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2010 RAPPORTO DI RICERCA a cura di CRISTINA PALMIERI

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RAPPORTO DI RICERCA a cura di CRISTINA PALMIERI

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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INDICE

IPOTESI E METODOLOGIE DELLA RICERCA

1. IL DISEGNO DELLA RICERCA 6

1.1. Lo scenario culturale: da dove nasce l’idea della ricerca 6

1.2. Le ipotesi e le domande della ricerca 7

1.3. Il campo della ricerca 8

2. I PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI E LA METODOLOGIA DELLA RICERCA 9

2.1. La Clinica della Formazione e la ricerca in questione 9

2.2. Gli strumenti di rilevazione 10

2.3. Gli strumenti di analisi e di elaborazione 11

Il gruppo di ricerca 12

I DATI E GLI ESITI DELLA RICERCA

Parte prima: La formazione nel Corso di Laurea in Educazione Professionale

Premessa 14

1. UNIVERSITÀ E FONDAZIONE DON GNOCCHI ONLUS 15

1.1. La continuità del contesto formativo: l’Università in Fondazione Don Gnocchi 15

1.2. Tra Fondazione, Università e mondo dei servizi 15

1.3. Gli elementi di discontinuità 17

2. LA FORMA DEL CORSO DI LAUREA 19

2.1. Le rappresentazioni dell’impresa formativa 19

2.2. L’articolazione disciplinare: l’area delle discipline teoriche e l’area professionalizzante 20

2.2.1. Un Corso di laurea “ibrido” 20

2.2.2. La didattica 21

2.2.3. Nuclei di attenzione pedagogica: la scansione temporale e l’esigenza di integrazione delle aree

disciplinari 21

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2.3. Le pratiche didattiche nell’area professionalizzante 22

2.3.1. Pratiche didattiche in Guida al Tirocinio 22

2.3.2. Nuclei di attenzione pedagogica: la figura del tutor/docente di Guida al Tirocinio e la questione della

valutazione nell’area professionalizzante 25

2.4. Quale “forma” assume il Corso di Laurea? 26

3. GLI STUDENTI 29

3.1. Lo studente “modello” 29

3.2. Lo studente “reale” 30

3.3. Lo studente “alluvionato”, “di corsa”, lo studente “utente” 32

3.4. Studenti o allievi? 33

4. L’EDUCATORE PROFESSIONALE, COME ORIZZONTE FORMATIVO 34

4.1. Le rappresentazioni della figura dell’educatore professionale 34

4.2. Le competenze dell’educatore professionale 34

Parte seconda: Sguardi e voci dal mondo del lavoro educativo

Premessa 37

1. LO SCENARIO DEL LAVORO EDUCATIVO 38

1.1. La situazione attuale dei servizi educativi e socio sanitari in Lombardia 38

1.2. Le rappresentazioni del lavoro educativo 39

1.2.1. La dimensione pragmatica del lavoro educativo 39

1.2.2. La dimensione relazionale e affettiva nel lavoro educativo 40

1.2.3. La dimensione riflessiva e progettuale nel lavoro educativo 40

1.2.4. La dimensione “individuale” del lavoro educativo: la promozione dell’autonomia 41

1.2.5. La dimensione “collettiva” del lavoro educativo 41

1.3. Le condizioni di possibilità del lavoro educativo 42

1.3.1. Il lavoro d’équipe 42

1.3.2. L’integrazione fra le figure professionali 43

1.3.3. Il lavoro del coordinatore 44

1.4. Gli strumenti del lavoro educativo: dal progetto alla documentazione 45

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2. L’IDENTITÀ DELL’EDUCATORE PROFESSIONALE 47

2.1. Le rappresentazioni dell’educatore professionale 47

2.2. Le rappresentazioni delle competenze dell’educatore professionale 48

2.3. Le rappresentazioni del sapere pedagogico 49

3. I “NUOVI” EDUCATORI 51

3.1. Le rappresentazioni degli studenti e dei tirocinanti 51

3.2. Le rappresentazioni dei “giovani” educatori 52

3.2.1. Gli educatori “laureati” dicono di sè 53

3.2.2. Gli educatori laureati, a partire dalle loro parole 54

3.2.3. Il sondaggio presso gli educatori laureati 55

4. LA FORMAZIONE DELL’IDENTITÀ PROFESSIONALE 59

4.1. Le rappresentazioni della formazione di base 59

4.1.1. Le immagini della formazione 59

4.1.2. Significati, obiettivi, criticità e prospettive della formazione di base 60

4.1.3. Le rappresentazioni del tirocinio nella formazione di base 61

4.2. Formazione continua e supervisione 62

VERSO LE CONCLUSIONI

1. LA RELAZIONE TRA MONDO DEL LAVORO E MONDO DELLA FORMAZIONE 64

1.1. Mondo della formazione e mondo del lavoro: un ponte possibile? 64

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IPOTESI E METODOLOGIE

DELLA RICERCA

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1. IL DISEGNO DELLA RICERCA

1.1. LO SCENARIO CULTURALE: DA DOVE NASCE L’IDEA DELLA RICERCA

La proposta di realizzare una ricerca pedagogica che coinvolge la Fondazione Don Gnocchi Onlus e

il Centro Studi Riccardo Massa, con particolare riguardo alle attività di formazione rivolte alle professioni educative, nasce da un comune interesse, verificato negli anni, nei confronti delle pratiche, dei progetti e dei dispositivi di formazione attuati ed attuabili in particolare nell’ambito della formazione di professionalità le cui competenze siano spese soprattutto in ambito educativo, socio-educativo e socio-sanitario. Un interesse che si declina nel tentativo di comprendere non solo i significati che la formazione può ricoprire per chi si sta formando, ma anche e soprattutto i contributi specifici che essa, nel momento socio-culturale attuale, può mettere in campo per rispondere a esigenze sempre più articolate e complesse, che animano da un lato i bisogni dei soggetti con cui gli educatori professionali si trovano a lavorare, dall’altro le disposizioni amministrative, istituzionali e normative che regolano presenza e modalità di lavoro nei diversi servizi in cui le figure professionali formate possono essere impiegate.

Negli ultimi 10 anni, il mondo della formazione della professione educativa ed il mondo del lavoro educativo sembrando essere interessati da profondi cambiamenti. Dal punto di vista della formazione, si è assistito al passaggio dalle Scuole Regionali alle Facoltà Universitarie. Nel panorama attuale delle professioni d’aiuto, d’altronde, in cui si colloca a pieno titolo l’educazione professionale, sembra che si profili uno scenario nuovo rispetto a qualche anno fa, i cui confini, le cui ragioni, motivazioni e caratteristiche meritano di essere considerate nel momento in cui, inevitabilmente, paiono porre una serie di questioni essenziali proprio alla formazione delle figure che poi tali professioni andranno a svolgere.

Da un punto di vista culturale (ma anche giuridico-amministrativo), infatti, le professioni d’aiuto sembrano essere sempre più riconoscibili nel momento in cui si identificano con le prestazioni specifiche e precise che esse possono erogare: sembra così essere relativamente semplice comprendere chi sia e cosa faccia, per esempio, un fisioterapista, il cui lavoro può essere rappresentato in qualche modo prevalentemente da interventi riabilitativi particolari, che richiedono tempi generalmente prevedibili e che consentono una valutazione in qualche modo oggettiva dei risultati raggiunti. Più difficile pare invece rappresentare il lavoro svolto quando tali professioni, come nel caso delle professioni educative, non siano denotate da una specificità così marcata, da prestazioni esclusive, da protocolli procedurali, da tempi scanditi e prevedibili, da risultati oggettivamente identificabili, bensì dall’istituzione e dallo svolgimento di processi complessi e lunghi, da risultati attesi ma di fatto imprevedibili perché frutto dell’intreccio di dimensioni soggettive, culturali, materiali, istituzionali. Una delle conseguenze di ciò, banale e significativa al tempo stesso, è, per esempio, il fatto che sempre più raramente chi si iscrive ad un Corso di Laurea in Educazione Professionale o in Scienze dell’Educazione ha in mente la figura professionale che dovrà diventare: spesso, sembra, gli studenti e le studentesse si iscrivono sulla scorta di alcune spinte emotive, relative alla piacevolezza o alla curiosità suscitate dalle materie d’esame, piuttosto che ad alcune “vocazioni” (il piacere di stare con i bambini, per esempio).

Sta di fatto che lo statuto debole della pedagogia – per usare un’espressione condivisa e utilizzata da molti pedagogisti – e la complessità dell’educazione – come esperienza umana articolata su più livelli, ma anche tanto ovvia in quanto “naturale” compagna dell’esistenza di chiunque – in qualche modo paiono creare un vuoto rappresentativo: sembra oggi sempre più arduo dire cosa faccia l’educatore professionale, definire il suo lavoro e indicare le prestazioni che eroga, se di prestazioni si può parlare. La stessa Regione Lombardia si astiene dal rispondere a tali domande: il lavoro dell’educatore professionale sembra essere descritto solo attraverso il tempo utile per realizzarlo; ma

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pare si faccia fatica a far corrispondere qualunque contenuto a quel tempo che viene sottoscritto e retribuito per poter svolgere un lavoro educativo.

Si tratta di una condizione pericolosa, perché rischia di trascinare nel non senso ciò che nei servizi educativi si fa. D’altronde, si tratta di una situazione che in qualche modo sembra essersi prodotta anche a partire da una condizione che pare connotare il mondo dei servizi educativi, ovvero la fatica a rendere conto, a rendere visibile, a documentare, a valutare, a esprimere con linguaggi e modalità che non utilizzino prevalentemente canali orali e relazioni dirette le esperienze, le pratiche, le occasioni educative effettivamente progettate e realizzate. Come se la documentazione appartenesse ad un mondo altro, ma soprattutto ad altri linguaggi e non potesse servire al lavoro educativo. Ma in questo modo, il vuoto intorno a “ciò che si fa” rischia di approfondirsi, e di trascinare nella non consapevolezza il lavoro educativo praticamente effettuato.

1.2. LE IPOTESI E LE DOMANDE DELLA RICERCA

Nascono da queste considerazioni le ipotesi che hanno sostenuto la ricerca e le domande che l’hanno animata.

Gli educatori e le educatrici professionali apprendono a svolgere il lavoro educativo all’interno di un Corso di Laurea particolare, che, nell’ambito delle professioni sanitarie, dota la loro formazione di una propria specificità. Non è questo l’unico Corso di Laurea che prepara educatori ed educatrici, ma il titolo acquisito all’interno del Corso di Laurea per Educatori Professionali della Facoltà di Medicina e Chirurgia è un titolo professionalizzante, tale da poter consentire agli studenti di accedere al mondo dei servizi socio sanitari equipaggiati di competenze adeguate. Questo, almeno nelle intenzioni.

La prima, importante domanda che ci si pone è allora relativa proprio al modo in cui la formazione accade, all’interno di questo contesto. Dove la curiosità non spinge semplicemente ad indagare dimensioni curricolari ed organizzative, ma a comprendere come funzioni il processo formativo messo in atto in modo da produrre effetti di apprendimento tali da consentire ai “nuovi” educatori di entrare nel mondo del lavoro disponendo di modelli, competenze, capacità adeguate alle situazioni che si troveranno ad affrontare, e che, come detto precedentemente, presentano aspetti di complessità del tutto nuovi. Insomma, attraverso quali esperienze apprendono a diventare educatori professionali gli studenti del Corso di Laurea in Educazione Professionale, oggi? Perché il Corso di Laurea esiste da 10 anni, e nell’arco di questo tempo ha subito modificazioni; come del resto è profondamente mutato il mondo dei servizi socio-sanitari, “naturale” sbocco professionale dei suoi studenti.

Non solo. La formazione della figura professionale è stata assunta, in questa ricerca, come un luogo che si pone all’incrocio di diverse istanze, sollecitazioni e pratiche: il necessario riferimento al profilo professionale indicato nella legislazione prima regionale, e nazionale dal 1998; le modalità concrete di realizzazione dei percorsi formativi; ma anche le rappresentazioni della formazione che si veicolano, si propongono, si legittimano più o meno consapevolmente durante la formazione stessa e le rappresentazioni della figura dell’educatore “formato”, circolanti nel mondo dei servizi sanitari, sociali, educativi. L’interesse è allora anche quello di comprendere se e come si dia corrispondenza tra rappresentazioni del percorso formativo e immagini di educatore professionale implicitamente o esplicitamente proposte e costruite durante la formazione universitaria attraverso determinate pratiche formative.

Sulla scia di queste ipotesi, prende forma la seconda domanda: in che modo la formazione di base, oggi, sostiene il lavoro educativo nei diversi contesti professionali? Durante la loro formazione iniziale, infatti, i futuri educatori e le future educatrici apprendono a progettare, a riflettere su ciò che succede nelle situazioni educative, a plasmare, a seconda di esse, metodi e tecniche sperimentati, a scrivere relazioni. Come frutta questo loro bagaglio, quando arrivano nei servizi? E ancora come può, questo bagaglio, sostenere le competenze educative specifiche della figura dell’educatore professionale in maniera adeguata rispetto alle attuali condizioni sociali, economiche e culturali? E ancora, come può la formazione iniziale costruire le premesse per l’individuazione di metodologie, di pratiche, di modalità che consentano agli educatori e alle educatrici non solo di fare, ma anche di mostrare la particolarità e il senso del loro lavoro, restio ad essere decodificato come “prestazione”? Come si concilia, se è

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possibile, l’immagine che del lavoro e del ruolo educativo si costruisce durante la formazione di base con le aspettative, le rappresentazioni, le richieste che a questa figura indirizza il mondo dei servizi socio-sanitari e socio-educativi?

Queste domande si pensa possano costituire un nucleo di questioni tali da animare una ricerca pedagogica che, all’interno di una comprensione critica del contesto sociale, economico, culturale in cui si muovono oggi servizi e politiche sociali, educative e sanitarie, possa cominciare a riempire, anche se di poco, quel “vuoto” che pare caratterizzare l’opera di chi fa, professionalmente, educazione.

1.3. IL CAMPO DELLA RICERCA

Rispondere a queste domande ha comportato circoscrivere il campo in cui poter trovare indicazioni per costruire teorie adeguate. Teorie non generalizzabili, certamente, ma capaci, proprio per la loro possibilità di mantenersi vicine all’esperienza divenuta oggetto di ricerca, di formulare interpretazioni condivise con coloro che di quell’esperienza sono i protagonisti, di individuare chiavi di lettura foriere di ulteriori riflessioni, e quindi cariche di ulteriori domande; infine di accrescere la comprensione possibile dell’oggetto di ricerca, gettando luce su eventuali modalità differenti di intervento, su possibilità di cambiamento, su ulteriori piste di lavoro.

Per comprendere come accade la formazione nel Corso di laurea in Educazione Professionale, la ricerca è entrata nel corso, e in particolare nella sede milanese, ubicata presso la Fondazione Don Gnocchi Onlus. Il Corso di Laurea, infatti, è dislocato a Milano e a Bosisio Parini (Como), presso la sede dell’IRCCS Medea1. La scelta di concentrarsi sulla sede milanese è dovuta ad una serie di fattori, primo tra tutti il fatto che la sede della Fondazione Don Gnocchi Onlus ospita la Facoltà di Medicina dell’Università degli studi di Milano dal momento in cui la formazione degli educatori è stata affidata alle Università. La Fondazione è stata il luogo in cui hanno preso corpo le transizioni che hanno interessato la formazione della figura dell’educatore professionale: in quanto ex Scuola Regionale è testimone di una tradizione formativa ventennale ma anche delle innovazioni che si sono susseguite. È quindi un luogo in cui continuità e discontinuità nella formazione degli educatori professionali si intrecciano in maniera indissolubile e, in quanto tale, rappresenta un caso interessante per la ricerca in questione. Inoltre, la collocazione nel territorio urbano milanese e il fatto stesso di essere un luogo in cui si erogano servizi socio-sanitari parrebbe obbligare, in qualche modo, la sede formativa a considerare i cambiamenti socio-culturali ed economici che hanno interessato il tessuto sociale e il mondo dei servizi in maniera forse più evidente che altrove.

Entrare, come ricercatori, nel Corso di Laurea in Educazione Professionali svolto in gran parte all’interno della stessa Fondazione Don Gnocchi ha significato, concretamente, identificare testimoni privilegiati in grado di raccontare non solo la loro esperienza all’interno di questo percorso formativo, ma di mostrarne elementi strutturali e portanti, elementi di criticità e di forza, prospettive di cambiamento e soprattutto di esplicitare come, dall’interno, dal loro particolare punto di vista, funzioni il corso di laurea, quali effetti produca, e attraverso quali modalità. Si è così progettato, e proceduto, in due direzioni: da un lato sono stati individuati docenti e coordinatori che, per la loro posizione, storia ed esperienza avrebbero potuto dare un contributo significativo alla ricerca; dall’altro si è progettato e effettuato un percorso di ricerca più intensivo con il gruppo di tutor e docenti di Guida al Tirocinio. La scelta dei docenti e dei coordinatori si è basata su criteri quali la posizione istituzionale (per il coordinatore del Corso di Laurea e la Presidente); l’esperienza all’interno del Corso di Laurea e nella Fondazione Don Gnocchi2; l’esperienza all’interno di altri Corsi di Laurea professionalizzanti in

1 Come si vedrà, l’IRCCS Medea è stato coinvolto in un sondaggio di rilevazione proposto agli educatori laureati presso le due

sedi dei due Corsi di Laurea in Educazione Professionale della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di

Milano.

2 In questo senso, sono stati individuati docenti afferenti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia con insegnamenti pedagogici ma anche sanitari (ad es. igiene), docenti entrati da poco nel Corso di Laurea e docenti presenti da più tempo.

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ambito sanitario. La composizione del gruppo dei tutor docenti di Guida al Tirocinio è stata volontaria, ma caratterizzata dalla preoccupazione di avere una rappresentanza sia dei tutor esterni alla Fondazione Don Gnocchi (quindi docenti a contratto per la Facoltà di Medicina e Chirurgia), sia di tutor interni alla Fondazione (quindi educatori o coordinatori nei servizi della Fondazione).

Alle voci dei docenti, dei coordinatori e dei tutor, sono state affiancate le voci degli studenti del terzo anno di corso, che hanno partecipato volontariamente ad un focus group.

Per rispondere alla seconda domanda di ricerca, ovvero al modo in cui la formazione di base possa oggi supportare la professionalità degli educatori nei servizi socio-sanitari, i testimoni privilegiati sono stati individuati in base al criterio di appartenenza professionale al mondo dei servizi socio educativi e sanitari, ovvero quei servizi che paiono essere il più ovvio sbocco professionale degli educatori neolaureati, ma anche alla loro conoscenza diretta del percorso formativo universitario, dovuta alla posizione reiterata negli anni di referenti dei tirocinanti e quindi al ruolo svolto di interfaccia del servizio con il Corso di Laurea. Sono stati così individuati educatori e coordinatori collocati in servizi di tipo psichiatrico, in servizi per disabili (anche della Fondazione) e per minori, educatori associati all’ANEP e attualmente anche formatori.

A livello di progettazione, la ricerca prevedeva di affiancare a questa azione una rilevazione di tipo quali-quantitativo della posizione degli educatori laureati nel Corso di Laurea nel mondo del lavoro, in modo da comprendere quali fossero i servizi in cui avevano trovato occupazione, e quale eredità avesse in effetti, a distanza di tempo, lasciato loro la formazione universitaria di base, in termini di attitudini epistemologiche, di competenze, di ulteriori bisogni formativi. Tale rilevazione prevedeva di affiancare ad un questionario con domande chiuse ed aperte, lo svolgimento di un focus group con educatori laureati.

Avendo riscontrato notevoli difficoltà nel riunire in gruppo gli educatori, si è proceduto con il contatto individuale e con la realizzazione di interviste. Avendo avuto un ritorno dei questionari inviati pari al 54,5%, si è pensato fosse opportuna una loro integrazione con le informazioni analogamente raccolte dall’IRCCS Medea di Bosisio Parini, che negli anni scorsi ha gestito il Corso di Laurea in educazione professionale con l’Università dell’Insubria; in ogni caso, le informazioni raccolte soprattutto attraverso il sondaggio, possono essere valorizzate solo come indicative di linee di tendenza.

2. I PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI E LA METODOLOGIA DELLA RICERCA

2.1. LA CLINICA DELLA FORMAZIONE E LA RICERCA IN QUESTIONE

Il riferimento epistemologico e metodologico della ricerca è la Clinica della Formazione. Essa costituisce un approccio pedagogico particolare, che pone al centro del suo interesse l’accadere educativo in qualunque forma esso si manifesti, e che si dota di uno sguardo articolato per poter cogliere la complessità dell’evento educativo o formativo, nel suo darsi e nel suo svolgersi nel tempo. Ipotesi fondante di tale approccio è che ogni fenomeno educativo e formativo sia la risultante di molteplici dimensioni (materiali, esistenziali, inconsce, ideologiche, procedurali, metodologiche, ecc.) che agiscono intrecciandosi tra loro e dando luogo a evidenze particolari, la cui forma e modalità si regge sulla presenza di determinate “latenze”, ovvero dimensioni ed elementi non immediatamente visibili ma condizioni vive, pulsanti, che “stanno a lato” rispetto al modo in cui il fatto educativo emerge; elementi che ne determinano le caratteristiche.

In quanto approccio di ricerca, la Clinica della formazione si colloca nell’ambito della ricerca qualitativa e idiografica. I risultati di ricerca, pertanto, sono interessanti in quanto consentono di comprendere in profondità i fenomeni osservati prospettando possibilità di ripensamento e di riprogettazione di azioni pedagogiche loro inerenti; non hanno pretesa di generalizzazione, ma possono contribuire ad alimentare la riflessione intorno ai modelli pedagogici, ai significati, alle strategie, ai contesti, alle dinamiche affettive e dunque ai dispositivi educativi e formativi che animano l’educazione formale e informale.

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La scelta di questo approccio per la realizzazione della ricerca in questione è supportata da due motivazioni. Da un lato essa è adeguata dalla complessità dell’oggetto indagato, la formazione in atto all’interno del Corso di Laurea in Educazione Professionale, e coerente con uno degli obiettivi che la ricerca si pone, che riguarda la formatività propria di questo percorso, che, come tale, reclama un’attenzione e uno sguardo non solo pedagogico, ma anche capace di cogliere l’intreccio dei molteplici fattori in gioco in modo da cominciare a comprendere come un tale assetto produca determinati effetti, e allora come procedere per eventualmente modificare qualcosa, dando luogo ad esiti formativi differenti, magari più vicini a quelli attesi dal mondo dei servizi piuttosto che dalla riflessione pedagogica stessa. Dall’altro, assumere un approccio clinico significa presupporre l’ineliminabile intreccio tra le modalità con cui i soggetti - che abitano l’esperienza educativa o formativa3 che si va ad indagare - si rappresentano l’esperienza stessa, i loro compiti, i loro ruoli e le altre persone con cui, in quel contesto, hanno a che fare, e l’organizzazione (istituzionale e materiale) dei luoghi in cui quell’esperienza avviene, le pratiche messe in atto, le metodologie e le procedure adottate, le modalità di interpretazione che uno stesso contesto attiva nei confronti dell’accadere educativo/formativo quotidiano.

Questo presupposto, per la nostra ricerca, è sembrato essere particolarmente calzante non solo nel momento in cui consente di valorizzare le narrazioni dei testimoni privilegiati in quanto rappresentazioni complesse di un contesto formativo e di se stessi in esso, ma anche perché permette, attraverso percorsi e tematizzazioni particolari, di porre attenzione alle pratiche educative, agli aspetti solitamente più in ombra perché più scontati (il fatto che alcune attività vengano svolte in un luogo piuttosto che in un altro, che in quel luogo sia possibile comunicare in un certo modo e non in un altro, a partire proprio da una certa organizzazione degli spazi, articolazione di tempi, utilizzo di oggetti, ecc.), mettendo tutto ciò in stretta correlazione, evidenziando cioè stacchi o coerenze tra discorsi e prassi, tra obiettivi educativi e formativi e quotidianità, oltre che tra modelli interpretativi della prassi educativa e formativa e abitudini consolidate, azioni “comuni”, “naturali” per e in quel determinato contesto.

Se questo sguardo si è rivelato utile nel chinarsi sulla formazione in atto nel Corso di Laurea, d’altronde ha permesso di mettere a fuoco immagini e pratiche educative, rappresentazioni del ruolo dell’educatore e effettive mansioni svolte o richieste nei servizi, aspettative sugli educatori e reazioni ad esse, mostrando correlazioni possibili tra rappresentazioni e prassi presenti nel mondo della formazione professionale universitaria e rappresentazioni e prassi inerenti la figura, il ruolo e le competenze educative diffuse nel mondo del lavoro socio-sanitario e socio-educativo.

2.2. GLI STRUMENTI DI RILEVAZIONE

Perché fosse possibile realizzare tutto ciò sono stati messi in campo differenti strumenti di rilevazione.

Innanzitutto, grande rilievo hanno avuto le interviste in profondità, con cui sono state raccolte le testimonianza dei testimoni privilegiati (7 docenti e coordinatori; 7 professionisti). La griglia dell’intervista è stata preparata sulla base di una ricognizione iniziale attraverso materiale documentale e progettazione con il partner di ricerca (Fondazione Don Gnocchi); ciò ha consentito di esplorare, con sollecitazioni differenti per tipologia di testimone, nuclei centrali quali la rappresentazione del lavoro o dell’impresa formativa di cui i soggetti sono protagonisti, la rappresentazione del loro ruolo e degli oggetti del loro lavoro, la rappresentazione degli studenti e del loro percorso formativo, indicando situazioni o esperienze significative, evocando immagini dell’ educatore e quindi evidenziando le competenze specifiche della professione educativa. Tutto ciò con

3 Nel nostro caso docenti, tutor, studenti, ma anche tangenzialmente i protagonisti del mondo del lavoro sanitario e socio-

educativo.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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particolare attenzione alla delineazione dei contesti, delle metodologie, delle pratiche educative o formative spesso implicite nei discorsi di ciascuno.

Sulla base della ricognizione e progettazione iniziale, ma anche, via via, sulla base dei dati raccolti dalle prime interviste effettuate, si è proceduto con lo svolgimento di un percorso intensivo con sette tutor del Corso di Laurea, docenti di Guida al Tirocinio e di Metodologie educative. Si è ritenuto opportuno progettare e realizzare un percorso di approfondimento dell’esperienza di queste figure in quanto, già in sede di ricognizione iniziale, la loro funzione sembrava assumere un ruolo chiave nella formazione degli studenti e delle studentesse del Corso di Laurea, mostrandosi come una sorta di crocevia tra insegnamenti teorici e sperimentazione pratica del lavoro educativo (il tirocinio), tra mondo della formazione universitaria e mondo del lavoro educativo; come se quelli presidiati dai tutor/docenti fossero luoghi in cui le capacità sperimentate in Tirocinio avessero la possibilità di diventare competenze saldandosi con i saperi teorici incontrati, e in cui le teorie potessero diventare chiavi di lettura dell’esperienza svolta sul campo.

Sono stati quindi realizzati tre incontri di tre ore ciascuno: all’interno di essi è stato chiesto al gruppo di reagire a stimoli e produrre materiali inerenti la rappresentazione dell’impresa formativa, la loro immagine di studente (da formare e formato), e quindi le modalità di organizzazione del proprio lavoro formativo. Tra un incontro e l’altro si sono mantenuti i contatti attraverso una prima elaborazione dei materiali depositati, in modo da poterli condividere con il gruppo. La dimensione di gruppo si è rivelata molto feconda, permettendo agli stessi tutor/docenti di condividere e di riflettere su idee e pratiche formative solitamente implicite, agendo quasi come dispositivo di supervisione pedagogica.

Accanto a questo percorso, si è svolto un focus group con gli studenti del terzo anno del Corso di Laurea. Il focus, a cui hanno aderito volontariamente sette studentesse, ha visto una motivata e significativa partecipazione delle studentesse disponibili. Alle studentesse è stato chiesto di reagire rispetto alla loro esperienza di formazione all’interno del Corso di Laurea, esplicitando i significati che essa aveva assunto per loro, le esperienze per loro più importanti dal punto di vista formativo, e quindi l’impatto con il mondo dei servizi, la loro rappresentazione della figura e del ruolo dell’educatore e se e come il percorso formativo attraversato avesse mutato il loro sguardo nei confronti di se stesse, del loro futuro lavoro e dei soggetti con cui attraverso esso si troveranno a interagire.

Inoltre, sono state realizzate interviste in profondità con gli educatori disponibili (due). I nuclei esplorati hanno riguardato le scelte di lavoro, la rappresentazione della formazione di base e i guadagni formativi da essa tratti, la formazione “sul campo” che il lavoro ha indotto e il rapporto quindi con la formazione di base. A queste interviste è stato affiancato un sondaggio tramite questionario, che ha avuto lo scopo di raccogliere informazioni principalmente riguardo due elementi: i settori occupazionali in cui i laureati in Educazione Professionale trovano impiego; le aree di formazione che i laureati ritengono siano maggiormente servite nella propria esperienza professionale.

2.3. GLI STRUMENTI DI ANALISI E DI ELABORAZIONE

I materiali raccolti sono stati analizzati tenendo presenti i presupposti che l’assunzione di un approccio di Clinica della formazione prevede: considerare e rispettare la multidimensionalità del fenomeno esplorato, con particolare attenzione alle dimensioni contestuali, organizzative, affettive, relazionali, contenutistiche e ideologiche, tecniche e strategiche, cogliendone gli aspetti evidenti e quelli latenti, in modo da mostrarne l’intreccio, il funzionamento. Attenzioni, del resto, già implicite nella preparazione degli stimoli che hanno animato le interviste, il percorso con i tutor e il focus group con gli studenti.

