GdM - 28-05-07

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Lunedì 28 Maggio 2007 24 AMBIENTE | Completata la rimozione dell’amianto (cancerogeno) lasciato in superficie Fibronit, vista sul 21 giugno Fissata la fine dei lavori di sicurezza. Chiusa l’emergenza, si può progettare il futuro Contatto Comune-curatela fallimentare per la cessione dei suoli GIUSEPPE ARMENISE l Fibronit, ormai è conto alla rovescia per la fine di que- sta prima fase di lavori a tutela della salute e contro la disper- sione di fibre d’amianto. La ditta incaricata, Teorema di Acquaviva, sta rispettando la tabella di marcia. Dal 21 giu- gno (quindi tra 22 giorni) si potrà finalmente pensare alla Fibronit, una delle aree più inquinate d’Italia, non già co- me un incubo, ma come la ri- sorsa sperata da tutti dal lon- tano 1995. Quell’area, infatti, è destinata a ricucire tre quar- tieri (Japigia, Madonnella e San Pasquale) con il più gran- de parco urbano cittadino. E intanto, dopo aver anti- cipato dalle colonne della «Gaz- zetta» la disponibilità a discu- tere sulla cessione dei suoli Fibronit al Comune (strada se- gnata, l’ha definita), ecco fi- nalmente il contatto formale tra il dottor Vittorio Galli, curatore fallimentare della so- cietà, e l’amministrazione Emiliano. Le parti si vedranno verosimilmente nella prima decade di giugno. Rimanendo ai lavori per la sicurezza e contro la disper- sione d’amianto cancerogeno, i prossimi passaggi non sono se- condari. E tuttavia, realizzare gli ulteriori lavori (comunque indispensabili e indifferibili) preparatori alla nascita del più grande parco pubblico citta- dino senza essere stretti dall’emergenza è altra cosa ri- spetto a quando si operava a «cuore aperto». Fino a che non si è provveduto con le opere che ora volgono al termine, infatti, i capannoni (tanto nelle coperture, quanto sulle pareti e sui pavimenti interni) costi- tuivano una minaccia costante per i cittadini. Il fatto che, alla fine, sarà stata rimossa una quantità di quasi 600 tonnellate di solo amianto friabile (il più pericoloso perché libero, cioè non compresso in altro tipo di materiale) dà la dimensione del pericolo. Le fibre d’amianto, esposte agli agenti atmosferici, si li- berano facilmente, volando an- che a chilometri di distanza. Il minerale, infatti, è costituito di fibre sottilissime. Il rischio dell’amianto sta nella capacità di penetrare nelle prime vie respiratorie e raggiungere i polmoni. Il vero nocciolo dell’emergenza della Fibronit sta nel fatto che questa «pol- veriera» costituita di milioni di fibre esposte a tutti gli agen- ti atmosferici è rimasta sco- perchiata per oltre dieci anni. Ormai in vista della data «storica» del 21 giugno, si è passati con decisione alle co- siddetta fase due. Fase, peral- tro, abbondantemente avviata già un anno fa con la presen- tazione dello studio di prefat- tibilità della messa in sicurez- za definitiva (demolizione dei capannoni e copertura fissa dei terreni esterni ai capan- noni stessi) del sito Fibronit. L’associazione temporanea tra gli studi di ingegneria Tede- si-Adamo ha ricevuto l’inca- rico di procedere con la pro- gettazione vera e propria. Intanto, incassata la dispo- nibilità al confronto da parte della curatela fallimentare, ci sono da approfondire le inten- zioni degli altri proprietari «confinanti» con l’area Fibro- nit. Su via Caldarola ci sono infatti un centro privato per la vendita di prodotti per il bri- colage, attualmente di proprie- tà del gruppo bancario Capi- talia, e un impianto dell’Enel. Dall’altra parte, verso via Oberdan, resiste ancora un de- posito mezzi dell’Amiu, da tempo in predicato di spostarsi in altra area, sempre a Japi- gia. Dimensioni e caratteristiche dell’intervento definitivo di ri- sanamento della Fibronit con la realizzazione, successiva- mente, del parco urbano (circa 12 ettari) più grande della città dipendono anche dai rapporti di «buon vicinato» che verran- no instaurati. Per questo, oltre che con la curatela, sono stati predisposti tavoli di confronto anche con gli altri privati coin- volti nella definizione del caso Fibronit. L’approvvigionamento dell’acqua: antico problema per la popolazione di Bari l L’approvvigionamento idrico ha sem- pre rappresentato una questione della massima importanza per la città di Bari, fino a raggiungere talvolta livelli di estre- ma drammaticità. Durante i secoli passati, l’acqua, generalmente usata dalla popo- lazione per uso potabile, era quella che il buon Dio mandava dal cielo con la pioggia mentre, per le altre esigenze, bisognava accontentarsi del liquido che, in vari punti del territorio, spontaneamente sgorgava dal sottosuolo ed aveva uno sgradevole sa- pore salmastro, il quale non lo rendeva per niente adatto a scopo alimentare. L’acqua piovana veniva perciò raccolta dai tetti, dai terrazzi e da qualsiasi su- perficie, preferibilmente