Forno Mauro Studi Storici 2006

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Aspetti dell’esperienza totalitaria fascista. Limiti e contraddizioni nella gestione del «quarto potere» Mauro Forno Dopo l’ascesa al potere del fascismo, Mussolini e i suoi gerarchi manifestarono un immediato interesse per i mezzi di comunicazione di massa e, in questo ambito, una particolare predilezione per l’organizzazione della stampa, che fu assoggettata a forme di controllo, pianificazione e manipolazione senza precedenti nella storia del paese 1 . A prima vista questa caratterizzazione non distinse in maniera sostanziale l’esperienza mussoliniana da altre ad essa storicamente comparabili, come ad esempio quella nazionalsocialista o quella sovietica. Esistono tuttavia alcuni elementi - legati soprattutto allo specifico modello di sviluppo del capitalismo italiano e alla tipologia dei soggetti con cui Mussolini si era trovato a interloquire – che conferirono all’organizzazione fascista della stampa gradazioni e caratteri abbastanza peculiari. Si tratta, evidentemente, di aspetti che necessitano di un’analisi attenta, affrancata da facili semplificazioni o, peggio ancora, da tentazioni generalizzanti. Come ad esempio quella di retrodatare al primo quindicennio mussoliniano i livelli di pianificazione raggiunti dal regime alla fine degli anni Trenta; o di ritenere il ricorso a forme pervasive di intervento sulla stampa – dalla manipolazione alla censura – come espressioni di un unico possibile modello di organizzazione; o, 1 Numerosi sono stati gli studi sulla stampa durante il fascismo: da quelli ormai classici di Paolo Murialdi ( La stampa quotidiana del regime fascista, in N. Tranfaglia, P. Murialdi, M. Legnani, La stampa italiana nell’età fascista, Roma- Bari, Laterza, 1980; poi in La stampa del regime fascista, Roma-Bari, Laterza, 1986) e di Philip V. Cannistraro ( La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975), alle recenti raccolte antologiche di «rapporti» e di «veline» del ministero della Cultura popolare, curate da Nicola Tranfaglia (Ministri e giornalisti. La guerra e il Minculpop 1939-43, Torino, Einaudi, 2005; La stampa del regime 1932-1943. Le veline del Minculpop per orientare l'informazione, Milano, Bompiani, 2005). Di un certo interesse sono ancora alcuni saggi pubblicati tra il 1979 e il 1987 da Mario Isnenghi, ora raccolti in L’Italia del fascio, Firenze, Giunti, 1996. Di carattere generale, ma non prive di riferimenti al periodo fascista, sono invece le analisi generali di U. Bellocchi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, Edizioni Edison, 1974-1980, 8 voll.; P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, il Mulino, 1996; G. Farinelli, E. Paccagnini, G. Santambrogio, A.I. Villa, Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ai giorni nostri , Torino, Utet, 1997; G. Gozzini, Storia del giornalismo, Milano, Bruno Mondadori, 2000 Affrontano – o, in certi casi, sfiorano - il periodo fascista anche alcune ricostruzioni dedicate a singole testate, come ad esempio A. Russo et al., La «Nazione» nei suoi cento anni: 1859-1959, Bologna, Poligrafici il Resto del Carlino, 1959; B. Vigezzi (a cura di), 1919-1925. Dopoguerra e fascismo. Politica e stampa in Italia, Bari, Laterza, 1965; P. Melograni (a cura di), Corriere della Sera (1919-1943), Rocca San Casciano, Cappelli, 1965; G. Ratti, «Il Corriere Mercantile» di Genova dall’Unità al fascismo (1861-1925), Parma, Guanda, 1973; L. Barile, «Il Secolo» (1865-1923). Storia di due generazioni della democrazia lombarda, Parma, Guanda, 1974; G. Licata, Storia del «Corriere della Sera», Milano, Rizzoli, 1976; M. De Marco, «Il Gazzettino». Storia di un quotidiano, Venezia, Marsilio, 1976; F. Barbagallo, «Il Mattino» degli Scarfoglio (1892-1928), Milano, Guanda, 1979; A. Scarantino, «L’Impero». Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti , Roma, Bonacci, 1981; G. Talamo, Il «Messaggero». Un giornale durante il fascismo. Cento anni di storia (1919-1946) , Firenze, Le Monnier, 1984, 2 voll.; V. Castronovo, La Stampa 1867-1925. Un'idea di democrazia liberale, Milano, Franco Angeli, 1987; P. Bairati, S. Carrubba, La trasparenza difficile. Storia di due giornali economici: «Il Sole» e «24 Ore», Palermo, Sellerio, 1990; M. Pizzigallo, Un giornale del Sud. Dal Corriere delle Puglie alla Gazzetta del Mezzogiorno 1887-1943, Milano, Franco Angeli, 1996; F. Lussana, «l’Unità» 1924-1939: un giornale «nazionale» e «popolare», Alessandria, Dell’Orso, 2002. Sulla stampa periodica romana, ma di un certo interesse generale, è anche F. Mazzonis (a cura di), La stampa periodica romana durante il fascismo (1927-1943) , Roma, Istituto nazionale di studi romani, 1998, v. I, in particolare i saggi di A. Cortellessa, L. Cantatore, F. Gurreri e R. De Longis.

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Aspetti dell’esperienza totalitaria fascista. Limiti e contraddizioni nella gestione

del «quarto potere»

Mauro Forno

Dopo l’ascesa al potere del fascismo, Mussolini e i suoi gerarchi manifestarono un immediato

interesse per i mezzi di comunicazione di massa e, in questo ambito, una particolare predilezione

per l’organizzazione della stampa, che fu assoggettata a forme di controllo, pianificazione e

manipolazione senza precedenti nella storia del paese1.

A prima vista questa caratterizzazione non distinse in maniera sostanziale l’esperienza mussoliniana

da altre ad essa storicamente comparabili, come ad esempio quella nazionalsocialista o quella

sovietica. Esistono tuttavia alcuni elementi - legati soprattutto allo specifico modello di sviluppo del

capitalismo italiano e alla tipologia dei soggetti con cui Mussolini si era trovato a interloquire – che

conferirono all’organizzazione fascista della stampa gradazioni e caratteri abbastanza peculiari.

Si tratta, evidentemente, di aspetti che necessitano di un’analisi attenta, affrancata da facili

semplificazioni o, peggio ancora, da tentazioni generalizzanti. Come ad esempio quella di

retrodatare al primo quindicennio mussoliniano i livelli di pianificazione raggiunti dal regime alla

fine degli anni Trenta; o di ritenere il ricorso a forme pervasive di intervento sulla stampa – dalla

manipolazione alla censura – come espressioni di un unico possibile modello di organizzazione; o,

1 Numerosi sono stati gli studi sulla stampa durante il fascismo: da quelli ormai classici di Paolo Murialdi ( La stampa quotidiana del regime fascista, in N. Tranfaglia, P. Murialdi, M. Legnani, La stampa italiana nell’età fascista, Roma-Bari, Laterza, 1980; poi in La stampa del regime fascista, Roma-Bari, Laterza, 1986) e di Philip V. Cannistraro (La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975), alle recenti raccolte antologiche di «rapporti» e di «veline» del ministero della Cultura popolare, curate da Nicola Tranfaglia (Ministri e giornalisti. La guerra e il Minculpop 1939-43, Torino, Einaudi, 2005; La stampa del regime 1932-1943. Le veline del Minculpop per orientare l'informazione, Milano, Bompiani, 2005). Di un certo interesse sono ancora alcuni saggi pubblicati tra il 1979 e il 1987 da Mario Isnenghi, ora raccolti in L’Italia del fascio, Firenze, Giunti, 1996. Di carattere generale, ma non prive di riferimenti al periodo fascista, sono invece le analisi generali di U. Bellocchi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, Edizioni Edison, 1974-1980, 8 voll.; P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, il Mulino, 1996; G. Farinelli, E. Paccagnini, G. Santambrogio, A.I. Villa, Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ai giorni nostri, Torino, Utet, 1997; G. Gozzini, Storia del giornalismo, Milano, Bruno Mondadori, 2000 Affrontano – o, in certi casi, sfiorano - il periodo fascista anche alcune ricostruzioni dedicate a singole testate, come ad esempio A. Russo et al., La «Nazione» nei suoi cento anni: 1859-1959, Bologna, Poligrafici il Resto del Carlino, 1959; B. Vigezzi (a cura di), 1919-1925. Dopoguerra e fascismo. Politica e stampa in Italia, Bari, Laterza, 1965; P. Melograni (a cura di), Corriere della Sera (1919-1943), Rocca San Casciano, Cappelli, 1965; G. Ratti, «Il Corriere Mercantile» di Genova dall’Unità al fascismo (1861-1925), Parma, Guanda, 1973; L. Barile, «Il Secolo» (1865-1923). Storia di due generazioni della democrazia lombarda, Parma, Guanda, 1974; G. Licata, Storia del «Corriere della Sera», Milano, Rizzoli, 1976; M. De Marco, «Il Gazzettino». Storia di un quotidiano, Venezia, Marsilio, 1976; F. Barbagallo, «Il Mattino» degli Scarfoglio (1892-1928), Milano, Guanda, 1979; A. Scarantino, «L’Impero». Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti, Roma, Bonacci, 1981; G. Talamo, Il «Messaggero». Un giornale durante il fascismo. Cento anni di storia (1919-1946), Firenze, Le Monnier, 1984, 2 voll.; V. Castronovo, La Stampa 1867-1925. Un'idea di democrazia liberale, Milano, Franco Angeli, 1987; P. Bairati, S. Carrubba, La trasparenza difficile. Storia di due giornali economici: «Il Sole» e «24 Ore», Palermo, Sellerio, 1990; M. Pizzigallo, Un giornale del Sud. Dal Corriere delle Puglie alla Gazzetta del Mezzogiorno 1887-1943, Milano, Franco Angeli, 1996; F. Lussana, «l’Unità» 1924-1939: un giornale «nazionale» e «popolare», Alessandria, Dell’Orso, 2002. Sulla stampa periodica romana, ma di un certo interesse generale, è anche F. Mazzonis (a cura di), La stampa periodica romana durante il fascismo (1927-1943), Roma, Istituto nazionale di studi romani, 1998, v. I, in particolare i saggi di A. Cortellessa, L. Cantatore, F. Gurreri e R. De Longis.

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ancora, di individuare una perfetta consonanza tra quanto teoricamente delineato – e spesso

proclamato - da Mussolini e dagli altri gerarchi e quanto concretamente realizzato.

In queste pagine intendo soffermarmi su alcuni di questi aspetti, focalizzando in particolare

l’attenzione su quelli che (legandosi anche alla peculiare conformazione del sistema editoriale

italiano e ad alcune «contraddittorie» scelte operate nel corso degli anni dal fascismo) avrebbero

prodotto nel settore incongruenze e, nel complesso, non trascurabili elementi di «inefficienza»2.

Il primo aspetto si lega, a mio parere, alla mancata assunzione, da parte del fascismo, di un effettivo

controllo editoriale sui giornali, i quali rimasero non di rado agli imprenditori che li possedevano

prima della marcia su Roma e passarono poi a un’azione filogovernativa per ragioni di pura

convenienza.

Sin dai giorni successivi alla marcia su Roma, gran parte della stampa liberale a maggiore

diffusione, pur non manifestando una incondizionata simpatia verso Mussolini, maturò la

convinzione che - di fronte alla prospettiva di una rivoluzione socialista o di una recrudescenza del

conflitto sociale - un governo in cui i fascisti avessero rivestito un ruolo di stimolo e di indirizzo

avrebbe potuto rappresentare un passaggio utile per la nazione. Gli editori delle principali testate -

che in Italia, soprattutto dall'inizio del secolo, erano anche alcuni fra i maggiori gruppi industriali e

finanziari del paese – si dimostrarono insomma abbastanza disponibili ad assecondare alcune

aspirazioni del nuovo presidente del consiglio, in una situazione in cui, per giunta, i magri profitti –

per non dire le vere e proprie perdite – della gestione editoriale delle testate erano andati

ulteriormente decurtandosi a causa dell’aumento del costo della carta, delle agitazioni dei tipografi e

degli scioperi dei trasporti. Problemi, questi, a fronte dei quali il fascismo aveva iniziato a lanciare

alcuni segnali rassicuranti e di diverso tenore; a partire dalla prospettiva di imprimere un carattere

fortemente regressivo alla politica fiscale, per ridare slancio ai profitti delle imprese, fino a quello di

attenuare i conflitti sociali attraverso un depotenziamento della carica rivoluzionaria del movimento

operaio3.

In un simile contesto, non deve apparire stupefacente che, all’inizio di ottobre del 1922, vale a dire

ancora prima della marcia su Roma, l’organo per eccellenza dell’opinione pubblica liberale, «Il

Corriere della Sera», parlasse dell’esigenza di un governo con lo «spirito liberale» e la «risoluzione

fascista», auspicando la formazione di un esecutivo capace di contrastare le mire antilegalitarie

presenti tra le camicie nere ma anche di garantire spazio e futuro ai tradizionali ceti dirigenti (una

2 Ho trattato questi temi soprattutto nei miei: Fascismo e informazione. Ermanno Amicucci e la rivoluzione giornalistica incompiuta. 1922-1945, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003; La stampa del Ventennio. Strutture e trasformazioni nello stato totalitario, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005; La stampa cattolica alla prova del fascismo, in «Contemporanea», 2003, 4, pp. 621-646. Rimando ad essi anche per quanto riguarda le necessarie indicazioni bibliografiche.3 D. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana (1880-1990), Bologna, il Mulino, 1992, pp. 108-109.

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speranza, quest’ultima, che si sarebbe in parte rafforzata in seguito all’ingresso nel neonato governo

a guida fascista di alcuni rappresentanti del mondo liberale e cattolico)4.

E nemmeno deve meravigliare che, alcuni mesi dopo la marcia, il senatore Mario Crespi –

comproprietario, assieme ai due fratelli e alla madre, Giulia Morbio, del pacchetto di maggioranza

del «Corriere della Sera» - chiedesse a chiare lettere al direttore Luigi Albertini di porre il giornale

su una linea di «serena attesa», di «prudente moderazione e di voluta indulgenza» verso il nuovo

governo5.

Mussolini, naturalmente, non poteva accontentarsi di queste - pur significative - espressioni di

sostegno e, dopo una serie di operazioni di parziale rimescolamento dei pacchetti azionari, che

impegnarono il primo quadriennio di governo fascista, volle garantirsi una condizione in cui a

giocare i ruoli decisivi all’interno di ogni testata erano quegli industriali che avevano bisogno del

fascismo per crescere, proliferare o anche solo sopravvivere, in un vicendevole scambio tra gli

interessi pubblici del fascismo e quelli privati delle imprese.

Egli non volle insomma assicurarsi una completa nazionalizzazione delle principali testate (solo in

alcuni casi, come in quello del «Mattino» di Napoli, la maggioranza delle azioni dell’azienda

editoriale furono simbolicamente consegnate dai proprietari nelle mani dello stesso capo del

fascismo)6 e – conseguentemente – un’assunzione degli oneri economici della loro gestione. Decise,

piuttosto, di assicurare questi organi di stampa ad alcuni fra i maggiori gruppi capitalistico-

industriali del paese, «accontentandosi» di garantirsi la prerogativa di un’azione di stretta vigilanza

(oltre a quella – non trascurabile - di imporre direttori responsabili «graditi»).

Ma tale formula di compromesso, come appare evidente, non era priva di riflessi sotto il profilo del

controllo della catena editoriale. Essa non garantiva infatti a Mussolini un’invadenza assoluta sulle

questioni interne ai singoli organi di stampa, i quali – per giunta – erano obbligati a non trascurare

le esigenze del mercato, sforzandosi di assecondare le aspirazioni e i gusti del pubblico di lettori,

prima ancora che plasmarne – come esigeva il governo - le convinzioni politiche e le coscienze7.

