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1 Fondamento biblico della missione Don Paolo Greco, svd - Suore Santa Maria dell’Orto 14/09/2016 Premessa 1) La particolare situazione culturale in cui oggi viviamo è caratterizzata da movimento, profonde oscillazioni e da un generale senso di incertezza che alcuni filosofi e sociologi hanno saputo commentare con dovizia di particolari ricorrendo a idee suggestive come ad esempio quelle di: “fine delle meta-narrazioni” (Lyotard, le grandi narrazioni culturali, hanno esaurito le proprie pretese e concetti come verità, tradizione, autorità, ragione e religione hanno manifestato l’inadeguatezza nell’interpretazione della storia e nella realizzazione dei progetti rispondenti); (società liquida(Bauman, niente è solido e duraturo, tutto è ripiegato alla liquidità dell’utile e del consumo); non-luoghi(Augé, nuove identità e appartenenze, antropologia delle solitudini e primato del consumo); età secolare(la città secolare, affrancata da ogni richiamo al trascendente, agisce etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, e ogni sfera della vita è ordinata da un’autonomia che consente di fare l’impasse su Dio). La mobilità in atto ovviamente riguarda anche la vita della Chiesa e finisce per toccare profondamente la percezione peculiare che essa ha della sua azione pastorale. Assistiamo ad una diffusa secolarizzazione, si nega il concetto di Dio, si diffonde un distacco dalla fede e si consolida l’indifferenza verso il messaggio che la Chiesa propone: URGENZA DELLA MISSIONE. 2) Papa Francesco con i suoi gesti prima e poi con il suo magistero ci ha richiamato all’urgenza dell’evangelizzazione. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium ha richiamato tutti i battezzati, i preti ed i vescovi ad un compito non più prorogabile: TRASFORMAZIONE MISSIONARIA DELLA CHIESA. Invito che ha tradotto nell’immagine e modello della Chiesa in “uscita” e “dalla porta aperta” che va incontro all’umanità sofferente “le periferie esistenziali”, prendendo l’iniziativa, coinvolgendosi e accompagnando l’umanità ferita e stanca, e in questo festeggiare e trovare gioia (EG 20-24). 3) Bisogna recuperare una spiritualità missionaria (EG 78-80). È degno di nota il fatto che, persino chi apparentemente dispone di solide convinzioni dottrinali e spirituali, spesso cade in uno stile di vita che porta ad attaccarsi a sicurezze economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che ci si procura in qualsiasi modo, invece di dare la vita per gli altri nella missione. Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!” (EG 80). 4) Il paradigma per un nuovo agire della Chiesa (svolta del Concilio Vaticano II): CURA PASTORALE = MISSIONARIETA’ e MISERICORDIA. Papa Francesco ci ricorda continuamente che la Chiesa esiste per portare a tutti gli uomini e le donne del suo tempo la misericordia salvifica di Dio che in Gesù ha manifestato in modo pieno ed efficace. La Chiesa non esiste per condannare ma per annunciare la grazia di Dio a tutte le genti, in particolare modo ai poveri ed ai sofferenti (verso le periferie esistenziali). 5) A cosa ci riferiamo quando parliamo di missione? Oggi nel mondo ci sono tante missioni. La missione di Pace (contingente italiano presso l’Afghanistan, l’Iraq …); la missione di guerra (basta vedere quello che accade in Siria …); la missione di volontariato, pensiamo Green Peace (impegno

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Fondamento biblico della missione

Don Paolo Greco, svd - Suore Santa Maria dell’Orto 14/09/2016

Premessa

1) La particolare situazione culturale in cui oggi viviamo è caratterizzata da movimento,

profonde oscillazioni e da un generale senso di incertezza che alcuni filosofi e sociologi hanno

saputo commentare con dovizia di particolari ricorrendo a idee suggestive come ad esempio quelle

di: “fine delle meta-narrazioni” (Lyotard, le grandi narrazioni culturali, hanno esaurito le proprie

pretese e concetti come verità, tradizione, autorità, ragione e religione hanno manifestato

l’inadeguatezza nell’interpretazione della storia e nella realizzazione dei progetti rispondenti);

(“società liquida” (Bauman, niente è solido e duraturo, tutto è ripiegato alla liquidità dell’utile e del

consumo); “non-luoghi” (Augé, nuove identità e appartenenze, antropologia delle solitudini e

primato del consumo); “età secolare” (la città secolare, affrancata da ogni richiamo al trascendente,

agisce etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, e ogni sfera della vita è ordinata da

un’autonomia che consente di fare l’impasse su Dio). La mobilità in atto ovviamente riguarda anche

la vita della Chiesa e finisce per toccare profondamente la percezione peculiare che essa ha della

sua azione pastorale. Assistiamo ad una diffusa secolarizzazione, si nega il concetto di Dio, si

diffonde un distacco dalla fede e si consolida l’indifferenza verso il messaggio che la Chiesa

propone: URGENZA DELLA MISSIONE.

2) Papa Francesco con i suoi gesti prima e poi con il suo magistero ci ha richiamato

all’urgenza dell’evangelizzazione. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium ha richiamato

tutti i battezzati, i preti ed i vescovi ad un compito non più prorogabile: TRASFORMAZIONE

MISSIONARIA DELLA CHIESA. Invito che ha tradotto nell’immagine e modello della Chiesa in

“uscita” e “dalla porta aperta” che va incontro all’umanità sofferente “le periferie esistenziali”,

prendendo l’iniziativa, coinvolgendosi e accompagnando l’umanità ferita e stanca, e in questo

festeggiare e trovare gioia (EG 20-24).

3) Bisogna recuperare una spiritualità missionaria (EG 78-80). “È degno di nota il fatto che,

persino chi apparentemente dispone di solide convinzioni dottrinali e spirituali, spesso cade in uno

stile di vita che porta ad attaccarsi a sicurezze economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che

ci si procura in qualsiasi modo, invece di dare la vita per gli altri nella missione. Non lasciamoci

rubare l’entusiasmo missionario!” (EG 80).

4) Il paradigma per un nuovo agire della Chiesa (svolta del Concilio Vaticano II): CURA

PASTORALE = MISSIONARIETA’ e MISERICORDIA. Papa Francesco ci ricorda continuamente

che la Chiesa esiste per portare a tutti gli uomini e le donne del suo tempo la misericordia salvifica

di Dio che in Gesù ha manifestato in modo pieno ed efficace. La Chiesa non esiste per condannare

ma per annunciare la grazia di Dio a tutte le genti, in particolare modo ai poveri ed ai sofferenti

(verso le periferie esistenziali).

5) A cosa ci riferiamo quando parliamo di missione? Oggi nel mondo ci sono tante missioni. La

missione di Pace (contingente italiano presso l’Afghanistan, l’Iraq …); la missione di guerra (basta

vedere quello che accade in Siria …); la missione di volontariato, pensiamo Green Peace (impegno

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ecologico a servizio del pianeta e dell’uomo). Abbiamo tante forme di missione che richiamano il

significato dell’inviato, del mandato, andare per fare qualcosa.

6) Ma quando parliamo di missione per i credenti, di cosa parliamo?

Per approfondire il significato di questa parola dobbiamo ritornare ad un dato fondamentale per noi

credenti cristiani, al dato rivelato, alla Sacra Scrittura: alla RIVELAZIONE. Dio ha parlato e si è

rivelato nel corso di una lunga storia che abbraccia i due Testamenti, l’Antico Testamento e il

Nuovo Testamento. Tutto è per iniziativa gratuita di Dio. Lettera agli Ebrei: “Dio, che aveva parlato

nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi

giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb l,l). Il Vangelo di San Giovanni annuncia: “In

principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio..., tutto è stato fatto per mezzo di

lui... E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi... pieno di grazia e di verità” (cf. Gv

1,1-14). Dirà Paolo di Tarso: “è apparsa l’umanità di Dio che ci insegna a vivere in questo mondo”

(Tt 2,11-12).

Una storia fatta di carne e tramandata nei secoli, prima oralmente e poi scritturalmente, che

racconta il manifestarsi, il dispiegarsi e il divenire di Dio agli uomini. Un fatto stravolgente che

pone al centro della Rivelazione il silenzio di un mondo attonito e stupito di fronte alla Sua nascita,

“raggio di amore pieno di luce e di speranza in un mondo tenebroso e freddo”1, è soprattutto dinanzi

alla morte dell’uomo-Dio, “morte della morte e vittoria della vita”2. Un mistero che implica di

riconoscere il linguaggio della fede nella sua intima essenza che non si manifesta in un “enigma

spiegato” ma come “un’alterità che si propone”: non è evidenza, ma invito, non certezza ma

imbarazzo, e neanche possesso perché espone all’angoscia della resa3. È ciò che il teologo svizzero

Balthasar definisce: “Nell’esperienza che si fa di una superiore bellezza … ciò che ci sta dinanzi è

di una grandiosità schiacciante come un miracolo, e in quanto tale non può mai essere colto,

raggiunto da colui che ne fa esperienza, ma possiede, proprio in quanto miracolo, la facoltà di

essere compreso”4.

Catechismo Chiesa Cattolica parlando sulla RIVELAZIONE DI DIO, afferma:

(N. 53) Il disegno divino della Rivelazione si realizza ad un tempo “con eventi e parole” che sono

“intimamente connessi tra loro” (Dei Verbum 2) e si chiariscono a vicenda. Esso comporta una

“pedagogia divina” particolare: Dio si comunica gradualmente all’uomo, lo prepara per tappe a

ricevere la rivelazione soprannaturale che egli fa di se stesso e che culmina nella Persona e nella

missione del Verbo incarnato, Gesù Cristo.

Sant’Ireneo di Lione parla a più riprese di questa pedagogia divina sotto l’immagine della reciproca

familiarità tra Dio e l’uomo: “Il Verbo di Dio [...] pose la sua abitazione tra gli uomini e si è fatto

Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora

nell'uomo secondo la volontà del Padre”.

1 Cfr. KASPER, Misericordia, 100.

2 Ibidem, 125.

3 Cfr. TESTAFERRI, Credo, aiutami nella mia incredulità, 33.-38.

4 H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Torino 1965, 54-55.

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Dio parla agli uomini. Ecco la meraviglia sorprendente dell’amore di Dio verso di noi. A Lui

piacque rivelarsi a noi, far conoscere il mistero intimo ed eterno della sua vita divina, conversare

con noi, entrare in comunione con noi, amarci e avere così rapporti personali con noi. Dio ci ama e

perciò ci parla e ci apre il suo cuore paterno ed amabile.

Volgendoci alla Sacra Scrittura, vediamo che nell’Antico Testamento Dio parla ad Israele ed a tutti

gli uomini, in molte forme diverse, ma soprattutto per mezzo dei profeti. La parola divina non è data

come rivelazione privata a persone singole o gruppi selezionati da Dio, ma è un messaggio per il

popolo eletto di Israele e per l’intera umanità. Tutti gli esseri umani, iniziando dal popolo d’Israele,

sono destinatari della parola che Dio pone sulla bocca dei suoi profeti.

È il fondamento del lavoro missionario, evangelizzatore, della missione d’annunciare a tutti la

Parola di Dio. In Israele, la Parola di Dio appare come legge e regola di vita. La legge divina non è

solamente un documento scritto, ma un rapporto di un Dio personale, una persona divina, che parla,

si fa conoscere e attua il proprio disegno nella storia di questo popolo. Per Israele non si tratta,

quindi, soltanto di accogliere una dottrina o la lettera di una legge, ma è implicita un’adesione

personale e comunitaria per la persona di Dio. Si tratta di un’alleanza tra persone, cioè da una parte

Dio e dall’altra la comunità e le singole persone che formano il popolo d’Israele.

Il Nuovo Testamento prese inizio quando questa Parola di Dio si fece carne ed abitò tra noi. Questo

è l’evento, in fatti e parole che manifesta un Dio inedito, con i piedi nella polvere, scandaloso,

capovolto potremmo dire. In altre parole, un’immagine di Dio carica della mobilità, dell’incertezza

dell’umanità e della povertà. Sono molto significative le accezioni del termine Rivelazione, dal

Greco (Apokalypis= togliere il velo); al Latino (Revelatio=manifestare, rivelare ma anche velare

nuovamente); Al Tedesco (Offenbarung=coprire). Afferma il teologo tedesco Karl Rahner che il

concetto (Begriff) Dio non è un afferrare (Ergreifen) Dio con cui l’uomo si impossessa del mistero,

bensì è un lasciarsi afferrare (Sich-ergreifen-Lassen) da un mistero presente e sempre sottraentesi5.

In questa dinamica appare necessario recuperare l’orizzonte di tale mistero che trova la “suprema

istanza della verità di fede”6 nella Parola di Dio, la quale si esprime nel suo massimo grado

attraverso il linguaggio biblico della kènosi7 che dispiega il linguaggio dell’amore trinitario (ad

intra: la comunione delle differenze, donazione gratuita dall’uno altro delle persone divine [Gv

6,15; 17,26; 19,31]; ad extra: uscire, abbassarsi, svuotarsi per l’altro), del Dio che si abbassa, si

svuota e si spoglia della sua onnipotenza e veste i panni della mortalità, del rischio e dello scandalo

per condividere se stesso con l’altro; dinanzi al quale restiamo in silenzio, non per tacere ma per

dire meglio e senza forzature il Dio che si dice tacendosi, ovvero assumiamo quel linguaggio che

conduce alla contemplazione8 e attraverso di essa consente di avvicinarsi al mistero rispettandone

l’alterità e l’identità, le profondità e le altezze, la vicinanza e la lontananza, la bellezza di un amore

che ci stordisce e ci afferra.

Conseguenze per la Chiesa, per noi: ne consegue che “la chiesa che vive nel tempo è per sua

natura missionaria” (AG 2) e il modello che ispira l’evangelizzazione è “l’incarnazione” (cf RM,

5 Cfr. K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Torino 1977, 84.

6 BÖTTIGHEIMER, Comprendere la fede, 119.

7 Cfr. DOTOLO, Un cristianesimo possibile, 181-198.

8Sul tema suggerisco di vedere il numero monografico della rivista Convivium assisiense 1 (2010) dal titolo Il nome di

Dio; E. SALMANN, Presenza di Spirito. Il cristianesimo come stile di pensiero e di vita, Cittadella, Assisi (PG) 2011,

151-194.

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5) e il modello Trinitario. Dalla Trinità trabocca l’Amore, la venuta del Figlio missionario. Nella

sua enciclica sulle missioni, Redemptor hominis (1998), San Giovanni Paolo II inizia dicendo

che la missione di Cristo Redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo

compimento. […] Uno sguardo d’insieme all’umanità mostra che tale missione è ancora agli inizi e

che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio (RH 1).

La missione di Dio si incentra dunque in Gesù solo. Quel mistero altissimo, quella cascata che

scende, si chiama Gesù con il dono dello Spirito Santo. E la cascata si butta nella piccola pozza

d’acqua, che è la Chiesa. La Diocesi, la parrocchia, la piccola comunità, la Congregazione religiosa,

sono piccole pozze vive di Dio, da cui sgorga poi la missione che si distribuisce sulla terra. Questa è

la missione che tocca a noi.

Papa Francesco nel consueto messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni dello

scorso anno (52° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, L’esodo, l’esperienza fondamentale

della vocazione, 29 marzo 2015), ha ribadito l’urgenza di far propria la dinamica dell’esodo biblico,

quale processo missionario che tutta la Chiesa e ogni cristiano è chiamato a mettere in pratica oggi.

Forse l’esodo per troppi cristiani, per troppi di noi è rimasto soltanto un bel racconto antico dinanzi

al quale commuoversi, il papa ci sprona a farlo divenire il paradigma della vita cristiana e in

particolare di chi abbraccia una vocazione di speciale dedizione al servizio del Vangelo. È quanto

mai urgente per la Chiesa del nostro tempo praticare l’atteggiamento del “camminare convertendosi

e del convertirsi camminando”, ovvero il passare dalla morte alla vita, così come celebriamo nella

liturgia e vivere nella quotidianità il dinamismo pasquale di uscire da sé e dal proprio egoismo per

andare e darsi ai fratelli sull’altare della vita.

