli internal working models, ossia sui modelli di sé e degli altri sottesiagli specifici stili d’attaccamento. L’RSQ è stato originariamente ideato con la finalità dimisurare i quattro stili d’attaccamento (sicuro, preoccupato, evitante e spaventato) prece-dentemente misurati da Bartholomew e Horowitz (1991) con un solo item per stile. Seb-bene le quattro sottoscale abbiano dimostrato bassi gradi di affidabilità e coerenza interna,il gruppo di asserzioni risulta, comunque, utile a valutare le dimensioni principali in rap-porto agli stili d’attaccamento tipici dell’adolescenza e dell’adultità (Collins, Read, 1990).

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È stata condotta, infatti, nella presente ricerca, un’analisi fattoriale con metodo delle com-ponenti principali e rotazione oblimin. L’esame dello scree plot ha evidenziato l’esistenzadi tre fattori latenti, relativi all’atteggiamento nei confronti delle relazioni intime: 1. il primo fattore, denominato attaccamento insicuro ansioso si riferisce a quei soggettiche hanno un profondo bisogno di sentirsi accettati, supportati e rassicurati e spro-fondano in una angoscia estrema quando la loro esigenza di vicinanza non viene ap-pagata: essi validano la precaria autostima attraverso l’eccessiva chiusura all’interno direlazioni intime.

2. Il secondo fattore, attaccamento sicuro, individua quelle persone caratterizzate da unaradicata autostima e da un senso di benessere nelle relazioni. La sicurezza nell’attac-camento implica aspettative positive in riferimento alla disponibilità altrui, nei mo-menti di bisogno, una visione del sé come competente e degno d’amore e una fiducianel fatto che le difficoltà saranno affrontate con efficacia.

3. Il terzo fattore, chiamato attaccamento evitante, riguarda gli individui che evitanol’intimità con gli altri, in quanto provano disagio nell’aprirsi, nell’esprimere debolezzae dipendenza. Essi mantengono una forte autostima, negando difensivamente il valoredei rapporti stretti e mettendo in risalto l’importanza dell’indipendenza. Le loro stra-tegie di disattivazione consistono nel tentativo di aumentare la distanza delle figured’attaccamento, di contare solo su se stessi e di reprimere pensieri negativi e ricordidolorosi;

• Il disimpegno civile morale, ossia il ricorso a strategie di autoregolazione cognitiva fina-lizzate a disimpegnarsi rispetto agli standard di comportamento civico-morali, è stato in-dagato tramite la scala del disimpegno morale (Caprara, Fida, Vecchione, 2009) formata da40 item e da un modello di risposta a 5 posizioni graduate da 1 (Per nulla d’accordo) a5 (Molto d’accordo). Questa scala è stata aggiunta in seguito alla prima raccolta dei dati,di conseguenza la grandezza del campione utilizzato per le analisi riguardanti questa va-riabile è più piccolo (circa 800 soggetti) del campione (circa 1500 soggetti) usato per lealtre analisi.

• La concezione della morte. Due domande hanno consentito di indagare, da un lato, larappresentazione della morte come annientamento o passaggio, dall’altro i sentimenti re-lativi alla stessa: 1) Secondo lei la morte è un passaggio dalla vita ad una altra forma diesistenza o è un annientamento, la fine di tutto?; 2) Pensando la sua morte quali senti-menti prova?

• La forza delle convinzioni spirituali, religiose e personali. Ai partecipanti sono state rivoltequattro domande (estratte dallo strumento WHO QOL srpb; WHOQOL SRPB Group,2006) relative al livello di religiosità, spiritualità e di convinzioni personali. Le domandesono le seguenti: “fino a che punto ti consideri una persona religiosa?”; “fino a che puntoti senti parte di una comunità religiosa?; fino a che punto hai delle credenze spirituali?”;“fino a che punto hai delle credenze personali?” A tali domande è stata anteposta unabreve indicazione dei significati da assegnare alle espressioni ‘convinzioni personali’, ‘con-vinzioni spirituali’, ‘convinzioni religiose’. Una scala likert a 5 punti da per niente (1) acompletamente (5) è stata usata come scala di risposta ai quattro items sopra elencati. Aisoggetti inoltre sono state poste delle questioni più prettamente concernenti la religiosità,nella sua specifica caratterizzazione monoteistica: “credi in Dio?”; “appartieni ad una re-ligione?”; “se sì a quale?”. In particolare l’operazionalizzazione del costrutto ‘religiosità’ha implicato la somma dei seguenti indicatori: “credi in Dio?”; “appartieni ad una reli-gione?”; “in che grado ti consideri una persona religiosa?”; “in che grado ti consideriparte di una comunità religiosa?”.

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Risultati

I risultati descrittivi in relazione a tutte le variabili compaiono, suddivisi in base al genere,nella Tabella 1. Le donne hanno un punteggio significativamente più alto, rispetto agli uo-mini, in rapporto all’attaccamento ansioso e sicuro e alle convinzioni religiose e spirituali.Esse sono risultate anche meno disimpegnate a livello civico e morale (più impegnate)

degli uomini, in accordo con la misura del disimpegno civico e morale.La tabella 2 mostra le correlazioni tra alcune delle variabili considerate. Verranno discusse

in relazione agli altri risultati presentati nelle prossime sezioni.

Stile d’attaccamento e condizione residenziale

Il numero di partecipanti che ancora stavano vivendo con i genitori è 1061; il numerodi quelli che vivono per conto proprio è 278; il numero di quelli in un’altra condizione re-sidenziale (come il dormitorio) è 224. Ci si aspettava che i soggetti che ancora vivevanocon i genitori avessero un punteggio più alto in relazione all’attaccamento ansioso rispettoa coloro che vivevano per conto proprio. I risultati per tutte e tre le dimensioni dell’attaccamento sono visibili nella Tabella

3. Come preannunciato, i partecipanti che vivevano ancora con i genitori hanno ottenutoun punteggio più alto in relazione all’attaccamento ansioso rispetto a coloro che vivevanoautonomamente: F (2, 1561) = 3.38, p < .05. Inoltre coloro i quali vivevano in un’altra con-dizione residenziale (come il dormitorio) sono risultati più ansiosi di quelli che vivevanoper conto proprio.

Figura 2 - Stile d’attaccamento e condizione residenziale

C’è anche una associazione significativa tra condizione residenziale e attaccamento evi-tante. I partecipanti che vivevano per conto proprio erano significativamente più evitanti dicoloro che vivevano con i genitori e di coloro che avevano un’altra condizione residenzia-le.

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Le differenze rispetto all’attaccamento sicuro non erano significative, ma i partecipantiche vivevano autonomamente hanno ottenuto il punteggio più alto in rapporto all’attacca-mento sicuro e coloro che ancora vivevano con i genitori hanno ottenuto la media più bassain relazione alla sicurezza nell’attaccamento. In generale questi risultati sono compatibilicon le ipotesi iniziali e tutti i risultati significativi sono rimasti quando l’età è stata controllatastatisticamente (c’era una piccola differenza d’età tra i gruppi relativi alla condizione resi-denziale, all’interno dei quali coloro che ancora vivevano con i genitori avevano un’età di22.05, in media; coloro che vivevano per conto proprio avevano un’età media di 22.97; co-loro che avevano un’altra condizione residenziale avevano una media d’età di 21.34).

Disimpegno morale-civile e condizione residenziale

Ci si aspettava che i giovani che continuavano a vivere con i genitori avessero un pun-teggio più elevato in rapporto al disimpegno civico e morale, rispetto a quelli che vivevanoper conto proprio. Un’analisi della varianza ha evidenziato una significativa differenza: F(2,744) = 6.28, p < .05. Come predetto, i partecipanti che continuavano a vivere con i ge-nitori hanno ottenuto un punteggio significativamente più alto in rapporto al disimpegnocivico e morale (M = 1.87) rispetto a coloro che vivevano per conto proprio (M = 1.73).I partecipanti con un’altra condizione residenziale hanno ottenuto un punteggio intermediorispetto agli altri due gruppi, ma non erano significativamente differenti da essi (M = 1.79).I risultati sono rimasti virtualmente gli stessi quando l’età è stata statisticamente controllatae l’età non era connessa al disimpegno morale e civile.

Intensità delle convinzioni religiose, spirituali e personali in rapporto alla condizione residenziale

Ci si attendeva che i giovani adulti che vivevano ancora presso la casa genitoriale avesseroun punteggio più alto in relazione alle convinzioni religiose rispetto a quelli che vivevanoper conto proprio e che, appunto, coloro i quali risiedevano autonomamente fossero menoreligiosi.Tale aspettativa è stata confermata: F (2, 1566) = 18.31, p < .001. Le medie erano 6.65

per coloro che vivevano con i genitori, 5.73 per coloro che vivevano per conto proprio e6.86 per coloro che hanno dichiarato di vivere in un’altra condizione residenziale. La mediaper coloro che vivevano autonomamente era significativamente diversa dalle altre due, lequali non differivano significativamente l’una dall’altra. Non c’erano significative associazionitra la condizione residenziale e l’intensità delle convinzioni spirituali o personali.

Felicità e condizione residenziale

Ci si aspettava che i giovani adulti che continuavano a vivere con i genitori fossero menofelici di coloro che vivevano per conto proprio.Sebbene le medie fossero nella direzione attesa – 4.61 per coloro che vivevano con i ge-

nitori, 4.78 per coloro che vivevano per conto proprio, e 4.65 per coloro che si trovavanoin un’altra condizione residenziale – le differenze erano solo marginalmente significative, F(2, 1564) = 2.80, p = .06.

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Combinazione delle variabili per predire il disimpegno morale e civile

Dato che una delle principali preoccupazioni riguardanti il fenomeno della famiglia lungaè che sembra associarsi ad un minore impegno civico e morale, è stata condotta una analisiaggiuntiva per verificare quali variabili fossero collegate al disimpegno civico e morale. Èstata realizzata una regressione stepwise, predicendo il disimpegno. Nel primo step sono statiinseriti genere ed età; nel secondo step si è aggiunta la condizione residenziale come predictor(la permanenza presso la casa genitoriale è stata codificata come 1; la condizione residenzialeautonoma è stata codificata come 2). Nel terzo step si sono inserite le variabili convinzioni(i risultati sono riassunti nella Tabella 4). L’analisi ha dato risultati significativi in tutti e quattro gli step (tutti i ps < .001), e la R2

variante da .257 nel primo step a .424 nel quarto step. Le variabili predittive significativeerano il genere (gli uomini sono risultati meno impegnati delle donne), l’attaccamento an-sioso ed evitante (le persone con un punteggio più elevato in rapporto all’attaccamento in-sicuro sono risultate meno impegnate) e le convinzioni religiose (gli individui più religiosisono risultati, in media, più impegnati). I risultati hanno evidenziato che vi è una significativa interdipendenza e correlazione tra

il disimpegno, il fatto di vivere a casa con i genitori e di avere un attaccamento insicuro.

Correlazioni delle due forme di insicurezza nell’attaccamento

La Tabella 2 mostra come le due tipologie di attaccamento insicuro – ansietà ed evitamento– sono connesse ad altre variabili psicologiche. L’ansietà nell’attaccamento è risultata signifi-cativamente associata al disimpegno civico e morale, a più deboli convinzioni personali e aduna maggiore infelicità. L’evitamento è risultato essere significativamente collegato al disim-pegno morale e civile a più deboli convinzioni religiose e spirituali, ma non significativamenteassociato al benessere soggettivo. Invece la sicurezza nell’attaccamento è risultata essere signi-ficativamente connessa all’impegno civico e morale, al possesso di più forti convinzioni siapersonali, che spirituali e religiose e ad una significativamente maggiore felicità.Il grado di queste correlazioni era simile, e non significativamente differente, attraverso

le tre diverse tipologie di condizione residenziale.

4. Discussione

I risultati hanno generalmente supportato le ipotesi. Gli studenti universitari italiani checontinuavano a vivere a casa con i genitori hanno ottenuto un punteggio più alto in rapportoall’attaccamento ansioso. Ciò rispetta le aspettative basate su un precedente studio italianocondotto da Maione e Franceschini (1999). Gli studenti che vivevano per conto propriohanno totalizzato un punteggio più alto in relazione all’attaccamento evitante e marginal-mente più alto in rapporto all’attaccamento sicuro. Questi risultati sono tutti compatibilicon l’idea per cui è più probabile che i tardo-adolescenti e i giovani adulti attaccati ansio-samente vivano più a lungo presso la casa genitoriale rispetto a coloro i quali hanno un at-taccamento sicuro o evitante.Come ipotizzato, gli studenti che vivevano ancora a casa con i genitori erano relativa-

mente più disimpegnati a livello civico e morale, e ciò è particolarmente vero per coloroche erano attaccati in modo insicuro. Questi risultati supportano la preoccupazione riguardo alla famiglia lunga da parte degli

scienziati sociali italiani (Scabini, Donati, 1988).

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Ci si aspettava che gli studenti universitari che continuavano a vivere con i genitori avreb-bero avuto convinzioni religiose più forti rispetto a coloro che vivevano per conto proprio,e ciò è stato confermato. Tale risultato supporta l’idea in base alla quale i giovani adulti chevivono presso la casa parentale, con minore probabilità rispetto a coloro che vivono perconto proprio, sviluppino delle convinzioni autonome rispetto alla natura della realtà e alruolo delle persone nella società. Essi verosimilmente tendono ad assimilare i valori dei ge-nitori, che in molte famiglie italiane includono credenze associate al Cattolicesimo Romano.Si osservi che le convinzioni religiose sono risultate positivamente correlate alla sicurezzanell’attaccamento e all’impegno morale e civile, di conseguenza i dati non indicano che lareligiosità di per sé implichi responsabilità personale o civica; infatti, l’opposto sembra essereil caso.Inoltre come ci si aspettava, gli studenti che vivevano per conto proprio hanno eviden-

ziato un più elevato benessere soggettivo rispetto a quelli che vivevano a casa con i genitori.Sarebbe utile, nei futuri studi, esplorare le cause della felicità e dell’infelicità in relazione allediverse condizioni residenziali.Sebbene i risultati siano tutti generalmente nella direzione attesa, gli effect sizes non sono

generalmente ampi. Inoltre le relazioni tra le variabili sono simili per gli studenti che vive-vano in diverse condizioni, cioè le variabili agiscono similmente a seconda delle tre differentisituazioni abitative. Ciò significa che i tardo adolescenti e i giovani adulti che continuano avivere a casa, sono tendenzialmente meno sicuri, meno impegnati in società e meno felici,ma tra essi, quelli che si trovano nella condizione peggiore sono quelli con un attaccamentoansioso, disimpegnati e senza forti convinzioni. In ogni caso, non tutti quelli che continuanoa vivere con i genitori esibiscono questa costellazione di problemi, quindi le preoccupazioniriguardo la famiglia lunga dovrebbero essere dirette specialmente alle famiglie-lunghe deigiovani adulti con un attaccamento ansioso, disimpegnati a livello civico e morale e infelici,in quanto con elevata probabilità sono caratterizzate da una particolare tipologia di praticheeducative (Cassidy, Shaver, 2008). È facile supporre che tali giovani siano più inclini all’abusodi droghe e a sensazioni di alienazione, sebbene tale possibilità debba essere più approfon-ditamente esplorata in studi futuri.

5. Proposta pedagogica

Ci si propone di organizzare, presso l’università, dei laboratori creativi di death education. Lapartecipazione attiva a tali laboratori consentirà l’acquisizione, da parte degli studenti, didue crediti formativi.Educare alla morte significa promuovere, nei giovani-adulti, il coraggio di divenire adulti,

abbandonando i miti relativi all’infanzia, imparando a prendere delle scelte definitive e a vi-vere la quotidiana imperfezione. Crescere, infatti, vuol dire accettare la perdita di parti di séin nome del perseguimento di un proprio percorso personale e professionale. L’uscita con-sapevole dalla casa genitoriale comporta una rottura del protettivo legame con il passato eduna esposizione al contagio nella communitas. Quest’ultima implica un dovere di dono reci-proco, un obbligo a sporgersi fuori di sé, ad esporsi alla rischiosa contiguità con l’altro (Espo-sito, 1998). In accordo con quanto Mantegazza sostiene (2004, pp. 58-59), il processo dicrescita può essere concepito come una morte: implica l’uccisione e il tradimento della per-fezione infantile. È morte di ciò che è puro e vergine e rinascita all’adultità.Il target dei suddetti laboratori sarebbe costituito da studenti universitari italiani, la cui

età sia compresa tra i 18 e i 38 anni.

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La finalità precipua consiste nella promozione dell’adultità, dell’uscita dalla appagante ebellissima ‘condizione fetale’, caratterizzata da uno stato di immaturità, dipendenza e bisognoche la permanenza presso la casa genitoriale può contribuire a procrastinare.Gli obiettivi principali riguardano:

• la promozione del rispetto per la dimensione della fine e del limite. È importante che lafinitudine e la provvisorietà vengano percepiti non come limiti da superare, attraversoimpossibili progetti di immortalità, ma come coordinate essenziali dell’essere al mondo,anzi come basi per la delineazione di una solidarietà creaturale cosmica (Mantegazza,2004, p. 122). Horkheimer scrive in proposito (1972, p. 147): “se gli uomini considerasserodavvero se stessi come esseri finiti, accomunati dalla paura del dolore e della morte, unitinella lotta per migliorare e prolungare la vita di tutti, si verrebbe a creare la vera solidarietàche comprende il momento della religione e la grande filosofia”;

• il toglimento di quella patina di scontatezza da tutti gli oggetti/situazioni/individui chesi crede saranno sempre a propria disposizione (Mantegazza, 2004, pp. 17-18);

• la rottura della circolarità del tempo di Internet e dei new media – caratterizzato dal-l’eterno presente senza progettualità – tramite l’inserimento in esso della consapevolezzadella morte;

• l’eliminazione della paura del tempo vuoto; • l’esaltazione dell’importanza insita nel darsi autonomamente dei confini, al cui internogiocare la propria quotidianità;

• la presa di contatto dei partecipanti con la propria interiorità;• la comprensione da parte dei giovani della propria volontà più profonda e la struttura-zione di progetti per concretizzarla;

• la canalizzazione positiva e creativa delle emozioni negative connesse alle idee di vuoto,mancanza, solitudine, distacco, morte;

• la promozione di un’autonoma espressione di sé, indipendente dalle pressioni esterne,seppur all’interno delle regole contestuali;

• lo sviluppo della competenza della resilienza utile a curare le proprie ferite senza negarle,a far tesoro dei fallimenti, volgendo lo sguardo oltre, ad accettare i limiti senza farne undramma (Cyrulnik, 2002). Cyrulnik rappresenta la resilienza attraverso l’immagine delbrutto anatroccolo che si trasforma in cigno portando dentro di sé il ricordo drammaticodell’abbandono e la paura della morte;

• la promozione della capacità di scelta e della felicità come diritto di tutte/i (solo chi èfelice può potersi pensare come fragile e precario, perché sostenuto dall’intensità dellasua felicità).Il metodo: i soggetti saranno stimolati a riflettere sulle tematiche sopraindicate, attraversodei giochi e tramite l’espressione creativa. In accordo con quanto affermano Edgar e Ho-ward-Hamilton (1994) la death education deve svolgersi in un clima sicuro e supportivoin grado di far sentire i partecipanti liberi e, allo stesso tempo, sicuri di poter esprimerele proprie emozioni ed esperienze, in un ambiente che le accolga e le sappia gestire inmodo adeguato;

• si richiederà di disegnare il proprio autoritratto prima e dopo un immaginato incontrocon la morte, per rappresentare il senso di crescita o di regressione che l’esperienza dellamorte, seppur solo pensata, suscita. È importante che i ragazzi sperimentino l’ek-stasis diuna morte fittizia e artificiale, che sia frattura e individuazione, rottura della quotidianitàe salto verso differenti e adulte organizzazioni di sé. La profonda consapevolezza dellamorte comporta un’uscita da sé, un’intuizione dell’infinita pluralità dei modi di affrontarel’avventura della vita (Mantegazza, 2004, pp. 132-135);

• si porteranno i giovani a ricordare le morti di cui sono stati e sono testimoni, per far

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sentire loro una forma di potere sulla morte, che non sia necessariamente quello di pro-curarla;

• si chiederà ai soggetti di preparare la propria morte, di anticiparla nella fantasia, di orga-nizzarla fermandosi prima del momento decisivo. Giocare a morire, fingere di esseremorti sono attività pericolose, ma educative se realizzate all’insegna della sfida della cre-scita;

• si farà in modo che ciascuno espliciti narrativamente, anche solo nella dimensione dellafinzione o del gioco, il proprio implicito progetto di morte. “come ti piacerebbe mori-re?...come pensi la tua morte, quale morte vorresti mettere in scena, potendo scegliere?”tutte le rappresentazioni sono utili nella direzione di una gestione anticipata del distac-co;

• gli adolescenti saranno invitati a disegnare la loro tomba. Tale attività smuove emozioni,vissuti non sempre facili da controllare, permette anche di ragionare sull’immagine di séche si intende lasciare. Pensare che la morte sia già presente costituisce un pretesto permodificare qualche elemento della propria vita. Preparare la morte significa percepirnela presenza potenziale ogni giorno…”anche nella luminosità della campagna a maggioo nell’addormentata città ferragostana” (Mantegazza, 2004, p. 135). Non significa viverenell’incubo, ma, sotto il segno della comune precarietà, vivere ogni giorno come se fossel’ultimo;

• si forniranno diversi materiali, come fogli, colori a tempera, pennelli, pastelli, perle, nastri.Si chiederà ai partecipanti di trovare un proprio posto nello spazio, di personalizzarlo edi utilizzare qualsiasi tipo di materiale, a propria scelta, per esprimere e canalizzare crea-tivamente (in un ora e trenta minuti) le proprie emozioni rispetto a temi quali: la famiglia;la solitudine; la morte; l’allontanamento dalla casa genitoriale. Al termine del lavoro sichiederà di improvvisare una performance per mostrare agli altri la propria opera. Come sostiene Dallari (2005, p. 210) l’educatore, l’insegnante, l’animatore culturale, il

terapeuta che vogliano avvalersi di momenti di creatività all’interno dei loro setting, devonoattivare eventi molto simili a quelli messi in atto dallo sciamano che, per guarire il posseduto,generava confusione, servendosi della danza, del rito, della suggestione ipnotica del fuoco.Si vuole presentare ai partecipanti l’occasione di confondersi e di sospendere le regole sucui si struttura il principio di realtà. In tal modo l’ordine simbolico verrebbe prima sovver-tito, poi ripristinato, accogliendo nuove regole e nuovi paradigmi della rappresentazione. Sipossono aiutare le persone a superare la convinzione che l’ordine simbolico sia assoluto evero, portarle a uscire dal noto, da situazioni già amministrate, strutturate e assolutamenteprotettive. La scoperta della propria creatività comporta l’accettazione di intraprendere unviaggio mozzafiato nell’ignoto. Quanto più facile, confortevole e rassicurante è rimaneredove si è, tra facce e luoghi familiari? Intraprendere nuove direzioni implica coraggio, o, in altre parole, fede. Fede per cui, anche

quando non ci sono segnali esterni che indichino dove e come si dovrebbe procedere, si saprofondamente che non ci si perderà mai.

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Tabella 1Risultati descrittivi relative alle principali variabili, suddivise per genere

Tabella 2Correlazione tra alcune variabili chiave

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Femmine Maschi

Variabile Media SD Media SD

t

(df)!

p

Effect size: Cohen’s d and

effect-size r

Attaccamento ansioso 2.56 0.78 2.38 0.78 4.22 .000 .23 e .11

Attaccamento evitante 3.42 0.88 3.40 0.72 0.59 ns

Attaccamento sicuro 3.27 0.65 3.13 0.62 4.05 .000 .22 e .11

Disimpegno morale

civile

1.76 0.40 1.98 0.46 7.04 .000 .51 e .25

Convinizioni religiose 6.83 2.43 5.97 2.46 6.76 .000 .35 e .17

Convinzioni spirituali 3.07 0.98 2.79 1.07 5.36 .000 .27 e .14

Convinzioni personali 3.67 0.79 3.69 0.92 0.44 ns

Felicità 4.68 1.09 4.59 1.06 1.58 ns

! df ! 1560, eccetto per il Disimpegno morale civile, la cui df = 745.

lbiiV

neimmeF

diM DS

hicsaM

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noheC:ezistceffefffE

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elbiairaV

o ntemaccattA

o ntemaccattA

o ntemaccattA

gnpemisiD o

elviic

roniiznionviC

soniinzonviC

adieM DS

oosinsa 562. 780.

entatvie 423. 880.

o urcis 273. 650.

elaorm 761. 400.

eosgiiler 836. 432.

iluatirpis 073. 980.

adieM DS t

)dff)( !

p

382. 780. 224. 0.

403. 720. 590. n

133. 620. 054. 0.

981. 460. 047. 0.

975. 462. 766. 0.

792. 071. 365. 0.

tceffefffe - rezis

000 11.e23 .

s

000 11.e22 .

000 25.e51 .

000 17.e35 .

000 14.e27 .

poniinzonviC

àticileF

! df e1560,!

ilonasrpe 673. 790.

684. 091.

gno pemisiDlirpeo ttecce

693. 920. 440. n

594. 061. 581. n

7=dfuical,elviicelarom

s

s

745.

1 2 3 4 5 6 7 8

1. Attaccamento ansioso -- .031 -.022 .186** -.015 -.043 -.086** -.398**

2. Attaccamento evitante -- -.300** .133** -.140** -.094** .042 -.055

3. Attaccamento sicuro -- -.115** .070** .122** .086** .166**

4. Disimpegno morale civile -- -.194** -.157** -.060 -.053

5. Convinizioni religiose -- .677** .108** .126**

6. Convinzioni spirituali -- .329** .118**

7. Convinzioni personali -- .110**

8. Felicità --

** p < .01

1 2 3

4 5

6 7 8

1. nao ntemaccattA

2. veo ntemaccattA

3. iso ntemaccattA

4. omgno pemisiD

oosins -- 031. - 0.

entatvi -- - 3.

ourci --

elviicelaro

22 186**. - 015.

00** 13. 3** - 140**.

- 115**. 070**.

-- - 194**.

- 043. - 086**. - 39.

- 094**. 042. - 05.

122**. 086**. 166.

- 157**. - 060. - 05.

8**

5

6**

3

5. leroniiznionviC

6. pisoniinzonviC

7. rpeoniinzonviC

àtiilF8

eosgiil

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ilonasr

--

677**. 108**. 126.

-- 329**. 118.

-- 110.

6**

8**

0**

àticileF8.

** p 01.<

--

Page 37: Giornale Italiano della Ricerca Educativa 5/10

Tabella 3Medie e Deviazioni Standard dello stile d’attaccamento dei partecipanti

con diverse condizioni residenziali

Nota. Le medie con diversi soprascritti in una determinata colonna sono significativamente differenti (p < .05) in accordocon il test Scheffé.

Tabella 4Regressione che predice il disimpegno civile e morale da altre variabili

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37

SIRD • Ricerche

i i in una determinata colonna sono significativamente differenti (p in accordo con il test

S

Attaccamento ansioso Attaccamento evitante Attaccamento sicuro Condizione

residenziale Media SD Media SD Media SD

Con i

genitori

(n = 1061)

2.54a

.79 3.40a,b

.80 3.20 .65

Varia

(n = 224)

2.50a

.80 3.37b

.74 3.26 .62

Per conto

proprio

(n = 278)

2.32b

.73 3.53a

.95 3.27 .61

oneizondiC

elainzdeiser

ion C

iortnige

)1061=n (

airaV

)224=n (

tP

insao ntemaccattA oos

adieM DS

542.a

79.

502.a

80.

322b

73

entatvieo ntemaccattA

adieM DS

403.b,a

80.

373.b

74.

533a

95

ourciso ntemaccattA

adieM DS

203. 65.

263. 62.

273 61

diii

o ontcreP

oioprpr

)278=n (

li

322.b

73.

ffffdiiiffiii

533.a

95.

i d i

273. 61.

Step Variabili predittrici ! SE t p

Genere .26 .03 7.14 .000 1

Età -.05 .01 -1.34 .181

Genere .25 .03 7.04 .000

Età -.03 .01 -0.83 .410

2

Condizione residenziale -.12 .02 -3.43 .001

Genere .28 .03 8.09 .000

Età -.03 .01 -0.87 .383

Condizione residenziale -.10 .02 -2.87 .004

Attaccamento ansioso .21 .02 5.89 .000

Attaccamento sicuro -.05 .03 -1.52 .130

3

Attaccamento evitante .13 .02 3.53 .000

Genere .26 .03 7.50 .000

Età -.03 .01 -0.71 .476

Condizione residenziale -.13 .02 -3.81 .000

Attaccamento ansioso .20 .02 5.91 .000

Attaccamento sicuro -.05 .02 -1.31 .189

Attaccamento evitante .11 .02 3.05 .002

Convinizioni religiose -.18 .01 -3.79 .000

Convinzioni spirituali .00 .02 0.02 .984

4

Convinzioni personali -.05 .02 -1.26 .210

petS biairaV

erneeG1

àtE

erneeG

àtE

2

zondiC

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icirttdieprili !

26.

- 05.

25.

- 03.

elainzdeiseronei - 12.

28.

ES t p

03. 14.7 000.

01. - 341. 181.

03. 04.7 000.

01. - 830. 410.

02. - 433. 001.

03. 098. 000.

àtE

zondiC

accattA

accattA

accattA

erneeG

àtE

zondiC

accattA

4

- 03.

elainzdeiseronei - 10.

oosinsao ntema 21.

ourciso ntema - 05.

entatvieo ntema 13.

26.

- 03.

elainzdeiseronei - 13.

ma oosinsao nte 20

01. - 870. 383.

02. - 872. 004.

02. 895. 000.

03. - 521. 130.

02. 533. 000.

03. 507. 000.

01. - 710. 476.

02. - 813. 000.

02 915 000

accattA

accattA

accattA

nonviC

nonviC

nonviC

ma oosinsao nte 20.

ourciso ntema - 05.

entatvieo ntema 11.

eosgiileroniizni - 18.

iluatirpisoniinz 00.

ilonasrpeoniinz - 05.

02. 915. 000.

02. - 311. 189.

02. 053. 002.

01. - 793. 000.

02. 020. 984.

02. - 261. 210.

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41

ricercheValutazione come classificae autovalutazione come ricerca

Evaluation as a rankingand self-evaluation as research

Il contributo mette a confronto due ap-procci opposti alla valutazione della qualitàdi scuole e insegnanti. Viene in primo luogopresentato il progetto ministeriale di accoun-tability educativa che basa sulla misurazionedei risultati degli studenti l’attivazione diprocessi di miglioramento nelle scuole. Co-me viene descritto nel contributo, tale ap-proccio può avere numerose conseguenzeindesiderate.L’altro metodo preso in considerazione èquello incentrato su percorsi di autovaluta-zione degli insegnanti coadiuvati da esperti.Il contributo descrive il percorso di auto-valutazione realizzato da tre scuole primariedella periferia romana. Il percorso ha vistol’utilizzo di strumenti per la valutazione: (I)del rendimento degli studenti, (II) della per-cezione, da parte degli alunni, del clima discuola, del clima di classe e dei rapporti concompagni e insegnanti, (III) della soddisfa-zione da parte dei genitori rispetto allascuola e ai docenti, (IV) della valutazionedell’istituto da parte degli insegnanti, (V)del retroterra socio economico degli stu-denti.Mentre un approccio incentrato su una va-lutazione calata dall’alto può comportare ef-fetti indesiderati sul lavoro di insegnanti ededucatori, la riflessione e la discussione av-viata dagli insegnanti sulla base dei risultatie dei processi di un percorso di autovaluta-zione possono stimolare il miglioramentoeducativo.

Parole chiave: valore aggiunto, valutazio-ne di sistema, valutazione dei risultati, te-sting, autovalutazione, efficacia scolastica,miglioramento.

This paper compares two approaches to schools’and teachers’ quality assessment. The first ap-proach is the accountability program presentedby the Ministry of Education, an outcome-basedtop-down project which aims to improve the ef-fectiveness of teachers and schools by assessingstudents’ achievement. Such a way has manypitfalls and unintended consequences and thispaper aims at stressing them.The second way to schools’ assessment is an ac-tion-research approach, based on self-evaluationprojects carried out by teachers and researchers.The paper describes the self-evaluation projectcarried out by three primary schools in Rome.Five tools have been used in order to assess (I)students’ achievement, (II) students’ perceptionof school and classroom climate and relationshipwith peers and teachers, (III) parents’ satisfac-tion about schools and teachers, (IV) teachers’assessment of schools, (V) students’ backgroundand socio-economic status.While a top-down approach to school effective-ness assessment may entails negative effects onpupils and educators, teachers’ discussion andconsideration of data and process of self-evalua-tion programmes can lead up to improvementactions.

Keywords: value-added, accountability,outcome-based assessment, testing, self-evaluation, school effectiveness, school im-provement.