Il secondo aspetto si lega allo scarso grado di apprezzamento manifestato dagli editori, dalle alte

sfere della politica e dalla stessa categoria dei giornalisti, verso i tentativi dei teorici della stampa di

creare una generazione di professionisti autenticamente «fascista».

All’interno del fascismo alcuni personaggi, come Giuseppe Bottai ed Ermanno Amicucci,

4 E. Decleva, «Il Corriere della Sera» (1918-1925), in B. Vigezzi (a cura di), 1919-1925. Dopoguerra e fascismo. Politica e stampa in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 227-240; P. Melograni (a cura di), Corriere della Sera (1919-1943), Rocca San Casciano, Cappelli, 1965, pp. XXXVII-XLII.5 Lettera di Mario Crespi a Luigi Albertini, Milano, 14 giugno 1923, in L. Albertini, Epistolario 1911-1926, (a cura di O. Barié), Milano, Mondadori, 1968, vol. IV, pp. 1730-1731.6 Cfr. V. Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 19953, p. 339; F. Barbagallo, «Il Mattino» degli Scarfoglio, cit., pp. 209-2137 V. de Grazia, Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista. L'organizzazione del dopolavoro , Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 251.

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manifestarono sin dall’inizio l’esigenza di creare, in campo giornalistico, una nuova generazione di

professionisti, non solo fascistizzata ma schiettamente fascista, superando l’inadeguatezza di un

sistema che da un lato prevedeva l’iscrizione all’albo – anche questa una creazione del fascismo -

per esercitare la professione e, dall’altro, non indicava un percorso specifico di studi o di

formazione per accedervi.

Nel luglio 1928, in un articolo pubblicato sulla «Nuova Antologia», Ermanno Amicucci, segretario

nazionale del Sindacato fascista dei giornalisti (Snfg), rappresentante unico della categoria e

soggetto preposto alla gestione dell’albo professionale, espose approfonditamente il suo progetto di

Scuola fascista di giornalismo8, volta a creare una «nuova generazione» di professionisti e a

superare la «tradizionale» inerzia fisica e mentale del giornalista italiano. Nel puntare a creare dei

veri «reporters», formati alla cultura del fascismo9, tale istituzione intendeva rifarsi agli sviluppi,

nel campo della formazione tecnica e professionale, che si andavano realizzando in quegli anni in

alcuni paesi come l'Inghilterra, la Germania, la Svizzera e gli Stati Uniti, con opportuni adattamenti

alle specifiche esigenze del fascismo10.

Molto apprezzate dal segretario nazionale del sindacato erano, in particolare, le scuole di stampo

americano, sul modello della Columbia School of Journalism, che Joseph Pulitzer aveva creato

presso la Columbia University11.

Quella di Amicucci fu, nella sostanza, l’espressione dell’atteggiamento di una corrente fascista

decisa ad affermare un approccio nuovo e, dal proprio punto di vista, razionale alla risoluzione dei

«problemi» in campo formativo. Un approccio che si alimentava sia della fiducia nei risultati

conseguibili attraverso un sistema di educazione gestito dallo stato12, sia della convinzione che,

importando modelli elaborati con successo in altri paesi, si sarebbe potuto garantire al giornalismo

fascista una dimensione scientifica, oltre che ideologica13.

8 E. Amicucci, Scuola di giornalismo, in «Nuova Antologia», n. CCLX (1928), pp. 73-74. 9 Cfr. ad esempio in Creare la classe dirigente, in «La Gazzetta del Popolo», 15 febbraio 1927, p. 1. Su questi temi cfr. G. Belardelli, Il fascismo e l'organizzazione della cultura, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. 4. Guerre e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 478-496; id., Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 49-64; M. Addis Saba, Gioventù italiana del littorio. La stampa dei giovani nella guerra fascista, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 51-87; ma anche i numerosi lavori di Gabriele Turi sul mondo intellettuale italiano durante il fascismo.10 E. Amicucci, Scuola di giornalismo, in «Nuova Antologia», n. CCLX (1928), pp. 73-74. 11 Cfr. la lettera di Amicucci a Guido Letta, Roma, 16 settembre 1926, in Archivio centrale dello stato (ACS), Segr. part. duce, cart. ris., b. 78, f. «Amicucci Ermanno». Sui richiami di Amicucci al modello educativo americano si veda ad esempio La garanzia futura del Regime, in «La Gazzetta del Popolo», 10 marzo 1927, p. 1 e La preparazione dei nuovi italiani, in «La Nazione», 10 marzo 1927, p. 1. Sull’appassionato dibattito che, negli Stati Uniti, avrebbe interessato dopo la fine della guerra il tema della cultura della notizia e il ruolo civile e politico del giornalista cfr. invece l’ultima edizione italiana del volume di W. Lippmann, L’opinione pubblica, (prefazione di N. Tranfaglia), Roma, Donzelli, 1995, pubblicato per la prima volta nel 1922 a New York; G. Gozzini, Storia del giornalismo, cit., pp. 211-218; M. Schudson, La scoperta della notizia. Storia sociale della stampa americana, Napoli, Liguori, 1987; sul tema della propaganda cfr. invece D. Frezza, Informazione o propaganda: il dibattito americano tra le due guerre, in M. Vaudagna (a cura di), L’estetica della politica. Europa e america negli anni Trenta, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 103-128.12 Cfr. ad esempio E. Amicucci, Fascisti e cattolici, in «La Gazzetta del Popolo», 30 marzo 1928, p. 1; ma anche Gran Consiglio, Partito e Parlamento e Generazione fascista, ivi, 28 gennaio e 1° giugno 1928, p. 1.13 E. Amicucci, Fare gli Italiani, in «La Gazzetta del Popolo», 7 settembre 1927, p. 2.

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Sotto il profilo formale, la Scuola di giornalismo – poi effettivamente inaugurata nel gennaio 1930 -

fu classificata come un «istituto di cultura superiore, abilitato a rilasciare un diploma equivalente ad

una laurea per l'esercizio della professione»14. Il programma di studio fu chiaramente ispirato al

modello americano di Pulitzer, sia per le discipline insegnate, sia per l’identica durata – biennale -

dei corsi15. L’attestato finale abilitava all'iscrizione all’albo dei «professionisti» senza bisogno dei

tradizionali diciotto mesi di pratica redazionale.

Nel mondo giornalistico fascista le reazioni all’iniziativa di Amicucci furono decisamente poco

entusiastiche. Esse si scontrarono infatti sia con la preconcetta avversione di una parte del fascismo

intransigente - refrattario ad approcci troppo teorici, scolastici, non strettamente legati all'azione16 -

sia con il timore di molti giornalisti, spesso privi di titoli di studio di livello elevato, di vedersi in

qualche modo «declassati» o anche solo di dovere accettare la concorrenza dei giovani che

chiedevano di costruirsi uno spazio attraverso le strutture formative messe a loro disposizione dal

fascismo17. Timori, questi, non del tutto ingiustificati, se si considera che tra gli iscritti alla Scuola

(e, quindi, tra i futuri giornalisti), gli studenti in possesso di una laurea saranno il 15% del totale, i

diplomati il 23%, gli studenti universitari ben il 60%.

La vita dell’istituzione fu dunque brevissima. Essa chiuse i battenti il 23 giugno 1933, per decisione

del successore di Amicucci alla segreteria del sindacato, Aldo Valori, dopo aver diplomato sessanta

dei 137 studenti complessivamente iscritti. Le cause del suo fallimento furono naturalmente varie: i

limitati finanziamenti garantiti dallo stato, il quasi inesistente insegnamento pratico delle tecniche

giornalistiche, l'insufficiente preparazione di molti docenti; ma – come ho appena accennato -

soprattutto la scarsa simpatia con cui fu guardata da larghi settori della categoria18 e, dopo

l'allontanamento di Giuseppe Bottai dal governo, nel luglio 1932, la perdita degli appoggi politici

necessari alla sua sopravvivenza e al suo sviluppo19. Anche Mussolini, inizialmente non contrario

14 A. Castelli, La Scuola di giornalismo, in Snfg (a cura del), Annuario della stampa italiana 1931-1932, Bologna, Zanichelli, 1932, p. 305. 15 Per una comparazione fra i programmi di insegnamento delle due scuole si veda E. Amicucci, Scuola di giornalismo, cit., pp. 80-83 e, dello stesso autore, Il giornalismo nel regime fascista, Roma, Edizioni del «Diritto del Lavoro», 1929, pp. 110-114.16 E. Gallavotti, La Scuola fascista di giornalismo (1930-1933), Milano, SugarCo, 1982, p. 41.17 Ivi, pp. 40-42. Una vicenda che riassume esemplarmente le ampie riserve che l’iniziativa della Scuola di giornalismo avrebbe sollevato fu quella che vide protagonisti il direttore del «Corriere della Sera», Maffio Maffii, e Ugo Ojetti, al quale lo stesso Maffii aveva chiesto la preparazione di un «elzeviro di cordiale commento» al tema. L'articolo fu infatti pubblicato solo dopo una lunga gestazione, il 14 settembre 1928, con il titolo Scuola di giornalismo, e fu poi causa di controverse reazioni, come si deduce da questa lettera che il 18 settembre il direttore Maffii scrisse ad Ojetti: «Caro Ugo, nel dubbio che ti possano interessare, mi affretto a inviarti le lettere che da parte di nostri "assidui" mi pervengono a proposito del tuo articolo sulla Scuola di Giornalismo. Vedi tu se sia il caso o no di prestare qualche attenzione ad alcune di esse». Il 25 settembre lo stesso Maffii scrisse invece: «Per tua curiosità e informazione, ti accludo un ritaglio del Torchio, contenente osservazioni e critiche al tuo articolo sulle Scuole di Giornalismo [...]. Siccome potrebbe darsi che tu stesso voglia mandare una lettera al Torchio in risposta all'articolo in questione, ritengo mio dovere comunicartelo». Tutto il carteggio in Archivio del «Corriere della Sera» (ACDS), «Carteggio personaggi e società», cart. 147, f. 416, «Ojetti Ugo».18 Per alcune reazioni si veda M. Forno, Fascismo e informazione, cit., pp. 103-109 e 112-115, ma anche le informative che provenivano periodicamente alla segreteria del Pnf, in ACS, Part. naz. fasc., «Senatori e consiglieri nazionali», b. 15, f. B 327 «Guglielmotti Umberto».

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all’esperimento20, si convinse infatti abbastanza in fretta che non sarebbe risultato utile, per il

fascismo, insistere per quella strada.

Ebbe inizio, proprio in quei frangenti, una nuova fase di riorganizzazione del settore giornalistico,

che avrebbe avuto il suo coronamento ufficiale con l’approdo di Galeazzo Ciano all’Ufficio stampa

del capo del governo (agosto 1933) e la propensione - da lui immediatamente manifestata -

all’imitazione del modello tedesco. Da qui anche la rapida esplosione dello strumento delle veline,

con una accentuatissima «deresponsabilizzazione» del ruolo dei giornalisti, sintomo dell’acquisita

certezza, da parte del regime, che persino le «leve» di professionisti create con le strutture educative

messe a disposizione dal fascismo non avrebbero saputo partorire autonomamente una nuova

stampa, pienamente funzionale alla sua causa.

Non soddisfatto del contributo offerto «dal basso» dalla classe giornalistica (e di forme di controllo

esercitate ancora in parte «a posteriori»), con l’inizio del secondo decennio di potere il regime si

convinse dunque dell’esigenza di una vasta pianificazione «a priori» delle informazioni.

A fronte di una sbandierata vocazione al giovanilismo e alla rottura rivoluzionaria, a prevalere fu

alla fine l’esigenza di ottenere dai vecchi giornalisti prefascisti l’asservimento gerarchico

normalmente richiesto agli altri «funzionari» dello stato.

Il terzo elemento su cui desidero soffermarmi riguarda il processo di epurazione dei giornalisti

«antifascisti» (avviato su larga scala a partire dall’inizio del 1927), che ebbe delle conseguenze dure

ma pur sempre insufficienti, se tarate sulle esigenze di un regime almeno a parole determinato a

rimuovere qualsiasi residuo di giornalismo liberale.

In effetti, per il segretario nazionale del sindacato dei giornalisti, a cui era stata delegata l’opera di

epurazione, fu sin dall’inizio molto difficile garantire caratteri uniformi e intransigenti alla propria

azione. Prima le lacune legislative, poi la generica formulazione della legge, consentirono infatti

anche alle gerarchie minori del partito di esercitare pressioni tese ad allontanare dalle redazioni

determinati giornalisti, a promuoverne o avvantaggiarne altri21. Ad esprimersi fu, in sostanza, una

19 A queste cause avrebbe accennato lo stesso Amicucci alla fine degli anni Trenta, quando si riaccese la discussione attorno alla formazione culturale e professionale dei giornalisti. Nella sua relazione al documento di Previsione della spesa del Ministero per la stampa e propaganda per il periodo luglio 1937 - giugno 1938 egli ricondusse l'insuccesso dell’iniziativa all'assoluta inadeguatezza dei mezzi che furono messi a sua disposizione. Analoghi giudizi espresse trattando di un’altra sua iniziativa, la «specializzazione in giornalismo» attivata presso la facoltà di Scienze politiche di Perugia, che a suo avviso non era mai stata «convenientemente valorizzata» e messa nelle condizioni di «dare i frutti che gli iniziatori se ne ripromettevano»; cfr. E. Amicucci (relatore), Stato di previsione della spesa del Ministero per la stampa e la propaganda per l'esercizio finanziario dal 1° luglio 1937-XV al 30 giugno 1938-XVI , in Camera dei deputati, XXIX Legislatura, sessione 1934-37, Documenti - Disegni di legge e relazioni, «Relazione della Giunta generale del bilancio», n. 1564/A, p. 5.20 Lo si deduce da un passaggio del discorso da lui pronunciato nell’ottobre 1928, tre mesi dopo l’articolo di Amicucci, di fronte ai direttori di settanta giornali: «Non è quindi affatto assurdo che, trattandosi di continuare l’educazione formativa delle moltitudini, i giornalisti debbano essere moralmente e intellettualmente preparati. È evidente che nelle scuole non si fa “il giornalista” […]. Ciò non di meno, nessuno vorrà negare l'utilità delle scuole stesse»; cfr. in Snfg (a cura del), Annuario della Stampa. 1929-30, Milano, Libreria d'Italia, 1930, p. 6.21 Per alcuni di questi casi si veda in G. Licata, Storia del «Corriere della Sera», Milano, Rizzoli, 1976, pp. 231-256.

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laboriosa dialettica, animata da un lato dalle prefetture e dai quadri del partito e del sindacato,

generalmente favorevoli ad una radicale epurazione, dall’altro dai proprietari delle testate – spesso

funzionali al fascismo per pure ragioni di convenienza - e dai loro direttori, molti dei quali zelanti

fascisti ma generalmente ostili alla prospettiva di privarsi di giornalisti di valore senza potere

procedere ad adeguate sostituzioni.

Dal canto loro, i giornalisti risposero nella loro maggioranza all’azione del sindacato con un

atteggiamento remissivo. Quasi tutti, anche quelli non «fascisti svisceratissimi», finirono per

adattarsi «al nuovo stato di cose», accettando di lavorare «in modo pienamente conformista»22 e

sforzandosi - pur di ingraziarsi i dirigenti del sindacato - di porre l’accento su un passato scevro di

passioni politiche e su un presente di sicura fede fascista23.