La Chiesa è davvero fedele al suo “Maestro” quando è capace di agire secondo lo stile di Dio, lo

stile di Gesù, animato dallo Spirito Santo, il quale esce da se stesso in maniera trinitaria di amore e

si muove verso l’uomo, per incontrare i figli nella loro situazione reale e di compatire le loro ferite

(cfr. Es 3,7).

Recuperare per l’oggi le categorie bibliche dell’Esilio e dell’Esodo

Per far fronte alla particolare situazione epocale in cui viviamo è utile riproporre le categorie

bibliche dell’esodo e direi anche dell’esilio. Mi spiego: oltre che essere capisaldi della storia biblica,

queste parole sono gli estremi di un’oscillazione entro il cui spazio si colloca nella sua drammaticità

e bellezza tutta l’esperienza umana. Si potrebbe dire che in quanto uomini, donne e credenti siamo

sempre in bilico fra l’esilio e l’esodo, fra lo smarrimento, la desolazione, la sconfitta, da un lato, e

dall'altro il cammino verso la meta agognata, il compimento dei desideri, la patria. Secondo la

logica e nel rispetto della storia del popolo eletto sarebbe più giusto parlare prima di esodo e poi di

esilio per stigmatizzare col primo la faticosa ricerca d'identità e col secondo il rischio sempre

incombente del suo smarrimento. Idealmente però i termini si possono anche invertire o addirittura

sovrapporre. L’esilio allora indica la situazione di itineranza, di estraneità, di rischio, di

spersonalizzazione, cose tutte che divengono causa di sofferenza, mentre l'esodo ne diviene una

possibile rielaborazione, una trasformazione intrinseca, una certa qual soluzione. Trasformando

l’esilio in esodo, rimane pur sempre presente la “strada”, non cambiano le difficoltà, ma si

invertono i termini. L’esilio è avvertito come nostalgia nella quale ciò che conta sta alle spalle.

L’esodo è provvisorietà, ma viene affrontato con gli occhi rivolti in avanti, sorretti dalla speranza

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che salva. In comune le due realtà hanno il senso della frammentarietà, percepiscono il rischio e

condividono l’emergenza che l'imprevisto dell'itineranza quasi sempre porta con sé.

Adoperare questi due termini esodo-esilio come coordinate per pensare e ripensare la fede e la

missione nell’oggi appare una scelta sicuramente feconda. Nel quadro liquido della postmodernità,

dentro il quale si sfaldano le certezze di un tempo, laddove i confini assurgono a spazi di possibilità

e di ubiquità e dove, di fatto, vengono smentiti i punti fermi in cui si confidava, è evidente anche la

crescente crisi della cristianità e una preoccupante asfissia della fede. Di fronte a tale situazione, la

tentazione della sfiducia diventa prepotente. Il rischio è quello di trasformare l’attuale stato di vita

della Chiesa in un esilio di nostalgie che guardano indietro o in un imbarazzante tentativo di

perpetuare scelte pastorali e visioni che non hanno più alcuna forza creativa. Anziché diventare un

esilio, la situazione attuale può essere trasformata positivamente in un vero e proprio esodo a

condizione che – come insegna papa Francesco – la Chiesa si metta in uscita e viva la situazione

dell'itineranza come una possibilità donata dalla creatività dello Spirito per l’oggi. Di certo

l'immagine dell'attuale pontefice che allude a un assetto da missione o arriva addirittura a

configurare la Chiesa come un ospedale da campo non ci conquista per la sua bellezza, tutt'altro! È

difficile da digerire, soprattutto quando siamo toccati sul vivo delle nostre comode certezze.

Alcuni maestri ebrei ritenevano che il vero esilio non fosse cominciato nel momento

dell’abbandono del suolo patrio, vale a dire con la deportazione, ma solo quando il popolo cominciò

a dimenticare la sua terra e ad accomodarsi alla nuova situazione, cioè quando questa realtà era

penetrata nel cuore. Allo stesso modo la fede oggi corre il rischio di perdere la propria luce e di

smarrire la gioia del vangelo se non si impegna in tutti i modi a vincere la tentazione di accomodarsi

al senso della resa e di commiserarsi per tutto quello che tristemente non c'è più.

INTERMEZZO… breve sguardo panoramico sulla missione nella Scrittura prima di

procedere nel nostro percorso:

Parlare di missione nella Sacra Scrittura vuole dire rintracciare le linee della recezione della

rivelazione da parte di uomini concreti che poi ne divennero testimoni.

Uno dei principali testi di riferimento per l’argomento che affrontiamo rimane in Italia E. TESTA, La missione e la

catechesi nella Bibbia, SU 14, Brescia 1981, 457-460. P. Rossano, «La missione nella Bibbia e nelle altre religioni.

Introduzione», RStB 1 (1990) 9-11. D. Senior – C. Stuhlmueller, I fondamenti biblici della missione, Bologna 1985. L.

Legrand, Il Dio che viene. La missione nella Bibbia, Roma 1989.

Si può parlare di missione nell’AT?

Alla domanda rispondiamo affermativamente, nella misura in cui si dà al termine l’accezione di

“missio ad intra”, come può essere quella di Mosè, chiamato a liberare i figli di Giacobbe9, oppure

quella del profeta mandato da Dio al suo stesso popolo per richiamarlo all’adesione all’alleanza e ad

un rapporto di fedeltà che è venuto meno10

.

9 Cfr. A. NEPI, Esodo, Dabar – Logos – Parola. Lectio Divina Popolare, I, Padova 2002.

10 Per capire questo particolare tipo di missione leggere R. VIRGILI, Geremia,l’incendio e la speranza. La figura e il

messaggio del profeta, Quaderni di Camaldoli 13, Bologna 1998; Ibidem, Ezechiele. Il giorno dopo l’ultimo, Quaderni

di Camaldoli 16, Bologna 2000; M. GRILLI, il Pathos della Parola. I profeti d’Israele, Milano 2000.

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Rispondiamo, invece, negativamente, se pensiamo alla missione come “missio ad extra”. Fin

dall’origine della sua fede, Israele ha inteso la sua “elezione” come separazione. Lungo il fluire

della sua storia – epoca patriarcale, esodo, conquista, monarchia – la religione d’Israele non tende

ad espandersi, ma a salvaguardarsi.

Quando, con i profeti, soprattutto in seguito all’esilio, vennero dissolti tutti gli elementi di

particolarità (la monarchia davidica – la terra – il tempio) e venne annunciato un tempo definitivo

(escatologico) di salvezza universale a cui le genti avrebbero preso parte, non si pensò mai a un

cammino cosciente e voluto verso gli altri.

In ogni caso, Gerusalemme, per il giudaismo, rimane il centro santo del mondo e il luogo in cui

dovrà manifestarsi il Messia. Qui, alla fine dei tempi, si raduneranno non solo gli Israeliti dispersi,

ma i popoli tutti, allo scopo di adorare il vero Dio»11

.

Si può parlare di missione nel NT?

Nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli troviamo i passi fondamentali sul mandato missionario

universale, affidato solennemente da Gesù ai suoi discepoli (Mt 28,16-20; Mc 16,9-20; Lc 24,46-

49; Gv 20,21; At 1,6-8).

Gesù adotta uno stile di ministero completamente opposto a quello di Giovanni Battista (cfr. Mt

11,18): abita a Cafarnao, sulle rive del lago, a contatto con molte persone; frequenta la sinagoga,

alla porta della città incontra la folla e guarisce i malati. Giovanni lascia che le persone vadano da

lui, Gesù si sposta per andare la dove vivono le persone12

: «Abbatte le barriere di ogni genere;

accoglie piccoli e grandi, poveri e ricchi, malati, lebbrosi, indemoniati, persone di cattiva

reputazione. In tal modo egli diventa l’ “archetipo del missionario cristiano” e il suo ministero

diventa modello di comprensione dell’opera di ogni comunità cristiana e di ognuno dei suoi

membri»13

.

Figure bibliche simboliche per individuare i fondamenti della missione:

Abramo: la fede è un uscire sulle vie di Dio. Abramo è il primo grande esempio di fede narrato

dalla scrittura14, si colloca nella storia d’Israele tra gli antenati del popolo e manifesta il valore

dell’alleanza conclusa da Dio con il popolo nella terra di Canaan. Nei racconti dei patriarchi sono

messi in evidenza i temi fondamentali della religione d’Israele: il culto di un unico Dio, la

rivelazione, l’elezione, la promessa, il dono della terra. Abramo domina questa storia “originaria”:

considerato dal profeta Isaia (51,2) il padre del popolo eletto; dai cristiani riconosciuto come padre

nella fede (Rm 4,11); chiamato dai Musulmani, El – Khalil, ossia, l’amico di Dio. Le qualità della

fede di Abramo vengono esaltate dalla tradizione successiva: “Egli custodì la legge dell’Altissimo,

con lui entrò in alleanza. Stabilì questa alleanza nella propria carne e nella prova fu trovato fedele”

11

M. GRILLI, Comunità e Missione, 226. Per ulteriori approfondimenti su aspetti particolari del periodo post-esilico e

del tardo giudaismo si possono consultare studi di G. BOCCACCINI, Prospettive universalistiche nel tardo giudaismo,

PSV 16 (1987) 81-100; M. PRIOTTO, Giuditta e Sapienza: due aspetti dell’atteggiamento dei popoli di fronte a Israele,

RStB 1 (1990) 45-70; D. PIATTELLI, Missione e proselitismo in Israele: effetti della insurrezione maccabaica nel

pensiero di Qumran e nella letteratura rabbinica, RStB 1 (1990) 87-100. 12

Cfr. A. VANHOYE, Le origini della missione apostolica nel Nuovo Testamento, in CivCatt 3372 (1990) 544-558. 13

M. GRILLI, Comunità e Missione, 290-291. 14

Cfr. A. DULLES, Il fondamento delle cose sperate, 11.

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(Sir 44, 19-20). Anche per gli autori del Nuovo Testamento Abramo oltre ad essere riconosciuto

antenato del popolo d’Israele (Mt 3,9; Gv 53.56; At 7,2; 13,26) appare come progenitore del

sacerdozio levitico (Eb 7,5) e del messia (Mt 1,1). L’immagine del “seno di Abramo” richiamata da

Luca rimanda alla felicità ultraterrena (Lc 16,22-23), e il cielo è il luogo in cui si celebra il convito

con Abramo, Isacco e Giacobbe (Mt 8,11; Lc 13,28). Giacomo vede in Abramo, l’uomo giustificato

per le sue opere buone compiute (Gc 2,21-23). San Paolo nella lettera ai Galati ed ai Romani,

riprende l’esperienza di Abramo per provare che la giustificazione da parte di Dio verso l’uomo non

viene per mezzo delle opere, ossia dalle osservanze mosaiche, considerate sufficienti, ma attraverso

la fiducia nella parola e nell’opera di Dio, con una parola, per la fede, (Gal 3,6-18; Rm 4,1-25).

Tutta l’esperienza del patriarca è contrassegnata dalla fede e gravita intorno ad essa, come evidenzia

l’autore della Lettera agli Ebrei che invita ad alzare lo sguardo verso i grandi esempi di fede del

passato: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo […] per fede soggiornò nella terra

promessa […] per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco” (Eb 11, 8-18)15. L’affidarsi a Dio da

parte di Abramo (Gen 15,6) è espresso mediante la radice ebraica ‘mn presente nella forma he’mîn,

indica stabilità e sicurezza derivanti proprio dall’appoggiarsi a qualcuno. Dalla stessa radice deriva

‘emûnah che significa fedeltà (2Cr 20,20), retto comportamento (2Re 12,16; 22,7; 2Cr 31,18),

accettazione delle promesse di salvezza (Sal 106; cf. Sal 116; 119), obbedienza dei comandamenti

(Sal 78,22.32). Da cui la parola ‘emûn, risposta all’alleanza con riconoscimento dell’unico Dio (Dt

5,7), amore esclusivo e confidente (Dt 6,5), osservanza dei precetti (Dt 7,12); fino ad arrivare alla

parola più usata e conosciuta, ‘emet assumendo la sfumatura di sincerità del cuore, aprendosi al

significato della “verità” (Gs 2,14; Sal 26). È da dire che l’AT ha una grande varietà di termini che

indicano il vocabolo fede, qui ho indicato ciò che a me sembra più inerente al tema in questione16

.

Tale varietà trova un punto comune nel termine usato nel NT, pistéuō/pístis (credere/fede),

moltissime volte. Tali termini conservano il senso prevalente di fiducia. Credere è anche

riconoscere Gesù, il nuovo Abramo, come il messia (Mc 15,32) attraverso la sua morte e

risurrezione (At 2,14-36), così che il cristiano viene definito come “il credente” (At 2,44; 4,32;

11,21)17. Da quanto detto osserviamo che la fede veterotestamentaria pone l’accento sull’aspetto di

fiducia; mentre quella neotestamentaria risalta l’aspetto di assenso al messaggio cristiano18

. Tale

fede splende particolarmente in Abramo, per il quale fidarsi di Dio significa uscire dalla sua terra,

mettersi in cammino sulla parole di una promessa, affrontare l’incertezza e la debolezza, e gettarsi

verso un futuro di là da venire, il tutto segnato dalla gioia di un figlio nella vecchiaia e dalla

richiesta del sacrificio più grande, dello stesso unico figlio (Cfr. Gn 12 e 15). Da questo breve

percorso sulla fede di Abramo vogliamo adesso evidenziare le dinamiche e le caratteristiche di una

fede missionaria moderna, genuina, gradita, utile per noi oggi alla luce dell’Evangelii gaudium.

15

Cfr. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 255; Per ulteriori approfondimenti rimando a Cfr. B.

COSTACURTA, Abramo e l’esperienza della fede, in H. ALPHONSO (a cura di), Esperienza e spiritualità, Roma

1995, 15-28; F. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede. Sulle orme di Abramo e Sara, Paoline, Milano 2013. 16

Cfr. A. JEPSEN, ‘aman, in GLAT, I, 626-695; H. WILDERBERGER, ‘mn, in DTAT, I, 155-183. 17

Cfr. A. VANHOYE, Ebrei, 430-436; B. MARCONCINI, Fede, 536-552; S. VIRGULIN, Abramo, 3-10, in NDTB, a

cura di Pietro Rossano, Gianfranco Ravasi, Antonio Girlanda, San Paolo, Cinisello Balsamo Milano 2001. 18

Cfr. J. ALFARO, La fede come dedizione personale dell’uomo a Dio e come accettazione del messaggio cristiano, in

Concilium 3 (1967), 68; Ibidem, Fide in terminologia biblica, in Gregorianum 42 (1961), 463-505; interessante in tal

senso il contributo di M. BUBER, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo Milano

1995, in cui l’autore presenta la fede ebraica come esistenziale che si differenzia dalla pìstis greca dai tratti di

un’impropria intellettualizzazione.

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La fede è un uscire dalla propria terra, “Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua

patria e dalla casa di tuo padre …” (Gn 12, 1). La fede si esprime qui come una risposta alla parola

di Dio che ti viene rivolta, e comanda in maniera imperativa ad uscire dalle proprie certezze19

. Essa

non è, un punto di arrivo, né un’opera umana, la conclusione di un ragionamento o un rapporto

costruito su ragioni convincenti: la fede è un “cominciamento” dell’esperienza di Dio20

. La

missione comincia proprio seguendo la voce di Dio. In questa prospettiva la missione è una realtà

attiva, aperta, dinamica e imprevedibile, fondata unicamente su Dio. Riecheggia in questo approccio

l’invito ad un “improrogabile rinnovamento ecclesiale” di papa Francesco nell’Esortazione

Apostolica Evangelii gaudium. Il pontefice indicando proprio Abramo, tra gli esempi di fede da

seguire, auspica la Chiesa in “uscita”, dalle porte “aperte”, che trova gioia nell’accettare “questa

libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da

sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi”. In tale prospettiva la fede come

“inizio” si esplicita in modo efficace in una Chiesa dalle porte aperte, ri-volta fuori, declinata in una

pastorale con chiave missionaria, che abbandona il comodo criterio del “si è fatto sempre così”.