Concretamente, nell’analisi dei materiali, questo ha voluto dire certamente tenere presenti le domande della ricerca e quelle più particolari espresse nella fase di rilevazione, ma anche esercitare un’attenzione particolare rispetto alle immagini, alle parole ricorrenti, peculiari, magari anche “bizzarre” utilizzate dagli interlocutori. Il tutto non tanto con un intento psicologico di svelamento di intenzioni nascoste o inconsce, ma nel tentativo di ricostruire, in maniera complessa, i modelli di

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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comprensione, le strategie consapevoli o inconsapevoli, il clima affettivo, le modalità di abitare spazi, tempi, ruoli, competenze differenti all’interno di un’esperienza come quella della formazione al lavoro educativo o come l’esperienza diretta del lavoro educativo.

Se, dal punto di vista della ricerca, potremmo dire che il nostro modo di procedere nell’elaborazione dei materiali si può avvicinare a quello previsto dalla grounded theory (per individuazione di nuclei significativi e quindi per successive categorizzazioni), lo scopo del lavoro di elaborazione dei dati è stato quello di cercare di comprendere quali modelli pedagogici siano sottesi alla formazione in atto nel Corso di Laurea in Educazione Professionale e quali modelli di comprensione della professione educativa siano veicolati e diffusi nel mondo del lavoro e, quindi, che relazione vi possa essere tra loro. Dove modello va inteso come una metafora, una sorta di artificio che aiuta chi fa ricerca a ricomporre dati, elementi, dimensioni che sicuramente nella vita sono intrecciati se non confusi tra loro: il modello è una razionalizzazione che serve per mettere ordine, e che, pur prefiggendosi di rispettare il più possibile i fenomeni oggetto di indagine, rischia sempre di semplificare. Tuttavia, ci sembra questo un rischio da correre, nella consapevolezza della relatività dei modelli che andiamo individuando ma anche della loro indispensabilità, se si vuole accedere ad una dimensione essenziale per la ricerca pedagogica e la prassi educativa, ovvero quella del cambiamento e della riprogettazione. Solo cioè a partire da una ricostruzione, per quanto complessa sempre razionalizzante, di quanto accade – nel nostro caso in quel particolare mondo della formazione a confronto con il più ampio mondo del lavoro – si possono individuare piste non solo di riflessione e di ricerca ma anche di possibile sperimentazione di nuove vie, possibilità, declinazioni del lavoro formativo e dei suoi esiti.

IL GRUPPO DI RICERCA

La ricerca è stata coordinata da Cristina Palmieri. Lo staff di ricerca è composto da Anna Rezzara, Jole Orsenigo, Giovanni Valle, Daniele Sartori, Stefania Ulivieri Stiozzi, Giorgio Prada.

La ricerca si è svolta da luglio 2009 a giugno 2010.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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I DATI E GLI ESITI

DELLA RICERCA

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Parte prima: La formazione nel

Corso di Laurea in Educazione

Professionale

Premessa

Il primo nucleo di attenzione della ricerca è il Corso di Laurea; la domanda che orienta la ricerca è

relativa alla comprensione di come si snodi, funzioni e quindi quali effetti formativi produca il Corso di Laurea in Educazione Professionale, che utilizza come sede principale, a Milano, la Fondazione Don Gnocchi Onlus. Come formi al lavoro educativo e quindi se e come possa anche formare il lavoro educativo.

Si tratta di un Corso di Laurea relativamente giovane, che eredita una tradizione formativa importante, quella delle Scuole Regionali per Educatori Professionali, di cui la Fondazione Don Gnocchi è stata sede prestigiosa. Un primo dato di ricerca è relativo al fatto che tutti i testimoni intervistati sono consapevoli di questa “memoria”: ed essa influisce, certo con pesi e in modi differenti, sul loro modo di pensare e praticare educazione e formazione, ora. Al tempo stesso, i nostri interlocutori si mostrano consapevoli dei necessari cambiamenti istituzionali (il “trasferimento” della formazione all’Università, e in questo caso alla Facoltà di Medicina e Chirurgia), ma anche di alcuni, inevitabili, cambiamenti sociali che trasfigurano in particolare i soggetti con cui e per cui andare a promuovere formazione: gli studenti che si accingono a diventare educatori, ma anche gli educatori stessi, i cui connotati (anche e soprattutto in termini di competenze) paiono essere mutati e mutevoli, rispetto anche solo a qualche anno fa. L’impressione è che dunque la formazione, mai come in questo momento, oscilli tra tradizione e innovazione, e che cerchi una sua forma, una sorta di terza via che utilizzi la memoria stando però con i piedi piantati in un presente sdrucciolevole, di difficile comprensione e definizione.

A partire da questa premessa, comprendere come si declini e si snodi attualmente la formazione dell’educatore professionale nel Corso di Laurea sembra allora richiedere di soffermarsi sui seguenti nuclei: Come “stiano insieme” Università e Fondazione Don Gnocchi: quali effetti scaturiscano dal fatto che

un ente sia, di fatto, dentro l’altro; Come si articoli e si snodi, da un punto di vista pedagogico, l’assetto formativo previsto dal Corso di

Laurea; Chi siano, nei discorsi di docenti, tutor e coordinatori del Corso di Laurea gli studenti e d’altronde

come gli studenti (del terzo anno e già laureati) si raccontino; Come i docenti, i tutor, i coordinatori del Corso di Laurea e gli studenti si rappresentino la figura

dell’educatore, quali competenze credono siano oggi essenziali, e quali competenze pensano si possano apprendere proprio grazie alla formazione di base. Interlocutori privilegiati, in questa fase della ricerca, sono soprattutto quei testimoni che,

assumendo posizioni differenti, frequentano il Corso di Laurea in maniera continuativa.

1. UNIVERSITÀ E FONDAZIONE DON GNOCCHI ONLUS

1.1. LA CONTINUITÀ DEL CONTESTO FORMATIVO: L’UNIVERSITÀ IN FONDAZIONE DON

GNOCCHI

Quando, nel 2001/2002, l’Università assume la formazione dell’Educatore Professionale, trova, non solo nella Fondazione Don Gnocchi, ma anche in altre tre istituzioni milanesi già sedi della Scuola Regionale per educatori professionali, una “struttura già pronta”, come afferma il coordinatore del Corso di Laurea. In qualche modo l’Università entra in un contesto precedentemente apprestato a svolgere le medesime funzioni previste dal Corso di Laurea; vi entra quasi come “ospite”, e pian piano, valorizzando le risorse organizzative ma soprattutto formative messe in campo dalla Fondazione; modifica, o meglio “traghetta” la formazione verso un’altra forma: universitaria, appunto.

Quello appena trascorso, e forse non del tutto concluso, è descritto da chi ha ruoli di coordinamento come un periodo “transitorio”, in cui si ha l’impressione che il contesto Don Gnocchi, con la sua tradizione, abbia agito come unico punto fisso, come nucleo importante e significativo, che, nel suo permanere, ha nel tempo dovuto fare i conti in particolare con due tipologie di cambiamento: cambiamenti di tipo istituzionale (dal riferimento unico istituzionale della Regione Lombardia, si è

passati al riferimento congiunto di Regione Lombardia, Università e Associazioni professionali, con una posizione della Regione sempre più defilata, soprattutto per quanto riguarda la correlazione tra numero programmato di ingressi in formazione e fabbisogno professionale nel mondo del lavoro; introduzione delle tasse universitarie; introduzione di nuove modalità di selezione in ingresso degli studenti);

cambiamenti di tipo organizzativo e didattico (graduale riorganizzazione del personale docente, con afferenze di docenti interni alla Facoltà di Medicina e Chirurgia per le discipline scientifiche e di area sanitaria; istituzione di corsi di area sanitaria comuni a diversi Corsi di laurea della Facoltà di Medicina e Chirurgia). Tutto ciò sembra aver prodotto effetti importanti, consegnando al Corso di Laurea una fisionomia

particolare e modificando, di fatto, il lavoro di coordinamento in particolare dell’area professionalizzante. L’impressione, che si ricava soprattutto dalle parole dei coordinatori, è che il lavoro si sia reso più “complesso ma anche più complicato”, aumentando nel tempo i vincoli di tipo soprattutto istituzionale, e venendo a mancare punti di riferimento prima univoci e forti. Emerge il fatto che sono cambiate le condizioni a partire da cui impostare un percorso formativo per educatori professionali, e che le nuove condizioni possano mettere a rischio o rendere meno efficace l’impresa. Ciò che resta, sembra essere proprio la tradizione nella formazione della figura professionale: una tradizione che non pare essere guardata con nostalgia, ma come un orizzonte di riferimento, soprattutto pedagogico, non solo per coloro che hanno “traghettato” la formazione degli educatori in questa transizione, ma anche per chi da poco è entrato in questo mondo, come la presidente del Corso di Laurea. La tradizione sembra essere guardata con rispetto: un patrimonio da valorizzare, da alimentare anche se non da conservare tout court; certo, comunque una realtà da considerare attentamente qualunque cambiamento di tipo didattico, pedagogico, istituzionale si voglia o si debba apportare.

1.2. TRA FONDAZIONE, UNIVERSITÀ E MONDO DEI SERVIZI

Se la Fondazione Don Gnocchi pare ricoprire una funzione di continuità temporale all’interno di quella discontinuità forte, che, nella formazione degli educatori professionali, l’Università ha portato, pare svolgere una funzione simile anche dal punto di vista contestuale, in quanto luogo in cui si effettua la maggior parte della didattica del Corso di Laurea, ma anche e soprattutto come luogo che si pone tra l’Università (nelle sue altre sedi) e il mondo dei servizi educativi e socio-sanitari che sarà poi il mondo del lavoro su cui si affacceranno gli studenti. Da questo punto di vista, forse, gli effetti del “traghettamento” dell’impresa all’Università sembrano essere più evidenti.

Caratteristica essenziale della formazione in Fondazione Don Gnocchi è stata, affermano i docenti più anziani, la connessione stretta con il mondo dei servizi educativi e socio-sanitari in quanto luoghi

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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non tanto di lavoro ma di tirocinio per gli allievi delle scuole. Si tratta di una caratteristica che alcuni docenti ritengono da valorizzare, soprattutto ora che il mondo dei servizi non è più l’unico luogo di riferimento per la formazione degli studenti, e che accanto ad esso si è posta l’Università, vista come luogo di per sé complesso, portatore di tradizioni formative e didattiche differenti. L’Università è infatti l’altro contesto in cui gli studenti si formano: vanno a fare lezione in “aula magna”, come dicono loro, o in ospedale, a fianco di altri studenti di Medicina. La triangolazione “nuova” tra Don Gnocchi, Mondo dei servizi, Università sembra dunque essere una dimensione cruciale, da tenere in grande considerazione, e in particolare pare emergere la necessità di osservare e lavorare sul tipo di esperienza formativa e didattica che si produce nell’attraversamento da parte degli studenti di questi luoghi, oltre che sull’interazione, sulla comunicazione che si dà all’interno e tra di essi. Come dire che non sembra sufficiente giustapporre i luoghi di formazione – elemento rilevato dai coordinatori e anche dai docenti – ma che occorre un coordinamento ulteriore, che apra ad un “progetto formativo più generale”, come afferma la presidentessa del Corso di Laurea.

Non solo. L’ingresso dell’Università in Fondazione sembra mettere in luce caratteristiche proprie della Fondazione stessa in quanto luogo di formazione degli educatori professionali.

La riorganizzazione del corpo docente, avvenuta nel passaggio all’Università, ha comportato non solo l’ingresso di docenti di area sanitaria afferenti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, ma anche l’affidamento delle docenze di area professionalizzante (Tirocinio, Guida al Tirocinio e Metodologie) a personale esterno (professionisti e consulenti in ambito educativo) e a personale interno alla Fondazione Don Gnocchi. Si tratta di un cambiamento certo di tipo organizzativo, che fa emergere come elementi degni di attenzione alcune dimensioni che incidono sulle pratiche e sui contenuti della formazione stessa. Si pone la questione di quali orizzonti culturali facciano da riferimento ai docenti nel loro lavoro di formazione: l’orizzonte universitario, pedagogico o sanitario per alcuni docenti di discipline teoriche, ma anche, per gli stessi, il proprio orizzonte di riferimento professionale (i servizi socio sanitari o per minori di qualcuno, ma anche i servizi ospedalieri per altri); l’orizzonte culturale della tradizione formativa delle Scuole Regionali per Educatori professionali, per qualche tutor e docente di Guida al Tirocinio; l’orizzonte culturale della Fondazione Don Gnocchi, i valori e modelli educativi ed esistenziali che essa veicola, per qualche altro tutor e docente di Guida al tirocinio; ancora, per altri, l’orizzonte culturale che anima alcuni servizi sociosanitari della Fondazione stessi. Orizzonti tutti presenti, anzi, compresenti; connessi certamente alle diverse appartenenze istituzionali.

Se si vedono di questo intreccio di orizzonti i possibili effetti positivi, tuttavia, nel percorso intensivo svolto con i tutor e docenti di Guida al Tirocinio, si pone anche la questione della possibilità o della necessità di una “formazione laica”, ovvero di una formazione che non veicoli acriticamente le proprie appartenenze istituzionali o culturali, ma che in qualche modo le sappia riconoscere e ricomporre all’interno di un modello formativo maggiormente condiviso nelle forme e nei contenuti e che abbia per oggetto la formazione della figura professionale. Esplicitare e governare l’intreccio di appartenenze culturali e istituzionali differenti attraverso momenti di confronto pare rappresentare una modalità per cominciare a delineare questo modello condiviso.

In particolare, sono gli studenti a mettere in luce la criticità dell’appartenenza non solo culturale ma anche professionale dei docenti ad un determinato contesto operativo: se la provenienza professionale di alcuni docenti garantisce, come rilevano soprattutto gli ex studenti, “concretezza” nel lavoro formativo, dando modo di comprendere più da vicino e attraverso la testimonianza del docente stesso cosa significhi lavorare con alcuni soggetti adottando determinati approcci, d’altronde questo stesso “essere dentro la propria esperienza” rischia di assolutizzarla o di enfatizzarne alcuni aspetti, e di limitare la formazione ad alcuni approcci e modelli, nonché ad alcuni ambiti, senza collocare tali approcci e ambiti in quadri di comprensione più ampi. Rischia anche di vincolare ulteriormente momenti e occasioni formative. Più specificamente, l’appartenenza alla Fondazione e la consuetudine quotidiana con essa, sono ritratte da alcuni tutor e docenti di Guida al Tirocinio educatori della Fondazione come un’”arma a doppio taglio”, che al tempo stesso dà molte risorse e regala al proprio lavoro una cornice solida, ma può anche limitare molto, “chiudere” in un mondo in fondo rassicurante, “materno”.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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La centratura sulla disabilità, esplicitata da molti docenti e dagli studenti, può rappresentare un esempio di quanto detto. A questo proposito, gli studenti riportano non solo come un’opportunità di conoscenza “di prima mano” il fatto di frequentare i loro corsi in un luogo che è anche sede di molti servizi per la disabilità, ma anche come un elemento di criticità, per cui il fatto stesso di “essere in Don Gnocchi” non consente di esplorare allo stesso modo altri contesti di lavoro possibile, può indurre a pensare che i servizi per la disabilità siano il naturale ambito di lavoro dell’educatore professionale, o che quello visto sia l’unico modo per lavorare da educatori con soggetti in situazione di disabilità. Sta di fatto che le esperienze e le competenze sviluppate in ambito disabilità sono più facilmente messe a disposizione in un contesto come quello della Fondazione. Si tratta di una criticità che, come sottolineano studenti e docenti, è tipica di ogni contesto “ibrido”, ovvero che sia contemporaneamente sede di corsi di formazione e sede di lavoro: il contesto stesso veicola rappresentazioni, informazioni, ma anche modelli relativi alla figura in formazione proprio perché luogo di lavoro di quella stessa figura professionale. E rischia di veicolarli come “unici”. La presenza dell’Università, percepita “un po’ lontana” da studenti e tutor/docenti, potrebbe avere la funzione di “fare da leva”, di “aprire”, di consentire di vedere altro, o di vedere l’esperienza del contesto Don Gnocchi da un altro punto di vista, e quindi di valorizzare quell’esperienza proprio collocandola in un orizzonte culturale differente, anche se da comporre.

1.3. GLI ELEMENTI DI DISCONTINUITÀ

Se la Fondazione Don Gnocchi, con la sua tradizione formativa, sembra rappresentare un nucleo di continuità, tuttavia, come si è visto, questo nucleo è obbligato a modificarsi. Oltre alle istanze di cambiamento già enunciate, gli intervistati, in particolare coordinatori e docenti, mettono in rilievo due cambiamenti importanti, che hanno in qualche modo costretto la formazione a porsi domande radicali, e quindi a cambiare pratiche e modalità, seppur in continuità con la propria tradizione.

Tali cambiamenti sembrano riguardare soprattutto i soggetti protagonisti del Corso di Laurea: i docenti, certo, che hanno volti e competenze nuove (in particolare i docenti di area sanitaria) e quindi orizzonti culturali differenti; ma soprattutto gli studenti.

“Chi” siano gli studenti, oggi, nelle rappresentazioni che di essi danno i docenti, e che essi danno di se stessi, sarà oggetto di un capitolo a sé. Ciò che qui preme sottolineare sono le condizioni istituzionali che paiono aver completamente mutato le caratteristiche dei soggetti in formazione.

L’ingresso dell’Università come Facoltà di Medicina e Chirurgia ristruttura in primo luogo le modalità di selezione degli studenti: da selezioni orientate alla figura professionale, si passa a selezioni standard per tutti gli iscritti ai corsi di laurea della Facoltà. Evidentemente, non si tratta di un cambiamento di impatto solo organizzativo: quello su cui va a incidere è la possibilità di rilevare la motivazione, oltre che la prefigurazione, che i futuri studenti hanno nei confronti del lavoro educativo e quindi del relativo percorso di formazione. I futuri studenti non sono tenuti a scegliere in prima battuta il Corso di Laurea in Educazione Professionale, ma, se scartati in altri corsi, possono accostarsi ad esso come seconda o terza scelta. Come se fosse un corso “come un altro”, attivato nell’ambito delle professioni sanitarie riabilitative, magari più “facile”, sottolineano docenti e coordinatori.

Accanto a questo, c’è il fatto che, dicono gli studenti e una tutor docente di Guida al Tirocinio, l’Università non informa, al momento dell’iscrizione, sul tipo di percorso formativo, intensivo e davvero impegnativo sia per le ore di frequenza obbligatoria sia per il lavoro di autoformazione richiesto agli studenti; quindi, al momento della scelta da parte dello studente, il Corso di Laurea potrebbe essere semplicemente visto come un’offerta di discipline culturali e specialistiche più o meno interessanti.

Tutto ciò, a fronte di un Corso di Laurea che, di fatto, assume una tradizione in cui la motivazione personale e il lavoro “su di sé” sembrano essere dimensioni essenziali e imprescindibili.

Questa situazione pare avere conseguenze importanti sulla didattica: obbliga a “fare un passo indietro”, ad “insegnare l’alfabeto”, a insegnare come “rappresentarsi l’educazione”, sottolineano docenti coordinatori del Corso di Laurea. Rompe davvero con una tradizione, che avrebbe previsto già in ingresso la presenza di allievi con determinate caratteristiche e magari con una certa esperienza o

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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comunque prefigurazione del lavoro educativo. Tutto ciò non sembra poter essere più “naturale”, ma occorre didatticamente pensare ed agire in modo che almeno alcune precondizioni si producano, nel corso della formazione. Occorre ripensare il “progetto formativo complessivo”; di fatto, l’impressione è che il lavoro dei docenti, e in particolare di chi si occupa di Guida al Tirocinio, sia un lavoro di costante orientamento e riorientamento personale nei confronti della Facoltà ma anche della costruzione della professionalità educativa dei singoli studenti.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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2. LA FORMA DEL CORSO DI LAUREA

2.1. LE RAPPRESENTAZIONI DELL’IMPRESA FORMATIVA

Le immagini attraverso cui viene evocata l’impresa formativa che si svolge nel Corso di Laurea presentano caratteristiche comuni, che esprimono significati e vissuti inerenti la stessa esperienza formativa.

All’interno del percorso realizzato con i tutor docenti di Guida al Tirocinio, l’impresa formativa è vista come un luogo che contiene oggetti (quadri o opere d’arte nel caso del museo, merci varie nel caso del supermercato di ultima generazione, attrezzi e materiali nel caso dell’atelier) e che dà la possibilità di fare esperienze (di scoperta, di acquisto, di creatività). Il docente, in questo caso, è chi facilita l’esperienza (la guida audiovisiva nel museo, l’animatore esperto nell’atelier, il commesso che orienta gli avventori nel supermercato), piuttosto che chi sta alla cassa e “tira le somme”, anche in maniera piuttosto distaccata. In ogni caso, l’impresa formativa è una costruzione culturale e artificiale, che ha un suo spazio e dei suoi tempi (si va di fretta al supermercato, si ha un ritmo più lento al museo o in atelier, apprezzando o annoiandosi a seconda della motivazione personale), in cui i soggetti (gli studenti) entrano con una loro finalità, più o meno consapevole, più o meno scelta o obbligata. È comunque un luogo che esiste indipendentemente dai soggetti, e rispetto a cui occorre “affezionare”, e quindi fare un lavoro di mediazione, per quanto possibile.

La fretta, il percorso spesso obbligato del supermercato ricordano l’immagine utilizzata dagli studenti per parlare della loro esperienza formativa: quella della maratona, che, se permette di svolgere un percorso in piccolo gruppo, con compagni solidali e affiatati e con docenti piuttosto vicini, tuttavia non fa sconti sulla durezza della marcia, sui ritmi forzati, sulle tappe o sugli obiettivi da raggiungere. Un’esperienza ricca dal punto di vista delle relazioni e delle esperienze, ma anche molto eterodiretta e totalizzante. L’impresa formativa sembra quindi avvolgere e coinvolgere, quasi senza lasciar spazio all’esercizio di iniziative personali. In questo senso, l’altra immagine che gli studenti e i tutor docenti di Guida al Tirocinio evocano è quella del “liceo”, dello “stare in classe” come se si fosse ancora alla scuola superiore. Dove si sentono sia la protezione che il sentimento di chiusura (“scatola chiusa” è un’espressione degli studenti), sia la predominanza della temporalità istituzionale; elementi che ricordano non solo la scolasticità del percorso, ma anche l’assenza di autonomia degli studenti, il loro essere ancora “solo” studenti.

In altri casi, l’impresa formativa è vista come un essere vivente e naturale (albero o girasole), che esprime “legame naturale” con la professione esercitata: è il caso delle immagini evocate da alcuni tutor docenti di Guida al Tirocinio che sono anche educatori nei servizi della Fondazione. La professione e il luogo in cui la si esercita sembrano essere qui linfa vitale per la formazione, e il tutor è in qualche modo colui che fa sì che questa stessa linfa si trasmetta agli studenti, con tutti i rischi del caso, perché il passaggio non è mai garantito.

Un’immagine, infine, sembra vedere la formazione in un modo piuttosto differente: l’impresa formativa è innanzitutto un viaggio che lo studente compie alla scoperta di se stesso. La formazione è consentita dall’azione del docente, che entra, come cerimoniere, all’interno di quel castello che è lo studente per accompagnarlo nel suo viaggio attraverso i rituali adeguati a “scoprire le sue stanze più buie”, i “sotterranei”. Il docente sa come e quando entrare e uscire da quel castello, senza rimanere invischiato, sa dove fermarsi e lasciare andare avanti lo studente. La formazione dunque non è un luogo, ma è qualcosa che si compie nello studente, e che richiede un sapiente uso di tecniche e pratiche di mediazione. Il mondo della professione qui non è aperto direttamente dal docente/tutor, ma è qualcosa cui accede lo studente, e che lo stesso docente conosce e ri-conosce attraverso l’esperienza che lo studente ne fa. La funzione del docente/tutor, in questo caso, sembrerebbe essere quella di consentire allo studente di appropriarsi, in termini formativi, dell’esperienza svolta sia all’interno del Corso di Laurea che nei contesti di Tirocinio.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Immagini diverse, dunque, che mostrano differenti modi di pensare la formazione e di pensarsi all’interno dell’impresa formativa. La formazione come qualcosa di già dato, in cui si può anche entrare per caso e passarci semplicemente di corsa; la formazione come qualcosa di cui usufruire, anche in maniera funzionale e tecnica; la formazione come qualcosa che ha a che fare radicalmente con la professione, suo obiettivo; la formazione come viaggio di scoperta interiore; infine, la formazione come percorso dato, faticoso, che però può diventare il proprio viaggio, oltre che la propria corsa o una corsa dovuta. Comprendendo, si intende, a quali condizioni.

Infine, le immagini di chi è stato studente e lavora da qualche anno nel mondo dei servizi socio educativi e sanitari: la formazione, a partire dall’esperienza del Corso di Laurea ma riferendosi anche alla formazione continua, è ciò che consente di leggere e manipolare quel “tetraflessagono” che è l’educazione, piuttosto che la luce del mattino (laddove la giornata è l’educazione stessa) che rischiara e “trasforma in oro” quello che si fa e che tuttavia in qualche modo va alimentata. La formazione, per chi è ormai nel mondo del lavoro, ha dunque lati prevalentemente positivi, fornisce strumenti essenziali ed è capace di alimentare, innescando un circolo virtuoso, la motivazione personale; in questo modo, assume anche dimensioni esistenziali.

2.2. L’ARTICOLAZIONE DISCIPLINARE: L’AREA DELLE DISCIPLINE TEORICHE E L’AREA

PROFESSIONALIZZANTE

2.2.1. UN CORSO DI LAUREA “IBRIDO”

Un termine utilizzato per descrivere il Corso è “ibrido”: il corso di laurea sembra essere tale in quanto caratterizzato dalla presenza di diverse professionalità ma soprattutto di diverse “anime”, che coesistono talora intrecciandosi, talora giustapponendosi.

Il Corso di laurea è ibrido per: la presenza di professionisti del mondo dell’educazione e del mondo sanitario, di docenti

universitari (“cattedratici”) che non è detto conoscano il mondo dei servizi e docenti che provengono da quest’ultimo;

la presenza di discipline che afferiscono ad un’area teorica e discipline che afferiscono ad un’area professionalizzante (Tirocinio, Guida al Tirocinio e Metodologie), dove i docenti che insegnano discipline teoriche possono essere comunque professionisti nei diversi ambiti (psicologico, sanitario, pedagogico, antropologico, sociologico e giuridico);

la presenza di discipline teoriche sia di impostazione “umanistica” che “scientifica”, in particolare “sanitaria” . Queste varie “anime” portano con sé ottiche e modelli formativi differenti: se tutti i docenti

sembrano molto attenti a chiedersi in che modo la disciplina da loro insegnata possa essere utile ai futuri educatori, d’altronde il loro stesso punto di vista e la loro appartenenza professionale pare indurli a valorizzare dimensioni, conoscenze e competenze specifiche, non immediatamente visibili a punti di vista altri. Se non sembra si corra il rischio di specialismi, d’altronde le visioni di ciò che può servire a formare una professionalità completa e capace paiono divergere, soprattutto per quanto riguarda il peso che discipline umanistiche, tra le quali la pedagogia, e discipline di matrice sanitaria possono/devono assumere nella formazione degli educatori professionali. Dal punto di vista sanitario, l’impadronirsi maggiormente di un background di “tipo bio” non toglie nulla alla specificità della professione educativa, anzi la mette nelle condizioni di “inquadrare i casi”, di comprendere e di saper dialogare più adeguatamente con i professionisti sanitari, e quindi di svolgere meglio il lavoro educativo. Dal punto di vista pedagogico, la possibilità di approfondire maggiormente le discipline pedagogiche è vista come rafforzamento delle specificità professionale.

Dal punto di vista di chi presiede il Corso, questo pone l’esigenza di ripensare ad un “progetto formativo complessivo”, in cui ogni disciplina trovi il suo peso specifico convergendo nella formazione di una professione così particolare.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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2.2.2. LA DIDATTICA

Nella didattica, e quindi nelle esperienze proposte agli studenti, le differenze, rese così palesi dai contenuti, paiono sfumare.

La cifra comune del Corso di Laurea, da questo punto di vista, sembra essere il mantenimento, con metodologie e obiettivi differenti, del circolo teoria/pratica: la teoria, in generale, non sembra, soprattutto nella percezione degli studenti già laureati, essere fine a se stessa, ma servire per comprendere, illuminare, leggere, rivedere, ripensare e quindi riprogettare l’esperienza pregressa o sperimentata in Tirocinio. La teoria è soprattutto descritta come “utile”, e il modo in cui viene proposta pare essere il criterio che affeziona gli studenti al corso di laurea, e che, nelle parole degli ex studenti, ha orientato la scelta universitaria. Quando questo circuito teoria/pratica funziona, produce particolari effetti di apprendimento, descritti dagli studenti come “momenti memorabili”. Si tratta di momenti che “mettono alla prova”, sollecitando l’attivazione di una propria autonomia di pensiero o progettuale, della propria capacità di render conto, di sostenere colloqui di bilancio/valutazione in cui poter giocare a pieno titolo la propria parte. In essi teoria e pratica diventano esperienza di consapevolezza personale, di ricerca, di valutazione formativa; un’esperienza che sporge sulla professionalizzazione, che fa capire che si “sta diventando professionisti”, non si è più “solo studenti”.

Tutto ciò trova corrispondenza negli approcci adottati: tutti i docenti intervistati privilegiano una didattica attiva, adattata al livello di conoscenze e di prerequisiti posseduti dagli studenti. I gruppi classe poco numerosi – quando non subiscono accorpamenti – consentono di utilizzare strumenti interattivi, sollecitando la curiosità degli studenti ma soprattutto insistendo sull’esperienza professionale o di Tirocinio. Esercitazioni, esempi, lavori a coppie o in piccoli gruppi affiancano le lezioni frontali, comunque ritenute necessarie (anche se, come nota qualche docente, non sempre apprezzate dagli studenti); uno scopo comune sembra essere quello non solo di fornire contenuti, ma di promuovere la riflessione. In questo senso, in particolare i docenti di area sanitaria e del primo anno lamentano la parzialità della loro valutazione: ciò che possono valutare è semplicemente l’apprendimento di conoscenze, non le modalità della loro elaborazione/applicazione nel lavoro educativo, semplicemente perché “non vedono gli studenti”. Di qui la soddisfazione quando, in momenti e situazioni diverse dall’esame, gli studenti restituiscono loro l’utilità della loro disciplina.