Furono anche queste circostanze, come ho potuto verificare attraverso un lavoro analitico sugli albi

relativi agli anni Venti e Trenta, a limitare di molto le dimensioni dell’epurazione24.

Naturalmente una tale affermazione non deve equivalere a una sottovalutazione della durezza e

della spregiudicatezza dimostrate dal sindacato, soprattutto nelle fasi iniziali dell’azione di

«ripulitura». All’atto pratico, tra il 1927 e il 1928 furono ben 1.893, su un totale di 3.736, i

giornalisti che si videro negare l’iscrizione agli albi, condizione minima per continuare a prestare la

propria opera all’interno delle redazioni.

Tuttavia almeno due elementi devono essere considerati, se si vuole valutare adeguatamente il peso

di queste cifre: in primo luogo, che se si limita il discorso ai giornalisti propriamente detti, vale a

dire ai professionisti, la percentuale dei non ammessi agli albi risulta nettamente inferiore25; in

secondo luogo che, negli anni successivi al 1928, tali proporzioni mutarono in maniera anche

sensibile. Alla fine del 1929, ad esempio, il numero degli iscritti agli albi raggiunse il numero di

4.116, a fronte dei citati 3.736 riscontrati prima dell’epurazione.

Anche questo dato, naturalmente, non basta da solo a far desumere il rientro nei ranghi, a solo un

anno dall’epurazione, di tutti i giornalisti inizialmente allontanati. Nella cifra in esame non vengono

infatti computate le nuove immissioni, che nel biennio 1926-1928 ammontarono a ben 1.355. Ma da

un esame analitico degli iscritti all’albo il trend al rientro emerge in modo piuttosto chiaro: proprio

22 Lettera di Aldo Valori a Ugo Ojetti, Roma, 12 dicembre 1927, in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart. 147, f. 416, «Ojetti Ugo».23 A questo proposito, cfr. ad esempio le lettere di Ugo Ojetti a Luigi Bottazzi, s.l., 9 febbraio 1927 e Milano, 21 luglio 1927, in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart. 72, f. 83, «Bottazzi Luigi»; il telegramma di Ugo Ojetti ad Ermanno Amicucci, s.l., 26 aprile 1927, ivi, cart. 147, f. 416, «Ojetti Ugo»; le lettere di Maffio Maffii a Ermanno Amicucci, Milano, 9 ottobre 1927 e 13 gennaio 1928, in ACS, segr. part. duce, cart. ris., b. 78, f. «Amicucci Ermanno»; la lettera di Renato Misuri a Ugo Ojetti, Roma, 13 aprile 1927, in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart. 147, f. 416, «Ojetti Ugo»; la lettera di Ugo Ojetti a Ernesto Belloni, Milano, 4 maggio 1927, ivi, cart. 78, f. 119, «Caprin Giulio Panfilo»; la lettera di Ugo Ojetti ad Augusto Turati, s.l., 9 aprile 1927, in ACS, Part. naz. fasc., direttorio nazionale, servizi vari, serie I, b. 824, f. «Milano», sf. «Situazione giornalisti di fronte al regime».24 M. Forno, Fascismo e informazione, cit., pp. 66-95.25 In realtà, tale percentuale non può essere esattamente calcolata, per via dell’assenza, nell'«elenco generale» dei giornalisti compilato dalla Federazione nazionale della stampa prima dell’epurazione, del dato disaggregato dei professionisti e dei pubblicisti. Tuttavia, secondo una stima ragionevolmente attendibile, la percentuale dei non inseriti nell’albo tra i professionisti dovrebbe rappresentare il 10-20% del totale.

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nel 1929 ben 37 giornalisti inizialmente esclusi furono riammessi e tra questi spiccano anche alcuni

dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce.

Se si analizzano gli albi del 1931, tali considerazioni trovano ulteriore conferma: il trend al recupero

non conosce soste, con il rientro di altri 124 giornalisti, 46 professionisti e 78 pubblicisti, in un

primo tempo esclusi26.

Inutile qui dilungarsi con altre cifre o percentuali. In campo giornalistico il processo di epurazione,

per quanto imponente, assunse caratteristiche meno assolute di quanto sino ad alcuni anni fa si era

portati a credere. Parecchi giornalisti non fascisti riuscirono ad evitare la radiazione e a tornare sulla

ribalta giornalistica nazionale ricorrendo a pubbliche abiure; altri furono difesi con successo dai

potenti finanziatori delle testate; altri ancora fecero valere le preziose amicizie godute tra le alte

gerarchie fasciste.

Alla fine, esigenze di durezza verso chi aveva osteggiato il fascismo durante la sua ascesa furono

insomma considerevolmente mitigate, tenendo anche conto dell’esigenza, per il regime, di garantirsi

l’appoggio del mondo giornalistico e degli intellettuali di maggiore prestigio, vessillo da

sbandierare di fronte all’opinione pubblica colta, a quella estera e, in genere, a quei settori di

popolazione meno permeati dalle idee del fascismo27.

Fu dunque un convergere non sempre coerente di esigenze ad allentare di molto i propositi

intransigenti del Sindacato fascista dei giornalisti, al quale era parsa invece inizialmente

imprescindibile un’energica opera di «ripulitura», al fine di realizzare compiutamente il progetto di

fascistizzazione della stampa e dei giornalisti italiani.

Un altro aspetto gravido di effetti sull’efficienza del settore fu quello legato ai problemi -

manifestatisi lungo tutto il ventennale potere mussoliniano - di organizzazione e di controllo della

stampa del Partito nazionale fascista.

Alla fine degli anni Venti due terzi dei quotidiani di provincia erano controllati dal partito o erano

guidati dai segretari federali del fascio, i quali tendevano non di rado a utilizzarli a fini personali,

come strumenti per scalate ai vertici politici28. Per questa ragione, l’eccessivo proliferare di fogli

26 Cfr. Snfg (a cura del), Annuario della stampa italiana. 1931-32, cit., pp. 511-758.27 Esemplare appare il caso della scrittrice Sibilla Aleramo (che nel frattempo era andata avvicinandosi al fascismo), a proposito della quale, nell’aprile 1928, il capo ufficio stampa di Mussolini scrisse al direttore del «Corriere della Sera», Maffio Maffii: «È opportuno che il suo nome sia rimesso in circolazione […]. Tieni per certo che le mie segnalazioni hanno la loro ragion d’essere. I grandi giornali amici debbono coadiuvare il Regime nel mettere sotto gli occhi degli stranieri il fatto che il numero degli oppositori si assottiglia in Italia e cresce quello dei politicamente pentiti. E perciò ti ripeto che la firma dell’errante Sibilla è gradita»; cfr. la lettera di Giovanni Capasso Torre a Maffio Maffii, in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart 77, f. 115, «Capasso Torre Giovanni». Come è noto, durante gli anni Trenta la poetessa e narratrice di origine alessandrina si sarebbe anche avvalsa degli aiuti economici corrisposti dall’Ufficio stampa del capo del governo; a tale proposito cfr. in particolare l’Elenco nominativo dei sussidi erogati nell’anno 1932 dall’Ufficio Stampa, in P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., pp. 417-18.

28 Una circostanza, questa, bene condensata dalle amare constatazioni che, nel luglio 1923, il capo Ufficio stampa del

Pnf Luigi Freddi espresse al vice segretario federale di Milano, Amedeo Giurin: «Sto facendo il lavoro di inquadramento e di controllo della stampa fascista. Credi però che è un lavoro enorme dato lo sbandamento e la

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locali di partito, quotidiani o settimanali, fu sempre guardato con notevole preoccupazione dal

fascismo. Tanto che, ancora prima della marcia su Roma, nel corso di un convegno tenutosi a

Milano il 17 ottobre 1922, furono auspicati maggiori controlli sulla stampa di partito e stabilito il

divieto di dare vita a nuovi organi senza la preventiva autorizzazione dei dirigenti nazionali29.

L’anno successivo il Gran consiglio del fascismo stabilì che, indipendentemente dalla natura di

organo quotidiano o settimanale, a partire dal 1° settembre 1923 si sarebbe dovuto pubblicare un

solo giornale di partito per ogni provincia30.

Ma il fenomeno della proliferazione di nuovi organi non conobbe soste (nel 1925 gli organi

ufficialmente «riconosciuti» dal Pnf erano ormai oltre un centinaio)31, al punto che, nel 1926, il

segretario del partito succeduto a Roberto Farinacci, Augusto Turati, fu costretto – anche per

contrastare il fenomeno del «beghismo» provinciale - a tentare un loro nuovo ridimensionamento.

Nel giro di meno di un anno fu messa in atto la soppressione di oltre trenta organi locali32.

Alla resa dei conti, per risolvere in maniera soddisfacente il problema legato alla stampa di partito,

si dovette attendere addirittura la fine degli anni Trenta. Solo il 27 novembre 1939, dopo l’arrivo

alla segreteria di Ettore Muti, fu infatti deciso il trasferimento di ben 15 quotidiani e 45 settimanali

allora dipendenti dal partito sotto la gestione finanziaria ed organizzativa del ministero della Cultura

popolare33. In questo modo, oltre a mitigare i problemi di controllo ed orientamento di un settore da

sempre connotato come strumento di regolamento di conti interni alle gerarchie locali del partito o

utilizzato a scopi clientelari e di conservazione del potere, fu finalmente posto fine all’interferenza

del Pnf in ambiti ormai chiaramente destinati alle competenze del ribattezzato ministero della

Cultura popolare34.

Sempre in relazione all’efficienza organizzativa della stampa del Pnf, occorre anche notare che

l’organismo a cui fu sin dall’inizio delegata la gestione amministrativa e politica della stampa di

partito, l’Ufficio stampa del Pnf (di cui furono responsabili personaggi come Luigi Freddi, Maurizio

Maraviglia, Franco Ciarlantini, Alberto Garelli e Arrigo Chiavegatti), non seppe mai raggiungere

risultati all’altezza delle aspettative. E questo sia per la citata sovrapposizione di ruoli con la

disarmonia di tutti i nostri settimanali, quasi sempre troppo queruli, quasi mai seri e dignitosi»; lettera di Luigi Freddi ad Amedeo Giurin, s.l., 7 luglio 1923, in ACS, Pnf, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 48.29 A. De Cristofaro, Bibliografia dei giornali fascisti lombardi. 1919-1945, Milano, Feltrinelli, 1995, p. IX.30 Pnf (a cura del), Il Gran consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, Roma, Tipografia Europa, 1932, p. 100; P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 190.31 Ivi, p. 176.32 R. De Felice, Mussolini il fascista. II. L'organizzazione dello stato fascista (1925-1929), Torino, Einaudi, 1968, pp. 180-181.33 P. Murialdi, La stampa del regime, cit., p. 189.34 P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., pp. 216-217. Sin dalla nomina di Roberto Farinacei, il segretario nazionale del Pnf aveva avviato la pratica di impartire ordini e direttive non solo alla stampa di partito, ma anche a quella «di informazione». Tale pratica si era poi progressivamente consolidata col trascorrere del tempo, soprattutto dopo l’ascesa alla carica, nel dicembre 1931, di Achille Starace. Per una raccolta di disposizioni del Pnf, del ministero della Cultura popolare e dell’Agenzia Stefani, con riferimento agli anni 1937-38, si veda in ACS, Pnf, Direttorio nazionale, servizi vari, serie I, b. 247.

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struttura ministeriale - e, sotto certi aspetti, con quella dell’agenzia Stefani - sia per il livello

mediocre dei responsabili che, negli anni, si succedettero alla sua guida.

Numeri alla mano, al contrario della Germania, dove dopo cinque anni di potere hitleriano i

quotidiani controllati dal partito nazionalsocialista raggiunsero cifre di diffusione soddisfacenti, in

Italia le dirette emanazioni del partito non conseguirono mai percentuali di vendite superiori al 10%

della tiratura complessiva nazionale35.

Il quinto aspetto a cui desidero accennare si lega alla sostanziale assenza, all’interno del fascismo,

di un accordo pacifico sul sistema di gestione del settore e, almeno inizialmente, alla presenza di

correnti portatrici di concezioni molto diverse del ruolo della stampa, se pure tutte fondate su un

soverchiante potere di intrusione e di arbitrio.

Riservandomi di trattare nel punto successivo del dibattito che avrebbe preceduto l’approvazione

della nuova legislazione fascista della stampa, qui mi limito ad accennare a un caso abbastanza

emblematico: la parabola politica del segretario nazionale del Sindacato fascista dei giornalisti,

Ermanno Amicucci, in carica dal 1927 al 1932.

Sotto il profilo politico, la posizione di Amicucci come leader sindacale, fino almeno al 1931, non

fu oggetto di particolari riserve, a riprova del fatto che la sua linea, fondata su una puntuale

soggezione alle direttive provenienti dal centro, ma anche su una sostanziale autonomia

organizzativa, era stata tale da incontrare il favore di Mussolini e delle gerarchie fasciste36.

Alla fine del 1931 accadde tuttavia un fatto nuovo e gravido di implicazioni: la destituzione di

Giovanni Giuriati dalla carica di segretario del Partito nazionale fascista (12 dicembre 1931) e la

nomina al suo posto di Achille Starace, zelante e ottuso esecutore della politica mussoliniana. Da

quel momento, attorno alla leadership del segretario nazionale del sindacato, la fiducia del partito

sarebbe iniziata a venire meno37. Emerse, nel contempo, il «problema» della Scuola di giornalismo,

che - secondo alcune testimonianze - non era affatto gradita dal nuovo segretario del Pnf, per via

della sua eccessiva «indipendenza» rispetto a «quello che i tempi consentivano»38.

Effettivamente, si tratta di una questione che va messa in relazione al contesto politico dei primi

anni Trenta, in cui - dopo il consolidamento del regime di polizia, con l'ulteriore burocratizzazione

dei canali informativi e il relativo restringimento degli esigui margini di autonomia - una scuola che

voleva educare ad una concezione certamente illiberale ma, almeno a parole, «dinamica» del

giornalismo non sembrava fatta per piacere al partito e – ovviamente – al governo. Inoltre, con la

35 E.R. Tannenbaum, L’esperienza fascista. Cultura e società in Italia dal 1922 al 1945, Milano, Mursia, 1974, pp. 250-251.36 Cfr., a tale proposito, la comunicazione della Direzione generale delle associazioni professionali all'Ufficio sindacale del Partito nazionale fascista, Roma, 1° agosto 1931, e la risposta del capo dell'ufficio, Dante Giordani, Roma, 5 agosto 1931, in ACS, Part. naz. fasc., «Senatori e consiglieri nazionali», b. 1, f 11 bis.37 Sulla vicenda cfr. M. Forno, Fascismo e informazione, cit., pp. 117-122.38 Cfr. ad esempio la testimonianza di Andrea Rapisarda, raccolta da E. Gallavotti, La Scuola fascista di giornalismo, cit., p. 102.

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congiuntura economica successiva alla crisi del 1929, caratterizzata da un tasso di disoccupazione

in crescita, una istituzione che ostentava illusioni di pieno impiego difficilmente poteva incontrare

consensi a livello politico39.

A giocare ulteriormente a sfavore di Amicucci vi fu poi l’atteggiamento piuttosto compatto degli

editori i quali, in previsione del rinnovo del contratto nazionale di categoria, ricominciarono a fare

sentire il proprio disappunto nei confronti di una legislazione, accanitamente voluta dal segretario

del sindacato, che ne condizionava il potere di assunzione dei giornalisti, imponendo loro, ad

esempio, di attingere proprio dai diplomati alla Scuola di giornalismo.