“Invito tutti, afferma papa Francesco, ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli

obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità (cfr. EG 20-33)”.

Questa immagine di “Chiesa aperta” è stata utilizzata già da Rahner in un suo famoso saggio21

, e

viene ripresa da Cosentino, significata nei termini di una comunità che si confronta con il rischio

del mondo, che si nutre di una fede che non ha paura della ragione, ma al contrario la cerca ed ha

fiducia in essa22, rifiuta l’immobilismo che genera la dimensione del “ghetto” e si rinnova non nel

compromesso con il secolo ma nel discernimento e ristabilimento dei caratteri essenziali della

Chiesa23

.

La fede è cammino, pellegrinaggio: è interessante notare come Abramo dinanzi al comando di Dio

non proferisce parola, ma immediatamente si mette in cammino: “Allora Abram partì, come gli

aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò

Carran” (Gn 12, 4). La fede viene a porre un movimento, un cammino, un pellegrinaggio nella gioia

di una promessa avvolta dall’oscurità. Credendo Abramo abbracciò la strada indicatagli da Dio,

lasciò le sue sicurezze e rese la sua disponibilità a Dio24

. La fede chiede di muoversi dal proprio

rifugio psicologico e razionale, di liberarsi dal peso della consuetudine, di abbandonare le sicumere

nelle quali la vita spesso si crogiola. In altre parole, è necessario liberare uno spazio in cui Dio trova

ospitalità e fissa dimora. Ecco il vero luogo su cui cammina il credente, non è più la propria terra,

ma Dio stesso che cammina a fianco dell’uomo25

. Dinanzi a ciò ci rendiamo conto che le strutture

ecclesiali non sono dei luoghi in cui si imprigiona la forza liberante della parola di Dio, il luogo

autocelebrativo e autoreferenziale delle fede, ma il luogo teologico in cui con Dio liberarsi da ogni

catena, immobilismo e formalismo. Le sicurezze fanno mettere le radici fisse, la fede mette le sue

radici in Dio che è sempre in cammino e in movimento: la Chiesa pone le sue radici soltanto nel

19

Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 25-27. 20

Cfr. F. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 257. 21

Cfr. K. RAHNER, Trasformazione strutturale della chiesa come compito e come chance, Queriniana, Brescia 1963,

114. 22

FRANCESCO, Evangelii Gaudium. Testo integrale e commento de “La Civiltà Cattolica”, Ancora, Milano 2014,

123-124. 23

Cfr. F. COSENTINO, Immaginare Dio, 95-104. 24

Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 33-36. 25

Cfr. F. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 258.

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Dio di Gesù Cristo, quale “Dio con noi” e per noi, che ha scelto l’umano quale luogo in cui rivelarsi

e far conoscere il suo amore misericordioso a tutti i popoli (cfr. EG 20-24).

La fede fra l’oggi della storia e il domani di Dio: il racconto di Gen 12 mette in evidenza anche il

rapporto tra l’azione di Dio rivolta al futuro e l’azione di Abramo volta al presente. In effetti

l’esperienza di Abramo si muove tra un presente e un futuro. Per essere più precisi, dal testo si nota

che la fede è la risultante di una combinazione fra futuro aperto alla speranza e presente che

richiede un impegno immediato26

. Qui si colloca una caratteristica fondamentale della fede dalla

cifra moderna che è tutta da recuperare: il credere non è mai inteso come una sorta di spazio vuoto

dilazionato nel tempo, ma è un impegno concreto nell’oggi della storia con l’anelito al futuro carico

di speranza (cfr. EG 222). La fede in sintesi, richiede l’urgenza coraggiosa di attualizzare e attuare

la “Parola” ricevuta27

. Spesso la pratica credente è intrisa di incredulità perché vive il presente in

una sorta di dis-incarnazione della fede, nutrita anche di buone azioni, quali partecipare a messa,

praticare i sacramenti, ma senza una connessione ad un prima e ad un dopo, senza incidenza

concreta nella vita. Molti credenti vivono come in una gaia speranza apatica certi di aver compiuto

il proprio dovere di cristiano rispettando i precetti senza però compiere scelte immediate e decisive.

La fede come preghiera: nota interessante dell’esperienza di fede di Abramo è quella di manifestare

attraverso la costruzione di altari lungo tutto il suo cammino. Pratica già in uso presso i popoli della

terra di Canaan e del Vicino Oriente Antico, ma che nella storia di Abramo lascia trasparire il

carattere orante della fede. Non esiste fede se non per la forza che viene dall’alto. Il patriarca

Abramo sentiva il bisogno di rivolgersi a Dio e riconoscerne la presenza all’interno del suo

itinerario. Perciò si ferma a pregare, ringraziando e trovando la forza per proseguire il cammino. La

costruzione dell’altare indica l’atteggiamento di gratitudine del credente, fatto di colloquio intimo e

di liturgia28

. In questa caratteristica della fede si evince la dimensione del credere nutrita dalla

presenza viva di Dio che trova nella preghiera e nel rito liturgico la via per entrare in contatto con

Lui, fare memoria del patto di alleanza, esprime ringraziamento e gratitudine. L’altare è segno e

testimonianza che il cammino si compie per la mano di Dio e in realizzazione di un volere divino.

Afferma papa Francesco nell’Evangelii gaudium a proposito del valore della preghiera per la nuova

evangelizzazione al numero 264: “abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui

che torni ad affascinarci. Abbiamo bisogno d’implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia

perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale. Posti dinanzi a Lui

con il cuore aperto, lasciando che Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che

scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: «Io ti ho visto quando eri sotto

l’albero di fichi» (Gv 1,48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al

Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a

toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che,

in definitiva, «quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo» (1 Gv 1,3). La migliore

motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue

pagine e leggerlo con il cuore”. È solo nella preghiera, nello stare davanti a Dio con cuore aperto

che possiamo scoprire la bellezza affascinante di uno sguardo di amore che tocca e trasforma la

26

Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 45-50. 27

Cfr. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 259-260. 28

Cfr. Ibidem, 261.

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nostra esistenza e ci spinge a proseguire il cammino lungo le strade della storia da credenti con la

lampada della fede accesa.

La fede come silenzio: il dialogo di Abramo con Dio è caratterizzato dal segno inequivocabile del

silenzio. Gen 12 nella sua parte iniziale, rispetto a Gen 15 in cui Abramo viene presentato come

l’amico che discute con Dio, è segnato dal “terribile” silenzio di Abramo. Un silenzio profondo che

indica la tragicità e la fatica di una scelta che necessita di essere interiorizzata e assimilata. Questo

tratto contrasta molto con l’atteggiamento del cristiano moderno poco incline al silenzio e molto

dedito a riempirsi di parole futili. Si fa molta fatica a rimanere soli con se stessi. L’uomo

contemporaneo teme il silenzio perché esso rimanda agli abissi della condizione umana e al mistero

che lo sovrasta. Abramo invece tace e medita dentro di sé la forza della parola udita. Non lascia che

altre parole lo distraggono dal cammino di fede che deve intraprendere. Qui emerge un aspetto della

fede che oggi è spesso frainteso e trascurato: al cammino esteriore corrisponde un cammino

interiore. La fede si coltiva e si esprime a partire da uno sguardo, prima dal sentire lo sguardo di

Dio rivolto sulla propria esistenza, e poi portare questo sguardo verso i fratelli e il mondo. Questa

dinamica si coglie nel silenzio delle labbra e dalla parola del silenzio (Cfr. EG 265-267).

L’equivoco a cui si assiste oggi è di coltivare l’interiorità come intimismo senza apertura alla parola

di Dio che coinvolge e trasforma tutta la vita. Abramo esteriormente abbandona le sue sicurezze e i

legami terreni, interiormente si distacca dalla confusione per concentrarsi sulla cosa necessaria: la

parola di Dio. Questa caratteristica esprime l’importanza della meditazione, della lectio divina e

della contemplazione per la fede. Assistiamo a troppe parole, troppi discorsi, e a poco silenzio per la

fede e l’interiorizzazione della Parola. Le conseguenze di questi atteggiamenti sono evidenti nella

diffusa superficialità e frivolezza che caratterizza certi cristiani. Il silenzio invece custodisce e

feconda la Parola come un seme nella terra fertile. Un silenzio evidentemente non da confondere

con il mutismo, bensì come azione attiva, il silenzio così inteso permette di cogliere l’ampiezza di

un cuore capace del mistero di Dio e di gustare la profondità del cuore di Dio amante della vita29

.

La fede tra dubbio e debolezza: Gen 15 ci presenta un Abramo sotto un’altra luce rispetto a quello

narrato da Gen 12. Non è più il pellegrino silenzioso, ma un interlocutore che parla con Dio in un

colloquio improntato alla familiarità. Dai colloqui con il suo Dio si scorge un Abramo che fa i conti

con una fede non scontata: si rende presente il dubbio dinanzi alla mancata discendenza. Dice

Abramo rivolto al suo Dio: “Io me ne vado senza figli e l'erede della mia casa è Eliezer di

Damasco” (Gn 15, 2). Si esprime in questa dinamica la resistenza della debolezza umana dinanzi al

piano di Dio che è sempre fedele alla sua promessa. La tentazione di non fidarsi di Dio è troppo

forte30. “Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato

da te sarà il tuo erede (Gn 15, 4). Abramo comprende che le sue incertezze sono fasciate dalla

solidità della promessa e dalla grazia preveniente di Dio. La forza della fede di Abramo sta

nell’umiltà di fidarsi della parola di Dio anche dinanzi alle contraddizioni e la fatica del cammino31

.

L’atto della fede viene qui presentato più che come certezza teoretica, come fatica esistenziale di

affidarsi32. Questo approccio è molto in contrasto con l’idea di fede odierna ripiegata dalla continua

ricerca degli operatori ecclesiali di piani e progetti pastorali, pur necessari, per raggiungere gli

29

Cfr. Ibidem, 261-263. 30

Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 63-64. 31

Cfr. Ibidem, 67-69. 32

Cfr. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 264-265.

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obiettivi sperati. Sarebbe bene mai dimenticare che la fede è sapere fidarsi di Dio anche dinanzi agli

insuccessi pastorali e che anche se noi non siamo sempre coerenti nell’impegno Egli è sempre

fedele alle sue promesse. Anche quando sembra che prevalgano le contrarietà e il fallimento il

credente confida che nell’economia dell’agire di Dio nessuno sforzo è vano e nessun atto di fede va

perduto (Cfr. EG 40-45).

Gli orizzonti immensi della fede: “Poi lo condusse fuori e gli disse: Guarda in cielo e conta le stelle,

se riesci a contarle, e soggiunse: Tale sarà la tua discendenza. Egli credette al Signore, che glielo

accreditò come giustizia” (Gn 15, 5-6). Il racconto ci presenta il passaggio successivo al dialogo che

Abramo ha avuto con Dio dentro la tenda. In questo quadro Dio conduce fuori Abramo e lo invita a

scrutare l’immensità del cielo stellato. In questo cambiamento di luogo, con un interpretazione

simbolica, possiamo scorgere l’invito rivolto ad Abramo di aprire le prospettive del suo sguardo

secondo l’ampiezza dello sguardo di Dio. Dinanzi alla ricerca delle sicurezze umane e

all’assalimento del dubbio, Dio chiede di uscire fuori dai propri stretti confini per alzare lo sguardo

e percepire gli infiniti orizzonti di Dio33

. Questo aspetto è molto suggestivo e lascia intravedere il

respiro della fede che sospinge il credente oltre i propri ragionamenti e i calcoli umani (Cfr. EG

222-225). Dinanzi alla promessa di una moltitudine stellata le garanzie umane diventano come

briciole. Viene qui consegnata una grande perla di saggezza per il credente: gli occhi della fede si

sforzano di guardare e organizzare la realtà dal punto di vista di Dio34

.

La fede provata nel sacrificio: questo passo ci presenta il terzo quadro della narrazione di Gn 15, il

momento angoscioso della paura che Dio sia venuto meno alla sua parola, che abbia tradito la

speranza. In un contesto di profonda incertezza la fede di Abramo viene provata al fuoco.

Evidenziamo tre elementi che ci consentono di cogliere la dinamica dell’atto di fede: “il sole stava

per tramontare”, simbolo del dominio del male nell’assenza di luce; “un torpore scede su Abramo”,

indice di stanchezza e di attesa, dell’incapacità di andare oltre; “un oscuro terrore lo assalì”, il

panico dinanzi all’assenza di Dio. Abramo resta in attesa, Dio giunge all’ultimo minuto per

consumare le vittime preparate. La fede passa attraverso il sacrificio della notte oscura e

dell’assenza di Dio (Cfr. EG 10-13). Abramo resta un esempio di fede perché ha avuto fiducia nel

suo Dio anche nel momento più difficile del suo cammino35

.

La fede come libertà dall’ansia di possesso: in Gen 22, 2-19 si presenta una situazione drammatica e

impensabile per Abramo. Nato Isacco, il figlio della promessa, Dio chiede la rinuncia del

discendente legittimo: Abramo è chiamato ad offrire Isacco in olocausto. Ci si trova sull’abisso, Dio

chiede di restituirgli quanto ha donato, sembra rinnegare le sue promesse36

. Senza voler qui

sviluppare un commento esegetico su un passo biblico che ha destato non pochi grattacapi agli

addetti ai lavori, si desidera soltanto mettere in evidenza come la fede nell’esperienza del patriarca

Abramo chiede di mettere al centro della vita soltanto Dio. Nessuno, nemmeno il figlio, può

adombrarne la centralità. Questa pagina biblica è divenuta il paradigma dell’atto di fede, infatti

nello svolgersi del racconto si capirà che Dio non vuole sacrifici umani ma desidera soltanto una

totale fiducia e obbedienza alla Sua Parola. In questa logica viene mostrato come anche i doni di

Dio gestiti come proprietà personale e privata possono diventare un ostacolo alla relazione con Lui,

33

Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 65-66. 34

Cfr. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 265-266. 35

Cfr. Ibidem, 266. 36

Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 129-133.

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fonte di ogni dono. Abramo, che ha sempre desiderato vedere il volto dalla cui bocca ascoltava

quella voce, al termine della sua vita ha visto, nel senso di fare esperienza, che il suo Dio è amico e

ama la vita, la protegge e mantiene le sue promesse37. In questa fede dell’assurdo di Abramo, dove

ogni calcolo era stato abbandonato Kierkegaard coglie la giovinezza dell’uomo che crede e che

spera in un futuro migliore38

. La fede non possiede ma libera i doni di Dio in una speranza che non

delude ma apre a qualcosa di più grande. La fede resta viva e giovane soltanto quando resta

ancorata alla Parola e non alle sicurezze umane, perché Dio desidera soltanto abbondanza di vita per

i suoi figli. Una fede declinata nel possesso geloso dei doni di Dio è destinata ad ammalarsi e

morire. Papa Francesco ci ha ricordato che: “quando la vita interiore si chiude nei propri interessi

non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si

gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti

corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite,

scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di

Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore di Cristo risorto” (EG 2).

La riflessione sul racconto di Abramo ci permette di tracciare le caratteristiche di una fede dal

sapore antico e sempre nuovo, dal tratto provocatorio per il nostro tempo, appunto missionario, che

scaturisce nel cuore di una persona e si dissemina in vista di una grande discendenza. Si tratta della

fede che contagia e genera vita, che sa compiere scelte coraggiose e farsi cammino nel mistero della

verità che rende liberi. Una fede interessante, moderna, che implica una sorta di irrazionalità,

costringe ad abbattere il “muro di gomma delle certezze” e costringe a vivere in balìa delle

temperie, dove a vincere è l’esposizione alla vita, dove in nome di Dio “sa perdere anche terreno e

smontare le sue sicurezze, svestirsi delle sue vesti, dei suoi merletti e delle sue convenzioni”. Partire

confidando nella parola di un Dio che chiama per nome verso una terra promessa: non è questo

forse, l’insegnamento che la storia di Abramo, vuole trasmetterci nell’oggi della nostra storia? Un

esempio di fede genuina e gradita?39

Un esempio che sospinge ad essere uomini del “cammina-

cammina”, in viaggio, esposti ai sussulti della vita, il luogo dove conosciamo chi siamo veramente e

percepiamo di essere sulla strada giusta40

.