CRISTIANO CORSINI

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For scientific purposes treat people as if they were human beingsRom Harré, Paul F. Secord (1972, p. 84)

In un breve lasso di tempo la valutazione delle scuole e degli insegnanti è stata oggetto di duerilevanti documenti: il primo, presentato dall’INVALSI, è risalente al dicembre del 2008(Checchi, Ichin, Vittadini, 2008), mentre il secondo, la Proposta di progetto sperimentaledel MIUR(2010) per valutare le scuole e per premiare gli insegnanti meritevoli, è datato novembre 2010.Le due proposte assegnano un ruolo determinante alla misurazione del “Valore Aggiunto”,ossia dell’incidenza dei singoli istituti sul miglioramento degli studenti e sui loro apprendi-menti, rilevati attraverso la somministrazione di prove standardizzate1. L’idea alla base delleproposte è quella di incentivare processi di miglioramento nelle scuole premiando2 quelle cheevidenziano i miglioramenti più significativi nelle prestazioni degli studenti.Ai due documenti va riconosciuto l’indubbio merito di fare chiarezza sull’indirizzo che

darà forma alla valutazione di scuole e insegnanti. La centralità assegnata al Valore Aggiuntoè rivelatrice dell’assunzione dei sistemi statunitensi e britannici di accountability educativa amodello di riferimento. In tali contesti, seppur in forme diverse, la misurazione del ValoreAggiunto riveste un ruolo fondamentale nella valutazione del lavoro svolto da istituti e do-centi: sulla base di esso vengono stilate classifiche di efficacia delle scuole che, in Inghilterra,sono rese pubbliche e facilmente consultabili. La logica di tali sistemi di accountability si basasulla pretesa attivazione, in un sistema di premi e sanzioni3, di meccanismi di miglioramentonelle scuole in seguito alla pressione esercitata dalla concorrenza degli altri istituti.Considerata la scelta effettuata da INVALSI e MIUR rispetto al modello da seguire, sem-

bra appropriato soffermarsi sul complesso tema della validità di un sistema di accountabilityeducativa incentrato sul testing. Sebbene nei paesi dai quali si è scelto di importare il modellola questione sia da tempo oggetto di discussione, da noi è sopraggiunta solo una flebile ecodi tale dibattito (Corsini, 2008a). In primo luogo, emerge un problema legato alla validitàdi contenuto delle prove, che fanno riferimento esclusivo a risultati scolastici di tipo cognitivoe tendono a concentrarsi su un numero ristretto di conoscenze (rilevate, nel caso delle pro-poste presentate da MIUR e INVALSI, per mezzo di prove oggettive). Limitandoci alle pro-blematiche più note, documentate dalla cronaca oltre che dalla letteratura di ricerca, vasottolineato come l’impiego di misure tanto parziali e riduttive, a fronte di un’elevata postain gioco, comporti lo schiacciamento della didattica sulle sole conoscenze oggetto di misu-razione e l’addestramento degli studenti rispetto alla forma delle prove da affrontare (teachingto the test). È stato rilevato (Corsini, 2008b, pp. 605-615) inoltre che la definizione dell’effi-cacia degli educatori sulla base dei miglioramenti nei risultati degli allievi pone problemi divalidità del costrutto. Addossare agli insegnanti tutta la responsabilità delle variazioni nel ren-dimento degli studenti (ammesso e non concesso che tale operazione sia legittima4) nonaiuta di per sé a chiarire quali siano le caratteristiche degli insegnanti e delle scuole efficaci.Una conseguenza rilevante è che la scelta di incentrare la valutazione dell’efficacia scolastica

Giornale Italiano della Ricerca Educativa • III • 2 / DICEMBRE • 2010

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1 Entrambe le proposte fanno riferimento alle prove standardizzate somministrate dall’INVALSI.2 La proposta ministeriale prevede la determinazione di una graduatoria di qualità delle scuole, basata su

una misurazione del Valore Aggiunto e una ispezione degli Istituti. Alle scuole che si collocheranno nellafascia più alta della graduatoria verranno assegnati fino a 70000 euro.

3 Bassi punteggi di Valore Aggiunto possono comportare per un istituto e per il suo personale, oltre all’umi-liazione causata dalla pubblicazione di risultati negativi, la riduzione dei finanziamenti e l’amministrazionecontrollata.

4 Si tratta di indagini correlazionali (non sperimentali) e non è dunque corretto trarre inferenze causali.

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sul Valore Aggiunto non consente automaticamente agli educatori di individuare quali ele-menti del proprio lavoro li hanno portati ad aggiungere o a togliere valore alla preparazionedegli studenti. Conoscere la posizione della propria scuola in una graduatoria di efficacianon aiuta, di per sé, uno staff educativo a migliorare le proprie prestazioni, anche in presenzadi un sistema nel quale gli istituti siano messi in concorrenza tra di loro. Secondo Fitz-Gib-bon e Kochan (2000, pp. 257-280), there is no accountability without causality. Indicators aboutaspects which schools feel unable to alter are not fair. I modelli di accountability presi in considerazione si fondano su una visione superficiale e

squilibrata del rapporto tra misurazione e valutazione. In tali contesti la misurazione nonnasce e confluisce (Visalberghi, 1955) nella valutazione ma assume un ruolo egemone, inibendola ricerca di altre rilevanti informazioni, utili a informare il giudizio sul lavoro degli inse-gnanti. Con ciò, viene messa in discussione la capacità di tali modelli di accountability di in-cidere positivamente sul lavoro dei docenti, promuovendo la consapevolezza del ruolo cheessi esercitano nella promozione della crescita (non solo cognitiva) degli studenti e incenti-vando percorsi di autovalutazione scolastica che consentano ai colleghi di un istituto di agirecome un’organizzazione che apprende. Viene così a mancare, con la validità di contenuto e costrutto,quella catalytic validity (Cohen, Manion, Morrison, 2007; Le Grange, Beels, 2005, pp. 115-119)5 che dovrebbe rappresentare la ragion d’essere di un sistema di valutazione di scuole edocenti, ovvero la spinta a un reale miglioramento delle pratiche educative. Non sorpren-dono dunque le resistenze che la proposta avanzata dal MIUR sta incontrando nelle scuole6.Anche prescindendo dal teaching to the test, infatti, le preoccupazioni legate alla centralità as-sunta dalla misurazione di prestazioni nella valutazione delle scuole fanno riferimento a uncomplessivo immiserimento del rapporto di apprendimento-insegnamento, come eviden-ziano, in relazione al contesto britannico, MacBeath e McGlynn (2003, pp. 61-62), una va-lutazione che nasce da un modo di pensare competitivo e orientato alle classifiche conduce a un insiemedi convinzioni e atteggiamenti che potrebbero essere incompatibili con un apprendimento in profonditào con l’imparare ad apprendere.

Sono proprio MacBeath e McGlynn (pp. 23-41), tuttavia, a rilanciare il ruolo che la va-lutazione esterna può svolgere nel miglioramento del lavoro degli insegnanti, a condizioneperò di porsi in maniera complementare rispetto ai percorsi di autovalutazione d’istituto avviatidagli stessi docenti. In rapporto a tali percorsi la valutazione esterna può fornire uno sguardocritico e punti di riferimento che consentano al personale educativo un confronto affidabilecon la qualità del servizio da essi offerto. Ed è stato proprio in base a tali esigenze che, nel2008, le tre scuole primarie Graziosi, Pirandello e Ponte Galeria, appartenenti allo stesso Cir-colo Didattico della periferia ovest di Roma, si sono rivolte al Corso di Laurea in Scienzedell’Educazione e della Formazione della Sapienza, richiedendo un sostegno alla capillareazione di Autovalutazione che gli istituti avevano scelto di avviare. Per studenti, docenti ericercatori del Corso di Laurea (Bacocco, 2009; Sabella, 2009)7 è stata un’importante occa-sione per avviare processi di ricerca provando sul campo strumenti di rilevazione relativi

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5 Ovvero la capacità di un percorso valutativo di incidere sull’empowerment di chi viene valutato.6 Nelle città nelle quali dovrebbero partire i progetti, la maggior parte dei Consigli d’Istituto ha già espresso

parere negativo, cfr. Salvo Intravaia, Pagelle ai prof, il flop del progetto, la Repubblica, 18 dicembre 2010.7 Il percorso è stato seguito dall’esercitazione di ricerca Autovalutazione nella scuola, a.a. 2008-09, condotta

dai docenti Giorgio Asquini e Cristiano Corsini e dai mentori Barbara Bacocco, Morena Sabella e SilviaSisti. L’esperienza di ricerca ha dato luogo, nel 2009, ai lavori di tesi di Bacocco e di Sabella.

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alle diverse dimensioni (contesto, relazioni interne ed esterne, processo, prodotto) della vitascolastica. Nella figura 1 vengono elencate le fasi del percorso di Autovalutazione, che si èaperto (febbraio 2008) con la scelta di procedere con la somministrazione un questionarioalle famiglie degli studenti (maggio 2008) e si è chiuso con la restituzione al collegio docentidei risultati del SASI-S e delle prove di comprensione della lettura (giugno 2009). Tutti glistrumenti utilizzati sono stati proposti dall’Università e negoziati con i componenti del nu-cleo di Autovalutazione delle tre scuole. La figura 2 fornisce una sintesi degli strumenti usa-ti.

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Febbraio-

marzo 2008

Incontro tra la dirigenza, il nucleo di Autovalutazione e l’Università: accordi sulle aree da

sottoporre a valutazione, presentazione del percorso al Collegio docenti

Aprile 2008

Proposta del questionario La percezione

dei genitori, negoziazione e aggiunta di

item maggiormente attinenti al contesto

Strumento tratto da R. Bolletta, P. Maruca, G.

Musumeci, I genitori e la scuola17

.

Maggio

2008

Somministrazione del questionario La

percezione dei genitori

Strumento consegnato alle famiglie di 470 studenti,

pari al 50% della popolazione (è stata scelta una

classe su due). Sono stati restituiti 459 questionari

compilati.

Giugno

2008 Restituzione dei risultati del questionario genitori al Collegio docenti

Settembre-

Ottobre

2008

Proposta del questionario studenti Io la

penso così

Strumento tratto da R. Bolletta, L. Ruggeri, “Io la

penso così…”: La percezione degli alunni18

.

Novembre

2008

Somministrazione del questionario Io la

penso così

Strumento somministrato ai 321 studenti delle 18

classi quarte e quinte delle tre scuole.

Gennaio

2009 Restituzione dei risultati del questionario alunni al Nucleo di Autovalutazione

Febbraio

2009

Proposta del questionario insegnanti

SASI-S al Collegio docenti

Strumento tratto da M. Ferrari, D. Pitturelli, SASI-

S, Strumento di Autovalutazione della Scuola

(all’Infanzia alla Secondaria), Franco Angeli,

Roma, 2008.

Marzo 2009

Presentazione delle modalità di

compilazione e consegna al Collegio

docenti dei fascicoli del SASI-S

Strumento consegnato ai 101 docenti delle tre

scuole. Sono stati restituiti 97 questionari

compilati.

Maggio

2009 Restituzione dei risultati del SASI-S al Nucleo di Autovalutazione

Maggio

2009

Scelta, da parte del Nucleo di

Autovalutazione, della Comprensione

della lettura come competenza degli

alunni (di classe quinta) da sottoporre a

valutazione. Proposta e presentazione

delle prove

4 prove:

Alla ricerca di cibo, basata su un testo informativo

e tratta dalla ricerca internazionale IEA ICONA-

PIRLS;

Re Leone e Madama Volpe (testo stimolo:

narrativo) e La tastiera QWERTY (Testo stimolo:

informativo), costruite nel corso dell’esercitazione

di ricerca Misurare l’efficacia scolastica;

Il mio amico Anselm (testo stimolo: narrativo),

costruita nel corso dell’esercitazione di ricerca

Autovalutazione nella scuola sulla base di un testo

fornito dal Nucleo di Autovalutazione

Maggio

2009

Somministrazione delle prove di

comprensione della lettura

Strumento somministrato ai 165 studenti delle 9

classi quinte delle tre scuole.

Giugno

2009

Restituzione al Collegio docenti dei risultati del SASI-S e delle prove di Comprensione della

lettura. Interviste con i docenti sul percorso di Autovalutazione

1

Figura 1. Fasi e soggetti coinvolti nel percorso di Autovalutazione

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Figura 2. Aree oggetto di valutazione e strumenti utilizzati

La restituzione dei risultati ai docenti è avvenuta sulla base delle seguenti esigenze:1) esplicitare la distanza esistente tra le rilevazioni e i precisi livelli considerati ottimali dai costruttori

degli strumenti (e condivisi dal Nucleo di Autovalutazione); 2) consentire un confronto tra le diverse dinamiche presenti all’interno delle tre scuole e delle singole

classi;3) mettere in relazione, via via che venivano somministrati i diversi strumenti, i risultati ottenuti at-

traverso di essi.I dati sono stati aggregati sia a livello di istituto sia a livello di classe. Tuttavia, in occasione

delle restituzioni al collegio docenti, per non inibire il confronto e la riflessione sui risultati,a ciascuna classe è stato assegnato un codice in modo da consentire il riconoscimento solosu richiesta riservata del singolo docente. I percorsi di riflessione avviati dai docenti si sonoquindi concentrati sulle aree di maggiore criticità e, in particolare, su quelle in cui le diffe-renze tra le scuole e tra le classi sono risultate significative. Osservando la figura 3, che riportail diverso peso esercitato da scuole e classi sulle variabili oggetto di rilevazione (l’ampiezzadegli effetti è indicata dalle quote di varianza spiegata dai due livelli di aggregazione deidati), è possibile notare come i fattori operanti a livello di classe risultino maggiormente

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2

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determinanti. Non a caso la correlazione riscontrata tra il rendimento degli studenti alleprove di Comprensione della lettura e il Clima di lavoro in classe8 ha suscitato un prolungatodibattito tra gli insegnanti e ha spinto alcuni di essi a un confronto con i propri studenti(sui rapporti tra gli alunni e tra questi e gli insegnanti) che si è aperto proprio con una ri-flessione guidata dalle domande poste dal questionario.

Figura 3. Le differenze significative tra Scuole e tra Classi. Dati aggregati a livello di Scuola e di Classe, varianza spiegata (%) dal livello di aggregazione dei dati e significatività statistica

Anche se il supporto fornito dal Corso di laurea si è temporaneamente arrestato nel giu-gno 2009, le attività di autovalutazione avviate dai docenti non si sono interrotte. Le provesomministrate dal Servizio Nazionale di Valutazione nel corso dell’ultimo anno scolasticohanno rappresentato per i docenti (ai quali si sono aggiunti i colleghi della scuola secondariainferiore che rappresenta il maggiore bacino di destinazione degli alunni delle tre scuoleprimarie) un’occasione per riavviare un programma di ricerca e miglioramento. In questocaso lo scopo sarà quello di individuare le scelte didattiche e organizzative alle quali sia pos-sibile imputare i risultati degli studenti e valutare, nel contempo, quanto gli strumenti utilizzatidall’INVALSI consentano agli alunni di dimostrare quel che hanno appreso a scuola.

Riferimenti bibliografici

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8 Il coefficiente di correlazione di Pearson è pari a 0,447, sig. 0.01.

1

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Cohen L., Manion L., Morrison K. (2007). Research methods in education. London: Routledge.Corsini C. (2008a). Il valore aggiunto in educazione. Roma: Nuova Cultura.Corsini C. (2008b). L’mpiego del valore aggiunto nella valutazione dell’efficacia scolastica. Problemie prospettive. In G. Domenici, R. Semeraro (a cura di). Le nuove sfide della ricerca didattica tra saperi,comunità sociali e culture (pp. 605-615). Roma: Monolite.

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ricercheCostruire corresponsabilità formativa e valutativa nella scuola.Una ricerca sull’idea (non) condivisa di “buon comportamento scolastico”

Building a participated responsibility for education and evaluation in schoolsA research on a (not) shared idea of “positive school behaviour”

Come in altre nazioni europee, la recentenormativa scolastica italiana ha focalizzatol’attenzione del mondo della scuola sul-l’importanza del comportamento scola-stico degli studenti, richiedendone unavalutazione puntuale ed estesa. In tal sen-so le scuole si sono mosse alla ricerca distrumenti valutativi adeguati. Nell’ambitodi un processo preparatorio alla costru-zione di una rubrica di valutazione delcomportamento, attivato in una scuolasuperiore, ha preso le mosse una ricercavolta ad esplorare i significati attribuiti dadocenti e studenti all’idea di “buon com-portamento scolastico” e se questi fosserocondivisi. Con un disegno di ricerca misto le ricer-catrici hanno individuato le dimensionidel costrutto “buon comportamento sco-lastico” in docenti e studenti. I risultatirendono evidente la necessità che le scuo-le attivino processi di condivisione del-l’idea. Alcune implicazioni educativevengono discusse.

Parole-chiave: comportamento scola-stico, valutazione, assessment, rubrica,corresponsabilità, metodo misto.

As in other European countries, recent Italianschool legislation has turned the attention ofthe education community to the importance ofstudent behavior in school, and asks for a pre-cise and detailed evaluation of this behavior. In this light, schools have begun to look forappropriate evaluative tools.During the preliminary phases of the creationof a behaviour evaluation rubric in a highschool, research was carried out with the aimof exploring and identifying the meaningsgiven by teachers and students to the idea of“positive school behaviour”, and whetherthese concepts are shared.Using a mixed method design, researchershave individuated some dimensions of theconstruct of “positive school behaviour” inteachers and students.Results show the need for schools to nowshare these ideas. Some educational implica-tions are discussed.

Keywords: school behavior, evaluation,assessment, rubric, shared responsibility,mixed method.

ROSSELLA GIOLO - VALENTINA GRION

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1. La valutazione della condotta in Italia nel contesto delle politiche scolastiche europee

Già da qualche anno alcune grandi nazioni europee, nell’ambito delle loro politiche scola-stiche, hanno posto particolare attenzione al “comportamento scolastico” collocando la“buona condotta”, fra i prerequisiti imprescindibili per la realizzazione di contesti scolasticiefficaci e garanti del benessere degli studenti, e le azioni volte a perseguirne i miglioramenti«responsabilità condivise fra governo, scuole, autorità locali, genitori e studenti stessi» (Steer,2009, p. 5).

In Francia il buon comportamento scolastico è stato definito come una delle competenzefondamentali per perseguire la formazione degli studenti, contribuire a costruire il loro av-venire personale e professionale e la loro piena riuscita nella vita e nella società1. La parti-colare attenzione posta dalla scuola francese all’assunzione di responsabilità (individuale ecollettiva) degli allievi in riferimento al proprio comportamento scolastico è rispecchia-mento dell’idea che autonomia, responsabilità, apertura agli altri, rispetto di sé e degli altri e spiritocritico facciano parte di quelle competenze considerate le socle commun di tutto il sistema for-mativo, ossia quei “saperi irrinunciabili” nel contesto di un’educazione lifelonglearning.

Nelle due grandi realtà europee di Francia e Regno Unito le indicazioni governativeintorno all’idea di comportamento scolastico risultano di ampio respiro, proponendo unaserie di programmi2 tesi a incentivare la riflessione e la formazione di docenti e dirigentiintorno al tema in oggetto, incentivando le partnership fra scuole e con le famiglie e le attivitàscolastiche finalizzate a promuovere condivisione e consapevolezze rispetto al “buon com-portamento scolastico”. Inoltre riflettono l’idea che il buon comportamento non sia qualcosadi innato, ma «essenzialmente un apprendimento e perciò la sua gestione un problema edu-cativo, piuttosto che morale» (Weare, Gray, 2003, p. 23), ossia il risultato di una progressivadiffusione, nella scuola, di una cultura della responsabilità comune, della valorizzazione e delrispetto reciproci fra attori della comunità scolastica (Steer, 2009).

Forse in ritardo rispetto ad altri paesi europei, anche nell’ambito dei processi di riformadel sistema scolastico italiano si è recentemente posta una certa attenzione al tema del com-portamento scolastico, con l’emanazione di una serie di norme finalizzate alla valutazionedella condotta degli alunni.

Al percorso normativo, seppure caratterizzato da aspetti non sempre condivisibili, perchédiretti maggiormente a controllare il comportamento degli allievi “attraverso sanzioni” piut-tosto che a indirizzarne la formazione (Grion, Giolo, 2010), vanno comunque riconosciutialcuni meriti.

Innanzitutto quello di avere focalizzato l’attenzione sul “comportamento”, assumendoin questo modo quest’ultimo come dimensione reciprocamente legata al rendimento sco-lastico e dunque influente sulle performances cognitive.

Afferma ad esempio Salerni (2005) che «Mantenere la disciplina, riuscire a tenere l’ordine inclasse, far rispettare le principali regole di comportamento in gruppo […è] una delle principali

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1 Così viene definito da EduScol, organismo accreditato come portavoce e interprete del francese Ministèred’Education Nationale.

2 Per quanto riguarda il consistente programma inglese rivolto a gestione, formazione, valutazione del com-portamento a scuola si veda la documentazione presente in http://nationalstrategies.standards.dcsf.gov. -uk/primary/behaviourattendanceandseal/behaviour. Per la realtà francese si veda l’Action éducativeproposta dal Ministère Éducation Nationale “Apprentissage de la responsabilité” la cui documentazione èpresente in http://eduscol.education.fr/cid47749/apprendre-vivre-ensemble.html.

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preoccupazioni degli insegnanti, una precondizione per poter lavorare, e, dunque, un obiettivoil cui raggiungimento contribuisce, peraltro, in modo rilevante al successo dell’attività didatticae formativa» (p. 13).

Analizzando in un loro ampio studio le relazioni fra comportamenti e apprendimentiscolastici, Petrides e colleghi (Petrides, Chamorro-Premuzic, Frederickson, Furnham, 2005)concludono che fra i maggiori foci dei governi impegnati nelle riforme scolastiche ci devonoessere senza dubbio il curricolo e gli apprendimenti, ma è altrettanto importante che ven-gano messe in primo piano le strategie per migliorare i comportamenti, l’autostima e le re-lazioni sociali e personali. In tal senso lo studio e lo sviluppo di strategie finalizzate adincentivare negli studenti processi di cambiamento degli stili di comportamento a scuola ela progettazione di ambienti formativi incentivanti l’assunzione di forme alternative di com-portamento e di responsabilità sono citati dagli stessi autori come aree di ricerca particolar-mente bisognose di studio e approfondimento in relazione ad una migliore qualità deiprocessi formativi.

Una secondo rilievo positivo in relazione al contesto italiano va fatto relativamente al“Regolamento sulla valutazione degli studenti” norma cui le scuole fanno oggi riferimentoper la valutazione del comportamento degli alunni. Sono rilevabili, in tale disposizione, alcunipassi degni di attenzione e ascrivibili ad una logica della responsabilizzazione e corresponsa-bilità degli studenti (vicina all’apprezzabile ottica francese), piuttosto che a quella del controllosanzionatorio. L’accenno che vi si fa all’autovalutazione come momento fondamentale delprocesso valutativo, la necessità che quest’ultimo sia diretto a supportare consapevolezza e re-sponsabilità, da parte degli allievi rispetto al proprio agire sociale, permettono di ritrovare inquesto documento alcuni elementi tipici dell’ottica costruzionista del new assessment, pro-spettiva per la quale gli studenti sono coinvolti come «attori a pieno titolo della comunità diapprendimento, riconoscendo loro una piena e completa partecipazione a tutte le praticheivi svolte, comprese quelle valutative, continue e pervasive» (Varisco, 2004, p. 259).

2. Comportamento scolastico e formazione

Come dimostrano anche le politiche scolastiche europee, da qualche tempo la considera-zione verso le variabili sociali dell’educazione, oltre che verso quelle riferite alle abilità co-gnitive, si è imposta all’attenzione di chi, a vario titolo si occupa di educazione scolastica.

Innanzitutto perché, come la ricerca psico-pedagogica sul disagio scolastico ha sottoli-neato, ci si è resi conto che comportamenti scolastici problematici rappresentano fattoricoinvolti nel realizzarsi delle peggiori prestazioni (Petrides et al. 2005). Come rilevano ancheFranta e Colasanti (1993, p. 295), gli studi su fenomeni quali l’abbandono, il disadattamento,la demotivazione hanno posto in evidenza l’importanza di porre particolare attenzione alleesperienze che gli allievi fanno nel gestire le relazioni sociali e nell’affrontare le attività di-dattiche e hanno sottolineato «come l’adeguamento alle richieste poste dall’istituzione sco-lastica sia funzione non solo di variabili cognitive, ma anche affettivo-comportamentali».

Un secondo motivo che ha alimentato tale considerazione, deriva da quegli orientamentipedagogici che ritengono l’apprendimento un fenomeno prodotto dalla partecipazioneattiva dei soggetti alla costruzione delle conoscenze all’interno dei diversi contesti, ponendol’accento sull’importanza dei processi relazionali e delle variabili contestuali che li caratte-rizzano. Nell’ambito di tali prospettive si è rilevata l’urgenza, da parte della scuola, di nonlimitarsi a trasmettere contenuti, destinati fra l’altro a mutare velocemente con il modificarsidel progresso scientifico, ma di impegnarsi allo scopo di formare persone in grado di af-frontare autonomamente e con competenza i compiti che quotidianamente si presentano

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loro. È proprio in quest’ottica che Lucisano riflette: «È inutile memorizzare formule mate-matiche o date assunte in modo apodittico senza una comprensione profonda di ciò a cuisi riferiscono. Così come è inutile imporre regole di comportamento formali alle quali noncorrisponde una reale interiorizzazione e che vengono assunte e rispettate solo per timoredi punizioni […]. La difficoltà della scuola a promuovere la disciplina del sapersi comportarederiva, nella maggior parte dei casi, dall’assenza della disciplina come processo di apprendi-mento». (2005, p. 10-11). Nella stessa prospettiva Salerni (2005) ragiona sul fatto che ottenerela disciplina in classe significa intendere la disciplina come l’effetto di un determinato in-tervento educativo e non come un mezzo. Intervento che deve mirare a far sentire gli stu-denti come parte di un gruppo, in modo che possano più facilmente e spontaneamenteacquisire comportamenti disciplinari collettivamente accettabili e condivisibili. La disciplina,o se vogliamo “il buon comportamento” deve essere intesa non come il pedissequo rispettoe osservanza di determinate norme, ma come condivisione di regole di comportamento co-mune.

Sottolineando l’importanza del “comportamento” come oggetto di apprendimento, nederiva la necessità di indagini rivolte ad esplorare tale costrutto con lo scopo di farne emergerele componenti e conoscerne le dimensioni costitutive, per definire i criteri e le modalità checonsentono di formulare giudizi valutativi accurati, soprattutto in ottica di valutazione for-mativa, rispetto a tali dimensioni.

Va rilevato comunque che, secondo alcuni autori, il mondo della ricerca, e in particolarequello della psicologia dell’educazione, non sembra avere posto una grande attenzione altema della valutazione del comportamento da una prospettiva specificamente “scolastica”(Shapiro, Kratochwill, 2000). Generalmente inoltre l’idea di comportamento è stata indagataall’interno di contesti caratterizzati da problematicità e/o disagio. Al contrario si ritieneche l’esplorazione del significato del “comportamento scolastico” risulti centrale in relazioneai “normali” processi di formazione e valutazione nella scuola.

In controtendenza rispetto a questa situazione risulta invece lo studio di Franta e Colasanti(1993; 1995), orientato a definire le dimensioni del comportamento degli studenti in ambitoscolastico. Gli autori definiscono il comportamento scolastico, o meglio, la personalità scola-stica3, come costituita da due macro-aree: il comportamento sociale e quello di lavoro, nelconcreto non sempre nettamente separabili. All’interno della prima macroarea si situerebberoquelle dimensioni che caratterizzano le relazioni sociali degli studenti fra di loro e con gli in-segnanti. Le dimensioni appartenenti alla seconda macro-area riguarderebbero invece le com-ponenti coinvolte nelle situazioni di compito. Le polarità positive (che per gli autorirappresentano le mete da raggiungere da parte dello studente, ossia gli obiettivi formativi dellascuola) delle dimensioni appartenenti alla prima area farebbero riferimento alle buone capacitàdi percezione e di controllo delle situazioni e di integrazione nel gruppo. Per quanto riguardail comportamento di lavoro, ossia di approccio al compito, un “buon comportamento” sarebbecaratterizzato da una capacità di impegno autonomo, di attenzione agli aspetti più significatividell’attività, da una buona organizzazione di tempi e strumenti, da tranquillità e responsabilitàdi azione, da dinamicità nel lavoro, adattabilità ai diversi compiti e senso critico nelle propriecapacità.

A differenza che nella ricerca degli autori citati, la nostra, qui presentata, non ha fatto ri-ferimento ad un costrutto definito a priori sulla base della letteratura. Assumendo un “ap-

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3 La personalità scolastica è definite dagli autori come “una totalità relazionale soggettiva che è l’esito dell’in-terdipendenza di componenti personali e situazionali, che costituisce una fondamentale risorsa personaledell’allievo nel suo interagire scolastico” (1993, p. 247).

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proccio naturalistico” (Lincoln, Guba, 1985), nostro interesse è stato quello di far emergereun “senso” del costrutto indagato, che fosse rappresentativo dei termini di significato che ipartecipanti alla comunità scolastica hanno di esso.

3. La rubrica come strumento di corresponsabilità formativa/valutativa

In un documento dell’Ente governativo inglese per l’educazione si rileva che fra i primipassi da attuare a scuola quando si voglia lavorare per il benessere dei suoi membri è quellodi perseguire un consenso condiviso intorno alla terminologia di riferimento, esplorando lecredenze ingenue e le possibili misconceptions dei partecipanti, elementi che possono impedirela comune comprensione, alterando l’efficacia dei processi attivati (Department for educationand skills, 2005).

A tale scopo i diversi momenti del processo valutativo, se assunto e realizzato in otticanew assessment, possono rappresentare contesti favorevoli alla definizione e condivisione deisignificati della formazione.

Nel caso specifico della ricerca di seguito presentata, il processo di costruzione di unarubrica di valutazione del comportamento scolastico si è rivelato terreno fertile in relazionealla esplicitazione e condivisione dei significati del costrutto “buon comportamento scola-stico”.

La rubrica, di solito definita nelle nostre scuole come “griglia valutativa”, si proponecome strumento per chiarire ed esplicitare, in termini precisi e non ambigui, obiettivi, stan-dard di apprendimento e criteri per la loro valutazione.

Definita come strumento di punteggio (Goodrich, 1997) o come uno strumento per valutareun prodotto oppure una prestazione (McTighe, Wiggins,1999), la rubrica può aiutare i docentinel loro compito valutativo delle performances dello studente. Suo scopo primario è quellodi poter rendere il più possibile “oggettiva” la valutazione descrivendo dettagliatamente laprestazione che uno studente deve compiere e fornendo una scala di misurazione della stessa.Questo aspetto evidenzia subito la potenzialità della rubrica: essa riduce la soggettività nellavalutazione di una abilità. Il grado di concordanza dei punteggi assegnati da due valutatoriindipendenti, infatti, costituisce la misura dell’attendibilità dei criteri della valutazione stessa.

Nella costruzione della rubrica è necessario operazionalizzare la prestazione da valutare,ossia descrivere dettagliatamente la forma, la topografia, i confini della prestazione da osser-vare, attraverso l’uso di indicatori e descrittori (Varisco, 2004). Gli indicatori permettono di in-dividuare cosa si deve osservare di una prestazione mentre i descrittori ne offrono esempi,segnali o manifestazioni concrete che ne rendono più facile l’osservazione e l’analisi.

È indispensabile, inoltre, definire i diversi livelli della prestazione chiarendo e rendendoespliciti i criteri di assegnazione del punteggio relativo a ciascun livello attraverso una ratingscale.

Attraverso indicatori e descrittori, che rendono evidente e trasparente le attese degli in-segnanti relativamente al compito da svolgere e alle abilità da possedere, la rubrica permetteagli alunni di controllare meglio i processi di realizzazione della prestazione richiesta. Inoltrela struttura stessa della rubrica fornisce loro efficaci feedback circa i propri punti di forza ele aree in cui hanno bisogno di migliorare.

Infine, anche i genitori possono apprezzare l’uso della rubrica, poiché attraverso tale stru-mento riescono a conoscere esattamente cosa i propri figli debbano fare per raggiungere ilsuccesso scolastico. La rubrica diventa in tal modo, un potente strumento di comunicazionetra scuola e famiglia, poiché esplicita in un modo concreto e osservabile le condizioni che

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nella scuola hanno maggior valore, chiarisce la vision di fondo e la vision di eccellenza all’in-terno della stessa e permette di comunicarle agli studenti e ai genitori favorendo il loro coin-volgimento nel processo educativo e valutativo.

In ottica new assessment, la rubrica può essere utilizzata per coinvolgere attivamente l’alun-no nel proprio percorso formativo proprio in quanto può favorire l’attivazione e l’incre-mento di competenze non solo cognitive, ma anche e soprattutto meta-cognitive eauto-valutative, conducendolo a comprendere e condividere le procedure di valutazione ea gestire in modo sempre più competente i processi d’apprendimento (Comoglio, 2003;Glickman-Bond, Rose, 2006).

In effetti «gli eventi di assessment possono non solo semplicemente produrre evidenze diapprendimento, ma costituire, essi stessi, significative occasioni d’apprendimento» (Sadler,2010, p. 1).

4. Costruzione della rubrica di valutazione come percorso di ricerca

È proprio allo scopo di definire e condividere l’idea di “buon comportamento scolastico”fra studenti e docenti di un Istituto scolastico superiore veneto, in relazione alla valutazioneperiodica e finale della condotta, introdotta dalla recente normativa sulla valutazione delcomportamento, che ha preso le mosse una ricerca intorno al costrutto “buon comporta-mento scolastico”.

L’esigenza manifestata inizialmente, da parte di un gruppo di docenti dell’Istituto, allericercatrici che sono intervenute a sostegno del percorso avviato, era quella di giungere aprodurre uno strumento di valutazione del comportamento scolastico, competenza dallanatura complessa (Shapiro, Kratochwill, 2000) e perciò difficilmente valutabile.

È sembrato opportuno attivare un processo di costruzione di uno strumento con utilizzodi rating scale, permettendo, tale sistema di misurazione, facile gestione da parte di personalenon specificamente preparato, e il raggiungimento di dati affidabili e validi, attraverso pra-tiche attivabili in “contesto naturale” (Merrel, 2000).

Condizione fondamentale per l’efficacia della rubrica, in riferimento a quanto prece-dentemente discusso, è che prestazione, indicatori e descrittori facciano riferimento a significaticondivisi; la prestazione e la sua descrizione perciò si basino su una terminologia comune-mente intesa da tutti i partecipanti alla comunità scolastica (Glickman-Bond, Rose, 2006).

Alla luce di tali considerazioni sono emerse alcune domande di ricerca nel contesto delcitato processo di costruzione della rubrica di valutazione del comportamento.

Le ricercatrici cioè si sono chieste: • quale fosse l’idea di “buon comportamento scolastico” di docenti e studenti, ossia qualidimensioni la caratterizzassero;

• se effettivamente l’idea di “buon comportamento scolastico” fosse condivisa da docentie studenti, ossia se facesse riferimento a comuni dimensioni da considerare in fase di valu-tazione.

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5. La ricerca

Partecipanti

La ricerca si è svolta presso l‘Istituto Superiore di Montebelluna (TV), un Liceo a tre indi-rizzi: Linguistico, delle Scienze Sociali e delle Scienze Umane.

La popolazione scolastica è costituita da 898 studenti, prevalentemente di sesso femminile,suddivisi in 41 classi, dalla I alla V Superiore, e da 101 docenti. Tutte le classi e tutti i docentisono stati coinvolti nella ricerca.

6. Metodo

Strumenti

Il disegno della ricerca ha fatto riferimento al Mixed methods design di Tashakkori e Teddlie(2003), all’interno del quale sono previsti l’utilizzo e l’integrazione di procedure e strumentidi ricerca qualitativi e quantitativi.