La prefigurazione dei contesti in cui gli studenti potranno andare a lavorare e dell’utenza che incontreranno sembra orientare soprattutto i contenuti trattati all’interno delle discipline sanitarie: i docenti sottolineano che esse “non vengono piegate”, ma che vengono esplorati aspetti differenti in base al profilo professionale del Corso di laurea; in questo senso, può essere più complesso strutturare gli insegnamenti per studenti afferenti da corsi di laurea diversi, ma anche interessante, proprio per l’emersione di approcci diversi alle discipline da parte degli studenti stessi.

2.2.3. NUCLEI DI ATTENZIONE PEDAGOGICA: LA SCANSIONE TEMPORALE E L’ESIGENZA DI

INTEGRAZIONE DELLE AREE DISCIPLINARI

In tutto ciò, vengono rilevati elementi strutturali che, delineando la “forma” del Corso di Laurea, ne mostrano le criticità, i nuclei degni di attenzione pedagogica.

In particolare, il riferimento è alla collocazione delle diverse discipline, soprattutto teoriche, nell’arco dei tre anni del Corso di laurea e al monte ore loro attribuito: si tratta di condizioni che, secondo docenti e studenti, producono effetti particolari e rilevanti sulla didattica. A questo proposito, gli studenti esprimono due posizioni: da un lato, hanno la percezione che gli insegnamenti teorici si integrino con la parte professionalizzante proprio perché “girano intorno” ad essa, che si pone quindi come nucleo centrale del Corso di laurea; dall’altro riconoscono in questa stessa percezione l’effetto di una disposizione temporale e di un’attribuzione di tempi diversi alle diverse aree, che determina la “marginalità” di alcuni corsi teorici, e quindi il rischio di “sottovalutazione”, di “non comprensione della loro utilità”. Esplicitano inoltre un vissuto di frammentazione degli insegnamenti e di scollamento con la parte pratica non tanto durante il primo anno, quando i corsi “riprendevano determinate cose sotto diversi punti di vista”, ma negli altri due, dove l’integrazione tra loro e con la

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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pratica si “perde” e sembra essere lasciata alla loro iniziativa e all’esperienza di apprendimento personale. Agli occhi dei docenti, in particolare di area medica, invece, sembra che la presenza del loro insegnamento durante il primo anno non sia condizione facilitante il loro lavoro didattico, dal momento che gli studenti stessi sono ancora impegnati a capire chi sia e cosa faccia l’educatore.

Cruciale, quindi, sembra essere il “luogo”, materiale e simbolico, del coordinamento didattico. Gli studenti disegnano una visione di un Corso di laurea ideale in cui gli insegnamenti di area teorica (quando non siano il semplice “seguire il testo”) siano integrati agli altri e possano davvero essere di “aiuto e stimolo alla riflessione”. Tutti i docenti guardano al coordinamento didattico dell’intero Corso di laurea come una possibile risorsa per la didattica, allo stato attuale da istituire e implementare.

2.3. LE PRATICHE DIDATTICHE NELL’AREA PROFESSIONALIZZANTE

L’area professionalizzante, composta dal Tirocinio e dalle docenze di Guida al Tirocinio e Metodologie educative, dunque, sembra essere riconosciuta da tutti i docenti e dagli studenti come l’area che caratterizza il Corso di laurea. È di fatto l’area che vede impegnati per maggior tempo gli studenti; è un’area su cui si investe molto, in termini formativi ma anche economici, come fa intuire la possibilità di istituire gruppi poco numerosi di studenti guidati da tutor docenti di Guida al Tirocinio che spesso sono professionisti che hanno grande esperienza e contatto diretto con il mondo dei servizi. È l’area in cui si ricompongono “sapere teorico, sapere pratico, sapere tecnico e sapere relazionale”; che inserisce gli studenti in esperienze formative mirate e ne promuove la rielaborazione costante; che “usa” la teoria a partire da domande che nascono dalla pratica.

Il tirocinio sembra essere un’esperienza di riferimento anche per i docenti di area disciplinare teorica: pur non sapendo direttamente cosa gli studenti facciano in tirocinio, quest’ultimo sembra essere visto come esperienza da cui trarre elementi e materiali per fare lezione, e comunque come esperienza in cui gli studenti si mettono e vengono messi alla prova: un’esperienza di cui si rileva non solo la significatività, ma anche il gradimento. Ciò è confermato dagli ex studenti, secondo cui il tirocinio consente di sperimentarsi in situazione, ma non solo: è il luogo in cui poter comprendere quali effetti ha su di sé la formazione teorica, concretizzandola in sperimentazioni pratiche. Il tirocinio funziona come uno “specchio”, che riflette quanto si è appreso e interiorizzato; uno specchio che “mette in discussione” molto: le proprie abitudini educative, le proprie idee ingenue, gli stessi apprendimenti, e pertanto rappresenta un momento delicato, di “scombussolamento interiore”; proprio per questo è anche il luogo in cui si “costruisce pian piano una forma di identità professionale”. Questo è palpabile anche e soprattutto quando si frequenti il corso lavorando già: allora il lavoro di destrutturazione e ristrutturazione della propria identità professionale è particolarmente impegnativo e “scombussolante”. In ogni caso, il tirocinio sembra essere un “allenamento al ruolo”, che procede con l’indurre la consapevolezza dell’avere e del giocare un ruolo educativo.

Il tirocinio tuttavia non ha senso in sé, ma accanto alla rielaborazione dell’esperienza che consente di attraversare, quindi insieme alla docenza di Guida al Tirocinio da un lato, e alla docenza di Metodologie educative dall’altro. Rispetto a questo insegnamento, il tirocinio, come sottolineano i tutor e docenti di Guida al Tirocinio, “va di pari passo”, esplorando nei tre anni tre nuclei differenti del lavoro educativo: osservazione, relazione e progetto. Tale correlazione sembra avere importanti effetti formativi: per gli ex studenti, ciò che segna, dell’esperienza del Corso di Laurea, è soprattutto “la comunicazione tra tirocinio, quindi esperienza, e il saper essere, quindi l’elaborazione attraverso le supervisioni al tirocinio”. Sembra essere la dimensione rielaborativa, infatti, a “fare la differenza”, affermano gli studenti.

Pur essendo, quella del tirocinio e in generale dell’area professionalizzante, un’esperienza “molto consolidata”, tuttavia, secondo il coordinatore della stessa area, necessita anch’essa di una riflessione e di una “formalizzazione”, per comprenderne gli effetti formativi in connessione alle altre esperienze svolte nel Corso di laurea.

2.3.1. PRATICHE DIDATTICHE IN GUIDA AL TIROCINIO

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Per comprendere come funzioni, didatticamente, l’area professionalizzante, ci si sofferma in particolare sulla docenza di Guida al Tirocinio, la cui connessione con tirocinio e Metodologie educative è evidente nel momento della valutazione del percorso professionalizzante: sia la relazione di tirocinio che l’esame sono trasversali ai tre insegnamenti e l’esame, pur se articolato in diverse parti, è unico. Gettar luce, quindi, su Guida al Tirocinio pare consentire di comprendere come lavori, da un punto di vista formativo, tutta l’area.

Innanzitutto, sembra che all’interno di Guida al Tirocinio “si ricompongano i saperi” e che comincino in qualche modo a delinearsi, a essere sperimentante e quindi a formarsi competenze professionali specifiche. Da parte di tutti, quella di Guida al Tirocinio viene dipinta come una docenza che si distingue proprio perché didatticamente differente dalle altre, perché propone “un’altra tipologia di studio” e perché non si gioca solo nel contesto formativo, ma fa riferimento, anche in sede di valutazione, al contesto dei servizi, quindi si apre ad un terzo interlocutore, rispetto a cui gli studenti sono tenuti a “render conto”, come sottolineano anche gli studenti.

La differenza di Guida al Tirocinio è palese innanzitutto nella predisposizione del contesto di formazione: docenti e studenti non parlano di classe o di aula, ma di “gruppo di formazione”, composti da pochi studenti e seguiti, appunto, da un docente di Guida al Tirocinio, che cambia ogni anno, per consentire agli studenti di sperimentare diversi stili di conduzione cui possono corrispondere diversi stili educativi e formativi.

Il gruppo è il luogo elettivo del lavoro formativo, e per costituirsi necessita dell’istituzione di uno spazio e di un tempo “altro”, che, nella “maratona” del Corso di laurea, gli studenti del terzo anno definiscono “di sosta”. All’interno dell’aula si predispone un’altra scena: la cattedra sparisce, le sedie sono in cerchio, nessun banco divide le persone. Il tutor/docente sta nel cerchio. Gli oggetti utilizzati sono quelli che servono per prendere appunti, ma soprattutto si utilizza se stessi: si ascolta, si narra, si pensa, si discute. Il tempo del gruppo non ha interruzioni, se non quelle rituali introdotte dal docente; il discorso prende così un ritmo comune. In questo modo, il gruppo si discosta dall’esperienza d’aula realizzata sempre all’interno del Corso, e si pone in analogia con un altro gruppo, quello che gli studenti incontrano nei contesti di lavoro: l’équipe educativa.

Al centro del gruppo, simbolicamente, stanno le esperienze che gli studenti svolgono nei luoghi di tirocinio. L’oggetto di lavoro comune è dunque l’esperienza narrata, prende forma nelle parole degli studenti: raccontate, ma anche scritte nei diari che utilizzano quotidianamente. Ma oggetto di attenzione è, per i docenti/tutor, anche la stessa esperienza dello stare in gruppo, oltre che l’esperienza di apprendimento complessiva nel corso di laurea: il gruppo di formazione è il luogo in cui trasporre quanto ascoltato, studiato, imparato altrove, saldandolo con l’esperienza che, proprio nel gruppo, si sta compiendo. I tre luoghi (Corso, Tirocinio, Gruppo di formazione) sembrano essere sempre presenti.

Non è facile imparare a stare nel gruppo di formazione, comprendere cosa i docenti chiedono e come comportarsi: i docenti sottolineano l’importanza di introdurre gradualmente gli studenti a questa esperienza, lavorando dapprima a aula intera su argomenti più generali inerenti per esempio il ruolo dell’educatore e quindi modificando, a volte insieme agli studenti stessi, la predisposizione di sedie e oggetti, esplicitando e sperimentando insieme le nuove regole di partecipazione, “decostruendo la loro idea di formazione”, quella interiorizzata nel percorso scolastico e che l’assetto del Corso di laurea, nel suo insieme, sembra comunque confermare. Occorre dunque pensare ai tempi, ritmare diversamente e strategicamente l’esperienza formativa proposta, perché gli studenti si trovino nelle condizioni di comprendere cosa significhi “partecipare” al gruppo di formazione, e soprattutto riflettere sulla loro esperienza di tirocinio e di formazione in generale. Se questo accade, poi il gruppo si “autoregola”: impara un metodo di lavoro, oltre che uno stile di partecipazione.

Come anticipato, l’oggetto principale di lavoro è l’esperienza stessa di formazione, in particolare di tirocinio; o meglio, sono le narrazioni dell’esperienza, rispetto a cui non interessa tanto il valore di verità, quanto ciò che rappresentano: fatti accaduti, su cui imparare a riflettere pedagogicamente. Non si tratta infatti di raccontarsi o di raccontare qualsiasi cosa, ma di raccontare un fatto educativo “tutto intero”, nella sua complessità; e non si tratta di conoscere tutto quello che si può, ma di comprendere,

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nel racconto, gli aspetti pedagogicamente rilevanti. Si tratta di chiedersi il senso di ciò che è successo altrove, di interrogarsi sulle proprie o altrui reazioni, di comprenderle o di individuare altre reazioni/strategie possibili, di andare oltre il vissuto emotivo e di “ridimensionare l’enfasi sulla dimensione relazionale” per comprendere cosa produca quei vissuti e quelle relazioni. Il gruppo è quindi luogo di analisi, di comprensione, di ricerca, di riflessione in cui non ci si esercita semplicemente a nominare emozioni e pensieri, o a distaccarsi dall’esperienza per rivederla attraverso elementi teorici, ma lo si fa in maniera pedagogicamente orientata, con l’obiettivo di comprendere il senso educativo, e quindi di esercitare, quasi già come competenza, un particolare sguardo sull’accaduto che consenta poi di ri-fare, di ripensare al fare, di progettare azioni e situazioni differenti. In questo senso, pare, i tutor/docenti associano il lavoro che si fa nei gruppi di tirocinio all’esercizio di un’istanza utopica o al “sogno”: dove sogno e utopia paiono indicare un distacco dalla mera operatività, da quelle preoccupazioni che spesso, nel mondo dei servizi e nel lavoro d’équipe, restano su un livello operativo ed organizzativo, ma non schiudono occasioni di riflessione e soprattutto di riprogettazione.

Il lavoro del gruppo di formazione in Guida al tirocinio è dunque assimilato ad un lavoro di “ricerca-azione”, ad un lavoro di “secondo livello”; i contenuti a cui si áncora sono correlati a quelli di Metodologie educative (osservazione, relazione, progetto); l’obiettivo generale è quello di formare “non la persona, ma te che vuoi diventare educatore”, scoprendo “attitudini personali” a partire da cui costruire competenze professionali e uno stile educativo.

Dal punto di vista metodologico, questo richiede ai tutor docenti di Guida al Tirocinio non solo di attenersi alle regole utili per istituire questo particolare contesto di gruppo e di elaborazione, adattandole alle caratteristiche degli studenti, ma anche di elaborare e condividere tra colleghi strategie adeguate per trattare i contenuti in modo da far vivere agli studenti un’esperienza formativa a tutti gli effetti, in cui possano sentirsi accolti tanto da potersi scoprire, da poter giocare la loro parte all’interno del gruppo, assumendosi la “responsabilità” delle loro posizioni, dei loro pensieri e dei loro sentimenti, e in cui, al contempo, poter essere “messi alla prova”. Si tratta di individuare strategie adeguate a costruire un contesto protetto ma non “protettivo” ad ogni costo, o “affettivone”, come dicono gli stessi tutor: un contesto in cui gli studenti possano ri-vedersi, ri-flettersi (come in uno “specchio”, affermano gli studenti laureati), riconoscere le loro caratteristiche, e quindi occuparsene. L’impressione è che gli studenti debbano, in questo contesto, essere messi in movimento: distolti da idee ingenue e precomprensioni non per rinnegarle, ma per rendersene conto, per diventare “consapevoli” e poter quindi elaborare altre idee, altri approcci in merito a ciò che è esperienza educativa. Il lavoro di “decostruzione e costruzione” dell’esperienza e delle costruzioni emotive e concettuali che essa porta con sé, di cui i docenti parlano, sembrerebbe alludere proprio a questo.

Si tratta di un lavoro paziente, continuo nei tre anni di Corso di laurea, che utilizza tutto quello che gli studenti “portano” quasi gettando delle “esche” e aspettando che gli studenti rispondano: quasi a indicare che comunque gli studenti devono “essere agganciati” rispetto a discorsi e esperienze che in loro risuonano, e che, una volta coinvolti, occorre continuare a tenere alto il livello di interesse e di coinvolgimento. Si tratta di un lavoro che in qualche modo non finisce mai: o meglio, finisce dal punto di vista del termine istituzionale della formazione (il terzo anno e l’esame di abilitazione finale), ma può non finire dal punto di vista degli effetti che provoca negli studenti, che da soli, a partire dall’esperienza svolta prima di tutto nel gruppo di formazione, si troveranno a ricostruire una loro modalità non solo di pensare l’educazione, ma anche di “diventare educatori”. Ad allenarsi a ciò paiono servire le sollecitazioni del lavoro di gruppo a “mettersi nei panni degli altri”, che hanno il sapore di vere e proprie esperienze di immedesimazione. Sembra essere attraverso esperienze come queste che gli studenti hanno modo di sperimentare un metodo di lavoro, di riflessione, di analisi, di ricerca, e quindi di interiorizzarlo, tagliandolo poi, col tempo, a misura loro.

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2.3.2. NUCLEI DI ATTENZIONE PEDAGOGICA: LA FIGURA DEL TUTOR/DOCENTE DI GUIDA AL

TIROCINIO E LA QUESTIONE DELLA VALUTAZIONE NELL’AREA PROFESSIONALIZZANTE

Si individuano, nei discorsi che hanno costellato il percorso con i tutor, dei nuclei di particolare attenzione pedagogica, tra loro connessi.

Innanzitutto, la definizione del loro lavoro, della loro figura, che già in sé appare doppia: sono docenti di Guida al Tirocinio, ma ricoprono anche la funzione di tutor degli studenti nell’intero arco del percorso formativo. Come docenti hanno contenuti e obiettivi da perseguire e da valutare, come tutor hanno funzioni di “accompagnamento”, di monitoraggio del lavoro compiuto nei tre anni dagli studenti. Come docenti, lavorano in aula e in gruppo, come tutor hanno la possibilità di fare colloqui individuali. L’impressione è che davvero nella loro stessa figura si intreccino funzioni di “accoglienza” e di “messa alla prova”, e che si affaccino accanto ad obiettivi di tipo didattico obiettivi differenti, che sporgono sulle dimensioni esistenziali, inerenti il percorso di vita (non solo professionale) degli studenti stessi. Si tratta forse di una copresenza strutturale; i tutor e docenti di Guida al Tirocinio sembrano esserne consapevoli. Tuttavia paiono porre la questione di come e attraverso quali risorse e strumenti mantenere in equilibrio (o in oscillazione) queste “anime” del loro stesso lavoro, sapendo, in particolare, che la possibilità di vedere nello studente non tanto “colui che diventerà educatore” ma un “utente” di cui aver cura si affaccia sempre come “rischio”, soprattutto quando gli studenti approdano alla formazione da percorsi esistenziali accidentati o particolarmente poveri, e quando oltre che l’incarico di tutor nel Corso di Laurea il docente di Guida al Tirocinio eserciti in prima persona la professione educativa.

Rischio analogo, presente nei discorsi dei tutor docenti di Guida al Tirocinio, si palesa rispetto al gruppo: anche il gruppo può essere sbilanciato rispetto all’accoglienza o alla messa alla prova, e allora non funzionare più come luogo di apprendimento, individuale e di gruppo, ma, dicono i tutor, come “gruppo di auto aiuto”. Inoltre, anche il tutor docente di Tirocinio può essere messo alla prova dal gruppo, soprattutto nei momenti di passaggio, di apprendimento di un altro tipo di didattica e di un altro modo di stare in gruppo e partecipare al lavoro formativo: quando gli studenti non capiscono cosa il tutor stia loro chiedendo di fare, perché li solleciti a parlare e ad esporsi, e soprattutto come fare, rilanciandogli la parte del docente, e riprendendosi la parte degli studenti “di liceo”, quella che conoscono meglio.

Tutto ciò, pare attribuire al lavoro del tutor docente di Guida al Tirocinio un compito certamente complesso, ma soprattutto evidenziare un ruolo da sostenere, da supportare. Se il tutor, come afferma, ha soprattutto un compito di mediazione tra funzioni (anche proprie) differenti, tra l’esperienza personale e l’esperienza di formazione che gli studenti stanno compiendo, tra i singoli e il gruppo, tra le pressioni operative e le istanze riflessive che si danno nel momento in cui si comincia anche solo a raccontare l’accaduto formativo, allora il ruolo stesso del tutor docente di Guida al Tirocinio, la “parte” che gioca in quel “gioco a scala quaranta” che è il gruppo di formazione, la sua funzione richiedono non solo preparazione (qualcuno ricorda o chiede un corso per diventare tutor di Tirocinio) ma anche confronto costante con i colleghi che svolgono lo stesso lavoro e che si occupano degli stessi o di gruppi simili.

Non solo. Dai discorsi dei tutor emerge il fatto che si tratta di un ruolo e di una funzione che chiedono “mediazione” rispetto all’esperienza professionale in cui i tutor comunque sono impegnati: una mediazione che segni un distacco, funzionale a poter utilizzare la propria esperienza in sede formativa, valorizzandola. Il rischio che si profila, soprattutto quando il tutor docente di Guida al Tirocinio svolga un lavoro educativo nella stessa Fondazione, è infatti quello di non separare la propria esperienza di educatori dalla propria esperienza come formatori di educatori: esperienza che, per quanto detto, sembrerebbe richiedere un diverso posizionamento, un diverso sguardo, un diverso approccio, un diverso oggetto di attenzione (non più l’educazione, ma la formazione di chi dovrà istituire percorsi educativi).

In tutto, pare che il lavoro dei tutor/docenti di Guida al Tirocinio mettano a fuoco, a proposito del proprio ruolo, questioni pedagogicamente essenziali, che hanno a che fare con la presenza, nella

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medesima figura, di funzioni diverse (didattiche, formative, educative, di cura se non “quasi-terapeutiche”): rispetto a cui i docenti mostrano consapevolezza ma chiedono anche di poterne comprendere meglio le dinamiche e definirne i confini, le interazioni. Tutto ciò, inoltre, pare riverberarsi sull’identità di questo “singolare docente”: un’identità complessa, che implica vissuti particolari ma anche equilibri da costruire con le altre figure docenti, oltre che con la proposta complessiva del Corso di laurea.

La complessità e la delicatezza della figura e delle funzioni del tutor docente di Guida al Tirocinio emergono poi con particolare enfasi a proposito di un’altra questione oggi al centro del dibattito pedgogico: quella della valutazione, nel caso specifico della valutazione nelle discipline di area professionalizzante (Tirocinio, Guida al Tirocinio e Metodologie educative). Guida al Tirocinio e Tirocinio, come esami, hanno un notevole numero di crediti; non superare l’esame significa rifare l’anno di tirocinio e “bloccare” il percorso formativo dello studente. Questo conferisce all’esame, ma anche ai tutor, un certo “potere” e una certa “responsabilità”, difficili da amministrare soprattutto per la consapevolezza che ciò che si va a valutare non è tanto l’acquisizione di contenuti ma soprattutto l’interiorizzazione di competenze professionali, che implicano spesso un lavoro sulla “persona” che lo studente è. Viene messo in evidenza il peso che la valutazione ha proprio nella relazione con gli studenti: non si tratta semplicemente di un voto, ma di un rimando su un percorso che, per essere formativo, deve aver anche coinvolto dimensioni e attitudini personali. Una valutazione che, secondo alcuni, ha ricadute esistenziali. Il tutor docente di Guida al Tirocinio, in questo senso, non “si limita a fare da spettatore, ma rimette nei binari formativi”.

Di qui l’esigenza, da parte dei tutor, di scrivere documenti che regolamentino le modalità e fissino obiettivi e criteri di valutazione, in modo da renderli chiari a sé e agli studenti, oltre che la necessità di ancorarsi a oggetti ben precisi da valutare (la relazione di tirocinio, per esempio) e a momenti di monitoraggio e a pratiche di confronto con i referenti dei servizi che aiutino studenti e tutor a mantenere consapevolezza dei percorsi intrapresi e delle loro peculiarità; ancora, si riprende l’importanza di coniugare, in tali oggetti e momenti, i contenuti teorici appresi con l’esperienza formativa, chiedendo agli studenti di esplicitarne l’intreccio. Se la predisposizione di tali strumenti non elude la complessità del compito e non diminuisce la pluralità dei significati attributi alla valutazione da studenti e docenti di Guida al Tirocinio, tuttavia sembra indicare una strada condivisa per governare questo processo in modo tale da non perdere il suo valore formativo e da definire all’interno di esso in maniera più chiara soprattutto la posizione del tutor, ma anche quella dello studente. Si tratta di un valore e di una chiarezza che i discorsi degli studenti restituiscono, nel momento in cui fanno coincidere i momenti di apprendimento per loro più significativi proprio con i momenti di valutazione in area professionalizzante.

Tuttavia, emerge nei discorsi dei tutor docenti di Guida al Tirocinio l’importanza di presidiare pedagogicamente, attraverso la possibilità di confronto non solo tra docenti della stessa area, il processo di valutazione, pena un vissuto di solitudine piuttosto schiacciante e paralizzante dal punto di vista formativo. Vissuto che fa capolino, nonostante i tutor ribadiscano più volte di essere i “raccoglitori” di un’esperienza su cui si pronunciano non solo loro, ma anche gli stessi gruppi di tirocinio e i referenti dei servizi.

2.4. QUALE “FORMA” ASSUME IL CORSO DI LAUREA?

Quale forma assume, da un punto di vista pedagogico, il Corso di laurea? Al di là delle criticità che si riscontrano rispetto all’integrazione delle sue diverse anime e parti, il

Corso, nel suo insieme, sembra produrre effetti formativi importanti e coerenti con gli obiettivi professionalizzanti che si prefigge: formare figure che sappiano “leggere” l’esperienza educativa nella sua complessità, interrogarsi su di essa e sul suo significato, saperla “progettare” e avere gli strumenti, anche teorici e critici, per capire come agire secondo una logica pedagogica. Questo è quanto riportano gli studenti e gli ex studenti del Corso di laurea: il che non significa che essi si riconoscano competenze apprese “una volta per tutte”, ma che il Corso ha consentito loro di cominciare e quindi continuare a costruire competenze che potremmo chiamare “trasversali”.

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Per quanto persista l’idea di un Corso rispetto a cui curare intrecci e connessioni tra aree disciplinari, tuttavia sembra essere condivisa l’idea di un percorso che ruoti, per qualche docente in maniera più casuale (a “flash”), per qualcun altro in maniera più organizzata, intorno ad una “cosa forte” come quella del tirocinio e delle discipline ad esso connesse.

Tentando una ricostruzione generale, possono essere evidenziate le dimensioni su cui la formazione insiste, gli oggetti su cui lavora, gli obiettivi che persegue, le condizioni contestuali a partire da qui si delinea l’esperienza formativa, gli effetti – in termini di apprendimento – che produce e i limiti che le vengono riconosciuti.

In primo luogo, sembra che le dimensioni che contraddistinguono la formazione del Corso di laurea siano: La dimensione esperienziale e pratica: l’esperienza è certamente quella che il tirocinio consente di

sperimentare, ma è anche quella che si fa nelle altre “materie”, soprattutto in quelle metodologiche, che di fatto “mettono in gioco”. È esperienza non solo del mondo là fuori, rispetto a cui gli studenti vedono i limiti, ma anche e soprattutto di sé in situazioni educative e formative;

La dimensione rielaborativa rispetto alle esperienze vissute: dimensione legata alla possibilità di espressione personale, che esita in possibilità di riflessione critica, di lettura delle situazioni ma anche di sé in situazione di apprendimento e di tirocinio, di ricerca che attiva percorsi e spunti teorici. Rientra in quel “lavoro su di sé”, sulle proprie caratteristiche, idee, emozioni personali che sembrano costituire il terreno per costruire poi una propria dimensione professionale vissuta:

La dimensione “strumentale”: la formazione dà gli strumenti per poter “stare consapevolmente nei contesti” (studenti); si tratta di strumenti che riguardano un “saper fare e saper essere” (come sottolineano gli educatori già laureati) non specificati, che tendono a sovrapporsi se non a identificarsi con le competenze di lettura critica di sé e delle situazioni. Secondo gli studenti, ma anche secondo i docenti, gli oggetti su cui la formazione lavora

prevalentemente sono: il mondo dei servizi, nei cui confronti si promuove un “contatto precoce”, come dicono gli ex

studenti. Si tratta di un’azione di orientamento che, secondo gli studenti presenta dei limiti nel momento in cui non si spinge a mostrare luoghi e modalità di lavoro “innovative o “sperimentali”;

gli studenti stessi in quanto futuri educatori: oggetto di attenzione, di un costante lavoro di decostruzione e di ricostruzione sono le idee sull’educazione, le esperienze educative (“naturali”) pregresse, le emozioni provate in alcune situazioni, il rapporto con le proprie emozioni;

la relazione educativa, in quanto dimensione più coinvolgente dell’educazione, e spesso oggetto di un’enfasi eccessiva, anche da parte dei servizi, come sottolineano i tutor docenti di Guida al Tirocinio;

la narrazione delle esperienze che gli studenti svolgono nei contesti di tirocinio; l’esperienza che gli studenti vivono in aula o nei gruppi di formazione.