inclinata, inca- nalandola, per mezzo di condutture in ter- racotta, dentro i pozzi costruiti tra le fon- damenta degli edifici. Tali serbatoi erano normalmente scavati negli strati di pietra calcarea ed avevano la forma di piccole stanze intonacate e protette da coperture a volta. Il contenuto non si presentava di qualità eccellente, perché non sempre i tetti, i terrazzi e le condotte di raccolta erano mantenuti puliti, per cui le tuba- zioni rimanevano ostruite dalle immon- dezze che vi venivano convogliate. L’acqua si presentava perciò impura, specialmente nella stagione estiva e dopo lunghi periodi di siccità, quando l‘atmosfera diventava ricca di sostanze inquinanti. Per queste ragioni, molti si adoperavano nel far passare il liquido raccolto nei pozzi grandi, dentro piccoli serbatoi, filtrandolo per liberarlo dalle impurità e cercando di renderlo fresco e capace di raggiungere, senza disturbi e difficoltà, le vie urinarie dell’organismo umano. Quando la capienza dei pozzi si esau- riva, si ricorreva all’acqua delle cisterne poste in luoghi pubblici o fuori dell’abitato, ma esposte agli stessi inconvenienti dei pozzi privati, con l’unica differenza che erano più ampie. Le stesse venivano infatti alimentate dalle piogge provenienti dalle strade e si presentavano perciò piene di terriccio, di escrementi e di altre cose del genere. Malgrado che queste acque non fossero pulite e avessero sapore assai di- sgustoso, gli individui erano costretti a berle, con le spiacevoli conseguenze che non è difficile immaginare. Non mancavano, soprattutto nella vi- cinanza del mare, delle polle di acqua sor- giva, comunemente detta “di Cristo”, la quale, essendo generalmente ricca di ele- menti minerali, determinava naturali ef- fetti benefici e veniva per questa ragione considerata come dotata di buoni effetti terapeutici. In caso di impellente neces- sità, pure le acque sorgive, malgrado il loro tanfo nauseabondo, venivano adoperate per dissetarsi. Dinanzi ad una situazione talmente gra- ve, le autorità baresi non si mostrarono mai indifferenti e si adoperarono in ogni maniera nell’escogitare i rimedi più idonei per alleviare le difficoltà che angustiavano la popolazione. Le cronache di ogni epoca della storia barese si soffermano, con do- vizia di particolari, sugli espedienti ai qua- li si cercò sempre di ricorrere: dalle sacre funzioni e processioni propiziatorie alla costruzione di pozzi e cisterne, nulla si lasciò di intentato. Ma codesti sono fatti dei quali molto spesso si è parlato e non con- viene quindi stare a ripetere, in questa sede, cose molto ben note a tutti. Vale forse ricordare che, nella prima metà dell’Ottocento, il consiglio decurio- nale barese, dopo averne tentate di tutte, senza conseguire alcun utile risultato, de- cise di far costruire un pozzo artesiano nel bel mezzo della vasta piazza chiamata S. Pietro, ma dovette poi recedere dal pro- posito, sia perché molto cospicua appariva la spesa necessaria a fronte di risultati alquanto incerti, sia per le difficoltà di carattere tecnico che occorreva superare a quel tempo. Dopo lunghe e animate di- scussioni, si ripiegò pertanto sulla rea- lizzazione di un capace serbatoio di acqua piovana nell’ambito del castello: questo venne infatti costruito nella zona prospi- ciente l’attuale palazzo delle finanze, oggi occupato dal giardino Isabella d’Aragona, a ridosso della cinta bastionata. L’opera incontrò naturalmente il gradimento della popolazione che, nei periodi della siccità più tormentosa, accorreva a rifornirsi di acqua con appositi recipienti. Tutto andò bene fino a quando il castello, con reale decreto del 6 giugno 1831, in seguito alle mutate contingenze di tempo, cessò di essere considerato come un’opera di difesa militare e venne trasferito all’am- ministrazione dell’interno, per essere adi- bito a carcere giudiziario. Da quel mo- mento, le frequenti interferenze delle su- periori autorità governative culminarono nella pretesa di impedire alla gente di Bari di utilizzare, in caso di necessità, le acque raccolte nei serbatoi del castello. Gli atti di archivio superstiti attestano che gli effetti della mutata situazione vol- sero al peggio perché, il 10 settembre del 1830, l’allora duca di Calabria Ferdinando di Borbone (che poco dopo divenne il re Ferdinando II), aveva ordinato di permet- tere alla popolazione barese di attingere dal castello l’acqua per dissetarsi, malgra- do la scarsezza, per qualche ora. Il sindaco Ignazio Salonna divulgò la notizia con un manifesto del 20 settembre. BARI CITTÀ UN PO’ DI STORIA di VITO A. MELCHIORRE Nella sequenza fotografica, dall’alto, la nuova collina creata dopo lo sversamento di tonnellate di pietrisco «isolante» sull’area inquinata da amianto prospicente il ponte San Pio; la centrale Enel, il deposito Amiu e il centro per il fai da te, tutti con affaccio su via Caldarola [foto Luca Turi]