Gli strumenti d’indagine utilizzati sono stati:a) una domanda aperta scritta posta individualmente a ciascun partecipante: «delinea sche-

maticamente le caratteristiche di uno studente dal “buon comportamento scolastico”»; b) una scala Likert di “senso del buon comportamento scolastico” con 17 affermazioni, cia-

scuna delle quali valutate su scala di intervalli a 4 valori, per indagare gli atteggiamentidei partecipanti rispetto a tale idea4 (cfr. all. 1). Tali item-affermazioni sono stati indivi-duati, sulla base della loro validità di contenuto, da un gruppo di esperti (15 insegnantidi diverse discipline dell’Istituto, e da 2 ricercatrici) che ha analizzato rubriche di valu-tazione del comportamento, di scuole nazionali e internazionali. Tali materiali sono statiil risultato di una approfondita ricerca di documentazione messa a disposizione dagli Isti-tuti scolastici attraverso la rete Internet. La somministrazione dei due strumenti d’indagine a docenti e studenti è avvenuta in

due fasi distinte, nell’ambito delle normali attività di lezione di ciascuna classe, durante unmomento a ciò specificamente dedicato. In un primo momento è stato distribuito lo stru-mento d’indagine a domanda aperta e solo dopo il completamento della stesura del testoda parte dei partecipanti e la riconsegna del protocollo compilato ai somministratori, è statosomministrata la scala di “senso del buon comportamento scolastico. Tale successione si èresa necessaria onde evitare che le idee espresse negli item predefiniti potessero influenzarele idee ingenue dei partecipanti sul “buon comportamento scolastico.

Sono stati raccolti 825 protocolli degli studenti e 31 dei docenti, per ciascuno dei duestrumenti distribuiti. I numeri riflettono quelli della popolazione scolastica presente nelleclassi al momento della somministrazione dei dispositivi di indagine. Vanno rilevati in talsenso i limiti di un campionamento non randomizzabile, visto il contesto “già dato” dellascuola. La ricerca, quindi, cerca di fornire risultati significativi dal punto di vista teorico-concettuale piuttosto che statistico.

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4 Le affermazioni maggiormente condivise avrebbero costituito i possibili descrittori della rubrica di valu-tazione della condotta in co-costruzione nella scuola.

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Procedure

Sulla totalità dei dati raccolti attraverso il questionario a risposta chiusa le ricercatrici hannooperato analisi di tipo statistico.

Su un numero ridotto5 di risposte alla domanda aperta hanno effettuato un’analisi qua-litativa del contenuto. Per definire il numero di risposte da analizzare qualitativamente hannoseguito 2 criteri: a) il numero totale di risposte ottenute dai docenti (circa 1/3 del totale dei docenti della

scuola);b) la proporzione fra il numero dei docenti e quello degli studenti presenti nella scuola.

Dall’incrocio dei dati ottenuti attraverso la duplice analisi, quantitativa e qualitativa, sisono potuti delineare uno o più modelli teorici del costrutto “buon comportamento sco-lastico” emergente/i nel contesto analizzato; modelli costituiti dall’interazione/integrazionedi categorie di analisi individuate a priori nella rubrica costruita da docenti e ricercatori erilevate come statisticamente significative, con i significati esplicitati dai soggetti, individuatiattraverso l’analisi qualitativa sulle risposte alla domanda aperta.

7. Risultati

L’analisi quantitativa

I dati ottenuti dalla somministrazione della scala Likert sono stai trattati utilizzando il pac-chetto statistico SPSS (Statistical Package for the Social Sciences).

Analisi statistiche di tipo descrittivo hanno evidenziato alcuni primi risultati degni d’in-teresse in relazione alle domande di ricerca (cfr. Tabb. 1 e 2). Innanzitutto si è rilevata unamaggiore omogeneità da parte degli studenti rispetto ai docenti, nelle scelte di attribuzione diimportanza di ciascun item. Si è inoltre individuato un differente ordine di priorità assegnatoagli item da parte del gruppo degli studenti rispetto a quello dei docenti.

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5 In relazione ad un’analisi di tipo qualitativo si è ritenuto di non esaminare la totalità delle risposte ottenute,ma di utilizzare dei criteri attraverso i quali ridurre il numero di risposte degli studenti. Partendo dal datoper cui i questionari dei docenti a disposizione erano circa un terzo rispetto al numero totale dei docenti,con un’equazione si è proceduto ad ottenere la stessa proporzione di questionari degli studenti rispettoalla totalità degli studenti frequentanti la scuola. Si è quindi ricavato il numero di questionari-studenti daanalizzare per ciascuna classe coinvolta. Per ogni classe si è quindi proceduto ad una selezione randomizzatadei questionari in base al numero individuato.

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Studenti

Item Media Std dev.rispetta gli altri e le loro opinioni 3,61 ,643si rivolge educatamente a docenti e non docenti 3,60 ,632rispetta i materiali altrui 3,49 ,703frequenta regolarmente le lezioni 3,46 ,703utilizza correttamente ambienti e attrezzature scolastiche ed extrascolastiche 3,40 ,685rispetta l’orario di lezioni e attività extrascolastiche 3,35 ,748si impegna per migliorare il proprio apprendimento 3,34 ,722collabora con i compagni 3,29 ,742segue le indicazioni e le consegne 3,28 ,700giustifica tempestivamente assenze e ritardi 3,26 ,904usa un linguaggio corretto nelle interazioni 3,25 ,735mantiene l’ordine negli spazi che frequenta 3,21 ,762porta il materiale necessario 3,14 ,796svolge con diligenza il lavoro assegnato 3,11 ,739partecipa attivamente alle lezioni 3,08 ,756segue le lezioni con attenzione 3,06 ,750partecipa responsabilmente alle attività scolastiche ed extrascolastiche 3,00 ,827

Tab. 1: Statistiche descrittive: media e deviazione standard delle risposte date ai 17 item degli studenti

Docenti

Item Media Std dev.utilizza correttamente ambienti e attrezzature scolastiche ed extrascolastiche 4,00 ,000rispetta gli altri e le loro opinioni 3,97 ,180frequenta regolarmente le lezioni 3,94 ,250si rivolge educatamente a docenti e non docenti 3,94 ,250segue le lezioni con attenzione 3,90 ,539rispetta i materiali altrui 3,87 ,341svolge con diligenza il lavoro assegnato 3,87 ,562si impegna per migliorare il proprio apprendimento 3,86 ,441rispetta l’orario di lezioni e attività extrascolastiche 3,81 ,477mantiene l’ordine negli spazi che frequenta 3,80 ,407usa un linguaggio corretto nelle interazioni 3,76 ,435porta il materiale necessario 3,71 ,461partecipa responsabilmente alle attività scolastiche ed extrascolastiche 3,69 ,471partecipa attivamente alle lezioni 3,68 ,475segue le indicazioni e le consegne 3,64 ,488giustifica tempestivamente assenze e ritardi 3,59 ,694collabora con i compagni 3,57 ,568

Tab. 2: Statistiche descrittive: media e deviazione standard delle risposte date ai 17 item dei docenti

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In un secondo momento, si è reso necessario valutare l’effettiva capacità della scala diconseguire l’obiettivo per cui è stata costruita: rilevare gli atteggiamenti condivisi che co-stituiscono l’idea di “buon comportamento scolastico”.

Il presupposto della scelta degli item che costituiscono una scala Likert, infatti, è che essisiano correlati allo stesso concetto latente sottostante, ma non è detto che tale scelta, anchese operata dagli esperti, sia corretta. Bisognava accertare, quindi, attraverso il coefficiente dicorrelazione tra il punteggio complessivo di tutta la scala e quello di ogni singolo elementoche la costituiva, se ciascun item-affermazione si muovesse nella stessa direzione del pun-teggio globale. L’indice alfa di Crombach rende possibile valutare tale coerenza internacomplessiva della scala utilizzata, eliminando quegli item insoddisfacenti perché caratterizzatida un indice di correlazione troppo basso. L’elevato alfa (.906), ricavato dai dati raccolti conla scala costruita, ha rilevato una elevata correlazione media tra gli elementi che la com-pongono., accertando la capacità di questi ultimi di essere buoni indicatori della stessa pro-prietà “buon comportamento scolastico”.

Tuttavia, tale risultato non è sufficiente a garantire l’unidimensionalità della scala, in quan-to gli elementi che la costituiscono potrebbero sottendere anche due o più proprietà. Unmodo efficace per controllare l’unidimensionalità di una scala è costituito dall’analisi fatto-riale (Corbetta, 2003).

Com’è noto, scopo dell’analisi fattoriale è ridurre una serie di variabili fra loro correlatead un numero inferiore di variabili ipotetiche (o fattori) fra loro indipendenti. Tale opera-zione consente di verificare se la scala relativa al costrutto “buon comportamento scolastico”è unidimensionale o pluridimensionale. L’analisi fattoriale condotta sugli elementi della scala(17 item) ha utilizzato il metodo di correlazione con rotazione Varimax, ed ha distribuito lesaturazioni ottenute su 3 fattori: il primo saturato da 7 item-affermazioni, il secondo saturatoda 4 item-affermazioni e il terzo fattore da 6.

Il primo fattore è correlato con item-affermazioni relativi alla partecipazione all’attivitàscolastica, il secondo con item-affermazioni inerenti l’organizzazione scolastica, il terzo è cor-relato con item connessi al rispetto degli altri e dell’ambiente. (cfr. Tab 3).

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Fattore 1: Partecipazione all’attività scolastica

segue le lezioni con attenzione ,812svolge con diligenza il lavoro assegnato ,752partecipa attivamente alle lezioni ,729si impegna per migliorare il proprio apprendimento ,685porta il materiale necessario ,513segue le indicazioni e le consegne ,488collabora con i compagni ,419

Fattore 2: Organizzazione scolastica

giustifica tempestivamente assenze e ritardi ,786rispetta l’orario di lezioni e attività extrascolastiche ,726frequenta regolarmente le lezioni ,701partecipa responsabilmente alle attività scolastiche ed extrascolastiche ,446

Fattore 3: Rispetto degli altri e dell’ambiente

rispetta gli altri e le loro opinioni ,858 rispetta i materiali altrui ,854 usa un linguaggio corretto nelle interazioni ,591 utilizza correttamente ambienti e attrezzature scolastiche ed extrascolastiche ,583 si rivolge educatamente a docenti e non docenti ,462 mantiene l’ordine negli spazi che frequenta ,398

Tab. 3: Analisi fattoriale: Rotated Pattern Matrix

L’individuazione di questi tre fattori ci ha permesso di ricavare un’immagine più appro-fondita dell’idea di comportamento manifestata dai due gruppi presi in esame (docenti estudenti).

Tali fattori, infatti, sono stati analizzati attraverso il test parametrico per campioni indi-pendenti t.di Student Test, evidenziando che il campione degli studenti si comporta diversa-mente rispetto al campione dei docenti in tutte le tre macroaree individuate. In particolaresi vedano i seguenti risultati: 1) “partecipazione all’attività scolastica” p< 0,05 e t=5,093;2) “organizzazione scolastica” p<0,05 e t=2,819;3) “rispetto degli altri e dell’ambiente” p<0,05 e t=6,629.

Tuttavia, una lettura più attenta dei valori assunti dalle medie di queste tre variabili per-mette di rilevare (cfr. Tab. 4) che, pur permanendo una differenza significativa tra le mediedei docenti e degli studenti, il fattore Organizzazione scolastica presenta una minore diver-genza tra i due gruppi. La maggiore differenza si riscontra invece per il fattore Partecipazioneall’attività scolastica, rivelando una più accentuata divergenza tra i due gruppi.

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Docente/Sudente N Mean Mean Difference

Partecipazione all’attività scolastica Studente 825 21,83 3,682Docente 31 25,52

Organizzazione scolastica Studente 825 13,0267 1,29591Docente 31 14,3226

Rispetto per gli altri e per l’ambiente Studente 825 20,0279 2,68180Docente 31 22,7097

Tab. 4: t.di Student Test

L’analisi qualitativa

Il processo di analisi qualitativa si è svolto in due fasi, la prima top-down e la seconda bottonup. Sono stati analizzati 31 testi di risposta dei docenti e 275 degli studenti, numeri derivatidai criteri di selezione delle risposte qualitative sopra indicati.

Tramite l’ausilio del software di analisi testuale AtlasTi, i testi sono stati distinti in duecorpora d’analisi, “Docenti” e “Studenti” e quindi codificati.

La vera e propria codifica è stata preceduta da una serie di successive letture dei testi daanalizzare. Quest’attività ha permesso di sviluppare sensibilità ai testi stessi per intuirne i si-gnificati emergenti.

Nella prima fase di effettiva analisi, i 3 fattori individuati con la precedente analisi fatto-riale, (cfr. Tab. 3) sono stati utilizzati come codici interpretativi6 delle porzioni di testo7. Lericercatrici hanno voluto in questo modo verificare se essi potessero dare spiegazione anchedell’idea “iniziale” (libera cioè, dai possibili condizionamenti dovuti alla presentazione didescrittori predefiniti) di “buon comportamento scolastico” dei soggetti coinvolti.

Due codificatori indipendenti hanno svolto l’analisi raggiungendo un primo accordoper il 72 % dei codici. La successiva discussione e negoziazione ha permesso di codificareunanimemente quelle porzioni di testo per cui inizialmente c’era disaccordo.

I risultati ottenuti in questa prima fase di analisi hanno portato a verificare che i 3 codicipermettono la codifica rispettivamente dell’86% e del 70% delle porzioni nei due corpora,(cfr. Grafici 1 e 2). L’idea di buon comportamento scolastico è cioè ampiamente spiegata,con andamento abbastanza simile nei 2 corpora, dai tre codici ricavati dalla precedente analisifattoriale. D’altra parte tali codici rappresentano “macro-dimensioni” del comportamentoscolastico, all’interno di ciascuna delle quali si declinano una serie di descrittori più specifici(cfr. Tab. 3).

Va comunque rilevato che fra questi 3 codici, quelli maggiormente occorrenti in en-trambi i corpora, sono il secondo fattore, “partecipazione all’attività scolastica”, (rispettiva-mente 33% e 27% occorrenze sul totale), e il terzo, “rispetto degli altri e dell’ambiente”,

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6 Di ciascuno dei tre fattori utilizzati come codici fanno parte più descrittori, come si evince dalla Tab. 3. Intal senso una porzione di testo codificata attraverso uno dei tre codici può rappresentare uno o un altrodei descrittori componenti del fattore stesso.

7 Per “porzione di testo” s’intende l’insieme di parole dotato di significato attribuibile ad un unico codiceinterpretativo.

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(rispettivamente 32% e 31% di occorrenze sul totale nei due corpora “docenti” e “studenti”).Il codice “organizzazione scolastica” inteso a definire le modalità di frequenza scolasticadello studente (giustificazione tempestiva di assenze e ritardi, frequenza regolare e rispettodegli orari) occorre, in entrambi i corpora, in misura minore rispetto ai due precedenti e conpercentuali molto più basse nel corpus “studenti” (12%) rispetto a quello “docenti” (21%);ciò a rilevare un’importanza molto minore attribuita dagli studenti a questi aspetti della vitascolastica, rispetto a quella assegnata dai docenti.

Graf. 1: occorrenze dei codici più frequenti nel corpus “docenti”

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Graf. 2: occorrenze dei codici più frequenti nel corpus “studenti”

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Nella seconda fase, le ricercatrici hanno proceduto all’analisi dei segmenti di testo noncodificabili attraverso i codici utilizzati nella fase di analisi appena descritta, con lo scopo diindividuare altre diverse componenti caratterizzanti l’idea di “buon comportamento scola-stico” di docenti e studenti.

Alla luce delle indicazioni metodologiche di Peräkylä (2005, p. 870)

«in molti casi, i ricercatori qualitativi che usano testi scritti come materiali non cercano di seguire alcun pro-tocollo predefinito nell’eseguire la propria analisi. Leggendo e rileggendo i propri materiali empirici, essicercano di fissare i propri temi chiave e, di conseguenza, di dipingere un quadro dei presupposti e deisignificati che costituiscono la realtà culturale di cui i materiali testuali rappresentano un campione».

si è seguito un processo bottom-up, per individuare categorie di analisi che fossero espres-sione di significati emergenti dai testi stessi. Si sono così codificate porzioni di testo chehanno contribuito a definire ulteriori declinazioni delle tre macro-dimensioni individuateprecedentemente, oppure all’emergere di alcune nuove dimensioni del costrutto “buoncomportamento scolastico”.

Fra i nuovi codici emergenti in entrambi i corpora, si può rilevare che il più occorrente,in maggiore percentuale nei docenti che negli studenti (rispettivamente 7% e 4%), risultaessere quello denominato “buona educazione”. Tale codice individua le porzioni di testo incui docenti e studenti fanno riferimento alla generica “buona educazione” (nominata senzacitarne specifiche caratterizzazioni) che dovrebbe contraddistinguere lo studente dal buoncomportamento scolastico. Pur non rappresentando, tale codice, un preciso, specifico de-scrittore di buon comportamento, esso sembrerebbe potersi interpretare come elementoche conferisce ulteriore forza alla dimensione legata al “rispetto degli altri e dell’ambiente”,codice macro-dimensionale, già occorrente in misura più elevata degli altri due in entrambii corpora.

Un ulteriore codice che sembrerebbe ascrivibile all’interno dell’area rappresentata dallamacro-dimensione “rispetto degli altri e dell’ambiente”8 è quello, emergente dal corpus “stu-denti”, denominato “non disturba”. Gli studenti mettono ripetutamente in evidenza, quasia chiederne un’attenzione particolare da parte della docenza nel momento della valutazionedel “buon comportamento scolastico”, che «uno studente dal buon comportamento scola-stico è un alunno che in classe non disturba» (studente 1), ossia che in classe deve svolgerel’attività «senza disturbare il lavoro altrui» (studente 2).

Alla macro-dimensione “organizzazione scolastica”9 sembrerebbe potersi ascrivere il de-scrittore “rispetta regole etero-gestite”, presente in entrambi i corpora, ma con percentualipiù alte in quello dei docenti. Docenti e studenti rilevano la necessità che il buon compor-tamento scolastico venga valutato anche per un’adesione senza compromessi, discussioni enegoziazioni, al Regolamento stabilito dall’Istituto, considerato, anche dagli studenti, aspettonormativo cui attenersi strettamente, anche se costituito da regole «imposte dal dirigentescolastico» (studente) .

Per quanto riguarda l’ulteriore macro-dimensione “partecipazione all’attività scolastica”10,i docenti, ma soprattutto gli studenti mettono in rilievo la necessità che, in sede di valuta-zione del comportamento scolastico, sia posta maggiore attenzione ad una partecipazione

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8 Cfr. terzo fattore nella Tab. 3.9 Cfr. secondo fattore nella Tab. 3.10 Cfr. primo fattore nella Tab. 3.

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attiva (codice “atteggiamento attivo-critico”, con percentuali rispettivamente del 3% e 5%),caratterizzata da «grande spirito critico e curiosità per il confronto e la discussione» (do-cente), poiché «il buon studente non è quello amorfo durante le lezioni, che non è in gradodi avere una coscienza critica verso quello che succede nel mondo…» (studente). Il buoncomportamento va valutato cioè anche in base alle «capacità critiche e di valutazione perquanto riguarda eventuali situazioni problematiche (ad esempio un conflitto con un inse-gnante) e buon senso nell’agire in tali situazioni» (studente).

Altri codici sono stati individuati solo nel corpus “studenti”. Tali codici hanno permessodi individuare alcune nette differenze fra le rappresentazioni di “buon comportamento sco-lastico” costruite dagli studenti rispetto a quelle dei docenti.

A differenza dei docenti, gli studenti ritengono che alla partecipazione attiva alle attivitàscolastiche dovrebbe aggiungersi un “buon rendimento scolastico” caratterizzato da unostudio «costante così da ottenere buoni voti», in modo da «conseguire sempre risultati sod-disfacenti», accentuando in tal modo la dimensione cognitiva della partecipazione.

Tale partecipazione dovrebbe inoltre essere connotata, secondo gli studenti, da “respon-sabilità” personale verso le attività scolastiche e i propri doveri. Viene alla in luce così unadimensione etica del comportamento scolastico: lo studente dovrebbe «avere la volontà di im-pegnarsi in ciò che fa» (studente 1) poiché «è responsabilità di ogni studente provvedere alproprio rendimento senza che l’insegnante insista troppo per fargli fare il suo dovere» (stu-dente 2).

Un’ulteriore dimensione emergente esclusivamente dal corpus “studenti” è quella definitasocio-affettiva. Si tratta della dimensione del “prendersi cura”, per cui il comportamento sco-lastico dovrebbe essere valutato anche in relazione ad un atteggiamento di attenzione ai bi-sogni dei compagni e di disponibilità ad aiutare gli altri, «mantenendo un rapporto d’amiciziae solidarietà».

8. Discussione

Le analisi compiute permettono di mettere in luce come, nel contesto scolastico in cui laricerca si è svolta, l’idea di “buon comportamento scolastico” di docenti e studenti facciariferimento a un’ampia varietà di dimensioni non del tutto condivise da docenti e studenti.

La lettura dei dati quantitativi ha permesso di individuare alcune dimensioni comuninell’idea di “buon comportamento scolastico”; dimensioni probabilmente derivanti da ri-sorse culturali condivise da docenti e studenti, da una medesima cultura scolastica, propriadel contesto geografico e culturale di appartenenza; cultura costruita lungo la propria carrieradi studenti e/o di docenti.

In particolare i descrittori di comportamento appartenenti a due delle macro-dimensioni,“partecipazione all’attività scolastica” e “rispetto degli altri e dell’ambiente”, individuatecon l’analisi fattoriale, sembrerebbero rappresentare gli elementi di un modello condivisodi “buon comportamento scolastico”. Per quanto riguarda l’altra macro-dimensione “or-ganizzazione scolastica” i risultati mettono in luce il diverso peso ad essa assegnato da docentie studenti: molto più rilevante per i primi, meno significativa per i secondi.

Al di là di questi macroscopici elementi comuni, restano comunque palesi le eterogeneità,rese parzialmente evidenti dall’analisi quantitativa, meglio comprese con quella qualitativa.

Risultano innanzitutto evidenti le differenze fra il modello di “buon comportamentoscolastico” dei docenti e quello degli studenti. Un modello “semplice” quello dei docenti,caratterizzato quasi esclusivamente dalle tre macro-dimensioni citate. Modello che in qualchemodo sembrerebbe rispecchiare quello proposto istituzionalmente nel Regolamento sulla

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valutazione degli alunni emanato dal Ministero con D.P.R. n. 122 nel giugno 2009; docu-mento in cui, all’articolo 7 riguardante la valutazione del comportamento, si decreta chel’atto valutativo deve

favorire l’acquisizione di una coscienza civile basata sulla consapevolezza che la libertà personale si realizzanell’adempimento dei propri doveri – [dimensione della “partecipazione all’attività scolastica”] –,nella conoscenza e nell’esercizio dei propri diritti, nel rispetto dei diritti altrui – [dimensione del “rispettodegli altri e dell’ambiente”] – e delle regole che governano la convivenza civile in generale e la vita sco-lastica in particolare – [dimensione dell’organizzazione scolastica”].

In realtà l’analisi qualitativa dei protocolli d’indagine indurrebbe a ritenere che nemmenoall’interno del solo gruppo docenti l’idea di “buon comportamento scolastico faccia riferi-mento a dimensioni univocamente intese. Prova ne è la divergente definizione di “buoncomportamento scolastico” offerta da due docenti dell’Istituto:

“Stare seduto composto, non chiacchierare durante la lezione, alzare sempre la mano, alzarsi in piedi quandoentra un professore, salutare, seguire le interrogazioni, tenere in ordine il banco, non arrivare mai in ritardo, portaresempre il materiale ed essere puntuale nelle consegne, rispettare il personale della scuola, …” (docente A)“Interesse ai più diversi argomenti, motivazione nello studio e nelle diverse attività scolastiche ed extrascolastiche,autostima, capacità di socializzazione, collaborazione, disponibilità ad aiutare gli altri, profondo rispetto perle persone e le cose, grande spirito critico e curiosità per il confronto e la discussione…” (docente B)

Il modello di buon comportamento scolastico” proposto dagli studenti risulta maggior-mente complesso rispetto a quello emergente dai discorsi dei docenti. Quelle dimensionicognitiva, etica e socio-affettiva, rilevate attraverso l’analisi qualitativa come componenti signi-ficative per gli studenti, ma ignorate dai docenti, conferiscono all’idea di “buon comporta-mento scolastico” degli studenti una pluridimensionalità e una ampiezza che rendonoevidente la necessità di processi di negoziazione dell’idea stessa in relazione alle attività va-lutative scolastiche. Dai risultati sembrerebbe distinguersi un modello di “buon comporta-mento scolastico” connotato da uno spiccato senso di responsabilità personale da parte deglistudenti, che ne accentuano le dimensioni: a) dell’impegno finalizzato ai buoni risultati, b) deldovere morale dello studente in quanto tale; c) della cura nei confronti dei pari. Dimensioni,le prime due, che richiamano alcune di quelle del “comportamento di lavoro” del modellodi Franta e Colasanti (1995). Interessante pare inoltre l’ultima delle tre dimensioni, che con-fermerebbe il bisogno degli attuali adolescenti di spendersi affettivamente nella scuola, acompensazione di un ambiente familiare sempre meno significativo come riferimento perlo sviluppo di competenze socio-affettive (Sandomenico, 2007).

9. Conclusioni

Riteniamo che il processo di costruzione della rubrica di valutazione del comportamentoqui presentato possa rappresentare un valido percorso di lavoro all’interno di un progettoorientato all’elaborazione e all’interiorizzazione socialmente condivisa delle regole del“buon comportamento”, inteso come risultato di corresponsabilità di tutti i partecipantialle attività di formazione.

Le eterogeneità rilevate attraverso il lavoro di ricerca, in relazione all’idea di “buon com-portamento scolastico”, rendono palese la necessità che nelle scuole vengano avviate attivitàdi esplicitazione e condivisione dei significati affinché i percorsi formativi e valutativi risul-tino effettivamente efficaci. Riteniamo che l’attivazione di percorsi di condivisione e cor-responsabilità valutativa fra i protagonisti del vivere scolastico possano garantire, al momento

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valutativo, quella caratterizzazione di valutazione “trasparente, tempestiva e formativa” (art.1 del D.P.R. 22/06/2009, n. 122)11 necessaria per giungere all’obiettivo, oggi fortementeauspicato dalla ricerca valutativa (Earl, 2003) e dettato dalla normativa scolastica, della capa-cità di autovalutazione. Quest’ultima infatti è individuata come presupposto fondamentaleaffinché l’alunno raggiunga autonomia nella capacità di gestire e monitorare il proprio pro-cesso formativo in ottica lifelonglearning (cfr. D.P.R. 22/06/2009, n. 122)12.

Va rilevato infine il limite della ricerca qui proposta, rappresentando essa, solo la fase ini-ziale di un progetto più ampio, teso a verificare l’effettiva applicabilità didattica della rubricacostruita nel contesto della scuola. Restano ancora da controllare infatti i criteri valutativiindividuati e la loro ricaduta sulle pratiche di lavoro di classe.

Quanto fin qui presentato ci sembra comunque significativo in relazione al fatto che, at-tualmente, nella realtà scolastica italiana, la specifica questione della valutazione del com-portamento sia sentita, ancora troppo spesso, come un problema personale del docente evissuta, in nome della “libertà d’insegnamento”, come pratica da affrontare in modo deltutto soggettivo e individuale.

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SIRD • Ricerche

11 Regolamento sulla valutazione degli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado.12 Regolamento sulla valutazione degli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado.

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The Fifth Biennal Northumbria/EARLI SIG Assessment Conference “Assessment for Learners”, 1-3September 2010, Northumberland, UK.

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4

Indicatore: PU!TUALITA’ E FREQUE!ZA !! Frequenta regolarmente le lezioni !! Rispetta l’orario delle lezioni e delle attività extrascolastiche !! Giustifica tempestivamente le assenze e i ritardi

Descrit

tori

!!

Indicatore: RISPETTO DEI PARI !! Rispetta gli altri e le loro opinioni !! Rispetta i materiali altrui !! Usa un linguaggio corretto nelle interazioni

Descrit

tori

!!

Indicatore: RISPETTO DEI DOCE!TI/!O! DOCE!TI !! Si rivolge educatamente a docenti e non docenti !! Segue le indicazioni e le consegne

Descrit

tori

!!

Indicatore: RISPETTO DELL’AMBIE!TE SCOLASTICO !! Utilizza correttamente gli ambienti e le attrezzature

scolastiche ed extrascolastiche

!! Mantiene l’ordine negli spazi che frequenta

Descrit

tori

!!

Indicatore: IMPEG!O PER L’APPRE!DIME!TO !! Segue le lezioni con attenzione !! Svolge con diligenza il lavoro assegnato !! Porta il materiale necessario !! Partecipa attivamente alle lezioni !! Si impegna per migliorare il proprio apprendimento

Descrit

tori

!!

Indicatore: PARTECIPAZIO!E ALLA VITA SCOLASTICA !! Collabora con i compagni !! Partecipa responsabilmente alle attività scolastiche ed

extrascolastiche

Descrit

tori

!!

Allegato 1:

Strumento per la valutazione del comportamento scolastico, costituito da 17item/descrittori, suddivisi in 5 aree, elaborato inizialmente da docenti e ricerca-trici.

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ricercheAnalizzare una conoscenza pratica implicita: le routine di spiegazione degli insegnanti

Analyzing a practical knowledge implicit: routines explanation of teachers

Questo contributo si focalizza sul ruoloche le routine possono assumere nella ri-cerca didattica e nella formazione alla ri-flessività degli insegnanti. Dopoun’es senziale ricognizione del frame teo-rico che inquadra la routine all’interno distudi sociologici, psicologici e didattici, siriportano alcune risultanze di un’indagi-ne collaborativa con insegnanti di Scuolasecondaria. L’oggetto di indagine è statala routine di spiegazione, la cui verbalizza-zione ha permesso una focalizzazione an-che su azioni, credenze, sentimenti estrategie didattiche nella quotidiana pra-tica di insegnamento. Lo strumento di in-dagine è stato l’intervista di esplicitazione(Vermersch, 2005). Attraverso la “presa dicoscienza” degli insegnanti su una cono-scenza pratica di tipo implicito (Perla,2010) qual è la routine, la ricerca proponeriflessioni interessanti anche sul piano for-mativo degli insegnanti.

Parole-chiave: ricerca didattica, analisidelle pratiche di insegnamento, routine,implicito, spiegazione, riflessività

This paper focuses on the role that routinescan play in educational research and teachertraining reflexivity. After a brief survey of thetheoretical frame according to which the routineis included in the social, psychological and ed-ucational studies, we report some findings of acollaborative investigation with high schoolteachers. The object of this investigation wasexplanation routine, and its verbalization hasalso allowed to focus on actions, beliefs, feelings,and teaching strategies in daily teaching prac-tice. The survey instrument was the explana-tion interview (Vermersch, 2005). Throughthe teachers’ awareness on a practical knowl-edge of implicit kind (Perla, 2010) such as theroutine, the research also offers interesting re-flections on a teacher training level.

Keywords: educational research, analysisof teaching practice, routine, implicit, ex-planation, reflexivity

VIVIANA VINCI

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1. Il frame teorico polireferenziale: la routine unità di analisi per la ricerca didattica

La ricerca didattica più recente focalizza sempre più la sua attenzione sull’analisi delle pra-tiche educative; fra queste, un’attenzione peculiare meritano le pratiche ordinariedell’insegna mento quotidiano, le routine1 (Cortelazzo M., Cortelazzo M. A., 2004, p. 1092;Berger, 1995, p. 18). Diversamente dall’accezione comune negativa con cui il termine vieneconnotato – come ciò che si ripete meccanicamente – è possibile considerare la routinecome risorsa utile per la ricerca sull’insegnamento e per la formazione della riflessività degliinsegnanti. Prima di focalizzare la rilevanza del tema nella ricerca didattica, occorre puntualizzare il

significato di “routine” attraverso una ricognizione di alcuni ambiti di indagine che ne han-no fatto oggetto di riflessione. In particolare, si prenderanno in considerazione contributidi area sociologica e psicologica2 (Vinci, 2010, pp. 41-87).Il primo contributo, viene dagli studi sulla vita quotidiana. Esiste infatti un forte legame

fra la routine e il quotidiano che indica, innanzitutto, ciò che accade e si ripete ogni giorno:lo studio della vita quotidiana si focalizza sui meccanismi attraverso i quali le routine, la fa-miliarità e il senso comune si costruiscono e si decostruiscono ogni giorno.Secondo A. Schutz (Schutz, 1979), padre della fenomenologia sociale, la conoscenza or-

dinaria che ha luogo nella vita quotidiana è dominata dall’atteg giamento naturale, un pensieropreriflessivo e ingenuo, capace di sospendere il dubbio che tale realtà sia diversa da quellache appare e di permettere un’interazione “scorrevole”, senza doversi porre continuamentedomande di comprensione (chi è? cosa fa?) che renderebbero le attività quotidiane impossibili.Nella vita quotidiana le persone interagiscono in maniera non problematica, secondo routinee schemi di tipizzazione, utilizzati negli incontri faccia a faccia e nelle interazioni sociali perclassificare eventi e persone e collocarli all’interno di modelli sociali già codificati. Le tipiz-zazioni sono un patrimonio di conoscenze pratiche che permette di organizzare la propriaesperienza e che comprende modi di vita, metodi per gestire l’ambiente, ricette efficaci perutilizzare mezzi tipici ed adattare fini tipici a situazioni tipiche. Gli schemi tipici derivano inminima parte dalle esperienze pregresse del soggetto ma, fondamentalmente, sono tramandaticome patrimonio di esperienza comune dalle generazioni passate attraverso il linguaggio,considerato mezzo “tipizzato” per eccellenza. L’atteggiamento naturale, che pone fra parentesi la vita quotidiana rivelandone le strutture

nascoste – perché troppo ovvie – richiama il concetto husserliano di epoché, il sospendere o

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1 La scelta di utilizzare il termine routine piuttosto che routines nella forma plurale deriva dal trattamento deinomi stranieri entrati nell’italiano senza adattamento morfologico, cioè mantenendo la loro forma origi-naria, applicato a tutti i forestierismi acquisiti stabilmente e da tempo nell’italiano: il plurale resta invariato,al contrario dei neologismi recenti o dei termini fortemente specialistici, per cui è consuetudine utilizzaresempre il plurale della lingua di origine. Cfr. http://www.accademiadellacrusca.it/faq /faq_risp. php?id -=3781 &ctg_id= 44. Diminutivo del francese route, “strada”, il lemma routine deriva dal latino via(m) r�pta(m),cioè “via aperta” o “strada battuta”, e si diffonde prima nella lingua francese con routier (1442) “colui checonosce bene la strada”, poi con il successivo verbo r�mpere come “facoltà di fare esperienza dall’uso piùche dallo studio” e di “ripetizione della stessa azione nello stesso modo”. Cfr. M. Cortelazzo, M. A. Cor-telazzo, 2004, p. 1092). La diffusione del termine routine nella letteratura scientifica si deve al sociologoWeber, con l’originale sostantivo Alltag e il termine derivato Veralltaeglichung: letteralmente “il quotidiano”e “trasformazione in pratica quotidiana”. Cfr. Berger (1995, p. 18).