In occasione della riunione del direttorio del Sindacato del 15 aprile 1931 Amicucci oppose un

secco «no» alle richieste degli editori40, ma era ormai chiaro che il fronte comune contro di lui si

andava consistentemente rafforzando. Proprio nel periodo compreso tra il 1929 e il 1932 Mussolini

decise d’altra parte di estromettere dalle posizioni di vertice alcune delle figure di maggiore spicco

del regime - compreso Giuseppe Bottai – e, a fronte di una conclamata riforma corporativa dello

stato, decise di ridurre decisamente il suo interesse verso i maggiori teorici del corporativismo e

verso alcuni degli esponenti che, come Amicucci, avevano visto nel fascismo un mezzo attraverso

cui tentare di attuare un radicale cambiamento delle strutture economiche e sociali esistenti.

Con la nomina ai suoi vertici di un commissario governativo, l'ex nazionalista moderato Aldo

Valori, Mussolini espresse chiaramente il suo intento di riportare il Sindacato nei limiti di una

gestione meno invasiva delle prerogative del governo e del partito e di garantire a organi politici

controllati direttamente dal potere politico i compiti fondamentali di gestione del settore. Come ho

anticipato, questa nuova fase di riorganizzazione del settore avrebbe avuto il suo coronamento con

l’approdo di Galeazzo Ciano all’Ufficio stampa del capo del governo.

Il sesto aspetto sui cui intendo concentrare l’attenzione si lega all’andamento - piuttosto ondivago e

altalenante - disegnato, soprattutto nel primo decennio di potere fascista, dalle strategie

mussoliniane.

All’atto pratico, sin dal loro primo apparire, i provvedimenti legislativi predisposti dal governo

fascista nel campo della stampa non lasciarono trasparire un articolato e pianificato disegno. Furono

in gran parte interventi di carattere negativo, tesi a rimuovere quanto, dell’esistente, poteva nuocere

al fascismo, piuttosto che a sostituirlo con qualcosa di realmente nuovo41.

39 Di questo si dicevano ormai convinti anche autorevoli giornalisti. Si veda ad esempio il testo dell’intervento di Curzio Malaparte al terzo Congresso nazionale del sindacato, in cui tra l’altro si legge: «È una fabbrica di disoccupati. Se non è possibile occupare vecchi fascisti disoccupati tanto più sarà difficile dare una occupazione ai giovani che escono dalla Scuola: sono gli stessi professori che lo dicono»; cfr. La discussione, in «Bollettino del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti», a. V, n. 6-7, giugno-luglio 1931, p. 4.40 Cfr. L'importanza dei contratti collettivi, in «Bollettino del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti», a. V, n. 4, aprile 1931, p. 5.41 P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 177; M. Forno, Fascismo e informazione, cit., pp. 45-51.

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Non mi pare d’altra parte insignificante che, solamente dopo oltre un decennio dalla ascesa al potere

del suo leader, un regime con dichiarate propensioni totalitarie, quale era quello fascista, avesse

deciso di dare avvio alla trasformazione dell’Ufficio stampa della presidenza del consiglio - vale a

dire di un organo ereditato dai governi liberali - in una struttura amministrativamente autonoma e

dotata di strumenti operativi adeguati. Nulla, quindi, di paragonabile a quanto avvenne nel 1933 in

Germania, dove - a meno di due mesi dall’ascesa al potere di Adolf Hitler – fu creata

un’organizzazione strutturata ed efficiente come il ministero per la Propaganda e l’educazione

popolare42.

Per quanto non avesse mai dato prova di sottovalutare il peso della stampa nei meccanismi di

manipolazione della masse, il fascismo non diede insomma immediatamente prova di saperne

sfruttare al meglio il potenziale. E questo sia per i deboli fondamenti nel campo della sociologia e

della psicologia della comunicazione di cui i responsabili del settore potevano disporre, sia per

l’assenza, se si esclude il caso sovietico (che tuttavia si fondava su presupposti ideologici propri e

tendeva a obiettivi peculiari), di altre esperienze storiche da cui potere trarre preziosi insegnamenti;

un vantaggio, questo, su cui avrebbe potuto ampiamente confidare Adolf Hitler.

Tornando al periodo immediatamente successivo alla marcia su Roma, l’imminente uscita di un

decreto riguardante la stampa fu annunciata da Mussolini il 12 luglio 192343. Firmato dal sovrano

tre giorni dopo, tale decreto – al fine di combattere gli «abusi» delle opposizioni nel campo

dell’informazione - riformava il vecchio istituto dei gerenti, stabilendo che questi ultimi dovessero

essere o il direttore del giornale o, in alternativa, uno dei principali redattori.

Era questa una misura in linea di principio condivisibile, tanto che raccolse inizialmente qualche

consenso anche tra le opposizioni, ma introdotta palesemente allo scopo di permettere al governo un

rafforzamento del controllo sulle varie testate44. Essa prevedeva infatti che il prefetto potesse

diffidare o dichiarare decaduto il gerente di un giornale con un potere d’arbitrio praticamente

assoluto45.

I principali organi di stampa di area cattolica e liberale - se si escludono il «Mondo» di Giovanni

Amendola e di Alberto Cianca46, il «Corriere della Sera» di Albertini e la «Stampa» di Frassati e

42 I. Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 124; N. Tranfaglia, La stampa quotidiana e l’avvento del regime, in N. Tranfaglia, P. Murialdi, M. Legnani, La stampa italiana nell’età fascista, cit., p. 9; V. Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, cit., pp. 304-315.43 N. Tranfaglia, La stampa quotidiana e l’avvento del regime, cit., p. 9; V. Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, cit., pp. 304-315.44 P. Murialdi, La stampa del regime fascista, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 7.45 Cfr. G. Lazzaro, La libertà di stampa in Italia: dall'Editto albertino alle norme vigenti, Milano, Mursia, 1969, pp. 101 e sgg.46 Proprio in riferimento al giornale liberale romano, appare significativo che, a pochi giorni dall’emanazione del decreto, Mussolini si premurasse di verificare quali fossero le fonti di finanziamento di quest’ultimo, in modo da potere intervenire con appropriate misure: «Secondo informazioni attendibili finanziatore “Mondo” sarebbe oggi Senatore Agnelli stop Faccia indagini non esclusa una contestazione diretta al prefato Senatore tanto per uscire buona volta equivoco e separare amici da nemici – Mussolini -»; telegramma di Mussolini al prefetto di Torino, Roma, 4 luglio 1923, in ACS, Min. Int., Gab. S.E. Finzi, O.P 1922-24, b. 1, f. 1.

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Salvatorelli – reagirono all’annuncio del decreto con una generale tendenza a minimizzarne la

portata e le conseguenze, peraltro coerentemente con quanto avevano fatto sino ad allora con altri

provvedimenti adottati dal governo. Fu un atteggiamento probabilmente non estraneo anche alla

consapevolezza che, tra il pubblico dei lettori, vi fosse chi non vedeva affatto di cattivo occhio la

prospettiva di una normalizzazione nel paese attraverso una costituzionalizzazione del fascismo47.

Specie nel caso degli organi a maggiore tiratura, a questo si aggiungeva la sensazione, ricavata da

molti editori, che una parte dei lettori abituali fosse legata al proprio giornale per ragioni solo in

parte condizionate dalla linea politica. Senza contare che alcune «ardite» iniziative compiute a

livello internazionale dal fascismo sembravano davvero potersi connotare come espressioni di una

nuova politica di governo, in grado di garantire al paese un maggiore prestigio al di fuori dei confini

nazionali.

Alla fine Mussolini decise di sospendere temporaneamente la pubblicazione del decreto sulla

«Gazzetta Ufficiale» - riservandosi di riproporlo non appena le circostanze lo avessero reso

opportuno48 - ritenendo probabilmente non ancora conveniente, per il fascismo, uno stravolgimento

della linea dei maggiori giornali liberali - con le inevitabili ricadute che questo avrebbe prodotto

sulle tirature dei medesimi - e considerando invece necessario il mantenimento di un contatto

mediato con l’opinione pubblica borghese. Una simile convinzione era del resto rafforzata

dall’atteggiamento di molte testate liberali, le quali - in parte per effettiva convinzione, in parte per

il timore di ritorsioni e violenze - sembravano abbastanza disponibili a trovare autonomamente

forme di pacifica convivenza con il fascismo.

La questione dell’applicazione del decreto 15 luglio 1923 fu risollevata da Mussolini nelle

settimane che seguirono l’assassinio di Giacomo Matteotti, spartiacque decisivo per tutto il

processo di fascistizzazione del settore della stampa. Fu soprattutto la dura campagna giornalistica

avviata dai quotidiani d’opposizione dopo il delitto Matteotti a convincerlo a dare definitiva

applicazione al provvedimento, che fu pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» l’8 luglio 192449.

All’atto pratico, la legge rimetteva in auge gli articoli 52, 58 e 59 del vecchio Statuto albertino e

l’articolo 3 della legge comunale e provinciale, disinvoltamente applicata dal governo durante le

«giornate di Milano» del 1898. Non si trattava, dunque, di prescrizioni particolarmente originali, ma

di dirette derivazioni di strumenti, di marca conservatrice, elaborati nei lustri precedenti50. Esse se 47 N. Tranfaglia, La stampa quotidiana e l’avvento del regime, cit., pp. 9-10.48 G. Carcano, Il fascismo e la stampa 1922-1925. L'ultima battaglia della Federazione nazionale della stampa italiana contro il regime, Milano, Guanda, 1984, pp. 31-34.49 Tramite un apposito decreto, pubblicato tre giorni dopo, fu previsto anche un aggravamento di alcuni punti del precedente provvedimento, a partire dalla facoltà di sequestrare un giornale «indipendentemente dal procedimento di diffida».50 G. Lazzaro, La libertà di stampa in Italia, cit., pp. 102-103; M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979, pp. 181 e sgg. e, dello stesso autore, L'Italia del fascio, cit., p. 309. Sempre a questo proposito, sono note anche le pratiche adottate all’inizio del secolo dai governi liberali, come quella di intercettare le conversazioni fra il direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini e la sua redazione romana o quella, utilizzata dallo stesso Giolitti, di impartire «ordini» ai giornali tramite il suo capo ufficio stampa; sull’argomento cfr. G. Padulo, Appunti sulla fascistizzazione della stampa, in «Archivio storico italiano», n.

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da un lato esprimevano il desiderio di Mussolini di dare un deciso giro di vite al settore - grazie alle

nuove norme furono sciolte, una ad una, tutte le principali associazioni regionali della stampa –

manifestavano, dall’altro, l’esigenza di mantenere in vita un sistema che consentisse di agire di

volta in volta, modulando gli interventi in base alle circostanze.

Nel frattempo, un uomo di spicco del giornalismo fascista come Ermanno Amicucci era andato

maturando un’idea abbastanza precisa delle altre principali riforme da attuare nel settore

giornalistico e di questo aveva parlato anche personalmente al duce, nel corso di una serie di

colloqui avvenuti nell’estate del 1924 (il primo il 26 luglio, due settimane dopo l’applicazione del

decreto sulla stampa)51. Amicucci intendeva contrapporre a un progetto di natura essenzialmente

«politico-giuridica» (affidato alcuni mesi prima da Mussolini ai ministri Federzoni ed Oviglio),

volto ad integrare ed armonizzare la materia regolata dai precedenti decreti, un diverso disegno, teso

a risolvere «nel suo complesso», vale a dire sia «politicamente» sia «professionalmente», il

problema della stampa52.

Rispetto a queste sollecitazioni, Mussolini si mise in una posizione di attesa: aspettando da un lato

le reazioni dei giornalisti al progetto Oviglio-Federzoni, lasciando dall’altro lavorare Amicucci sulla

sua alternativa «tecnica» e tutta «interna» alla categoria, di cui si sarebbe eventualmente potuto

servire in caso di cattiva accoglienza del progetto ministeriale.

Il disegno di legge dei due ministri fu reso pubblico il 10 dicembre 1924. Pur mirando ad integrare

il dettato dei precedenti decreti, esso si connotava per una impostazione strettamente

«sanzionatoria». In particolare, esso sanciva il carattere «delittuoso» delle infrazioni commesse a

mezzo stampa e indicava le procedure da utilizzare contro i trasgressori; materie, queste, che

sarebbero forse meglio rientrate nella riforma del Codice penale e di Procedura penale, per la quale

il governo aveva ottenuto i pieni poteri53.

Proprio il 10 dicembre anche Amicucci scese allo scoperto, proponendo, nel corso di un’assemblea

di deputati giornalisti, convocata in una sala di Montecitorio, il suo «contro-progetto»54. Di carattere

spiccatamente «tecnico», esso ruotava in gran parte attorno alla creazione dell’albo dei giornalisti,

vecchia aspirazione della categoria, che veniva ora riproposta in un contesto di pesanti

511 (1982), pp. 92-93 e 98. Per quanto concerne la funzione di controllo esercitata dalla Direzione generale di pubblica sicurezza durante il periodo liberale, cfr. invece l’inventario curato da A. Fiori, Direzione generale della pubblica sicurezza. La stampa italiana nella serie F. 1 (1894-1926). Inventario, Roma, Ministero per i Beni culturali e ambientali, 1995.51 Cfr. in ACS, segr. part. duce, cart. ris., b. 78, f. «Amicucci Ermanno». Per le reazioni di Amicucci alla pubblicazione del decreto legge del luglio 1924, cfr. Il valore del provvedimento, in «La Nazione», 9 luglio 1924, p. 1.52 Cfr. ad esempio la lettera di Amicucci a Mussolini, Roma, 18 settembre 1924, in ACS, segr. part. duce, cart. ris., b. 78, f. «Amicucci Ermanno».53 Sul progetto Federzoni-Oviglio cfr. La relazione Oviglio al progetto sulla stampa, in «La Gazzetta del Popolo», 11 dicembre 1924, p. 1.54 Alla riunione erano fra gli altri presenti Gaetano Polverelli, Giuseppe Bottai, Franco Ciarlantini, Lando Ferretti e Marziale Ducos; cfr. La legge contro la stampa, in «La Stampa», 11 dicembre 1924, p. 1. Sul progetto presentato da Amicucci cfr. invece Un controprogetto per la stampa, in «Corriere della Sera», 14 dicembre 1924, p. 2; Le difficoltà che attendono la nuova legge sulla stampa, in «La Nazione», 11 dicembre 1924, p. 1; La crisi della direzione liberale, in «La Gazzetta del Popolo», 14 dicembre 1924, p. 2.

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condizionamenti con l’evidente obiettivo di pianificare la selezione «politica» dei futuri

professionisti.

Come ho anticipato precedentemente, la normativa proposta da Amicucci prevedeva inoltre la

creazione di un corso di studi che formasse, al pari dei corsi di laurea in medicina o in legge, i futuri

giornalisti (e li abilitasse automaticamente all’esercizio della professione); ma anche la

codificazione del contratto di lavoro giornalistico e l’obbligo, per ciascun giornale, di dichiarare al

governo e ai lettori i nomi dei proprietari (una norma - non superflua in regime di libera

informazione – che, evidentemente, perdeva tutto il suo significato in un contesto di strapotere del

governo e della polizia).

Dunque le proposte di Amicucci nascevano soprattutto dalla persuasione che, di fronte a cospicue

contropartite, i giornalisti avrebbero adottato un atteggiamento molto favorevole verso il governo;

in altre parole che esse – se pure inserite in un quadro giuridico tale da snaturarne completamente il

senso e il significato - avrebbero fornito ai professionisti della carta stampata validi argomenti,

tecnici e corporativi insieme, per giustificare una scelta di «collaborazione» piena e incondizionata.