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Lunedì 28 Maggio 200724AMBIENTE | Completata la rimozione dell’amianto (cancerogeno) lasciato in superficie

Fibronit, vista sul 21 giugnoFissata la fine dei lavori di sicurezza. Chiusa l’emergenza, si può progettare il futuroContatto Comune-curatela fallimentare per la cessione dei suoli

GIUSEPPE ARMENISE

l Fibronit, ormai è contoalla rovescia per la fine di que-sta prima fase di lavori a tuteladella salute e contro la disper-sione di fibre d’amianto. Laditta incaricata, Teorema diAcquaviva, sta rispettando latabella di marcia. Dal 21 giu-gno (quindi tra 22 giorni) sipotrà finalmente pensare allaFibronit, una delle aree piùinquinate d’Italia, non già co-me un incubo, ma come la ri-sorsa sperata da tutti dal lon-tano 1995. Quell’area, infatti, èdestinata a ricucire tre quar-tieri (Japigia, Madonnella eSan Pasquale) con il più gran-de parco urbano cittadino.

E intanto, dopo aver anti-cipato dalle colonne della «Gaz-zetta» la disponibilità a discu-tere sulla cessione dei suoliFibronit al Comune (strada se-gnata, l’ha definita), ecco fi-nalmente il contatto formaletra il dottor Vittorio Galli,curatore fallimentare della so-cietà, e l’amministrazioneEmiliano. Le parti si vedrannoverosimilmente nella primadecade di giugno.

Rimanendo ai lavori per lasicurezza e contro la disper-sione d’amianto cancerogeno, iprossimi passaggi non sono se-condari. E tuttavia, realizzaregli ulteriori lavori (comunqueindispensabili e indifferibili)preparatori alla nascita del piùgrande parco pubblico citta-dino senza essere strettidall’emergenza è altra cosa ri-spetto a quando si operava a«cuore aperto». Fino a che nonsi è provveduto con le opereche ora volgono al termine,infatti, i capannoni (tanto nellecoperture, quanto sulle pareti esui pavimenti interni) costi-tuivano una minaccia costanteper i cittadini. Il fatto che, allafine, sarà stata rimossa unaquantità di quasi 600 tonnellatedi solo amianto friabile (il piùpericoloso perché libero, cioènon compresso in altro tipo dimateriale) dà la dimensionedel pericolo.