GIONA: UN PROFETA RILUTTANTE DELLA MISERICORDIA DI DIO

Testi di riferimento: DIOCESI DI VERONA, Giona, profeta riluttante della misericordia di Dio, a cura di don Tiziano

Brusco, Quarisma 2012. ERRI DE LUCA, Giona/Ionà, Feltrinelli, Milano 1995. P. SESSOLO, La salvezza dei popoli

nel libro di Giona. Studio sul particolarismo ed universalismo salvifico, Roma 1977.

Giona è il protagonista di un piccolo libro, un romanzo didattico del Primo Testamento, di soli

quattro capitoli, scritto probabilmente tra il 500 e il 400 a.C. E’ paradigma di un itinerario e di un

percorso di vita chiamato ad andare sempre oltre41

. Collocato tra i profeti minori il libro di Giona

non ha le caratteristiche di un testo profetico: il protagonista non ha le caratteristiche di una persona

reale ma rappresentativa di un popolo (o una parte di esso).

37

Ibidem, 134-136. 38

Cfr. S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, Rizzoli, Milano 1995, 21; 211. 39

Cfr. TESTAFERRI, Credo, aiutami nella mia incredulità, 36-37. 40

Cfr. DOTOLO, Una fede diversa, 10. 41

Cfr. Interessante e originale traduzione di ERRI DE LUCA, Giona/Ionà, Feltrinelli, Milano 1995.

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Il libro di Giona è il più breve della Bibbia ebraica dopo quello di Abdia; è una sorta di parabola

ricca di provocazioni e sfide rivolta ad una comunità, quella ebraica, che affrontava la situazione di

ritorno alla terra dopo il tempo dell’esilio. Era in atto una lenta riorganizzazione della vita in un

contesto segnato dal confronto con altri popoli e culture. Il popolo ebraico tendeva a mantenere la

propria specificità e peculiarità tra altri popoli, sottolineando la sua separatezza dai pagani al punto

che i matrimoni misti erano proibiti. Era una comunità preoccupata di perdere la propria identità

sociale, religiosa e cultuale, e proprio per questo tendente a rinchiudersi in una attesa del giudizio di

Dio sui pagani. Un libretto, che però è stato definito da qualcuno “la bomba atomica dell’Antico

Testamento… Il libro di Giona è scritto proprio per punzecchiare la comunità post-esilica … Ma il

libro di Giona è anche una grande provocazione per noi missionari che lavoriamo in Europa”42

.

Leggendo questi quattro capitoletti – scorrevoli, gustosi, ironici e infarciti di situazioni paradossali

che strappano un sorriso – si capisce che siamo di fronte ad una parabola, ad un racconto popolare,

ad una sacra rappresentazione in quattro scene che, usando nomi e vicende storiche conosciute dai

lettori, critica - con l’arma dell’ironia e del paradosso - una mentalità diffusa al suo tempo. Lo

stesso nome del profeta (Giona = colomba; Amittai = degno di fiducia) è ironico, perché la vera

colomba è Dio (il protagonista nascosto), mentre Giona fa la figura del corvo petulante o del gufo

malfidente. Nel libro parlano le situazioni paradossali, le immagini simboliche, più che le parole!

Come ogni parabola, anche questo racconto ha lo scopo di portare gli interlocutori a identificarsi nei

personaggi presentati; a riflettere su ciò che succede nella storia; a porsi delle domande sul proprio

modo di comportarsi e sull’idea che ognuno si è fatto di Dio: Ti sembra giusto fare così? È proprio

così, come tu pensi e credi, o la realtà della vita e il modo di agire di Dio sono diversi?

Il libro di Giona è uno dei frutti di quella minoranza ebraica (di ispirazione profetico-sapienziale)

che aveva iniziato a mettere in crisi le certezze del giudaismo dominante in Israele dopo l’esilio.

Giobbe e Qoèlet criticano la dottrina tradizionale della retribuzione e aprono il cammino ad una

nuova interpretazione del dramma della sofferenza e del male. Rut e Giona superano l’idea di un

Dio che ama solo gli Ebrei e aprono la strada a riconoscere la fede e il bene presenti in ogni popolo.

Il Cantico dei Cantici contesta il legalismo maschilista della società patriarcale per mettere al primo

posto la forza dei sentimenti e il primato dell’amore. Viene così ripreso quel messaggio profetico

che già al tempo della monarchia (con Osea e il Primo Isaia), ma soprattutto durante l’esilio (col

Secondo e Terzo Isaia) aveva fatto intravedere il volto di un Dio benevolo verso tutti i popoli,

compassionevole verso i malvagie paziente anche verso i suoi figli più capricciosi e testardi. La

nuova visione di Dio e del suo modo di agire, maturata da correnti profetiche, chiede un

cambiamento di mentalità agli Ebrei, come singoli e come popolo.

Il messaggio centrale del libro diventa, perciò, la conversione di Giona (cioè di Israele) a servire il

progetto di Dio che vuole la salvezza di tutti gli uomini, superando le ristrettezze della mentalità

religiosa tradizionale ebraica.

Ma Israele sarà disposto a fare questo passo di apertura al diverso, questo radicale cambiamento di

identità culturale e religiosa? Nella parabola i marinai si convertono; gli abitanti di Ninive anche. E

Giona? Il racconto lo descrive molto contrariato verso Dio e indispettito per il perdono accordato.

Non si sa se Dio sia riuscito a spuntarla con il suo profeta, con quel suo popolo dalla dura cervice.

42

A. ZANOTELLI, Alzati và a Ninive, in http://www.giovaniemissione.it/spiritualita/darteo2.htm.

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La vicenda di Gesù di Nazareth – cresciuto tre secoli dopo nella rigida mentalità del giudaismo del

Secondo Tempio – confermerà che l’integralismo religioso è duro a morire e porta i suoi frutti di

morte in ogni epoca storica. Gesù porterà alla sua pienezza il cammino di rivelazione del volto di

Dio, annunciando un Padre che ama tutti gli uomini e tutti vuole salvare. Annuncerà che il modo di

fare giustizia di Dio è quello di usare misericordia, perché è buono, fedele e grande nell’amore.

Gesù darà molti segni del grande amore di Dio verso tutti, soprattutto verso i peccatori, i malati, gli

stranieri, gli impuri, gli emarginati dalla società legalista del suo tempo. Per questo si è richiamato

al libro di Giona per chiedere ai suoi contemporanei un cammino di conversione, interpretando i

segni che Dio dava loro attraverso la sua vita (Mt 12,38-42; Lc 11,29-32).

Oggi la lettura del libro di Giona pone gli stessi interrogativi alla nostra Chiesa: i cristiani, infatti, si

trovano a vivere e ad annunciare il Vangelo in una società fortemente secolarizzata e globalizzata,

dove il credente di religione diversa, l’indifferente, l’ostile, il diverso, è il vicino di casa e lavoro.

Così diventa viva e coinvolgente anche per noi questa perla di saggezza racchiusa nella Bibbia.

Il libro di Giona è diviso in due parti simmetriche: Capitoli 1 e 2: Giona disobbedisce a Dio, fugge,

ma poi inizia a pregare. Capitoli 3 e 4: Giona obbedisce a Dio, predica, ma poi si lamenta. Ogni

parte è costituita da due scene parallele: Prima parte: Giona e i marinai pagani nella tempesta;

Giona nel ventre del pesce e Dio. Seconda parte: Giona e gli abitanti di Ninive che si pentono;

Giona si lamenta con Dio. Nel testo si sente l’eco di alcuni Salmi: 55,1-8; 115,3; 135,6; 130; 139 e

di vari episodi biblici.

ISTANTANEE DELLA VICENDA DI GIONA PROFETA SUO MALGRADO:

Alzati và … Giona invece, scese … (Giona 1,1-12)

“Fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, questa parola del Signore:“Alzati, va’ a Ninive, la grande

città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”. Giona invece si mise in cammino

per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis.

Pagato il prezzo del trasporto, s’imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore. Ma il Signore

scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare una tempesta così grande che la nave stava per

sfasciarsi. I marinai, impauriti, invocarono ciascuno il proprio dio e gettarono in mare quanto

avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona sceso nel luogo più in basso della nave, si era

coricato e dormiva profondamente. Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse: “Che cosa

fai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non

periremo”. Quindi dissero fra di loro: “Venite, tiriamo a sorte per sapere chi ci abbia causato

questa sciagura”. Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. Gli domandarono: “Spiegaci dunque

chi sia la causa di questa sciagura. Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A

quale popolo appartieni?”. Egli rispose: “Sono Ebreo e venero il Signore, Dio del cielo, che ha

fatto il mare e la terra”. Quegli uomini furono presi da grande timore e gli domandarono: “Che

cosa hai fatto?”. Infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva lontano dal Signore, perché lo aveva

loro raccontato. Essi gli dissero: “Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è

contro di noi?”. Infatti il mare infuriava sempre più. Egli disse loro: “Prendetemi e gettatemi in

mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha

colto per causa mia”.

Da questa prima analisi si comprende che le figure e le situazioni sono simboliche:

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Giona è caratterizzato solo dall’essere figlio di Amittai, ma non si dice dove abita, cosa fa, quanti

anni ha, in che epoca vive… Di se stesso dice solo: Sono Ebreo e venero il Signore. È quindi una

figura simbolica che rappresenta il popolo ebraico e il suo modo di vivere la fede. Tutto infatti resta

nel vago: perché fugge precipitosamente senza contestare l’ordine ricevuto? Perché dorme

profondamente mentre infuria la tempesta? Perché non prega Dio e, pur sapendo cosa bisognava

fare, non ha il coraggio di buttarsi lui stesso in mare? Proprio perché Giona è una figura simbolica,

ogni lettore può identificarsi in essa, può renderla concreta con la sua realtà. Ogni persona e ogni

comunità, anche oggi, può essere Giona.

Ninive è presentata come la grande città, senza riferimenti al regno Assiro, di cui era la capitale, al

tempo in cui ci troviamo, alle atrocità di cui si è macchiata, a chi la governa... Qui richiama Babele

(la grande città con la torre alta fino al cielo) o Babilonia, la città che aveva distrutto Gerusalemme

e il tempio. Ninive diventa il simbolo di ogni potere assoluto che sfida Dio, perché vuole dominare

il mondo con la violenza e l’ingiustizia.

Tarsis è citata nella Bibbia come una città lontana, oltre le colonne d’Ercole, situata nella direzione

opposta a quella della Mesopotamia. Diventa simbolo di una fuga senza ritorno.

La missione affidata a Giona è quella di proclamare che Dio conosce il male che avviene a Ninive.

È un compito generico, senza accuse precise, fatti concreti, persone da ammonire. Esprime il dovere

per ogni credente di denunciare il male commesso dalle persone e dal potere dominante, di

proclamare che Dio non è indifferente a ciò che succede nel mondo. Agli Ebrei richiamava vari testi

biblici: il sangue di Abele che grida dalla terra (Gn 4,10); le accuse contro Sodoma e Gomorra

arrivate fino in cielo (Gn 18,20); il lamento degli Ebrei schiavi in Egitto ascoltato da Dio (Es 2,24);

il pianto degli esuli a Babilonia (Sal 137). Forse qui si riferisce ancora più direttamente alle parole

del profeta Naum (nelle Bibbie il suo libro è collocato vicino al libro di Giona), in particolare sulla

distruzione di Ninive, preannunciata nel capitolo terzo (3,1-11) ed avvenuta poi effettivamente nel

612 a.C.

I marinai della nave che compiono la lunghissima traversata fin oltre le colonne d’Ercole sono

descritti come persone di religioni diverse. Nonostante la loro fama, sono timorati di Dio, in ricerca

della verità, desiderosi di capire ciò che succede, attenti a ciò che dice Giona, onesti, laboriosi,

disinteressati, desiderosi della salvezza, pronti a credere nel Dio che quell’ebreo, suo malgrado, sta

loro annunciando. Sono troppo perfetti per essere veri! Simboleggiano i popoli pagani in mezzo ai

quali gli Ebrei vivevano e con i quali erano chiamati a rapportarsi, superando le paure che nutrivano

nei loro confronti.

Dal profondo a te grido Signore … (Giona 2,1-11)

Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre

giorni e tre notti. Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio, e disse: “Nella mia

angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai

ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare, e le correnti mi hanno

circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati. Io dicevo: “Sono scacciato

lontano dai tuoi occhi; eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio”. Le acque mi hanno

sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono sceso alle

radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire

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dalla fossa la mia vita, Signore, mio Dio. Quando in me sentivo venir meno la vita, ho ricordato il

Signore. La mia preghiera è giunta fino a te, fino al tuo santo tempio. Quelli che servono idoli falsi

abbandonano il loro amore. Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che

ho fatto; la salvezza viene dal Signore”. E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla

spiaggia.

Alcune concretizzazioni per noi

Negli abissi del male: Il mare nella Bibbia è simbolo del male, del peccato, della disperazione,

dell’impotenza dell’uomo. È il regno della morte, il potere del maligno. Giona è arrivato a toccare il

fondo per la sua infedeltà a Dio e a se stesso, per aver cercato di fuggire dalle responsabilità della

vita e dalla coerenza con la fede. Gli abissi del mare, dove regnano le tenebre e l’assoluto silenzio,

richiamano quell’esperienza spirituale che i mistici hanno descritto come “la notte dello spirito”.

Molte persone la sperimentano quando il dolore, la tentazione, l’aridità dell’animo bussano alla

porta del loro cuore. È l’esperienza di Abramo di fronte al sacrificio del figlio Isacco; di Giacobbe

nella notte di lotta con l’angelo; di Mosé di fronte alla roccia; di Elia in fuga nel deserto; di Geremia

gettato nel pozzo; di Giovanni Battista nella prigione di Erode; di Gesù nell’orto e sulla croce; di

Paolo nei tanti anni di prigionia; di Francesco a La Verna; di Gandhi nei suoi digiuni; di Madre

Teresa a Calcutta… È l’esperienza, più o meno drammatica, di ogni persona nei momenti di prova,

di dubbio, di deserto. Ma anche negli abissi più profondi del male Dio si fa trovare! Nessun luogo,

nessun tempo, nessuna tempesta, disgrazia, prova o fallimento umano possono impedire a Dio di

amarci e di esserci vicino, come compagno di viaggio silenzioso ma fedele (Rom 8,35-39). Dio non

si dà per vinto di fronte al male e al peccato dell’uomo. Manda sempre dei segni (delle persone,

degli incontri, una parola che non ti aspetti, un gesto di tenerezza…) per far rinascere serenità e

fiducia. Spesso è proprio dagli abissi del male e della disperazione che fiorisce la speranza e la lode

gioiosa del credente.

Un canto di lode: La preghiera di Giona è il punto di arrivo di un cammino di conversione che

parte dalla richiesta di perdono (qui non espressa) e giunge alla lode per la salvezza sperimentata.

Così la pace ritorna nel cuore e, con essa, la forza di rialzarsi in piedi e credere. Nel silenzio e nel

dialogo con Dio anche la prova – se non ci si dà per vinti di fronte alla propria debolezza e si

continua a lottare per non lasciarsi travolgere dalla sua forza distruttiva - può diventare

un’occasione di salvezza, un tempo di crescita umana e spirituale: Tutto concorre al bene, per quelli

che amano Dio (Rom 8,28). Quale esperienza di fede (o di ribellione) viviamo nei tempi di prova?