Ma il progetto di Amicucci presentava anche altri aspetti di interesse. In particolare, esso - nel

tentativo di spaccare la categoria e piegarla alle esigenze del fascismo - mirava a «squilibrare» a

favore del sindacato «i termini del compromesso» che si andava realizzando tra il regime e i

proprietari delle testate e a ritagliare al Snfg precisi spazi e prerogative nell’inquadramento della

categoria55. Appare infatti evidente che una forma di «controllo sindacale» sui giornalisti implicava

precisi risvolti sulla gestione degli albi e sulla selezione e preparazione dei futuri professionisti.

L’obiettivo di Amicucci non era insomma quello di «salvare» i giornalisti da una fascistizzazione

autoritaria, ma di porre il sindacato al centro del processo fascista di riforma56.

La risposta di Mussolini al progetto di Amicucci giunse quasi subito. Il capo del fascismo si disse

pienamente disponibile ad «accogliere tutti gli emendamenti intesi a migliorare il disegno di legge

governativo» e quindi a «considerare il progetto sulla stampa come argomento avente carattere

esclusivamente tecnico»57. Al contrario di quanto aveva fatto per quasi tutti gli altri settori

professionali58, egli scelse in altre parole per i giornalisti la strada di una transizione relativamente

«morbida».

55 Su questi temi cfr. A. Pepe, Il sindacato fascista, in A. Del Boca, M. Legnani, M.G. Rossi (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 238 e sgg.56 Sulle funzioni del sindacato all’interno dell’orizzonte corporativo fascista cfr. F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti. 1918-1926, Roma-Bari, Laterza, 1974; Id., Verso lo stato totalitario. Sindacati, società e fascismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005; F. Perfetti, Il sindacalismo fascista. I. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), Roma, Bonacci, 1988; A. De Bernardi, Operai e nazione. Sindacati operai e stato nell’Italia fascista, Milano, Angeli, 1993; A. Pepe, Il sindacato dalle origini alla seconda guerra mondiale (1880-1940), in Storia della società italiana, vol. XVII, Milano, Teti, 1982, pp. 342 e sgg. 57 Cfr. Propositi e intendimenti di Mussolini circa il disegno di legge sulla stampa , in «La Nazione», 13 dicembre 1924, p. 1.58 A questo proposito cfr. G.C. Jocteau, La magistratura e i conflitti del lavoro durante il fascismo. 1926-1934, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 12-44.

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Certo, non va dimenticato che nel primo triennio di potere Mussolini era ricorso anche alla

coercizione - azioni di intimidazione ai danni dei proprietari e dei direttori non graditi, accordi con

nuovi gruppi disponibili a subentrare ai proprietari da estromettere -59 per fare fronte al «problema»

della stampa e per frenare il suo possibile impatto sull’opinione pubblica in una fase di controllo

ancora «imperfetto» sul paese. Egli aveva inoltre voluto garantirsi l’appoggio dei fiancheggiatori -

attraverso la formale riesumazione delle norme dello Statuto albertino - senza per questo precludersi

il ricorso alla violenza contro gli oppositori.

Ma questa strategia, per quanto non priva di risvolti pratici, non era mai sembrata preludere a un

progetto di radicale «fascistizzazione» del settore60. Forse anche per il timore di provocare un

abbandono in massa dei quadri giornalistici, con le inevitabili ripercussioni che un simile scenario

avrebbe causato sull’opinione pubblica borghese, tale strategia non era stata, inoltre, priva di

incertezze. Lo si desume, ad esempio, dai lunghi tempi che intercorsero tra l’annuncio di ogni

nuova misura e la sua effettiva applicazione: un anno tra la presentazione del primo decreto sulla

stampa (luglio 1923) e la sua entrata in vigore (luglio 1924); 6 mesi tra la presentazione del

successivo disegno di legge governativo di regolamentazione complessiva della professione

giornalistica e della stampa periodica (dicembre 1924) e la sua approvazione alla Camera (giugno

1925); altri 6 per il suo trasferimento e la sua approvazione in Senato, assieme alla conversione in

legge dei decreti luglio 1923 e luglio 1924 (dicembre 1925).

Con la nuova legge Mussolini tentava insomma di dimostrare alla categoria il suo volto

«acquiescente». Il che avrebbe dovuto permettergli di ottenere, senza grosse coercizioni, l’appoggio

di cui aveva bisogno per legittimare il suo potere di fronte all’opinione pubblica61. Non a caso, la

forma di controllo sull’informazione indicata da Amicucci e, almeno inizialmente, accolta da

Mussolini, si fondava sulla convinzione che il sindacato di categoria, attraverso un meccanismo di

autofascistizzazione, avrebbe potuto autonomamente trasformare il giornalismo italiano in un

potente costruttore di consenso in ambito nazionale e in un efficace veicolo propagandistico a

livello internazionale.

Letta da questo punto di vista, la legge sulla stampa approvata nel dicembre 1925 rappresenta in un

certo senso il segnale del passaggio da un’arbitraria applicazione di strumenti classici

dell’autoritarismo e del burocratismo, retaggio della prima guerra mondiale e della legislazione e

della prassi del periodo liberale, ad un tentativo di controllo fondato - dopo la realizzazione di una

ampia epurazione dei ranghi - su una ossequiosa «autodisciplina di categoria»62.

59 Su tali manovre cfr. V. Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, cit., pp. 277-301.60 A. Aquarone, L'organizzazione dello stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 9-15.61 Si veda il testo dell’intervento del duce al Primo convegno della stampa fascista (Roma, 29 dicembre 1924), in Al primo convegno della stampa fascista, «Il Popolo d’Italia», 30 dicembre 1924, p. 1. 62 Per un esame tecnico della legge cfr. G. Lazzaro, La libertà di stampa in Italia, cit., pp. 106-110.

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Non meno rilevante, sotto il profilo delle sue concrete ricadute, fu a mio parere la presenza

all’interno dell’organizzazione politica del settore di un’accentuata frammentazione di potere e, non

di rado, di un conflitto di ruoli e di competenze.

Sotto certi aspetti e con tutte le riserve che una tale affermazione impone, la stampa fascista non fu

insomma l’emblema di una assoluta efficienza, tale quale la si potrebbe attendere da un regime con

pretese totalitarie. Diverse «sfasature» si verificarono anzi in un sistema che, nei suoi meccanismi di

censura e di indirizzo, coinvolgeva un numero eccessivo di centri di potere, apparentemente animati

da obiettivi comuni, ma spesso condizionati dai delicati equilibri interni alle gerarchie. Basterebbe

pensare alla condizione ancora operante all’inizio degli anni Trenta, quando un quotidiano veniva

sottoposto, nella stessa giornata, al fuoco incrociato dei comunicati ufficiali dell’Agenzia Stefani,

delle note del capo Ufficio stampa, delle reprimende del prefetto e del segretario federale del Pnf e

dei telegrammi dello stesso capo del governo, che inviava talvolta le sue osservazioni

personalmente ai singoli direttori63.

Evidentemente tale situazione finiva per porre il giornale in una posizione quanto mai complessa

(non di rado di mediazione fra le esigenze localistiche e quelle di carattere generale), peggiorata

dall’atteggiamento di vari soggetti politici la cui azione andava di fatto ad interferire con quella

dell’Ufficio stampa (poi elevato a sottosegretariato, quindi a ministero), cui furono

progressivamente delegati i compito di gestione nei campi dell’informazione e della cultura. Per

limitarsi all’ambito culturale, basterebbe guardare alla politica, dinamica e sotto certi profili

eclettica, perseguita a partire dal novembre 1936 dal ministero dell’Educazione nazionale, posto

sotto la guida di Giuseppe Bottai.

Tutti questi problemi si riproporranno in qualche misura amplificati nella gestione della propaganda

all’estero, della quale finirono per occuparsi non solo gli organismi dipendenti dal ministero degli

Affari esteri, a partire dalle ambasciate, ma anche il Partito nazionale fascista e, in maniera ben

poco coordinata, altri enti e istituti culturali64. Come avrebbe scritto nel luglio 1934 - vale a dire alla

vigilia della costituzione del sottosegretariato per la Stampa e la propaganda - il futuro segretario

generale della Confederazione dei professionisti e degli artisti, Cornelio Di Marzio:

Oggi tutti fan propaganda […] dai fasci alla Dante; dall’Accademia alle Camere di Commercio; dal Ministero della

Corporazioni all’Istituto Fascista di cultura. Ognuno fa quello che vuole e come vuole.65

63 A tale proposito, cfr. ad esempio la lettera dell’amministratore delegato della Safie al direttore del «Giornale di Genova», Giorgio Pini. Il documento, non datato, risale molto probabilmente ai primi anni Trenta; cfr. in ACS, Carte Pini, b. 5, ff. 18-19.64 B. Garzarelli, Fascismo e propaganda all’estero: le origini della direzione generale per la propaganda (1933-1934), in «Studi Storici», n. 2 (2002), p. 480. Della stessa autrice si veda anche il recente Parleremo al mondo intero. La propaganda del fascismo all’estero, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 2004.65 Citato da P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 103.

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Non sono rare, tra le carte dell’Ufficio stampa del capo del governo, nemmeno le lettere di direttori

che si lamentavano per le diverse interpretazioni con cui i prefetti e i segretari federali del partito

procedevano alla censura delle notizie; circostanza, questa, che poteva consentire a testate diffuse in

particolari aree di godere di una sorta di franchigia rispetto ad altre poste sotto la giurisdizione di

gerarchi particolarmente intransigenti.

A tutto questo si aggiungeranno gli interventi della censura legati al semplice capriccio o frutto di

querelles e di giochi di potere legati all’ambito locale66 e i non rari disguidi di natura tecnica ed

organizzativa67.

Una certa differenziazione tra giornali fu d’altra parte tollerata dallo stesso fascismo. Alla fine degli

anni Venti il segretario nazionale del sindacato dei giornalisti, Ermanno Amicucci, malgrado i suoi

propositi intransigenti, fu significativamente costretto ad ammettere che l’azione di ripulitura

avviata dal fascismo a partire dal 1927 non aveva impedito una diversificazione nell’impostazione

politica dei giornali. L’«articolazione di funzioni» che la «rivoluzione giornalistica» fascista aveva

tollerato era stata, al contrario, tale da garantire la sopravvivenza di una «stampa nazionale» - che

operava nell'orbita dello stato e sottoponeva la sua azione al «controllo» e alle «sanzioni» del

regime - e di una «stampa fascista», che andava considerata il vero e proprio «strumento politico del

Regime»68.

Gravida di ricadute sull’efficienza del settore fu – a mio parere - anche la non eccelsa preparazione

teorica di molti giornalisti e funzionari integrati nelle strutture del ministero della Cultura popolare -

ai quali fu delegata la concreta attuazione delle strategie nel settore - e la loro eccessiva dipendenza

dalle direttive e dagli umori del duce.

I funzionari in servizio presso l’Ufficio stampa prima, il sottosegretariato e il ministero poi, non

erano certamente degli sprovveduti, tanto meno delle persone inconsapevoli del peso della

suggestione e del coinvolgimento emotivo sui meccanismi di fabbricazione del consenso. Sapevano

anzi che il livello di partecipazione delle masse raggiungeva l’apice in occasione delle oceaniche

66Anche tale elemento emerge limpidamente dalla documentazione in oggetto. In una lettera inviata il 4 novembre da

un giornalista del «Corriere della Sera», Alfredo Ceriani, al suo direttore (riguardante la sospensione decretata dal prefetto ai danni del quotidiano «Il Gazzettino» di Venezia) si legge ad esempio: «Il corrispondente di Venezia ha scritto ieri mercoledì raccontando le ragioni per cui il Gazzettino venne sospeso. Si tratta, oltre che di una misura generale per tutti quei giornali che non seguono le direttive fasciste, […] di una soddisfazione data ad acremonie locali»; lettera di Alfredo Ceriani a Ugo Ojetti, s.l., 4 novembre 1926, in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart. 146, f. 415, «Ojetti Ugo».

67 Abbastanza comico, ma piuttosto frequente, era il problema lamentato dal direttore del «Corriere della Sera»,

Maffio Maffii, in una lettera inviata nell’ottobre del 1928 al capo ufficio stampa del duce, Lando Ferretti: «Le Autorità prefettizie sono pronte a comunicarci i veti; ma poi dimenticano di comunicarci il contr’ordine, quando tali veti siano stati aboliti o sospesi»; lettera di Maffio Maffii a Lando Ferretti, Milano, 23 ottobre 1928, in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart. 105, f. 238, «Ferretti Lando».68 E. Amicucci, Il giornalismo nel regime fascista, cit., p. 61.

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adunate per assistere ai discorsi del duce, per cui la loro principale preoccupazione fu in genere

quella di indurre i giornali a ricreare, attraverso il simbolismo e un’enfasi convenientemente dosata,

uno stato emotivo paragonabile a quello promanante dal balcone di Palazzo Venezia.

Nel contempo, essi si dimostrarono piuttosto consapevoli di quanto fosse difficile mantenere viva

questa tensione attraverso i giornali. La pratica della ripetizione ossessiva delle informazioni

preconfezionate, per quanto si dimostrasse sotto molti aspetti efficace, presentava infatti il rischio di

produrre fenomeni di accettazione passiva, mal conciliandosi proprio con l’esigenza di conservare

costantemente elevato il livello di «mobilitazione».

A questa esigenza si aggiungeva quella di corrispondere con i fatti alle aspettative delle masse,

ormai assuefatte ai magniloquenti scenari disegnati dalla stampa e mal disposte ad accettare la

routine del quotidiano. Dall’analisi della documentazione del ministero della Cultura popolare, si

evince in maniera evidente proprio questa preoccupazione dei responsabili del settore, di non

spingere all’accesso i toni enfatici dei giornali, onde evitare di sfociare nel ridicolo o di provocare

effetti controproducenti. Erano d’altra parte gli stessi informatori del regime a fornire

continuamente il polso degli umori e del consenso nel paese ai funzionari del ministero in modo da

permettere – peraltro spesso con meccanismi squisitamente pragmatici - gli opportuni aggiustamenti

di linea e di tiro69.

Ma non tutto – grazie solo a questo modo di operare – rimase immune da elementi di inefficienza.

Occorre ad esempio evidenziare che, per quanto zelanti fossero, spesso i funzionari del ministero

davano l’impressione di navigare a vista, limitandosi ad attendere e interpretare le indicazioni del

duce o del ministro di turno. Molti di loro erano di fatto privi di un’appropriata preparazione nel

campo delle teorie dell’informazione, al contrario di molti colleghi tedeschi, a partire da Joseph

Goebbels70. Erano quasi sempre dei giornalisti o degli scrittori di secondo piano, dei prefetti di

carriera, degli ufficiali della Milizia, dell’Esercito o della Marina, che si fidavano in gran parte del

loro buon senso. Il che li portava in qualche caso a dispensare direttive banali o contraddittorie,

frutto di semplicistiche interpretazioni delle contingenze politiche o di grossolani tentativi di

tradurre in pratica le manie e gli egocentrismi del duce.

Anche una delle figure di maggior rilievo dell’intero meccanismo di controllo dell’informazione

sotto il fascismo, Celso Luciano, prima posto a capo della segreteria del sottosegretariato, poi alla

guida del gabinetto del ministero, era ad esempio un ufficiale dell’Esercito, con ottime vocazioni

organizzative ma con una forma mentis da burocrate71. Un altro degli addetti alla sezione Stampa

69 Sull’utilizzo degli informatori per controllare le opinioni degli italiani e tastare continuamente la condizione del consenso al fascismo si veda S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, Roma-Bari, Laterza, 1991; sul fenomeno dello spionaggio e della delazione si veda invece M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; Id., Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Milano, Mondadori, 2001; M. Canali, Le spie del regime, Bologna, il Mulino, 2004.70 E.R. Tannenbaum, L’esperienza fascista, cit., pp. 280-81.71 Su Celso Luciano cfr. in ACS, Ministero della Cultura popolare, gabinetto, b. 56, f. 350 «Luciano Celso» e Segr. part. duce, cart. ris., b. 25, f. «Luciano Celso».