Le fibre d’amianto, esposteagli agenti atmosferici, si li-

berano facilmente, volando an-che a chilometri di distanza. Ilminerale, infatti, è costituito difibre sottilissime. Il rischiodell’amianto sta nella capacitàdi penetrare nelle prime vierespiratorie e raggiungere ipolmoni. Il vero nocciolodell’emergenza della Fibronitsta nel fatto che questa «pol-veriera» costituita di milionidi fibre esposte a tutti gli agen-ti atmosferici è rimasta sco-perchiata per oltre dieci anni.

Ormai in vista della data«storica» del 21 giugno, si èpassati con decisione alle co-siddetta fase due. Fase, peral-tro, abbondantemente avviatagià un anno fa con la presen-tazione dello studio di prefat-tibilità della messa in sicurez-za definitiva (demolizione deicapannoni e copertura fissadei terreni esterni ai capan-noni stessi) del sito Fibronit.L’associazione temporanea tragli studi di ingegneria Tede-si-Adamo ha ricevuto l’inca -rico di procedere con la pro-gettazione vera e propria.

Intanto, incassata la dispo-nibilità al confronto da partedella curatela fallimentare, cisono da approfondire le inten-zioni degli altri proprietari«confinanti» con l’area Fibro-nit. Su via Caldarola ci sonoinfatti un centro privato per lavendita di prodotti per il bri-colage, attualmente di proprie-tà del gruppo bancario Capi-talia, e un impianto dell’Enel.Dall’altra parte, verso viaOberdan, resiste ancora un de-posito mezzi dell’Amiu, datempo in predicato di spostarsiin altra area, sempre a Japi-gia.

Dimensioni e caratteristichedell’intervento definitivo di ri-sanamento della Fibronit conla realizzazione, successiva-mente, del parco urbano (circa12 ettari) più grande della cittàdipendono anche dai rapportidi «buon vicinato» che verran-no instaurati. Per questo, oltreche con la curatela, sono statipredisposti tavoli di confrontoanche con gli altri privati coin-volti nella definizione del casoF i b ro n i t .

L’approvvigionamentodell’acqua: antico problemaper la popolazione di Bari

l L’approvvigionamento idrico ha sem-pre rappresentato una questione dellamassima importanza per la città di Bari,fino a raggiungere talvolta livelli di estre-ma drammaticità. Durante i secoli passati,l’acqua, generalmente usata dalla popo-lazione per uso potabile, era quella che ilbuon Dio mandava dal cielo con la pioggiamentre, per le altre esigenze, bisognavaaccontentarsi del liquido che, in vari puntidel territorio, spontaneamente sgorgavadal sottosuolo ed aveva uno sgradevole sa-pore salmastro, il quale non lo rendeva perniente adatto a scopo alimentare.

L’acqua piovana veniva perciò raccoltadai tetti, dai terrazzi e da qualsiasi su-perficie, preferibilmente inclinata, inca-nalandola, per mezzo di condutture in ter-racotta, dentro i pozzi costruiti tra le fon-damenta degli edifici. Tali serbatoi eranonormalmente scavati negli strati di pietracalcarea ed avevano la forma di piccolestanze intonacate e protette da coperture avolta. Il contenuto non si presentava diqualità eccellente, perché non sempre itetti, i terrazzi e le condotte di raccoltaerano mantenuti puliti, per cui le tuba-zioni rimanevano ostruite dalle immon-dezze che vi venivano convogliate. L’acquasi presentava perciò impura, specialmentenella stagione estiva e dopo lunghi periodidi siccità, quando l‘atmosfera diventavaricca di sostanze inquinanti.

Per queste ragioni, molti si adoperavanonel far passare il liquido raccolto nei pozzigrandi, dentro piccoli serbatoi, filtrandoloper liberarlo dalle impurità e cercando direnderlo fresco e capace di raggiungere,senza disturbi e difficoltà, le vie urinariedell’organismo umano.