Alcune persone cedono alla tentazione di chiudersi nel loro dolore o di scaricarne il peso sugli altri;

altre cercano di attenuare la sofferenza stordendosi nel fare o in mille forme di evasione; altre

ancora si rivolgono ai santi (o ai maghi) sperando di ottenere un miracolo, una grazia o almeno una

veloce consolazione che faccia sparire il male e liberi dalla prova. Noi abbiamo imparato a pregare

nei momenti di sofferenza del corpo e dello spirito? Da quali sentimenti nasce e come si esprime la

nostra preghiera? A chi ci rivolgiamo? È solo richiesta di aiuto, domanda di perdono, grido accorato

o sa anche diventare preghiera di affidamento, richiesta di luce, lode e gioia di una presenza vicina e

ritrovata?

Il segno di Giona: Mt 12,39-42 e Lc 11,29-32 parlano di Gesù che fa riferimento al segno di

Giona. Più precisamente: in Luca il segno di Giona riguarda tutta la vita di Cristo, che diventa un

segno di contraddizione per spingere gli Ebrei alla conversione, a riconoscere in lui il volto

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misericordioso del Padre. In Matteo, invece, il segno di Giona richiama in modo particolare la

morte-resurrezione di Gesù, simboleggiata dai tre giorni di permanenza nel ventre del pesce. In

ambedue gli evangelisti risalta l’affermazione: Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona. Giona,

infatti, è simbolo di Cristo più per opposizione che per somiglianza: la discesa (kenosi) di Giona è

per disperazione, mentre quella di Cristo è per condivisione; Ninive si converte, mentre

Gerusalemme rifiuta; Giona è un profeta recalcitrante, mentre Gesù è sempre stato pienamente

obbediente al Padre. Il messaggio però è uguale: accogliere l’annuncio dell’amore misericordioso di

Dio verso tutti gli uomini che lo cercano e si affidano a Lui con cuore di figli. Nella sua

testardaggine di ebreo tradizionalista, ma nella sua profonda umanità di credente tormentato, anche

Giona ha preparato la via a Gesù. Quello che però deve farci riflettere - come singoli credenti e

come Chiesa veronese - è il contesto dal quale nasce il riferimento al segno di Giona: Mentre le

folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: “Questa generazione è una generazione malvagia;

essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona” (Lc 11,29). Anche

oggi la gente corre ad acclamare persone che hanno carisma, fama o ruoli di potere; si accalca per

vedere presunti miracoli, apparizioni, fatti straordinari; fa salire gli indici di ascolto di trasmissioni

che promettono emozioni forti o di svelare segreti… Il tanto decantato “ritorno della spiritualità”

nella società secolarizzata a cosa è legato? A quali bisogni risponde e che persone coinvolge? In

quali forme si esprime e verso cosa si indirizza? Da sempre gli uomini cercano miracoli, fatti di

potenza, eventi straordinari per credere al Dio Onnipotente e sperare di averne qualche beneficio

personale. Anche Gesù, Maria e i Santi a volte sono trasformati in talismani contro il male o in

messaggeri di lacrime e sangue. Se questa strada risponde a un bisogno profondamente umano di

sicurezza, di consolazione, di vicinanza e sostegno nella fatica di vivere, la proposta di Gesù è

diversa e molto più impegnativa: Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò

ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e

troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero (Mt 11,28-30).

Gesù ci invita a seguirlo sulla via della croce, sulla via del servizio umile e disinteressato. Seguire il

suo esempio nella scelta di spendere la vita nell’amore a Dio e ai fratelli, abbandonandoci con

fiducia nelle mani del Padre e attingendo da Lui la forza per superare tutte le prove, anche le più

tenebrose e angoscianti. Il segno di Giona indica ad ogni cristiano - e alla Chiesa nel suo insieme -

la via dell’abbassamento e del servizio, non quella dei miracoli e della gloria.

Ognuno di converta dalla sua violenza (Giona 3,1-10)

Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: ”Àlzati, va’ a Ninive, la grande

città, e annunzia loro quanto ti dico”. Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore.

Ninive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la

città per un giorno di cammino e predicava: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. I

cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli.

Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si

mise a sedere sulla cenere. Per ordine del re e dei suoi grandi fu poi proclamato a Ninive questo

decreto: “Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua.

Uomini e animali si coprano di sacco, e Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta

dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. 9Chi sa che Dio non cambi, si

ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!”. Dio vide le loro opere, che

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cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva

minacciato di fare loro e non lo fece.

Alcune concretizzazioni per noi

Una seconda volta: Dio rinnova la sua chiamata a Giona nonostante la fuga precedente. Dio ridà

sempre fiducia alle persone, al di là degli errori e delle debolezze, al di là dei limiti e dei tradimenti,

perché Dio ha fiducia nell’uomo ed è misericordioso sempre, verso tutti, anche verso i più riottosi.

La missione è sempre la stessa: denunciare il male; lanciare un invito alla conversione; dare una

possibilità di cambiamento (quaranta giorni); far intravedere una speranza per il futuro; fondare la

società sul primato dei valori dello spirito, sul rispetto di ogni persona e di ogni essere vivente. Dio

porta avanti il suo progetto di salvezza e non si lascia scoraggiare dalla pervicacia dell’uomo.

Quella di Giona è un’esperienza che si è ripetuta molte volte nella storia del Cristianesimo: gli stessi

apostoli hanno abbandonato Gesù, ma poi hanno continuato la sua missione; i primi cristiani, che

avevano tradito durante le persecuzioni, poi sono ritornati a dare testimonianza della fede. Così i

grandi convertiti della storia della Chiesa, di quella passata ma anche di quella più recente. È

un’esperienza che ritorna di attualità anche oggi e interroga le comunità cristiane sullo stile di

accoglienza e sui contenuti da privilegiare nell’impegno per un “secondo annuncio” del Vangelo ai

battezzati che hanno abbandonato da tempo la pratica religiosa e vogliono riprendere un cammino

di riscoperta della misericordia di Dio.

La grande città si converte: Giona annuncia quello che gli Ebrei si auguravano di vedere da tanto

tempo e che credevano fosse il compito del futuro Messia: la distruzione delle nazioni pagane e il

trionfo del regno d’Israele. Se Dio, Signore del mondo, è Giusto e Onnipotente non può non punire

chi fa il male e premiare chi gli è fedele. Questo dicono tutte le religioni e così Dio deve

comportarsi! Questo pensava Giona e si sentiva orgoglioso nell’essere il portavoce di un Dio giusto

e inflessibile. Altrimenti che vantaggio c’era a credere, ad essere membro attivo del popolo eletto?

La religione serve per tenere a freno il male con la minaccia del castigo e la promessa di un premio

eterno. Solo la paura e la sottomissione possono far vivere rettamente gli uomini. Chi fa il male, chi

adora falsi dèi, chi trasgredisce le leggi, chi rivendica autonomia di pensiero e di scelte in nome

della libertà di coscienza, si taglia fuori da ogni possibilità di salvezza. Solo i giusti meritano il

premio! Così la pensava Giona. Forse la pensano così anche molti cristiani e molte persone religiose

legate all’idea del Dio Giudice severo e implacabile; all’inferno pieno di dannati da tormentare; alla

giustizia come punizione del male fatto; alla condanna di chi ha sbagliato come rivincita per chi si è

comportato bene. Invece i peccatori incalliti si convertono; i simboli di ogni nefandezza fanno

penitenza e cambiano vita; i miscredenti propugnano la difesa dei valori morali; gli atei difendono

la libertà religiosa… Per alcuni la minaccia del castigo si trasforma in una benedizione e nella gioia

di un’esperienza nuova. Ma, cosa ancora più incredibile per un credente tradizionale, Dio stesso

cambia atteggiamento verso quei miscredenti e si mostra benevolo, magnanimo, mite,

misericordioso. Il paradosso è evidente nella prontezza e nella totalità di questa conversione, ma la

preghiera di intercessione di Abramo per Sodoma (Gn 18, 22-33) ci ricorda che Dio avrebbe

perdonato anche se solo poche persone si fossero convertite. Lui è Dio e perdona per

sovrabbondanza d’amore, non per i meriti dell’uomo.

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Ti sembra giusto essere così sdegnato? (Giona 4,1-11)

Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. Pregò il Signore: “Signore, non era forse

questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis;

perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi

riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire

che vivere!”. Ma il Signore gli rispose: “Ti sembra giusto essere sdegnato così?”. Giona allora

uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all’ombra, in

attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. Allora il Signore Dio fece crescere una pianta

di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò

una grande gioia per quel ricino. Ma il giorno dopo, allo spuntare dell’alba, Dio mandò un verme

a rodere la pianta e questa si seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento

d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo:

“Meglio per me morire che vivere”. Dio disse a Giona: “Ti sembra giusto essere così sdegnato per

questa pianta di ricino?”. Egli rispose: “Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!”. Ma il Signore

gli rispose: “Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu

non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere

pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non

sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”.

Concretizzazioni per noi

Ne sono sdegnato da morire!: La rabbia e lo sdegno di Giona nascono dal fatto che viene

confermato il suo timore su Dio e sulla nuova sensibilità religiosa maturata dopo l’esperienza

tragica dell’esilio: Dio è presente in tutti i popoli e ci sono dei veri credenti all’interno di ogni

cultura e religione! Gli Ebrei sono perciò chiamati a dialogare con ogni persona e a riconoscere il

bene presente in ogni tradizione religiosa. Per l’Ebraismo questa apertura universalistica diventava

una svolta epocale! Lo stesso cambiamento di mentalità è stato chiesto alla Chiesa Cattolica con la

riforma liturgica, l’apertura ecumenica, il dialogo interreligioso, l’attenzione ai valori della cultura

moderna portati dal Concilio Vaticano II. Come Giona, anche molti cristiani legati alla mentalità

tradizionale hanno reagito risentiti a queste novità e si chiedono: a cosa serve allora essere

battezzati, andare in chiesa regolarmente e osservare i comandamenti; predicare, fare catechismo e

invitare tutti a credere in Cristo; darsi tanto da fare per gli altri, mandare persone in missione e

insistere perché si viva rettamente? Se Dio è presente in ogni religione; se Lui salva tutti; se

perdona gratuitamente e non vuole che alcuno si perda… allora che vantaggio c’è a essere praticanti

devoti, a osservare con scrupolo le leggi, a seguire le direttive della Chiesa? Tanto vale fare la bella

vita, cercare i propri interessi, pensare solo a se stessi. Questo dicono molti cristiani e lo sostengono

con forza davanti a chi ha commesso qualche delitto, a chi trasgredisce le regole morali, a chi

pratica un’altra religione o è indifferente alla fede: qui in terra (ma poi anche in cielo) deve esserci

una chiara condanna per chi fa il male e un premio per chi fa il bene.

Un Dio diverso dai nostri schemi: Il vero protagonista del libro di Giona è Dio. È Lui che muove

le fila di tutta la storia e sue sono le parole con cui si conclude. Ma Dio è un protagonista nascosto,

che resta sempre dietro le quinte, perché Lui è più grande dell’uomo e non deve mai essere ridotto a

una delle comparse della sua storia di dannazione o di salvezza. Quando gli uomini hanno voluto

catturare Dio nei loro schemi filosofici, teologici, religiosi, lo hanno trasformato in un idolo, fatto a

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loro immagine e somiglianza. A Dio è stato dato il volto del potere ed è diventato causa di infinite

violenze e sofferenze, fonte di discriminazioni e privilegi, protettore dei ricchi e dei potenti, oppio

dei poveri e dei sofferenti. Un Dio piccolo e meschino, affamato di preghiere e di sacrifici,

ossessionato dal sesso e dalle eresie, smanioso di punire chi non si sottometteva docilmente al

giudizio sancito dai suoi rappresentanti. Un Dio rivestito d’oro e di drappi preziosi; acclamato come

un re e temuto come un tiranno; ridotto alla stregua di uno sponsor da esibire nelle dispute politiche,

economiche, scientifiche, morali… Il Dio che, discretamente, sta dietro le quinte, ma si preoccupa

della grande città e si prende a cuore la sorte dei suoi abitanti, è un Dio diverso da quello in cui

crede Giona e che predicano le istituzioni religiose teocratiche. È un Dio misterioso e invisibile, ma

insieme vicino alle persone; un Dio che è oltre ogni umana rappresentazione, ma che non disdegna

di mostrarsi con il volto di un padre e di una madre, di un fratello e di un ospite, di uno sposo e di

un amico, di un amante e di un amato, di un povero, di un sofferente, di un malato, di un carcerato,

di un servo e dell’ultimo degli schiavi. Giona rifiuta di cambiare idea su Dio, scalpita, si arrabbia.

Difende le sicurezze teologiche e lo stile di vita tradizionali del suo popolo. Vuole restare profeta

del castigo e delle sicurezze morali, del Dio della Legge e degli Eserciti, del Dio Re e Giudice.

Rifiuta di diventare il profeta gioioso del Dio del perdono, della pace, della fraternità universale.

Non è il vangelo che vuole portare, ma la spada! Noi, Chiese cristiane del terzo millennio, che Dio

stiamo annunciando agli uomini e alle donne del nostro tempo e alle nuove generazioni che stanno

crescendo? Rimaniamo chiusi nella torre d’avorio delle nostre certezze teologiche, dell’uniformità

centralista, delle nostre pratiche tradizionali, delle nostre chiese sempre più vuote, o ci facciamo

testimoni gioiosi del Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore che ci ha

testimoniato l’umanissimo e sorprendente libro di Giona?

GESÙ: LO STILE NUOVO DEL MISSIONARIO

È la sua figura, il suo modo di presentarsi e la sua metodologia che occupa adesso la nostra

attenzione: in Lui, infatti, sappiamo di trovare l’origine della missione apostolica (cf A.VANHOYE,

Le origini della missione apostolica nel Nuovo Testamento, in La Civiltà Cattolica 141 (1990) 544-

558).

Gesù non ha fatto il missionario all’estero: L’idea abituale di missionario ci porta a pensare ad

una persona che lascia la propria terra per andare in paesi lontani ad annunciare e testimoniare la

propria fede a popoli che ancora non la conoscono. In questo senso Gesù non è stato missionario.

Egli è sempre rimasto nel suo paese fra i suoi connazionali e non ha espresso la consapevolezza di

voler personalmente compiere la sua missione fra le nazioni pagane. Gli è accaduto qualche volta di

uscire dal territorio di Israele, ma in quei casi non predicava e cercava piuttosto di passare

inosservato (Mc 7,24: “Andò nella regione di Tiro e di Sidone e non voleva che nessuno lo

sapesse”). Un giorno, mentre si trovava nella regione di Tiro e di Sidone, secondo la narrazione di

Matteo, Gesù dichiarò ai suoi discepoli: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa

di Israele” (Mt 15,24). Una frase simile esclude decisamente un impegno di missione all'estero. In

un’altra occasione (Mt 23,15) Gesù, rimproverando scribi e farisei, fa allusione al loro grande

impegno per fare un solo proselito e non esprime affatto l’intenzione di imitarli.

Gesù è impegnato in un’attività missionaria: Tuttavia Gesù si è mostrato cosciente di un’urgenza

missionaria e ha vissuto nella propria vita l’impegno di raggiungere le persone e di annunciare loro

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l’intervento di Dio. A differenza di Giovanni Battista, Gesù ha concepito la sua missione

evangelizzatrice in modo molto dinamico.

Gesù, sebbene abbia iniziato anch’egli nel deserto, adotta uno stile di vita e di ministero

completamente diverso: egli va dove vive la gente. Abbandona la piccola Nazaret, per stabilirsi a

Cafarnao, un autentico porto di mare, cittadina ricca di movimento e visitata da un gran numero di

persone (Mt 4,13; Mc 1,21). Ed inizia la sua predicazione proprio là dove la gente si riunisce

abitualmente: al sabato in sinagoga (Mc 1,21). Ha molto successo, tutti lo cercano: Cafarnao

diventa ben presto un polo di attrazione, ma non si trasforma in un centro religioso. Gesù è chiaro

nel suo programma ministeriale: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi

anche là: per questo infatti sono venuto!” (Mc 1,38). Le folle rischiano di diventare possessive:

quando lo raggiungono, vogliono trattenerlo perché non se ne vada via da loro; ma Gesù è sicuro e

irremovibile: “Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città: per questo sono stato

mandato” (Lc 4,43). Gesù è cosciente di essere stato mandato, quindi di avere una missione: quella

di predicare e di annunciare il regno di Dio. Tale missione egli la svolge in modo itinerante,

accostando la gente proprio là dove abita, senza aspettare che accorra da lui. Così si esprimono i

sommari della sua attività: “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro

sinagoghe, predicando la buona notizia del Regno e curando ogni malattia e infermità” (Mt 9,35).