Gli obiettivi che nella formazione si perseguono sono: promuovere la “consapevolezza”, il “dar senso a ciò che si fa”, come affermano studenti e docenti; fornire un linguaggio educativo di base, insieme agli strumenti teorici e metodologici essenziali per

poter “stare consapevolmente nei servizi”, secondo i docenti di area professionalizzante e teorico pedagogica;

fornire conoscenze che consentano di dialogare con altri professionisti, in particolare di area sanitaria, secondo i docenti di area sanitaria;

sviluppare un cambiamento negli studenti, che implica una “messa in discussione di principi e idee personali” “acquisite attraverso la propria esperienza”, secondo gli studenti. Secondo gli ex studenti formare professionisti attraverso la promozione di una “crescita personale”. Tutto ciò avviene in un contesto istituzionale le cui caratteristiche possono essere viste anche come

le condizioni di possibilità di una simile esperienza formativa: un’articolazione di spazi differenti: gli studenti si trovano ad attraversare e a vivere lo spazio

protetto della classe e del gruppo di formazione, in cui sperimentano un confronto costante con compagni e docenti; il contesto della Fondazione Don Gnocchi, e quindi la dimensione lavorativa e

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culturale che lo contraddistingue; l’aula universitaria in cui insieme ad altri studenti di altri corsi di laurea fruiscono di lezioni anche di tipo frontale; il servizio in cui svolgono il tirocinio, frequentato in solitudine;

una scansione dei tempi di frequenza al Corso piuttosto serrata e “imposta”, “calata dall’alto”: gli studenti in particolare sottolineano la dimensione dell’eterodeterminazione del tempo, che costringe a rincorrere esperienze e lezioni e che lascia poco spazio alla ricerca e all’approfondimento personale; all’interno di questo ritmo serrato il tempo di Guida al Tirocinio apre una sorta di “bolla di riflessione”, un tempo di sosta che però sembra consentire solo parzialmente di ricomporre tutte le esperienze vissute nel corso con la propria esperienza personale. Da tutto ciò deriva l’impressione di una certa “totalizzazione” dell’esperienza: si è sempre in formazione, affermano gli studenti;

la presenza di docenti di provenienza differente; in particolare, di docenti anche professionisti dell’educazione o comunque professionisti. Gli effetti che tutto ciò produce sugli studenti sono effetti di apprendimento. La lettura di studenti

ed ex studenti propone sfumature diverse: L’apprendimento è visto dagli ex studenti come una modificazione personale, che ha i suoi effetti

più evidenti nell’acquisizione di un approccio nei confronti dell’esperienza “adeguato alla realtà educativa e in divenire”. In questo caso, sembrano essere messi in primo piano competenze operative e pragmatiche;

L’apprendimento è visto dagli studenti come un cambiamento personale, una ristrutturazione rispetto alle proprie idee ingenue di educazione e di educatore, che apre all’acquisizione di un approccio critico e riflessivo rispetto alla realtà educativa. Qui, l’attenzione sembra essere posta sulla propria “trasformazione personale”, che esita nell’acquisizione di competenze di tipo riflessivo e critico-pedagogico. Alla formazione svolta proposta dal Corso di laurea vengono riconosciuti anche dei limiti. Limiti

non “assoluti”, ma che si danno come “altra faccia della medaglia” di un assetto che complessivamente sembra offrire opportunità interessanti, soprattutto per quanto riguarda i contatti con il mondo del lavoro educativo. Gli unici a non rilevare limiti sembrano essere gli ex studenti, ormai educatori e educatrici affermati, e pare interessante notare come alcune condizioni “anche” limitanti per gli studenti paiono essere vissute come condizioni da rievocare con nostalgia, quelle che potevano permettere quello scambio e quel lavoro di lettura e approccio critico che adesso il lavoro nei servizi non consente più. Sinteticamente, i limiti sembrano riguardare soprattutto la struttura istituzionale e organizzativa del Corso di laurea, che, come si è visto, ha interessanti ricadute pedagogiche sull’esperienza formativa possibile. Si tratta di : limiti temporali: i tempi che il Corso di laurea impone hanno la caratteristica di essere “serrati” e

totalizzanti (“tutti i giorni tutto il giorno e anche il sabato”, sottolineano alcuni tutor/docenti e gli studenti). Secondo gli studenti anche la durata del Corso, se da un lato è condizione di “chiusura” ed è salutata con ansia ma anche con curiosità e trepidazione, è limitata: il lavoro di ricerca e approfondimento sembra non potersi esaurire con la fine del Corso. Condizione, questa, dalle ricadute anche positive, proprio rispetto all’interiorizzazione di un “modo di essere educatori”, come sottolineano alcuni tutor e docenti;

Limiti inerenti la collocazione del Corso in Fondazione Don Gnocchi: a partire dalle grandi opportunità che il fatto stesso di essere all’interno di un centro di servizi riabilitativi e educativi offre, tutor docenti di Guida al Tirocinio e studenti mettono in luce alcuni rischi che questa stessa condizione fa correre alla formazione promossa. Si tratta di rischi che hanno a che fare, generalmente, con l’effetto di ridondanza di alcuni ambiti del lavoro educativo (la disabilità), di alcuni contenuti (l’”enfasi sulla relazione”), di alcuni approcci (“cognitivo comportamentale”). Sono limiti che gli intervistati riconoscono essere impliciti nell’appartenenza culturale e materiale ad un contesto operativo, e che i tutor vedono come “arma a doppio taglio”, con particolare riferimento alla condizione di chi svolge, nella stessa Fondazione, funzioni educative in determinati servizi e funzioni formative per il Corso di laurea. Limiti che evidentemente non si possono cancellare,

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perché costituiscono in sé anche condizioni di possibilità di un’importante esperienza formativa, ma che sembra siano da riconoscere e “governare”;

limiti culturali: soprattutto gli studenti pongono la questione dello spazio/tempo dedicato nel Corso di laurea alle discipline umanistiche, secondo loro da sviluppare maggiormente dal momento “che aiutano moltissimo a sviluppare il pensiero”. Alcuni docenti, a questo proposito, rilevando l’importanza della presenza e dell’acquisizione di contenuti disciplinari attinenti alle Scienze dell’Educazione (pedagogia e psicologia in particolare), mettono in luce come la difficoltà di interiorizzare le teorie come strumenti decostruttivi e ricostruttivi dell’esperienza educativa sia dovuta non al tempo in sé che gli studenti dedicano alla singola “materia”, ma all’articolazione complessiva del corso, che lascia pochi spazi/tempi di ripresa, connessione ed elaborazione personale;

limiti organizzativo/didattici, che riguardano le connessioni generali delle varie aree, discipline e anime del Corso di laurea: se tutti gli intervistati indicano il progetto complessivo del Corso e quindi i luoghi di coordinamento generale come contesti da implementare, l’impressione è che, all’interno del Corso, ogni singola componente “funzioni” al meglio, orientandosi, a partire dalla sua prospettiva, a formare una precisa figura professionale. Se questi “sforzi” paiono dare luogo ad un’esperienza complessiva coerente, essa trova soprattutto nell’esperienza degli studenti un luogo di ricomposizione, mentre “a monte” tale ricomposizione si dà solo parzialmente o molto faticosamente, non essendo istituiti regolarmente luoghi e momenti di confronto (anche informale) tra tutti i docenti del Corso di laurea;

limiti nella funzione di orientamento: se l’ingresso precoce nel mondo dei servizi viene garantito dal Corso di Laurea e questo è riconosciuto come elemento qualificante, tuttavia, secondo gli studenti, “il mondo dell’educazione è più ampio” di quello che loro riescono a vedere, e spesso non si riescono a conoscere servizi innovativi o sperimentali. Quando questo avviene è a discrezione del tutor docente di Guida al Tirocinio.

3. GLI STUDENTI Gli studenti sembrano essere uno degli agenti di cambiamento più rilevanti rispetto alla

“tradizione” formativa che il Corso di laurea eredita dal passato. Un cambiamento che risente, come sottolineano alcuni docenti, di una serie di mutamenti socio culturali in atto: mutamenti che bussano alle porte della formazione rendendosi non più eludibili soprattutto da quanto il Corso di laurea cambia le modalità di accesso al corso stesso.

Sembra allora interessante avvicinare le rappresentazioni che docenti, coordinatori e tutor docenti di Guida al Tirocinio si sono formati rispetto a questi studenti, accanto alle rappresentazioni che gli studenti (ex o in corso) danno di sé. Perché, come sappiamo, già rappresentarsi qualcuno o qualcosa influisce sulle modalità di “trattamento”, ovvero sulle modalità che concretamente si mettono in atto per formare proprio “questi” studenti.

3.1. LO STUDENTE “MODELLO”

Quando, durante il focus group, ai docenti tutor di Guida al tirocinio viene chiesto di mostrare, con un’immagine concreta, quali siano sugli studenti gli effetti che la formazione produce, e quali effetti loro stessi giudichino significativi, in linea con gli obiettivi prefissati, emergono caratteristiche che connotano non tanto gli studenti per come sono, ma per quello che potrebbero diventare, nel migliore dei mondi possibili. Si delineano, talvolta a tratti più marcati, talaltra meno, dei modelli, che i tutor riconoscono come tali: ovvero delle prefigurazioni a cui tendere, una sorta di situazione ideale, di immagine di “studente ideale”, che qualche volta, magari anche solo embrionalmente o episodicamente, si incarna negli studenti “reali”. Si tratta di immagini importanti, perché indicano una tensione verso qualcosa che guida, accompagnandole silentemente, le scelte, le azioni, le proposte, le valutazioni di chi forma. Immagini che sembrano possedere anche i docenti di area disciplinare

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teorica, anche se con tratti e modalità più sfumate, e che sembrano derivare in molti casi dalla prefigurazione dei contesti in cui i futuri educatori potranno lavorare.

Elemento comune ai ritratti e alle situazioni mostrate nel percorso intensivo con i docenti di Guida al Tirocinio è infatti il riferimento agli studenti non tanto come persone che stanno studiando in un Corso di laurea, ma come persone che, se frequentano questo corso, dovranno diventare educatori. Ciò che orienta il loro sguardo sembra essere una prefigurazione futura, di tipo professionale. Ciò non significa, come vedremo, che i tutor docenti di Guida al Tirocinio non vedano gli studenti in carne ed ossa, ma sembra indicare come nel loro stesso sguardo sia sempre presente una tensione “verso” qualcos’altro, che delinea la méta di un percorso, e che in qualche modo misura non solo la situazione in ingresso o attuale dello studente, ma aiuta anche a individuare ritmi e strategie utili per arrivare a quella méta, a costruire, quindi, un percorso ad hoc.

Il modello che i docenti tutor sembrano avere nel cassetto pare riferirsi in generale ad una loro elaborazione personale della propria esperienza professionale, in quanto educatori in servizi della Fondazione, o in quanto consulenti e pedagogisti esterni. Elaborazione personale a volte condivisa con i colleghi, ma non necessariamente. Il riferimento ad altri studenti, per esempio quelli che frequentavano la Scuola regionale per Educatori, è presente in chi ha vissuto la trasformazione in Corso di laurea e l’ha “accompagnata”, come il coordinatore del Corso.

Lo studente “modello”, che pare coincidere quindi con l’educatore in nuce o che “si comporta come un educatore”, se non come un coordinatore, è uno studente che, in particolare durante i gruppi di tirocinio, nei momenti di esercitazione, in situazioni di esame, attraverso la produzione di materiali scritti esprime caratteristiche che hanno a che fare con la capacità di stare in gruppo e di governare il gruppo (ascoltare, intervenire, partecipare, collaborare, ma anche assumersi responsabilmente la leadership del gruppo, saperlo animare, coinvolgere); con capacità di tipo elaborativo e riflessivo (essere consapevoli di sé, dei propri pensieri e delle proprie emozioni, leggere le situazioni in cui si è coinvolti facendo un bilancio di sé, saper trasferire questa consapevolezza in e ad altre situazioni); con capacità di tipo più marcatamente pedagogico (descrizione delle situazioni educative cercandone il senso, mostrandone i gesti, utilizzando in maniera pertinente la narrazione).

Si tratta di caratteristiche che in qualche modo vengono stimolate, suggerite o richieste esplicitamente, messe alla prova e valutate durante le attività formative, ma anche di attitudini e capacità che spesso si colgono quasi per caso negli studenti, e quando questo accade l’effetto è di grande rispecchiamento da parte del tutor docente di Guida al tirocinio. Rispecchiamento che, se in sé rappresenta un momento di soddisfazione e gratificazione, e quindi di conferma rispetto alla formazione in atto, d’altronde non sembra far diminuire, ma anzi alimentare la tensione formativa degli stessi docenti tutor.

Nel riconoscimento di attitudini o magari anche competenze, che “naturalmente” o “personalmente” gli studenti mostrano di possedere, sembra si adombri una questione pedagogicamente importante, che nei discorsi di tutti i docenti pare rimanere sullo sfondo, quasi come elemento problematico strutturale della formazione e della professione educativa: quella del rapporto tra la dimensione personale e la dimensione professionale, tra la “vocazione” e la “professione”, tra l’avere, di per sé “la stoffa” per fare questo lavoro, e il poter diventare educatori acquisendo strumenti anche di tipo tecnico, come affermano gli studenti. Ciò che emerge è che, se posta in termini esclusivi, sotto forma di “aut/aut”, si tratta in realtà di una questione mal posta. Se posta, invece, interrogando le motivazioni che spingono ad intraprendere la professione educativa e a mantenerla, e quindi le scelte necessariamente personali in cui esse si esprimono, sembra aprirsi un campo di riflessione interessante, che, ancora una volta pare indurre a ripensare al senso e alla forma delle pratiche formative in questo ambito.

3.2. LO STUDENTE “REALE”

Chi sono, però, gli studenti “reali” che frequentano il Corso di laurea e che, in qualche modo, si trovano a fare i conti con i modelli prima mostrati?

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Da parte di tutti gli intervistati, studenti compresi, per comprendere chi siano, oggi, gli studenti che accedono al Corso di laurea, occorre considerare come vi accedano, perché le modalità di accesso determinano le condizioni di selezione e impongono la considerazione di nuove variabili nella costituzione dei gruppi e quindi nella progettazione/erogazione della didattica.

Si accede al Corso di laurea dopo aver superato un test che è a carico dell’Università, della Facoltà di Medicina e Chirurgia, e non ad hoc per questo Corso di laurea. Ciò pare avere ripercussioni importanti sia sulla modalità di scelta degli studenti, sia sulle motivazioni con cui intraprendono il corso, sia sulle prefigurazioni del Corso di laurea e del loro impegno all’interno di esso. Secondo i docenti e i coordinatori, pochi, infatti, oggi, sembrano essere gli studenti che scelgono il Corso di laurea perché in qualche modo già coinvolti nel mondo sociale o educativo: qualcuno ha svolto il servizio civile o ha esperienza come educatore in oratorio, ma i più scelgono semplicemente un corso universitario, magari rintuzzati dalle famiglie, magari dal fatto che comunque occorre fare l’università, magari con l’idea di frequentare qualche altro corso della Facoltà cui però non sono riusciti ad accedere, senza avere idea di come questo Corso sia articolato, di cosa richieda loro. La loro prefigurazione del lavoro educativo e delle figure educative è spesso nulla, come sottolineano gli studenti stessi; o, quando qualche idea c’è, pare essere un’idea molto falsata da assaggi parziali del lavoro educativo, piuttosto che dalla propria esperienza di educazione familiare o informale. In questi casi, la figura educativa sembra subire forti idealizzazioni: gli studenti stessi affermano di aver pensato all’educatore come persona “dotata di supercaratteristiche personali”, e i tutor docenti di Guida al Tirocinio rilevano afflati salvifici, disancorati dalle situazioni reali. Come se, dunque, l’immaginario dei “nuovi” studenti oscillasse tra una letterale ignoranza rispetto al mondo del lavoro educativo, e un’idealizzazione non dei servizi, né del lavoro, ma della figura dell’educatore in sé.

Gli studenti, quindi, sembrano approdare al Corso di laurea in una condizione di ingenuità, quasi di “verginità” rispetto ai contenuti e alle proposte del Corso, ma anche agli sbocchi lavorativi che li aspetteranno dopo soli tre anni. Secondo i docenti di area sanitaria, provenendo da diversi percorsi formativi pregressi, non hanno un background “bio” che li supporti nelle loro docenze; ma altrettanto sembra avvenire per le discipline di area pedagogica e professionalizzante: occorre quindi, didatticamente, “fare un passo indietro”, perché gli studenti prima di tutto devono essere “alfabetizzati”, orientati nella Facoltà e nel mondo del lavoro educativo, e magari anche nella vita, quando approdino alla formazione con situazioni familiari e sociali sofferte e difficili (situazione, del resto, piuttosto frequente).

La cifra che connota gli studenti, secondo docenti di Guida al Tirocinio e di area teorica, è l’”immaturità”, termine che spesso sembra essere utilizzato come sinonimo di ignoranza rispetto a contenuti ma anche alle regole di contesto cui attenersi, ma che altrettanto spesso pare alludere alla loro “mancanza di esperienza di vita”: gli studenti sono giovani, non hanno vissuto abbastanza, sono ancora “adolescenti”. Si tratta di una visione piuttosto comune, rispetto a cui alcuni docenti esplicitano le potenzialità: il “non aver sperimentato ancora” come condizione per poter sperimentare ancora tutto, che dice di una vita “frizzante”, tutta da costruire; la curiosità e la disponibilità all’apprendimento, al farsi coinvolgere in situazioni differenti da quelle già conosciute, per esempio. Altri docenti, invece, evidenziano i limiti insiti in questa rappresentazione degli studenti: il non avere nulla da dire, non saper cosa dire o come farlo, che fa pensare alla permanenza in una condizione addirittura infantile; una generale passività, che si esplicita appunto nella fatica a partecipare, e che è rinsaldata dalla scolasticità o della modalità “liceale” che essi mettono in atto nell’affrontare il corso di studio e che, d’altro canto, è confermata dalla stessa organizzazione di quest’ultimo, come tra l’altro gli studenti stessi affermano.

Studenti quindi, nelle rappresentazioni dei docenti, che sembrano trovarsi in una condizione “nascente”, in cui il “non aver ancora” conosciuto, fatto, sperimentato rispetto alla professione li pone nella condizione ideale di poter costruire tutto; studenti che al contempo sono portatori di abitudini, esperienze di vita e di formazione pregressa che possono condizionarli fortemente, precludendo loro molte possibilità.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Il percorso che gli studenti intraprendono sembra proprio essere attraversato da tali ambivalenze: sia docenti che studenti parlano della fatica spesa nell’apprendimento, e in particolare in quel lavoro di destrutturazione e ristrutturazione delle loro idee a proposito dell’educazione che vanno facendo in Guida al Tirocinio, oltre che di acquisizione di quei “linguaggi di base” indispensabili nel Corso e nella professione. Si tratta di una fatica necessaria ed inevitabile, che gli studenti generalmente condividono con i tutor e i docenti, funzionale ad entrare nel vivo del Corso di laurea, a tenere il passo con le richieste formative, e a entrare poi più consapevolmente nella concretezza del lavoro educativo. Una fatica che nelle parole dei docenti e tutor spesso assume dimensioni notevoli, quasi eccessive, e che si manifesta in particolare nel connettere le teorie studiate con le esperienze vissute, nell’assumere atteggiamenti di ricerca e responsabilità anche nei confronti di se stessi e delle proprie modalità di partecipazione ai gruppi e alla formazione in generale. Una fatica che i docenti sembrano sostenere, pur senza concedere nessuno sconto.

Nei discorsi dei docenti, ci troviamo di fronte dunque a studenti immaturi, sguarniti di contenuti ed esperienze, affaticati dalle richieste del percorso formativo. Ma anche a studenti curiosi, e curiosamente fortemente motivati, pronti a “farsi mettere in discussione da ciò che non conoscono”, per esempio le discipline di area sanitaria, anche se con risultati poco brillanti agli esami. Studenti al tempo stesso passivi e attivi, muti e pieni di domande; studenti “vivi” e “vivaci”, e in questo differenti dagli studenti che, per esempio, frequentano il Corso di Laurea in Medicina (docente di area sanitaria). Si tratta di contraddizioni che esistono, e che non si escludono a vicenda, ma che esprimono probabilmente le tappe del percorso di formazione degli studenti stessi, le posizioni che gli studenti per primi attraversano, le modalità di partecipazione e di interazione con i gruppi, con i docenti e con sé: elementi che cambiano, nei tre anni di formazione. Come dire, forse, che ciò di cui gli studenti appaiono sguarniti, anche quella motivazione forte e “vicina alla realtà” che i tutor docenti di Guida al Tirocinio sembrano comunque cercare in loro, oltre che una qualche prefigurazione di sé come educatore, sono davvero “conquiste formative” e di fatto costituiscono gli oggetti, effettivi, che il Corso contribuisce a creare.

3.3. LO STUDENTE “ALLUVIONATO”, “DI CORSA”, LO STUDENTE “UTENTE”

Una delle contraddizioni che si rileva nelle rappresentazioni che i docenti danno degli studenti ha a che fare con il binomio autonomia/passività, dunque. Si tratta di un’ambivalenza che gli studenti stessi esprimono proprio nel raccontare la loro esperienza all’interno del Corso di Laurea, che, se da un certo punto di vista alimenta il loro desiderio di autonomia e di sperimentazione di sé, d’altro canto immobilizza, rende passivi, lascia poco spazio all’approfondimento personale.

Appaiono delle immagini, nel percorso con i tutor docenti di Guida al Tirocinio, che non solo rendono conto delle contraddizioni esplicitate, ma sembrano anche in qualche modo spiegarle, motivarle collocando la figura dello studente nel contesto che Fondazione Don Gnocchi e Corso di laurea predispongono per la sua formazione.

Gli studenti sono “alluvionati” dalle esperienze di lavoro che si svolgono nel contesto della Fondazione: non scelgono di incontrare la disabilità, semplicemente la trovano là dove fanno formazione, quasi come condizione naturale. In qualche modo sono “immersi” in questa esperienza, che ha delle proprie connotazioni pedagogiche e operative, e allora occorre “tirarli un po’ fuori per i capelli”, perché nell’immersione non si vede altro che la realtà in cui si è coinvolti. Situazione, questa, che se presenta molti aspetti positivi, perché introduce quasi senza mediazioni nel mondo del lavoro educativo, rischia di diventare “passivizzante” nel momento in cui anch’essa non diventi un oggetto di attenzione pedagogica, di ricerca; quindi un oggetto rispetto a cui porre una distanza, per poterlo leggere e comprendere meglio. L’impressione è che gli spazi di autonomia, di cui parlano gli studenti, abbiano a che fare proprio con la possibilità anche materiale e contestuale, di “porre delle distanze”.

Non solo. Gli studenti sembrano essere sempre “di corsa”: non solo sono immersi in un contesto particolare che produce già da sé immagini, prefigurazioni, e satura alcune domande implicite (per esempio rispetto ai contesti in cui l’educatore lavora), ma non hanno neanche il tempo di fare delle soste in cui riprendere, ridare senso, connettere ciò che hanno vissuto. Anche dal punto di vista

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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temporale, se la corsa non si ferma, non c’è la possibilità di “porre distanza”; e gli effetti di tutto ciò ancora una volta tendono a frustrare il desiderio di autonomia, non concedendo il tempo adeguato per riappropriarsi del proprio tempo, per comprendere, concretamente, cosa sia stato appreso. Non che autonomia non ci sia: forse non ci sono spazi e tempi che aiutino ad esercitarla. Quando essi si creano, spesso nei momenti di Guida al tirocinio ma soprattutto nei momenti di valutazione, si tratta infatti di momenti memorabili.

E ancora. Le condizioni di ingresso degli studenti nel Corso di laurea tendono a produrre di loro immagini “in negativo”, dense di interrogativi, complicate dalle motivazioni implicite che animano gli studenti stessi, o meglio dalle idee che a questo proposito i docenti si costruiscono; immagini che dicono che rispetto a questi studenti ci si sente spesso “spiazzati”, non si sa cosa pensare, come fare. Forse anche per questo, accanto allo studente appare lo “studente utente”: lo studente che può essere visto come una persona da seguire, una persona di cui aver cura, soprattutto se portatore di una storia familiare e sociale difficile e dipinta come “a rischio”. Anche questa emerge come una condizione passivizzante, che mette lo studente nella posizione di destinatario di una serie di attenzioni e soprattutto al centro di un contesto che, in questo caso, pare sbilanciarsi verso pratiche di accoglienza non equilibrate da istanze di tipo performativo, di “messa alla prova”. Come evidenziato altrove, si tratta di un rischio che i tutor docenti di Guida al Tirocinio riconoscono di correre, e spesso per scongiurarlo non è sufficiente ricordare le finalità del proprio lavoro.

3.4. STUDENTI O ALLIEVI?

Chi sono, allora, gli studenti? Si è riscontrato che le rappresentazioni, e le autorappresentazioni che gli studenti stessi offrono,

paiono delineare un quadro segnato dalla compresenza di caratteristiche antinomiche, da connotazioni ambivalenti, che in qualche modo tra loro “si tengono”. Ricomponendo i discorsi, l’impressione è che proprio lo snodarsi del lavoro formativo, l’attraversarne da docenti e studenti le problematicità, sembri mostrare come le stesse attribuzioni agli studenti di caratteristiche ambivalenti, per esempio di passività piuttosto che di autonomia, siano anche effetto di contesti, di azioni formative, di ritmi istituzionali, di posizioni soggettive e come tali non solo siano variabili, ma possano essere e diventare anche oggetti di lavoro pedagogico e formativo.

Sembra allora che occorra, per mantenere viva la dimensione del cambiamento che si produce negli studenti stessi durante la formazione, trovare un altro termine per indicarne non tanto il ruolo, ma la posizione che gli studenti si trovano ad assumere all’interno del Corso di laurea: un termine che presentifichi le prospettive formative, professionalizzanti, che li sganci da un immaginario legato alla pura pratica istruttiva o ad esigenze di accudimento dovute alla loro “giovane età”, che li avvicini in qualche modo al mondo del lavoro. La parola “studenti” del resto, sembra stare stretta agli studenti stessi, che sottolineano l’importanza di quelle situazioni in cui, pur se ancora in formazione, sono “stati un po’ educatori”, si sono avvicinati maggiormente allo statuto di professionisti. E il desiderio (non solo la paura) da essi esplicitato di “entrare nel vivo del lavoro educativo” una volta concluso il terzo anno di Corso pare confermare questa impressione: come se il non essere più studenti fosse da loro associato alla possibilità di essere davvero autonomi, di “andare con le proprie gambe”, in “contesti non più protetti”.

Il coordinatore del Corso di laurea suggerisce di utilizzare il termine “allievi”, vedendo in esso l’indicazione di un “passaggio” da uno statuto (quello di studenti) ad un altro (quello di operatori), oltre che la necessaria rete di relazioni – formative – che lo accompagna. Al di là dei termini, l’impressione è che la questione riguardi proprio la possibilità di trovare, tra docenti ed anche tra docenti e studenti, un comune modo di vedere gli studenti: uno sguardo che non li schiacci sulla prefigurazione di un ruolo operativo già definito, che non li veda “solo” come necessariamente in-competenti e quindi da formare radicalmente, ma che ne riconosca tratti che li traghettino verso la costruzione di un loro stile professionale, da scoprire nell’arco dei tre anni. Uno sguardo che “sospenda il giudizio”, per riprendere l’espressione di una tutor/docente, su di loro e che predisponga il necessario perché apprendano ad essere professionisti. Del resto, gli studenti stessi paiono indicare

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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nella scoperta di “poter apprendere a fare questo mestiere” e nella loro disponibilità ad apprendere e a “imparare a stare nell’incertezza” una delle loro caratteristiche principali.

Forse, vedere gli studenti come “allievi”, può aiutare i docenti, e in particolare chi insegna Guida al tirocinio, a connettere le varie funzioni che connotano la loro figura, contenendo i rischi di scivolamento verso funzioni e atteggiamenti di cura maggiormente connotati in senso accuditivo o terapeutico.

4. L’EDUCATORE PROFESSIONALE, COME ORIZZONTE FORMATIVO

4.1. LE RAPPRESENTAZIONI DELLA FIGURA DELL’EDUCATORE PROFESSIONALE

Se gli studenti vengono formati attraverso uno sguardo orientato sugli educatori che diventeranno, è importante soffermarsi sulle rappresentazioni della figura professionale che animano il Corso di laurea.

La figura dell’educatore professionale, per riprendere le parole degli studenti laureati, “non si può definire a tavolino”: la sua professionalità è data proprio dalla competenza di saper utilizzare conoscenze e strumenti appresi ridefinendoli nel “contatto con l’utenza”, dentro contesti dati.

In effetti, sembrano essere proprio i contesti in cui ci si prefigura l’educatore professionale lavori, oltre che la relazione con un particolare tipo di soggetti, a modellare gli sguardi dei docenti: contesti che si occupano prevalentemente di situazioni di disagio, dove gli educatori lavoreranno con “persone che prenderanno medicine”, quindi prevalentemente in ambito psichiatrico, secondo i docenti di area sanitaria; contesti non solo socio sanitari e soggetti di età diverse, che coprono l’arco di tutta l’esistenza, secondo i docenti di area pedagogica.

In ogni caso, a prescindere dalla specificità del contesto, caratteristica dell’educatore professionale è avere “uno sguardo a 360°”, capace di considerare non solo le problematiche specifiche o il disagio conclamato della persona, ma anche la sua situazione esistenziale (docente di area sanitaria), uno sguardo in grado di avere e di vedere diverse “sfaccettature”, e di modularsi e modulare strumenti e competenze adattandole alle situazioni, sempre uniche e diverse (docente e tutor di Guida al Tirocinio). A questo proposito, l’educatore è raffigurato come una matrioska: in grado di cambiare veste a seconda delle circostanze pur rimanendo sempre se stesso. In questo modo, l’educatore è visto come colui che è in grado di “creare situazioni diverse” o di far sì che le persone si “vedano in un modo diverso”. Gli studenti esplicitano la fatica di un lavoro complesso, in cui lo “sporcarsi le mani” si combina con la “ricerca di senso”: un lavoro che però “si può apprendere”.

A fronte di un’immagine sociale sminuente della professione, che da qualche docente viene detta “debole”, poco riconosciuta e con poche prospettive di sviluppo “dentro il nostro quadro economico e sociale”, all’interno dei servizi si rileva anche una diversa percezione della figura educativa: più considerata dalle altre professionalità perché più capace, rispetto al passato, di dialogare con altri professionisti e maggiormente in grado di documentare il proprio lavoro.

4.2. LE COMPETENZE DELL’EDUCATORE PROFESSIONALE

Le competenze che vengono ritenute essenziali per poter incarnare una figura simile sono riconosciute da tutti i docenti e dagli studenti come trasversali: competenze che paiono nell’insieme contribuire a costruire una professionalità pedagogica che sia in grado di “stare consapevolmente nei diversi contesti”. Per quanto riguarda le competenze specialistiche, ovvero proprie di determinati contesti, sarà poi il mondo del lavoro a formarle.