2 Cfr. Vinci per una ricognizione di alcuni studi sulla routine.

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mettere fra parentesi il mondo in quanto realtà che si autopresenta nella vita quotidiana: il quo-tidiano è l’atteggiamento con cui affrontiamo le attività di routine che rendono il mondo abi-tabile, caratterizzato da una disattenzione costante per la complessità del mondo stesso:

«se vogliamo comprendere come si costruisce il mondo della vita intersoggettiva dob-biamo sospendere tale atteggiamento, e risalire al momento originario in cui tale at-teggiamento ancora non si è consolidato. E per farlo occorre considerare problematicii presupposti dati per scontati. Detto altrimenti, proprio perché nella vita quotidianaassumiamo tale atteggiamento, dobbiamo in qualche modo estraniarci» (Sparti, 2002,p. 182).

Il senso comune, dato dalle rappresentazioni della realtà e delle regole di condotta con-divise, costituisce la cultura e lo sfondo dell’esperienza ed è “dato per scontato”, come ovvioe naturale: è una sorta di tacito accordo tra i membri di un gruppo, si produce e riproducecontinuamente grazie alla cooperazione di ognuno, alla ripetizione e, una volta contraddettodall’esperienza, viene riformulato. Alle radici del senso comune e delle routine nella vita quotidiana, sedimentati in una

eredità culturale messa a disposizione dalle generazioni precedenti, troviamo ragioni prag-matiche, sociali e psicologiche (Ruggerone, 2000). Da un punto di vista pragmatico la ripe-tizione di comportamenti evita dispendio di tempo e risorse grazie all’applicazione di unasoluzione già pronta all’interno di un repertorio standard, a livello sociale mantiene integrala nostra appartenenza al gruppo o al senso comune, e a livello psicologico restituisce unsenso di familiarità che ci consente di evitare quella che Jedlowski chiama la vertigine dell’in-determinazione, la vertigine generata dal sospetto dell’infinito (Jedlowski, 2005, p. 23), ossia di tuttociò che è imprevedibile e fuori dal nostro controllo. Giddens definisce meglio questo pro-cesso come sicurezza ontologica, fiducia nella continuità della nostra identità e nella costanzadel contesto sociale nel quale viviamo (Giddens, 1994, pp. 96-101), sicurezza innanzituttopsicologica alimentata dalla familiarità dell’esperienza, dall’abitudine e dalla tradizione. AncheGoffman (1969), con la sua nota concezione della vita quotidiana come rappresentazione tea-trale, sottolinea il ruolo dei frames, ossia delle “cornici simboliche” che conferiscono signi-ficato agli eventi: ogni azione diversa dalle aspettative altrui rompe un rituale e necessita diuna nuova negoziazione di significati e di un nuovo frame. Un secondo contributo in area sociologica allo studio delle routine viene dalla etnome-

todologia e dagli studi di Garfinkel sulle caratteristiche invarianti delle attività sociali. Il con-cetto di accountability, «adottato da Garfinkel (1967) per indicare come le persone rendanole proprie azioni spiegabili (account-able) nel momento stesso in cui le nominano (e le agi-scono)»3 (Fele, 2002, pp. 54-55), indica la proprietà di essere visibile in modo evidente, de-scrivibile, disponibile allo scrutinio e giudicabile per la propria appropriatezza, caratterizzantesia ogni pratica, cioè azioni, gesti e comportamenti, sia qualsiasi ragionamento pratico, ossia ildichiarato. Agendo, dice Fele, «le persone si dimostrano reciprocamente che esse sono partedella stessa comunità morale» e «si ritengono vicendevolmente responsabili della ragione-volezza di ciò che stanno dicendo e facendo» (Fele, p. 53). Se le persone devono immedia-

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3 Bruni, Gherardi (2007, p. 45). Il termine inglese accountability deriva letteralmente da account, ossia il raccontoe resoconto impiegato per spiegare a noi stessi e agli altri ciò che sta accadendo, e nella lingua italiana nontrova un’unica espressione equivalente che lo traduca, ma rimanda ad una costellazione di significati diversitraducibili come l’essere rendicontabile, descrivibile, comprensibile e spiegabile.

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tamente produrre pratiche che gli altri valutino come adeguate e appropriate alla situazione,la conseguenza sul piano sociale sarà allora la produzione di comportamenti sociali standar-dizzati: le routine costituiscono infatti una risposta alla continua necessità di giustificare leproprie azioni secondo procedure esplicite, che possono essere mostrate, dimostrate e com-prese. Tutte le routine hanno inoltre una storia e una identità locale, sono tipiche del contestoe dell’interazione nel quale sono state generate e, quindi, sono soggette al carattere dell’in-dicalità (il carattere contestuale di ogni attività quotidiana). Il terzo contributo, in area sociologica, è dato dalle indagini sulle routine organizzative,

suddivisibili in due correnti di pensiero: la scuola behavioristica e la suola cognitivista.La prima, behavioristica, considera le routine come sequenze ordinate di comportamenti ap-

presi attraverso meccanismi di stimolo-risposta-rinforzo. Fra i principali esponenti di questa scuoladi pensiero, Nelson e Winter (1982) sottolineano come le routine rappresentino la più im-portante forma di memoria di un’organizzazione, in quanto permettono ai membri diun’azienda di ricordarsi le modalità delle azioni semplicemente continuando ad agire, attra-verso il comportamento. La conoscenza di un’organiz zazione risiede nella memoria dei suoimembri e può essere replicata solo attraverso l’esperienza comune e condivisa. Una seconda linea interpretativa, cognitivista, reputa invece le routine come regole condi-

zione-azione ossia, come dicono March e Simon (1958), un insieme di regole da seguire perottenere uno scopo, come fossero programmi distinti dal piano di azione. Secondo i dueautori le reazioni agli stimoli non sono, meccanicamente, sempre uguali, ma di natura diversae polarizzate: da un lato in attività routinizzate, o programmi di azione quasi istantanei, ela-borati ed appresi precedentemente come reazione appropriata ad uno stimolo di quella na-tura; dall’altro, invece, la reazione allo stimolo diventa un’attività di problem-solving, finalizzataalla ricerca di alternative di azione o conseguenze di azioni. Conoscere il programma diun’organizzazione permette di prevedere il comportamento dei membri dell’organizzazionee maggiore è la ripetitività delle azioni, maggiore è la programmazione e la prevedibilità diquelle attività (March e Simon, p. 51).Secondo Zamarian (2002) le conoscenze incorporate nelle routine organizzative sono

tacite – difficilmente verbalizzabili – distribuite all’in terno di un gruppo, cioè non posseduteda singoli attori, e situate in un contesto: queste caratteristiche distintive delle routine orga-nizzative permettono alle aziende di ottenere un vantaggio competitivo, in quanto la lororiproduzione in altri contesti diventa assai difficile, senza la possibilità di una loro codifica-zione esplicita. Un terzo contributo, infine, viene dalla psicologia sociale cognitiva sul ruolo che ripe-

tizione e automatizzazione hanno nell’ordinare la cognizione: le routine offrono un formatche organizza la cognizione sia per quanto riguarda la rappresentazione dello scopo da rag-giungere, sia offrendo modalità operative e sequenze di azioni di risoluzione del compitosocialmente sperimentate. Questo avviene attraverso la formazione di script (Fayol, Monteil,1988, pp. 335-361; Schnk, Abelson, 1977), strutture cognitive adeguate alla risoluzione deiproblemi sociali con l’ambiente circostante; nel trattare gli oggetti, è grazie a questi scriptche vengono elaborati schemi pragmatici funzionali e subordinati alla funzione sociale deglioggetti e delle pratiche ad essi connesse. Gli script, o copioni, rappresentano successioni discene o episodi collegati fra loro e configurano una trama globale coerente e unitaria, un“copione di vita” o della situazione. La realtà sociale, secondo la social cognition, si presentacome insieme di copioni, di sequenze di episodi legati temporalmente o causalmente, e puòessere ricostruita alla luce degli schemi cognitivi, ossia una struttura di conoscenze preesi-stente. Il frame, indicante appunto la cornice cognitiva che rende intelligibile un flusso di atti e cheracchiude un insieme di schemi e sottoschemi cognitivi, ha la funzione di organizzare le in-formazioni di una situazione, richiamando automaticamente una serie di collegamenti che

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rendono la situazione percepita come tipica. Script e frame hanno la funzione pratica di in-dirizzarci verso l’azione indicandoci la modalità corretta di comportarci in una data circo-stanza4 (Sparti, p. 134). L’apprendimento di questi schemi pragmatici avviene per mezzo dimemoria di azione e grazie a supporti rappresentativi iconici, si sviluppa per imitazione eper apprendimento sociale ed è influenzato dall’ambiente familiare e scolastico.E nella ricerca didattica? Quali contributi vengono offerti dallo studio della routine nel-

l’insegnamento?Diversi studi (Clark, Yinger, 1979; Joyce, 1978-1979, pp. 66-77; Morine-Deshimer, 1978-

1979, pp. 83-99; Shavelson, Stern, 1981, pp. 455-498; Tsui, 2003, p. 31; Nuzzaci, 2009, pp.59-75) hanno sottolineato il supporto che la creazione di routine didattiche può fornireagli insegnanti nel rendere prevedibile i tempi, le sequenze di interazione e il comporta-mento degli studenti, in modo da poter ridurre il carico di informazioni da elaborare e dapoter sviluppare al meglio la loro capacità di monitorare la situazione in classe. A questo proposito, Yinger definisce le routine come «insiemi di procedure stabilite che

hanno la funzione di controllare e coordinare sequenze specifiche di comportamenti»5 (Altet,2003, p. 102). L’autore classifica inoltre quattro tipologie di routine didattiche scelte nellafase di pianificazione:• activity routines, routine di azione, setting di comportamenti controllati nella pianificazioneeducativa;

• instructional routines, routine di gestione, comprendenti metodi e strategie di insegnamen-to;

• management routines, routine di organizzazione e controllo, finalizzate a stabilire un ordinenella classe;

• executive planning routines, routine di esecuzione di un piano, costituiscono il processomentale della pianificazione educativa e sono finalizzate alla costruzione di un modellodi pianificazione che permetta agli insegnanti di far un miglior uso possibile del limitatotempo a disposizione per pianificare l’azione (Altet, 2003; Yinger, 1977; Yinger 1979, pp.163-169; Stronge, Tucker, Hindman, 2004, pp. 97-98).Damiano (2007) definisce le routine come «sequenze di azioni professionali tenute in-

sieme dalla loro struttura operativa – chi-dove-cosa-come – e dallo scopo cui sono ordinate.Esse sono più o meno saldamente concatenate tra loro, e si sviluppano nel tempo in modoricorsivo» (Damiano, 2007, p. 126). Secondo l’autore le routine sono «sistemi integrati diazioni che scandiscono la giornata come sequenze regolari che si congiungono fra di lorocome “moduli operativi” simmetrici in una struttura architettonica, e che vedono gli attorinegli stessi spazi comportarsi nello stesso modo e procedere nello stesso ordine» (Damiano,2006, p. 147). Differenziandole a seconda della loro cadenza temporale in quotidiane e non-quotidiane, e a seconda del loro scopo in attività operative, che producono insegnamento, e at-tività non-operative, cioè che producono le condizioni adeguate all’insegnamento, Damianoriconosce nelle routine le unità di analisi su cui articolare l’osservazione del lavoro di classeper la Nuova Ricerca Didattica e degli efficaci strumenti di formazione (e di auto-forma-zione) per l’insegnante tirocinante.

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4 La comprensione di una situazione avviene in due modi: «l’uno categoriale o strutturale, ossia per classi-ficazione spaziale, come suggerisce la frame theory; l’altro teleologico, ossia tramite l’inserimento di eventied episodi in una sequenza temporale-procedurale, come indica la script processing theory».

5 La definizione fornita da Yinger sulle routine educative viene contestualizzata all’interno della ricerca di-dattica sulle pratiche di insegnamento da Altet.

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L’autore introduce sia il concetto di macro-routine, «una serie variabile di routines ciascunacoordinata alle altre e tutte ordinate ad uno scopo comune» (Damiano, 2006), che inducead analizzare le routine non isolatamente, ma in connessione fra loro e in rapporto al contestospecifico che le ha generate, sia di sub-routine6 (Damiano, 2007, pp. 131-133), dato dagli ele-menti che ciclicamente si alternano in ogni routine, fondamentali per un’analisi accurata diciò che viene considerato ovvio nell’interazione in classe. Le routine, inoltre, permettonodi esaminare «i soggetti che operano, le attività (in particolare le sequenze) ed i contesti in cuisi compiono (tempi, spazi e attrezzature)» (Damiano, 2006, p. 148).Fra le più interessanti riflessioni sulle routine didattiche emerge senza dubbio quella re-

cente di Laneve (2009), il quale sottolinea l’importanza delle routine considerate come luoghidella conoscenza localizzata e situata che, da un lato, permettono di sviluppare, sedimentaree trasmettere competenze, dall’altro, di mutare e migliorare le pratiche stesse attraverso unloro adattamento a seconda delle diverse condizioni e circostanze (Laneve, 2009, p. 42). Ladipendenza da routine, che si manifesta nella resistenza verso il nuovo, l’ignoto e il rischio,rappresenta un legame indispensabile che l’insegnante o l’educatore conserva con il passato,«quel vincolo a quel sapere procedurale che lo qualifica come insegnante esperto»; in quantoattività consolidate e rassicuranti, le routine «consentono di sentirsi adeguato e capace diprendere decisioni giuste» (Laneve, 2009, p. 40). Secondo l’autore le routine didattiche co-stituiscono l’elemento base del patrimonio culturale ed esperienziale che qualifica l’inse-gnante esperto, sono cioè la base della sedimentazione di un sapere pratico, del saper insegnare:un sapere che non può essere appreso né trasmesso attraverso la sola teoria. In sintesi, alcune funzioni significative delle routine didattiche: aiutare a gestire un am-

biente complesso, qual è la classe, e ad affrontare l’incertezza; controllare e coordinare se-quenze specifiche di comportamenti, anticipare eventi successivi, pianificare l’azione,ordinarla e adattarla a circostanze diverse; prendere decisioni nella complessità e permetterel’innovazione; sviluppare e sedimentare competenze e, di conseguenza, permettere la crea-zione di una memoria del professionista esperto; trarre informazioni sul funzionamento ge-nerale di una qualsiasi organizzazione e, quindi, anche sulle regole esplicite-implicite di unparticolare contesto educativo; condividere e trasmettere l’espe rienza e le competenze se-dimentate (una trasmissione, essenzialmente, di sapere pratico) ai novizi. Gli studi sino ad ora richiamati mostrano la rilevanza scientifica della routine come og-

getto di indagine, utile per l’insegnante e per gli studi sull/nell’insegnamento. E, in tale pro-spettiva, presento qui di seguito le coordinate di una ricerca collaborativa7 (Perla, 2010, p.104) con alcuni insegnanti di Scuola secondaria della provincia barese.

2. L’indagine con gli insegnanti di Scuola secondaria: le routine della spiegazione nell’insegnamento

L’oggetto specifico di questa indagine è stata la spiegazione, parte essenziale della lezione chetrova origine nell’antico modello della lectio Magistri: nata nell’Alto Medioevo come traspo-

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6 In particolare Damiano individua quattro sub-routine: l’apertura, la sequenza, l’andatura, la conclusione.Per un approfondimento più dettagliato vedi Damiano (2007, pp. 131-133).

7 La collaboratività è «basata su un partenariato autentico (né opportunistico, né solo funzionale agli scopidella ricerca) fra ricercatori e insegnanti, si costruisce nel tempo lungo e implica un impegno alla costru-zione di un sapere anche utile alla formazione dell’insegnante».

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sizione della lectio divina (lettura di un brano breve della Bibbia), è intesa come lettura edesposizione di un testo con commento, come prolissa esposizione verbale della materia chechiede allo studente ascolto passivo, esercizio, memorizzazione ed imitazione, rispetto perl’autorità del testo e del maestro (Laneve, 2003; Tomasucci Fontana, 1997; Guasti, 1998).Questa caratterizzazione della lezione, che tanto ha influenzato l’insegnamento fino ai giorninostri, è stato oggetto di continue critiche e sembra non trovare più rispondenza nelle realipratiche degli insegnanti. Il problema è capire cosa accade e cosa gli insegnanti verbalizzanoa proposito della loro routinaria pratica di spiegazione.L’ipotesi che sottende la ricerca è che la spiegazione messa in pratica dagli insegnanti non

coincida con il modello della lectio, ma comprenda un livello di impliciti di insegnamentoche vanno portati alla luce. Quali sono le routine implicite – perché fin troppo note – nellaspiegazione che è possibile far emergere? Oltre la centratura che, per molto tempo, la ricerca didattica ha assunto sullo studente, questa

indagine rappresenta un tentativo, sulla scia di studi assai recenti in tema di insegnamento, diallontanarsi dalla “didattica del chiaro” per esplorare la “didattica dell’implicito” (Perla, 2010),partendo dalla testimonianza dei pratici e dalla loro collaborazione nella ricerca.Le prime risultanze dell’indagine sulle routine della spiegazione hanno sollecitato inoltre

alcuni interrogativi significativi su cui occorre riflettere:• è possibile la formalizzazione, da parte degli insegnanti, delle proprie pratiche routinarie?• è possibile la classificazione delle routine da parte di chi fa ricerca?• è possibile una formazione degli insegnanti alla riflessività attraverso l’esplicitazione delleroutine e che tipo di ricadute può avere per gli insegnanti il “rendere chiaro” ciò che ètanto noto, ovvio e routinario, da diventare tacito e implicito?L’indagine ha coinvolto un gruppo di 30 insegnanti, con una media di 15 anni di espe-

rienza di insegnamento, in servizio presso scuole secondarie di I e di II grado di Bari e pro-vincia. La metodologica di indagine adottata è stata l’analisi delle pratiche dichiarate (Marcel, Olry,

Rothier-Bautzer, Sonntag, 2002, pp. 135-170) dall’insegnante, al cui interno rientra un ven-taglio assai variegato di elementi: giudizi percettivi, sentimenti, memorie e richiami ad espe-rienze e incontri passati, strategie e teorie implicite adottate in un tipo specifico dicomportamento didattico, criteri valutativi di svolgimento di un’attività e di strutturazionedi un problema, modi di percepire il proprio ruolo all’interno di un più vasto contesto isti-tuzionale. Si tratta di elementi che molto spesso gli insegnanti “agiscono” senza riuscire averbalizzarli, ma che la ricerca sul “pensiero dell’insegnante” di matrice soprattutto anglo-sassone ha da tempo indicato come determinanti nell’agire professionale (Clark, Peterson,19863, pp. 255-296; Nespor, 1987, pp. 317-328; Goodman, 1988, pp. 121-137; Calderhead,Robson, 1991, pp. 1-8).

La modalità di analisi si inserisce nei metodi di ricerca qualitativa di tipo grounded, chemirano alla costruzione flessibile della teoria attraverso un processo induttivo di analisi, ossiaalla costruzione graduale, e soggetta a continue revisioni, di astrazioni concettuali a partiredalle informazioni descrittive contenute nei dati raccolti sul fenomeno oggetto di indagine.La grounded theory si articola in diverse fasi che prevedono: l’individuazione dell’area di in-dagine, della focalizzazione dell’oggetto e della tecnica per raccogliere dati e materiali di ri-cerca; il momento dell’analisi e di codifica dei dati (open coding), che permette sia diconcettualizzare i dati, ossia elaborare dei concetti che consentano di nominare fedelmenteed “etichettare” i fenomeni indagati, suddivisi dettagliatamente in unità di analisi (parole,frasi o paragrafi), sia di categorizzare i dati, individuare cioè categorie indicanti particolariaspetti del fenomeno indagato, nelle quali sono raggruppati le varie “etichette” concettuali

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precedentemente individuate. Durante queste fasi si inizia a delineare un primo livello diteorizzazione “dal basso”, che costantemente viene rivista grazie ad un ritorno continuo alprocesso di analisi del materiale (Mortari, 2007, pp. 145-159). Il dispositivo metodologico utilizzato nell’indagine è stato l’intervista di esplicitazione di P.

Vermersch (2005, p. 17)8, finalizzata alla verbalizzazione e alla presa di coscienza dell’azione:«se per azione si intende la concreta realizzazione di un compito, l’intervista di esplicitazioneriguarda la dettagliata descrizione dello svolgimento di questa azione, così come essa è stataeffettivamente messa in atto in una situazione reale» (Vermersch, p. 18). L’azione è conside-rata fonte prioritaria di informazioni, conoscenza autonoma, opaca, di cui Vermersch intendeanalizzare la dimensione procedurale, ossia la successione e concatenazione logica e cronolo-gica degli atti elementari compiuti per il raggiungimento di uno scopo. La verbalizzazionedell’azione non è tuttavia una pratica usuale (anzi, è contro-intuitiva rispetto a giudizi, com-menti e descrizioni generiche centrate sulle circostanze esterne che spontaneamente si tendea ricordare e a descrivere) e non si realizza se non grazie ad un aiuto, ad una guida, attraversotecniche ben precise, silenzi, riformulazioni, rilanci (cosa fai esattamente? come fai?). La scelta di uno strumento metodologico qualitativo come le interviste, definite come

un metodo conoscitivo per far dire la pratica (Perla, 2005, pp. 80-100), si lega alla possibilitàdi far esplicitare rappresentazioni, credenze, motivazioni, conoscenze tacite dell’azione, spessoignote agli stessi intervistati, ma determinanti nella pratica didattica. Attraverso le interviste agli insegnanti si è cercato di far luce su quello che Perla definisce

l’implicito pratico degli insegnanti, che non è l’inconscio profondo e rimosso di matrice psi-coanalitica, ma «quella dimensione nascosta, ineffabile, oscura della pratica di insegnamentodi cui il docente sa poco o perché non la conosce o perché non vuole rivelarla, a volte neanche a sestesso – ma che tuttavia innerva la pratica reale dall’interno ed è suscettibile di presa di co-scienza, di consapevolizzazione, di “dicibilità”» (Perla, 2010, p. 31). L’esplicitazione di tale li-vello tacito, secondo Perla, non ha la sola finalità di accrescere la conoscenza sull’insegnamentoda parte dei ricercatori, ma anche quella di migliorare, attraverso la “presa di coscienza” e “lapresa di parola” dell’insegnante circa il suo “fare scuola” (Laneve, 2010), le stesse pratiche,con ricadute interessanti anche sul piano formativo e autoformativo dei docenti. Entro il frame teorico e metodologico di tale linea di ricerca, che vede gli insegnanti non

più solo fonti di sapere dell’insegnamento ma anche alleati (Damiano, 2006) e partnernella/della ricerca, è stata adattata l’intervista di esplicitazione con una focalizzazione sui se-guenti nuclei di indagine: le pratiche di spiegazione, gli step di una “giornata tipo”, le azionipiù frequenti nel lavoro di un insegnante, le strategie didattiche adottate più frequentemente,le attività e le fasi di una lezione, le emozioni e i sentimenti ricorrenti, le modalità di inte-razione con i colleghi e con le famiglie.Il corpus discorsivo ottenuto dalle interviste di esplicitazione è stato sottoposto a lettura

e analisi triangolata fra ricercatori per evitare il rischio di distorsioni interpretative e, laddovesono emerse differenze marcate di interpretazione, si è proceduto a negoziare i significati.Di seguito si riportano alcune stringhe testuali, selezionate per la loro significatività dal

corpus di risposte registrato e trascritto, e suddivise sulla base delle corrispondenti domanderiportate in elenco.

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8 L’intervista di esplicitazione è «definibile come un insieme di comportamenti di interazione verbale e diascolto, basati su alcune griglie di riferimento applicabili a quanto viene detto, e di determinate tecnichedi formulazione di rilanci (domande, riformulazioni, silenzi) destinate a facilitare e ad accompagnare laverbalizzazione di un particolare campo dell’esperienza, in relazione a diversi obiettivi personali e istitu-zionali».

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1. Quali azioni si ripetono più frequentemente nel suo lavoro?

Tab. 11. Allora, le azioni... io procedo più o meno sempre nelle stesso modo... individuo l’argo-mento, il problema da risolvere, la cui soluzione affido dalla classe, e parto con la pro-vocazione... parto inizialmente con un brainstorming sull’argomento, per rilevare lepreconoscenze, cioè quello che i ragazzi sanno già sull’argomento, sul tema affrontato.Dopo questa rilevazione... sono gli stessi ragazzi che vanno alla lavagna, che scrivono laparola che l’argomento stimola; vanno a scrivere con un pennarello diverso, di colorediverso... io, poi, elaboro a casa il percorso didattico da realizzare, che prevede un mo-nitoraggio ed eventuali interventi in itinere.

2. Prendiamo l’italiano: una unità di apprendimento la progetto una volta per tutte. Unavolta che l’ho progettata, in un fine settimana di solito, l’unità di apprendimento cosìcome la svolgerò... è già bello e fatto questo lavoro... va organizzato una tantum.

3. Che cosa faccio? Dipende molto dal tipo di attività, cioè dall’argomento.4. Dipende da come trovi la classe. A volte trovi una classe che è ben disposta in quel mo-mento: è fresca e, quindi, agisci in un determinato modo. A volte trovi la classe che èstanca, soprattutto quando si arriva alla quinta ora, e allora si fa pratica.

5. Nella didattica vera e propria tutto è legato ai tipi di testo che abbiamo, agli alunni, allaclasse, alle discipline: ci sono molte variabili.

2. Può descrivermi una “giornata tipo”?

Tab. 21. Vuoi una lezione?... è difficile.... io ti posso descrivere un percorso. Una lezione è unaazione che viene sviluppata... io seguo i ragazzi in classe... un’ora di lezione o tre ore?...vuoi 15 ore?;

2. Guarda è una realtà così complessa che è difficile da descrivere, perché le difficoltà nonsono prevedibili.

3. Leggiamo la pagina, faccio rilevare quella che è la vera e propria definizione, dopo diche facciamo gli esempi; poi una lezione sul campo: io scendo nel cortile... dopo, dodegli esercizi a gruppetti, oppure per singoli ragazzi, per vedere se hanno capito... Quartostep è far osservare.

4. Allora siamo, per esempio, in una seconda: devo spiegare il concetto di equivalenza dellefigure. Che cosa faccio? Comincio con un’at ti vità pratica, quindi faccio lavorare i ragazzisul tangram, che è un gioco cinese; glielo faccio costruire, disegnare, ritagliare e facciocomporre a loro tutte le figure possibili e immaginabili; dopo che lo hanno fatto pra-ticamente, un brainstorming: “Cosa stiamo facendo? Perché e come?”. Vediamo un po’questo movimento di idee e, alla fine, da lì si tira fuori la teoria. Io faccio sempre così,per qualsiasi argomento, comincio sempre con un’attività pratica e poi, attraverso le loroconsiderazioni, tiriamo fuori la teoria; poi facciamo l’applicazione concreta, una seriedi esercizi che devono fare tutti; li chiamo tutti alla lavagna, non è l’interrogazione, èl’eserci tazione; dopo, partono le interrogazioni.

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3. Come comincia solitamente una lezione?

Tab. 31. Allora, la inizio richiamando quello che si è già fatto la volta precedente, e soprattuttochiedendo se ci sono problemi nella comprensione di quello che hanno studiato... quelladel controllo dei compiti è diventata una cosa proprio necessaria... dopo andiamo a ve-dere che cosa hanno capito... e lì emergono subito le difficoltà; andiamo prima a risol-vere gli esercizi, quelle cose che non si sono capite e, poi, ascoltiamo il resto. Dopo diche procediamo, andiamo avanti con la successiva lezione e diamo subito i compiti.

2. Parto dall’osservazione del fenomeno, pianifico gli esperimenti connessi a quell’argo-mento, perché niente è fatto in maniera teorica... Per spiegare la fotosintesi clorofillianaporto una piantina in un vaso e comincio con l’osservazione da parte dei ragazzi e poida lì comincio a parlare di quello che avviene nei tessuti vegetali e a capire in cosa con-siste questo processo che sembra tutta teoria.

3. Partiamo dal principio: io, il primo giorno di scuola, la prima cosa che faccio è spiegarequali sono le condizioni per un approccio reciproco, per un rispetto reciproco. Per cuidetto delle regole, sulle quali non si discute e, quindi, è sempre un dialogo molto aperto.I ragazzi capiscono al volo la situazione, capiscono con chi possono permettersi di farecose, che non devono fare, e con chi, invece, non se lo possono permettere. I ragazzisono molto intelligenti, per cui quando entro in classe, la prima regola: loro si alzano inpiedi. Nessuno comincia a dire buongiorno, buonasera, tutto il resto, ma si alzano inpiedi: è il saluto. Questo come rispetto, sono io che entro in classe e dico buongiornoai ragazzi, dopo di che i ragazzi: seduti. E, quindi, si incomincia a parlare della lezione.

4. Come conclude solitamente una lezione?

Tab. 41. La lezione si conclude con i compiti e poi le ultime raccomandazioni: “Mi raccomando,l’esercizio va svolto in questa maniera”.

2. Concludo sempre con la verifica, che può consistere o nella lettura della mappa, l’illu-strazione della mappa... oppure la verifica proprio orale, o la produzione di un testoorale, oppure la realizzazione di una tabella; che so.... chiedo una tabella cronologicacon gli eventi... altrimenti faccio lavorare in gruppo.

5. Come spiega un contenuto disciplinare?

Tab. 51. La lezione deve essere interattiva... Non sto mai dietro la cattedra, anzi ci metto i ragazzi;sto quasi sempre seduta tra di loro e uno di loro, a rotazione, va alla cattedra. Dico: “Do-mani, qualcuno di voi potrà proporsi per una prima spiegazione”.

2. Quando devo spiegare un argomento nuovo? Parto dal brainstorming per capire checosa sanno.

3. Chiedo che vengano qui, alla cattedra, a sostituirsi a me.4. Soprattutto nelle prime, diciamo che passo oltre l’80% delle ore facendo pratica; peròè proprio nel momento in cui, facendo pratica, troviamo la novità e spiego; spiego per10 minuti, un quarto d’ora, la novità, però poi è pratica.

5. Sempre nel modo più pratico possibile [...] cioè, parto dal concreto sempre.6. La lezione dialogata, sempre; è una lezione interattiva la mia, non riesco ad ascoltaresolo la mia voce mentre faccio lezione.

7. In classe non mi capita più di leggere il testo, io parlo. Parlo dell’argomento e cerco an-che lì di suscitare domande e risposte.

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6. Ci sono degli argomenti che ritiene più difficile da spiegare?

Tab. 61. Quelli che non amavo, semplice. Perché quello che un insegnante non riesce a spiegareè quello che non ama moltissimo. Quello che ama lo riesce a spiegare meglio. Neglianni sono riuscita a farmi amare anche alcune cose che prima non amavo... però iodevo fare anche l’analisi di me stessa; non posso svicolare rispetto a dei testi o dei temi,perché io non riesco a fronteggiarli; devo anche prepararli e devo anche studiarli perme e così farmeli piacere, perché così arriverò anche a loro.

7. Cosa funziona nella gestione di una classe?

Tab. 71. Ci sono in generale delle buone pratiche, però diciamo che... sempre più negli ultimianni... non abbiamo un sillabario ben preciso a cui attingere. Sappiamo che c’è tuttauna pedagogia; che la pedagogia si aggiorna, che cambia, ma a noi purtroppo la teoriapedagogica non viene molto in aiuto, perché è troppo lontana, distante dalla nostra pra-tica. Noi abbiamo delle urgenze proprio pedagogiche; potremmo anche metterci a leg-gere testi filosofici, pedagogici... ben vengano; magari qualcuno... ecco potrebbe ancheconsigliarmi qualche buon testo, che mi aggiorni su questo, ma la nostra è proprio pra-tica pedagogica e noi dobbiamo cercare nella nostra esperienza e, confrontandoci, pro-prio delle soluzioni pratiche e molto spesso vengono proprio quando meno cel’aspettiamo. Questa cosa mi dispiace, io vorrei avere quel vissuto, appunto tutte quelleteorie a cui attingere: “Ah! In questo caso si fa così!”. Ma non c’è per noi.

2. Stabilire le regole… Con i ragazzi ho sempre un ottimo rapporto, essendo basato sulrispetto delle regole, per cui anche se devo intervenire un po’ con forza, rimproverando,i ragazzi lo accettano, perché sanno che hanno violato delle regole. Quindi non ho pro-blemi con loro; anzi, io con loro ho un ottimo rapporto. Ripeto, io con loro ho un ot-timo rapporto, solo perché basato sul rispetto delle regole: loro lo sanno, per cui si vatranquillamente avanti; è là, dove mancano le regole, che c’è anarchia e, quindi, ancheconflitto.

8. Quali sono i sentimenti e le emozioni che provi più frequentemente nel tuo lavoro?

Tab. 81. Questo è un lavoro che... trovi solo soddisfazioni a livello morale con i ragazzi.2. A livello economico è vergognoso quello che ci danno e non ne parliamo più.3. Be! È ragione di vita, assolutamente. Non potrei... dico una fesseria se dico che nonpotrei fare altro, però mi piace molto, e quindi ci sto bene. Certo quando le cose nonvanno molto bene in classe, quando è difficile la gestione della classe mi sento un pocofrustrata, mi sento anche un poco così, depressa, su quelli che sono i risultati. Vorreiavere risultati più elevati, questo sì;

4. Il mio senso di frustrazione è legato più che altro alla gestione del comportamento,quest’anno, non alla gestione della didattica.

5. Alcune volte mi scoraggia constatare di non riuscire ad arrivare, ad arrivare dal puntodi vista della relazione ad un alunno.

6. Il sentimento che provo spesso è impotenza, perché vorrei maggiore condivisione... unmaggiore atteggiamento di ricerca...

7. Ripenso continuamente a me studentessa, non prescindo mai, anche nel momento incui mi capita di aggredire verbalmente un alunno... se il mio stato d’animo è positivomi blocco e ripenso a me in quel ruolo, e cerco di capire le ragioni di una determinatareazione; alcune volte no, magari ci ripenso a casa, sto male a casa.

8. Temo che la strategia utilizzata la volta precedente possa non essere stata abbastanza ef-ficace e mi piacerebbe anche introdurre, modificare, alcuni aspetti del mio percorso diinsegnamento con l’ausilio dei suggerimenti di altri colleghi.

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9. Dove e come ha imparato quello che fa in classe?