Gesù annuncia il Regno di Dio con la vita: oltre al contenuto del ministero di Gesù, cioè l’oggetto

della sua predicazione, è importante il modo con cui annuncia il messaggio del Regno.

L’evangelista Marco presenta il messaggio di Gesù con una frase sintetica che riassume il contenuto

della sua missione: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al

Vangelo” (Mc 1,15).

L’annuncio fondamentale di Gesù è dunque la vicinanza del Regno di Dio. L’attesa di Israele sta

per essere soddisfatta; l'intervento di Dio, a lungo aspettato ed invocato, si sta realizzando. Gesù

annuncia che Dio, in quanto Re dell’universo, entra direttamente nella storia dell’uomo e la

trasforma dal profondo; nella persona stessa di Gesù Dio è all’opera per cambiare il mondo. Questa

è la buona notizia. Di fronte ad essa ognuno deve cambiare mentalità, fidarsi di questa parola ed

accoglierla con entusiasmo.

I gesti prodigiosi di benevolenza che Gesù compie nei confronti di chi è oppresso dal male e dalle

malattie sono i segni dell’irruzione del Regno. Gesù si mette per strada, incrocia i volti delle

persone, le guarda negli occhi, li tocca e piange con loro. Gesù nei suoi gesti pone l’efficacia del

Regno. Ai messaggeri del Battista, infatti, viene dato l’incarico di riferire ciò che essi stessi hanno

visto, cioè la realizzazione delle opere straordinarie annunciate dall'antico profeta (Gesù cita le

espressioni di uno splendido poema apocalittico contenuto nel libro di Isaia: Is 35,5-6; Cf Mt 11,2-6

e Lc 7,18-23) come la manifestazione gloriosa del giorno in cui Dio avrebbe compiuto il suo

intervento definitivo. I miracoli sono dunque il segno che il tempo è compiuto.

Gesù realizza la missione del “Servo”: Il messaggio di Gesù e le sue opere mostrano l’universale

apertura dell'intervento divino ed il suo comportamento rivela con chiarezza una volontà di

comunicazione e di comunione con tutti. A differenza dei farisei che predicano e difendono un

atteggiamento religioso all’insegna della separazione, Gesù abbatte coraggiosamente ogni tipo di

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barriera: accoglie piccoli e grandi, poveri e ricchi, malati, lebbrosi e indemoniati, stranieri e persone

di cattiva reputazione.

L’evangelista Matteo, presentando in sintesi il ministero di Gesù, cita due volte una frase tratta dai

poemi dell'AT che presentano la figura del “Servo di JHWH” e con tale sistema egli intende

mostrare come la missione di Gesù sia il compimento dell'antica profezia.

Nella sezione dei miracoli Matteo inserisce questo breve sommario: “Venuta la sera gli portarono

molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si

adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è

addossato le nostre malattie” (Mt 8,16-17; citazione di Is 53,4).

Dato che sono i malati ad aver bisogno del medico ed il medico è all'opera, i miracoli sono dunque i

segni della redenzione e nello stesso tempo annunziano i tempi nuovi del dialogo tra Dio e l'uomo.

La figura del “Servo” mette in risalto la solidarietà di Gesù con i malati e i peccatori, la sua con-

divisione e la sua com-passione: autentico missionario, egli si è messo dalla parte degli ultimi e li ha

liberati soffrendo con loro. Poco più avanti Matteo ritorna su questo tema. In un momento critico

della sua missione, mentre i farisei tengono consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo, Gesù si

ritira in disparte; la folla tuttavia lo segue “ed egli guarì tutti, ordinando loro di non divulgarlo,

perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia:

Ecco il mio servo che io ho scelto;

il mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto.

Porrò il mio spirito sopra di lui

e annunzierà la giustizia alle genti.

Non contenderà, né griderà,

né si udrà sulle piazze la sua voce.

La canna infranta non spezzerà,

non spegnerà il lucignolo fumigante,

finché abbia fatto trionfare la giustizia;

nel suo nome spereranno le genti” (Mt 12,15-21; citazione di Is 42,1-4).

La lunga citazione descrive ciò che Gesù, Servo di Dio, non intende fare: anziché presentarsi

potente e battagliero, prestigioso e influente, preferisce mostrarsi dolce e accogliente con tutti; non

vuole una vittoria conquistata con ingente quantità di mezzi, ma un'accoglienza ottenuta con la sola

forza dell'amore. Il suo stile è quello della valorizzazione di ogni persona, anche di chi è debole e

insignificante come una canna spezzata o uno stoppino che sta per spegnersi. Il riconoscimento del

valore positivo che è presente in ogni persona è il metodo missionario di Gesù (cf M. ORSATTI, Lo

stile e il metodo missionario di Gesù, in Parole di Vita 35 (1990) 166-173): in questo senso egli è

passato facendo del bene a tutti (At 10,38) e costituendo la migliore delle basi per la missione

apostolica che, dopo la Pasqua, sarà rivolta a tutte le genti.

Gesù sceglie i dodici e li invia per una missione permanente: L’intenzione di “inviare” i Dodici,

espressa al momento della loro istituzione, viene attuata da Gesù qualche tempo dopo. È un dato

sicurissimo della tradizione evangelica il fatto che Gesù abbia mandato gli apostoli in missione

prima della sua Pasqua: forse non fu un evento unico, ma potè tranquillamente ripetersi più volte in

diverse circostanze , divenendo quasi un metodo pastorale. Le tradizioni sinottiche conservano

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istruzioni molto arcaiche fornite da Gesù in occasione del primo invio: è chiaro infatti che

quell'esperienza assunse per gli apostoli un particolare risalto e fu conservata nella memoria e

tramandata alle nuove generazioni, anche se ormai gli eventi pasquali avevano cambiato

radicalmente la situazione (cf V. FUSCO, Dalla missione di Galilea alla missione universale. La

tradizione del discorso missionario (Mt 9,35-10,42; Mc 6,7-13; Lc 9,1-6; 10,1-16), in Ricerche

storico bibliche 2 (1990) 101-125).

Esaminiamo dapprima gli elementi comuni di questa tradizione. Si tratta di un discorso missionario

che offre direttive di comportamento secondo le varie fasi dell'attività, cioè la partenza, l’arrivo in

una determinata località e poi la partenza da essa. Gesù offre precise direttive sull'equipaggiamento,

con l’esclusione di ogni scorta, direttive sull'alloggio, con la proibizione di cambiarlo, ed infine

norme di comportamento in caso di accoglienza negativa, col gesto di scuotere via la polvere.

Agli inviati viene prescritta una serie di gesti e comportamenti alquanto vistosi e sorprendenti:

evidentemente riflettono la predilezione di Gesù per un linguaggio simbolico e gestuale e quindi

vogliono di sicuro significare qualche cosa. Necessariamente, però, devono essere rispettate alla

lettera. E nella situazione storica di Gesù erano praticabili. Esse presuppongono, infatti, un territorio

ben preciso: prevalentemente rurale, disseminato di piccoli centri abitati non molto distanti l'uno

dall'altro, tra i quali ci si può spostare a piccole tappe, sempre a piedi, puntando esclusivamente

sull'ospitalità, senza bisogno di rifocillarsi prima di giungere a destinazione.

Il comportamento richiesto ai missionari diventa una predicazione vivente e si inserisce

nell'annuncio escatologico del Regno, cioè nella proclamazione dell'intervento definitivo di Dio: si

passa dal futuro al presente; i profeti annunciavano la grande mietitura che Dio avrebbe compiuto

“in quel giorno” ed ora gli apostoli sono gli operai che la realizzano (Mt 9,37-38 e Lc 10,2; per

l’immagine della mietitura vedi Gl 4,13; Ap 14,14-16; Gv 4,35-38). Essi dunque devono

rappresentare drammaticamente l’urgenza della missione e l'assoluta fiducia in Dio che realizza il

suo Regno. Le direttive sull’equipaggiamento, infatti, non prevedono la rinuncia al superfluo, ma a

ciò che è più necessario; chiedono di far a meno proprio di quei beni che potrebbero essere d'aiuto

alla missione. Dal punto di vista di efficienza operativa, i sandali, il bastone, la borsa e la bisaccia

con un po' di cibo, non sarebbero affatto un impedimento, anzi potrebbero aiutare ad andare più

lontano, guadagnare tempo, raggiungere più gente.

Evidentemente nella missione di Galilea Gesù voleva che i suoi missionari fossero un “segno”.

Per ricostruire le origini della missione cristiana e per definire le sue caratteristiche essenziali è

fondamentale quindi lo studio del discorso missionario sinottico: Mt 9,35-10-42; Mc 6,7-13; Lc

9,1-6; 10,1-16. Un discorso che rivela la presenza di due fonti: quella rappresentata dal testo di Mc,

e quella che si può rintracciare in quello di Mt e Lc (la cosiddetta fonte Q), relativamente a quanto

presentano in aggiunta rispetto a Mc. Queste due fonti hanno alla base uno schema comune, con i

vari momenti dell’attività missionaria: partenza, arrivo in una località, congedo. Inoltre vi

ritroviamo alcune istruzioni sull’equipaggiamento, sull’alloggio, sul comportamento in caso di

accoglienza negativa. Sembra che Mc abbrevi e accomodi, rispetto alla fonte attestata da Mt-Lc,

certe norme a motivo dell’allargamento del campo missionario in cui lavora: è consentito portare le

calzature e il bastone. La versione attestata da Mt-Lc va ritenuta dunque più antica di quella

attestata da Mc. Dall’analisi dei quattro discorsi gli studiosi concludono che esiste un nucleo di

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direttive risalenti allo stesso Gesù, che vanno ritenute valide e fondative sempre, in ogni contesto

missionario, proprio perché rimangono attestate nelle redazioni evangeliche. Sempre secondo V.

Fusco, il senso delle direttive del maestro nel contesto del suo ministero terreno si racchiude in tre

motivi fondamentali43

:

a) Il motivo simbolico-gestuale, la preoccupazione che nella vita del missionario venga

espresso uno stile evangelico, affine a quello dei profeti: come vestirsi ed equipaggiarsi per

il viaggio, come comportarsi negli incontri lungo la via, come salutare arrivano nelle case,

come congedarsi da chi lo respinge. I discepoli non parlano solo con la predicazione, ma col

loro modo di presentarsi, con la vita; tutta la loro azione assume una portata “testimoniale”.

b) Il motivo escatologico. La venuta del regno di Dio fa da orizzonte a tutto il discorso di

Gesù. C’è una profonda coerenza tra i contenuti dell’annunzio, le sue modalità concrete, le

esigenze che esso pone ai suoi portatori.

c) Il motivo teologico. È che Dio assiste con il suo equipaggiamento i missionari: l’efficacia

della parola; il dono di fare miracoli. Dio non abbandonerà i suoi inviati e per questo essi

non devono portare con sé qualcosa che serva per il futuro. Dio avrà particolare cura di loro,

perché la predicazione del vangelo è cosa sua e non potrà essere bloccata.

Maria di Magdala: l’apostola degli apostoli. La prima missionaria.

Da sempre icona della predicazione ascetica e della storia dell’arte, ai nostri giorni è diventata

protagonista anche della fiction cinematografica (Martin Scorsese) e della letteratura d’evasione

(Dan Bro n). Eppure Maddalena è citata solo dodici volte nei vangeli canonici e mai da san Paolo e

dagli altri agiografi neotestamentari: ma quei pochi versetti evangelici sono stati sufficienti per

scatenare l’immaginazione di teologi, predicatori, padri spirituali, eretici, pittori, romanzieri, registi,

costruendo un mito che acquista sempre più vigore.

A tale potenziamento ha contribuito di recente l’autorevole decreto della Congregazione per il culto

divino del 3 giugno scorso mediante cui la celebrazione di Maria Maddalena, fino ad allora solo

“memoria” viene elevata al grado di “festa”, il medesimo riservato ai dodici apostoli. Il motivo di

questa decisione, dietro cui ovviamente c’è l’esplicito volere di papa Francesco, è indicato dallo

stesso documento: “La decisione si inscrive nell’attuale contesto ecclesiale, che domanda di

riflettere più profondamente sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del

mistero della misericordia divina”. In effetti già San Giovanni Paolo II aveva dedicato “una grande

attenzione non solo all’importanza delle donne nella missione stessa di Cristo e della Chiesa, ma

anche, e con speciale risalto, alla peculiare funzione di Maria di Magdala quale prima testimone che

vide il Risorto e prima messaggera che annunciò agli apostoli la risurrezione del Signore. Questa

importanza prosegue oggi nella Chiesa - lo manifesta l’attuale impegno di una nuova

evangelizzazione - che vuole accogliere, senza alcuna distinzione, uomini e donne di qualsiasi

razza, popolo, lingua e nazione, per annunciare loro la buona notizia del Vangelo”. Santa Maria

Maddalena viene dunque presentata come un esempio di “vera e autentica evangelizzatrice”, che

annuncia “il gioioso messaggio centrale della Pasqua”.

43

V. FUSCO, Dalla missione di Galilea alla missione universale, 111-119.

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Spiega lo Schuster: «I Greci donano a Maria di Magdala il titolo glorioso di isapóstolos, perché essa

fu la prima che annunziò al mondo, anzi agli Apostoli stessi, la risurrezione del Signore. Per questo

nell’odierna messa si recita il Credo» (Liber sacramentorum, vol. VIII, Torino 1927, p. 94). Il titolo

di “apostola” in realtà è stato assegnato alla Maddalena già da Tommaso d’Aquino che la definisce

“apostola degli apostoli”, è sufficiente però dare un’occhiata alla vastissima iconografia per rendersi

conto che mai tale qualifica ha trovato finora un’applicazione reale nella concreta struttura

ecclesiastica. I dipinti infatti non la ritraggono mai nell’atto di annunciare agli apostoli rinchiusi per

paura l’avvenuta risurrezione di Cristo, ma in altre ben più tradizionali fattezze: piangente ai piedi

della croce, al sepolcro con il vasetto di mirra, mentre è tenuta a distanza dal Risorto che le dice

“Noli me tangere”, in estasi, in meditazione e soprattutto in veste di penitente con i lunghi capelli

disciolti e buona parte del corpo scoperto.

Il Papa ha preso questa decisione durante il Giubileo della Misericordia, spiega monsignor Roche

anch’egli firmatario del decreto, “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande

amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”. Maria di Magdala faceva parte del gruppo dei discepoli

di Gesù, lo aveva seguito fino ai piedi della croce e, nel giardino in cui si trovava il sepolcro, era

stata la prima testimone della resurrezione, ‘testis divinae misericordiae’, come la definisce

Gregorio Magno. Il Vangelo di Giovanni la descrive in lacrime, perché non aveva trovato il corpo

del Signore nella tomba: “Gesù ebbe misericordia di lei facendosi riconoscere come Maestro e

trasformando le sue lacrime in gioia pasquale”.

Si tratta, in altri termini, di una mossa per rafforzare il ruolo delle donne nella Chiesa. L’auspicio è

che tale promozione della Maddalena possa ispirare i più importanti cambiamenti nella struttura

ecclesiale aprendo la via a ciò che è il diaconato femminile: se infatti una donna è stata apostola,

anche le altre donne possono diventare per lo meno diaconesse!