Queste competenze trasversali sono esplicitate come: competenze operative: la professionalità educativa si basa sulla capacità di “sapersi sporcare le

mani”, di lavorare “entrando nella quotidianità” dei servizi e dei ritmi e delle abitudini delle persone che li frequentano. Si tratta di un “saper fare” che coinvolge l’educatore: come dicono gli ex studenti, sollecita il proprio “saper essere”, e non si esprime nella capacità di realizzare

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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performance particolari ma soprattutto nell’articolazione di una presenza quotidiana che sappia, appunto, “creare situazioni”, creare “occasioni per ripensare a sé” da parte degli utenti, come sottolineano gli studenti;

competenze relazionali: per qualche docente, “nella capacità di entrare in relazione c’è un po’ dentro tutto”: il saper fare e saper essere, come dicono gli ex studenti, ma anche il saper decodificare i contesti in cui si è per utilizzarli per creare relazioni significative (studenti). La competenza relazionale non sembra essere vista come un semplice entrare in relazione, ma, nelle parole di alcuni docenti, significa anche saper decostruire le relazioni in atto per poterle pensare da diversi punti di vista e quindi poterle disporre diversamente, a partire dai contesti e dalle situazioni specifiche. La competenza relazionale comporta il saper governare, nella relazione con l’altro, il rapporto tra “asimmetria e simmetria”, quindi la dimensione del potere, dicono gli studenti. Ancora, implica consapevolezza di sé nella relazione e nel contesto in cui si dà;

competenze di “mediazione”: l’educatore è descritto, da alcuni docenti di Guida al tirocinio, come “interfaccia” tra gli utenti e gli altri professionisti, ma anche tra gli utenti e se stessi e il loro ambiente familiare e sociale. Ha quindi la necessità di comprendere cosa significhi mediare, “facilitare la comunicazione”; dove, a tutto questo, implicitamente, sembra essere sottesa la paradossale ma essenziale capacità di sottrarsi, di “lasciare andare”, di diventare sempre meno indispensabili agli utenti stessi;

competenze ermeneutiche e riflessive, di taglio pedagogico: le competenze operative e relazionali non sono tali se non completate dall’acquisizione e dal perfezionamento della capacità di leggere le situazioni e se stessi in situazione dal punto di vista pedagogico, ovvero individuando gli elementi che occorre approfondire anche in termini di conoscenza al di là di una generica curiosità, come emerge nel focus group con i tutor docenti di Guida al Tirocinio. Così, le conoscenze apprese possono in un certo senso trovare vita. Soprattutto, occorre sviluppare una capacità di ricerca rispetto alle situazioni che si vedono nei servizi, che si vivono nei gruppi e che si sperimentano in prima persona: la capacità di farsi domande, di comprendere quali siano gli effetti formativo/educativi delle proprie azioni e delle situazioni stesse sulle persone coinvolte, di immaginarsi come sarebbe stato possibile agire diversamente;

competenze di progettazione educativa: vanno di pari passo con le competenze ermeneutiche e riflessive: se gli ex studenti confermano che la possibilità di leggere e cercare il senso delle situazioni educative è ciò che consente poi una progettazione e riprogettazione condivisa, alcuni docenti ribadiscono il carattere creativo di questa stessa abitudine alla ricerca. La competenza progettuale non è allora tecnicamente definita come la capacità di ideazione e di stesura di progetti particolari, ma sembra aver a che fare con dimensioni di analisi, ricerca e creatività pedagogica. In questo senso, implicitamente, sembra implicare una competenza di tipo valutativo sull’esperienza educativa;

Competenze documentali: l’acquisizione della capacità di documentare il lavoro educativo sembra essere ritenuta fondamentale per sapere esprimere e valorizzare la propria professione e in primo luogo rendere visibile il proprio lavoro ai propri occhi e a quelli altrui. Serve inoltre a sostenere il lavoro di riflessione, ricerca e riprogettazione e quindi le competenze sottese. È una competenza che si esercita nel Corso; in particolare se ne fa pratica nella docenza di Guida al Tirocinio attraverso la compilazione di verbali degli incontri dei gruppi di formazione, dei diari di tirocinio ma anche dell’invenzione di forme comunicative scritte, utili quando gli studenti ancora sembrino non sapere o non potere o non riuscire a prendere parola in gruppo. Si tratta di pratiche di “memoria”, il cui valore sta non solo nell’imparare a scrivere dell’esperienza educativa, ma anche nello sviluppare, rispetto ad essa, quella consapevolezza che è ritenuta unanimemente essenziale nello svolgere questo lavoro;

Competenze di tipo collaborativo: “saper lavorare in équipe” è riconosciuta da tutti gli intervistati come una competenza indispensabile a sostenere un lavoro educativo che si connota certo operativamente, ma anche come lavoro di riflessione e di ricerca sull’esperienza. Implica le capacità di “prendere posizione”, di assumersi le proprie “responsabilità”, di “non sottrarsi al confronto”

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quando si lavora con altri colleghi. Ancora, implica la capacità di “avere un linguaggio comune” tra chi svolge la medesima professione e di intendere i linguaggi altrui, in modo da avere visuali più ampie ma anche da saper dialogare e contribuire e quindi da saper valorizzare la propria posizione. È vista da tutti come una delle competenze più faticose da apprendere, come se a lavorare in équipe non si fosse abituati né in ambito formativo (l’esperienza scolastica in questo senso non sembra fornire nessun prerequisito né l’esperienza universitaria in sé), né in ambito educativo.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Parte seconda: Sguardi e voci dal

mondo del lavoro educativo

PREMESSA

La parola va ora al mondo del lavoro educativo: ai professionisti dell’educazione, ai coordinatori dei

servizi, agli educatori che lavorano nel mondo dei servizi socio educativi e sanitari e rappresentanti di Associazioni di categoria, oltre che ai formatori, che hanno la possibilità, dalle loro diverse posizioni, nei diversi contesti che abitano, di incontrare i “nuovi educatori”, gli educatori formati dal Corso di Laurea in Educazione professionale, o i tirocinanti che in esso si stanno formando. Si tratta di voci differenti, non estranee al mondo della formazione degli educatori, essendo un mondo che a diverso titolo continuano a frequentare, come consulenti o formatori; voci e sguardi che paiono interessanti dunque proprio per la loro posizione intermedia, che, pur abitando prevalentemente il mondo dell’educazione, sporge su quello della formazione. Voci a cui si sono aggiunte quelle degli ex studenti del Corso di Laurea, adesso inseriti nel mondo del lavoro.

Qui, la ricerca è orientata a capire come, dall’interno, si dipinga il mondo del lavoro educativo, e come, nei servizi sociosanitari e educativi venga visto e vissuto il lavoro educativo, nella sua specificità: quali siano le sue condizioni di possibilità, gli obiettivi che nell’attuale contesto socio culturale si pone e può perseguire, di quali strumenti si doti. Tutto ciò, in relazione al modo in cui oggi si possa pensare all’identità dell’educatore professionale, alle competenze essenziali per esercitare questa professione, ai saperi che la sostengono e ne definiscono i confini rispetto ad altre professioni analoghe.

Il fine è stato quello di comprendere, poi, come, in relazione allo scenario delineato, da parte di queste voci del mondo del lavoro si vedano i “nuovi educatori”, e quindi chi siano, come entrino nel mondo del lavoro educativo, di quali competenze siano forti e di quali invece abbiano bisogno. E, d’altronde, si è cercato di comprendere come si pensi alla formazione di base attuale, quale idea all’interno dei servizi si sia costruita della formazione, con l’intenzione, sottesa, di cercare di capire se e in che modo questa formazione contribuisca a strutturare l’identità dell’educatore professionale nello scenario attuale, e, in generale, come venga visto e vissuto il rapporto con la formazione.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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1. LO SCENARIO DEL LAVORO EDUCATIVO

1.1. LA SITUAZIONE ATTUALE DEI SERVIZI EDUCATIVI E SOCIO SANITARI IN LOMBARDIA

La situazione attuale del mondo dei servizi in generale sembra stia attraversando un periodo di grande cambiamento, culturale e istituzionale.

Tutti gli ambiti di lavoro che i nostri interlocutori conoscono direttamente (in particolare servizi riabilitativi per la salute mentale e per la disabilità; servizi per minori) paiono essere impegnati in ristrutturazioni istituzionali finalizzate a razionalizzarne l’organizzazione, regolamentando le figure professionali esistenti e introducendone di nuove o diverse, ristrutturando tempi di permanenza nei servizi, promuovendo nuove forme istituzionali, aprendo al privato sociale la gestione del personale educativo e sanitario. Più precisamente, in un clima generale caratterizzato dalla carenza di risorse economiche, le condizioni che stanno costringendo i servizi a cambiare e il lavoro educativo a ridefinirsi sono individuate dagli intervistati in: processi di “frammentazione del welfare”, con particolare riferimento alla diversificazione dei

servizi e alla divisione tra servizi sanitari e servizi sociali, e all’introduzione nei servizi di figure assistenziali specializzate, quali Ausiliari Socio Assistenziali e Operatori Socio Sanitari, di figure riabilitative quali quella del Terapista della riabilitazione, accanto alle figure tradizionalmente educative;

di “sanitarizzazione”, visibile, per esempio, nell’investimento sulla figura infermieristica in alcuni servizi di salute mentale, ma anche nel maggior investimento economico in quei servizi (per disabili, o per anziani, soprattutto) dove la specializzazione sanitaria prevede “percorsi prestabiliti” e che paiono maggiormente valutabili sul piano dell’efficacia, a fronte di un disinvestimento sempre più evidente nel settore della prevenzione in ambito minorile ed extrascolastico, dove a prevalere sembrano essere logiche economiche, che portano ad impiegare figure con profili professionali meno qualificati;

di esternalizzazione dei servizi, le cui conseguenze si concretizzano nella condizione di diffusa precarietà del lavoro educativo. In tutto ciò sembra che “il punto di vista educativo non venga preso in considerazione”, come

afferma il coordinatore di una Comunità per minori, e che l’orizzonte educativo “si restringa”. Dal punto di vista culturale, soprattutto chi gode di un osservatorio più ampio (educatore associato all’Anep, formatore), avverte la caduta di un orizzonte collettivo dell’educazione e sull’educazione, che in passato aveva orientato progettazioni finalizzate a trasformazioni sociali importanti. Oggi non solo le ristrettezze economiche, ma anche la mancanza di un collante sociale sembra rendere i servizi autoreferenziali, chiudendoli all’interno delle proprie pratiche e dei propri modelli, e tenendoli impegnati a gestire e a mantenere uno status quo, piuttosto che a rivedere e a rilanciare le proprie pratiche in un’ottica progettuale.

Alcuni coordinatori e educatori individuano la specificità del punto di vista educativo nella capacità di guardare “al percorso esistenziale integrale di un soggetto”, al di là delle “scotomizzazioni un po’ artificiose” a cui lo sottopongono le pratiche desunte dai saperi forti, con particolare riferimento al sapere medico; tuttavia, di fronte a tali saperi, sembra che il punto di vista educativo non riesca ad imporsi, e il suo sguardo rimanga “indefinito” al cospetto di altri sguardi che orientano progetti in cui l’educazione sembra spesso diventare sinonimo di riabilitazione. Non solo. La debolezza del punto di vista educativo pare essere accresciuta dalla difficoltà e talvolta anche dall’incapacità dei servizi di “costruire una memoria istituzionale” del lavoro svolto; incapacità che qualche educatore attribuisce alle condizioni di turn over degli educatori e agli spazi e ai tempi sempre più risicati che vengono concessi al lavoro d’équipe e all’équipe come “spazio per pensare l’educazione”; qualcun altro invece a carenze degli stessi educatori, poco inclini a documentare il loro lavoro e quindi a “renderlo visibile”, oltre che a lasciarne traccia.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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In uno scenario dipinto con colori foschi e in cui qualche formatore ritiene non si sappia da dove cominciare per alzare il capo e costruire nuovi orizzonti per il lavoro educativo, e quindi come poter emergere da quel “buio” in cui si è immersi, poche sembrano essere le vie d’uscita. Una di queste, secondo il coordinatore di una comunità per minori, può essere individuata nella possibilità di pensare e costruire strumenti concreti per valorizzare il lavoro educativo, a partire da ciò che c’è e si deve fare, come per esempio la certificazione di qualità per l’accreditamento dei servizi. Dove il valore aggiunto sembra essere dato proprio dalla possibilità di documentare.

1.2. LE RAPPRESENTAZIONI DEL LAVORO EDUCATIVO

Non è semplice rappresentare nel panorama attuale in cosa consista il lavoro educativo: in generale si ha l’impressione che sia un lavoro “molto indefinito e sfuggente”, quindi difficilmente rappresentabile e facilmente oggetto di fraintendimenti e visioni riduttive. Tanto che, soprattutto nei contesti in cui si avverte molto il peso della prestazione, come in alcuni servizi psichiatrici, è difficile che venga descritto come tale, optando piuttosto per un altro aggettivo: “riabilitativo”.

L’impressione è che il lavoro educativo sfugga anche perché complesso, e quindi non facilmente spiegabile e semplificabile.

Gli ex studenti offrono a questo proposito un’immagine che rende conto della complessità dell’esperienza e quindi del lavoro educativo, quella del “tetraflessagono”: il lavoro educativo sarebbe composto da una serie di dimensioni che occorre saper maneggiare e anche in maniera coordinata. Occorre capire come “funzioni il meccanismo”, e in questo la riflessione sull’esperienza supportata da strumenti teorici può aiutare.

Quando poi ci si concentri sulle pratiche educative, implicite o esplicite, che gli educatori svolgono nel loro lavoro, emergono rappresentazioni che, pur risentendo delle differenze che connotano i diversi contesti di provenienza dei testimoni intervistati, sembrano mettere in luce dimensioni, caratteristiche, significati, obiettivi trasversali del lavoro in quanto educativo. Elementi in comune che a volte danno l’impressione di entrare in contraddizione tra loro, a sottolineare, forse, la problematicità e la non linearità del lavoro educativo stesso e dell’esperienza educativa che esso consente di mettere in campo.

1.2.1. LA DIMENSIONE PRAGMATICA DEL LAVORO EDUCATIVO

Il lavoro educativo sembra essere qualcosa di molto concreto, che implica, per l’educatore e per chi è educato, un’esperienza corporea, coinvolgente; un’esperienza che si snoda nelle piccole cose, nei tempi e negli spazi della quotidianità, come sottolineano i coordinatori di comunità per minori e di Centri Diurni per Disabili, piuttosto che nel porre ordine o rimettere insieme i pezzi di esistenze travagliate ricostruendo, quasi letteralmente, il tessuto sociale di riferimento delle persone, come afferma un educatore in ambito psichiatrico. A volte il lavoro è descritto come un’esperienza di accompagnamento, un’esperienza di vita pensata e vissuta che deve tenere conto dell’orizzonte esistenziale e progettuale della persona che viene presa in carico. Dagli ex studenti, è descritto come un “lavoro di frontiera”: un lavoro impegnativo, che implica uno “sporcarsi le mani” rispetto a situazioni anche difficili e conflittuali, che richiedono di essere governate.

L’oggetto del lavoro educativo, in quest’ottica, sembra essere proprio l’esperienza, che si materializza in tutte le attività che un contesto consente di sperimentare, in particolare quando il contesto sia quello di una comunità per minori. In questo senso, secondo un formatore, l’esperienza educativa sembra eccedere la dimensione della tecnica e della riabilitazione intese in senso stretto ma anche le attuali istanze di proceduralizzazione e di burocratizzazione del fare educativo. Pensare l’esperienza – possibile – come centro del lavoro educativo comporta scelte organizzative e pedagogiche precise, che per esempio vedano negli educatori dei punti di riferimento per l’individuazione e l’apprestamento di attività, non tanto per i singoli utenti, come afferma il coordinatore di una Comunità per minori.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Compare, nelle parole di tutti e in particolare degli ex studenti, un rischio: che dalla centratura sull’esperienza si scivoli alla centratura sul “fare” ad ogni costo, e che dall’esigenza di fare si sia travolti, perdendo di vista, così, il significato dell’esperienza educativa nel lavoro quotidiano. Questo accade quando la dimensione riflessiva sia troppo debole o addirittura inesistente, messa a tacere dalle urgenze e da istanze altre rispetto alle preoccupazioni pedagogiche.

1.2.2. LA DIMENSIONE RELAZIONALE E AFFETTIVA NEL LAVORO EDUCATIVO

Se la cifra che connota il lavoro educativo sembra essere la sua pragmaticità, d’altronde essa pare esprimersi in primo luogo nella relazione, dove il termine “relazione” pare essere utilizzato, soprattutto da chi lavora in psichiatria, per contrastare il termine “prestazione”, e in esso il riferimento alla quantificazione degli interventi, all’esercizio di modalità di conoscenza e di strategie che sembrano appartenere con più pertinenza ad altre professioni (medica e ragionieristica, per esempio).

Non solo. Si ha l’impressione che parlare di relazione aiuti a indicare e a significare la mobilitazione degli aspetti emotivi ed affettivi che l’esperienza educativa, con i singoli o con i gruppi, implica. Con essa si esprime l’esposizione personale sia agli sguardi e alle dinamiche affettive dei soggetti “utenti” del proprio servizio, sia ad esperienze di disagio che mettono a contatto con questioni esistenziali profonde, quali la morte, la sofferenza, il dolore psichico. Si tratta, dunque, di una dimensione critica, che appesantisce il lavoro educativo e lo rende estremamente complesso, come rilevano in particolare educatori e coordinatori di ambito sanitario (psichiatria e disabilità). D’altronde, l’esposizione ma anche il coinvolgimento affettivo di chi educa è visto come parte integrante e indispensabile del lavoro educativo, che pare essere finalizzato a vivere e a far vivere esperienze autentiche, in cui ci si “creda veramente” e ci si “spenda veramente”, proprio giocando il proprio ruolo, come sottolinea qualche coordinatore.

Comunque, l’esperienza educativa sembra essere vista come esperienza che tocca e coinvolge aspetti personali, e con essi fa i conti. Sia perché lo stile educativo di ogni educatore è connesso alla sua storia di vita e ai modelli educativi interiorizzati, sia perché la situazione particolare in cui si trova l’educando o il soggetto da seguire ha risonanza nel proprio mondo emotivo, provoca sensazioni e reazioni che richiedono di essere riconosciute e governate; situazione evidente soprattutto a chi, come coordinatore o educatore, lavoro in ambito psichiatrico o in servizi per disabili. Di qui l’esigenza di trovare istituzionalmente, e non solo personalmente, forme di elaborazione professionale dei vissuti educativi, che sostengano la capacità degli educatori di maneggiare il proprio mondo interno, di sapersi prendere cura delle proprie fragilità e di confrontarsi con le fragilità altrui. In questo senso, il lavoro educativo sembra presupporre, come condizione qualificante, pratiche di cura di sé, tra cui può essere ricompresa la supervisione. Una cura di sé intesa sia come lavoro “del gruppo di lavoro”, sia come esercizio svolto da parte dell’educatore nei confronti della sua persona, della sua vita, dei suoi desideri e dei suoi limiti, intesi come opportunità per ampliare il raggio della propria formazione.

1.2.3. LA DIMENSIONE RIFLESSIVA E PROGETTUALE NEL LAVORO EDUCATIVO

Vista la complessità dell’esperienza che richiede di istituire, secondo gli interlocutori intervistati il lavoro educativo sembra richiedere all’educatore l’esercizio di consapevolezza, riflessione, capacità di esplicitazione di tutti i “passaggi” e le condizioni di cui si compone. Richiede dunque una capacità di esercitare il proprio ruolo esercitando un pensiero critico, aprendosi a istanze interpretative rispetto alle modalità di lavoro, proprie e altrui. Tutto ciò sembra presupporre l’esercizio di una competenza fondamentale in assenza della quale l’educatore rischia di ridursi a semplice esecutore di istruzioni altrui, a tecnico che segue un mansionario o a operatore che scimmiotta il sapere di figure professionali affini (gli psicologi, per esempio) provando a declinarlo in un educativo che però risulta svuotato del suo valore esperienziale. Oppure, sottolineano gli ex studenti, si perde in un “fare, fare, fare” fine a se stesso.

Seguendo i discorsi di alcuni interlocutori, si ha l’impressione che la dimensione riflessiva sia vista e utilizzata come una sorta di alter ego di una dimensione tecnica interpretata prevalentemente come

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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“tecnicismo”, o come antidoto ad essa. La tecnica, infatti, sembra essere qualcosa che si può leggere sui libri, ma che non si può applicare pedissequamente: occorre conoscere i contesti e le situazioni personali e quindi trasformarla rispetto al proprio contesto educativo. Quando diventi “tecnicismo” è addirittura inutile: nel caso della disabilità, secondo i coordinatori di CDD, non solo non aiuta a svolgere un lavoro educativo, ma si può rivelare anche controproducente, enfatizzando la dimensione deficitaria dei soggetti e privilegiando le esigenze riabilitative rispetto a quelle esistenziali dei soggetti.

La dimensione tecnica, allora, sembra poter essere utilizzata nel lavoro educativo solo nel momento in cui sia inserita all’interno di una dimensione progettuale. Nei discorsi degli interlocutori intervistati, essa si declina non tanto in un’ulteriore competenza tecnica, quanto nell’esercizio di una dimensione di creatività pedagogica, interessata a creare condizioni di cambiamento possibile a partire dall’esistente.

1.2.4. LA DIMENSIONE “INDIVIDUALE” DEL LAVORO EDUCATIVO: LA PROMOZIONE

DELL’AUTONOMIA

Il lavoro educativo è visto anche come un lavoro “individualizzato”, dove l’individualizzazione sembra assumere più significati. Dai coordinatori di CDD e di Comunità minori è vista come “attenzione all’individuale”, quindi come non generalizzazione, e adesione alle concrete e particolari situazioni personali e contestuali con cui l’educatore si trova ad aver a che fare. In ambito psichiatrico, sembra essere concepita come “individualizzazione dell’intervento”, intesa come messa in campo di esperienze, attività strumenti, accorgimenti, di un accompagnamento alla singola persona, quindi come costruzione di un percorso adatto al singolo. Ancora, tale lavoro è visto da alcuni educatori e coordinatori come “servizio alla persona”, capace di tenere insieme uno sguardo allo sviluppo del benessere integrale dell’utente con la capacità di predisporre occasioni, strumenti e condizioni perché il suo sviluppo esistenziale possa dispiegarsi ulteriormente.

Il lavoro “individualizzato”, così inteso, sembra aver quindi come obiettivo quello della promozione dell’autonomia possibile dei soggetti cui si rivolge. Pur nella specificità della connotazione che l’autonomia può assumere per soggetti differenti, in contesti diversi, sembra emergere una visione dell’autonomia come restituzione al soggetto di una propria responsabilità sul proprio corpo, sulle proprie azioni, sulle proprie scelte, in primo luogo quotidiane, anche minime; come possibilità di far sentire e di utilizzare la propria voce; come capacità di elaborazione dell’esperienza vissuta o di comportamenti agiti in un determinato contesto, come sostengono in particolare i coordinatori di Comunità per Minori e di Centri Diurni per Disabili.

Tra le parole pronunciate dagli interlocutori, compare però anche la possibilità, letta da molti come “rischio” che “individuale” significhi anche presa in carico individuale del percorso esistenziale o riabilitativo dell’utente, con la sovraesposizione che questo comporta. Di qui emerge la necessità di un’apertura ad una dimensione di condivisione del lavoro educativo, ad una dimensione “collettiva”.

1.2.5. LA DIMENSIONE “COLLETTIVA” DEL LAVORO EDUCATIVO

Dagli intervistati, infatti, il lavoro educativo è concepito unanimemente anche come lavoro collettivo: un lavoro che non si può fare da soli, non solo perché la solitudine non consente di trovare le risorse culturali e materiali per realizzarlo, ma anche perché l’ambiente sociale che si dischiude al di fuori del singolo servizio sembra essere al tempo stesso oggetto di attenzione pedagogica, di intervento educativo e supporto nella realizzazione di progetti e interventi individualizzati.

Il lavoro educativo è dunque innanzitutto un lavoro che si svolge in équipe, anche se lo spazio dell’équipe sembra essere oggi minacciato da esigenze di razionalizzazione dei costi dei servizi, come nota qualche educatore e formatore. In quanto luogo di confronto, l’équipe assume, nei discorsi degli intervistati, connotazioni ambivalenti: se tutti riconoscono l’importanza “di principio” dell’équipe come potenziale “spazio di pensiero”, tuttavia in particolare chi lavora in équipe multi professionali in contesti sanitari, esprime anche la “sofferenza” che il fatto stesso di essere in équipe spesso può arrecare: quando non solo non si trovino linguaggi comuni o traducibili, ma l’équipe si trasformi anche

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in un contesto competitivo o anche solo operativo e organizzativo. In queste situazioni, il lavoro educativo si disperde, e con esso pare dissolversi quella dimensione professionale vista dagli educatori intervistati come “protettiva” rispetto all’esposizione personale che il lavoro stesso, come abbiamo visto, implica. Le testimonianze degli ex studenti sembrano confermare da un lato le potenzialità, dall’altro le difficoltà che il lavoro in équipe può comportare: la stessa équipe può favorire la creazione di un linguaggio comune, ma, soprattutto quando sia “travolta dal fare”, in sé e per sé non lo può garantire. Di fatto, non è raro trovarsi invece a lavorare “in solitudine”.

La dimensione collettiva del lavoro educativo si esprime anche nel suo essere “lavoro di rete”: come sottolinea chi lavora in ambito psichiatrico e minorile, il lavoro educativo è visto come un lavoro che non si svolge solo all’interno del servizio, ma anche e soprattutto al di fuori di esso, anche se oggi la dimensione istituzionale del lavoro educativo sembra avere il predominio su quella più propriamente progettuale legata all’esplorazione e all’attivazione di nuovi progetti nel territorio.

Anche in questo caso, le diverse posizioni professionali degli intervistati consentono di cogliere le ambivalenze che paiono connotare, oggi, il lavoro educativo come “lavoro di rete e di territorio”. Per chi lavora in psichiatria o in Comunità per minori, il territorio rappresenta un’opportunità nel momento in cui sembra essere un elemento da conoscere, da controllare, da utilizzare all’interno di un progetto educativo (individualizzato, per lo più) come terreno in cui creare le condizioni perché i soggetti coinvolti possano fare esperienza, un’esperienza quindi che non si può pensare possa semplicemente “accadere”. In questo caso, il lavoro educativo sembra aver a che fare con la “creazione dal basso” delle condizioni per l’attivazione di nuovi progetti, oltre che di nuove di relazioni e di rapporti mirati. Da parte di alcuni educatori, il lavoro di rete, nella sua effettualità, rischia di essere svuotato di senso quando si limiti, come spesso succede, a “convocare persone” ad uno stesso tavolo, senza promuovere una più profonda condivisione progettuale. Da parte di altri educatori e formatori, il lavoro di territorio o di rete sembra essere interpretato, per le derive che ha assunto in questi ultimi anni, come un lavoro di “resistenza”, che si svolge per lo più all’interno delle istituzioni dove si lotta per combattere lo stato di degrado qualitativo ed economico in cui si ritiene che i servizi versino. Si tratta, a detta degli intervistati, di “difendere lo status quo”, di mantenere quello che ancora c’è in termini di qualità dell’offerta educativa, piuttosto che lavorare in una direzione progettuale per individuare nuove piste di intervento.

1.3. LE CONDIZIONI DI POSSIBILITÀ DEL LAVORO EDUCATIVO

Per esercitare il lavoro educativo, e soprattutto perché esso mantenga le caratteristiche che abbiamo sopra delineato, assumendone criticamente rischi e ambivalenze, gli interlocutori individuano alcune condizioni da osservare, che hanno a che fare, appunto, con l’istituzione e il mantenimento dell’équipe come luogo di pensiero e di progettazione educativa, con il rapporto quindi con figure professionali diverse da quella educativa, con il lavoro di coordinamento.

1.3.1. IL LAVORO D’ÉQUIPE

Il lavoro d’équipe sembra essere, nei suoi effetti positivi e negativi, un elemento che condiziona lo svolgimento del lavoro educativo, e, in un certo senso la stessa professionalità dei singoli educatori.

Innanzitutto, cosa sia il lavoro d’équipe e come venga pensato, gestito e organizzato è qualcosa che non si può dare per scontato: i coordinatori, in particolare, ribadiscono che “sull’équipe” occorre riflettere e lavorare. Emerge da parte di tutti gli intervistati la consapevolezza che l’esistenza di un’équipe non garantisce il fatto che l’équipe si riconosca come gruppo di lavoro e che “funzioni” come tale. Pertanto, l’équipe appare come un gruppo di lavoro che va pensato, istituito e governato e non semplicemente regolamentato attraverso il ricorso a “risposte di tipo normativo”, come accade in alcuni contesti psichiatrici.

Ciò a cui occorre in primo luogo pensare sembrano essere proprio le logiche e le modalità di istituzione dell’équipe come luogo di lavoro educativo: modalità che paiono rimandare ai modelli pedagogici o riabilitativi presenti nei diversi contesti di lavoro. Da questo punto di vista, la scelta di

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comporre un’équipe omogenea (costituita esclusivamente da figure educative) pare sostenere e accompagnare un modello pedagogico secondo cui ad educare è l’ambiente e non i singoli educatori (coordinatore Comunità per minori); come pure la presenza di un’équipe multi professionale con prevalenza di figure infermieristiche all’interno di un Centro di riabilitazione ad alta intensità rimanda ad un’impostazione sanitaria, come “da ospedale” (educatore in ambito psichiatrico).

Non solo, se l’équipe è intesa come luogo di “lavoro di gruppo”, quasi in contrapposizione ad un lavoro individuale del singolo educatore, occorre occuparsi dell’organizzazione dell’équipe, ovvero di esplicitare, suddividere e distribuire ruoli e responsabilità in maniera chiara per tutti, che può trovare una risorsa, secondo qualcuno, anche in un supporto scritto come il “mansionario”. Il presupposto è che nel lavoro educativo “non ci si può affidare alle soggettività” (all’esperienza di ciascuno) ma occorre “allinearsi” attraverso strumenti che guidino le attenzioni educative di tutti gli educatori, soprattutto se si condivida la filosofia che ad educare non sia il singolo educatore, ma l’ambiente complessivo in cui i soggetti fanno esperienza, come afferma un coordinatore di Comunità per minori.