Tab. 91. Ho imparato insegnando e dagli errori che i miei insegnanti hanno fatto con me, in-somma che ho riconosciuto nel tempo.

2. In classe. Anche perché di corsi di aggiornamento ne facciamo tantissimi, però alla finesono tutti teorici; ti aiutano pochissimo e niente; allora a livello pratico imparo conti-nuamente, cerco di auto aggiornarmi soprattutto.

10. Ripensi a quando ha iniziato ad insegnare: è cambiato qualcosa oggi rispetto a ieri?

Tab. 101. Il mio modo di insegnare è cambiato tantissimo: inizialmente era tutta teoria, praticapoca e niente; d’altronde un insegnante impara strada facendo, sulla pelle degli alunni,c’è poco da fare. L’esperienza uno la acquisisce così, è inutile prendersi in giro.

2. Mi rendo subito conto se il ragazzo è teso, magari allora cominciamo a scherzare unpo’, la prendiamo alla larga... invece prima no.

3. Il mio approccio cambia negli anni. Non posso dire che sia sempre lo stesso, altrimentisarei la pietra miliare della didattica.

4. Se devo paragonare quello che faccio oggi, abitualmente, con quello che facevo 10 annifa, 15 anni fa, beh, è parecchio diverso.

5. L’aspetto umano... quello è cambiato... cambio io e, quindi, è evidente che nella rela-zione cambio anche in rapporto ai ragazzi.

6. Avendo acquisito molta esperienza, riesco prima che in passato a raggiungere l’obiettivo:cioè quello di legare, di avere una buona relazione con la classe, di modo che loro miriconoscano come l’insegnante leader positivo.

7. Sicuramente ho acquisito più disinvoltura, ho acquisito più sicurezze, perché adesso, an-che nella selezione degli argomenti, procedo con più... ecco, all’inizio non mi preoc-cupavo molto di analizzare la situazione della classe, di ritagliare la lezione sulle realicapacità della classe; procedevo più sulle mie preferenze, legata anch’io al libro di testo;anche perché nei primi anni si cambia frequentemente classe e, quindi, devi modificareanche il tuo modo di insegnare; nell’arco dell’anno passi dalla prima, la seconda, la ter-za… libri di testo diversi; forse è una esperienza, quella degli anni di precariato, che cirende molto flessibile.

11. Cosa fa durante un Consiglio di classe?

Tab. 111. Ma lì si discute, insomma, nel bene e nel male e poi, alla fine, si accettano le decisioniche vengono fuori a maggioranza... ci sono pochi momenti di incontro, poca condivi-sione.

2. Il collegio dei docenti è il collegio dei docenti presieduto dal dirigente; i lavori sonoguidati dal dirigente; e quindi facciamo i nostri interventi, diciamo quello che pensiamo,ma non fra di noi... io certe volte sarei tentata di fare una raccolta di firme e proporreun collegio senza il dirigente.

3. C’è un ordine del giorno, che viene comunicato a tutti noi, che generalmente hal’obiettivo di deliberare sui finanziamenti... alla fine, si rivela, ancora una volta, una pra-tica burocratica.

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12. Come si svolge l’incontro con i genitori?

Tab. 121. Con i genitori... magari ci fosse collaborazione. Molto spesso i genitori non compren-dono; sono distanti dalla scuola.

2. Ultimamente sono, sempre più, dei problemi di gestione di alunni, che non hanno fa-miglia alle spalle o famiglie distratte, o distrutte, o famiglie che sono proprio comeGiano bifronte: vengono a scuola e presentano un volto, un volto molto per bene, papàe mamma insieme... si presentano molto per benino... attenti al problema... la teoria laconoscono tutta, la pratica no, è quindi è una solitudine questa.

3. I genitori vengono però, poi, il giorno dopo, veditela tu e il mese di marzo... perchénon sono capaci di gestire. Oggi è venuto un genitore che ha preso a schiaffi il figliodavanti a noi... subito dopo si è messo a piangere.... ha detto: “Non sappiamo più checosa fare”. Quindi, quando un genitore ti dice questo, si aspetta che tu glieli risolva iproblemi.

Infine, si riportano alcune stringhe testuali, estrapolate da risposte diverse, nelle quali sievince la presenza di credenze, giudizi e convinzioni profondamente radicati negli inse-gnanti; è proprio da queste credenze che deriva la possibilità di accompagnare gli insegnantinella esplicitazione e de-costruzione delle convinzioni sottese l’agire professionale (ad esem-pio, giudizi “forti” e attribuzione dell’intera responsabilità educativa sulla famiglia, verso laquale si nutrono sentimenti di sfiducia e di conseguente chiusura).

Tab. 13 1. Se si riuscisse a fare tutto in classe, io farei tutto in classe; io me li terrei qui fino allasera, ti assicuro, perché sarebbe molto più produttivo che il lavoro a casa, nel quale noncredo molto;

2. Sono convinto di una cosa: i ragazzi hanno perso il rispetto dei ruoli. L’hanno persoperché in famiglia non c’è rispetto dei ruoli, nella scuola molto spesso salta, allora iobaso il mio insegnamento innanzitutto sul rispetto delle regole e dei ruoli.

3. Secondo me, molti genitori hanno la cattiva abitudine di parcheggiare i figli a scuola ebasta... molto spesso sono inesistenti.

4. I ragazzi stanno a scuola 5-6 ore, dopo, il grosso della giornata lo trascorrono fuori dascuola ed è lì che viene a mancare l’affetto dei genitori, che pensano di comprare questoaffetto con dei videogiochi o dei telefonini, perché i ragazzi li vedi superficiali.

5. I corsi di aggiornamento andrebbero fatti direttamente nelle classi... molto spesso sonoperdita di tempo. Lo dico francamente, perché sono lontani dalla realtà.

3. Alcune risultanze dell’indagine

L’analisi delle risposte mostra innanzitutto una dichiarata marginalità dell’utilizzo della spie-gazione intesa come lectio, come esposizione verbale dei contenuti disciplinari, strategia uti-lizzata per tempi limitati, descritta quasi “in controluce”, in modo generico ed evasivo, e digran lunga trascurata rispetto ad approcci laboratoriali: gli insegnanti partono dal concreto,dalla pratica, dai tempi e dai bisogni degli studenti. Questo dato, oltre ad emergere nelle risposte alle domande specifiche sulla spiegazione,

è confermato anche dalle risposte date per descrivere le attività e le fasi di una lezione:grande attenzione va a quelle iniziali e a quelle conclusive, mentre la fase centrale della le-

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zione non viene quasi mai descritta direttamente e, per molti insegnanti, sembra essere dataper scontato e ovvia. La lezione inizia spesso con il riprendere i contenuti già trattati o anticipati, il verificare

cosa non si è compreso, il “controllare i compiti”, il partire dall’esperienza quotidiana deiragazzi; poi, usando le parole di un insegnante intervistato, “si va avanti” – senza specificarecome – e si conclude con il dare i compiti a casa o con le verifiche finali. Alle domande centrate sulla pratica di insegnamento, i docenti rispondono spesso par-

lando degli studenti, focalizzando attività che vedono come soggetto-agente lo studente, piut-tosto che se stessi (descrivono ad esempio la verifica, centrata sugli studenti, in modo piùarticolato della spiegazione, centrata su se stessi). L’insegnamento, caratterizzato da grandevariabilità e flessibilità, è centrato sulla classe e regolato dai ritmi e le esigenze degli studenti. La scelta degli argomenti si misura sulla situazione e le lezioni vengono diversificate a

seconda della disciplina e della classe. La didattica non è dunque solo trasmissione dei con-tenuti e l’insegnante non è solo il medium tra il sapere e gli studenti.Ma, oltrepassando la “didattica del chiaro” e immergendoci nell’implicito dell’insegnamen-

to, cosa emerge dalle parole degli insegnanti? In primis, il ruolo preponderante della soggettività: gli argomenti più difficili da spiegare

sono quelli che l’insegnante non ama, che ha difficoltà a comprendere o che non conoscebene. Dalle narrazioni degli insegnanti si coglie l’importanza del vissuto personale e il legametra l’Io insegnante e l’Io studente, ossia il ricordo degli errori dei propri insegnanti che riemergenel proprio modo di insegnare.In secondo luogo, in relazione alle emozioni e ai sentimenti più frequentemente provati

nell’insegnamento, i risultati sono contrastanti: da un lato la soddisfazione morale e la gioia,legata del tutto ai successi degli studenti, dall’altro, grande senso di frustrazione o di impo-tenza. Fra le cause dei sentimenti negativi che, fra quelli dichiarati, risultano percentualmenteprevalenti rispetto a quelli positivi, gli insegnanti annoverano lo scarso riconoscimento eco-nomico, le difficoltà di relazione e di gestione del comportamento della classe, e la mancanzadi condivisione: la solitudine del ruolo che, come si vede dalle risposte, si prova soprattutto neiconfronti delle famiglie e dei colleghi. Alcuni insegnanti intervistati esprimono una sorta di “sindrome del deficit”, ossia si per-

cepiscono come privi e bisognosi di “soluzioni pratiche” e “ricette” da cui attingere, lontanidalle teorie pedagogiche e dal mondo della ricerca, così come deficitarii del confronto congli altri colleghi. Una insegnante, parlando della seguente indagine e del ruolo di chi scrive,dice esplicitamente: “Si, mi confronto solo come me stessa e, talvolta, è angosciante. Questa è unaopportunità e mi auguro, ecco anche attraverso te, di potermi confrontare con chi fa proprio il mio lavoro;se tu puoi essere un collante per me va bene”.Tutti gli insegnanti intervistati mostrano inoltre un forte interesse per la relazione con gli

studenti e per le strategie di controllo e di gestione del comportamento (le “managementroutines” nella classificazione di Yinger, ossia le routine utilizzate per stabilire le regole delcontratto didattico e controllare l’ordine in classe) che, a differenza di quelle utilizzate perveicolare contenuti, sono chiaramente esplicitate.Dall’analisi delle interviste si evince la centralità delle dimensioni implicite del sapere del

pratico, una competenza pratica che si trasmette nella pratica, senza accedere al livello del di-scorso e della coscienza, e che rimanda al concetto bourderiano di habitus (Bourdieu, 2005):ciò che, secondo la radice latina habeo, è acquisito, incorporato, ossia l’insieme di strutture,disposizioni e azioni che orientano e rendono stabile l’agire sociale e che, come tali, sonoirriflessi, abituali, dati per scontato. A questo sapere pratico, per gli insegnanti, si unisconocreatività, flessibilità e capacità di adattamento alla classe.

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E veniamo alla prima “domanda della ricerca”: È possibile formalizzare le routine? La riposta è problematica e non certo semplice. Dall’analisi delle risposte, infatti, emerge

una certa difficoltà di descrizione e formalizzazione delle azioni abituali e degli aspetti stan-dard, ovvi e routinari della propria pratica: l’insegnamento viene descritto come qualcosadi complesso e soggetto a innumerevoli variabili, che muta di anno in anno, da classe a classee a seconda dei contenuti disciplinari da insegnare. Le risposte sono spesso generiche, lontanedalla descrizione degli aspetti procedurali dell’azione. Questa difficoltà, come si evince damolte stringhe testuali, è evidenziata dalla ricorrenza della parola “dipende”.La formalizzazione delle proprie azioni, tuttavia, non è del tutto assente dalle descrizioni

degli insegnanti: non segue facilmente a domande dirette (Cosa fai? Come fai?) ma “a poste-riori”, dalla narrazione di un episodio o di un esempio. Sembra infatti che molti insegnantinon abbiano sviluppato una piena consapevolezza delle proprie pratiche professionali, mache necessitino di continui rilanci e inviti a focalizzare un particolare, l’evento unico, l’epi-sodio. Passiamo ora alla seconda “domanda della ricerca”: È possibile classificare le routine?Data la problematicità di formalizzazione delle routine da parte degli insegnanti, la clas-

sificazione delle routine a livello di ricerca non è certo semplice e immediata, ma senzadubbio possibile: occorrono tempi lunghi, restituzioni iniziali (degli obiettivi dell’indagine)e in itinere (delle interpretazioni, da condividere e negoziare con gli intervistati), che per-mettano all’insegnante di ri-pensare riflessivamente la propria pratica. La possibilità di formalizzare e classificare le pratiche routinarie di insegnamento sembra

in qualche modo legata allo sviluppo della riflessività degli insegnanti: da una comparazionedelle interviste è emerso infatti come gli insegnanti di area scientifica, partecipanti ad unaprecedente indagine collaborativa (Morgese, Vinci, 2010)9, abbiano sviluppato una maggioreconsapevolezza delle loro azioni nella loro dimensione procedurale, a differenza del gruppodi insegnanti di area umanistica, i quali hanno invece riportato più frequentemente i “perché”del loro insegnamento, giudizi, credenze e opinioni personali. Capire quanto queste diffe-renze siano il riflesso di differenze nelle didattiche disciplinari, piuttosto che il risultato dellamaggiore riflessività sviluppata da un gruppo di insegnanti durante la ricerca stessa, rappre-senta un’interessante prospettiva di indagine sulla quale si intende tornare a riflettere. Perora, tuttavia, non si può non considerare l’influenza della ricerca e le sue ricadute, in terminidi autoformazione, come una prima risposta alla terza “domanda della ricerca”: È possibileformare gli insegnanti alla riflessività attraverso l’esplicitazione delle proprie routine? Solo all’interno di un autentico rapporto di partenariato Scuola-Università (che sia pro-

grammato, continuo, ri-progettato e alimentato dei contributi degli insegnanti) la ricercadidattica può, usando le parole di Perla, dare piena espressione al suo intento:

«agevolare – con lo stesso insegnante – l’individuazione di un senso intersoggettivo del“non-ancora-noto” delle azioni professionali, facendolo emergere alla consapevolezzaal solo scopo di migliorare l’azione magistrale. Esplicitare per meglio educare, dunque,

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9 Il gruppo di insegnanti di discipline scientifiche è stato coinvolto in una precedente ricerca in cui sonostate somministrate alcune interviste semistrutturate sull’immaginario scientifico, la formazione culturalee le pratiche di insegnamento scientifico, e in cui si è fatto ricorso ad una particolare tecnica di verbaliz-zazione, “le istruzioni al sosia”. L’analisi comparativa dei due corpus testuali (sets) e la suddivisione in nodiconcettuali (code) è stata condotta grazie al supporto del software di analisi qualitativa dei dati Nvivo8. Cfr.http://www. qsrinternational.com/.

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può essere l’assunto di una ricerca il cui scopo risiede certamente nell’analisi degli implicitidelle pratiche di insegnamento ma anche, parimenti, nel tentativo di migliorare le pratichestesse al fine di renderle, sempre più, pratiche “magistrali”: pratiche di eccellenza, sul pianodidattico generale, disciplinare, di cultura dell’insegnamento» (Perla, 2010, p. 90).

Riferimenti bibliografici

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studiDidattica della ricerca scientifica in educazioneTra fragilità, valutazione e proposta

Teaching of science in educationBetween fragility, evaluation and proposal

Le riflessioni che vengono presentate inquesto contributo, vogliono essere l’av-vio di un percorso, con intenzione co-struttiva, di discussione e di definizionedi alcune modalità operative e di alcuneindicazioni metodologiche nel settoredella ricerca empirica in campo educa-tivo. Le domande alle quali occorre darerisposte sono le seguenti: Quali diffe-renze intendiamo stabilire tra metodo eitinerario? Che cosa intendiamo direcon le espressioni “metodologia dellaricerca” o “sapere metodologico”?La realtà educativa è dinamica, com-plessa, imprevedibile; quindi, la ricercain l’educazione ha come funzione quel-la di produrre conoscenze che, in untempo e in uno spazio variabili, per-mettano di trovare soluzioni ai problemiche si pongono. Non si tratta tanto difornire ragguagli sui modelli teorici ometodologici, ma di chiamare a raccoltaquesti ultimi, di rielaborarli per chiarirei problemi e trovarne le soluzioni.

Parole chiave: ricerca in educazione,metodologia della ricerca in educazio-ne, ricerca empirica, ricerca qualitati-va.

The reflections we present in this contribu-tion, are the start of a path with a construc-tive intention, of discussion and of definitionof some operational formalities and me tho -dological indications in the sector of empiricalresearch in education. The questions to whichto give answers are the following: Which dif-ferences do we want to establish betweenmethod and itinerary? What do we mean bythe expressions “research methodology” orby “ methodological knowledge”?Educational reality is dynamic, complex,umpredictable; consequently, research in ed-ucation has as function that of producing acertain kind of knowledge that let in a cer-tain time and space effective solutions to theproblems we meet in the ground. It is notthe matter of theoretical discussions aboutmethodological or theoretical patterns, butof gathering theoretical and methodologicalpatterns in order to clarify the problems andfind the solutions.

Key words: research in education,methodology of research in education,empirical research, qualitative research.

VITO ANTONIO BALDASSARRE

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1. La premessa

Per lo studente universitario che si cimenta nel lavoro finale di tesi, che lo costruisce passo dopopasso, che lo redige nella sofferenza e nel tormento, che lo discute davanti alla Commissione, si trattadi qualcosa che va parecchio oltre un semplice esercizio che sfocia in un voto finale. Si tratta, infatti,dell’impegno di una persona che lascia qualcosa di se stessa in qualche pagina riempita con fatica etrepidazione. Non se ne esce mai indenne, comunque, da un’opera di tal genere che impegna lostudente per parecchi mesi se non per qualche anno.

La tesi di laurea è di per sé, e in maniera contraddittoria, espressione di un rituale accademico,ma nello stesso tempo risponde alle esigenze di una pedagogia che si interroga continuamente ecerca di rispondere alle esigenze di innovazione che giungono dal mondo che ci circonda.

È ovvio che, in ragione di tutto questo, si mette in moto tutta una serie di dispositivi di sostegnoper aiutare e accompagnare lo studente nel suo lavoro di ricerca utilizzando oggi la rete per renderepiù immediata e continua la comunicazione, ma attivando anche insegnamenti teorici di caratteremetodologico, seminari, incontri individualizzati.

Sono questi i pilastri di sostegno di quella che potremmo chiamare, in senso generale, la forma-zione alla ricerca che nell’istituzione universitaria si realizza in termini, potremmo dire, di iniziazione,preparazione, inquadramento, accompagnamento alla ricerca. La diversità dei termini mette in evidenzaun po’ anche la diversità degli obiettivi che ci si propone di raggiungere; manca, tuttavia, qualcosache potremmo, dovremmo chiamare finalità di formazione specifica ed esplicita alla ricerca in campoeducativo, pedagogico e didattico.

Vi sono, di fatto, domande urgenti e significative alle quali occorre dare risposte altrettanto urgentie rilevanti. Una prima domanda è la seguente: fino a che punto il lavoro di ricerca realizzato in fasedi formazione svolge un compito di supporto autentico per una formazione alla ricerca nei nostrisettori finalizzata a competenze attese anche di carattere professionale? (Brophy, Pinnegar, 2005).Non si tratta piuttosto di un mero esercizio iscritto in un corso di studio la cui dimensione peda-gogica non va oltre la durata del corso di studio?

Non accade, quindi, così che si pensi di lasciare nell’implicito l’aspettativa che la realizzazione diun lavoro di ricerca svolto e sostenuto in un ambiente pedagogico, costituisca, di per sé, un appren-dimento che pone le premesse di ricerche future (possibili, se si vuole)? Può una ricerca portata atermine come conclusione di un ciclo di studio conferire all’autore un riconoscimento, uno statutoe una competenza nel campo della ricerca?

Dobbiamo riconoscere che i lavori e le riflessioni sulla formazione alla ricerca si sono limitatifinora o ad aspetti generali riguardanti l’elaborazione della tesi di laurea oppure ad aspetti particolarisu problemi specifici riguardanti la realizzazione della stessa, senza iscriversi più ampiamente nellaproblematica delle relazioni tra lavoro di ricerca di ricerca sulla formazione e di formazione alla ricerca.

2. La Prospettiva didattica: Quale sapere sulla ricerca per quali pratiche formative?

Da quando nelle nostre Università si è diffusa la presenza di insegnamenti pedagogici differenziaticon particolare riferimento ad alcuni settori come quelli di pedagogia sperimentale, di docimologia,di didattica, ecc. sono proliferati lavori a carattere didascalico-didattico, destinati a studenti e forma-tori, che hanno sviluppato essenzialmente gli aspetti tecnici dell’investigazione e della ricerca em-pirico-sperimentale talvolta preceduti da una introduzione di carattere epistemologico.

Tali lavori, più che opportuni senza alcun dubbio, hanno cercato di rispondere alle esigenze deglistudenti e dei giovani studiosi nella loro impresa di ricerca.

Hanno dato risposta alle difficoltà di determinare un oggetto di ricerca, di scegliere una proble-matica pertinente, di condurre un’indagine, di definire e utilizzare uno strumento di indagine, diraccogliere e manipolare dei dati, di redigere un rapporto di ricerca usando un linguaggio appro-priato.

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Sono scaturite da tali esigenze manuali e guide metodologiche che hanno indirizzato il giovanericercatore, passo dopo passo, nell’itinerario della sua ricerca.

La loro caratteristica è quella di presentare sotto forma di itinerari formalizzati, di tecniche eprocedure da riprodurre rigorosamente e che finiscono col variare solo sulla base degli indirizzi epi-stemologici degli autori che le hanno elaborate.

Seguendo itinerari pre-costituiti di tale natura sembrerebbe risolto, in teoria, il problema di comedestreggiarsi.

In effetti, invece, sorgono difficoltà anche nel gioco relazionale tra giovani ricercatori e direttoredi ricerca incaricato di accompagnarli lungo un cammino disseminato di imboscate di ogni genere.

Ritengo sia proprio nell’implementazione delle procedure metodologiche formalizzate che sor-gono gli ostacoli più ricorrenti.

2.1. Breve nota storica

La formazione alla ricerca in generale e in modo specifico nel settore dell’educazione non è untema gran che coltivato nell’ambito della stessa ricerca in educazione.

Un certo interesse in sede internazionale nella promozione della ricerca in educazione si mani-festa negli anni ’60 del secolo scorso. Iniziò in quegli anni un vasto movimento di sviluppo della ri-cerca in educazione come strumento per guidare la politica e la pratica educativa.

Sino a quel momento la ricerca in educazione era un’attività tipicamente accademica sia in Italia,sia negli altri Paesi europei ed extraeuropei finalizzata fondamentalmente agli sviluppi della carrierauniversitaria.

Le esigenze di professionalità nel settore della ricerca in educazione crescono, in quel periodo, inragione anche dello stanziamento di fondi un po’ più consistenti destinati alla ricerca e della nascitadi istituti o centri specifici di ricerca. In Europa, il Consiglio d’Europa istituisce agli inizi degli annisettanta un Comitato per la Ricerca in Educazione che emana delle raccomandazioni tendenti asollecitare la formazione alla ricerca. Negli Stati Uniti l’Office of Education offre sostegno alla for-mazione alla ricerca in campo educativo e la American Educational Research Association (AERA)si è dato come compito quello di promuovere la formazione alla ricerca. In Italia solo a partire daglianni ’80 si avvia un vero e proprio itinerario di formazione alla ricerca con l’istituzione del dottoratodi ricerca.

Ma il termine ricerca nel contesto che ci appartiene può assumere diversi significati. E’ possibileindividuare una linea di demarcazione fondamentale tra le diverse filosofie della scienza.

Nei paesi di lingua inglese e in quelli scandinavi esiste una tradizione dominante che riconoscecome proprio l’approccio empirico-analitico fondato sulla filosofia dell’empirismo logico. In effetti,tale approccio è stato talmente dominante che solo recentemente alcuni studiosi sono diventati piùguardinghi sulla loro appartenenza.

Negli altri Paesi europei sono rintracciabili diversi approcci alla ricerca in educazione. La feno-menologia, l’esistenzialismo, l’ermeneutica, il marxismo sono da considerare forti alternative di pen-siero atte a guidare gli interessi conoscitivi e la metodologia di approccio. Si può dire oggi che talialternative hanno guadagnato terreno anche nei paesi di più stretta tradizione “empirista“ .

D’altra parte, come abbiamo più volte sostenuto (Baldassarre, 1995), anche all’interno della tra-dizione empirico-analitica, il termine ricerca viene usato secondo diversi gradi di rigore che vannodalla sperimentazione controllata con la misurazione quantitativa all’osservazione naturalistica finoall’analisi qualitativa dei dati.

Senza entrare qui in questioni più specifiche, va detto in termini chiari che il termine ricercaqui viene usato sia per la ricerca cosiddetta fondamentale, sia per la ricerca applicata, sia per la ricercaorientata alle conclusioni, sia per quella orientata alle decisioni.

Se, nell’ambito della ricerca qualitativa, noi prendiamo, ad esempio, in considerazione l’uso del-l’analisi narrativa, ci rendiamo conto che, mentre esiste in maniera diffusa, la presentazione di elementinarrativi della storia, delle focalizzazioni del canovaccio come costrutti che possono essere usati perleggere testi di ricerca che utilizzano tale metodologia, e noi ce ne siamo anche occupati (Baldassarre,

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1999), quando il lettore interessato a questa metodologia di ricerca si accosta ai testi con in mentequesti elementi, le domande che presumibilmente si presentano alla sua mente sono le seguenti:Qual è l’aspetto essenziale della storia che è presente nel testo? Chi e che cosa rappresentano i ca-ratteri centrali? A nome e nella prospettiva di chi la storia viene raccontata? In che modo le parti,gli eventi e i significati sono connessi tra loro?

È vero che un progetto di ricerca è qualcosa che va al di là di tali elementi essenziali, ma un’analisi può cominciare con tali focalizzazioni; passando in rassegna elementi specifici, i lettori possonopervenire alla comprensione di aspetti più complessi.

L’esempio preso in considerazione non significa che nell’ambito della ricerca qualitativa non visia una grande varietà di metodologie praticabili per insegnare a fare ricerca secondo questo indirizzo,ma significa che l’uso dei testi narrativi può essere utile per coloro che si accostano alla ricerca qua-litativa.

Vi sono a questo proposito ricerche recenti che possono aiutare a sviluppare formazione alla ri-cerca (Poulin, 2007, pp. 431-458).

Un giovane ricercatore in campo educativo ha bisogno, comunque, di una preparazione su tuttie due i versanti, il quantitativo e il qualitativo.

Conta, a mio avviso, pensare che l’idea guida è quella che corrisponde ad una “indagine rigorosa”come l’hanno, a suo tempo, definita Cronbach e Suppes (1969). Tale indagine non comprende sol-tanto gli studi empirici all’interno di un continuum al quale ho appena fatto riferimento, ma anchele analisi logiche e filosofiche e gli studi storici, purché tutti e ciascuno presentino “i materiali grezziche hanno a che fare con l’ argomento e i processi logici per mezzo dei quali essi vengono rielaboratiper rendere credibile la conclusione che se ne trae” (Cronbach, Suppes, 1969, p. 15).

3. Didattica della ricerca scientifica

Vanno subito dichiarati due nodi problematici che emergono non appena ci si ferma a riflettere suquesto passaggio tematico: da una parte le esigenze scientifiche della ricerca da coniugare con gliimperativi dell’azione educativa; dall’altra, la mobilitazione pluridisciplinare che fa entrare in tensionele discipline di riferimento, pur nella affermazione di una necessità di autonomia.

Poiché manca una posizione epistemologica netta e consensuale su questi due nodi problematici,la dimensione metodologica e, di conseguenza, la pretesa di una didattica della ricerca accusa la suamancanza di una coerenza complessiva e, quindi, mostra la sua fragilità.

Essa appare un po’ come un amalgama di “tecniche”, di “percorsi”, di “metodi”, di “metodolo-gie” prese in prestito alle diverse scienze umane e sociali che sono state mobilitate.

Il sapere metodologico che viene messo insieme e “trasmesso” al giovane ricercatore per la rea-lizzazione della sua ricerca presenta due caratteristiche:

a) è analitico;b) è procedurale.

a) Analitico in quanto somma di metodologie presentata spesso sotto forma tipologica e secondouna valenza dicotomica: vengono presentati in maniera contrapposta i metodi clinici e i metodi spe-rimentali, la ricerca-conoscenza e la ricerca-azione, la ricerca fondamentale e la ricerca applicata ecosì via. Sì, si percepiscono le convergenze possibili tra i diversi metodi, ma essi restano prigionieridi stereotipi che, siccome appartengono a tipologie fondate su criteri di classificazione diversi, ri-mangono poco chiari e scarsamente operativi per giovani ricercatori ai quali si promettono, invece,punti di riferimento e inquadramenti complessivi efficienti.

b) Procedurale in quanto esso appare come un insieme di metodi definiti a priori, successione difasi più o meno rigide che il giovane studioso deve riprodurre per portare avanti la sua ricerca.

Il sapere metodologico che ne scaturisce offre il fianco a più di una riflessione, in quanto è esso

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stesso all’origine delle difficoltà del ricercatore principiante nella sua impresa di ricerca, nel sensoche non permette di superare la logica di un lavoro di ricerca in divenire per soddisfare le esigenzedi una formazione alla ricerca fondata su competenze riconoscibili e riconosciute e nel senso che sirivela poco adatto alla diversità delle ricerche che dovrebbe consentire di mettere in moto.

Prendo in considerazione un triplice ordine di riflessioni.

3.1. L’inadeguatezza di ordine epistemologico

Il ricercatore navigato vive le sue esperienze di ricerca all’interno di un quadro istituzionale escientifico ben definito, è abituato a manipolare concetti e metodi che gli sono familiari e non risentenecessariamente il peso dei vincoli metodologici, né la rigidità dei modelli. Ma è, poi, effettivamentenella posizione corretta per rendersene pienamente conto?. Gli oggetti di ricerca che tratta si situano,di solito, in un preciso campo di studio di sua competenza, corrispondono alle sue espressioni e,proprio per queste ragioni, corrispondono anche agli strumenti metodologici e concettuali che eglimaneggia con abilità. Quando, poi, si rende conto che lo strumento non si piega perfettamente allesue esigenze, si prende la libertà di adattarlo.

Molto diversa è la condizione e la posizione del giovane ricercatore, il cui oggetto di ricerca èinnanzitutto una scelta personale e non si iscrive, quindi, ipso facto in una problematica o in una bat-teria di strumenti metodologici già definite, né si sente autorizzato e competente per correggereuna procedura metodologica che egli sta scoprendo ed è sollecitato a rispettare. Il giovane ricercatoresi imbatte nelle rigidità delle procedure che non sono all’origine necessariamente suscettibili di adat-tamento automatico alle situazioni prese on esame. Il suo candore di neofita rivela quel che gli occhidel ricercatore navigato non sono abituati forse a discernere e cioè, l’inadeguatezza di ordine epi-stemologico tra una concezione procedurale e analitica della ricerca e la diversità delle situazioneeducative.

Se è possibile, in effetti, studiare i fenomeni educativi alla luce di teorie e di metodi predetermi-nati, di illustrare il proprio aspetto di studio da un punto di vista definito a priori e di iscriverne lostudio in un quadro strumentale tipo, non è possibile ridurre la ricerca in educazione a questo tipodi percorsi.

Si sente pure libero il sociologo o lo psicologo di fare riferimento al campo dell’educazione pertestare le sue teorie, di farne un laboratorio di studio, di fare in ultima analisi delle ricerche sull’edu-cazione. Ciò facendo, essi affinano i loro modelli concettuali e metodologici e incrementano il pa-trimonio euristico dei ricercatori per l’educazione.

Ma questi ultimi non possono assoggettare il loro oggetto di ricerca alle esigenze della conoscenzascientifica e renderla suddita di problematiche predeterminate.

La realtà educativa, infatti, dinamica, complessa, imprevedibile, non deve piegarsi alle volontà teo-riche e tecniche di un ricercatore.

La ricerca in l’educazione ha come funzione quella di produrre conoscenze che, in un tempo ein uno spazio variabili, permettano di trovare soluzioni ai problemi che si pongono. Non si trattapiù allora di fornire ragguagli sui modelli teorici o metodologici, ma di chiamare a raccolta questiultimi, di rielaborarli per chiarire i problemi e trovarne le soluzioni.

La ricerca, anche quella empirica, in educazione è nello stesso tempo ricerca sull’educazione ericerca per l’educazione.

Dal punto di vista epistemologico occorre fondamentalmente rispondere alla domanda su qualesia il tipo di sapere metodologico per la ricerca in educazione capace di raccogliere la sfida dellacreatività senza nascondere il bisogno della standardizzazione delle procedure.

3.2. Il problema della finalizzazione

Quando il giovane ricercatore, sia egli un laureando o un dottorando, giunge al termine dellasua ricerca, dopo aver più o meno subito con rassegnazione e diplomazia il rituale della discussione

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e deve decidere di orientarsi verso un lavoro o continuare la sua attività professionale, che cosa se nefa della sua ricerca? In che cosa questa tappa della sua formazione gli sarà stata utile? Quali compe-tenze avrà sviluppato?

Naturalmente ce lo stiamo chiedendo in modo particolare per l’ambito specifico della ricerca incampo educativo.

Sicuramente egli avrà imparato a utilizzare entro un preciso quadro di riferimento alcune pro-cedure definite, ma avrà soprattutto imparato a rispondere alle esigenze del suo “mestiere” di “no-vizio” nell’attività di ricerca. Possiamo onestamente dire che, qualunque sia il settore nel quale sievolverà la sua professionalità (nuova ricerca accademica, ricerca-azione, consulenza, insegnamento,ecc.) è abbastanza improbabile che egli possa sfruttare in modo diretto l’apprendimento realizzato.Fino a che punto, infatti, esiste la probabilità di trovare, soprattutto nel nostro settore, due situazionidi ricerca che possano considerarsi simili al punto da richiedere tecniche e percorsi identici?

In che modo il giovane ricercatore, convinto che la ricerca si conduca in una logica di riprodu-zione di procedure predefinite, riuscirà a dar prova di adattamento e costruire egli stesso la procedurache meglio si confà al suo studio?. Una concezione analitica della metodologia e una logica di for-mazione basata sulla riproduzione mimetica appaiono limitate per le competenze che sviluppanosul piano professionale. Ma il discorso vale ancora di più dal punto di vista umano. Infatti, la logicadi formazione tecnica basata sul mimetismo tende a presentare il metodo come il punto fisso epi-stemologico a partire dal quale è come se si pretendesse di tagliare di netto e separare il vero dalfalso. È come se il giovane ricercatore potesse dire a se stesso: “Se ho rispettato la procedura, la miaricerca avrà rigore scientifico e, di conseguenza, i risultati della mia ricerca saranno validi.

Si tratta di un atteggiamento rassicurante per chiunque rifiuti l’insopportabile e infinita relativitàdella conoscenza.