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italiana, poi elevata a direzione generale, Gastone Silvano Spinetti, pur essendo un giornalista, era

stato assunto - a suo stesso dire - grazie ai buoni uffici di Gaetano Polverelli, senza avere alcuna

preparazione per il lavoro di propaganda72.

Soprattutto queste circostanze contribuirono a frenare lo spirito di iniziativa dei funzionari del

ministero, garantendo ai singoli direttori delle testate un minimo di spazio di manovra; una

prerogativa che gli omologhi tedeschi non avrebbero mai concesso alla stampa, sebbene per definire

il proprio modo di agire fossero soliti ricorrere, come i fascisti, alla metafora della «sinfonia» che

riecheggiava l’«orchestra» di mussoliniana memoria73.

I funzionari del ministero della propaganda del Reich muoveranno in varie occasioni ai colleghi

italiani l’obiezione di essere troppo larghi e permissivi nel dispensare le direttive alla stampa; una

convinzione, questa, che avrebbe conosciuto un ulteriore rafforzamento per effetto della firma a

Venezia, nell’agosto del 1939, di uno specifico accordo fra il ministro della Cultura popolare

Alessandro Pavolini e il capo ufficio stampa del partito nazionalsocialista Otto Dietrich.

Di fronte ai rilievi dei funzionari tedeschi, i responsabili italiani si giustificheranno in qualche caso

sostenendo che, al contrario di quanto avveniva in Germania, il regime poteva anche permettersi di

lasciare che i giornalisti interpretassero «le direttive della […] politica estera e gli avvenimenti del

mondo con quella pronta e spontanea sensibilità» che derivava loro dall’aver lavorato per 17 anni

nell’«Era Fascista»74. Ma era chiaro che i dirigenti del Minculpop ammettevano in questo modo di

non essere in grado di controllare minuziosamente tutte le voci espresse dalla macchina

dell’informazione.

In un rapporto al ministro Galeazzo Ciano, datato 9 dicembre 1935, l’allora sottosegretario in carica

Dino Alfieri parlò senza mezzi termini dell’esistenza di notevoli limiti di preparazione nel personale

che era stato posto alle sue dipendenze:

Essendosi verificati alcuni inconvenienti di carattere interno, dovuti soprattutto al fatto che mancavano una infinità di

rapporti – di carattere personale – con i principali giornali (il buon Felice non ce la faceva) e, come tu sai, gli altri

funzionari sono qui tutti dei burocratici [sic] (ottima gente ma che non ha nessuna speciale sensibilità realistica), ho

messo vicino a Felice, in qualità di V. Direttore, Mirko Ardemagni spostandolo dalla direzione del Turismo.75

L’aspirazione ad un controllo molecolare sull’informazione, a lungo anelato e in varie occasioni

vantato, dovette insomma sempre confrontarsi con limiti oggettivi, che coinvolsero anche i massimi

vertici dell’organizzazione.

72 Cfr. la lettera inviata dallo stesso Gastone Silvano Spinetti al direttore della rivista «Storia contemporanea», n. 1 (1971), p. 224.73 H.U. Thamer, Il Terzo Reich. La Germania dal 1933 al 1945, Bologna, il Mulino, 1993, p. 542.74 Appunto per il capo di gabinetto, non datato, firmato Annibale Scicluna; in ACS, Ministero della Cultura popolare, gabinetto, b. 69, f. 448 «Germania-Rapporti e contatti tra il Ministero della C.P. e il ministero della Propaganda del Reich».75 Rapporto di Dino Alfieri a Galeazzo Ciano, Roma, 9 dicembre 1935, in ACS, Ministero della Cultura popolare, gabinetto, b. 8, f. 31 «S.E. Alfieri».

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Come si legge in un rapporto della polizia politica dell’ottobre 1935, riferito all’azione svolta dal

ministero:

Lo stesso Sottosegretario Alfieri brancola fra le incertezze e l’incomprensione delle necessità giornalistiche. Ai rapporti

che egli tiene ai giornalisti, si mostra indeciso, senza indirizzo preciso, e spesso finisce col promettere provvedimenti

che egli stesso sa di non potere adottare.76

Certo, per quanto il loro numero sia piuttosto elevato, i rapporti riservati degli organismi di polizia

non possono, da soli e in quanto tali, essere utilizzati come prova inoppugnabile dell’inefficienza

del ministero in questo ambito. Appare tuttavia ugualmente significativo che, con il trascorrere

degli anni, il numero di questi rapporti si fosse andato progressivamente ampliando. Nel febbraio

1936, dopo avere evidenziato che non vi era nei dirigenti del ministero «preparazione sufficiente»,

un rapporto della polizia auspicava senza mezzi termini che essi esplicassero la loro azione con

«maggior sale [sic] e maggiore conoscenza dello spirito pubblico»77. In un rapporto del settembre

1936 si notava invece che:

I servizi della Stampa Italiana […] non soddisfano i giornalisti, in quanto si svolgono confusamente, senza direttive

precise […]. Spesso una nota posteriore, smentisce o rettifica le precedenti e quasi sempre ciò avviene per telefono,

senza avere il dovuto riserbo e la necessaria oculatezza. Ed è così che, ogni giorno, in Piazza San Silvestro, all’Aragno,

gruppi di sfaccendati e di ostinati mormoratori antifascisti, discutono e commentano gli ordini impartiti dal Ministero

della Stampa78.

Proprio in relazione alla consapevolezza che il governo inviasse regolarmente ai giornali ordini

sulle notizie da pubblicare, piuttosto significativa appare anche questa osservazione del

sottosegretario alla Stampa, Dino Alfieri, all’allora titolare del dicastero Galeazzo Ciano, impegnato

nella campagna d’Africa come aviatore:

Devi saper che essendo state nell’ultimo numero di «Giustizia e Libertà» nuovamente pubblicate alcune delle direttive

riservate che si comunicano alla stampa (Bocchini crede che la fonte di origine sia Torino) il Duce mi ha detto di ridurre

al minimo tali direttive esercitando conseguentemente sui giornali un’azione piuttosto repressiva che preventiva.79

Un indizio di irresolutezza davvero grave, questo di Mussolini di privilegiare il ritorno ad un’azione

«repressiva» piuttosto che «preventiva», per evitare che soprattutto l’opinione pubblica straniera

venisse a conoscenza - attraverso qualche giornalista non fedele alla consegna della «riservatezza»

76 Rapporto proveniente da Roma della polizia politica, 14 ottobre 1935, in ACS, Min. Int., Dgps, Div. Pol. Politica 1927-1944, b. 165, f. 3 «Ufficio Stampa del Capo del Governo».77 Rapporto proveniente da Roma della polizia politica, 4 febbraio 1936, ivi.78 Rapporto proveniente da Roma della polizia politica, 23 settembre 1936, ivi.79 Rapporto di Dino Alfieri a Galeazzo Ciano, Roma, 9 dicembre 1935, in ACS, Ministero della Cultura popolare, gabinetto, b. 8, f. 31 «S.E. Alfieri».

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o captando le consegne inviate dagli stenografi ai corrispondenti dei giornali italiani dall’estero - dei

contenuti delle veline governative80.

Dunque all’atto pratico il duce (uomo non privo di doti naturali di comprensione della psicologia

delle masse) e, con lui, i suoi principali collaboratori, non riuscirono mai a imprimere una piena

efficienza all’apparato fascista di manipolazione delle informazioni. Se mi dovessi affidare alle

sensazioni indotte dall’analisi del materiale di fonte fascista, sarei anzi portato a dedurre che a

predominare nell’organizzazione del settore fu sempre la consapevolezza che i giornali dovessero

piacere soprattutto a lui e che si dovesse in ogni momento e principalmente soddisfare le sue

richieste e le sue sollecitazioni81.

Naturalmente questa differente impostazione fra la gestione dell’informazione nell’Italia fascista e,

ad esempio, nella Germania nazista, non costituisce in quanto tale la prova inoppugnabile di una

maggiore o minore efficienza - in termini di ricaduta sull’opinione pubblica – dell’una rispetto

all’altra (una verifica di questo tipo, per risultare sufficientemente fondata, richiederebbe d’altra

parte elementi di raffronto e strumenti di analisi difficili da introdurre in questa breve analisi).

Appare peraltro indiscutibile che il modello italiano fosse privo di quegli elementi di rigore e

coerenza che pure, a livello di principio, i responsabili fascisti del settore si proposero di perseguire.

Un altro elemento su cui desidero soffermarmi riguarda la decisione di Mussolini di non disfarsi - al

contrario di quanto fece Hitler in Germania, dove a poca distanza dalla sua ascesa al potere furono

soppressi quotidiani liberali di fama internazionale, come il «Vossische Zeitung» e il «Berliner

Tageblatt» - di alcune testate liberali di notevole prestigio, a partire dalla «Stampa» e dal «Corriere

della Sera», che rimarranno anzi, specie durante gli anni Venti, centri potenzialmente insidiosi di

aggregazione dell’opinione pubblica moderata.

Mi pare abbastanza significativo che, ancora nel 1927, il direttore del «Corriere della Sera», Ugo

Ojetti, scrivesse al futuro capo ufficio stampa di Mussolini, Lando Ferretti, in merito al contenuto di

un articolo di quest’ultimo: «Veda di evitare dei neologismi, come la parola totalitario, che in Italia

sono ignoti»82; o che alcuni anni dopo il suo successore alla guida del giornale di via Solferino,

Aldo Borelli, in una lettera al direttore del «Temps», fosse costretto a replicare alle illazioni del

corrispondente romano del quotidiano francese, il giornalista svizzero Paul Gentizon, secondo il

80 A quest’ultimo problema faceva riferimento un appunto della direzione generale della Stampa estera alla direzione generale della Stampa italiana, che trattava specificamente delle corrispondenze quotidianamente inviate a Londra. Copia del documento, datato 12 novembre 1939, in ACS, Ministero della Cultura popolare, gabinetto, b. 52, f. 317 «Giornalisti italiani - varie».81 Cfr. ad esempio la lettera di Lando Ferretti a Maffio Maffii, Roma, 2 novembre 1928, in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart. 105, f. 238, «Ferretti Lando».82 Lettera di Ugo Ojetti a Lando Ferretti, Firenze, 16 gennaio 1927, in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart. 105, f. 238, «Ferretti Lando».

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quale il «Corriere della Sera» manteneva alta la sua tiratura solo a causa del suo «atteggiamento di

tiepido fascismo»83.

Nel documento in oggetto lo stesso Borelli finiva per tradire una percezione ben poco mussoliniana

dell’aggettivo totalitario, affermando in un significativo passaggio: «Siamo fascisti in senso

totalitario, senza destra o sinistra e senza ultra».

Un episodio riferito al settembre 1928 – quando la direzione era invece nelle mani del

«fascistissimo» Maffio Maffii - riassume bene i limiti che, dopo ben cinque anni dalla marcia su

Roma, separavano ancora la stampa fascista da prospettive di carattere totalizzante. In

quell’occasione i fratelli Crespi, grazie ai buoni uffici dell’amministratore del giornale Eugenio

Balzan e del fratello del duce, Arnaldo Mussolini, parteciparono alla corresponsione di un

sostanzioso contributo, pari a un milione di lire, come offerta «pro erario e pro famiglie numerose».

Ebbene proprio quell’«offerta» avrebbe permesso al «Corriere», che era stato accusato poco tempo

prima da Giuseppe Bottai di «antifascismo» e di «afascismo», di godere di un anno di vita

«tranquillo», al riparo da particolari rilievi o contestazioni.

Quella del settembre 1928 non sarebbe stata l’unica oblazione elargita dai Crespi e giunta a Roma

grazie ai buoni uffici di Arnaldo Mussolini; offerta di fronte alla quale Roberto Farinacci non

avrebbe esitato a parlare di «trionfo del compromesso»84.

Mi pare infine altrettanto emblematico che in alcuni particolari casi, come ad esempio quello del

«Lavoro» di Genova, la relativa «indipendenza» goduta fosse giunta a insinuare negli organismi di

controllo il dubbio della presenza, nelle redazioni, di tendenze politiche pericolose, come si desume

da questa informativa riservata giunta nel febbraio 1932 all’Ufficio stampa del capo del governo:

I corsivi del «Lavoro» sono da vigilarsi per la loro sottile, più o meno dissimulata, ma costante linea di avversione alla

struttura dello stato fascista ed all’ideologia mussoliniana.85

Passando ora al penultimo punto di questa mia breve riflessione, un rilievo non trascurabile fu a mio

avviso rivestito dalla presenza, durante il fascismo, di una serie di testate periodiche – o di

specifiche rubriche di quotidiani – i cui valori propagandati, a fronte di un’adesione al regime

formalmente assoluta, di fatto non coincisero mai pienamente con quelli «ufficiali».

Per quanto concerne l’universo dei quotidiani, basterebbe ricordare l’esperienza della «Gazzetta del

Popolo» di Torino, che pure fu una testata pedissequamente allineata alle disposizioni governative.

Nel suo piano di modernizzazione, infatti, nato anche per ammortizzare la caduta di vendite che la

83 Il documento, conservato in minuta presso l’archivio del giornale, risale quasi certamente all’aprile del 1933; cfr. in ACDS, «Carteggio personaggi e società», cart. 70, f. 77, «Borelli Aldo».84 Su tutta la vicenda cfr. R. Broggini, Eugenio Balzan. Una vita per il «Corriere», un progetto per l’umanità (1874-1953), Milano, Rizzoli, 2001, pp. 209-211.85 Nota riservata per l’Ufficio stampa del capo del governo, Roma, 17 febbraio 1932, in ACS, Ministero della Cultura popolare, gabinetto, b. 4, f. «Ufficio stampa del Capo del Governo».

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stampa quotidiana aveva registrato nei primi anni di potere mussoliniano (le industrie editoriali non

potevano tollerare per lunghi periodi la diffusione di prodotti commercialmente poco spendibili,

austeri e votati esclusivamente ad alimentare il consenso politico), essa scelse la strada dell’agile

intrattenimento, differenziando molto la sua offerta e rendendo il suo taglio decisamente

accattivante.

A prendere corpo furono soprattutto le rubriche settimanali, il cui obiettivo fu quello di conferire al

giornale una veste simile a quella delle riviste, con una marcata divisione in settori, in modo da

soddisfare tutte le categorie sociali e, nell'ambito di queste, tutti i componenti della famiglia.

In particolare, la «Gazzetta del Popolo» decise di trattare, nell'arco della settimana, argomenti

estremamente vari, evitando di riproporre i modelli - virili, austeri e, in definitiva, assai noiosi –

tipici delle riviste fasciste come «Il Balilla» o la «Rivista del Dopolavoro»: tutte pubblicazioni che

gli enti pubblici erano obbligati a ricevere per abbonamento ma che, normalmente, in pochi

leggevano.

Specie in alcune sue pagine il modello adottato dalla «Gazzetta del Popolo» fu molto vicino a

quello delle riviste americaneggianti per bambini – «Topolino» (1932), «Il Monello» (1933),

l'«Intrepido» (1935) – e di riviste settimanali femminili particolarmente vivaci, come ad esempio

«Annabella» e «Grazia» (1933)86.

La maggiore eccezione - all’interno di un universo della stampa fascista sostanzialmente omologato

al regime - fu probabilmente rappresentata proprio dalla stampa periodica; un settore in cui persino

alcune riviste «ufficiali» riusciranno a godere di una relativa autonomia, forse anche indotta dalla

loro minore diffusione e risonanza rispetto ai quotidiani e dai loro obiettivi generalmente meno

legati a esigenze propagandistiche87.