L’équipe sembra essere un luogo che necessita di pensiero e organizzazione, e quindi di predisposizione, innanzitutto perché è visto come un luogo “difficile da vivere”, in cui non si può entrare “senza mediazioni”: questo è particolarmente sentito quando si lavori in ambito psichiatrico. “Stare in équipe” pare infatti in questo caso richiedere lo stesso lavoro di comprensione, di “rispecchiamento e di seduzione” che si attua con i pazienti, e può affaticare e sfiancare, proprio come il lavoro con i pazienti. È quindi anch’esso un “lavoro complesso”, che esige una “leadership” che comprenda e governi le dinamiche che animano il gruppo. Anche da come viene svolto questo tipo di lavoro sembra dipendere, per i servizi riabilitativi in salute mentale, il rischio di “andare verso il manicomio”. Una regolamentazione semplicemente normativa di ruoli e funzioni piuttosto che l’introduzione di modalità di supervisione che non coinvolgano l’intera équipe non sembrano poter ovviare al rischio di questa deriva.

In questo senso, l’impressione è che, nella centralità che comunque ricopre nel lavoro educativo, quello dell’équipe sia uno spazio trascurato proprio come spazio di manutenzione della “vita psichica” ed anche professionale di un servizio. Così, sottolineano criticamente gli intervistati, non vengono viste, e quindi sfruttate le potenzialità che l’équipe potrebbe avere di costituire e funzionare come “mente” in grado di produrre una crescita complessiva della cultura e delle pratiche di un servizio. Gli intervistati non negano che l’équipe sia un luogo “di potere”, attraverso cui si esercita “un controllo” sulle diverse figure e sul lavoro svolto: questo pare essere evidente soprattutto quando l’équipe è luogo di confronto e “progettazione multidisciplinare”. Dove, sottolinea qualcuno, il “potere” che si esercita sembra assumere connotazioni disciplinari se non repressive. Si tratta però, forse, di imparare a riconoscere “da dentro” cosa si muova nell’équipe, e quindi come interfacciarsi con le diverse variabili in gioco, in modo che la gestione del potere possa cambiare direzione, e rivolgersi da un lato all’oggetto di lavoro del servizio (educativo o riabilitativo) dall’altro al “gruppo” (e non ai singoli professionisti) come protagonisti del lavoro stesso.

1.3.2. L’INTEGRAZIONE FRA LE FIGURE PROFESSIONALI

Tra gli elementi che condizionano il lavoro educativo, l’integrazione delle figure professionali sembra essere quello di gran lunga più problematico. In questo senso, piuttosto che di integrazione, che pare essere un orizzonte auspicato, parrebbe essere più realistico parlare di presenza nello stesso servizio di figure professionali differenti.

Secondo alcuni educatori e formatori, in molti servizi tendono a prevalere logiche corporative e di potere su quelle legate a uno scambio proficuo e a una compenetrazione delle differenti professionalità e dei diversi saperi. In tali contesti, l’educatore è rappresentato o come una figura isolata all’interno di un’equipe che gli restituisce un ruolo minoritario, o come un esecutore cui viene richiesta l’applicazione di qualche tecnica desunta da altri modelli forti. Quando questo succede, si assiste a una perdita rilevante dello specifico del sapere dell’educatore.

In ogni caso, sembra essere la modalità con cui, al di là di protocolli o dichiarazioni di intenti, i professionisti distinguono reciprocamente i loro ambiti di azione, mettendo in campo le loro specifiche

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competenze nelle pratiche quotidiane, a rendere possibile il dialogo e a rendere proficua la collaborazione; purché, appunto, ognuno “rimanga nel suo specifico” e non “si improvvisi” ciò che non è, sottolineano i coordinatori e alcuni educatori in ambito psichiatrico.

Pur essendo molto diffusa, in casi rari la multiprofessionalità può essere evitata: in questo senso i servizi educativi (per esempio per minori) sembrano godere della possibilità di decidere di quali figure dotarsi, più vincolati sembrano essere i servizi sanitari. In ogni caso, la presenza di professionisti diversi sembra venir letta soprattutto come dimensione che rende ancor più complesso un lavoro che di per sé già lo è, nonostante si intuisca la possibilità di arricchimento che da un effettivo scambio tra figure professionali differenti potrebbe avvenire.

In ambito psichiatrico la presenza di medici, infermieri, terapisti della riabilitazione è vissuta come particolarmente problematica. Le condizioni che la rendono tale, e che quindi sembrerebbero da presidiare e governare da parte di figure di coordinamento sono: l’organizzazione degli orari di lavoro dei diversi professionisti: ad esempio, la turnazione degli

infermieri non consente un passaggio di consegne e apre la via al “viaggiare su binari propri”. L’unico coordinamento è organizzativo;

il contesto e la sua leadership: sembra essere il modo in cui il contesto specifico e chi lo dirige pensano e impostano le modalità e le procedure di comunicazione tra le diverse figure, incoraggiano o scoraggiano prassi di lavoro comune, presidiano la complessità del lavoro che i diversi professionisti svolgono a contatto con l’utenza, introducono i cambiamenti istituzionali, a condizionare le possibilità di dialogo e scambio interprofessionale;

la motivazione degli operatori: il “modo” in cui approdano ad un determinato servizio: per scelta, per caso, per costrizione;

la formazione degli operatori, che induce a mettere l’accento su alcune dimensioni del lavoro e su alcune caratteristiche dei pazienti piuttosto che su altre (il riferimento è allo sguardo “sanitarizzato” del terapista della riabilitazione che pare contrastare ma anche bilanciare la maggior capacità di fare e farsi domande propria dell’educatore).

1.3.3. IL LAVORO DEL COORDINATORE

Invocata in alcune interviste come figura “leader”, la figura del coordinatore viene vista, con particolare enfasi da alcuni intervistati, come uno degli elementi che influenza il lavoro educativo, soprattutto nel momento in cui contribuisce ad impostare filosofie e pratiche di lavoro, e crea le condizioni (o meno) perché esse possano essere condivise da tutti i membri dell’équipe.

Quando non svolge semplicemente funzioni di controllo, il coordinatore è visto come una “presenza” che garantisce e presidia il lavoro educativo sia all’interno che all’esterno del contesto; ciò in particolare in servizi come le comunità per minori e i Centri Diurni per Disabili. In questo senso, da parte di alcuni coordinatori sembra essere valorizzato un modo di gestire il potere connesso alla figura di coordinamento come creazione di condizioni di protezione e di espansione del progetto educativo del servizio.

La presenza del coordinatore all’interno del servizio è dimensione “palpabile” nel momento in cui “lasci aperta la porta dell’ufficio” e condivida i turni degli educatori in comunità, svolgendo anche un turno notturno settimanale. Questo ha l’effetto di “garantire stabilità in comunità”, nel caso di una comunità per minori, e in particolare nell’équipe di lavoro. Più in generale, la sua figura ha la doppia funzione di gestire le dimensioni organizzative e procedurali e di presidiare la “qualità della vita” e il “benessere” del suo gruppo di lavoro, come sottolinea un coordinatore di Centro Diurno per Disabili.

Rispetto all’esterno del servizio, il coordinatore sembra avere le medesime funzioni di garante del progetto educativo e culturale del servizio, oltre che di promotore dello stesso presso il territorio e all’interno di contesti politici e istituzionali. Secondo qualche coordinatore svolge, in questo senso, al tempo stesso funzioni di mediazione e di controllo, utili a consentire le condizioni di fattibilità dei progetti educativi proposti agli utenti, anche se oggi, secondo qualche altro coordinatore, anche il suo ruolo sembra più rivolto alla manutenzione del suo servizio che non alla promozione culturale in un tessuto di rete.

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1.4. GLI STRUMENTI DEL LAVORO EDUCATIVO: DAL PROGETTO ALLA DOCUMENTAZIONE

Nei discorsi dei nostri interlocutori vengono citati come “strumenti” a disposizione del lavoro educativo oggetti, pratiche, azioni che paiono essenziali proprio perché in grado di qualificare il lavoro educativo proprio come tale. Alcuni strumenti si desumono dalle concezioni del lavoro educativo precedentemente esposte: il corpo (proprio e altrui), la relazione, il territorio. Il gruppo (degli utenti/pazienti), pur essendo presente nei discorsi, non sembra essere visto come strumento né come particolare oggetto d’attenzione.

Alla dimensione progettuale, invece, viene dato un rilievo notevole. In prima istanza, sembra che il progetto abbia valore “strumentale” in quanto portatore di un valore

“fondativo” rispetto alla professionalità e alla specificità del lavoro educativo. Nei discorsi degli intervistati, il progetto non è tanto e solo il “progetto individuale”, ma sembra indicare l’orizzonte di senso complessivo entro cui pensare ogni intervento educativo e la sua legittimazione. Il lavoro educativo da molti è visto come un “progetto continuo”. In questo senso, il progetto sembra rimandare a “qualcosa di più grande”: ha a che fare con la “progettazione di servizi”, di “progettazione sul territorio”, di “progettazione partecipata”, afferma un formatore. Il progetto pare assumere valore fondativo soprattutto oggi, quando questo orizzonte, agli occhi di chi lavora nel mondo educativo da anni, sembra sia sbiadito, inafferrabile, tramontato. Il progetto pare inoltre rimandare, nelle loro parole, alla dimensione collettiva, comunitaria dell’intervento educativo, a quella capacità - che rintracciano nelle politiche sociali della fine degli anni ‘70 e dei primi anni ’80 - di pensare a un’educazione che fosse a vantaggio di un’intera comunità educante, come sottolinea in particolare un’educatrice associata all’Anep. Oggi questa matrice sembra essersi persa e la difficoltà che incontrano gli educatori sembra risiedere proprio nelle premesse del loro stesso lavoro: a quali condizioni pensare oggi un progetto educativo, su quale sfondo valoriale stagliarlo, interno a quale dimensione di senso? Se il progetto è evocato come una sorta di domanda fondativa e quindi orientativa del e nel lavoro educativo, sembra essere una domanda che interroga ogni “buon professionista dell’educazione”, obbligandolo ad “attraversarla” o quanto meno a cercare una “costellazione di risposte” possibili. In questo senso, il progetto sembra venire identificato con lo stile formativo e professionale dell’educatore, con la sua capacità di non aderire alla mentalità corrente, con la capacità di costruirsi una “voce fuori dal coro”, una capacità critica (educatrice associata Anep).

In questo senso, il progetto diventa anche “strumento” di lavoro, purché non si veda l’attività di progettazione come qualcosa che consente di sfuggire alla relazione con gli utenti, a quello “sporcarsi le mani” che è tipico del lavoro educativo, come sottolinea un educatore che lavora in ambito psichiatrico. Anzi, il progetto sembra proprio svolgere la funzione contraria, quella di creare le condizioni per “sporcarsi le mani”, con sapienza pedagogica.

II progetto sembra dunque qualificare il lavoro dell’educatore in quanto educativo, non solo in quanto orizzonte di senso, ma purché abbia una dimensione concreta, si incarni in azioni, gesti, esperienze, obiettivi effettivamente percorribili e perseguibili, affermano poi coordinatori ed educatori. In particolare il progetto è “la cornice che dà senso al lavoro educativo”: quella dimensione che consente di tenere insieme tutti i pezzi di vita, di quotidianità, anche le azioni e le situazioni ripetitive iscrivendole in una cornice di senso, e quindi riuscendo a trasformare semplici situazioni quotidiane in occasioni di scoperta. La finalità del progetto è la promozione dell’autonomia dei soggetti; in questo senso è un “lungo processo” di cui occorre visualizzare e mostrare tutti le fasi, minuziosamente (coordinatore di Comunità per minori). Il progetto, secondo qualche coordinatore, sembra connotarsi come uno strumento che, a partire dagli obiettivi che si pone, suscita domande nell’educatore, interroga la situazione presente e sollecita l’individuazione di strategie, di “cose da fare”, ancora una volta molto concrete. Quindi serve per individuare, costruire, apprestare attività. In questo senso, si rileva la “fatica” del progettare, come attività continua e continuamente da esplicitare.

Nei discorsi degli intervistati, la dimensione progettuale implica altre dimensioni, che paiono comportare a loro volta l’esercizio di competenze educative e che sembrano assumere un valore strumentale importante nel lavoro educativo: l’osservazione, la valutazione, la discussione in équipe e la documentazione scritta di ogni fase progettuale.

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L’osservazione è concepita da qualche coordinatore come osservazione “in itinere”, e si appoggia a griglie dettagliate e costruite in équipe; la valutazione è pensata a cadenze fisse, ricorrente, e implica un lavoro corale del gruppo degli educatori.

Un coordinatore, in particolare, sottolinea con forza l’importanza della documentazione e degli strumenti di cui si serve: diari, griglie di osservazione, verbali di riunione e di verifica. L’intento è quello di rendere visibile, trasparente e condivisibile in équipe ogni procedura e ogni decisione presa. In questo senso la certificazione di qualità dei servizi, d’obbligo per le procedure di accreditamento regionale, diventa una pratica utile al lavoro educativo sollecitando la documentazione, la scrittura di tutto quello che si fa all’interno del servizio. A condizione, comunque, di non assumerla passivamente, ma di piegarla al lavoro educativo stesso, riformulando schemi, griglie e formulari.

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2. L’IDENTITÀ DELL’EDUCATORE PROFESSIONALE Nei discorsi dei nostri interlocutori appare, dietro al lavoro educativo e allo scenario in cui esso

oggi vive, la figura dell’educatore. Qui, l’accento sembra essere posto maggiormente sull’identità dell’educatore, sulle possibilità di definizione del suo profilo sulla base di competenze condivise e specifiche, oltre che su un sapere che ne sostanzi l’operatività e lo collochi su una linea di pari dignità rispetto a figure professionali affini.

2.1. LE RAPPRESENTAZIONI DELL’EDUCATORE PROFESSIONALE

Alcune immagini mettono in luce particolari caratteristiche dell’educatore professionale e del suo modo di lavorare.

L’educatore professionale è visto per esempio come un motociclista che, a differenza di chi semplicemente usa una moto, conosce la sua moto, e pur non essendo un meccanico sa dove mettere le mani, ne conosce limiti e possibilità, ha “un’attrezzatura adeguata per girare in sicurezza” (educatore in ambito psichiatrico). Un professionista che conosce quindi i suoi strumenti, quelli che gli consentono di viaggiare e anche di divertirsi, ma che ha anche ben in mente la strada da percorrere, o la scopre cautamente, e che conosce se stesso, ciò che prova ma anche ciò che può fare e non può fare mentre guida.

Ancora, l’educatore professionale è visto come un coreuta, una persona che “sa cantare in coro”, che è quindi in grado di lavorare insieme ad altri educatori, suoi pari, “accordandosi” con loro ma anche sapendo affrontare i conflitti che inevitabilmente si danno all’interno di qualunque gruppo (coordinatore di Comunità per minori). Qui l’accento è posto sulla competenza collaborativa, di lavoro in e di gruppo.

Accanto a queste suggestioni, gli intervistati delineano alcuni tratti della figura educativa, mettendo in luce caratteristiche che già le immagini mostrano, ma esplicitandone anche ambivalenze e criticità.

Emerge innanzitutto la questione della specificità professionale, che sembra si definisca sia in rapporto ai contesti sia in rapporto al sapere che supporta la figura educativa.

In relazione ai contesti, pur riconoscendo che la preparazione universitaria consente agli studenti laureati in Educazione professionale uno sbocco privilegiato nei servizi sanitari (in particolare in ambito psichiatrico, in servizi per disabili e anziani), come sottolinea un’educatrice associata all’Anep, l’educatore professionale lavora in tutti i servizi: la “figura professionale è unica”: “non ci deve essere l’educatore psichiatrico, l’educatore per i disabili, l’educatore per i minori”, sostiene un educatore che lavora in ambito psichiatrico. Non per questo, però, secondo educatori e coordinatori, l’educatore può/deve essere un “tuttologo”, né, essendo una figura che non nasce con uno sguardo specialistico, “improvvisarsi psicologo”. Ciò che distingue l’educatore è il suo essere “dentro” l’esperienza, la capacità di “valorizzare le risorse”, il non cercare a tavolino interpretazioni sui comportamenti altrui, ma il fatto di “stare nell’incertezza”, come sottolineano gli studenti laureati. Ciò che distingue la figura dell’educatore, secondo gli stessi educatori, è il suo essere “accompagnatore” di un’esperienza rilevante sul piano esistenziale, il fatto di non avere uno sguardo puntato “sul trauma” o sulla “diagnosi”, anche se il lavoro educativo in ambito sanitario presuppone “interventi su comportamenti-problema”: l’impressione è che l’educatore stia sulla”soglia”, lavori ai confini e quindi veda i limiti degli altri sguardi e interventi professionali; la scommessa parrebbe davvero essere quella di sapersi accordare con essi, portando la propria visione delle situazioni e ascoltandone i pareri, come suggerisce un coordinatore di Comunità per minori.

L’essere “sulla soglia” di altre professioni sembra spesso confondere il sapere che caratterizza la professione educativa, che a volte fatica ad essere specificato, ma si intuisce che sia aderente all’esperienza; nelle parole di qualche educatore e coordinatore viene individuato proprio nella pedagogia come sapere e disciplina. In ogni caso, si tratta di un sapere “aperto”, che poi potrà arricchirsi dei contributi di altri saperi a seconda delle esigenze del contesto di lavoro, come sottolineano alcuni coordinatori

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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In questo senso, pare delinearsi (forse idealmente rispetto alla situazione attuale del mondo dei servizi) una figura che è in grado di articolare un suo approccio e di produrre un suo sapere, un suo modo di conoscere i soggetti con cui lavora e i luoghi in cui lavora. L’educatore professionale, comunque definito dalla sua “pragmaticità”, è visto da tutti gli intervistati però come un “operatore di pensiero”, capace di utilizzare un proprio stile professionale di lavoro, risultante anche dal suo percorso di formazione esistenziale, per portare avanti un’istanza critica e meta riflessiva che esercita anche nei confronti degli altri saperi che dialogano con l’educativo.

Purché, però, esca per primo da uno stato di minorità. Emerge criticamente e con forza, nei discorsi degli intervistati, un’altra immagine dell’educatore: quella dell’educatore “minore”, dell’“adolescente che non vuole diventare grande”; immagine che parrebbe trarre forza dalla convinzione, ritenuta mitica e falsa, che quella della professione educativa come “professione giovane”, come sottolinea un educatore che lavora in psichiatria. L’educatore professionale è visto allora come chi si pone nella posizione di “minore” nel momento in cui non riconosce la “memoria” che contraddistingue la sua professione, e che è depositata proprio nel sapere pedagogico, e quando non riesce per primo a dotarsi di un autoriconoscimento professionale che lo renda adulto agli occhi degli altri professionisti dell’educazione; questo indipendentemente dal conseguimento di una laurea riconosciuta a livello nazionale. Secondo qualche educatore, questo modo di porsi, spiegherebbe perché gli educatori non siano riusciti a costituire un Albo Professionale che avrebbe reso più chiari e forti i propri diritti di categoria e in parte contrastato anche la “debolezza” attribuita alla sua figura. Quasi a conferma dell’alone di minorità o di gioventù che circonda la professione educativa, sta una constatazione: quando si percepisce adulto, chi ha fatto o fa l’educatore a volte sottolinea l’aver allargato o trasformato la propria professionalità, pur nell’ambito formativo, esercitando ruoli e funzioni differenti, quali quello di formare degli educatori, di scrivere di educazione e del “sociale”, di lavorare a livello consulenziale, come emerge dalle parole di un formatore.

2.2. LE RAPPRESENTAZIONI DELLE COMPETENZE DELL’EDUCATORE PROFESSIONALE

Le competenze che tutti gli intervistati attribuiscono all’educatore, e sembrano ritenere indispensabili per l’esercizio della professione educativa, paiono essere “classiche” e soprattutto trasversali: l’educatore deve saper osservare, saper progettare percorsi individuali e di gruppo e interventi territoriali o di rete; deve saper costruire relazioni educative, e quindi saper riconoscere e governare gli aspetti emotivi ed affettivi messi in atto da utenti e educatori in un determinato contesto; deve saper documentare e riflettere intorno al lavoro educativo; deve saper lavorare in équipe, educativa e multiprofessionale. Tutto ciò, esercitando un proprio pensiero autonomo, in una prospettiva in cui è fondamentale la cifra personale, la capacità di metterci del proprio, di sentire che il proprio sapere si è radicato in un’esperienza diretta e coinvolta del lavoro con gli utenti e non ha attinto a fonti solo teoriche a astratte. In questo, forse, pare consistere quella connessione tra “saper fare” e “saper essere” che per gli ex studenti distingue chi fa questo lavoro.

Più precisamente, tali competenze si specificano come: competenze operative e pragmatiche: l’educatore “non si definisce a tavolino”, ma “nel fare”, come

affermano gli ex studenti. Quindi l’educatore deve “saper fare”, ovvero avere e saper utilizzare delle abilità concrete, operative, nella gestione di un ambiente casalingo, piuttosto che nella conduzione di laboratori che consentano all’educando e all’educatore, insieme, di fare delle esperienze utili e significative, da cui si possa imparare qualcosa, secondo coordinatori di Comunità per minori e di Centri Diurni per Disabili. La competenza pragmatica pare consistere nella capacità di dare senso a contesti materiali dotandoli di un forte valore simbolico (fare le pulizie, cambiare le lenzuola, andare a fare la spesa, per esempio), ma anche nel saper essere in una situazione (quindi con l’esercizio di una competenza relazionale) istituendola e credendoci “per davvero”; nel sapersi “mettere in gioco” interpretando la propria parte (educativa) ma nello stesso tempo in maniera autentica (per esempio quando, in comunità, si organizzino momenti di festa che richiedono di essere vissuti come tali da tutti gli attori coinvolti, per poter davvero “lasciare il segno”). Tale

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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competenza sembra riguardare anche la capacità di saper utilizzare tecniche o metodi specifici adattandoli alla situazione e agli utenti “reali”, senza assumere derive tecnicistiche;

competenze relazionali: sempre secondo i coordinatori di Comunità e di Centro Diurno, l’educatore non solo deve saper riconoscere emozioni e affetti in gioco, ma anche saper vivere e interpretare, nei contesti specifici, ruoli affettivamente densi (genitoriali o parentali) e “saper usare la propria affettività”, saper utilizzare i propri sentimenti all’interno di situazioni e relazioni particolari, ed essendo in grado di “uscirne”, distaccandosi dal peso della sofferenza che inevitabilmente si incontra anche attraverso gesti di autocura e modalità di presa in carico del proprio vissuto emotivo;

competenze ermeneutiche e riflessive: si tratta di saper comprendere, “continuamente”, quello che accade nelle situazioni educative chiedendosene il senso a partire dai contesti e da ciò che particolarmente accade; di sapersi porre domande su quello che si fa in modo tale da poter ricalibrare l’intervento; di saper riconoscere, dare nomi a quello che accade e quindi agire con maggior presenza e maggior consapevolezza; saper nominare stati d’animo e ricercare significati nell’esperienza che si sta vivendo, come rimarcano in particolare educatori che lavorano in ambito psichiatrico e coordinatori di Centri Diurni per Disabili. Tutto ciò implica e a tutto ciò consegue la capacità di valorizzare e legittimare il proprio sguardo e il proprio sapere anche di fronte ad altre figure professionali, esercitando contemporaneamente la capacità di comprendere come altri saperi ed altri sguardi possano concorrere all’ampliamento dei progetti educativi oggetto del proprio lavoro;

competenze documentali: a sostegno ma forse anche come possibilità di formazione delle competenze citate, è vista la capacità di costruire gli strumenti documentali che consentono di “avere tutto sotto controllo” e saperli utilizzare; si tratta, per gli educatori, di imparare a scrivere l’esperienza educativa, come sottolineano alcuni educatori e coordinatori.

2.3. LE RAPPRESENTAZIONI DEL SAPERE PEDAGOGICO

Il sapere pedagogico sembra essere rappresentato in generale nel suo scarto rispetto ad un sapere tecnico, a quei saperi che propongono soluzioni. In particolare è un sapere definito attraverso la sua “assenza”: non è depositato nei libri, non è allora “sempre presente”, ma è un sapere che si forma nell’esperienza, attraverso l’esperienza e nelle situazioni; da educatori e coordinatori che lavorano e hanno lavorato in ambiti diversi, è descritto come un sapere situazionale, che nasce dalla conoscenza che in un determinato momento e in un determinato contesto si ha di quella persona, delle modalità con cui si incarnano in situazioni reali le problematiche, i disagi, i “comportamenti problema” per cui esistono i servizi. Allo stesso tempo, è un “sapere che allena lo sguardo”, “che sta alle spalle”, di cui ci si deve accorgere proprio perché è anche frutto dell’esperienza ripetuta, come sottolinea un coordinatore di Centri Diurni per Disabili. Quindi, si tratta di un sapere che nasce dalla valutazione dell’esperienza.

Pur non essendo un sapere preconfezionato, questo sapere ha una sua tradizione, una sua “memoria”: per qualcuno (educatore in ambito psichiatrico, coordinatore di Centro Diurno per Disabili) essa è depositata proprio nella “pedagogia”, che pare essere descritta da un lato come “storia della pedagogia”, o storia delle esperienze educative, piuttosto che come luogo in cui appunto si riflette su cosa sia l’educazione, quasi alludendo ad un approccio filosofico all’educazione.

Come già accennato, la consapevolezza di questo “nucleo” del sapere pedagogico non pare essere diffusa, né così chiara al mondo educativo. Sembrerebbe quindi importante “riscoprire” un sapere che, pur nella sua assenza, esiste ed è anche depositato sui libri; sempre che appunto dai libri non si pretendano solo tecniche da applicare tout court alle situazioni operative, come sottolineano educatori e coordinatori in ambito psichiatrico e disabilità.

Se questo sapere sembra dare le basi alla professione educativa, nei servizi poi necessita di espandersi: non solo di confrontarsi con altri saperi, ma anche di cercare altrove, presso altre discipline, altre tradizioni di ricerca quello che altri hanno scoperto, pensato, fatto; perché anche questo può aiutare ad istituire con intelligenza e consapevolezza situazioni educative e a governare le

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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relazioni che in esse si danno. In questo senso, il sapere, ma anche la professione pedagogica, si “aggiorna”: quando per esempio si affaccia sulle scienze dell’alimentazione, sull’igiene o sulla sessualità nel caso in cui si lavori in Comunità per adolescenti, o quando si accosti alle problematiche specifiche delle dipendenze quando si lavori in psichiatria.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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3. I “NUOVI” EDUCATORI A fronte della rappresentazione dell’identità degli educatori, quindi in qualche modo di un modello

cui tendere nel lavoro educativo e nell’essere educatori, sembra importante comprendere come il mondo del lavoro, attraverso le parole dei professionisti dell’educazione, pensi e veda i “nuovi” educatori, ovvero coloro che oggi fanno il loro ingresso nel mondo educativo. Quindi, innanzitutto, come veda gli studenti che si stanno formando, in particolare quando li incontri in quanto tirocinanti, e quale rappresentazione circoli rispetto ai “giovani” educatori.

Alle rappresentazioni che il mondo del lavoro ha di questi “nuovi” educatori, si affiancano le rappresentazioni che gli educatori laureati offrono di se stessi sia nei loro discorsi, sia nelle risposte ai questionari loro inviati.

3.1. LE RAPPRESENTAZIONI DEGLI STUDENTI E DEI TIROCINANTI

Gli studenti che i coordinatori e i professionisti hanno in mente sembrano essere gli studenti universitari “in generale”: compaiono le distinzioni tra studenti che frequentano il Corso di Laurea in Educazione Professionale e quelli che frequentano il Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione soprattutto da parte di chi li incontri in quanto tirocinanti nei propri servizi, ma tali differenze, che constatano la maggior preparazione dal punto di vista operativo degli uni e la maggior preparazione dal punto di vista culturale degli altri, non sembrano essere così rilevanti rispetto al dato che pare essere maggiormente rimarcato, ovvero quello di provenire da un corso di studi universitario.

Chi ha esperienza di studenti non universitari ma ancora frequentanti le scuole superiori, dipinge gli studenti universitari come “interessati” e “curiosi”; nel caso specifico, gli studenti dell’istituto professionale per tecnici dei servizi sociali sono ritratti invece come “una barca senza ormeggi alla deriva”, a sottolineare un disorientamento molto profondo, quasi esistenziale, e non solo nei confronti della realtà educativa (educatore in ambito psichiatrico).

Nei discorsi dei coordinatori e dei professionisti, di fatto, sembra che gli studenti universitari sommino queste due caratteristiche (entusiasmo e disorientamento), in maniera complessa, contraddittoria, ambivalente. Le rappresentazioni che emergono paiono risentire, in ogni caso, sia del confronto con la propria esperienza di studenti (della Scuola Regionale per Educatori professionali) che in molti coordinatori, formatori e educatori è molto presente, sia dell’incontro effettivo con studenti e studentesse nei panni di tirocinanti all’interno dei loro diversi contesti di lavoro. L’impressione è che le caratteristiche attribuite agli studenti mostrino ambivalenze e contraddizioni proprio perché lo sguardo dei professionisti coglie di volta in volta prerogative differenti, ma tutte presenti, in momenti e contesti particolari e diversi, nell’esperienza degli studenti e dei tirocinanti.

In generale, gli studenti universitari vengono visti come “mancanti” di esperienza, come “vergini rispetto all’esperienza”, come afferma un coordinatore di Centro Diurno per Disabili. Sono “giovani”, ancora “adolescenti”, secondo un educatore che lavora in ambito psichiatrico, e quindi hanno poca esperienza di vita e “non hanno neanche visto come funziona” l’educazione, il servizio, secondo un formatore. Anche per questo, forse, appaiono agli occhi di tutti come persone “disorientate”, soprattutto rispetto alla realtà e alle situazioni educative, in qualche modo “scollegate” rispetto ai fatti e alle situazioni concrete, che si trovano ad affrontare nei servizi, come se esse fossero loro del tutto estranee. Inoltre, “fanno fatica a individuare lo specifico educativo”.