Ma il ricercatore autentico si troverà sempre di fronte ad un magma metodologico il cui territoriovariegato riduce a niente le pretese illusorie di una verità assoluta.

La metodologia non potrà mai essere questa specie di meta-scienza, giudice imparziale della co-noscenza, la cui padronanza del codice dia la chiave della verità. Già alcuni anni fa, esplorando unqualche circuito virtuoso (Baldassarre, pp. 27-38) per la ricerca in educazione, individuavo nel “met-tersi in ricerca” l’opportunità specifica di “formazione finalizzata alla promozione delle capacità difar abitare insieme il locus della Ricerca e il locus dell’Azione”. Il significato è quello di impegnarei giovani ricercatori a interrogare gli itinerari muniti di segnali (di boe), di paletti, di confini che in-dirizzano verso la ricerca della verità, è quello di impegnarli sulla via della relatività, e, quindi, dellatolleranza. Il giovane ricercatore viene indirizzato così verso la formazione di una professionalità inuna prospettiva di adattabilità, verso la formazione di un uomo che sfugga a ogni dogmatismo: questipenso che siano i punti nodali per la realizzazione di una ricerca in formazione e di una formazionealla ricerca, che prenda forza da un accompagnamento teorico e pratico.

3.3. Quali tracce del travaglio di ricerca nei prodotti pubblicati?

Siamo di solito abituati a leggere degli ottimi lavori di dottorato, delle tesi non meno degne diattenzione e che sono stati svolti secondo procedure conformi a canoni metodologici indicati. Ilche costituisce senza dubbio la prova che certe situazioni di ricerca si iscrivono pienamente in unaprocedura determinata e che si dimostra ben adattata, ma non dimostra per niente che la sommadelle procedure possa coprire l’insieme delle situazioni di ricerca. Se quella scarpetta è riuscita arendere celebre Cenerentola, essa non è assolutamente un modello universale. Quante altre ragazzehanno cercato di farci entrare il loro piede!

Analogamente, quanti ricercatori fanno dei contorsionismi senza effetto per entrare nel noverodei riferimenti metodologici imposti dal successo di quelli che li hanno utilizzati!

Che cosa effettivamente conosciamo dei processi di ricerca reale, degli itinerari effettivamenteseguiti dai ricercatori, ivi compresi quelli il cui prodotto finale attesta una conformità fedele ai per-corsi canonici?

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Quanti di questi prodotti nascondono le oscillazioni vissute dal ricercatore, i suoi dubbi, i suoiincessanti movimenti di andata e ritorno, un cammino caotico, esitante dietro l’ortodossia di una li-nearità di facciata?

Sicuramente esiste una differenza sostanziale tra l’itinerario reale del ricercatore e il percorso chepoi invece propone al lettore, tra la logica dell’indagine fatta di aggiustamenti e di incertezze e unalogica di restituzione che si presenta con i caratteri della persuasività e del protocollo.

In ultima analisi, gli studi standardizzati, le spiegazioni metodologiche collocate per tradizione inapertura di tesi o di trattazione riusciranno a convincerci che una concezione analitica della meto-dologia sia operante per l’insieme delle situazioni di ricerca e per coloro che sono nella fase dell’ap-prendimento della ricerca? Quanti di costoro vivono la loro ricerca come il percorso del combattentein cui la maggiore difficoltà è proprio quella di riuscire a iscriversi in un quadro imposto, per decidersifinalmente a mettere la targa di un metodo ortodosso su un percorso che gli rassomiglia solo dalontano? Quante contorsioni semantiche per realizzare quel grande scarto metodologico tra ciò cheè stato realmente fatto e ciò che viene ritenuto utile scrivere del proprio tragitto?

Ebbene, i percorsi sono sempre sinuosi e nessun metodo tipo prêt-à-porter permette di program-marli alla lettera. Se vogliamo esprimere in modo radicale il nostro pensiero alla fin fine nessuno dinoi che cerca di insegnare a fare ricerca in campo educativo ha visto se stesso davvero alle prese conun insegnamento vero e proprio su come fare ricerca e questo “noi” include anche chi sta scrivendoora intorno a questo problema e, credo, che questo valga per chiunque. Tutti noi abbiamo imparatoa fare ricerca “lungo il percorso”, lo abbiamo imparato facendo e… continuiamo ancora ad impa-rarlo.

La ricerca non è quel lungo fiume tranquillo che pretende di farci leggere il resoconto del suoautore.

4. Nota conclusiva

Le riflessioni che ho presentato in questo breve contributo, vogliono essere l’avvio di un percorso,con intenzione costruttiva, di discussione e di definizione di alcune modalità operative e di alcuneindicazioni metodologiche nel settore della ricerca empirica in campo educativo. Alcune domandealle quali occorre dare risposte le poniamo fin da ora. Quali differenze intendiamo stabilire tra me-todo e itinerario? Che cosa intendiamo dire con le espressioni “metodologia della ricerca” o “saperemetodologico”? Sono queste alcune delle domande alle quali cercare di dare delle risposte.

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studiLa creatività come innovazione personale:teorie e prospettive educative

Creativity as a personal innovation:theories and educational perspectives

È presentato lo stato dell’arte sulle teo-rie e le ricerche sulla creatività. Dopoaver delineato una mappa dei diversiapprocci, si ripercorrono le tappe prin-cipali degli studi – soprattutto di matri-ce pedagogica e psicologica – e sianalizzano alcuni modelli noti. Siccomela letteratura scientifica in materia si èarricchita ultimamente di contributi diambito sociologico e organizzativo, alfine di trovare un minimo comun de-nominatore si propone una griglia dianalisi comparativa degli indici di crea-tività e dei fattori che ne inibiscono ilpieno sviluppo, elaborata confrontando18 autori che hanno studiato la creati-vità in ambiti diversi. Una volta chiaritii diversi aspetti del costrutto “creativi-tà”, si affronta il problema pedagogicodi come sviluppare la capacità creativadelle persone in tutte le fasi della lorovita. Educare e formare alla creatività sipuò e si deve, a tutte le età; per riuscirci,occorre sfatare i ‘falsi miti’ della creati-vità e restituire un senso etico e relazio-nale a questo termine tanto abusato.

Parole chiave: creatività, educazionealla creatività, innovazione personale,università

This paper aims to provide an analysis ofthe state of the art theories and studies ofcreativity. After outlining a map of the dif-ferent approaches, it covers the main steps ofthe history of studies – especially the peda-gogical and psychological ones – and it an-alyzes some already known models. Theliterature on creativity has been recently en-riched by the contribution of sociological andorganizational context and in order to finda lowest common denominator, it is proposeda grid of comparative analysis of the attrib-utes of creativity and factors inhibiting itsfull development, drawn from a comparisonof 18 authors who have studied creativity indifferent fields. What emerges is a kaleido-scopic vision of the phenomenon, which isfurthermore investigated in the light of somebrilliant insights of Italian educational re-search. It is important to educate for creativ-ity, at all ages. It is therefore necessary todebunk the ‘myths’ of creativity and returna sense of ethics and relationship that termmuch abused. Only in this perspective it ispossible to speak of education for creativity.

Key words: creativity, education forcreativity, personal innovation, univer-sity

MARIA CINQUE

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1. La deriva semantica del termine

«La creatività sfida una definizione precisa» affermò lo psicologo Paul Torrance (1988, p. 43).Il termine non possiede infatti un significato chiaro e univoco; è una voce impiegata inmolteplici contesti e, molto spesso, la sua area semantica è difficile da circoscrivere perchési sovrappone a quella di altre parole come fantasia, immaginazione, innovazione. Se poi cisi riferisce alle teorie e alle ricerche sulla creatività, in senso stretto, si può scoprire che il si-gnificato e l’impiego plurimo del termine non scompare e la ricerca scientifica è ricca disfaccettature e angolature con cui è possibile affrontare il tema della creatività.

Confrontando in senso diacronico le definizioni proposte da alcuni dizionari italiani sipercepisce come l’evoluzione degli studi sulla creatività, avviati a fine Ottocento ma cheebbero un notevole impulso a partire dagli anni Cinquanta del 20° secolo – negli Stati Unitie poi in Europa – abbia modificato, anche in Italia, il modo di intendere e concepire il pen-siero creativo. Questo mutamento è stato frutto di un vasto dibattito scientifico che ha coin-volto esperti di varie discipline: neuroscienze, psicologia, filosofia, pedagogia, sociologia,economia, comunicazione.

La dilatazione del concetto di creatività a cui si assiste ripercorrendo la storia degli studiin materia può lasciare sbalorditi. Da dote innata ad abilità da acquisire, da momento stra-ordinario e/o privilegio di poche persone ‘geniali’ a proposta educativa globale per attuare,a livello individuale, un cambiamento che aiuti la persona a essere se stessa e, a livello sociale,l’ideale di un umanesimo autentico, ovvero di una cultura fondata sull’uomo e che si ispiraalla tradizione cinquecentesca europea anche negli studi americani.

Etimologicamente, il termine creatività deriva dal latino creare, verbo dotato di una radice(KAR), che si ritrova nel sanscrito *KAR-OTI (creare, fare) e *KAR-TR (colui che fa, crea-tore), nel greco KRAINO (creo, produco, compio), KRANTOR e KREION (dominatore, epropriamente colui che fa, che crea) e KRONOS (il creatore, il tempo, padre di Giove).

La nozione di “creazione” appartiene in prima istanza al linguaggio della Rivelazionebiblica (La Genesi inizia infatti con l’espresione “Bereshìt Barà Eloìm”); nessun altro popoloprima di quell’ebraico possedeva il verbo “creare” né tanto meno il concetto di creazione.L’idea di creatività come attributo di un essere umano nasce solo nel Novecento perchél’atto creativo è stato a lungo percepito come caratteristica precipua ed esclusiva della divi-nità: «Che l’uomo potesse essere creativo nel pensiero e nell’azione era considerato blasfemofino a qualche secolo fa» (Bendin, 1990, p. 13)1. Per questo motivo molti ancora oggi, nelriferirsi all’uomo, preferiscono usare il termine “originalità” piuttosto che “creatività”.

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1 Esistono alcuni tratti comuni, quasi ‘universali’, come appare dal confronto tra i diversi miti di creazionee dall’uso di metafore presenti in varie lingue. Widmann (2004) prendendo in esame i diversi miti dellacreazione – dalla tradizione giudaico-cristiana, da quella babilonese, da quella egiziana, eschimese ecc. –estrapola alcuni elementi narrativi cui le diverse culture attribuiscono valore simbolico: l’atto creativo av-viene nel buio ed è anzitutto un’illuminazione, ha il potere di fare luce, di rendere le cose più chiare (co-scienti); l’atto creativo è erompente e dirompente, a rappresentare il carattere improvviso e compiuto dellacreazione; il risultato dell’atto creativo è sempre una trasformazione del caos in cosmos, un passaggio dalivelli di conoscenza-coscienza approssimata, nebulosa e indifferenziata verso livelli di conoscenza-coscienzapiù elevata, integrata e ordinata.Analogamente, Sassoon (1994, pp. 163-164) sottolinea come nella lingua di tutti i giorni siamo abituati autilizzare alcune metafore per parlare del fenomeno della creatività: la metafora della luce (oltre alla classicafigura stereotipata della ‘lampadina’, basti pensare a locuzioni come: portare alla luce, rendere chiaro, gettareluce, teoria illuminante ecc.); la metafora della procreazione o della gestazione e del parto (per es: concepire/generare/partorire un’idea; periodo di incubazione ecc.); la metafora del mosaico (che pone l’accento sul

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È interessante seguire l’evoluzione del significato dell’aggettivo creativo. Così come è ac-caduto al corrispettivo francese, l’antico aggettivo ha trovato nel 20° secolo una nuova vitalitàed estensione per influenza dell’inglese creative, che indica l’uso di quelle competenze (skills)necessarie a produrre qualcosa di nuovo o un lavoro artistico (Oxford Dictionnary, 2002).Grazie a queste contaminazioni l’aggettivo creativo a partire dagli anni Settanta del secoloprecedente si è caricato di connotazioni che lo rendono sinonimo di ‘produttivo’, ‘inventi-vo’, ‘fantasioso’ e, soprattutto, si è trasformato in un sostantivo che riguarda una specificaattività professionale (il dizionario Zingarelli indica, per la prima volta nel 1970, il creativo, inteso come figura professionale: «chi elabora annunci pubblicitari»). Oggi il termine vieneimpiegato più estesamente per definire diverse professionalità, non solo del settore del mar-keting ma anche in quello della moda, del design in generale

In alcuni contesti, però, l’aggettivo creativo ha assunto anche un significato deteriore.Ciò è accaduto perché si è prodotta nel linguaggio comune una deriva del termine creativoche ha portato a qualificarlo come contrario alla logica e alla razionalità (da qui alcune lo-cuzioni negative come finanza creativa, etica creativa).

La deriva semantica è stata tale che, come osserva Bartezzaghi (2009, p. 9), nessuno ose-rebbe oggi definire creativo un artista: «Il creativo più creativo dovrebbe essere l’artista, macuriosamente è raro sentire applicare il sostantivo ad artisti affermati nel campo delle artidiciamo maggiori. Dire che Eugenio Montale o Federico Fellini o Carmelo Bene siano‘creativi’ parrebbe una diminuzione piuttosto che un elogio. Creativo si applica molto me-glio ad aspiranti artisti, artefici che personalizzano la propria opera fino a sperare che glialtri si accorgano delle loro qualità artistiche» (Bartezzaghi, 2009, p. 9).

La creatività non è quindi più considerata come qualcosa di eccezionale, ma come unelemento quotidiano nella vita di tutti individui, risorsa fondamentale a cui attingere nellediverse occasioni della vita e del lavoro. In una prospettiva più ampia la creatività è altresìconsiderata un patrimonio comune che può essere sviluppato al fine di una miglior econo-mia individuale e sociale. Da qui il valore attribuito a tutti gli sforzi per rendere più creativiil comportamento, il pensiero, nonché l’impegno allo sviluppo e alla stimolazione di tuttele potenzialità individuali.

2. Il dibattito scientifico

I primi studi sulla creatività risalgono alla seconda metà dell’Ottocento e si concentranosulla base biologica ed ereditaria del talento. Francis Galton, cugino di Charles Darwin, cercòdi dimostrare che le variazioni che si potevano osservare nell’intelligenza umana erano ilprodotto di processi biologici geneticamente determinati (Hereditary Talent and Character,1865). Il tratto creativo, caratteristica individuale del genio, fu anche associato alla parte ir-razionale della psiche, alle sue pulsioni, ponendo sempre più l’enfasi sulla somiglianza conla malattia mentale. Esemplare in questo senso è il contributo di Lombroso del 1894 – Genioe follia – in cui l’uomo di genio, il criminale ed il folle sono accomunati dal loro essere ‘ec-cessivi’ rispetto alla popolazione generale.

Pur partendo dallo studio delle cause genetiche della creatività, all’inizio del Novecento

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carattere combinatorio di ogni procedimento in cui, a partire da elementi preesistenti, si perviene a qualcosadi nuovo); la metafora del labirinto (da un ‘groviglio’, da un ‘ginepraio’ che rappresenta l’impasse in cui sitrova bloccato il pensiero comune, l’idea creativa è quella che consente di imboccare la via d’uscita, unsentiero mai esplorato prima).

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alcuni studiosi cominciarono a valutare la possibilità di tener conto di altre determinantioltre alla base biologica. Nel 1920 Lewis Terman dell’Università di Stanford diede avvio aun programma estensivo di ricerca per stabilire i fattori che influenzano la creatività e il ta-lento. Nel 1925 pubblicò il primo volume della sua opera Genetic Studies of Genius, un’in-dagine basata su un campione di 1300 bambini ‘dotati’ intellettualmente, che dimostravache non esiste un legame diretto tra quoziente intellettivo e successo in età adulta. Questaconclusione fu supportata anche dallo studio retrospettivo sul genio effettuato da un’assi-stente di Terman, Catherine Cox, che nel 1926 pubblicò The Early Mental Traits of ThreeHundred Geniuses. Cox scoprì che i successi di persone che avevano dato un contributo im-portante nei diversi campi della cultura, della politica, dell’arte, della scienza non dipendevanotanto dal loro QI, ma “dalla persistenza di motivazione e impegno, fiducia nelle proprie ca-pacità e grande forza di carattere” (Cox, 1926, p. 18).

A dispetto di queste prime evidenze, per un lungo periodo la creatività fu identificatacon l’intelligenza e solo negli anni Cinquanta del 20° secolo le ricerche in questo settoreebbero una spinta decisiva grazie allo psicologo statunitense Joy Paul Guilford che nel 1950,in qualità di presidente uscente dell’American Psychological Association, lanciò un appelloper lo studio della creatività, sottolineando l’esigenza di un’apertura di interessi su questoparticolare campo d’indagine, allora molto trascurato dalle ricerche psicologiche Con il pas-sare del tempo e lo sviluppo della ricerca scientifica, la letteratura sull’argomento si è arric-chita di nuovi contributi da parte di varie discipline e il tema creatività è stato indagato damolteplici punti di vista.

3. Le difficoltà e i diversi approcci

Più di dieci anni fa Sternberg (1999, pp. 4-8) compì una ricognizione completa sul panoramadegli studi della creatività e osservò che storicamente questo filone di ricerca aveva dovutoaffrontare diversi ostacoli, dovuti probabilmente a un ampio retaggio culturale che conside-rava la creatività come qualcosa di ‘mistico’, di non spiegabile. I principali impedimenti allericerche scientifiche sulla creatività sono stati identificati da Sternberg anche nel fatto chequesta ha rappresentato per anni un ambito periferico rispetto ai principali interessi dellapsicologia, focalizzati soprattutto sullo studio dell’intelligenza e sulla sua misurazione (QI);inoltre la creatività ha risentito della difficoltà di definizione di criteri di base e di metodidi misurazione; infine, hanno prevalso nella pratica approcci unidisciplinari, talvolta preva-lentemente applicativi (creatività come Problem solving), o con intento dicharatementecommerciali.

Simonton (1984, p. 76), riprendendo una griglia di analisi della creatività elaborata daRhodes (1961) – le cosiddette “4 P” della creatività – raggruppa le definizioni in quattrocategorie:• processo: raggruppa tutte le definizioni che si basano sulla descrizione di un percorso men-

tale e del pensiero o di un’analisi dell’informazione; questo tipo di ricerca è riconducibilead autori come Koestler (1964), Ghiselin (1952) e Rossman (1931);

• prodotto: intendendo come tale non solo qualcosa di tangibile, ma anche un’idea, una teo-ria, che saranno riconosciuti come creativi se soggetti in qualche modo esperti della ma-teria li riterranno tali; in questa categoria si riconoscono autori come Mackinnon (1962)e Barron (1969);

• persona: comprende tutte le definizioni e le analisi che provengono dagli psicologi della

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personalità; a questo filone appartengono la maggior parte degli autori, in primis Guilford(1950) e Cropley (1967);

• persuasione: questa è la visione in cui si riconosce lo stesso Simonton, ritenendo che unindividuo possa dirsi creativo nel momento in cui sia in grado di impressionare gli altricon la sua creatività e la sua leadership. In altri modelli analoghi la quarta P sta per Place, posto e sull’analisi del contesto si è

concentrata la ricerca più recente, come vedremo, tanto che accanto al modello delle 4 P èstato elaborato (Florida, 2002) un modello delle 3 T (talento, tolleranza, tecnologia) per mi-surare la creatività delle città.

Melucci (1994, pp. 14-15) afferma che nelle definizioni scientifiche di creatività si pos-sono distinguere tre diversi piani:• carattere genetico, relative alle origini della funzione, della capacità o dell’atto creativo;

queste definizioni si concentrano sui modi di formazione e di attivazione della creativitàchiedendosi da dove venga o come nasca e mettendo l’accento, a seconda delle teorie,sull’atto creativo o sulla capacità come potenziale o sulla funzione della mente (Barron,Harrington, 1981);

• aspetto morfologico, si occupano della struttura dell’esperienza creativa e la attribuisconopoi a certe funzioni e qualità della mente (Koesteler, 1964; Matussek, 1974; Arieti, 1979;Rothenberg, 1979);

• il terzo tipo, più recente, si occupa della creatività prevalentemente dal punto di vista delprocesso o delle abilità, cioè delle operazioni creative e del loro prodotto (Guilford, 1950,1970; Rubini, 1980; Weisberg, 1986).Queste tre prospettive non sono in sé contraddittorie ma riguardano diversi stadi di analisi

che sono potenzialmente complementari e implicano modelli conoscitivi diversi.

Anche Magyari-Beck (1990) ha sviluppato una tassonomia tridimensionale per classificarele ricerche sulla creatività, che è stata ulteriormente raffinata da Wehner et al. (1991). Leprima dimensione è l’aspetto preso in considerazione: il tratto, il processo o il prodotto. Laseconda dimensione è il livello sociale: individuo, gruppo, organizzazione o cultura. La terzadimensione riguarda l’approccio e può essere suddivisa in due sottodimensioni: empirico versusteorico, qualitativo versus quantitativo. Dalla combinazione di questi approcci scaturisconoquattro categorie di studio: empirico quantitativo, empirico qualitativo, teorico quantitativo,teorico qualitativo (Wehner et al., 1991, p. 262).

A nostro avviso il vasto dibattito scientifico potrebbe essere organizzato intorno a tremacroaree: • gli studi e le ricerche di ambito psicologico e pedagogico, che includono varie correnti di

pensiero (psicoanalisi, comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo), con diversi tipidi modelli (fattoriali, a fasi, multidimensionali ecc.) e differenti approcci (psicometrico,didattico, sperimentale ecc.);

• l’analisi psico-sociale che ha indagato l’attività creativa in relazione all’ambito e al contestodi realizzazione e che si è occupata anche dei meccanismi di comunicazione e diffusionedell’innovazione;

• le discipline legate all’organizzazione aziendale, che hanno analizzato le figure creativenelle scienze del management e della comunicazione, con approccio prevalentementeempirico.

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Ciascuna disciplina ha approfondito un determinato ambito come ha dimostrato unostudio, di natura qualitativa e con intenti tassonomici, compiuto nel 2009 da Kahl, Hermesda Fonseca e Witte sugli abstract delle dissertazioni contenute nel database on-line Disser-tations Abstract (PQDT, Pro Quest Dissertation and Theses), basandosi sulla tassonomia di Ma-gyari-Beck (1990) e Wehner et al (1991), sopracitata. I risultati di questo studio hannodimostrato che creatività e innovazione non sono immediatamente sovrapponibili e che cisono discipline che si occupano maggiormente della creatività (soprattutto psicologia e pe-dagogia), mentre altre si concentrano sull’innovazione (scienze sociali, ingegneria, organiz-zazione aziendale ed economia). Lo studio del tratto creativo (ovvero delle qualità individualidella creatività) è privilegiato nelle ricerche di matrice pedagogica e psicologica; quello delprocesso creativo è adottato negli studi interdisciplinari e in quelli delle scienze sociali; lo studiodel prodotto creativo è più frequente nelle ricerche di organizzazione aziendale ed economia.Queste ultime, inoltre, prediligono l’analisi del livello organizzativo, mentre tutte le altre di-scipline si concentrano maggiormente sull’individuo e sul gruppo. La maggior parte deglistudi recenti si avvale di un approccio empirico (sia qualitativo sia quantitativo), mentre nelpassato prevaleva l’interesse teorico.

Fig. 1 – Una mappa delle diverse classificazione degli studi sulla creatività

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L

tra di loro. Il p

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4. Le interpretazioni

Diverse sono le spiegazioni della creatività a seconda del background dello studioso che lainterpreta.

La creatività è stata interpretata in prospettiva psicanalitica2 come la capacità di far ricorsoa contenuti inconsci o preconsci, come sublimazione o ‘deviazione’ della libido, ‘compen-sazione’ di desideri insoddisfatti o capacità di elaborare conflitti e difficoltà interne, trasfor-mandoli in opportunità di crescita personale. Per gli psicologi della Gestalt, il pensiero creativo(o pensiero produttivo) è caratterizzato dall’istantaneità della risposta adeguata chiamata in-sight, intuizione. L’attenzione alle strutture è ciò che permette al pensiero produttivo di ope-rare una ristrutturazione ovvero di cogliere nuove proprietà degli elementi del problema, iquali vengono così pensati e utilizzati in nuovi ruoli o in diversa prospettiva (Wertheimer,1945)3.

La psicologia comportamentista spiega i processi psicologici come un insieme di associazionitra stimoli e risposte con il supporto di rinforzi, partendo dall’assunto per il quale l’azioneumana è governata essenzialmente da fenomeni esterni. All’interno di questa corrente glipsicologi associazionisti (Mednick, 1962, pp. 220-232)4 forniscono una spiegazione della crea-tività in termini di particolari associazioni tra stimoli e risposte, caratterizzati dal fatto chegli elementi vengano correlati in modo inusuale. La creatività è stata interpretata anchecome bisociazione (Koestler, 1964), l’operazione che riunisce due schemi di riferimento, con-testi associativi o strutture di ragionamento che sarebbero normalmente considerate incom-patibili; l’individuo creativo è pertanto colui che riesce a operare contemporaneamente supiani cognitivi diversi e a metterli poi in contatto tra di loro. Il pensiero creativo è stato de-finito come pensiero ‘bifronte’ o ‘gianico’ (Rothenberg, 1979), derivando il termine dalla divi-nità che guardava in due direzioni grazie ai suoi volti opposti; i prodotti artistici e scientificisi determinerebbero quindi nella combinazione consapevole di termini antitetici e appa-rentemente paradossali. Forma recente di associazionismo è il neo-associazionismo che con-sidera fattori essenziali del pensiero l’abitudine, l’esperienza passata e la ripetizione5.

In netto contrasto con le teorie behavioriste si pongono le teorie cognitiviste: l’individuocessa di essere considerato un elemento passivo il cui comportamento è plasmato dall’am-biente che lo circonda, per divenire presenza attiva. Questo filone di ricerca ha portato al-l’identificazione della creatività con la soluzione di problemi. Gli studiosi cognitivisti(Guilford, 1950; Torrance, 1977; Pagnin, Vergine, 1974; Rubini, 1980). hanno prodotto ungran numero di mappe indicanti le abilità cognitive ed i costrutti che sorreggono l’attivitàcreativa (cfr. Tab. 1). Un ruolo importante viene giocato dalla metacognizione: l’attività di ri-

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2 Tra gli esponenti più illustri di questa corrente: Freud, Junk, Rank, Klein e, più recentemente, Segal, Kris,Kubi e Arieti.

3 Per Wertheimer per esempio, la creatività “è la melodia al di sopra delle singole note.4 Per Mednick, proprio nella capacità associativa delle idee risiederebbe la caratteristica del pensiero creati-

vo.5 Weisberg (1986) sostiene che occorre pensare al soggetto creativo come ad un individuo che, di fronte al

problema in cui è impegnato, cerca di recuperare informazioni dalla propria memoria e di immaginarepossibili soluzioni alla luce di alcuni criteri definiti che egli (o il contesto in cui opera) si è dato. La creativitànon ha quindi nulla di diverso rispetto al pensiero quotidiano, dato che basato sulla continuità con il passato.Un’interpretazione ‘continuista’ della creatività intellettuale è sostenuta anche da Gruber (1989) per ilquale non esistono illuminazioni improvvise ma gli insight hanno una loro microgenesi conoscibile e ri-conducibile a sub-mete, false partenze e rinvii. Non esistono rotture radicali ma amplificazione di piccoledifferenze.

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6 Rogers (1954) ritiene che la molla principale della creatività sia la tendenza insita nell’uomo ad attuare leproprie potenzialità. Per Maslow (1962) la creatività è correlata all’autorealizzazione dell’essere umano ot-tenibile solo con il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (la celebre ‘piramide’).

7 Per i costruttivisti l’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione, l’esperienza e la manipolazione dioggetti e materiali. Già Vygotskij (1933) aveva posto l’accento su un’appropriata interazione fra il fanciulloe il gruppo degli adulti e/o di pari che favorisca, arricchisca ed espanda le possibilità creative. In seguito,Piaget (1972), basandosi sulla sua teoria degli stadi di sviluppo del pensiero, stabilisce un collegamento di-retto fra sviluppo del pensiero creativo ed apprendimento attivo, che comporti attenzione agli interessi,propensioni e caratteristiche del fanciullo.

flessione e riconoscimento dei propri processi cognitivi. La creatività si sviluppa e si accresceattraverso diversi momenti osservativi e auto-osservativi.

In una visione personalista (Rogers, 1954; Maslow, 1962) l’attitudine creativa viene consi-derata come l’espressione del perfetto funzionamento dell’individuo, dovuto al raggiungi-mento di un equilibrio stabile tra le varie componenti comportamentali. Si tratta di unacorrente che ha tentato di sottrarre la dimensione creativa dalle associazioni con la sofferenzae la patologia tipiche delle interpretazioni ottocentesche del genio creativo6.

La teoria costruttivista mette in relazione lo sviluppo del pensiero creativo con la necessitàdi un’attiva partecipazione nel processo stesso7.

5. I modelli

Per spiegare il meccanismo che regola o da cui ha origine la creatività sono stati elaborativari modelli, tra cui quelli fattorialisti (di orientamento cognitivista), che considerano il pen-siero creativo un’unità articolata, scomponibile in parti chiamate fattori e individuabili at-traverso indagini e analisi statistiche. I modelli più noti sono quelli di Thurstone, Guilford,Torrance e di De Bono (Tab. 1).

Thurstone (1941) 7 attività intellettive primarie - visualizzazione di figure geometriche in diverse posizioni dello spazio (S);

- rapidità nel calcolo numerico (N); - rapidità nella percezione dei dettegli (P); - capacità di cogliere idee e significati (V); - fluidità verbale (W); - memoria di parole, lettere e numeri (M); - abilità intuitiva (I)

Vernon (1960) Idem una gerarchia, al vertice della quale si troverebbe un’attitudine generale che comprende un’abilità verbale-scolastica e una pratica operativa

Guilford (1956) un modello di “struttura dell’intelletto”

un cubo formato da 120 elementi, disposti su tre assi: - le operazioni (cognizione, memoria, pensiero divergente,

pensiero convergente, valutazione); - i contenuti (figurale, simbolico, semantico, comportamentale); - i prodotti (unità, classi, relazioni, sistemi, trasformazioni,

implicazioni). Torrance (1977) Componenti del processo

creativo - originalità ( unicità) - fluidità (quantità) - flessibilità (cambiare direzione) - elaborazione (scegliere ed elaborare)

Edward De Bono (1991)

riprende la distinzione di Guilford tra convergenza e divergenza

- pensiero verticale (fondato sulla programmazione lineare di una serie di gradini logici da affrontare uno dopo l’altro)

- pensiero laterale (basato sulla ricerca deliberata di nuove prospettive, nuovi punti di vista).

autore della T

competenza in un settore, sono in grado di

e

A

Tab. 1 – Abilità cognitive e costrutti che sorreggono l’attività creativa

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In diretto contrasto con l’idea di una creatività come tratto generalizzato da misurareutilizzando particolari test psicometrici (diversi da quelli per il quoziente d’intelligenza) èl’idea di Gardner (1983; 1993). Per il noto autore della Teoria delle intelligenze multiple, chedistingue una serie di abilità intellettive specifiche per diversi campi, la creatività dipendeessenzialmente dall’incontro tra il tipo di intelligenza individuale prevalente e le condizioniculturali e sociali che permettono il suo manifestarsi. La creatività si esprime in una disciplinao in un settore disciplinare, in relazione alla dominanza di una o più intelligenze. Creativisono coloro che, avendo raggiunto un alto grado di competenza in un settore, sono in gradodi elaborare soluzioni nuove.

Secondo gli studi di Sternberg e Lubart (1996), la creatività consiste fondamentalmentenella “capacità di produrre qualcosa di nuovo (originale, inatteso) e appropriato (utile, adat-tabile al compito prefissato)”. I due elaborarono una teoria nota come Investment theory ofcreativity (Sternberg, Lubart, 1991; 1995; Sternberg, 2006).

Alcuni studiosi, a partire da Wallas (1926), hanno cercato di comprendere il processocreativo scomponendolo in distinte fasi. Nella Tab. 3 sono riportati alcuni dei modelli discomposizione del processo creativo.

Tab. 2 – Il processo creativo

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Wallas (1926) 4 fasi preparazione, incubazione, illuminazione e verifica Rossman (1931) 7 fasi osservazione di un bisogno o di una difficoltà; analisi del bisogno;

rassegna di tutte le informazioni disponibili; formulazione di tutte le soluzioni oggettive; analisi critica di tutte queste soluzioni per ciò che riguarda i loro vantaggi e svantaggi; nascita della nuova idea (invenzione); sperimentazione per saggiare la soluzione più promettente, e selezione e perfezionamento del prodotto finale attraverso alcuni o tutti i precedenti gradi.

Osborn (1953) 7 stadi orientamento, preparazione, analisi, ideazione, incubazione, sintesi, valutazione

Taylor (1959) 5 tipologie - espressiva, in cui l’originalità e la qualità del prodotto sono irrilevanti (ne sono esempio i disegni infantili); - produttiva, che si manifesta in rappresentazioni realistiche e implica il controllo e la padronanza della situazione (ne sono esempi i giochi dei bambini più grandi); - inventiva, che produce oggetti originali e ingegnosi e implica flessibilità nel percepire relazioni insolite e collegare elementi prima separati; - innovativa, che produce modificazioni significative nei principi o nei fondamenti di una disciplina o di una corrente artistica (si tratta di una forma di creatività posseduta da pochi individui; - emergente, che produce principi totalmente nuovi a partire da esperienze comuni ed è estremamente rara.

Jaoui (1993) 5 tappe la nascita di un’intenzione; la preparazione; l’incubazione; l’illuminazione; la verifica

Cszíkszentmihalyi (1996)

3 gradi l’applicazione nuova di una ‘regola’ esistente; l’estensione di una regola esistente a un campo nuovo; l’istituzione di una regola del tutto nuova

Johnson-Laird (2005) 5 componenti (NONCE) che riguardano il rapporto individuo/società in relazione al ‘nuovo’ 3 processi computazionali

Novelty: novità per l’autore del processo; Optional: novità opzionale per la società; Nondeterministic: processo non deterministico per la società; Contraints: vincoli dettati dal paradigma del genere; Elements: uso di elementi preesistenti. il processo neo-darwiniano, che rispecchia l’evoluzione darwiniana per prove ed errori, dove la variazione è casuale ed i vincoli agiscono come filtri; il processo multistadio, dove i vincoli governano il processo solo in parte e altri vincoli agiscono come filtro; il processo neolamarkiano, dove i vincoli governano il processo e la scelta tra le alternative possibili è casuale.