La stampa femminile avrebbe forse, meglio di altri settori, goduto di questa relativa indipendenza,

tale da permetterle in qualche misura di emanciparsi dall’immagine «monocorde e stereotipata»

della donna fascista divulgata dalla propaganda di regime (circostanza su cui avrebbe influito,

probabilmente, anche la tipologia di lettore a cui questa stampa si rivolgeva)88.

Fatto sta che i modelli di vita divulgati da alcune pubblicazioni in formato rotocalco, come «Lei»,

«Eva», «Gioia!», «Grazia» (in gran parte dedicate alla moda, ai pettegolezzi, ai romanzi a puntate,

ai consigli sulla casa, alla corrispondenza con le lettrici)89, non collimeranno mai pienamente con

quelli propagandati dal regime (e questo sebbene non mancassero, al loro interno, i dovuti

86 E. Paccagnini, Il giornalismo dal 1860 al 1960, in G. Farinelli, E. Paccagnini, G. Santambrogio, A.I. Villa, Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ai giorni nostri, Torino, Utet, 1997, pp 292-293; D. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana, cit., pp. 81-124; L. Becciu, Il fumetto in Italia, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 71-117.87 A. Vittoria, Le riviste del duce. Politica e cultura del regime, Milano, Guanda, 1983, pp. 8-9. Sulle riviste italiane durante il regime cfr. anche A. Panicali, Le riviste del periodo fascista, Firenze, D’Anna, 1978 e la documentata raccolta di saggi di L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1974, dedicata ad alcune riviste letterarie e artistiche come «La Voce», «900», «Il Selvaggio», «Il Frontespizio».88 E. Mondello, La nuova italiana. Le donne nella stampa e nella cultura del ventennio , Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 14.89 Ivi, p. 104.

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riferimenti al modello di donna prediletto, almeno a parole, da Mussolini e dai suoi gerarchi: madre

esemplare, «casalinga, morigerata e parca»). Se anzi si guarda attentamente ai modelli in esse

predominanti, ad emergere in maniera chiara sono soprattutto i richiami all’immagine della «donna

sportiva» che pratica lo sci o la vela, della «donna letterata», della donna «consumatrice» di moda90.

Sempre in questo contesto di parziale dissonanza rispetto ai modelli ufficiali del regime, un posto di

un certo rilievo fu occupato anche dai giornali satirici; settore che, nel complesso, si sarebbe

rivelato abbastanza insidioso per il fascismo91. In questo genere di stampa, almeno fino a quando il

regime lo avrebbe tollerato, fu infatti possibile vedere ridicolizzati la maniera di atteggiarsi del

duce, il servilismo dei suoi gerarchi, i metodi violenti e ottusi delle camicie nere. E che il regime

fosse giunto a temere molto la carica potenzialmente dirompente di questa pubblicistica – anche in

una fase di ormai piena fascistizzazione - lo si desume da un promemoria del 20 gennaio 1937

(firmato dal ministro per la Stampa e propaganda Dino Alfieri), nel quale , oltre all’imposizione di

un pesante bavaglio alla stampa satirica, furono fornite meticolose indicazioni ai direttori e ai

giornalisti per evitare di «sbagliare»92.

Anche nel mondo del fumetto e, in generale, della stampa per ragazzi (che avrebbe conosciuto un

notevole sviluppo durante il regime), se quasi sempre il modello proposto fu quello - politicizzato,

austero, retorico, etnocentrico, maschilista - di periodici come «Il Giornale dei Balilla»93 e «La

Piccola Italiana» (due pubblicazioni che riusciranno a raggiungere una tiratura non disprezzabile),

furono anche tollerate – probabilmente non ne venne subito colta o ne furono erroneamente valutate

le ripercussioni politiche – alcune pubblicazioni che riprendevano i modelli e gli eroi dei fumetti

americani. Un personaggio come «Topolino», ad esempio, giunto in Italia nel 1932, seppe nel giro

di poco tempo scalzare il primato dei tradizionali eroi del «Corriere dei Piccoli» e lo stesso avvenne

per un periodico come «L’Avventuroso», che dal 1934 riproduceva le strisce di «Flash Gordon» e

di «Mandrake».

Solo a partire dal 1936 il ministero della Cultura popolare diede prova di aver colto adeguatamente

il potere potenzialmente destabilizzante di queste pubblicazioni94. E si dovette aspettare addirittura

il 1938 per vedere messi al bando tutti i fumetti d’oltre oceano, tranne «Topolino».

90 Ivi, pp. 107-120.91 Per un quadro d’insieme relativo al fenomeno della stampa satirica in Italia cfr. O. Del Buono, Poco da ridere. Storia privata della satira politica dall’«Asino» a «Linus», Bari, De Donato, 1976.92 All’atto pratico, il tono e il contenuto di tali indicazioni si dimostrarono talmente stringenti da mettere in gioco sia lo spirito, sia la ragione d’essere della stampa satirica, per sua natura votata alla ridicolizzazione del potere e all’enfatizzazione del lato comico delle sue degenerazioni. Basti pensare che il punto due del promemoria recitava: «Evitare ogni forma di ironia a danno di istituzioni, categorie sociali ecc. degne del massimo rispetto». Le conclusioni del ministro erano fin troppo scontate: «La stampa umoristica ha il preciso dovere di prendere di mira tutti gli atteggiamenti non in armonia con il modo di vita insegnato dal Fascismo». Per il testo del promemoria cfr. in A. Chiesa, La satira politica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 122. 93 Nato nel febbraio 1923, era questo il periodico ufficiale dei gruppi Balilla. Nel 1926 esso mutò il titolo in «Il Balilla», divenendo poi, dal 1931, l’organo ufficiale dell’Opera nazionale Balilla.94 G. Genovesi, La stampa periodica per ragazzi. Da «Cuore» a Charlie Brown, Parma, Guanda, 1972, p. 65. Dello stesso autore si veda anche il breve saggio, dal titolo analogo al precedente, contenuto nel volume di P. Murialdi et al., La stampa italiana del neocapitalismo, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 409-424.

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Comicamente inconsapevoli di quanto la particolare caratterizzazione di questi eroi fosse

inscindibile dai contenuti che essi esprimevano e, soprattutto, del fatto che proprio in tali contenuti

risiedeva il loro successo, solo da quel momento i responsabili del ministero decideranno di

sostituire tali personaggi con degli eroi autarchici che – goffi, quando non ridicoli o addirittura

patetici – riusciranno peraltro ben poco a infiammare la fantasia degli adolescenti e a restituire le

emozioni regalate da quelli perduti95.

L’ultimo aspetto che intendo qui evidenziare si lega alla permanenza in vita, durante tutto il

ventennio, di una stampa non strettamente assimilabile a quella fascista: quella cattolica96.

Fu questo un universo di rilievo non marginale nel clima di generale omologazione del panorama

pubblicistico fascista (nel 1936 l’Opera nazionale per la Buona stampa raggruppava 927 riviste

religiose, 117 settimanali o plurisettimanali, 5 quotidiani, 187 periodici di cultura, 67 organi

dell’associazionismo cattolico e circa 5.000 bollettini parrocchiali)97, capace di configurarsi come

un prezioso tramite per garantire l’inserimento della Chiesa cattolica - attutito e ammorbidito dalla

«rassicurante» presenza della dittatura - nella vita della nazione, soprattutto in quegli strati sociali,

come il proletariato e la borghesia urbana, tradizionalmente meno permeabili al messaggio

cattolico.

Come ho potuto verificare attraverso alcune ricerche sul campo98, l’atteggiamento non ostile - ed

anzi di aperto sostegno - al regime manifestato dalla stampa cattolica, ma sempre nell’ottica di una

esplicita differenziazione fra i modelli cattolico e fascista, avrebbe instillato nei suoi dirigenti la

consapevolezza di essere riusciti a mantenere pienamente la loro indipendenza; l’autocoscienza che

se l’avvento del fascismo aveva distrutto il patrimonio ideale dei quotidiani liberali, i quali erano

sopravvissuti solo a patto di ripudiare i loro valori fondamentali, non aveva intaccato lo spirito e la

missione della stampa confessionale.

Mussolini, dal canto suo, al momento della firma dei Patti lateranensi, si era posto come principale

obiettivo di vincere la residua diffidenza delle masse cattoliche e di utilizzare la loro stampa come

strumento per veicolare messaggi in aree, come ad esempio quelle rurali, in cui difficilmente

95 G. Genovesi, La stampa periodica per ragazzi, cit., pp. 93-94.96 Per un quadro storico-bibliografico di insieme cfr. F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in F. Traniello, G. Campanini (a cura di), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia (1860-1980), Torino, Marietti, 1981, v. 1, t. 1, pp. 273-295. Sul periodo in esame si veda invece, dello stesso Malgeri, La stampa quotidiana e periodica cattolica italiana tra le due guerre, in Problemi di storia della Chiesa. Dal Vaticano I al Vaticano II, Roma, Dehoniane, 1988, pp. 319-341, ora anche (con il titolo La stampa cattolica italiana durante il fascismo) in Chiesa, cattolici e democrazia. Da Sturzo a De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1990, pp. 35-54, e il n. 33 (2003) della rivista «Storia e problemi contemporanei», intitolato Stampa cattolica e regime fascista, che contiene sei ricerche dedicate ad altrettante testate e un saggio introduttivo generale, di Daniele Menozzi, dal titolo Stampa cattolica e regime fascista.97 Cfr. La stampa cattolica nel mondo: insegnamenti e conclusioni dell’Esposizione mondiale della stampa cattolica nella Città del Vaticano, Milano, Istituto Cattolico per la Stampa, 1939; «Annali dell’Italia cattolica», pubblicati negli anni Venti e Trenta prima dalla Società editrice Vita e Pensiero, poi dalla Casa editrice «Pro Familia» di Milano; S. Pivato, L’organizzazione cattolica della cultura di massa durante il fascismo, in «Italia contemporanea», n. 132 (1978), pp. 9-10.98 Cfr. in particolare La stampa del Ventennio, cit., pp. 223-292 e La stampa cattolica alla prova del fascismo, cit.

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sarebbe riuscito ad arrivare con la stampa di partito. E questo anche a costo di accettare, all’interno

di un sistema dell’informazione interamente controllato dal centro, la permanenza di voci non ostili

ma intimamente convinte della rilevanza morale e civile del proprio ruolo, in parziale ma

significativo contrasto con la costruzione totalitaria del fascismo.

Anche per tale ragione, a lungo andare l’insofferenza del regime verso la stampa cattolica - che,

dietro il paravento del confessionalismo, «faceva politica», raccogliendo forme generiche di

dissenso o comunque di non omologazione - si sarebbe accresciuta.

Persino al momento della discussione alla Camera per la ratifica dei Patti lateranensi, Musssolini

aveva tentato di circoscrivere la portata delle «concessioni» fatte alla stampa cattolica99. Tanto che

la durezza manifestata in occasione di un suo intervento, del 13 maggio 1929, aveva provocato le

risentite reazioni di Pio XI, manifestate il giorno successivo in un discorso agli alunni del collegio

Mondragone100 e, in un secondo tempo, in un discorso tenuto ai cardinali ed ai prelati romani, dopo

un autunno caratterizzato dalla ripresa delle aggressioni fasciste alle organizzazioni di Azione

cattolica101.

Ma la questione della permanenza, all’interno delle organizzazioni e della stampa cattoliche, del

«morbo popolare»102 avrebbe rappresentato, anche negli anni successivi, una vera ossessione per gli

organi di controllo fascisti (sebbene, a ben vedere, tale fenomeno non trovasse una concreta

rispondenza nei fatti)103. In particolare, nelle file del fascismo non venne mai meno la convinzione

che tra i dirigenti dell’Azione cattolica, «nelle S. Congregazioni dipendenti dal Vaticano, nel

personale dell’Osservatore Romano […], in Segreteria di Stato e nelle stesse persone che

avvicinano il Papa e Gasparri» l’organizzazione del disciolto Partito popolare operasse sotto forma

«mascherata»104 e che in centri come Napoli, Torino e Genova i cattolici intendessero dare vita a

99 In B. Mussolini, Opera Omnia (a cura di E. e D. Susmel), Firenze, La Fenice, v. XXIV, pp. 43 e sgg. Era questo anche il frutto dei dubbi e delle reazioni che l’avvenuta Conciliazione aveva provocato all’interno delle frange più anticlericali del fascismo, che temevano un eccessivo cedimento di Mussolini e giungevano a chiedersi se tra fascismo e cattolicesimo si sarebbe mai potuto avere una base comune di dialogo. Julius Evola, ad esempio, aveva significativamente sostenuto su «Vita nova» che tra i due soggetti non poteva esistere alcun «sustrato dottrinale e religioso» in comune e semmai ad accomunare il cattolicesimo al fascismo era solo un peculiare «aspetto» di «forza d’ordine», di «potenza tradizionale, gerarchica e imperiale»; cfr. J. Evola, Per una educazione romana, in «Vita nova», n. V (1929), pp. 786-87; citato anche da M.C. Giuntella, I fatti del 1931 e la formazione della «seconda generazione», in P. Scoppola, F. Traniello (a cura di), I Cattolici tra fascismo e democrazia, Bologna, il Mulino, 1975, p. 198.100 P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari, Laterza, 1971, p. 196.101 In quell’occasione il pontefice aveva affermato: «Con sommo dolore, siamo costretti a fare delle tristi constatazioni: ed è per la stampa cattolica, per la stampa dell’Azione Cattolica. No, essa non è trattata bene, anzi è trattata male, odiosamente male. È questo un doloroso fatto che si è ormai verificato in tutto quest’anno, fino a questi ultimi giorni […]. E tutto ciò mentre si danno larghi permessi e facilitazioni a pubblicazioni che a quello stesso spirito contrastano»; cfr. il Discorso agli Em.mi Cardinali ed ai Prelati romani in risposta agli auguri natalizi , 24 dicembre 1929, in Documenti pontifici sulla stampa (1878-1963), Città del Vaticano, Tip. Poliglotta Vaticana, 1964, p. 90.102 Il riferimento era, evidentemente, al Partito popolare italiano, fondato da Luigi Sturzo nel gennaio del 1919.103 Basta leggere le note compilate durante gli anni Venti dagli informatori che lavoravano presso il Vaticano e poi inviate al capo Ufficio stampa della presidenza del consiglio, Aldo Capasso Torre; cfr. in ACS, Minculpop, Gabinetto, b. 155, f. «Note, appunti e relazioni per il Capo Uff. Stampa», sf. 1.3 «Clero e Santa Sede».104 E. Bressan, Mito di uno stato cattolico e realtà del regime: per una lettura dell’«Osservatore Romano» alla vigilia della Conciliazione, in «Nuova rivista storica», f. I-II (1980), p. 83.