In questo senso, quando entrano nei servizi come tirocinanti, sembrano essere “insicuri”, soprattutto “impauriti” dall’esperienza che li aspetta: chi lo è troppo, infatti, sceglie ambiti che ritiene più familiari, “sceglie i bimbi”, come afferma la coordinatrice del Centro Diurno per Disabili interno alla Fondazione. Se la disabilità, a chi svolge il Corso di Laurea in Educazione Professionale, sembra essere più familiare, comunque l’esperienza della disabilità sembra “spiazzante” e provocare reazioni di chiusura o la ricerca di soluzioni immediate nel farsi dire “come si fa”, ma anche di apertura, di richiesta di elaborazione, di aiuto nella comprensione.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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In questo, secondo un coordinatore, gli studenti attuali non sono cambiati rispetto agli studenti di qualche anno fa: tutti si trovano nella condizione di imparare e soprattutto di imparare a stare in nuovi contesti; questo semmai oggi è più complesso rispetto a qualche anno fa proprio perché i servizi sono cambiati, c’è “confusione”, c’è un lavoro spesso frammentato nella partecipazione a équipe diverse, e lo studente, secondo qualche educatore, si trova “catapultato in una realtà che si scinde in due parti”, ovvero tra il lavoro di sostegno e progettazione del servizio e il lavoro quotidiano con l’utenza.

L’insicurezza e l’immaturità dal punto di vista esperienziale sembrano essere lette, dagli intervistati, come caratteristiche che si saldano ad un altro tratto: la “presunzione” degli studenti universitari, intesa nel senso letterale del termine, ovvero il fatto di credere di sapere “solo perché hanno letto dei libri”. In realtà, paiono essere studenti che faticano a mettersi in gioco, a porsi domande, a mettere in discussione le loro idee ingenue, dipinte dai coordinatori e professionisti come pregiudiziali, a passare dalla dimensione teorica e scolastica (l’essere in aule con 250 persone) ad una dimensione pratica, operativa, di riflessione sull’esperienza anche intima e personale che vanno vivendo. Sono ritratti dalla maggior parte dei nostri interlocutori come studenti che fanno fatica a esercitare una “capacità negativa”, che hanno l’ansia di trovare risposte e che cercano strumenti risolutivi. Studenti che faticano a comprendere anche i confini del loro ruolo di tirocinanti, soprattutto quando si trovino a contatto con utenti vicini a loro per età, di cui accade che si innamorino, come sottolinea un coordinatore di Comunità per minori. Tuttavia, sembrano anche essere studenti che, nel momento in cui, proprio durante l’esperienza di tirocinio, vengono “agganciati” “prendendo sul serio” e quindi “decostruendo pregiudizi” che loro stessi sentono stretti sulla loro pelle o che “li toccano da vicino”, quando “ci si confronti” con loro, poi “fanno un salto”, si mettono in movimento, si coinvolgono nelle relazioni all’interno dei servizi, mostrano potenzialità importanti da un punto di vista educativo e approcci già quasi professionali, come evidenziano i coordinatori dei Centri Diurni per Disabili.

Insomma, l’impressione è che ci si trovi di fronte a persone che stanno imparando, che devono ancora imparare. Dove l’imparare non è ovviamente relativo solo all’acquisizione di contenuti, ma alla costruzione di un proprio modo di essere educatori nei diversi contesti. L’impressione, tratta dai discorsi di educatori e coordinatori, è che debbano imparare tutto, anche a comprendere l’importanza degli “aspetti formali” del lavoro educativo, che debbano capire come porsi, come dire le cose, come comunicare e ancora che debbano imparare anche a scrivere.

Ciò che fa la differenza, ciò che riesce a far giocare in positivo questo punto di partenza, pare ancora una volta essere la motivazione con cui gli studenti accedono al Corso di laurea. Una motivazione che, se molti coordinatori riconoscono ancora come “passione” per il lavoro educativo, sembra però non poter essere data per scontata. Da questo punto di vista, si individua nel dispositivo di selezione universitario e nelle modalità di scelta che generalmente si mettono in atto rispetto all’opzione universitaria (l’attrazione culturale rispetto agli insegnamenti previsti dal Corso, piuttosto che le attese e le prefigurazioni di carriera) un elemento che indebolisce la motivazione degli studenti.

3.2. LE RAPPRESENTAZIONI DEI “GIOVANI” EDUCATORI

Il ritratto del “giovane” educatore, nelle parole dei professionisti dell’educazione e i coordinatori, non sembra differire sostanzialmente, pur nella sua complessità, da quello che è stato tratteggiato per gli studenti e tirocinanti; certo soprattutto perché il nuovo educatore è l’educatore laureato, ma anche, forse, perché comincia a lavorare in un mondo del lavoro che è davvero cambiato soprattutto dal punto di vista del clima culturale e dello spazio che apre o riconosce all’educativo. Gli ex studenti, in questo senso, sono molto espliciti: il mondo dei servizi è segnato da una rincorsa al “fare”: i momenti di confronto e di pensiero sembrano essere legati solo ai momenti formativi, e abitare poco o per nulla il mondo del lavoro reale. Gli studenti, dal canto loro, si chiedono come mantenere ciò che hanno appreso senza “scendere a troppi compromessi”.

La caratteristica dei nuovi educatori che spicca maggiormente agli occhi di coordinatori e di professionisti sembra essere una mancanza di autonomia, cui si aggiunge un certo disorientamento. I nuovi educatori sembrano essere più “rigidi”, cercare o mantenersi su binari maggiormente specialistici o specializzati, e quindi in un certo senso integrati in una diversa ma piuttosto affermata

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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logica del lavoro sociale e sanitario. In questo senso, agli occhi di formatori ed educatori, sembrano essere dotati di meno strumenti – rispetto alla vecchia generazione di educatori, quella delle Scuole regionali – per poter vedere e “tenere insieme” le diverse anime in cui il lavoro e i contesti educativi si trovano oggi ad essere divisi: il lavoro di progettazione e di implementazione dei servizi, funzionale ad una loro trasformazione; il lavoro per progetti, che richiede uno sguardo più ampio e consapevole di vincoli amministrativi e dei confini e delle connotazioni politiche degli interventi; il lavoro a diretto contatto con l’utenza, in cui soprattutto i nuovi educatori sembrano “affogare”.

Sembrano essere anche educatori che possiedono meno strumenti di elaborazione del lavoro educativo, soprattutto rispetto al coinvolgimento e all’esposizione personale che esso comporta, come sottolinea chi lavora come educatore in psichiatria. Le competenze trasversali che hanno appreso (operative, critico-rielaborative, cooperative, comunicative) sembrano essere ancora da perfezionare e da sostenere, così come da sostenere pare essere la loro motivazione. Nella constatazione di tutto ciò, emerge dalle parole di molti intervistati una certa nostalgia per “altri” educatori, quelli “usciti” dalle Scuole Regionali, la cui formazione pareva essere più “compiuta”.

Secondo i coordinatori e gli educatori, i “nuovi” educatori fanno così il loro ingresso nel mondo del lavoro per vari ordini di motivi: per una formazione diversa, che pare essere più anonima e contenutistica, meno centrata sul lavoro su di sé; per una formazione che ha goduto meno dell’opportunità di lavorare attraverso e con il confronto di gruppo e che poco sembra aver utilizzato le équipes dei servizi di tirocinio come oggetti e contesti formativi; per un’esperienza di carattere soprattutto personale, e quindi poco monitorata dal punto di vista formativo, degli aspetti affettivi (in particolare il conflitto e l’identificazione con l’utenza) che il lavoro educativo comporta.

Tutto ciò sembra, nei discorsi degli intervistati, rendere i nuovi educatori più “fragili”, più esposti al rischio di “bruciarsi” nel rapporto diretto con l’utenza o con i colleghi anche di professionalità diverse, e quindi più “difesi” nelle relazioni, meno capaci di tollerare l’incertezza e più inclini a cercare soluzioni, tracce della propria professionalità in mansionari che la disciplinino piuttosto che in un associazionismo di cui fanno fatica a comprendere le stesse motivazioni di esistenza, come sottolineano alcuni educatori.

Questa immagine un po’ arroccata, forse, trova la sua ragion d’essere anche in un cambiamento dell’approccio nei confronti del lavoro educativo, conseguente al cambiamento del “mercato” del lavoro educativo: da più voci la situazione di precarietà lavorativa è rilevata come condizione che influisce prepotentemente non solo sulle forme e sulle possibilità del lavoro educativo ma anche sulle modalità e sulle prospettive con cui i “nuovi” educatori entrano in esso. Precarietà intesa non tanto come difficoltà a trovare o a inserirsi nel mondo del lavoro: molti cominciano a lavorare prima di laurearsi. Intesa piuttosto come turn over, come impossibilità di mantenere a lungo un lavoro, per cui la prospettiva comune è “cambiare lavoro dopo 2 o 3 anni”, come afferma un formatore, non solo per propria volontà, ma perché i servizi chiudono, i progetti cambiano, i finanziamenti spariscono. Ancora, la precarietà si mostra nella necessità di accettare contemporaneamente 3 o 4 incarichi su progetti o in contesti lavorativi diversi: si tratta di “arrivare a fine mese”, e non più di una scelta.

È un’immagine, quella del nuovo educatore, che pare essere caratterizzata quindi da pessimismo, rispetto a cui si sente una caduta di speranza, che rispecchia il modo con cui si ritrae la situazione attuale del lavoro educativo. Una luce, anche se fievole e problematica, sembra venire dalla formazione intesa come long life learning, anch’essa però ricca di problematicità.

3.2.1. GLI EDUCATORI “LAUREATI” DICONO DI SÈ

A questi ritratti, si affiancano le rappresentazioni che danno di sé gli ex studenti, ormai educatori inseriti nel mondo del lavoro da tempo. Tali rappresentazioni sono integrate dai dati rilevati attraverso un sondaggio che, come accennato nella prima parte della ricerca, sembra assumere un valore indicativo rispetto ad alcune linee di tendenza.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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3.2.2. GLI EDUCATORI LAUREATI, A PARTIRE DALLE LORO PAROLE

Gli educatori laureati si dipingono innanzitutto come persone che lavorano nel mondo educativo da tempo: alcuni lavoravano già prima di iniziare l’università, altri avevano alle spalle consistenti esperienze di volontariato pregresse. La loro attuale occupazione è complessa: alcuni aggiungono alle funzioni educative funzioni di coordinamento, e tutti hanno alle spalle un percorso fatto di cambiamenti, in cui hanno visto luoghi e conosciuto utenze differenti.

Lavorano sia in ambito educativo e sociale (servizi per minori, adulti in situazione di grave marginalità) sia in ambito sanitario e riabilitativo (centri di inserimento lavorativo persone con epilessia, servizi per la disabilità), sia nel pubblico (ospedale, Comune) che nel privato sociale (cooperative sociali, associazioni).

Dipingono il loro percorso di formazione universitario a tinte forti e positive: la scelta del Corso di Laurea, motivata dall’esigenza di trovare non solo “contenuti”, ma anche e soprattutto “strumenti” per “accostarsi” all’utenza con più sicurezza o con più “risposte”, si è rivelata felice.

Il Corso di Laurea pare in effetti aver rappresentato un’occasione unica: in Fondazione Don gnocchi hanno trovato docenti, teorie ma soprattutto un approccio, uno stile di lavoro che pare averli profondamente segnati. L’intero percorso, e in particolare il tirocinio e l’insegnamento di Guida al Tirocinio, è ritratto come qualcosa che “ha messo in discussione” se stessi, che ha “scombussolato” idee, stili educativi, che ha “posto delle domande”, che ha innescato percorsi di ricerca, che ha supportato nel lavoro quotidiano, quando già impegnati in qualche servizio.

Del Corso di laurea paiono apprezzare particolarmente l’avvicinamento “precoce ai servizi”, e quindi la dimensione pragmatica e insieme quella rielaborativa: quel continuo rimando tra teoria e pratica, dove la teoria contraddittoriamente “viene prima” della pratica quando è vista come orientamento all’azione, come una sorta di antidoto per non “essere gettati nell’esperienza”, ma “viene anche dopo”, quando è vista come ciò che consente di comprendere un accadere educativo che è visto come qualcosa di molto complesso, come un “tetraflessagono”. In ciò, essi sembrano indicare il loro maggior guadagno formativo: questo continuo intreccio di teoria e prassi, accanto al confronto con docenti anche professionisti del mondo del lavoro educativo, ha permesso loro di imparare a “sapere fare ma anche a saper essere”, riconoscendo come essenziale in ogni percorso formativo il coinvolgimento di una dimensione esistenziale. Si tratta quindi, di un Corso di laurea che trasforma, che forma un approccio che consente di adattarsi ad un mondo del lavoro “in continuo cambiamento”, unendo competenze operative e relazionali a competenze riflessive e personali.

L’ubicazione del Corso di laurea in Fondazione è generalmente visto come una condizione che influenza positivamente il percorso formativo: è lì che si conoscono i servizi, che si conoscono gli utenti incontrandoli nei corridoi “mentre si va a lezione”. L’università, nei loro discorsi, è poco citata: l’impressione è che non sia vista, e che la formazione svolta sia davvero, nei loro vissuti, situata “in Don Gnocchi”.

Ciò sembrerebbe essere confermato dal modo in cui gli educatori intervistati ritraggono la formazione universitaria in generale: come un contesto dove quell’intreccio tra teoria e pratica, così importante, non è garantito, e soprattutto non è garantito un percorso di effettiva “trasformazione del personale” in competenza professionale. L’Università pare essere il luogo “della teoria”, e gli studenti che la scelgono sembrano essere dipinti come molto differenti dagli studenti che essi stessi erano: animati da motivazioni diverse, sia nella scelta del corso di studi, sia nel senso attribuito ad esso (“studiavamo per il piacere di farlo, adesso invece è tutto più legato al credito”). Soprattutto, sono studenti che “si sono costruiti una fantasia della professione”: vogliono coordinare, ma non hanno “capito cos’è l’educatore professionale”, e come tali “non sono in grado di agire di conseguenza”.

La loro rappresentazione dell’educatore professionale sembra essere coerente con il modo in cui ritraggono il percorso formativo: la “professionalità si acquista nell’esperienza”, si perfeziona nel lavoro di équipe, che occorre “saper sostenere”, ma occorre “prendersi lo spazio per rielaborare, approfondire i contenuti”, altrimenti si rischia di essere travolti dal “fare” che pare caratterizzare il mondo del lavoro educativo.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Se la formazione, infatti, è vista come un “percorso di crescita” anche personale e di “confronto” con gli altri, il mondo del lavoro è ritratto con parole in cui sembra riecheggiare un sentimento di delusione: “travolge” e non favorisce scambi, ma produce solitudine. Di qui l’esigenza di “tornare in formazione”, iscrivendosi a Corsi di Laurea Magistrale in cui si spera di trovare ciò che aveva caratterizzato la formazione precedente, o di avere percorsi di supervisione, o comunque di fruire di una formazione continua.

3.2.3. IL SONDAGGIO PRESSO GLI EDUCATORI LAUREATI

a cura di Giovanni Valle

Il sondaggio, che ha coinvolto in prima battuta gli studenti laureati del Corso di Laurea Educazione Professionale ubicato in Fondazione Don Gnocchi e in un secondo momento gli studenti laureati del’omonimo Corso di Laurea ubicato presso la sede dell’IRCCS Medea di Bosisio Parini, che negli anni scorsi ha realizzato il corso in Educazione Professionale con l’Università dell’Insubria, ha avuto lo scopo di raccogliere informazioni principalmente riguardo due elementi: i settori occupazionali in cui i laureati in Educazione Professionale trovano impiego; le aree di formazione che i laureati ritengono siano maggiormente servite nella propria esperienza

professionale. Indagando sul primo aspetto, si è inteso verificare se gli sbocchi occupazionali fossero conformi a

quelli indicati dal profilo professionale o se, con l’avvio della formazione presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia vi fosse una prevalenza del settore sanitario. Va ricordato, a tal proposito, che il profilo professionale definito con Decreto Ministeriale 520/1998 stabilisce che “l'Educatore Professionale è l'operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell'ambito di un progetto terapeutico elaborato da un'equipe multidisciplinare, volti a uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo/relazionali in un contesto di partecipazione e recupero alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psico-sociale dei soggetti in difficoltà.” Inoltre, si decreta che “L'educatore professionale svolge la sua attività professionale, nell'ambito delle proprie competenze, in strutture e servizi socio-sanitari e socio-educativi pubblici o privati, sul territorio, nelle strutture residenziali e semiresidenziali in regime di dipendenza o libero professionale”. Come si può vedere, per l’Educatore Professionale si delinea un campo di impiego molto vasto. Le domande poste ai laureati hanno riguardato il settore d’impiego, pubblico o privato, ma soprattutto l’ambito e l’area.

Relativamente alle aree di formazione, l’interesse era capire quali siano ritenute più utili in riferimento alla pratica educativa nei servizi. Si è preferito usare la categoria dell’area, anziché della singola materia, per avere un’informazione meno dispersiva.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Gli studenti che si sono laureati frequentando il corso di laurea presso la sede della Fondazione Don Carlo Gnocchi sono stati 123 fino al dicembre 2009. Complessivamente sono stati compilati 67 questionari, pari al 54,5% sul totale.

Relativamente al settore d’impiego si osserva una prevalenza di quello privato e delle cooperative sociali come maggior ambito di lavoro. Da notare il 13% relativo alla sanità privata.

Settore impiego risposte % settore impiego

% sui totali

Pubblico

ASL 4 30,8

Azienda ospedaliera 5 38,5

Enti Locali 4 30,8

TOTALE 13 19,4 100,0

Privato

Cooperative sociali 36 66,7

Associazioni 6 11,1

Sanità privata 7 13,0

Altro 5 9,3

TOTALE 54 80,6 100,0

TOTALE 67 100,0

L’ambito di lavoro prevalente è quello socio educativo (46,3%). Sommando ambito sanitario e socio

sanitario si ha un 53,7%. Questo indica che gli ambiti d’impiego sono in linea con quanto definito dal profilo e che non parrebbe esserci, allo stato attuale, un educatore “sanitario” in quanto formato presso le Facoltà di Medicina e Chirurgia ed uno “sociale” perché formato in ambito diverso.

Questo dato può essere considerato da un lato in relazione al bisogno di Educatori Professionali formati, presente nei servizi, che quindi “assorbono” laureati nei diversi ambiti; dall’altro in relazione agli interessi personali che spesso orientano le scelte degli educatori.

risposte % %

A - Sanitario (psichiatri, neuropsichiatria infantile, ecc.) 14 20,9 53,7

(A+B) B - Socio-sanitario (disabilità, dipendenza, ecc.) 22 32,8

C - Socio-educativo (minori, infanzia, famiglia, ecc.) 31 46,3 46,3

TOTALE 67 100 100

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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Quanto detto pare essere confermato dalle informazioni raccolte dall’IRCCS Medea. Da questi dati, risulta che il 56,9% degli educatori laureati opera in servizi sanitari e socio-sanitari e il 43,1% in servizi socio educativi e altro. Le aree d’impiego maggiormente segnalate sono quelle dei minori, della disabilità e della neuropsichiatria infantile. Le risposte sono più di 67 in quanto in alcuni casi l’operatore è impiegato contemporaneamente su aree diverse nella stessa organizzazione o con organizzazioni diversi.

risposte %

Psichiatria 2 2,7

Neuropsichiatria infantile 10 13,5

Disabilità 20 27,0

Anziani 4 5,4

Dipendenze 4 5,4

Minori 25 33,8

Prima infanzia 4 5,4 Altro (Carcere, Grave emarginazione, Migranti,

ecc.) 5 6,8

TOTALE 74 100,0 Considerando il tempo trascorso dalla laurea al primo impiego, si nota che al termine del corso di

studi il 28,4% degli studenti era già occupato. Inoltre, quasi il 60% ha trovato un impiego entro 6 mesi dalla laurea. Questo pare confermare la presenza di una buona offerta del mercato, anche se andrebbero indagati maggiormente le tipologie di contratti attuati.

Colpisce certamente il dato relativo all’occupazione “pre-laurea”. Questo fenomeno sembra essere dovuto principalmente a due fattori. Non è infrequente che l’esperienza di tirocinio rappresenti una “porta d’accesso” al mondo del lavoro. In alcuni casi i servizi chiedono al tirocinante di avviare una collaborazione professionale ancor prima che il percorso formativo termini. Una seconda ragione si può rintracciare nel fatto che alcuni studenti si avvicinano alla formazione dopo aver già cominciato a lavorare come educatori. Questi elementi paiono mettere in luce una contraddizione: da un lato sembra esservi il bisogno, da parte dei servizi, di educatori formati e laureati, anche per rispondere ai requisiti di accreditamento; dall’altro i servizi paiono impiegare operatori non formati o che “si formano sul campo”.

Entro quanto tempo ha trovato lavoro? Risposte %

entro 1 mese 14 20,9

entro 3 mesi 11 16,4

entro 6 mesi 15 22,4

entro 12 mesi 8 11,9

lavorava già 19 28,4

TOTALE 67 100,0

L’ultima tabella riporta le risposte alla domanda: “di ciò che ha fatto nel corso, cosa le è servito

ed ha usato di più nel lavoro? Esprima un voto da 1 (per nulla) a 10 (molto)”. I dati sembrano confermare la rilevanza dell’area professionalizzante. Da notare sembra il fatto che

tutti gli insegnamenti comunque sono valutati sopra il 7. La maggior distribuzione si osserva nell’area sanitaria, comunque con una prevalenza positiva. La minor distribuzione nel Tirocinio. Queste risposte

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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sembrano mostrare l’utilità (e quindi forse la necessità) di una formazione che consideri le diverse componenti riferite alle competenze dell’Educatore Professionale, formazione rafforzata da una consistente esperienza di tirocinio e da una rilevante parte di riflessione sull’esperienza, che si svolge nella docenza di Guida al Tirocinio. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 totale

Tirocinio 1 2 5 9 19 31 67

% 1,49 2,99 7,46 13,43 28,36 46,27 100,00

Guida Tirocinio 1 1 1 1 9 15 17 22 67

% 1,49 1,49 1,49 0,00 1,49 13,43 22,39 25,37 32,84 100,00

Area Metodologica 1 1 11 22 20 12 67

% 1,49 1,49 16,42 32,84 29,85 17,91 100,00

Area Psicologica 1 2 5 11 28 17 3 67

% 1,49 0,00 2,99 7,46 16,42 41,79 25,37 4,48 100,00

Area Pedagogica 3 3 13 23 23 2 67

% 4,48 4,48 19,40 34,33 34,33 2,99 100,00

Area Sanitaria 2 2 2 4 10 13 19 13 2 67

% 2,99 0,00 2,99 2,99 5,97 14,93 19,40 28,36 19,40 2,99 100,00

Area Socio antropologica 2 4 12 21 13 10 5 67

% 2,99 5,97 17,91 31,34 19,40 14,93 7,46 100,00

Area Giuridica 1 1 1 4 9 17 18 10 6 67

% 1,49 0,00 1,49 1,49 5,97 13,43 25,37 26,87 14,93 8,96 100,00

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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4. LA FORMAZIONE DELL’IDENTITÀ PROFESSIONALE

4.1. LE RAPPRESENTAZIONI DELLA FORMAZIONE DI BASE

4.1.1. LE IMMAGINI DELLA FORMAZIONE

La formazione di base, che consente agli educatori di acquisire competenze e strumenti indispensabili per poter esercitare adeguatamente questo mestiere, viene descritta attraverso immagini e metafore interessanti, tra loro molto differenti, in grado di illuminare caratteristiche differenti della formazione “desiderata” ma anche “attuale”.

Tre di queste immagini connettono la formazione ad un’arte, ad un’attività umana svolta per piacere, soprattutto; un’attività culturale.

La formazione è allora vista da un coordinatore di Centro Diurno per Disabili che si occupa, nell’ambito del suo incarico, di seguire i tirocinanti, come un’”opera d’arte”, che si compone di molte dimensioni e colori; un’opera che assume senso proprio nel momento in cui l’artista la produce, e che, quando è compiuta, mostra qualcosa di nuovo, di inaudito, per sé e per gli altri. L’artista, che viene assimilato al formatore, non sa cosa sarà, quest’opera; sa solo che potrà comparire qualcosa di originale per sé e per i propri allievi mettendo a disposizione la propria esperienza personale e professionale. Come se l’esito della formazione non fosse mai prevedibile, ma si producesse nel processo di svolgimento della stessa. L’”opera d’arte”, inoltre, sembra poter rappresentare la formazione, o meglio “l’azione del formare” perché è il precipitato di “tecnica e creatività”, in cui tecnica e creatività insieme danno luogo a “qualcosa di sensato e di originale”, nel momento in cui la tecnica non spezza la spontaneità ma la piega dentro una “cornice” che le restituisce senso. Dove la tecnica, evidentemente, non è “tecnicismo” e la creatività non è mera “spontaneità”. La formazione sembra essere ritratta, in questa immagine, mettendo in luce caratteristiche che appartengono essenzialmente all’educazione: sembra porsi in tutta la sua complessità la questione del rapporto che intercorre tra il lavoro educativo e il lavoro formativo, quando a formare siano coordinatori o educatori e quando a essere formati siano “futuri” educatori.

Ancora, la formazione è vista, da un coordinatore di Comunità per minori, come l’arte che si apprende per imparare a cantare in un coro: c’è qualcuno che insegna e che guida per consentire a qualcun altro, che si sta formando, di trovare nel coro il proprio posto, scoprendo l’originalità della propria voce, e comprendendo ritmi e modalità con cui affermarla. La formazione utilizza anche in questo caso tecnica e creatività; il suo scopo è quello di condurre ciascun allievo a scoprire e ad assumersi le proprie responsabilità, agendole autonomamente, ma in gruppo.

Oppure, come mostra l’immagine espressa da un educatore in ambito psichiatrico, la formazione è ciò che consente ad un motociclista di padroneggiare la propria moto e di esplorare percorsi nuovi, e quindi di ampliare nel tempo le sue competenze e le sue conoscenze, anche in direzione specialistica e tecnica. La formazione sembrerebbe implicare quindi una passione, da coltivare acquisendo gli strumenti che possono poi consentire di assaporarla pienamente.

Così, la formazione sembrerebbe essere un ingrediente essenziale del lavoro educativo: un periodo di apprendistato, quasi, di sperimentazione che lascia qualcosa a chi vi partecipa, guadagni che sembrano essere letti sempre come arricchenti, se non trasformativi. La formazione, poi, finisce, come si chiude un’opera d’arte. Ma ciò che produce pare non sparire, e non fermarsi: la formazione sembra lasciare appunto una sorta di eredità che chiede di essere rivista, nuovamente coltivata, perfezionata.

Vengono poi espresse due immagini “naturali”, molto differenti se non agli antipodi l’una rispetto all’altra.

Secondo un educatore che lavora in ambito psichiatrico, la formazione ideale è intesa come “radura”: come un “tappeto erboso, verde, curato, con macchie di fiori colorati” e con al centro “alberi ricchi di foglie”: un luogo che si scopre dopo una lunga fatica, un luogo necessario proprio per

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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coronare la fatica, un luogo in cui si respira aria fresca e leggera, che “ridà energia”, “rivitalizza”. Se occorre “far faticare i ragazzi” “però poi alla fine si deve arrivare in un posto bello”, dove si possa “provare piacere per le cose che si fanno”. La formazione sembra essere vista attraverso quello che attraverso di lei si guadagna: uno sguardo più ampio e più libero. Si tratta di un’immagine che intenzionalmente si contrappone a quella dei luoghi di lavoro, descritti come “molto tristi, molto dolorosi, brutti anche strutturalmente”; la formazione è ciò che può avvicinare questi luoghi quando non portarvi un po’ di “leggerezza”, ovvero può aiutare a vedere “aspetti magari piccoli però in chiave positiva” e ad affrontare i problemi quotidiani “senza troppa cerebralità” ma con “un po’ di autoironia”. Certo, si sottolinea che questa è la formazione ideale, quella desiderata, che ricorda la metafora della luce che rischiara la quotidianità educativa utilizzata dagli educatori neolaureati. La formazione attuale sembra avere accanto alla radura una palude, a mostrare il rischio, presente, di impantanamento in un luogo da cui si fatica a uscire, magari senza aver guadagnato nulla.

Da un’immagine solare, ci spostiamo ad un’immagine piuttosto cupa, che trova la sua eco in un’altra metafora, proposta da un professionista dell’educazione e consulente formativo. La formazione è vista come un “mare mosso”, in cui si è immersi e che, per la grandezza delle onde, non permette di vedere nulla. E nella “burrasca” l’atteggiamento è quello del “si salvi chi può”: dello “speriamo di uscire di qua, di superare gli esami”, di conseguire il titolo. Allora, quando le “porte si apriranno, andrà meglio”. La formazione è descritta in termini bui: se è come essere in una burrasca, non ci si chiede nemmeno cosa si possa guadagnare da essa, si spera solo di uscirne e che dopo le cose migliorino. In un panorama senza prospettive. L’impressione è che in questo momento storico non si riesca proprio a capire quale forma possa o debba avere la formazione dell’educatore non tanto per essere utile: più banalmente, per essere tale. Ciò, nella consapevolezza che “indietro non si può tornare”, e che i modelli attuali non sembrano soddisfare. Forse, secondo l’interlocutore, occorre insistere non sulla formazione di base, ma su altro, sulla formazione continua.