Quando la capienza dei pozzi si esau-riva, si ricorreva all’acqua delle cisterneposte in luoghi pubblici o fuori dell’ab i t at o,ma esposte agli stessi inconvenienti deipozzi privati, con l’unica differenza cheerano più ampie. Le stesse venivano infattialimentate dalle piogge provenienti dallestrade e si presentavano perciò piene diterriccio, di escrementi e di altre cose delgenere. Malgrado che queste acque nonfossero pulite e avessero sapore assai di-sgustoso, gli individui erano costretti aberle, con le spiacevoli conseguenze chenon è difficile immaginare.

Non mancavano, soprattutto nella vi-cinanza del mare, delle polle di acqua sor-giva, comunemente detta “di Cristo”, laquale, essendo generalmente ricca di ele-menti minerali, determinava naturali ef-fetti benefici e veniva per questa ragioneconsiderata come dotata di buoni effettiterapeutici. In caso di impellente neces-sità, pure le acque sorgive, malgrado il loro

tanfo nauseabondo, venivano adoperateper dissetarsi.

Dinanzi ad una situazione talmente gra-ve, le autorità baresi non si mostraronomai indifferenti e si adoperarono in ognimaniera nell’escogitare i rimedi più idoneiper alleviare le difficoltà che angustiavanola popolazione. Le cronache di ogni epocadella storia barese si soffermano, con do-vizia di particolari, sugli espedienti ai qua-li si cercò sempre di ricorrere: dalle sacrefunzioni e processioni propiziatorie allacostruzione di pozzi e cisterne, nulla silasciò di intentato. Ma codesti sono fatti deiquali molto spesso si è parlato e non con-viene quindi stare a ripetere, in questasede, cose molto ben note a tutti.

Vale forse ricordare che, nella primametà dell’Ottocento, il consiglio decurio-nale barese, dopo averne tentate di tutte,senza conseguire alcun utile risultato, de-cise di far costruire un pozzo artesiano nelbel mezzo della vasta piazza chiamata S.Pietro, ma dovette poi recedere dal pro-posito, sia perché molto cospicua apparivala spesa necessaria a fronte di risultatialquanto incerti, sia per le difficoltà dicarattere tecnico che occorreva superare aquel tempo. Dopo lunghe e animate di-scussioni, si ripiegò pertanto sulla rea-lizzazione di un capace serbatoio di acquapiovana nell’ambito del castello: questovenne infatti costruito nella zona prospi-ciente l’attuale palazzo delle finanze, oggioccupato dal giardino Isabella d’Ara gona,a ridosso della cinta bastionata. L’operaincontrò naturalmente il gradimento dellapopolazione che, nei periodi della siccitàpiù tormentosa, accorreva a rifornirsi diacqua con appositi recipienti.

Tutto andò bene fino a quando il castello,con reale decreto del 6 giugno 1831, inseguito alle mutate contingenze di tempo,cessò di essere considerato come un’operadi difesa militare e venne trasferito all’am -ministrazione dell’interno, per essere adi-bito a carcere giudiziario. Da quel mo-mento, le frequenti interferenze delle su-periori autorità governative culminarononella pretesa di impedire alla gente di Baridi utilizzare, in caso di necessità, le acqueraccolte nei serbatoi del castello.

Gli atti di archivio superstiti attestanoche gli effetti della mutata situazione vol-sero al peggio perché, il 10 settembre del1830, l’allora duca di Calabria Ferdinandodi Borbone (che poco dopo divenne il reFerdinando II), aveva ordinato di permet-tere alla popolazione barese di attingeredal castello l’acqua per dissetarsi, malgra-do la scarsezza, per qualche ora. Il sindacoIgnazio Salonna divulgò la notizia con unmanifesto del 20 settembre.

BARI CITTÀ

UN PO’ DI STORIA di VITO A. MELCHIORRE

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Nella sequenzafotografica, dall’alto, la

nuova collina creatadopo lo sversamento di

tonnellate di pietrisco«isolante» sull’area

inquinata da amiantoprospicente il ponteSan Pio; la centrale

Enel, il deposito Amiu eil centro per il fai da te,tutti con affaccio su viaCaldarola [foto Luca Turi]