Sguardo sintetico su Maria di Magdala

Una donna vicino a Gesù: Maria di Magdala è la discepola più vicina a Gesù. Colei che per prima lo

aveva riconosciuto come risorto ed è stata probabilmente la prima a credere alla risurrezione ed è

stata lei, una donna dal passato quantomeno tormentato ad annunciare agli apostoli il messaggio

dirompente del risorto. La vicinanza di Gesù alla Maddalena è comprovata dal fatto che in tutti i

quattro Vangeli canonici lei è sempre nominata per prima tra i pochi testimoni cui apparve il

Risorto. Maria però divenne famosa per la sua vita trascorsa e la redenzione ad opera di Gesù di cui

fu discepola: fu Gregorio Magno a identificarla come una ex prostituta convertita ma i Vangeli non

la descrivono così. Per la tradizione occidentale infatti, e ancora oggi per molte persone, Maria

Maddalena è la prostituta che bagna i piedi di Gesù con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli.

I 12 versetti evangelici che ne parlano non consentono però tale identificazione, risalente a una

scorretta interpretazione di papa Gregorio Magno nel VI secolo e divenuta poi pressoché canonica.

Una donna che sostiene Gesù: Come si legge in Luca 8,2-3, si deve piuttosto ritenere che Maria,

detta Magdalena in quanto originaria della cittadina galilaica di Magdala, fosse una donna

benestante assuntasi il compito insieme ad altre di sostenere Gesù e i discepoli con i suoi beni come

riconoscenza per essere stata guarita da una grave malattia a cui il vangelo accenna dicendo che da

lei erano usciti sette demoni». Da allora la Maddalena seguì sempre Gesù, fino ai piedi della croce.

Il quarto vangelo giunge a dedicarle una scena tutta sua, nello struggente dialogo della mattina di

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Pasqua in cui Gesù risorto per farsi riconoscere la chiama per nome: “Maria!” (Giovanni 20,16); e

poi la manda ad annunciare la risurrezione agli apostoli consacrandola per l’appunto “apostola degli

apostoli”.

Un provvidenziale scambio: la misericordia abilita sia la donna perbene che peccatrice: La

tradizione, ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, ripetuta mille volte nella storia dell’arte e

perdurante fino ai nostri giorni, ha fatto di Maria una prostituta. Questo è accaduto solo perché nella

pagina evangelica precedente – il capitolo 7 di Luca – si narra la storia della conversione di

un’anonima “peccatrice nota in quella città”, colei che aveva cosparso di olio profumato i piedi di

Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati

coi suoi capelli. Si era così, senza nessun reale collegamento testuale, identificata Maria di Magdala

con quella prostituta senza nome. Ora, questo stesso gesto di venerazione verrà ripetuto nei

confronti di Gesù da un’altra Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione

(Giovanni 12, 1-8). E, così, si consumerà un ulteriore equivoco per Maria di Magdala: da alcune

tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa

con la prostituta di Galilea».

Colei che lo ha seguito con amore, lo ha visto morire, lo ha cercato nel sepolcro e lo ha adorato

risorto:

Dal nuovo prefazio approvato in data 1 luglio 2016

Nel giardino Egli si manifestò apertamente

a Maria di Magdala,

che lo aveva seguito con amore

nella sua vita terrena,

lo vide morire sulla croce

e, dopo averlo cercato nel sepolcro,

per prima lo adorò risorto dai morti;

a lei diede l’onore di essere apostola per gli stessi apostoli,

perché la buona notizia della vita nuova

giungesse ai confini della terra.

Il corpo del prefazio fissa quindi l’attenzione su due azioni di Cristo: apparuit Mariae

Magdalenae… et honoravit eam apostolatus officio». Si dice, anzitutto, che dopo essere stato preso

per chi non è, Cristo si manifesta chiaramente a Maria nel giardino presso il sepolcro vuoto,

portandola a far memoria del passato alla luce dell’esperienza presente, riassunta in quattro verbi -

«dilexerat, viderat, quaesierat, adoraverat» - aventi per oggetto Colui che aveva amato da vivo, visto

morire in croce, cercato ormai deposto nel sepolcro, ed ora adorato risorto dai morti. Non sfugge la

scansione rimata dei riferimenti «viventem, morientem, iacentem, resurgentem». La fonte di tale

sequenza, con l’aggiunta nuova dell’ultimo termine, è un passaggio del De vita beatae Mariae

Magdalenae, attribuita a Rabano Mauro ma databile al sec. XII (unisce in una le tre Marie), che così

descrive lo sguardo credente della Maddalena: «crediditque indubitanter, quem videbat Christum

Filium Dei, verum esse Deum, quem dilexerat viventem; vere a mortuis resurrexisse, quem viderat

morientem; vere Deo Patri esse aequalem, quem quaesierat in sepulcro iacentem» (cap. XXVI, PL

112, 1474).

PAOLO DI TARSO “L’APOSTOLO DELLE GENTI”: UNA MISSIONE INTEGRALE E

UNIVERSALE

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Paolo di Tarso, il più grande “apostolo” della Chiesa delle origini. Gli studiosi convengono che la

sua nascita si collochi tra il 5/10 d.C. Nel rivolgerci a lui vogliamo sfogliare, metaforicamente,

l’album fotografico della sua vita e riscoprire, attraverso dei flash, la vicenda di questo

impareggiabile testimone di Cristo. Paolo, un ebreo doc, appartenente alla tribù di Beniamino,

conosciuto inizialmente come Shaul, nome che ricorda la storia del primo re di Israele.

Successivamente, per le vie dell’impero si lascia incontrare come Paolo, nome dal suono più latino.

Infatti possiede la cittadinanza romana. È dunque un Ebreo, cittadino romano ma anche ellenista, di

cui utilizza il greco negli aeropaghi dove si raduna l’èlite e la gente di cultura per discutere. Molto

si è detto di lui, da alcuni definito secondo fondatore del cristianesimo, se non addirittura il primo,

filosofo ineguagliabile, per le sue famose lettere, al pari di Seneca, primo tra i grandi mistici e

primo grande missionario. Da altri liquidato come il “Lenin del Cristianesimo” e araldo di una

“cattiva novella”, causa dei principali difetti della teologia cristiana.44 Per noi, affermava

Benedetto XVI all’apertura dell’anno Paolino “non una figura del passato … ma nostro maestro,

apostolo … banditore di Cristo”. Due descrizioni iniziali, per avvicinarci all’Apostolo delle Genti:

Dante Alighieri nella Divina Commedia, ispirandosi al racconto di Luca negli Atti (cfr 9,15), lo

definisce semplicemente «vaso di elezione» (Inf. 2,28), uno strumento prescelto da Dio, mentre, San

Giovanni Crisostomo, primo grande innamorato della storia di San Paolo, in un famoso panegirico

afferma: “Una sola cosa cercava, l’Amore di Gesù”, e continuando, “Il cuore di Cristo era il cuore

di Paolo”. Noi che cosa cerchiamo? All’inizio di un nuovo anno, tutti si propongono degli obiettivi

da raggiungere. Cerchiamo con rinnovato entusiasmo l’Amore di Gesù, fondamento di ogni amore.

La prima fotografia che cattura la mia attenzione è il vedere il giovane Paolo assistere alla

lapidazione di Stefano, un discepolo di Gesù, predicatore della libertà dalla legge. Da questa

istantanea scorgiamo Paolo a Gerusalemme, educato alla scuola del grande Rabbì Gamaliele, nipote

del grande Rabbì Hillèl, secondo le più rigide norme del fariseismo nel grande zelo per la Toràh

mosaica (cfr. Gal 1,14; Fil 3,5-6; At 22,3; 23,6; 26,5). Dirà di sé stesso: “Nella fedeltà alla legge

ebraica superavo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel

sostenere le tradizioni dei miei padri” (Gal 1,14). Mosso da queste convinzioni avvertì nel nuovo

movimento suscitato da Gesù di Nazaret una minaccia per l’identità giudaica e la fedeltà ai Padri.

Da ciò si spiega il fatto che egli abbia fieramente “perseguitato la Chiesa di Dio”, come ammetterà

per ben tre volte nelle sue Lettere (1 Cor 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6).

Sfogliando qualche altra pagina il mio sguardo si ferma su Paolo disarcionato da cavallo, sulla via

di Damasco. Una delle strade più famose della storia. Guidato dalla convinzione di difendere la

causa di Dio e custodire la verità della rivelazione, per contenere il diffondersi della nuova dottrina

cristiana. Accade qualcosa di sconvolgente. Dal Libro degli Atti degli Apostoli si apprende ciò che

è accaduto sulla via di Damasco: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” alla cui domanda: “Chi sei,

o Signore?” vien data la risposta: “Io sono Gesù che tu perseguiti” (At 9,4s). E’ l’incontro-impatto

con Gesù Cristo, fondatore dell’eresia che andava ricacciata e spenta. Paolo stesso ci rivela

l’esperienza vera e reale che lo ha colpito e di cui non potrà più far a meno: “Vivo nella fede del

Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). “Tutto ciò che Paolo fa parte

da questo centro – evidenziava Benedetto XVI nell’omelia dei Primi Vespri all’apertura dell’anno

Paolino – la sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin

44

Cfr. G. RAVASI, Editoriale di Avvenire, 29 giugno 2008.

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nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua

fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù

Cristo”. Tre volte gli Atti presentano questo episodio, evidentemente per sottolinearne l'importanza:

(At 9,1-19; 22,5-16; 26,9-18): per tutto il resto della sua vita egli si presenterà come uno che "ha

visto" il Signore. Paolo da quel momento, dall’incontro personale con Cristo, vive, soffre e muore

per il Vangelo e la sua Chiesa. Affermerà nella prima lettera a Timoteo: “Io ho ottenuto

misericordia”, da cui, dichiarerà la conseguente metamorfosi, “Per me vivere è Cristo, morire, un

guadagno” (Fil 1,21).

Andando più avanti, noto un’altra istantanea, Paolo seduto con i discepoli di Gesù, nell’atto del

dialogare. Paolo si siede insieme a Pietro e agli altri Apostoli. Si trova a Gerusalemme, nell’atto

di consultare i primi discepoli del Maestro, Pietro, Giacomo e Giovanni, che riconosce come “le

colonne della Chiesa” (Gal 1, 18-19; 2,9), e ricevere informazioni sulla vita terrena del Risorto, che

lo aveva "ghermito" sulla strada di Damasco e gli stava cambiando, in modo radicale, l'esistenza:

da persecutore nei confronti della Chiesa di Dio era diventato evangelizzatore di quella fede nel

Messia crocifisso e Figlio di Dio, che in passato aveva cercato di distruggere (cfr. Gal 1,23).

Colpisce il fatto che il persecutore della Chiesa si convertì, nel contempo, a Cristo e alla Chiesa. “A

Gesù si giunge – ricordava Benedetto XVI in un udienza del mercoledì – attraverso la Chiesa”. Sì,

perché la fede non nasce da una leggenda o una favola, ma dall’incontro reale con Cristo nella

Chiesa. È nella Chiesa primitiva che Paolo apprende ciò che sarà il nucleo del suo insegnamento

alle genti: morte e risurrezione di Cristo, il Kerigma, così definito dagli studiosi e l’Eucaristia, il

corpo di Cristo. La Chiesa per Paolo si edifica a partire da questo centro (cfr. 1Cor 11,23-25; 15,3-

5). Dalla consapevolezza che Cristo è morto per i nostri peccati, che per Paolo nell’Istituzione

eucaristica diventa il “per me” (Gal 2,20) ottenendoci la giustizia di Dio, si giunge al “per tutti”

(2Cor 5,14) cui è destinata la salvezza. E a cui ognuno deve sentirsi chiamato. Questa è la sorgente

dell’opera missionaria della Chiesa. Da ciò comprendiamo perché la Chiesa sia stata così presente

nella mente e nel cuore di Paolo, tanto da essere il fulcro della sua attività, suo centro e apice, tanto

da divenire fondatore e organizzatore di parecchie chiese (2Cor 11,28).

Un’altra istantanea ritrae Paolo davanti ad una decisione sofferta a favore della missione. Narra

Luca che, mentre i profeti e i dottori di Antiochia stavano celebrando il culto del Signore e

digiunando, lo Spirito Santo disse: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho

chiamati”. Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono (At

13,1-3). Il primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba, secondo il libro degli Atti (13,4-14,28),

porta gli apostoli (è interessante notare che questo titolo non viene riservato ai Dodici mandati

direttamente da Gesù, ma è applicato anche ai grandi “inviati” della Chiesa primitiva: cf At 14,4.14)

in alcune cittadine dell’Asia Minore: in ognuna di esse si riproduce un analogo processo di

evangelizzazione. Dapprima l’incontro con gli ebrei in sinagoga e la presentazione di Gesù come il

Cristo partendo dal commento delle Scritture bibliche; di fronte all'abituale rifiuto di almeno una

parte della comunità giudaica, gli apostoli si rivolgono ai pagani e scoprono, ogni volta con

meraviglia, la grande disponibilità dei "lontani" ad accogliere la parola di Dio e la fede. In questi

paesi nascono delle piccole comunità cristiane, non più legate al mondo giudaico, ma ormai

autonome: si tratta di realtà nuove, i cui membri hanno le più disparate provenienze etniche e

religiose. Ciò che li accomuna è la fede di Gesù Cristo.

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Una simile situazione preoccupa la Chiesa di Gerusalemme e fa nascere una violenta controversia

sulle condizioni da imporre ai pagani per la loro ammissione nella Chiesa. Paolo e Barnaba

chiedevano loro solo di credere in Cristo, di pentirsi dei loro peccati e di ricevere il battesimo. A

Gerusalemme, invece, un buon numero di giudeo-cristiani riteneva necessario diventare ebrei prima

di poter essere cristiani, cioè ricevere la circoncisione e sottomettersi alla legge di Mosè. Una tale

imposizione significava, nel ragionamento di Paolo, riconoscere che la fede nel Cristo non era

sufficiente per essere salvi e significava inoltre forzare i convertiti ad isolarsi dal loro ambiente di

origine per chiudersi in un sistema sociologico diverso. Una tale posizione avrebbe fatto della

Chiesa cristiana semplicemente una setta giudaica.

Scorrendo le pagine del particolare raccoglitore fotografico, non posso non soffermarmi

sull’immagine di Paolo in catene con il Vangelo tra le mani. Lo ritroviamo, da persecutore, a

prigioniero per Cristo e la sua Chiesa. Sì, da persecutore a perseguitato. Le catene sofferte per il

Vangelo: Cristo, il Vangelo di Paolo (cfr. Filippesi e 2Tm 2,8-9); Cristo il contenuto del suo

Apostolato. “La buona notizia della gloria di Cristo” (2Cor 4,4), ossia il messaggio di Cristo

risorto: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo Signore” (2Cor 4,5). Non un libro,

ma una persona viva, che ha un nome e un volto. Paolo si riconosceva come “servo” del Vangelo

(Fil 2,22) consapevole di partecipare della stessa speciale grazia di apostolato dei dodici. Pensava di

essere stato scelto fin dal grembo materno (Gal 1,15; Rm 1,1), soggetto di affidamento del bene

prezioso (1Ts 2,4; gal 2,7) del vangelo da predicare e proclamare nell’offerta totale di sé a Dio (Rm

1,9; 15,16). Per cui anche la prigionia la vive come una “grazia” (Fil 1,7.16). Ha percorso circa

16.000 Km per annunciare il mistero nascosto nei secoli ed ora fatto conoscere a chiunque voglia

accoglierlo, Gesù Cristo Crocifisso e Risorto, in cui ogni uomo è reso giusto, di cui Paolo si fa

banditore. La buona notizia per tutti gli uomini. Meditando su San Paolo, il Vescovo Pietro Rossano

ha scritto “Mai sulla terra una vita fu spesa più generosamente per un ideale, mai, per quanto si

conosca, fu realizzata da alcuno una concentrazione così appassionata e rigorosa di tutte le energie

fisiche e spirituali al servizio di una causa, come avvenne in Paolo. Una causa che non era un’idea,

ma una Persona, amata, servita, vissuta, desiderata: Gesù Cristo”. Paolo morirà martire, tra il 64 e il

68 d.C. durante la persecuzione di Nerone. La sua sepoltura si dice sia avvenuta sulla via Ostiense,

dove sorge l’odierna Basilica di San Paolo fuori le Mura.