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Negli studi più recenti il concetto stesso di creatività viene ricondotto verso “componentistrettamente sociali” (Perry-Smith, Shalley, 2003, pp. 89-106) Gli stimoli e le pressioni chel’ambiente esercita sulla creatività individuale e collettiva sono oggi al centro di una fiorituradi studi che stanno riportando in auge il concetto di genius loci: alcune manifestazioni dellacreatività a livello ‘locale’ possono essere riconosciute e ‘misurate’ solo assumendo comeparadigma il contesto culturale di riferimento8.

6. La personalità creativa

Molti studiosi si sono concentrati sull’analisi della personalità creativa, sia ‘retrospettivamen-te’, cioè prendendo in esame i tratti di personaggi illustri, sia ‘prescrittivamente’, discutendosulle capacità da potenziare ai fini di un’educazione alla creatività.

Amabile (1996) ipotizza che alcuni tratti della personalità possano essere caratteristici disoggetti particolarmente creativi; in particolare evidenzia l’indipendenza di giudizio, l’auto-confidenza, l’attrazione per la complessità, l’orientamento estetico, la capacità di assumersirischi. Per cercare un minimo comune multiplo dei diversi approcci, abbiamo analizzatocomparativamente gli attributi della creatività in 18 autori9. Da questa analisi è scaturita unagriglia di 36 attributi della persona creativa e 29 fattori (individuali) di inibizione della crea-tività. Accanto a ciascuna colonna sono indicati quanti dei 18 autori menzionano quel de-terminato tratto (attributo o fattore di inibizione). Abbiamo volutamente riportato solo itratti indicati da almeno 5 autori (Tab. 3).

Dall’analisi comparata emergono anche dei paradossi e delle contraddizioni: la creativitàè insieme intuizione e metodo, meccanismo inconscio e conscio, è frutto dell’esperienza e,insieme dell’ingenuità, è momento straordinario ma anche processo ordinario, oltre che in-nata può essere acquisita.

La creatività è insieme disciplina nel lavoro e capacità di porre ordine nel caos; la creativitànon teme il disordine, è preferenza per la complessità, propensione al rischio. Secondo Bru-ner (1962) la figura retorica che meglio esprime il concetto di creatività è il chiasmo, in cuisi crea un incrocio immaginario tra due coppie di parole, in versi o in prosa, con uno schemasintattico di AB,BA. La creatività, secondo Bruner, è la capacità di conciliare gli opposti, con-cordia discors, è insieme distacco e impegno, passione e decoro, dilazione e immediatezza.

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8 In un suo contributo recente, Who’s Your City, Richard Florida (2008), spiega come oggi scegliere dovevivere sia tanto importante quanto la scelta del partner o del lavoro. In questo senso la creatività è, comemolti altri fenomeni, glocal ovvero inserita in una visione che è locale e globale al tempo stesso. Questotipo di approccio ci conduce a un campo che è stato molto esplorato dai sociologi, quello della diffusionedell’innovazione, che a partire dai primi studi di Tarde (1903), è stato oggetto di indagine di numerosi stu-diosi tra i quali soprattutto da Ryan e Gross (1943) e di Rogers (1962), che identificò il processo di diffu-sione dell’innovazione come essenzialmente di natura comunicativa, in cui entrano in gioco caratteristichee orientamenti personali. Al confine tra questi due campi di indagine (creatività e innovazione) si pongonoalcuni studiosi, come per es. Kirton (1976), che individua due tipologie di soggetti creativi: adaptors (chemodificano e sviluppano idee all’interno di un contesto pre-esistente);innovators (che ristrutturano il con-testo teorico culturale di riferimento).

9 Gli autori presi in esame appartengono alle tre macroaree sopra identificate (ambito psico-pedagogico, ri-cerca sociologica, discipline aziendali) e sono in ordine alfabetico: Amabile, Barron, Freud, Gardner, Gruber,Guilford, Kirton, MacKinnon, Maslow, Newell, Rogers, Rothenberg, Runco, Simon, Simonton, Sternberg,Torrance, Wallach.

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Questo ci riporta alla duplice etimologia del termine: quella latina, creo, capacità imma-ginativa, e quella greca, kraino, che significa compiere, realizzare. La creatività non è solo im-maginazione e talento, ma implica anche la capacità di mettere in pratica le idee.

La creatività è insieme libertà e responsabilità, capacità di realizzare se stessi e abilità diconnettersi agli altri, di ‘fare rete’. Indubbiamente un agire creativo che non fosse libero sa-rebbe una contraddizione in termini, ma un agire creativo che non fosse responsabile sarebbedeflagrante e pericoloso. Nello stesso tempo ci sono poche opportunità nella vita per rea-lizzarsi compiutamente come quando si crea qualcosa, finché si ripetono stereotipi già con-solidati il livello di creatività è così esiguo da non poter neppure essere valutato. Ma è soloin un contesto in rete che il contributo creativo riceve il suo riconoscimento e diventa fat-tore di stimolo per gli altri e di progresso per la società.

La creatività è prassi in senso aristotelico: è la capacità di unire abilità logiche e analogicheed è orientata a capire, interpretare, ma soprattutto a produrre risultati positivi. Il pensierocreativo è una maniera di osservare il mondo cogliendo dettagli rilevanti e facendo domandenon ovvie. Secondo Gardner l’atto creativo non è un ‘fuoco di paglia’, non è un evento iso-lato. La creatività evoca uno stile di vita, si identifica in un atto di singolarità, richiama piut-

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evidenzia l’indipendenza di giudizio, l’auto-confidenza, l’attrazione

p l’orientamento estetico, la capacità di assumersi rischi. Per cercare un minimo comune m

Attributi della persona creativa Tot Fattori individuali di inibizione della creatività Tot Acutezza di osservazione 5 Affezionarsi alla prima idea 7 Anticonformismo 6 Apatia o acquiescenza 9 Apertura all’esperienza 8 Attaccamento alla routine 7 Apertura al processo primario 6 Diffidenza nei confronti delle intuizioni 8 Autostima 5 Eccessiva delimitazione dei problemi 8 Autonomia 8 Eccessiva fretta di riuscire 5 Capacità di concentrazione 8 Eccessiva preoccupazione per l’opinione altrui 6 Capacità di influenzare/persuadere 5 Eccesso di specializzazione 6 Capacità di pensiero divergente 5 Giudizi affrettati 5 Capacità di sintesi 5 Incapacità di collegare il problema all’ambiente 7 Capacità di utilizzare simboli (astrazione) 5 Incapacità di vedere i problemi da più punti di vista 8 Capacità di pensare per immagini (immaginazione) 7

Incapacità di vedere i rapporti più nascosti 6

Capacità di porre ordine nel caos 6 Mancanza di iniziativa e di intraprendenza 8 Capacità di fare analogie 4 Mancanza di tempo 5 Competenza intellettuale 6 Mancata analisi dell’ovvio 7 Curiosità 7 Mancata distinzione tra causa ed effetto 9 Disciplina nel lavoro 10 Paura del cambiamento 8 Emotività 8 Paura dell’insuccesso 8 Flessibilità 6 Paura delle critiche 8 Fluidezza di pensiero 7 Paura di vedersi rubare un’idea 6 Fluidezza verbale 6 Porre ai problemi condizioni troppo restrittive 7 Focus di valutazione interno 6 Rigidità 9 Indipendenza di giudizio 9 Riluttanza a cambiare abitudini 7 Individualismo 8 Riluttanza ad interrogarsi o a dubitare 7 Integrazione delle contraddizioni 6 Scarsa motivazione e volontà 7 Intuizione 6 Sopravvalutazione degli strumenti della logica 6 Motivazione intrinseca 12 Stereotipi ed idee preconcette 6 Non temere il disordine 8 Tensione, ansia 5 Originalità 10 Timore di percorrere vie non battute 9 Persistenza 12 Preferenza per la complessità 4 Propensione al rischio 10 Sensibilità ai problemi 6 Tendenza all’esplorazione 5 Tolleranza all’ambiguità 6 Valorizzazione del lato estetico 7

s

Tab. 3 – Attributi e fattori individuali di inibizione della creatività

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tosto una forma mentis e non tanto una combinazione di tecniche. Ponendo a confronto lapersonalità sintetica e la personalità creativa, Gardner osserva che il fine di quest’ultima è:

«[…] estendere la conoscenza, scompigliare i contorni di un genere, guidare un insiemedi pratiche verso nuove, impreviste direzioni […]» (Gardner, 2006, trad. it. 2007, p. 108)

7. I valori della creatività

La creatività è la “risposta che apre” affermava lo psicologo Aldo Carotenuto (1991), nell’artecome nella vita. Un modo di vivere unicamente teso a evitare la sofferenza rischia di esserebanalmente piatto e rischiosamente patologico, oltre che di privare l’esistenza di quelle di-namiche creative attraverso le quali si può creare il senso della propria vita.

La creatività è in ciascuno di noi, si configura come dotazione di ogni essere umano inquanto tale: quando si avverte la propria vita come significativa si diventa capaci di ‘costruire’qualcosa di inconfondibile e originale, in cui si riflette ed esprime liberamente l’individualità.Già Rogers (1954) aveva inteso la creatività come l’espressione più piena di quella tendenzaa realizzare se stessi e a sviluppare in modi realmente efficaci le proprie potenzialità; essa co-stituisce “la molla stessa dell’esistere e della crescita psicologica”. Per Rogers la creatività èdunque un modo di concretizzarsi dell’imperioso bisogno umano a espandersi, a svilupparsi,a maturare e ad attivare le capacità dell’Io, sino al loro completo accrescimento e alla con-sapevole valorizzazione (Rogers, 1954, pp. 98 sgg).

A un livello più ampio, la creatività è in grado di configurarsi come una vera e propriaidea profetica – già delineata da Mencarelli negli anni Settanta –, provvista di un’incisivareale forza promozionale della libertà e dell’imprenditorialità umana.

Parlare di creatività significa dunque esprimere il presagio di una grande rinascita edu-cativa grazie alla quale si possono realizzare le aspettative classiche di una formazione uma-namente genuina. Grazie alla sua capacità di ‘programmare’ cultura, di realizzare valori (dilibertà, giustizia, lealtà, amore, esteticità ecc.), la creatività si configura come opzione for-mativa fondamentale, principio regolativo della crescita umana per il quale trova piena giu-stificazione e assume consistenza la locuzione coniata da Mencarelli (1976, p. 79) diumanesimo dell’autenticità.

I valori a cui è improntata questa attitudine che, rifiutando ogni curvatura individualistica,richiama l’uomo a una dimensione etica, sono: personali, cioè mirati all’autorealizzazionedella personalità secondo una molteplicità di direzioni, che le impediscono di chiudersi inse stessa e la rendono atta a realizzarsi responsabilmente in una società pluralistica; storico-so-ciali, comprensivi dei beni che assicurano all’uomo una convivenza caratterizzata da civiltàe riguardano perciò specialmente quei valori che rientrano nell’universo sociale e giuridi-co-politico (Mencarelli, 1977, II); culturali, nel duplice significato di cultura intesa sia in sensoantropologico-sociale, – che richiede lo sviluppo di una coscienza interculturale che curi lacompenetrazione costante tra culture differenti –, sia in senso ‘tradizionale’, intesa quale pa-trimonio delle opere che l’umanità ha creato e che arricchisce costantemente nel tempo(in campo artistico-letterario, scientifico, filosofico, etico-politico, ed anche nel settore deicostumi e del folklore) (Mencarelli, 1977, III).

Se assumiamo il termine creatività come equivalente del potenziale umano – cioè dellevirtù che sono proprie dell’essere umano –, dobbiamo constatare che, quando si definiscecreativa una persona si parla della creatività come di ‘abito’ (La Marca, 2005), come capacità,da parte di una persona educata in un determinato modo e che ha fatto propri alcuni valorieducativi. Essere creativi vuol dire vedere le cose da un punto di vista personale, procedere

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con le proprie forze, capacità, possibilità; vuol dire affrontare la vita con spirito di ricerca,con atteggiamento coraggioso di fronte al rischio, alla lotta, alla sofferenza, all’insuccesso;vuol dire saper vivere con se stessi e in relazione con quanti hanno avuto o hanno un pesodeterminante nella nostra vita, nella nostra stessa formazione.

8. Recuperare un senso etico e relazionale

Purtroppo, come abbiamo visto in precedenza, nel linguaggio comune si è prodotta unasorta di deriva semantica del termine creatività, intesa ora come capacità di pochi eletti oracome dimensione contrapposta alla logica e alla razionalità10. Anche in campo scientifico sisono inevitabilmente diffuse alcune ‘semplificazioni’ sul concetto di creatività. Secondoun’indagine condotta da Teresa Amabile, studiosa di Management alla Harvard BusinessSchool, e pubblicata nel 200411 vi sono alcuni luoghi comuni relativi alla creatività che pos-sono essere facilmente sfatati12:

• solo i creativi hanno creatività;• il denaro è una forte motivazione;• lo stress da scadenza alimenta la creatività;• la paura spinge all’innovazione;• competere è meglio che collaborare;• organizzazione snella = organizzazione creativa.

Questi ‘falsi miti’ rivelano come si sia diffusa una cultura che vede la creatività solo comefunzionale all’efficienza e all’innovazione aziendale. Viceversa, Amabile auspica un nuovo,rivoluzionario punto di vista sul lavoro e sulla creatività: quando le persone sono impegnatein lavori che amano e sono immerse in un’attività nella quale sono valorizzati e riconosciuti,allora la creatività è veramente ‘rigogliosa’.

Il contrassegno della creatività non può essere quello di una dimensione efficientista,bensì quello di una dimensione prettamente ‘umanistica’, come abbiamo visto sopra.

Già anni fa Rollo May, uno dei padri fondatori del counseling insieme a Rogers, affer-mava:

«Il significato di creatività si è smarrito disastrosamente, nel convincimento che si trattidi qualcosa cui ricorriamo occasionalmente, soltanto nei giorni di festa. La premessada cui dobbiamo partire per discernere il vero significato di creatività è invece che inessa si esprime l’uomo normale nell’atto di realizzare se stesso, non come prodotto di

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10 Alcune indagini condotte da Eurisko e da Ipsoa dimostrano che per gli italiani, specie per i più giovani,creatività significa essere trasgressivi, rompere gli schemi, anche solo nel modo di vestire e di portare icapelli. La maggior parte degli intervistati percepisce la creatività più come dono innato che come talentoda sviluppare, più come attività di autogratificazione che come impegno nella produzione di idee e scoperteutili e innovative.

11 L’articolo si intitola The 6 myths of creativity, e, pur riferendosi al mondo delle imprese, è applicabile ancheal campo educativo-pedagogico Disponibile all’url: http://www.fastcompany.com/magazine/ 89/creati -vity.html (visitato il 12/10/2010).

12 Amabile ha studiato 12.000 appunti quotidiani creati da 238 professionisti attivi nel campo della creativitànei settori più disparati e ha codificato i dati raccolti in base ai contesti principali in cui le persone avevanodifficoltà con problemi particolari o si sono trovate a creare nuove idee.

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uno stato morboso, bensì come rappresentazione del massimo sforzo di equilibrio emo-tivo. Questo equilibrio si ritrova nell’opera dello scienziato o dell’artista, del pensatoreo dell’esteta o nel normale rapporto di una madre con il figlio».

“Bisognerebbe restituire alla parola creatività la sua dimensione progettuale ed etica” –afferma Testa: la creatività è il nuovo che produce qualcosa di buono per una comunità. Re-cuperare il senso etico e relazionale dell’agire creativo e considerare la creatività come op-zione fondativa dell’educazione e della formazione dell’uomo contemporaneo sono duefacce della stessa medaglia. Erich Fromm sottolineava che “essere creativi significa conside-rare tutto il processo vitale come un processo della nascita e non interpretare ogni fase dellavita come fase finale. Molti muoiono senza essere nati completamente. Creatività significaaver portato a termine la propria nascita prima di morire” (Fromm in Anderson, 1972, p.77). Il compito di essere architetti della propria esistenza – e della propria creatività - si rea-lizza grazie a una consolidata capacità di deliberazione e di progetto, di autocostruzioneideale e di comportamento creativo: si compie cioè attraverso operazioni di decisione e discelta che riguardano non tanto e non solo la vita individuale, ma anche la coscienza col-lettiva quale si realizza nel mondo civile e nell’universo culturale (Bertin, 1998, p. 79).

9. La creatività come chiave per il futuro

Indubbiamente, nella cosiddetta ‘società dell’informazione e della conoscenza’ la creativitàassume un’importanza strategica a livello sia individuale sia organizzativo.

A livello individuale, oggi una persona non si trova più a occupare lo stesso ruolo peranni. A livello organizzativo la competitività tra le aziende si fonda proprio sul capitale uma-no, ovvero sul potenziale creativo e innovativo delle risorse che la compongono. In questocontesto, coloro che sanno pensare creativamente riescono a risolvere problemi esistenti, oa riconoscere e risolvere nuovi problemi e ad aprire nuovi orizzonti.

«La stagione postfordista chiede un’organizzazione del lavoro il cui centro e la cui ri-sorsa fondamentale sono rappresentati da una soggettività non caratterizzata tanto dallaqualificazione tecnico-professionale, quanto dalla capacità di sostenere la complessitàdelle relazioni interpersonali, la filosofia e i processi dell’innovazione» (Rossi, 2009, pp.VIII-IX).

La creatività è dunque un importante fattore adattivo per i singoli, per le imprese, per leorganizzazioni, per i sistemi sociali e questo ha enormi ripercussioni sui sistemi educativi.Agli studenti, non più di quaranta anni fa, era sufficiente completare la propria scolarizza-zione ed entrare in una carriera lavorativa che spesso durava tutta la vita. Lo sviluppo del-l’informazione era lento. La vita della conoscenza era misurata in decenni. Oggi, questiprincipi fondamentali sono stati alterati. Le conoscenze sono in crescita esponenziale. Inmolti campi la vita della conoscenze è ora misurata in mesi. Per combattere la rapida obso-lescenza delle conoscenza occorre abilitare modalità di pensiero creativo, come sottolineavaDelors nel rapporto Nell’educazione un tesoro (1997):

«Più che mai, il ruolo fondamentale dell’educazione sembra essere quello di dare agliindividui la libertà di pensiero, di giudizio, di sentimento e d’immaginazione di cui essihanno bisogno per poter sviluppare i propri talenti e per rimanere per quanto è pos-sibile al controllo della propria vita.

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Questo imperativo non è di natura semplicemente individualistica: a quanto insegna larecente esperienza, ciò che potrebbe apparire soltanto come un mezzo dell’individuoper difendersi contro un sistema alienante o percepito come ostile, offre talvolta allesocietà anche le migliori possibilità di progresso. La diversità delle personalità indivi-duali, il loro spirito di autonomia e di iniziativa, e persino il piacere della provocazione,sono altrettante garanzie della creatività e dell’innovazione […]» (Delors, 1997, p. 88).

Analoga è la posizione espressa da Morin, nel volume, I sette saperi necessari per l’educazionedel futuro (1999, trad. it. 2001). Come già in Una testa ben fatta (1999, trad. it. 2000), Morinpresenta un quadro ricco e ambizioso della visione dell’educazione e del suo ruolo nel mon-do. Il suo approccio è sempre pluridisciplinare, anche per combattere contro uno dei suoipeggiori mali, la frammentazione dei saperi; la sua visione è globale, planetaria. L’autorepresenta i sette saperi che, a suo parere, dovrebbero essere fondamentali negli insegnamentiper “integrare le discipline esistenti e stimolare gli sviluppi di una conoscenza atta a racco-gliere le sfide della nostra vita individuale, culturale e sociale”. (Morin, 1999, trad. it. 2001,p. 7). I sette saperi identificati da Morin (combattere contro la menzogna, pertinenza dellaconoscenza, insegnare la condizione umana, insegnare l’identità terrestre, insegnare ad af-frontare le incertezze, insegnare la comprensione, insegnare l’etica del genere umano) nonsono saperi disciplinari ma auspicano quell’umanesimo dell’autenticità che, come abbiamovisto in precedenza, è per alcuni autori il vero significato (etico e sociale) da dare alla parolacreatività. I sette saperi di Morin – come le “cinque chiavi per il futuro” di Gardner (2006)– non esauriscono la loro portata all’interno delle istituzioni scolastiche ma sono competenzeche riguardano tutto l’arco della vita13.

10. Educare all’innovazione personale

La molteplicità di situazioni formative nelle quali gli individui adulti possono trovarsi e cheimplicano, per essere tali, un qualche cambiamento sono anche intrinsecamente creative.Occorre costruire però un clima adatto e soprattutto intraprendere azioni incisive che sor-tiscano risultati duraturi.

In definitiva, educare alla creatività vuol dire formare la persona nella sua interezza (a360° come si dice spesso), educarla al bene comune, a una cittadinanza mondiale attiva eresponsabile, al dialogo e ai rapporti interdisciplinari e interculturali, educarla al serviziodegli altri, a fare bene il bene». Ma vuol dire anche prepararla a plasmare il proprio futuroin maniera significativamente soggettiva. Questo implica la capacità di leggere e interpretare

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13 A questo proposito va ricordata la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio d’Europa del 18 Di-cembre 2006, che ha stabilito un elenco di “Competenze Chiave lungo tutto l’arco della vita”. La Rac-comandazione definisce le competenze come “conoscenza, abilità e capacità”, identificandone otto chiavedi cui le ultime quattro in particolare sono strettamente legate ai concetti di Creatività e Innovazione: peres. “la capacità di esprimersi” (l’espressione di sé), “la consapevolezza culturale”, “il senso e lo spirito d’ini-ziativa” e “le abilità individuali di trasformazione delle idee in azioni o quelle di creatività e l’assunzionedi rischio”. Questi concetti sono stati ulteriormente ribaditi e rafforzati attraverso le “Conclusioni delConsiglio d’Europa sulla Creatività e l’Innovazione nel sistema di formazione e d’istruzione” del 22 maggio2008, nelle quali si fa esplicito riferimento al ruolo chiave dei sistemi educativi come “triangolo dei saperi”e come promotore dello sviluppo delle capacità creative e innovative per promuovere la coesione sociale,la competitività economica e lo sviluppo dei talenti. Il Consiglio d’Europa ha anche stabilito il 2009 comeAnno Europeo della Creatività e dell’Innovazione.

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il presente, ascoltare con spirito critico le opinioni dominanti, per poter elaborare una propriamappa sulla cui base scegliere e progettare con creatività il futuro (Rossi, 2009, p. 63).

La creatività, afferma Testa, è una «…trama fatta di mille trame... Ma cosa significa effettivamente “educare alla creatività”?

Già Torrance (1977) aveva sostenuto che educare alla creatività vuol dire:• valorizzare le idee nuove;• sensibilizzare i soggetti agli stimoli;• abituarsi alla tolleranza verso idee nuove;• abituare il soggetto a stimare il proprio pensiero creativo;• incoraggiare ed apprezzare l’apprendimento autonomo;• provocare la necessità di pensare creativamente;• formare educatori animati da spirito creativo.

Di solito si parla di educazione alla creatività pensando a percorsi da attuare nella scuolaprimaria o, nella migliore delle ipotesi, in quella secondaria. Nel curriculum universitarionon si dà molto rilievo all’argomento. Numerosi studi sottolineano invece come si possaeducare alla creatività a qualsiasi età. Nel caso specifico degli studenti universitari, la creativitàè un processo intellettuale, uno ‘spazio’ in cui uno studente motivato manifesta – all’internodel proprio profilo culturale (per es. studente di medicina, di ingegneria, di chimica ecc.) –un’apertura ad altri temi. La creatività è quindi un sapere traslazionale e meta-disciplinare:si stimola attraverso il contatto con saperi ‘altri’ si esplicita attraverso la possibilità di trasferireda un contesto all’altro contenuti/tecniche/linguaggi/metafore della conoscenza. Alla basedi tutto ciò sta la consapevolezza dell’importanza dell’espressione creativa di idee, esperienzeed emozioni in un’ampia varietà di media, compresi la musica, la letteratura e le arti visive.Accanto a queste, un ruolo fondamentale gioca oggi un uso significativo – e non passivo –delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in particolare di Internet.

Per questo riteniamo che, al di là delle iniziative che si intraprendono nelle scuole, occorrepensare e realizzare percorsi formativi per lo sviluppo della creatività anche all’interno delleuniversità, i quali favoriscano la definizione dell’identità individuale, la costruzione delle re-lazioni interpersonali (la connettività), la gestione delle diversità e quindi dei talenti, il pro-cesso di produzione di significato (sensemaking) sia a livello individuale sia a livelloorganizzativo.

Il discorso sulla creatività, se riferito agli studenti universitari, che si trovano nella fase dipassaggio dalla giovinezza all’età adulta, si interseca con la complessità della nozione di cam-biamento in età adulta. La nozione di creatività riguarda infatti azioni trasformative, inno-vative e associative che possono essere rivolte sia verso una realtà esterna sia nella direzionedella realtà intima degli individui, configurando un cambiamento che, in senso pedagogico,è «quell’esperienza temporale più o meno lunga, dalla quale si esce con una diversa perce-zione di sé» (Demetrio, 1990, p. 81). In questo senso educare alla creatività significa in primiseducare all’innovazione personale e poi alla capacità di apportare trasformazioni nel mondocircostante.

Educare alla creatività in ambito universitario significa integrare la formazione curricolarecon percorsi diversi, personalizzati, che non implichino tanto l’acquisizione di tecniche emetodi di creatività, quanto la forma mentis adatta all’innovazione. La creatività non dovrebberiguardare rare occasioni “di convivialità” ma dovrebbe entrare a fare parte del curriculumuniversitario. Del resto se esaminiamo il concetto medievale di universitas, possiamo osservarecome tutti gli attributi della creatività che abbiamo identificato, fossero già presenti in quellanozione: a) universitas come ‘comunità di maestri e alunni; b) universitas come ‘totalità’, in

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riferimento alle aree dello scibile che possono essere insegnate; c) universitas come ‘univer-salità’ dei risultati dello sforzo di ricerca, caratterizzato da un rigore metodologico che nerende intersoggettivamente validi gli esiti; d) universitas come aspirazione alla costruzione diun’unità del sapere che possa essere tale sia in rapporto alla cultura del tempo, sia in rapportoalla sintesi che ciascuno ne elabora attraverso il proprio percorso formativo.

11. Conclusioni

Diverse sono le prospettive da cui è stata studiata la creatività (comportamentismo, cogniti-vismo, costruttivismo, personalismo, connettivismo …); ciascuna di esse ha dato un contri-buto alla focalizzazione di aspetti differenti: lo studio delle aree cerebrali deputate al pensierocreativo, la ricerca biografica retrospettiva (dei geni e dei personaggi illustri) e longitudinale(dei gifted), l’analisi dei profili psicometrici, la creazione di modelli computazionali, l’idea-zione e la sperimentazione di test per misurare la creatività, l’analisi fattoriale, l’analisi deiprocessi, l’analisi delle interazioni, etc. La creatività è stata di volta in volta identificata conl’inconscio, le pulsioni, con l’intelligenza (o una parte di essa), con la metacognizione, conl’apprendimento attivo e con l’autorealizzazione personale.

La ricostruzione delle teorie che negli ultimi 60 anni hanno contribuito a definire la‘galassia semantica’ del concetto “creatività” ci ha portati dunque a ri-delineare un quadrodi luci e ombre da cui emergono i contributi specifici delle varie scuole. Le stesse contrad-dizioni, che inevitabilmente affiorano, servono a mantenere il valore dell’agire creativo nellalogica della complessità, evitando possibili semplificazioni, inevitabilmente banalizzanti esuperficiali.

Alcuni luoghi comuni rischiano di appiattire la creatività in una visione deterministicache non tiene conto del fatto che la creatività non è un concetto monodimensionale, ma èpiuttosto un orizzonte, un’idea-guida che emerge «dai processi di emancipazione in atto[…], dalla diffusa ansia di libertà, dalla esigenza di autenticità umana insistentemente recla-mata davanti ai tentacoli della massificazione», come affermava già negli anni Settanta delXX secolo Mario Mencarelli.

In una prospettiva esistenziale la creatività appare, secondo Bertin (1998), come momentodi problematizzazione rispetto al momento dalla ragione – intesa come esigenza di soluzionedel problematico, di composizione del diverso, di soppressione del contraddittorio – e dellatematica della ‘progettualità esistenziale’. In relazione a quest’ultima, la creatività rappresentasicuramente «un fattore di dilatazione e di espansione della vita personale, interpersonale ecollettiva» (Bertin, 1998, p. 79).

Affermare che l’odierna domanda di educazione e formazione è, in fin dei conti, do-manda di creatività, significa avvertire una «forte correlazione tra la richiesta di uno sviluppopiù autentico della personalità e di una rigenerazione morale della società e la richiesta diuna proposta valoriale che include le mete della difesa e della coltivazione della dignità esingolari della persona» (Rossi, 2009, p. 13). Bruner osserva che «una ricerca sulla creativitàè giustificata […] dall’antica aspirazione dell’umanista perpetuamente volto a cercare l’ec-cellenza dell’uomo: ogni nuovo atto creativo può elevare l’uomo a una nuova dignità» (Bru-ner, 1962, trad. it. 1976, pp. 41 e 43).

Educare alla creatività vuol dire rendere gli studenti consapevoli che, per trovare soluzioniai problemi, occorre «imparare a imparare» (La Marca, 2009), formulando ipotesi, ponendodomande a se stessi e agli altri, scomponendo il problema e cercando informazioni attendibilie il più possibile complete per la ricostruzione degli aspetti della situazione, collaborandocon il gruppo, evitando valutazioni frettolose e giudizi anticipati, prendendo decisioni con-

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seguenti alle informazioni acquisite, modificando, quando necessario, il punto di vista iniziale.Il pensiero creativo deve aver luogo al di là dei limiti conosciuti, fuori dagli schemi. È ne-cessario sviluppare la curiosità, allontanarsi dalle idee considerate a priori come ‘razionali’e dai procedimenti formali, valutare l’aleatorio e analizzare molteplici soluzioni alternative.Solo in questo modo si realizza l’ideale auspicato da Mario Mencarelli:

«… antidoto alle frizioni negative, alle divisioni, alle lacerazioni che tormentano il no-stro tempo, la creatività tutela il modo di essere della persona, richiede una società de-mocratica, sollecita alla testimonianza di valori autentici…» (Mencarelli, 1976, p. 119).

Solo connettendo le principali teorie della creatività a opzioni pedagogiche generali ediluendone il significato con riferimento alle più vaste prospettive di educazione dell’uomocontemporaneo, è possibile comprendere la portata educativa dell’agire creativo, che con-sente il passaggio dalla ‘razionalità tecnica’ alla ‘razionalità riflessiva’, urgentemente riven-dicata in un contesto sociale, educativo, tecnologico in continuo divenire.

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SIRD • Studi

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La SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica), consolidando una tradizione di collabora-zione tra diversi contesti formativi e produttivi di ricerca educativa, come sono le scuole didottorato in Italia, ha organizzato alle pendici dell’Etna (Linguaglossa Catania) nei giorni23-24-25 settembre 2010 il 4° Seminario di confronto tra dottorandi e docenti, dopo quellidi Veroli (2005) e di Roma (2007 e 2009). Hanno presentato e discusso con docenti e col-leghi i loro progetti di ricerca 20 giovani dottorandi di 2° anno (Tabella in appendice) pro-venienti da 14 Scuole di dottorato, scelti dal Direttivo SIRD, salvaguardando rappresentanzeterritoriali e varietà di tematiche in ambiti scientifici di PED/03 (Didattica) e PED/04 (Pe-dagogia sperimentale).

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informazioni

La ricerca nelle scuole di dottorato in ItaliaDottorandi e docenti a confronto: il seminario SIRD

Research in doctoral/graduate schools in ItalyA comparison of doctoral students and teachers: the SIRD Seminar

LUCIANO GALLIANI – Presidente Sird

L’articolo racconta l’iniziativa dellaSIRD – Società Italiana di Ricerca Di-dattica, giunta alla IV° edizione, del Se-minario di confronto fra dottorandi edocenti svolta nel settembre 2010. Dal-l’esperienza positiva condotta si traggonoindicazioni per una riflessione più ampiasullo sviluppo in Italia delle Scuole diDottorato, con riferimento ai principielaborati a Salisburgo nel 2005 dall’EUA– European University Association e ri-visitati a Berlino nel giugno 2010. Inparticolare si analizza criticamente la si-tuazione delle Scuole e dei Dottorati diarea pedagogica in relazione alla compo-sizione disciplinare per garantire “massacritica e diversità”, alla adozione di stra-tegie di internazionalizzazione, e al-l’apertura al mondo del lavoro, con lapromozione dell’inserimento professio-nale dei giovani dottori di ricerca.

The article describes a SIRD – Società Ital-iana di Ricerca Didattica – initiative, now inits 4th edition, a Seminar comparing doctoralstudents and university lecturers, held in Sep-tember 2010. From the positively conductedexperience indications are drawn for a broaderreflection on the development of the PhD inItaly, with reference to the principles estab-lished in Salzburg in 2005 by EUA - Eu-ropean University Association - and revisitedin Berlin in June 2010. In particular, it crit-ically analyzes the situation in educationalarea Doctoral schools and Doctorates in rela-tion to the disciplinary composition to ensure“critical mass and diversity”, the adoption ofinternazionalized strategies and openness tothe working environment, with the promotionof employability of young PhDs.

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L’iniziativa – che ha visto la partecipazione attiva e interessata di una quarantina di dottoranditra relatori e matricole e di dieci docenti (senior/fellow) con compiti di valutazione critico-formativa in itinere – si è svolta con buon successo e soddisfazione, reciprocamente espressaanche in pubblico nel confronto formale e informale sia tra dottorandi sia tra dottorandi edocenti. L’atmosfera di dialogo intenso e di condivisione costruttiva, facilitata in verità dal-l’isolamento dell’agriturismo e dall’inusuale continua pioggia battente, ha permesso di va-lorizzare: apprezzamenti e critiche, originalità individuali, ipotesi scientifiche, coerenze dimetodi/strumenti di indagine, incidenza delle diversità organizzative e tematiche (multi/in-ter/mono disciplinari) nei e dei singoli dottorati/scuole locali, collegamento delle ricerchecon diversi ambiti del mondo del lavoro e non solo accademici.

Partendo da queste prime impressioni sull’esperienza e seguendo la fine analisi condotta daGiovanni Moretti (2009) sui lavori del terzo seminario, sembra opportuno ampliare la ri-flessione a come le Scuole di Dottorato si stanno evolvendo in Italia, con particolare riferi-mento alla ricerca pedagogica ed educativa, per rispondere alle nuove proposte di riformauniversitaria da un lato, e al ruolo della ricerca scientifica (e dei giovani al suo interno!),dall’altro lato, per l’innovazione dei sistemi culturali, formativi, sociali ed economici delPaese e per la loro competitività internazionale.