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quotidiani con la funzione di «organizzazione possibile e almeno probabile di Partito»105. Se nel

1929, dopo tre anni dallo scioglimento del partito fondato da Luigi Sturzo, gli organi di controllo

del Pnf etichettavano ancora i quotidiani cattolici come organi «popolari»106, nel gennaio 1941 il

direttore generale della stampa italiana presso il Minculpop, rivolgendosi a un non meglio precisato

interlocutore, giungerà a parlare in questi termini della presenza di residui di popolarismo nella

redazione del quotidiano «L’Italia» di Milano:

Posso precisarti che tuttora fanno parte di quella redazione Gian Lodovico Pellizzari (capo redattore) che risulta essere

stato un esponente del partito popolare e un agitatore delle leghe bianche nel biellese; Luciano Berra, figlio del noto

esponente del P.P.I., Franco Berra; e numerosi altri elementi di provati sentimenti antifascisti. L’atteggiamento del

quotidiano milanese, ha dato spesso occasione a rilievi […]. Il Ministero ha dovuto, pertanto, nel 1940 infliggere al

Giornale ben sei sequestri, oltre a numerosissimi richiami, avendo esso pubblicato note ed articoli in materia di politica

estera o interna in aperto contrasto con l’atteggiamento politico ufficiale o con le direttive impartite.107

Un discorso a parte merita un quotidiano di peso internazionale come «L’Osservatore romano» (una

testata che, sotto il profilo giuridico, fino alla firma dei Patti lateranensi andrebbe considerata

«italiana»). Per l’intero ventennio, infatti, tutti i timori covanti nel fascismo per gli effetti della

relativa indipendenza della stampa cattolica, si amplificheranno notevolmente nei casi in cui ad

essere coinvolto era l’organo ufficiale della Santa Sede.

Le relazioni provenienti dagli informatori del regime presso il Vaticano, a ragione o a torto, tesero

del resto sin dall’inizio a dipingere lo storico direttore del giornale, il conte Giuseppe Dalla Torre,

come un acceso antifascista e l’«Osservatore romano» come un centro di raccolta di ex popolari108.

Del giornale, che giunse probabilmente a tirare fino a 200-250 mila copie alla vigilia della guerra

(di cui il 25% circa destinate all’estero109, mentre prima degli accordi del Laterano la sua tiratura era

di circa 20-30.000 copie)110, preoccupava in maniera particolare il suo ruolo di portavoce e di

strumento d’informazione al servizio della Santa Sede111.

105 Note informative della polizia politica, Milano, 12 febbraio e 4 agosto 1930, in ACS, Min. Int., Dgps, Div. Pol. Politica 1927-1944, b. 100, f. 2 «Partito popolare italiano».106 Cfr. ad esempio in Partito nazionale fascista, Ispettorato giornalistico, Relazione sulle funzioni e sviluppo dell’Ispettorato alla fine dell’anno 1929, in ACS, Pnf, Direttorio nazionale, servizi vari, serie I, b. 245.107 Lettera di Gherardo Casini a un destinatario non identificabile, Roma, 18 gennaio 1941, conservata in copia in Archivio dell’Arcidiocesi di Torino (AAT), Carte Varie, cat. I, «Varie Personali», f. 14.14.42, «L’Italia». Nell’autunno del 1934 anche il quotidiano «L’eco di Bergamo» era stato accusato dal concittadino «La Voce di Bergamo» di essere «cattolico, ma non fascista» ed, in sostanza, di svolgere attività politica; cfr. A. Pesenti, I contrasti tra il fascismo e la Chiesa nella diocesi di Bergamo negli anni 1937-1938, in P. Pecorari (a cura di), Chiesa, Azione cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922/39), Milano, Vita e Pensiero, 1979, pp. 539-541.108 Cfr. in ACS, Minculpop, Gabinetto, b. 155, f. «Note, appunti e relazioni per il Capo Uff. Stampa», sf. 1.3 «Clero e Santa Sede» e Min. Int., Dgps, Div. Pol. Politica 1927-1944, b. 100, f. 2 «Partito popolare italiano»; C.M. Fiorentino, All’ombra di Pietro. La Chiesa Cattolica e lo spionaggio fascista in Vaticano 1929-1939, Firenze, Le Lettere, 1999, pp. 184-198.109 P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 214.110 E. Bressan, Mito di uno stato cattolico, cit., p. 84.111 Cfr. la documentazione conservata in ACS, Ministero della Cultura popolare, «Reports (1922-1945)», b. 6.

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Nel 1938, dopo l’approvazione dei primi provvedimenti razziali, il ministro dell’Educazione e della

Propaganda tedesco, Joseph Goebbels, si spingerà a chiedere al collega italiano Dino Alfieri la

soppressione dell’organo vaticano, a causa delle incrinature che esso minacciava di insinuare nel

controllo dell’opinione pubblica112. E pare che tale affermazione non fosse priva di fondamento, se

si considera il deciso aumento di diffusione fatto registrare in quei frangenti dal giornale, anche in

provincia.

Il fatto era che l’«Osservatore», sebbene trascendesse, per la sua stessa funzione, l’ambito

nazionale, si stampava a Roma e la sua edizione principale era in italiano. Non poteva, quindi, che

riflettere con maggiore attenzione le vicende nazionali, con il vantaggio di non essere sottoposto

alla pioggia di veline provenienti dal Minculpop.

Oltre ad una serie di notizie provenienti dall’estero che non potevano essere pubblicate dalla stampa

italiana, esso riportava estratti da giornali la cui circolazione era proibita nel paese, come il «Times»

e «Le Temps». I responsabili del giornale erano inoltre piuttosto abili a scrivere tra le righe, a

disporre i titoli o a utilizzare altri accorgimenti per evitare di incorrere nei possibili rilievi del

governo italiano113, mentre i suoi redattori – sui quali il regime esercitava un’attenta vigilanza, come

confermano le carte conservate presso l’Archivio centrale dello stato -114 potevano accedere a fonti

di informazione precluse ai giornalisti italiani ed erano poi in grado di girarle a questi ultimi

attraverso fantasiosi stratagemmi.

Esemplare appare il caso di Federico Alessandrini - all’epoca funzionario dell’ufficio stampa

dell’Azione cattolica, oltre che giornalista dell’«Osservatore» - a cui fu assegnato il compito di

redigere - sfruttando i canali diplomatici della Segreteria di stato - «finte corrispondenze», firmate a

seconda delle capitali con vari pseudonimi, da inviare per la pubblicazione sui principali quotidiani

e periodici cattolici; un sistema che avrebbe permesso al pubblico dei lettori di avere informazioni

per lo meno verosimili sulla situazione in alcuni paesi europei, superando i limiti della censura115.

Nelle sue memorie lo stesso Alessandrini avrebbe accennato a questi servizi, inviati all’«Avvenire

d’Italia», all’«Italia» e al «Nuovo Cittadino», sotto forma di corrispondenze da Madrid (a firma

Cid), da Berlino (a firma Renano) e da Vienna (a firma Danubiano)116.

Col tempo l’«Osservatore», anche se il suo atteggiamento si distinse sempre per una notevole

prudenza, seppe dunque davvero trasformarsi, agli occhi dei lettori e forse oltre le sue stesse

intenzioni e il reale contenuto dei testi pubblicati, in un simbolo di indipendenza. Non appare privo

di significato, alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nel conflitto, il contenuto di una «informazione

fiduciaria» girata dal segretario del Pnf Ettore Muti al ministro della Cultura popolare, Alessandro

112 P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., pp. 213-214.113 F. Sandmann, «L’Osservatore Romano» e il nazionalsocialismo (1929-1939), Roma, Cinque Lune, 1976, pp. 9-10.114 Cfr. in particolare in ACS, Ministero della Cultura popolare, «Reports (1922-1945)», b. 6, f. «Reports 66».115 F. Malgeri, Chiesa, cattolici e democrazia. Da Sturzo a De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1990, p. 44.116 G. Alessandrini, Federico Alessandrini: una testimonianza, in «Studium», n. 6 (1985), pp. 727-38.

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Pavolini, in cui si evidenziava l’«insoddisfazione del pubblico di fronte all’atteggiamento generale

dei […] giornali», i quali erano accusati di essere poco obbiettivi «nei loro giudizi ed anche nel loro

notiziario». E in cui si concludeva:

Di qui deriva la straordinaria diffusione che ha assunto la lettura dell’Osservatore Romano, considerato come l’unica

fonte sincera di notizie sulla quale si possa fare affidamento.117

Un momento di forte tensione tra fascismo e una parte della stampa cattolica si ebbe anche dopo

l’avvio della campagna antisemita. Si tratta di un tema ormai variamente approfondito dalla

storiografia e non intendo qui affrontarlo. Mi limito a ricordare che, soprattutto in quei frangenti, si

sarebbero espressi alcuni significativi segnali di un mutato atteggiamento cattolico verso il

fascismo, puntualmente recepiti dal ministero della Cultura popolare e tali da mettere in allarme

persino il ministro per la Propaganda e l’educazione popolare del Reich, Joseph Goebbels. Questi,

sul suo organo personale, l’«Angriff», si spinse non a caso a dipingere l’arcivescovo di Milano

Ildefonso Schuster (un cui discorso antirazzista, pronunciato nel novembre 1938 nel duomo di

Milano, era stato ripreso integralmente dal quotidiano cattolico «L’Italia»)118 come «il portavoce di

una cricca clericale» che da un anno si era «proposto il compito di distruggere l’asse Roma-

Berlino».

Ne seguiranno le scontate - e imbarazzate - rassicurazioni telefoniche del ministro Alfieri, in gran

parte fondate sulla constatazione che i giornali cattolici avevano in Italia una «circolazione

limitatissima» e che il governo esercitava su di essi «una forte pressione»119.

Conclusioni

Come ho qui tentato sommariamente di evidenziare, l’azione di organizzazione e controllo sulla

stampa attuata dal regime durante il ventennio percorse un cammino ondivago e non sempre

coerente.

Nel primo triennio di potere Mussolini fece affidamento principalmente sulle azioni di

intimidazione, sulla censura e sui rimaneggiamenti degli assetti proprietari.

Quindi procedette all’approvazione di una legislazione il cui scopo appariva abbastanza

esplicitamente quello di dimostrare una buona disposizione del fascismo verso i giornalisti. Diede

anzi proprio a un organismo di rappresentanza della categoria, il Sindacato nazionale fascista dei

117 Copia dell’informativa, datata 22 aprile 1940, e della lettera di Ettore Muti, datata 4 maggio 1940, in ACS, Ministero della Cultura popolare, gabinetto, b. 124, f. «Starace Achille».118 Sulla questione delle leggi razziali in relazione al quotidiano milanese cfr. V. Marchi, «L’Italia» e la «questione ebraica», negli anni Trenta, in «Studi Storici», n. 3 (1994), pp. 811-849.119 Conversazione telefonica fra Dino Alfieri e Joseph Goebbels, 23 novembre 1938, h. 9.45, in ACS, Ministero della Cultura popolare, gabinetto, b. 64, f. 422 «Goebbels Giuseppe».

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giornalisti, il compito di delineare un «nuovo» modello di stampa e una «nuova» tipologia di

giornalista, intimamente e schiettamente fascista.

Alla resa dei conti, l’opera di rinnovamento promossa dal Sindacato nazionale fascista dei

giornalisti nel primo decennio di potere mussoliniano fu – come abbiamo visto - molto

contraddittoria. Se infatti i suoi dirigenti si proposero da un lato di realizzare un sensibile

miglioramento del prestigio sociale, della preparazione tecnico-professionale e della «coscienza

politica» dei giornalisti (giungendo addirittura a ipotizzare, per questi ultimi, una funzione

assimilabile a quella degli educatori), finirono dall’altro per ingabbiarli in una sequela di restrizioni,

inchiodando la figura del giornalista stesso al ruolo equivoco dell'«esercente privato di una pubblica

funzione»120.

Conquiste come il contratto di lavoro «corporativo», l'Istituto di previdenza, l'Ufficio nazionale di

collocamento, per quanto tese a elevare la condizione del giornalista italiano, fino a portarla su

standard vicini o addirittura superiori a quelli di altri paesi economicamente avanzati, si

dimostrarono inoltre sostanzialmente funzionali ai processi di stabilizzazione del regime. Per

giunta, a fronte di un pesante restringimento dei margini di autonomia professionale, esse non

riuscirono a intaccare considerevolmente i privilegi e le posizioni di potere goduti dai grandi gruppi

che dominavano il settore editoriale. In questo senso, anche le dichiarazioni di indipendenza della

nuova stampa fascista dalla grande industria e dal capitale finanziario si scontrarono ben presto con

l’esigenza, per il regime, di garantirsi l’appoggio dell’una e dell’altro al fine di conservare il potere.

Al fascismo non apparve dunque inizialmente improponibile un modello di «modernizzazione»

capace di coniugare un’opera di svecchiamento sotto il profilo tecnico-editoriale (ed anche la

ricerca di nuove soluzioni in campo professionale, previdenziale e sociale) con l’autoritarismo

politico. Il settore giornalistico fu anzi uno dei campi in cui si espresse palesemente tale dicotomia.

Il mondo della stampa non fu nemmeno privo di uomini capaci di dare vita a questo piano di

fascistizzazione su larga scala, attraverso un processo di ammodernamento che avrebbe dovuto

assumere prima di tutto il significato di «razionalizzazione» in funzione delle esigenze del regime.

A mancare al governo fascista furono invece la forza finanziaria e – alla resa dei conti - la

convenienza politica per accollarsi l’intero peso di una simile impresa, subentrando ad esempio,

nella gestione delle testate, ai grandi gruppi editoriali (i quali – come abbiamo visto - in molti casi si

autofascistizzarono senza subire particolari atti di imperio).

Anche per queste ragioni, molte tare e compromessi lastricheranno, negli anni successivi alla

marcia su Roma, il cammino intrapreso dal regime per la creazione di una «nuova stampa» e di un

«nuovo giornalismo» autenticamente fascisti; limiti che, come abbiamo visto, non saranno invece

mai tali da arrestare il processo di progressiva centralizzazione dell’informazione.

Soprattutto gli inizi degli anni Trenta avrebbero rappresentato un passaggio significativo. Se infatti

120 Cfr. A. Assante, Contributo ad una critica de il giornale e il giornalismo di stato, Napoli, Morano, 1937, p. 36.

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nel suo primo decennio di potere Mussolini non aveva voluto stravolgere la vecchia macchina

giornalistica, preferendo attivare una strettissima azione di controllo (meno gravosa sotto il profilo

economico e fondata appunto sulla favorevole disposizione di molti industriali-editori interessati ad

entrare nelle grazie del regime), dopo un decennio di potere egli si rese conto che questo modo di

operare non era stato sufficientemente redditizio. Deludenti risultati sembrava inoltre conseguire il

suo tentativo di scommettere sui giovani e sul loro fervore di giornalisti fascisti cresciuti nel clima

mistico del regime.

Principalmente per tali motivi, sulla scia di quanto andava facendo Goebbels in Germania, alla fine

decise di centralizzare sistematicamente il controllo sull’informazione, privando i giornalisti fascisti

di qualsiasi pretesa di «autonomia».

Naturalmente evidenziare i limiti organizzativi e, sotto certi aspetti, «genetici» del disegno

totalitario fascista nel campo dell’informazione non significa negarne l’esistenza o gli effetti. Al

contrario, occorre qui ribadire che, per lo meno dopo l’ascesa di Galeazzo Ciano alla guida

dell’Ufficio stampa del capo del governo, nell’agosto 1933, il settore informativo si pose

decisamente in una prospettiva del tutto nuova. La creazione, il 6 settembre 1934, del

sottosegretariato per la Stampa e la propaganda - e la sua successiva trasformazione in ministero per

la Stampa e la propaganda (poi, su imitazione del modello tedesco, in ministero della Cultura

popolare) – fu, anzi, uno dei principali frutti dell’avvenuta percezione, da parte di Mussolini e del

suo entourage, che l’apparato di gestione dell’informazione di un regime totalitario non poteva

esimersi dal tentare di esercitare un controllo coerente e centralizzato sulla stampa e,

contestualmente, su tutto quanto concerneva la propaganda, la cultura e il tempo libero.

Ma, come queste pagine hanno tentato molto sommariamente di evidenziare, anche questa

fondamentale svolta impressa da Mussolini non avrebbe assunto, alla resa dei conti, caratteri

realmente assoluti, anche a causa delle peculiari caratteristiche del sistema editoriale e capitalistico

del paese.