Noto ancora della pagine da sfogliare. Ne sfoglio una, un’altra, sono le ultime pagine, in bianco,

ancora da riempire. Mi domando, Perché? Paolo stesso mi suggerisce la risposta: “Io ho compiuto la

mia corsa, ho combattuto la buona battaglia, a te passo il testimone, corri anche tu per la via

dell’amore di Cristo. Non aver paura. Porta per le tue strade, quelle della tua città, l’amore di Dio.

Ne vale la pena.”

Alcune sottolineature: Considerato il primo grande animatore del cristianesimo, colui che ha

generato tanti uomini e donne alla fede. Costruttore ed edificatore delle prime comunità ecclesiali,

nella molteplicità vocazionali e armonizzazione dei carismi; convinto che Dio chiama al suo regno e

alla sua gloria (1Ts 2,12), dove la risposta dei credenti consiste nel percorso di santificazione (1Ts

4,3) che si esprime in una comunità in cammino. Il docente di Sacra Scrittura De Virgilio45

sostiene

che per Paolo “le conseguenze nella storia dipendono unicamente dalla libera iniziativa del Dio

«appellante» (1Ts 5,24) … [e che] la ragione ultima della presenza dei cristiani nella storia … [è]

45

G. De Virgilio, Personaggi e storie vocazionali nella Bibbia, Vocazioni, XXV, I, 2009.

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nella risposta alla radicale «vocazione» … assunta nella responsabilità personale come «compito

da realizzare» … di fronte al progetto di Dio”.

L’AGIRE MISSIONARIO DI PAOLO: L’unica testimonianza personale diretta dell’antica

missione cristiana è quella dell’apostolo Paolo: dello stile e del metodo da lui seguito nel lavoro

missionario ne parlano gli Atti degli Apostoli e soprattutto le sue stesse Lettere, autentici strumenti

di evangelizzazione. Ne risulta una figura altamente significativa, il modello apostolico per tutta la

Chiesa (cf P. Iovino, Paolo: esperienza e teoria della missione, in Ricerche storico bibliche 2

(1990) 155-183; C. Ghidelli, Lo stile e il metodo missionario di Paolo, in Parole di Vita 35 (1990)

278-285).

Lo stile missionario di Paolo è esplicito nei suoi gesti personali che ne rivelano l’animo. All’inizio

della missione è caratteristica la sua docilità a Colui che gli chiede di cambiare strada: unita al

silenzio e alla fiduciosa attesa, questa docilità attiva e coraggiosa segnerà tutte le tappe del suo

ministero. Una volta inserito nella missione, Paolo manifesta uno stile forte e deciso, resistente ad

ogni attacco avversario, abile nell'evitare gli ostacoli, fiero delle sue prerogative umane messe al

servizio del Vangelo. Pur nella sua fermezza, lo stile di Paolo è segnato dalla massima generosità e

dalla massima disponibilità: si è fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero (1Cor 9,19).

Paolo si è messo in atteggiamento di ricerca e, come il suo Maestro, è andato a cercare gli uomini là

dove vivevano; a tutti quelli che ha avvicinato ha sempre rivolto la stessa proposta della vita nuova

in Cristo e dell'esperienza ecclesiale di questa novità possibile e gioiosa. Ma il suo metodo è stato

segnato dal dialogo e dalla disponibilità ad incontrare i suoi ascoltatori nel modo e coi mezzi a loro

più congeniali. Sempre però il suo annuncio è stato innovativo e talvolta anche dirompente: voleva

portare qualcosa di nuovo nella mentalità e nella vita dei suoi interlocutori; la novità di Cristo che

aveva sconvolto la sua esistenza irrompe continuamente nella sua predicazione ed entra nella vita

degli uditori e li coinvolge.

Il contenuto della sua grandiosa opera missionaria è proprio la condivisione della propria fede al di

là di ogni barriera nazionale e di ogni struttura ideologica o religiosa: la novità di Cristo che lo ha

trasformato lo ha reso capace di trasformare.

CAPACITA’ DI RELAZIONE: Inoltre Paolo è un missionario che ha capacità di relazione.

Incontra, ascolta, scrive, coinvolge, guadagna sempre nuove persone alla causa del Vangelo. Tutti

verbi, questi, che ci costringono a verificare la nostra capacità di relazione. Quanto e come noi

curiamo le relazioni con i giovani? Paolo rimprovera, incoraggia, si coinvolge pienamente.

Costruisce con i giovani relazioni calde, segnate dalla continuità e volte ad evidenziare sempre il

positivo, anche quando deve essere fermo. Tutti atteggiamenti che riflettono la libertà di Paolo. Si,

l’amore di Dio libera da ogni egoismo e interesse, ti apre al vero bene per il fratello. Paolo non ha

paura di farsi pro-vocatore di essi, con il suo stile di vita, proponendosi come modello da imitare,

“Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo” scriverà ai Corinti (1Cor 11,1)46

. È noi sappiamo

proporci come modelli di vita alle persone che incontriamo senza scadere nello “scontato”?

SO IN CHI HO RIPOSTO FIDUCIA: La sua storia col Cristo è l’esperienza di chi ha dato

fiducia. Ha avuto fede in Dio proprio perché si è sentito amato in modo unico e personale da Dio.

46

Cfr. Ibidem.

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La Seconda Lettera di Paolo a Timoteo, Lettera-testamento spirituale, di forte valenza vocazionale,

ci presenta l’Apostolo delle genti pronto a sopportare ogni tipo di prova, senza vergogna, perché “la

sua fiducia” è riposta unicamente nel Cristo Salvatore (2Tm 1,9-12). Testimonianza questa, che

costituisce un forte incoraggiamento per Timoteo affinché “con l’aiuto dello Spirito Santo” possa

trasmettere a sua volta il “bel deposito” del Vangelo che gli è stato affidato (2Tm 1,13-14).

Guardando Paolo il discepolo deve imparare a fidarsi di Dio, affinché diventi pastore attento e

premuroso per la comunità. L’espressione “So a chi ho dato la mia fiducia”, esprime la

consapevolezza a cui Paolo è giunto, di aver fatto la scelta giusta: “credere ed affidarsi a Cristo”. Il

verbo pisteuό (credere, avere/dare fiducia) utilizzato nel testo al perfetto, indica, si, una fede emessa

nel passato ma anche operante nel presente47

. La fede in quel Gesù da cui è stato ghermito sulla via

di Damasco lo sostiene nell’oggi della sua storia. Ne orienta i passi, gli dà forza. La fiducia e

l’abbandono in Dio è il fondamento della vocazione e della missione di Paolo. Il sentirsi amato

personalmente e unicamente da Cristo provoca la scelta di poggiare tutto il suo essere su di Lui e

affrontare con coraggio le prove che incontra.

Certamente è facile scoraggiarsi e cadere nella sfiducia dinanzi alle possibili e diverse

problematiche che il mondo presenta. Rischio che corre Timoteo ma anche il missionario del terzo

millennio. La tentazione è forte quando gli sforzi pastorali, come spesso accade oggi, non

producono i frutti sperati. La frustrazione incombe quando ci sembra fallire. Ma l’esperienza che

l’Apostolo ci propone scuote anche noi sulla necessità di riacquistare la fiducia e vivere l’oggi della

fede con l’entusiasmo di chi è chi-amato da Dio ad annunciare e testimoniare il vangelo della

vocazione. La nostra forza si fonda sull’incondizionata fedeltà di Dio che chiama (cfr. PdV 36) e

non sulla nostra capacità di fare e di programmare (cfr. NMI 38).

CRISTO VIVE IN ME: Paolo è abitato profondamente dalla passione per Cristo, scriverà ai

Filippesi: “Sono stato conquistato da Gesù Cristo” (3,12) e nella lettera ai Galati affermerà: “non

sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella

fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (2,20). Paolo è consapevole di

essere amato gratuitamente da Dio. È il fatto che resterà impresso per sempre nella sua mente e nel

suo cuore. E che ne orienterà i passi. Benedetto XVI ha evidenziato che tutto quanto Paolo è e fa

parte da questo evento. La sua forza, suo centro e asse è qui. Scrive: “L’amore di Cristo ci spinge”

(2Cor 5,14). Ecco dove nasce la sua passione per l’uomo: “mi sono fatto tutto a tutti” (1Cor 9,22).

APOSTOLO PER VOCAZIONE: Il “servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione” (Rm 1,1),

Paolo, afferrato da Cristo sulla via di Damasco non riesce più a staccarsi da Lui e dalla Sua causa.

Si chiama “servo”, perché si lega in una totale e incondizionata appartenenza a Gesù. E si definisce

“apostolo per vocazione”, non per autocandidatura né per incarico umano, tantomeno per interessi

personali. ma soltanto per chiamata ed elezione divina. Lui che prima si vantava di essere un feroce

persecutore della Chiesa di Dio (Gal 1,13-14), ora è il suo inviato e banditore per le strade del

mondo. Paolo rivela nei suoi scritti la chiara coscienza di essere stato chiamato da Dio per divenire

l'"apostolo delle genti" (Rm 11,13; tale convinzione è espressa costantemente all'inizio delle sue

lettere: Rm 1,1.5; 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Ef 1,1; Col 1,1; 1Tim 1,1; 2Tim 1,1; Tt 1,1-3),

l'incaricato di portare ai pagani il Vangelo di Gesù Cristo. Egli sa che Cristo ha operato per mezzo

suo per condurre i pagani all'obbedienza della fede (Rm 15,18); è cosciente che il suo vangelo non è

47

G. De Virgilio, Proposta di Lectio Divina di 2 Tm 1,1-14, Vocazioni 2008, 6, XXV anno.

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modellato sull'uomo, giacché lo ha ricevuto per rivelazione diretta di Gesù Cristo (Gal 1,11-12); ed

è inoltre consapevole di essere stato scelto fin dal seno di sua madre e di aver ottenuto la rivelazione

del Figlio di Dio allo scopo di annunziarlo in mezzo ai pagani (Gal 1,15-16): come a Pietro è stato

affidato l'annuncio del Vangelo ai circoncisi, lo stesso Signore ha affidato a Paolo la missione verso

i non circoncisi (Gal 2,7-9). L'operato di Paolo corrisponde perciò esattamente all'immagine che

danno della missione apostolica le finali dei Vangeli di Matteo e di Marco: si tratta di un incarico

affidato direttamente dal Cristo risorto e rivolto a tutte le genti.

GUAI A ME SE NON PREDICASSI CRISTO: San Paolo toccato dalla Carità di Gesù si sente

responsabile del dono ricevuto: “guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9,16). Una vita

toccata dall’Amore si trasfigura, cambia d’aspetto, illumina e riscalda i fratelli perché muove il

cuore. La vocazione cristiana trova nel dono sovrabbondante dell’Amore di Dio il suo senso e la sua

rotta. Santa Teresa del Bambino Gesù descrivendo la sua esperienza, afferma: “C’è soltanto la

carità che può dilatare il mio cuore, o Gesù! Da quando questa dolce fiamma lo consuma, corro

con gioia nella via del tuo comandamento nuovo! Voglio correre in essa fino al giorno beato in cui,

unendomi al corteo verginale, potrò seguirti negli spazi infiniti, cantando il cantico nuovo, che

dovrà essere quello dell’Amore.” (Storia di un’anima, 297). L’esperienza del sentirsi amata

personalmente da Dio mette le ali a Teresa di Lisieux, pur trovandosi in un convento di Clausura.

Don Giustino Russolillo in uno slancio mistico, d’amore verso l’Amato, ci rivela il cuore di ogni

apostolato: “O Amore che solo sei gioia, fammi seminatore di gioia nei cuori, diffusore di gioia nel

mondo perché tutti si volgano a vengano a Te che solo sei gioia” (Invitatorio Apostolico, Posizio

I,14). L’Amore vero non può essere trattenuto da nessuno. Si dona per sua natura. “Colui che ama,

vola, corre e gioisce, è libero, e non è trattenuto da nulla” (Imitazione di Cristo, libro III, cap. 5).

La via su cui il missionario corre è Cristo. La vita cristiana è vita in Cristo e la missione non può

che essere testimonianza di questa novità di vita. Sant’Agostino con profonda semplicità, afferma:

“Pigro, alzati! La via stessa è venuta a te, per svegliare dal sonno te che dormivi; e se egli ti ha

svegliato, alzati e cammina” (Commento al Vangelo di san Giovanni, 34,9). Anche tu, cristiano

battezzato, prete, suore, lasciati conquistare dall’Amore, vivi nell’Amore, testimonia l’Amore:

l’unica via che può rendere autenticamente felici.

Indicazione per i missionari del terzo millennio: a modo di conclusione

Da questi pochi cenni auto-biografici individuiamo alcuni insegnamenti per i missionari del terzo

millennio. Innanzitutto il missionario è una persona mossa dall’amore di Cristo, che inevitabilmente

riflette l’amore per l’uomo. Non potremo compiere nessuna opera missionaria se non ardessimo

della stessa passione di Cristo per l’uomo. Pronti a donare la nostra stessa vita. Altresì il rischio di

essere cembali squillanti e campane che tintinnano, nel solo atto di fare rumore e niente di più è

reale e presente. Paolo segue l’agire di Dio che in Cristo è sempre fuori dagli schemi. Sempre in

cammino e verso tutti pur di portare il Vangelo di Cristo e costruire comunità ecclesiali. Il

missionario è in movimento, potremmo dire, è attivo e non remissivo. Scrive Amedeo Cencini:

“Attenti ad essere missionari e non dimissionari”48

. Dobbiamo riconoscere onestamente che molte

nostre opere e movimenti sanno più di dimissionarietà che di missionarietà: hanno il sapore

48 A. Cencini, Missionari o dimissionari! La dimensione missionaria nell’accompagnamento vocazionale dei giovani,

Seminario del Centro Nazionale Vocazioni tenuto lo scorso marzo a Verona, Vocazioni, anno XXV, maggio-giugno

2008.

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dell’abitudine e della noia più che dell’entusiasmo e della gioia. Prima nel cuore e nel pensiero, poi

nella realtà. Prima di tutto nell’atto di andare verso Dio, nel rapporto intimo da cui trae la forza e la

gioia di mettersi in movimento verso i fratelli. Il suo spessore nasce dalla profondità della sua

relazione con Dio in Cristo Gesù. Non illudiamoci, i giovani cercano guide spirituali di una certa

solidità, e non dei semplici attivisti. Paolo coltiva e custodisce questo spessore, per questo non

aspetta che i giovani vanno da lui. È lui invece che li anticipa, sia nel pensiero che nel cuore. Corre,

cerca e chiama. Affinché ognuno possa trovare ciò che risponde alla sete del suo cuore. Correre,

cercare e chiamare sono tre verbi che definiscono l’impegno dell’apostolo delle “divine

vocazioni”. Per noi, sostiene Roberto Roveran49

“sono verbi che ci obbligano ad uscire dai nostri

schemi per andare e farci tutto a tutti superando paure e timori, condizionamenti e pregiudizi,

comodità e perbenismi”. Dobbiamo riconoscere che l’atteggiamento di tanti in questo campo è

quello attendista, di ritardo, spesso conformista alla mentalità del nostro tempo che gioca sempre

più al ribasso con Cristo. Paolo ci spinge a osare nuove scelte, che abbiano il coraggio di uscire dal

recinto solito dei nostri ambienti ovattati, e perbenisti, che abbiano il respiro lungo, capaci di

parlare, pur rischiando di perdere la faccia, a tutti della chiamata di Dio. Affermava Madeleine

Delbrel (1904-1964) mistica francese: “La fede per un cristiano o è vissuta con tutta la forza di

novità e la freschezza della buona notizia (missionaria dunque) o sarà inevitabilmente una fede

dimissionaria” 50

.

49

Formatore e psicologo della Società San Paolo, Itinerari vocazionali in San Paolo, Vocazioni, XXV, 6, 2008. 50

Cfr. L’analisi proposta da Mons. Sigalini, Allora assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica, al convegno

giovanile di Salsomaggiore di qualche anno fa..