4.1.2. SIGNIFICATI, OBIETTIVI, CRITICITÀ E PROSPETTIVE DELLA FORMAZIONE DI BASE

Il presupposto a cui molti degli intervistati fanno riferimento nel pensare e nell’esprimersi riguardo alla formazione di base è soprattutto la propria esperienza formativa, avvenuta con modalità piuttosto differenti da quelle attuali. C’è, in loro, consapevolezza di ciò, e consapevolezza rispetto all’inattualità del modello da loro sperimentato, da cui tuttavia è difficile prescindere.

La formazione di base è segnata, secondo un’educatrice associata all’Anep, dai cambiamenti che a livello legislativo ha subito il profilo professionale dell’educatore, e quindi dalle disposizioni che lo hanno recepito e concretizzato all’interno di particolari corsi di studi, approdando fino al Corso universitario. Il giudizio sulla formazione universitaria sembra essere unanimemente piuttosto critico: l’impressione è che, istituito per rinforzare il riconoscimento della figura educativa, il passaggio della formazione all’Università abbia invece indebolito il profilo e il ruolo dell’educatore professionale. Gli intervistati, nei loro discorsi, fanno riferimento all’Università in generale come protagonista di questo passaggio, e non a Corsi di laurea specifici.

In particolare chi ha presente il quadro nazionale della formazione della figura professionale, dell’Università mette in discussione soprattutto il modo di concepire e di praticare il rapporto teoria/prassi: anche quando le ore attribuite al tirocinio siano sufficienti, come nel Corso di Laurea in Educazione professionale, la rielaborazione dell’esperienza in generale fatica ad essere garantita attraverso la messa a punto di contesti specifici; le discipline teoriche danno l’impressione di frammentazione, disposte in moduli poco coordinati e talora lontani dalle problematiche professionali; i docenti spesso non conoscono direttamente il mondo dei servizi, e di conseguenza faticano a declinare operativamente i contenuti proposti; la formazione non punta all’integrazione tra dimensioni motivazionali, personali e professionali nel percorso proposto agli studenti e privilegia la dimensione individuale a quella di gruppo; il tirocinio spesso è poco condiviso con il mondo dei servizi, quindi non riesce ad assolvere ad una funzione di accompagnamento nella costruzione di una professionalità educativa autonoma; la selezione degli studenti non è mirata, con conseguenze importanti nel lavoro di formazione; la formazione, infine, sembra essere debole dal punto di vista

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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degli apprendimenti effettivamente conseguiti dagli studenti: l’impressione è che “sia scivolato via tutto”, e che i reali luoghi formativi in realtà siano così i servizi, come sottolinea un educatore che lavora in ambito psichiatrico.

Accanto a questo quadro, gli intervistati propongono più o meno esplicitamente delle indicazioni e delle prospettive che, se non si spingono fino a delineare una diversa forma per la formazione dell’educatore, tuttavia ne sottolineano caratteristiche ed obiettivi primari.

In questo senso, la formazione di base viene concepita come una formazione di carattere non tecnico specialistico, ma culturale e generale, e per qualche coordinatore e educatore, fortemente orientata in senso pedagogico; una formazione che insegni ad utilizzare tecniche specifiche all’interno di cornici di senso, di contesti e di metodologie condivise da un gruppo di lavoro, sottolinea chi lavora in psichiatria e in servizi per disabili. Si delinea così una formazione in grado di far acquisire le competenze trasversali necessarie per coltivare poi competenze più specifiche e magari anche specialistiche; oltre che come trampolino di lancio per una formazione personale e professionale continua, come sottolinea un educatore in ambito psichiatrico.

Si tratta di una formazione che sembra vedere nell’esperienza, nel far fare esperienza, e nell’orientare alla conoscenza delle realtà educative il suo nucleo preminente: una formazione in cui la teoria aiuti a decodificare l’esperienza, la supporti, si “renda utile”. In questo senso, un coordinatore sostiene la necessità di selezionare i saperi e i contenuti in maniera mirata rispetto alla loro spendibilità “sul campo”, e unanimemente si rileva l’esigenza di garantire ampio spazio alle attività di tirocinio, in modo da dare agli studenti la possibilità di cogliere la natura processuale dell’esperienza educativa.

Accanto a ciò, si ribadisce come la formazione sia anche una sorta di “apprendistato esistenziale”: di qui l’importanza di apprestare esperienze nei servizi in cui gli studenti si possano “immergere” quotidianamente per riemergere attraverso pratiche di supervisione in piccolo gruppo. Sembra riecheggiare, in questo, la pratica dello “sporcarsi le mani e anche i gomiti” per vivere a contatto con situazioni problematiche, magari anche estreme, imparando gradualmente a sostenerle grazie al lavoro teorico/riflessivo, come sottolinea un’educatrice. Se concepita e realizzata in questo modo, la formazione, in particolare agli occhi degli educatori, sembra essere un’esperienza che consente di “diventare grandi”, di assumere un proprio sguardo sulle cose, di acquisire un proprio stile di lavoro e un’autonomia progettuale.

In questo senso, tutti gli intervistati ribadiscono l’importanza di una progettazione condivisa tra università o enti di formazione e servizi. Perché ciò sia possibile, sembra indispensabile non solo che l’Università “apra le proprie porte” ritornando anche sulle proprie pratiche, ma che anche i servizi siano consapevoli dei modelli educativi e formativi che li abitano, e quindi dei propri impliciti, culturali e ideologici. Il rischio che sembra si possa correre, secondo alcuni educatori intervistati, riguarda il fatto che i servizi formino anche “malgrado loro”, ovvero che gli studenti, poco attrezzati dalla formazione di base, entrino in un servizio e ne assumano acriticamente i modelli senza riuscire a reinterpretarli e a metterli in questione.

Si pone qui, esplicitamente, il rapporto tra mondo della formazione (della figura professionale) e mondo dell’educazione: due mondi analoghi ma al tempo stessi distinti, tra cui, come sembra emergere dai discorsi degli intervistati, occorre creare un ponte, ma anche stabilirne forma, lunghezza, e soprattutto individuarne pilastri e campate.

4.1.3. LE RAPPRESENTAZIONI DEL TIROCINIO NELLA FORMAZIONE DI BASE

All’interno della formazione di base dell’educatore professionale, il tirocinio formativo sembra richiedere un’attenzione particolare ed avere un peso particolare; anche perché è proprio attraverso il tirocinio che comincia a prendere forma quel ponte tra il mondo dei servizi e il mondo della formazione, e, seguendo i tirocinanti, i servizi si ritrovano ad essere essi stessi luoghi formativi, dotati di una loro specificità.

Secondo i professionisti dell’educazione e i coordinatori intervistati, il tirocinio si staglia nell’intero Corso di laurea come un periodo con caratteristiche del tutto peculiari: entrare in tirocinio “è come

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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cambiare pianeta”, afferma il coordinatore di un Centro Diurno per Disabili. È infatti un momento di esposizione all’esperienza che si vive nei servizi, anche all’esperienza di équipe: esposizione alle dinamiche, alle divergenze, ai conflitti; esperienza talora anche da contenere, e a volte da evitare, quando sia fine a se stessa. L’impressione è che il tirocinio debba portare comunque dei guadagni in termini di apprendimento dall’esperienza, e quindi avere comunque sempre qualcosa di significativo da offrire. Il tirocinio è anche un periodo delicato, in cui gli studenti entrano “impauriti”, come nota la coordinatrice di un Centro Diurno per Disabili della Fondazione: è un processo lungo di valutazione e di autovalutazione delle proprie scelte professionali, quindi ha una funzione anche di orientamento e riorientamento professionale, sottolinea un educatore. È un momento di “messa alla prova”, in cui gli studenti sperimentano propri limiti e attitudini, e come tale deve essere curato. Di qui l’importanza di strutturare un rapporto formativo proficuo con il referente aziendale: un rapporto che attenui la dimensione di solitudine dello studente, aprendo occasioni di riflessione e scambio, senza dimenticare la necessaria funzione valutativa, come sostengono educatori e coordinatori.

Più precisamente, secondo i coordinatori che all’interno del loro servizio seguono il percorso dei tirocinanti, il tirocinio rappresenta un’occasione particolare proprio per il tipo di esperienza che propone: un’esperienza che mette in gioco la propria corporeità e attraverso la quale gli studenti hanno la possibilità di “re-imparare a usare il proprio corpo, i propri sensi, la propria sensibilità”, come accade esplicitamente in un centro diurno per disabili. Anche all’interno del servizio ospitante, quindi, “fare tirocinio” non significa semplicemente “essere gettati nell’esperienza”, ma comporta un lavoro di accompagnamento, di costante decostruzione di quello che accade nell’esperienza, delle reazioni e delle azioni di educatori e di tirocinanti; un lavoro di nominazione di sensazioni, di ricerca di significati, di depotenziamento di pregiudizi. Si tratta quindi di un complesso lavoro di riflessione sul campo, che si svolge non contemporaneamente, ma dopo l’esperienza diretta, sempre nel contesto di tirocinio. In questo senso, secondo il coordinatore di un Centro Diurno per Disabili, il tirocinio è anche il luogo in cui attraverso l’esperienza vissuta e corporea si torna alla teoria, comprendendo attraverso la propria sperimentazione, per esempio, cosa voglia dire “osservare”.

Certo, questo accade, ma non è garantito. I nostri interlocutori mettono in luce anche i limiti del tirocinio, evidenziando in essi le condizioni che influiscono sui significati e sugli effetti che tale esperienza può produrre.

Soprattutto, secondo gli educatori del tirocinio sembra occorra presidiare tempi e contesti, e quindi: prevedere un tempo sufficientemente ampio e continuativo, limitando situazioni frammentate,

saltuarie e improvvisate, che rendono le esperienze poca adeguate alla comprensione dei processi educativi e delle caratteristiche di un servizio;

tutelare il gruppo di formazione, evitando la loro sporadicità e salvaguardando quelle dimensioni organizzative (come il numero ristretto dei partecipanti e la frequenza obbligatoria e costante) che possono rendere l’esperienza di gruppo più incisiva. Tutto ciò, come si intuisce, presuppone la possibilità di trovare accordi chiari e di costruire una

progettazione condivisa tra università e servizi.

4.2. FORMAZIONE CONTINUA E SUPERVISIONE

Come anticipato, la formazione continua, spesso chiamata long life learning, è vista generalmente dagli interlocutori intervistati come una sorta di esigenza preparata e alimentata dalla stessa formazione di base, quasi ne fosse il necessario completamento. Da qualche educatore e formatore è vista anche come una delle vie attraverso le quali ripensare il rapporto tra formazione di base e mondo del lavoro: come una sorta di occasione per avvicinare il mondo dell’università a quello dei servizi fornendo occasioni di approfondimento non sporadiche, né rivolte esclusivamente ai singoli, ma di taglio più continuativo e rivolte alle équipe.

In particolare, la formazione continua sembra assumere la forma di percorsi di approfondimento tematico, attraverso il confronto con esperti, su oggetti che il lavoro educativo porta a individuare come essenziali e che non sono stati approfonditi nel corso di base. È il caso dell’alimentazione, della

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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sessualità e dell’affettività in adolescenza all’interno di una Comunità per minori, ma può anche essere il caso delle “nuove frontiere” che si aprono all’interno della psichiatria (per esempio, a proposito della doppia diagnosi). In questo senso, sottolineano in particolare i coordinatori di Comunità e educatori che lavorano in ambito psichiatrico, la formazione continua è vista come strumento, individuale e dell’équipe, per svolgere il lavoro educativo senza lasciarlo al buon senso soggettivo, ma costituendo linguaggi, conoscenze e terreni comuni e soprattutto occasioni di confronto e di scambio tali da consentire quell’”allineamento” nel modo di lavorare di ogni educatore che garantisce la tenuta del lavoro stesso.

Altrimenti, la formazione continua è vista come autoformazione, che può anche prendere le forme di un percorso di analisi personale, necessario in particolare quando si lavori in contesti psichiatrici.

Attenzione particolare sembra essere riservata in particolare dai coordinatori alla supervisione, che pare essere la forma attraverso la quale molti servizi garantiscono una sorta di formazione continua, e che è avvertita come esigenza soprattutto in quei contesti dove la relazione con gli educandi (pazienti) e con i colleghi espone a dinamiche faticose, conflittuali e sofferte, come nei servizi riabilitativi per la salute mentale. La supervisione è vista come uno strumento essenziale per le équipes: uno strumento di rielaborazione e non semplicemente un luogo che accoglie sfoghi personali, che deve coinvolgere tutte le figure che operano in un servizio, e non solo gli educatori. In questo senso pare essere anche uno strumento controverso, su cui nelle équipe multi professionali spesso non c’è accordo, né rispetto alle funzioni, né rispetto ai destinatari, come sottolinea un educatore che lavora in ambito psichiatrico. Sembra delinearsi un’idea di supervisione come luogo che accolga i vissuti degli operatori, e che proceda ad un lavoro di elaborazione. La sua matrice (pedagogica, psicologia o psichiatrica che sia) sembra rimanere però nell’indeterminatezza.

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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VERSO LE CONCLUSIONI

1. LA RELAZIONE TRA MONDO DEL LAVORO E MONDO DELLA FORMAZIONE Pensare un ponte, e magari iniziare a progettarne la realizzazione, tra mondo della formazione degli

educatori professionali e mondo del lavoro educativo e socio sanitario, significa, innanzitutto, pensarne le condizioni. L’ipotesi è che esse non possano prescindere dalle rappresentazioni che i due mondi hanno di se stessi, e quelle che proiettano l’uno sull’altro.

Nelle parti precedenti, abbiamo tentato di descrivere quali siano queste rappresentazioni, nella loro complessità. Adesso occorre fare sintesi, e cercare di capire, tenendo conto dei punti di vicinanza e di quelli di lontananza, quali condizioni, prospettive e magari ulteriori interrogativi si diano per delineare tra loro forme di rapporto percorribili.

1.1. MONDO DELLA FORMAZIONE E MONDO DEL LAVORO: UN PONTE POSSIBILE?

Quale percezione hanno dunque i nostri intervistati del rapporto tra mondo della formazione e mondo del lavoro? Come si rappresentano reciprocamente questi due mondi? Su quali basi è possibile costruire un “ponte” che li avvicini e li connetta?

L’impressione, generale, è che ognuno, idealmente, si rappresenti l’altro come lontano, perché distante da quello che vorrebbe che fosse; perché abitato da logiche che non si riconoscono proprie; perché articolato in tempi e spazi, modalità e concezioni che non corrispondono alle proprie aspettative o alla propria personale esperienza pregressa, vissuta da studenti, educatori o formatori; perché, forse, ogni mondo sembra essere in fondo impegnato a comprendere se stesso, soprattutto in questo momento storico così denso di cambiamenti culturali e socio economici.

In questa percezione generale si aprono però dei varchi, che prendono corpo nelle parole degli intervistati quando facciano riferimento ad esperienze concrete, magari poche ma presenti, di contatto con “l’altro mondo”. Solitamente è il contatto che si crea per esigenze di tirocinio: si tratta allora, spesso anche se non sempre consapevolmente, di un contatto mediato, appunto, dalle esigenze e quindi dalla prospettiva della formazione. Quando questo accade, sembrano, molto lentamente, materializzarsi le arcate del ponte: i punti di contatto sembrano darsi nei fatti, e sembra si possa notare una qualche corrispondenza tra le prassi, gli obiettivi, le attese, i percorsi proposti. Ciò che occorre, forse è pensare maggiormente, su tavoli condivisi, come costruire o supportare queste arcate: come progettare lo scambio, o meglio comprendere come le due parti (formazione in università e mondo dei servizi) possano non semplicemente incontrarsi, ma stabilire i reciproci raggi di azione, nella continuità/discontinuità delle esperienze proposte, in vista di un’impresa che li riguarda entrambi. Si tratterebbe di stabilire, quindi, come nella progettazione di una complessa azione strategica, quali posizioni attribuirsi e come muoversi, quali esperienze architettare insieme perché gli studenti, assumendo la posizione di “allievi”, possano diventare “educatori professionali”. A cominciare dagli spazi d’azione che già università e servizi si trovano a condividere.

Andando per gradi, il primo ponte (o la prima arcata) che connette formazione universitaria e mondo dei servizi sono appunto gli studenti. Studenti di cui entrambi i mondi condividono un’immagine segnata da mancanze: gioventù, immaturità, povertà di esperienze di vita, poca consapevolezza di sé. Studenti che però, al tempo stesso affascinano perché, nonostante la loro

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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scolasticità e la diversità rispetto agli studenti desiderati o che tutor, docenti e educatori erano stati, mostrano curiosità, entusiasmo. Studenti che quindi, oltre alle mancanze e alla piacevolezza relazionale, sembrano essere interessanti nella formazione professionale proprio per la loro condizione di “essere in apprendimento”. Condizione vertiginosa, perché sembra che con loro ci sia tutto da fare: insegnare l’alfabeto della professione, dicono i docenti, insegnare a fare da mangiare, a utilizzare il proprio corpo come primo canale di comunicazione, dicono i coordinatori dei servizi. Studenti che, tra l’altro, quando si descrivono, sembrano proprio mettere in rilievo la scoperta del fatto che “si può imparare a diventare educatori”. Studenti che stanno imparando, e non educatori in miniatura, già “rifiniti”, dal punto di vista della formazione. Studenti reali, in carne ed ossa, portatori di contraddizioni che il contesto formativo stesso enfatizza: studenti che testimoniano dell’esigenza di architettare esperienze di apprendimento complesse, che articolino il “dentro” della formazione all’interno della Fondazione, con il “fuori” dell’Università e con il “fuori” dei servizi.

Sembrano allora essere proprio gli studenti a focalizzare un’altra condizione di avvicinamento tra questi mondi che solo a una prima impressione, e in particolare negli sguardi dei servizi, sono due, ma che in realtà sono tre: l’Università, la Fondazione, i Servizi. Oltre agli studenti che sono costretti ad attraversarli, ciò che unisce questi tre luoghi, nei fatti, sembra essere il tirocinio: i gruppi di formazione si tengono in Fondazione, essi consentono di connettere quanto conosciuto nell’ambito delle discipline teoriche, a volte ubicate “in università”, all’esperienza di tirocinio, che si svolge sul territorio.

Ciò giustificherebbe l’impressione che docenti, tutor docenti di Guida al tirocinio, studenti ed ex studenti ma anche professionisti e coordinatori hanno rispetto alla centralità dell’area professionalizzante all’interno del Corso di Laurea, e in particolare del posto che in essa ricopre non solo il tirocinio, ma anche l’insegnamento di Guida al Tirocinio, che sembrerebbe essere l’altra arcata di ponte che esiste già, ma che chiede di essere supportata, proprio per poter lavorare effettivamente come “crocevia” che consenta a mondi diversi di incontrarsi producendo occasioni formative non solo per gli studenti, forse per tutti gli attori coinvolti. L’insegnamento di Guida al tirocinio e i docenti di Guida al tirocinio sembrano essere i veri mediatori della formazione. In questo senso, proprio per potenziare un effetto che già gli studenti mostrano essersi prodotto, sembra possa essere importante comprendere più approfonditamente come si giochi questo ruolo di mediazione, all’interno di un insegnamento ma anche nelle funzioni di tutor, individuando le pratiche, i rituali, le metodologie, le abitudini che di fatto mediano tra le esigenze di seguire i singoli studenti nel loro percorso di formazione spingendosi fin fuori, nei servizi dove fanno tirocinio, e al contempo di istituire un gruppo che ne sia luogo privilegiato; tra l’esperienza vissuta altrove e l’esperienza vissuta nei gruppi di formazione; tra l’istanza di accoglienza e l’istanza di messa alla prova che caratterizza il setting di Guida al Tirocinio; tra la posizione di formatori di futuri educatori e la posizione di educatori o di consulenti che i docenti di Guida al Tirocinio occupano. Si tratta di pratiche, rituali, abitudini, metodologie che potrebbero anche solo giustapporre esperienze e istanze diverse, lasciando agli studenti la facoltà di ricomporle, di amalgamarle veramente: in questo senso, forse, varrebbe la pena di comprenderle più da vicino.

Perché però un ponte con il mondo del lavoro si costruisca su basi non casuali ma solide e pensate, occorre forse che proprio questo lavoro di esplicitazione e di comprensione delle pratiche di mediazione (o di giustapposizione) che si danno quasi “naturalmente” nel Corso di Laurea, in quanto predisposte (o osteggiate) da condizioni organizzative, vengano in qualche modo socializzate con il mondo del lavoro, che, dalle nostre testimonianze, sembra conoscere poco, superficialmente o saltuariamente quanto accade in formazione, e in particolare in quei luoghi e attraverso quegli attori che potrebbero essere dei più consapevoli attori di mediazione.

Altro ponte, o meglio “pilastro” naturale di quel ponte che si vorrebbe costruire, è rappresentato dall’esperienza educativa: esperienza educativa rispetto alla quale il Corso di laurea deve introdurre gli studenti, smontare preconcetti e idee ingenue, apprestare sperimentazioni, perché sappiano, alla fine dei tre anni riconoscerla, leggerla, progettarla e praticarla; esperienza del lavoro educativo, che i servizi mettono a disposizione nella sua complessità e anche crudeltà, perché gli studenti imparino a

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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vederne le diverse dimensioni e a nominarle, e perché capiscano come, a partire da sé, possano imparare ad abitare quelle esperienze, e di quali strumenti abbiano bisogno. Si tratta, in questo caso, non tanto di fornire reciproche prestazioni e disponibilità. Piuttosto, si tratta di comprendere quali modelli, impliciti e espliciti orientino l’esperienza educativa in formazione e nei servizi, e se e come essi si possano incontrare, magari contaminare, ripensare reciprocamente. Ma si tratta anche forse, di comprendere come da formatori piuttosto che da educatori che stanno nei servizi si concepisca e si viva l’esperienza di formazione di futuri educatori sull’esperienza educativa: di quali modelli impliciti e espliciti di formazione rispetto al lavoro educativo gli educatori siano portatori più o meno consapevoli, e come questi interagiscano con i modelli formativi impliciti ed espliciti che i docenti tutor agiscono e gli studenti sperimentano durante la formazione in Fondazione. E, ancora, quali aspettative rispetto alla formazione, giocata in università, in Fondazione e nei servizi, si animino e si incrocino.

Studenti visti come “persone che stanno apprendendo a diventare educatori”; Tirocinio, Guida al tirocinio e docenti tutor che curano questi insegnamenti e le loro pratiche e funzioni di mediazione; l’esperienza educativa studiata, simulata, decostruita e ricostruita in formazione e agita come esperienza del lavoro educativo nei servizi; l’esperienza formativa implicitamente o esplicitamente vissuta da docenti e tutor da un lato e da educatori e coordinatori di servizi dall’altro: questi, forse, possono essere alcuni dei pilastri a partire dai quali cominciare a costruire questo ponte. Pilastri che già esistono e producono effetti, ma che forse, vista la fatica che da ogni parte viene denunciata nel tenere insieme la complessità dell’impresa formativa, e i vissuti di solitudine e i rischi di derive autoreferenziali che da ogni parte si paventano, vale la pena considerare con una diversa intenzionalità progettuale, coinvolgendo o considerando le parti che tutti gli attori si trovano a svolgere all’interno (che è anche esterno) del Corso di laurea.

La percezione di lontananza reciproca, che si gioca soprattutto quando si accostino Università e mondo dei servizi, sembrerebbe aver a che fare, come accennato in apertura, con la centratura dell’attenzione, da parte di entrambi i contesti, su ciò che avviene all’interno dei loro confini. L’impressione cioè è che inevitabilmente da un lato l’università sia impegnata a capire come assumere il governo di questo percorso di formazione, che presenta un’eredità consistente sia dal punto di vista organizzativo che dal punto di vista culturale, con tutte le difficoltà che emergono nel processo di inserimento/integrazione in una struttura con logiche proprie, propri docenti, proprie “regole”, non solo amministrative. D’altro canto, altrettanto inevitabilmente, si ha l’impressione che se, come appare nei discorsi di professionisti dell’educazione, educatori e coordinatori, il mondo dei servizi è impegnato a “resistere”, possa faticare a vedere e sentire il discorso della formazione come “proprio”. Si delinea un quadro, che non ambisce ad essere l’unica interpretazione possibile, in cui entrambe le parti paiono concentrate su una sorta di “emergenza”: anche se questa parola non è pronunciata nei protocolli di ricerca, forse può essere usata per descrivere una situazione che pare talmente complessa da sfuggire di mano, perché di grande impatto sono stati i cambiamenti che hanno interessato il mondo degli educatori professionali negli ultimi 10 anni, e la formazione, oltre ad essere uno di questi cambiamenti, pare esserne coinvolta pienamente. Quando si è in emergenza, si sa, gli orizzonti si restringono: si focalizza l’attenzione su ciò che è più vicino in termini spaziali e prossimo in termini temporali, rischiando così di perdere di vista il contesto generale di cui si fa parte e che, comunque, condiziona il modo di vivere, l’esperienza che si dà in ogni contesto particolare. Il rischio, ulteriore, è allora quello di “far bene il proprio”, di inseguire principalmente le proprie logiche, ed anche di pretendere che ognuno faccia il suo “pezzettino” in modo da produrre ciò che sembrerebbe servire all’altro: contesti che si prestino ad accogliere tirocinanti, da un lato; educatori che sappiano fare il loro mestiere, dall’altro.

Il problema sta nel fatto che, forse, la formazione degli educatori professionali sembra eccedere rispetto a queste regole di ripartizione. Forse, il suo ambito, la sua estensione non è solo universitaria, ma coinvolge a pieno titolo il mondo del lavoro: se esso viene coinvolto o si coinvolge solo come “prestatore d’opera” si ha l’impressione che qualcosa manchi, che quella macchina che la formazione è marci a passo rallentato, che di quel ponte vi siano solo i pilastri, ma che le arcate non siano

Dare forma al lavoro educativo, formare al lavoro educativo.

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sufficientemente forti da poter reggere il peso di chi vi cammini sopra. Sembra allora importante ristrutturare il perimetro della formazione degli educatori professionali.

Da parte dell’Università, questo significa non solo rinsaldare i ponti interni (tra Università e Fondazione), ma riconoscere il territorio come parte integrante della formazione degli educatori professionali. Senza ovviamente ad esso delegare. Dal punto di vista epistemologico, entrare in quest’ottica implica forse interrogarsi e ristrutturare i propri modelli di costruzione del sapere, per aprirsi alla considerazione e alla valutazione di un sapere pedagogico – anche relativo alla formazione degli educatori professionali – che si costruisce “dal basso”: negli stessi contesti di lavoro, attraverso pratiche di valutazione dell’esperienza che nei servizi si vive e si produce.

Da parte del mondo del lavoro educativo, questo significa estendere il proprio perimetro alla formazione degli educatori, arrivando magari a considerarla “un pezzo” del proprio lavoro. Dove questo non significa certo “formarsi in proprio” gli educatori, ma pensare che il rapporto con chi li forma sia un dato strutturale, e che tuttavia non per questo possa essere dato per scontato, ma che occorra dar forma a quel rapporto, comprendere come partecipare a questo processo complesso che è la formazione dell’educatore professionale. Come la ricerca ha mostrato, questo implica forse anche uscire da una logica per cui la formazione di base “sforna” educatori “finiti”, pronti a lavorare negli specifici contesti che li assumeranno. Se, come pare, la formazione di base è in grado di fornire i futuri educatori di “competenze trasversali”, che li mettano in grado di comprendere anche di quali strumenti dotarsi per lavorare in un contesto specifico, e se la priorità di questo tipo di formazione è riconosciuta, come sembra, dal mondo dei servizi, allora davvero si entra nell’ottica di una professione che si costruisce “continuamente”: attraverso il lavoro, che sollecita nuove esigenze di apprendimento, e quindi attraverso la “formazione continua”, nelle diverse forme in cui si può dare. Come dire che i servizi sono luoghi di formazione: lo sono già, nel momento in cui il loro essere architettati in un determinato modo induce effetti di adattamento/apprendimento sui nuovi educatori; lo possono essere più consapevolmente all’interno di un progetto condiviso, quando si concepiscano come contesti in cui inevitabilmente la professione educativa continua a costruirsi. Se cosi fosse, forse, l’Università potrebbe entrare nei servizi in un altro modo, in un’altra luce: anche come un soggetto che può aiutare il mondo del lavoro a riconoscere e a costruire, dal basso appunto, il proprio sapere.

Questo però implica, da parte del mondo del lavoro, l’affrontare un nodo culturalmente rilevante, che ha a che fare, appunto, con la possibilità di riconoscersi, e di riconoscere gli educatori, non solo come portatori di un proprio sapere specifico, ma anche come “costruttori” di quel sapere. E prima ancora, forse, imparare a pensare che è possibile costruire un “proprio sapere” proprio lavorando. Cosa che ha a che fare con la possibilità di uscire dallo “stato di minorità” che comunque pare attanagliare il mondo degli educatori, e di porsi come interlocutori attivi rispetto all’Università intorno alla formazione di un sapere delle pratiche educative che forse anche le domande dei tirocinanti possono contribuire a creare. Certo, questo implica riconoscere e affrontare le proprie precomprensioni nei confronti di ciò che è sapere e di ciò che è pratica educativa, e forse, anche rispetto a quel sapere già codificato, che spesso trova nell’Università il suo “tempio”, ma che forse da lì può essere tolto, per mostrare, delle pratiche educative quotidiane, aspetti inediti, aprendo spazi di ricerca e di costruzione di nuovo sapere educativo e pedagogico. Magari spingendosi a pensare che proprio l’Università, anche attraverso gli studenti e le pratiche di tirocinio, può lavorare con i servizi alla comprensione di come, appunto, costruire, mostrare e valorizzare quel sapere che quotidianamente producono.

Queste, forse, possono essere le condizioni perché, parallelamente o in seguito, si costruisca un altro pilastro di questo ponte, quello rappresentato dalla formazione continua: formazione che, allora, potrebbe anche essere “in continuità” con la formazione di base, non solo funzionale alle esigenze di specializzazione o approfondimento dei servizi o dei singoli educatori.