Il punto di partenza è sicuramente l’implementazione dei dieci principi di Salisburgo delfebbraio 2005 (“Doctoral Programmes for the European Knowledge Society”) elaborati nell’ambitodel Processo di Bologna, che sono stati la base per le riforme intervenute nei paesi dell’Eu-ropean Higher Education Area e dell’European Research Area. Un mese prima in Italia (gennaio2005) il CNVSU – Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario emanavaun “Documento di indirizzo sulla istituzione di Scuole di Dottorato di Ricerca”, motivato dal fattoche la loro attivazione dovesse essere un elemento premiante ai fini della ripartizione delleborse, così come recitava il comma 3 dell’art. 17 del Decreto sulla programmazione triennaleuniversitaria 2004-2006 (n.262 del 5/8/04), che al comma 2 prevedeva un DM specificocon “i criteri per l’istituzione nell’ambito delle Università delle Scuole di Dottorato di ricerca connotateoltre che dal possesso dei requisiti di cui al comma 1 (quelli attuali), dall’afferenza di uno o più corsidella medesima macro-area scientifico-disciplinare, da stretti rapporti con il sistema economico-sociale eproduttivo, nonché da documentate e riconosciute collaborazioni con Atenei ed enti pubblici e privatianche stranieri”.Rilevato che il Decreto specifico non è mai stato emanato e che la normativa attualmentein vigore risale al DM/224 del 30 aprile 1999, il Documento di indirizzo del CNVSU, checonsiderava le prime esperienze in corso e quelle in via di realizzazione raggruppandole intre categorie (Scuola Unica di Ateneo, Scuola di Area, Scuola integrativa), contribuì ad estenderel’innovazione rendendo obbligatori alcuni requisiti. Innanzitutto rispetto all’organizzazionedell’attività formativa e della sua trasparenza, in secondo luogo all’apertura verso l’esternocon sistematici rapporti con le realtà produttive e sociali del territorio, in terzo luogo all’in-ternazionalizzazione e alle collaborazioni, co-tutele, co-valutazioni.In verità la situazione italiana si presenta oggi – anche per la nostra area pedagogica – ab-bastanza frammentata con dottorati su tematiche settoriali e spesso all’interno di modelli diScuole assai diversi e non facilmente conciliabili, spesso lontane dalle buone pratiche in gra-do, per il CUN di allora (2004), “di aggregare aree scientifiche che hanno affinità metodo-logiche e culturali e di proporre approfondimenti tra loro coerenti, in grado di favorirepercorsi comuni, connessioni multidisciplinari e ricerche di confine tra i diversi saperi”.Ci dobbiamo interrogare se questa è la via giusta da perseguire nei nostri Atenei, collegan-dola alle scelte di nuova organizzazione, proposta dal disegno di legge Gelmini con l’aggre-

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gazione di più Dipartimenti e Facoltà, già in attuazione in molte Università, con motivazioniamministrative di contenimento dei costi. La stessa riduzione e compattamento dei settoriscientifico-disciplinari, proposta dal CUN, si muove in una logica funzionale prevalente difacilitazione nel reclutamento e nell’utilizzazione del personale docente. La risposta è for-temente condizionata dai comportamenti dei singoli Atenei rispetto alle forme di collabo-razione regionale e interregionale che dovranno per dimensione e/o vorranno per sceltaoperare nell’offerta formativa e nell’organizzazione della ricerca.Nel meeting dell’EUA-European University Association –Council for Doctoral Education – sullavalutazione dei risultati dell’implementazione dei principi di Salisburgo, tenuto alla FreeUniversity di Berlino nel giugno 2010, presenti rappresentanti di 165 istituzioni di 36 Paesi,il primo punto delle condizioni per il successo delle Scuole dottorali unifica due principiprima distinti, “Critical mass and critical diversity”, che dipendono dall’ambiente di ricerca edall’offerta di una alta qualità della formazione. “Critical mass does not necessarily mean a largenumber of researchers, but rather the quality of the research”. Per assicurare massa critica e diversitàai programmi di dottorato servono, da un lato, strategie per focalizzare i punti di forza e lebuone pratiche della ricerca nelle specifiche aree e, dall’altro lato inserirsi in larghi networkdi ricerca internazionali, nazionali e in collaborazioni di gruppo regionali/interregionali.

Un contributo importante in questa direzione è stato offerto, prima di Salisburgo II, dalCONVUI -Coordinamento dei Nuclei di Valutazione delle Università Italiane, chiamati a valutarele scuole di dottorato nei singoli Atenei con specifico questionario proposto nel 2006 ecorretto nel 2007 e 2008. Nella relazione conclusiva dell’Assemblea di Siena nel giugno2008 il CONVUI ha indicato le quattro caratteristiche che definiscono l’identità di unaScuola rispetto al tradizionale Corso di Dottorato: • organizzazione in più Indirizzi, con una base comune scientifica e metodologica;• didattica strutturata e comune a tutti gli indirizzi, preferibilmente nel primo anno;• apertura internazionale, con un anno all’estero e, ove possibile, titoli in co-tutela;• sistema di valutazione della Scuola e dei dottorandi basato su revisori esterni.In Italia, che conta ben 44 dottorati in discipline di carattere pedagogico, le Scuole di Dot-torato nelle Scienze dell’Educazione e della Formazione sono soltanto sei (Roma Tre, Cat-tolica di Milano, Macerata, Messina, Firenze, Padova) mentre in tutte le altre sedi, in cuiesistono autonomi Dipartimenti di Scienze dell’Educazione o integrati con altre disciplineumanistiche e sociali i Dottorati, che fanno riferimento ai settori scientifico-disciplinari M-PED/01/02/03/04 con un florilegio di denominazioni, sono inseriti in Scuole dottoralipiù ampie, anche con modalità consortili. È legittimo un rilievo critico a questa abitudinea preferire un collegamento interno al proprio Ateneo con colleghi di altre aree e settoriscientifico-disciplinari o addirittura di altre macro aree, piuttosto che ricercare forme con-sortili di collaborazione con i colleghi pedagogisti di altri Atenei in Scuole regionali o in-terregionali per garantire “massa critica e diversità”. Forse anche per questo la qualità e ilpeso della nostra ricerca pedagogica e didattica, sembra incidere poco, anche per l’esiguitàquantitativa (numero e finanziamenti) dei PRIN, sulle politiche formative nazionali e re-gionali.

Una seconda riflessione, evidenziata dal CONVUI (2008) e dalle Raccomandazioni di Sa-lisburgo II (2010) concerne le strategie di internazionalizzazione delle Scuole Dottorali,con specifico riferimento: a) all’inserimento di componenti stranieri nei Comitati Scientifici e di visiting professors neiCollegi dei Docenti;

b) all’attivazione di programmi di collaborazione con “co-tutela di tesi” o rilascio di titoli

SIRD • Informazioni

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congiunti con Scuole Internazionali, incentivando la mobilità individuale dei giovanidottorandi;

c) all’utilizzazione di profili e modalità internazionali sui requisiti richiesti per l’ammissione(uguaglianza di opportunità, utilizzo della lingua inglese, progetti di ricerca con referenzescientifiche e non temi scritti, borse e residenzialità, ecc.) per favorire il reclutamento distudenti stranieri meritevoli;

d) alla partecipazione dei dottorandi a programmi e progetti di ricerca internazionali, chevedano il coinvolgimento di stakeolders pubblici e privati, direttamente provenienti dalmondo della produzione e dei servizi.

Nonostante gli accordi tra CRUI e Rettori delle Università francesi, spagnole, tedesche esvizzere, le tesi di dottorato pedagogiche in co-tutela, con doppio titolo riconosciuto daidue Paesi, sono ancora praticate in pochissime delle nostre Scuole. Quasi nessuna Scuola ri-lascia il titolo di “Doctor Europaeus” in aggiunta al normale titolo di dottore, anche se lecondizioni sono abbastanza abbordabili: valutazione della tesi da parte di due docenti diPaesi diversi, un membro della commissione giudicatrice deve provenire da un Paese diversoda quello in cui la tesi viene discussa, la ricerca presentata nella tesi deve essere stata condottain parte durante un soggiorno di almeno tre mesi in un Paese dell’Unione Europea e la suadiscussione deve avvenire almeno in parte in una delle lingue europee ufficiali. Esiste infinenel nostro ambiente pedagogico una sola Scuola Dottorale Internazionale, quella in “Culture,Education, Communication”, con una Sezione italiana in “Innovazione e valutazione dei sistemidi istruzione”, composta principalmente da docenti dell’Università di Roma Tre.

Una terza riflessione, richiamata dal CONVUI e dalle Raccomandazioni di Salisburgo II,riguarda la valorizzazione del titolo di “dottore di ricerca” con l’apertura al mondo del la-voro e la promozione dell’inserimento professionale dei giovani dottori di ricerca. Da in-dagini condotte nell’ultimo decennio da molte Università e dall’ “Indagine sulle condizioni dilavoro e le aspirazioni professionali dei dottorandi di ricerca” svolta dall’ADI (Associazione Dot-torandi e dottori di ricerca Italiani) nel 2007, risultano dati preoccupanti: quasi la metàritiene che l’obiettivo del dottorato di formare professionalità qualificate nel campo dellaricerca sia stato mancato; quasi il 60% è dell’avviso che per reperire occupazione il dottoratoè poco utile, anche se prevede di ottenere occupazione presso imprese private, smettendodi fare ricerca, desiderata da oltre l’80%; oltre il 90% dei dottorandi ritiene che il titolo a cuiaspirano non offra adeguate prospettive di inserimento professionale. Oltre 10.000 dottori concludono i propri studi ogni anno in Italia e in ambito scientifico-tecnologico, economico-sociale e medico si ritiene che una situazione virtuosa debba pre-vedere la carriera accademica per non più del 50% di loro. È comunque evidente chel’Università deve riflettere sul terzo livello della formazione, proponendo soluzioni legislativeriferite: a) all’accreditamento e assicurazione della qualità delle Scuole attraverso monitoraggio evalutazione (rapporti interni, peer review internazionale, opinioni dottorandi, documen-tazioni di outcomes);

b) al ritorno a procedure concorsuali su base nazionale per il reclutamento universitario;c) all’incentivazione e allo sviluppo di strutture di ricerca nella pubblica amministrazione(es.: scuola) e nel sistema delle imprese e dei servizi in modo da assicurare loro innova-zione e capacità competitiva, creando valide alternative alla carriera universitaria;

d) all’organizzazione negli Atenei – in analogia a quanto avviene nei paesi anglosassoni – diuffici per il job placement o career centers, con il compito di guidare i Dottori di ricercaverso un impiego coerente, per contenuti e retribuzione, con la formazione ricevuta, an-

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che attraverso i previsti contratti di “alto apprendistato”, e soprattutto un servizio nazio-nale specifico (magari congiunto) dei Consorzi AlmaLaurea e Stella.

Il dottore di ricerca, a partire dalle raccomandazioni della Commissione Europea (Mobilityof Researchers between Academia and Industry, 2006) dovrà sempre di più essere “un professio-nista della forma della conoscenza-azione, le cui competenze vanno riconosciute attraversoazioni istituzionali di valorizzazione professionale e attraverso la governance della transizionetra Università e mercato del lavoro”: questa l’ipotesi del progetto di ricerca svolto dalla Fon-dazione FREREF, coordinato dal CIRDFA (Centro Interateneo per la Ricerca e la For-mazione Avanzata),diretto dal collega U. Margiotta con sede all’Università di Venezia, cheha coinvolto sei paesi europei (Francia, Polonia, Germania, Spagna, Belgio, Romania) inter-cettando difficoltà e potenziali delle Scuole di Dottorato e dei dottorandi intervistati (2010). Nella nostra aerea pedagogica devono continuare in tutte le Scuole di Dottorato le buonepratiche di formazione alla ricerca di insegnanti, formatori ed educatori, non solo giovanima soprattutto in servizio nella scuola, nel mondo delle imprese e degli enti di formazioneprofessionale e continua, nel sistema dei servizi sociali alla persona, per riqualificare i contestiformali dell’istruzione e della formazione e per collegare in rete i ricercatori sul campo airicercatori universitari.

La SIRD, come comunità scientifica, ritiene di dover continuare ad investire sui giovani ri-cercatori, curando la loro formazione di terzo livello, aprendo nuove strade per riconoscerel’originalità della ricerca e garantire la qualità istituzionale necessaria allo sviluppo profes-sionale dei giovani ricercatori e al trasferimento di competenze in contesti diversi di lavoro.Inoltre, nel momento in cui con la riorganizzazione dei Dipartimenti si prospettano solu-zioni sempre più difficili per l’autonomia e l’evidenziazione dell’area pedagogica, la SIRDpropone che anche i nostri Dottorati seguano come strada privilegiata quella di dar vita aScuole di Dottorato interateneo e internazionali, collegando gruppi di ricercatori specifici deinostri settori scientifico-disciplinari.

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Tabella 1

Dottorando Università Titolo

Patrizia Ascione Roma Tre Una teoria grounded per l’I-learning

Giuseppina Cannella Palermo L’innovazione dei processi di insegnamento-apprendimento con l’uso delle ICT

Angelo Cappello Messina Intelligenze collettive, connettive e identità tecnologiche

Alessandra Cerrito Messina Problematiche comportamentali in età evolutiva: il bullismo e il bullismo al femminile

Eugenio Di Rauso Padova Fattori di miglioramento della didattica nelle lauree erogate in modalità integrata

Cosimo Di Bari Firenze Gli apocalittici e la critica dei media: quale attualità formativa? Daniela Frison Padova Strategie di ricerca-intervento nelle imprese per la formazione

continua e lo sviluppo delle competenze

Eleonora Guglielman Roma Tre Disabilità e inclusione digitale. L’accessibilità nell’e-learning come fattore di integrazione

Arianna Lazzari Bologna La professionalità delle insegnanti di scuola dell’infanzia: discussione di alcuni risultati preliminari di una ricerca bolognese

Veronica Miceli Lecce Fra memoria e partecipazione: studi di caso per una Pedagogia di comunità

Nazzarena Novello Padova Le competenze di scrittura degli studenti in Scienze della Formazione Primaria. Rilevazione, valutazione, intervento

Giorgia Peano Torino Bambini rom nelle classi multiculturali e giustizia educativa

Ljuba Pezzimenti Macerata Il senso delle discipline per gli insegnanti, “epistemologie” della storia insegnata

Pasquale Renna Bari "Aldo Moro" La promozione della salute per i soggetti di cultura islamica in Italia

Milena Rombi Roma “La Sapienza” Apprendere la storia contemporanea: indagine sui profili di conoscenza storica in ingresso all’Università

Lucia Rudelli Milano - Cattolica Valutare gli insegnanti tra dimensione comunitaria e organizzativa

Rebecca Sansoè Torino Formazione professionale e giovani immigrati. Un approccio antropologico educativo

Ludovica Scoppola Roma “La Sapienza” L’educazione musicale nella scuola secondaria superiore di prima grado: indagine descrittiva sulle conoscenze e abilità musicali degli studenti in uscita dalla scuola media

Marta Sponsiello Roma - Tor Vergata L’esperienza educativa nei mondi immersivi online. Fare etnografia in Second Life

Viviana Vinci Bari "Aldo Moro" Analisi delle routine degli insegnanti:la spiegazione

Tabella 1

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NORME DI CARATTERE GENERALE

Documento:• Il contributo, consegnato su file e accompagnato da versione cartacea, deve essere in formato Word,

in cartelle standard di circa 3000 battute, per un massimo di circa 15 cartelle, e deve contenere perogni autore l’indicazione di: nome (per esteso), cognome, ruolo dell’autore/i, istituzione di apparte-nenza e indirizzo di posta elettronica. Nel caso di più autori, i nomi vanno elencati in ordine alfabe-tico.

• Il titolo del contributo deve essere in italiano e in inglese e non deve contenere sottotitoli.• I titoli dei paragrafi devono essere brevi e concisi, evitando possibilmente l’uso di sottoparagrafi. • Vanno evitate le composizioni in carattere neretto, sottolineato, in minuscolo spaziato e integralmente

in maiuscolo.Attenzione: il contributo deve essere inedito. Può contenere eventuali note di commentoa pie’ di pagina e nota bibliografica in chiusura. Il contributo non deve contenere unabibliografia generale. I riferimenti bibliografici interni al testo devono essere inseriti inparentesi tonde: cognome dell’autore a cui segue la virgola e l’anno di edizione, come daesempio riportato alla lettera A) delle note bibliografiche.La nota bibliografica a fine contributo deve rispettare la citazione interna al testo secondole regole di seguito riportate.

Abstact:L’abstract (sia in lingua italiana che in lingua inglese) va collocato dopo il titolo dell’articolo e prima deltesto, e non deve superare gli 800 caratteri ciascuno (spazi esclusi).Deve anche comprendere 6 parole chiave in entrambe le lingue.L’abstract deve contenere il senso dell’intero lavoro e rispondere alle domande: perché il lavoro è statofatto, cosa è stato fatto, cosa si è dimostrato e cosa è stato concluso.

Virgolette: Le virgolette alte (o apici): “ ” si usano sia per le citazioni sia per enfatizzare alcune espressioni come“per così dire”, “il cosiddetto”, ecc... Le virgolette basse (o caporali) si usano per i discorsi diretti e per le citazioni: « ».Nel caso in cui una citazione ne contenga un’altra, riportare la citazione interna con le virgolette alte “” e quella esterna con le virgolette basse « ».

Omissioni: si segnalano con tre puntini tra parentesi quadre […].

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NORME EDITORIALI PER GLI AUTORI E I COLLABORATORI

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Note:Saranno numerate con numeri arabi progressivi. Si raccomanda un attento controllo della corrispondenzadella numerazione delle note con i rinvii indicati a esponente nel testo, sempre con numeri arabi e senzaparentesi.Nel testo, il rimando alla nota al piede va posto all’interno della punteggiatura: testo1. e non testo.1

Fanno eccezione i punti esclamativo e interrogativo che precedono l’esponente di nota.

Citazioni: In caso di citazioni che superino le tre/quattro righe, si devono riportare in corpo più piccolo e con imargini rientrati rispetto al testo principale, staccate da un’interlinea.

Elenco puntato: Riportare l’elenco con il trattino, con rientro del punto elenco di 0,5, e rientro del testo di 0,5. Riportareil punto e virgola alla fine di ogni punto elenco e il punto alla fine dell’elenco.Esempio:– la capacità di collegare in trame concettuali le conoscenze acquisite nei corsi universitari;– l’individuazione di motivati punti di riferimento per la scelta dei contenuti;– l’individuazione dei nodi portanti, della loro valenza didattica e delle relative difficoltà cognitive.Nel caso che il punto elenco abbia un ulteriore punto elenco al proprio interno, riportare il secondopunto elenco con il pallino, con rientro del punto elenco di 1,5 e rientro del testo di 1,5.Esempio:– Possedere padronanza culturale (storico-epistemologica) della disciplina e inquadrare con cognizione

i grandi temi che essa propone, cioè:• padroneggiare i concetti nelle loro articolazioni, e la struttura sintattica, semantica e concettuale

della disciplina;• inquadrare e calare nel contesto le proprie conoscenze, anche integrando quelle acquisite nei corsi

universitari, per cogliere la loro valenza nella formazione culturale dell’allievo.

Lineette: Si distinguono due casi: per unire due parole (es. spazio-tempo), si usa il trattino breve senza nessuno spa-zio, né prima né dopo. Per creare un inciso all’interno di una frase si usa il trattino medio, preceduto eseguito da uno spazio.

Parole straniere:Vanno in carattere tondo le parole straniere che sono entrate nel linguaggio corrente, come: on-line,boom, cabaret, chic, cineforum, computer, dance, film, flipper, gag, garage, horror, leader, monitor, pop,rock, routine, set, spray, star, stress, tea, thè, tic, vamp, week-end, ecc. Esse vanno poste nella forma singo-lare.In genere vanno in carattere corsivo tutte le parole straniere.Vanno inoltre in carattere corsivo: alter ego (senza lineato breve unito), aut-aut (con lineato breve unito),budget, équipe, media (mezzi di comunicazione), passim, revival, sex-appeal, sit-com (entrambe con lineatobreve unito), soft.

Accenti:In italiano le vocali a, i, u, richiedono solo l’accento grave (à, ì, ù); la e richiede l’accento acuto in finaledi parola in tutti i composti di che (poiché, affinché, cosicché ecc.).Si scrivono con l’accento grave: è, cioè, caffè, tè, ahimè, piè; le parole straniere entrate nell’uso della linguaitaliana (gilè, canapè, bignè) e i nomi propri di persona (Noè, Giosuè, Mosè).Si accenta dà (terza persona singolare del verbo dare) e si apostrofa da’ (imperativo presente dello stesso

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verbo) per distinguerle dalla omofona da (preposizione); si afostrofa fa’ (imperativo presente di fare) ma èun grave errore accentare tanto fa (terza persona singolare dello stesso verbo) quanto fa (avverbio o notamusicale).La terza persona singolare del verbo essere, quando è maiuscola, va accentata (È) e non apostrofata (E’).

Parentesi: Le parentesi tonde si usano per isolare dal contesto una frase o una parola e per evidenziare un richiamoad altra parte del testo.Le parentesi quadre si usano all’interno delle tonde, per evidenziare un salto o una mancanza di testo, perintrodurre in una citazione tra virgolette il commento dell’autore.La punteggiatura che si riferisce al testo principale va posta fuori dalla parentesi di chiusura.

Segni di interpunzione e caratteri di stampa:• I segni di interpunzione (, : ; ! ?) e le parentesi che fanno seguito ad una o più parole in corsivo si

compongono sempre in tondo, a meno che non siano parte integrante del brano in corsivo.• I periodi interi fra virgolette o fra parentesi avranno il punto fermo dopo la parentesi di chiusura.Si compongono in tondo:• gli articoli contenuti nelle testate di giornali, riviste, collane e in genere periodici di ogni tipo;Si compongono in tondo fra doppi apici (“tondo”):• all’interno delle citazioni, le parole che normalmente richiedono l’uso delle virgolette basse;• le parole usate in un’accezione diversa dalla loro usuale, o con particolare coloritura.

Numeri delle pagine e degli anni:vanno indicati per esteso (ad es.: pp. 112-146 e non 112-46; 113-118 e non 113-8; 1953-1964 e non1953-964 o 1953-64 o 1953-4).L’ultima pagina di un volume è pari e così va citata. In un articolo la pagina finale dispari esiste, e così vacitata solo qualora la successiva pari sia di un altro contesto; altrimenti va citata, quale ultima pagina, quellapari, anche se bianca.Le cifre della numerazione romana vanno rispettivamente in maiuscoletto se la numerazione araba è innumeri maiuscoletti, in maiuscolo se la numerazione araba è in numeri maiuscoli (ad es.: xxiv, 1987;XXIV, 1987).

Immagini:Le immagini, i grafici, i diagrammi vanno riportati in bianco e nero e con risoluzione di almeno 600 pi-xels.È pertanto necessario verificare che ci sia una buona definizione dei colori all’interno di una scala digrigi. Le immagini vanno inserite nel corpo del testo, ma è bene anche fornire i file a parte delle immaginiin formato .jpg o .tiff o .pdf. Nel caso di grafici e diagrammi è bene fornire anche il file excel da cuisono stati tratti.È comunque necessario cercare di limitare il n. di immagini e grafici presenti nel testo.

Tabelle:Le tabelle vanno inserite nel corpo del testo e non devono superare in larghezza i 13 cm.

Didascalie tabelle, grafici o figure:Riportare l’abbreviazione Tab. per la tabella, Fig. per figura e Graf. per grafico, seguito dal numero, daidue punti e dal titolo.Esempio: (Fig.1: Il progetto della Sird)

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Siti Internet:I siti Internet vanno citati in tondo minuscolo senza virgolette qualora si specifichi l’intero indirizzo elet-tronico (es.: www.libraweb.net; www.supergiornale.it). Se invece si indica solo il nome, essi vanno in cor-sivo alto/basso senza virgolette al pari del titolo di un’opera (es.: Libraweb; Libraweb.net); vanno in tondoalto/basso fra virgolette a caporale qualora si riferiscano a pubblicazioni elettroniche periodiche (es.: «Su-pergiornale»; «Supergiornale.it»).

Riferimenti normativiRiportare i riferimenti per esteso, indicando il tipo di normativa, la data e il numero in grassetto, seguitoda trattino e titolo in stile normale.Esempio: D.P.R. 31 luglio 1996, n. 470 - Regolamento concernente l’ordinamento didattico della Scuola diSpecializzazione per la formazione degli insegnanti di Scuola Secondaria.

GlossariRiportare la parola chiave in grassetto. Riportare la definizione dopo lo spazio di una riga.Esempio: Abilità (Skill)Insiemi più o meno ramificati di contenuti di conoscenza, che possono essere sistemi simbolici, corpi dicredenze, quadri disciplinari, specifici quadri teorici e/o interpretativi della realtà, dell’esperienza, dellacondotta.

Abbreviazioni (alcune)a. = annataa.a. = anno accademicoa.C. = avanti Cristoad es. = ad esempioad v. = ad vocem (c.vo)anast. = anastaticoapp. = appendiceart., artt. = articolo, -iautogr. = autografo, -icap., capp. = capitolo, -icfr. = confrontacit., citt. = citato, -icl. = classecm, m, km, gr, kg = centimetro, ecc. (senza punto basso)cod., codd. = codice, -icol., coll. = colonna, -ecpv. = capoversoc.vo = corsivo (tip.)d.C. = dopo Cristoecc. = ecceteraed., edd. = edizione, -ies., ess. = esempio, -iet alii = et alii (per esteso; c.vo)f., ff. = foglio, -if.t. = fuori testofacs. = facsimilefasc. = fascicoloFig., Figg. = figura, -e (m.lo/m.tto)

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lett. = lettera, -em.lo = maiuscolo (tip.)m.lo/m.tto = maiuscolo/maiuscoletto (tip.)m.tto = maiuscoletto (tip.)misc. = miscellaneams., mss. = manoscritto, -in.n. = non numeraton., nn. = numero, -iN.d.A. = nota dell’autoreN.d.C. = nota del curatoreN.d.E. = nota dell’editoreN.d.R. = nota del redattoreN.d.T. = nota del traduttorenota = nota (per esteso)n.s. = nuova serien.t. = nel testoop., opp. = opera, -eop. cit., opp. citt. = opera citata, opere citate (c.vo perché sostituiscono anche il titolo)p., pp. = pagina, -epar., parr., §, §§ = paragrafo, -ipassim = passim (la citazione ricorre frequente nell’opera citata; c.vo)r = recto (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso)rist. = ristampas. = series.a. = senza anno di stampas.d. = senza datas.e. = senza indicazione di editores.l. = senza luogos.l.m. = sul livello del mares.n.t. = senza note tipografiches.t. = senza indicazione di tipografosec., secc. = secolo, -isez. = sezionesg., sgg. = seguente, -isuppl. = supplementosupra = soprat., tt. = tomo, -it.do = tondo (tip.)Tab., Tabb. = tabella, -e Tav., Tavv. = tavola, -e tip. = tipograficotit., titt. = titolo, -itrad. = traduzionev = verso (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso)v., vv. = verso, -ivedi = vedi (per esteso)vol., voll. = volume, -i

Nelle abbreviazioni in cifre arabe degli anni, deve essere usato l’apostrofo (ad es.: anni ’30). I nomi dei se-coli successivi al mille vanno per esteso e con iniziale maiuscola (ad es.: Settecento); con iniziale minuscola

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vanno invece quelli prima del mille (ad es.: settecento). I nomi dei decenni vanno per esteso e con inizialeminuscola (ad es.: anni venti dell’Ottocento).

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Le citazioni bibliografiche devono essere complete di tutti gli elementi, nell’ordine in cui segue: 1. cognome e nome (appuntato) dell’Autore in tondo (se gli autori sono due o più andranno separati da

una virgola);2. data di pubblicazione contenuta tra parentesi tonda (1987);3. titolo dell’opera in corsivo;4. eventuale indicazione del volume con cifra romana;5. numero dell’edizione, quando non è la prima, con numero arabo in esponente all’anno citato (es.:

19322);6. luogo di pubblicazione (seguito da virgola);7. nome dell’editore e, per le edizioni antiche, del tipografo;8. rinvio alla pagina (p.) o alle pagine (pp.): esempio: pp. 1-12, 21-25, 217-218, 315-324, 495-502.Tutti i suddetti elementi vanno separati tra loro da una virgola.

Alcuni esempi

A) Citazioni interne al testo

Il cognome di ogni autore citato va in parentesi tonda seguito da un virgola e dall’anno di edizione. Usareil punto e virgola se gli autori sono più di uno (Berndt, 2002; Harlow, 1983).……… Kernis (1993) ………………Wegener and Petty (1994)Se i nomi degli autori non sono contenuti nel testo (Kernis, 1993) (Wegener & Petty, 1994)In citazioni successive dello stesso volume o dove sono presenti più di sei autori segnalare solo il cognomedel primo autore ed inserire “et al.” Harris et al. (2001) afferma...(Kernis et al., 1993) (Harris et al., 2001)

1. Per autori con lo stesso cognome inserire l’iniziale del nome.(E. Johnson, 2001; L. Johnson, 1998)

2. Per i testi dello stesso autore pubblicati nello stesso anno usare l’ordine alfabetico (a, b,c)La ricerca di Berndt (1981a) illustra.....

3. Citazioni fonti indiretteJohnson afferma che...(come citato da Smith, 2003, p. 102).

4. Fonti elettronicheUsare lo stile autore-dataKenneth (2000) spiega...

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B) Riferimenti generali

Un solo autoreAl cognome segue l’iniziale del nome.Berndt T. J. (2002). Friendship quality and social development. Current Directions in Psychological Science,11, pp. 7-10.

Due o più autoriLista dei nomi, virgola e iniziali dei nomi.Wegener D. T., & Petty R. E. (1994). Mood management across affective states: the hedonic contingencyhypothesis. Journal of Personality & Social Psychology, 66, pp. 1034-1048.

Lista di autoriKernis M. H., Cornell D. P., Sun C. R., Berry A., Harlow T., Bach J. S. (1993). There’s more to self-esteemthan whether it is high or low: the importance of stability of self-esteem. Journal of Personality and SocialPsychology, 65, pp. 1190-1204.Berndt T. J. (1999). Friends’ influence on students’ adjustment to school. Educational Psychologist, 34, pp.15-28.Berndt T. J., Keefe K. (1995). Friends’ influence on adolescents’ adjustment to school. Child Development,66, pp. 1312-1329.Wegener D. T., Kerr N. L., Fleming M. A., & Petty R. E. (2000). Flexible corrections of juror judgments:implications for jury instructions. Psychology, Public Policy, & Law, 6, pp. 629-654.Wegener D. T., Petty R. E., & Klein D. J. (1994). Effects of mood on high elaboration attitude change: themediating role of likelihood judgments. European Journal of Social Psychology, 24, pp. 25-43.

OrganizzazioniAmerican Psychological Association. (2003).

C) Riferimenti bibliografici

Introduzioni e PrefazioniCitare le informazioni sulla pubblicazione specificando se: Introduzione, Prefazione, Postfazione. Tale re-gola è applicabile anche al contributo di un periodico.Funk R. & Kolln M. (1998). Introduction. In E.W. Ludlow (Ed.), Understanding English Grammar (pp. 1-2). Needham, Allyn and Bacon.

ArticoliAutore A. A., Autore B. B., & Autore C. C. (Anno). Titolo del contributo. Titolo del periodico, numero del vo-lume in corsivo (numero del fascicolo), pagine.Harlow H. F. (1983). Fundamentals for preparing psychology journal articles. Journal of Comparative andPhysiological Psychology, 55, pp. 893-896.Scruton R. (1996). The eclipse of listening. The New Criterion, 15(30), pp. 5-13.

Article in quotidiani Henry W. A., III. (1990, April 9). Making the grade in today’s schools. Time, 135, pp. 28-31.

LettereMoller G. (2002, Agosto). Ripples versus rumbles [Lettera all’editore]. Scientific American, 287(2), 12.

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Riferimenti in volumiAutore A. A. (Anno di pubblicazione). Titolo del volume. Lettera maiuscola anche per il sottotitolo. Luogo diedizione: Casa Editrice.Calfee R. C., & Valencia R. R. (1991). APA guide to preparing manuscripts for journal publication. Washington:American Psychological Association.

CurateleDuncan G. J., & Brooks-Gunn J. (Eds.). (1997). Consequences of growing up poor. New York: Russell SageFoundation.

Volumi con autori e curatoriPlath S. (2000). The unabridged journals (K.V. Kukil, Ed.). New York: Anchor.

TraduzioniLaplace P. S. (1951). A philosophical essay on probabilities. (F. W. Truscott & F. L. Emory, Trans.). New York:Dover. (Edizione originale pubblicata 1814).

Articoli o Capitoli contenuti in un VolumeAutore A. A., & Autore B. B. (Anno di pubblicazione). Titolo di capitolo. In A. Editor & B. Editor (Eds.),Tiolo del libro (pagine del capitolo). Luogo: Casa Editrice.O’Neil J. M., & Egan, J. (1992). Men’s and women’s gender role journeys: metaphor for healing, transition,and transformation. In B. R. Wainrib (Ed.), Gender issues across the life cycle (pp. 107-123). New York:Springer.

MultivolumiWiener P. (Ed.). (1973). Dictionary of the history of ideas (Vols. 1-4). New York: Scribner’s.

Altri RiferimentiBergmann P. G. (1993). Relativity. In The new encyclopedia britannica (Vol. 26, pp. 501-508). Chicago: En-cyclopedia Britannica.Coltheart M., Curtis B., Atkins P., & Haller M. (1993). Models of reading aloud: dual-route and parallel-distributedprocessing approaches. Psychological Review, 100, pp. 589-608.Yoshida Y. (2001). Essays in urban transportation (Tesi di Dottorato, Boston, College, 2001). DissertationAbstracts International, 62, 7741A.National Institute of Mental Health. (1990). Clinical training in serious mental illness (DHHS PubbblicazioneADM 90-1679). Washington, Government Printing Office.

ConferenzeSchnase J. L., & Cunnius E. L. (Eds.). (1995). Proceedings from CSCL ‘95: The First International Conferenceon Computer Support for Collaborative Learning. Mahwah: Erlbaum.

Pubblicazioni Web o articoli da un periodico OnlineAutore A. A., & Autore B. B. (Data di pubblicazione). Titolo dell’articolo. Titolo del Periodo Online, numerodel volume(numero del fascicolo, se presente). Estratto da http://www.someaddress.com/full/url/

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