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forum 11 Flussi migratori di ritorno nuovi scenari demografici e geopolitici a cura di Emanuela C. Del Re LUCIO CARACCIOLO, STEFANO FOLLI, MARIA IMMACOLATA MACIOTI La questione del ritorno dei migranti nei paesi d’origine è rilevante, sia che si tratti di ritorno di rifugiati alla fine di un conflitto, di professionisti che desiderano tornare per contribuire allo sviluppo del loro paese, di migranti irregolari o richieden- ti asilo. Il ritorno di rifugiati e migranti costituisce una opportunità per paesi in via di sviluppo, specialmente se il ritorno è mosso dalla volontà e dalla partecipazione attiva dei migranti stessi. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) definisce il ‘ritorno vo- lontario’ come ritorno fondato su una decisione volontaria dell’individuo. La volonta- rietà è determinata da una libera scelta, quindi senza pressioni di sorta – psicologiche, materiali, fisiche – e su una decisione informata, sulla base di un’analisi obiettiva e ac- curata delle opportunità e dei vantaggi. Le motivazioni principali alla base della deci- sione dei migranti di tornare in patria vanno dall’esito negativo della domanda di asi- lo alle difficoltà di integrazione nel paese ospitante, al desiderio di rifarsi una vita in patria, alle tante forme di sfiducia, depressione e condizionamenti che caratterizzano spesso il percorso migratorio. Sebbene il fenomeno non sia nuovo, si è riproposto all’opinione pubblica, in parti- colare, a seguito della crisi finanziaria del 2008, quando i media hanno cominciato a diffondere storie di migranti di ritorno nel loro paese. La chiusura delle imprese o la modifica dei contratti di lavoro – sempre più di breve durata – hanno portato alcuni migranti a tornare nel proprio paese per investire i risparmi in attività in proprio. Al- cuni migranti scelgono di far tornare solo la famiglia nel paese d’origine, in attesa di tempi migliori. La scelta di far crescere i figli nel paese d’origine, però, non è sempre vissuta come trauma, stando alle testimonianze dirette, piuttosto come un’opportuni- tà per ragazzi che hanno già sperimentato la vita in Europa e che, in questo modo, po- tranno riconquistare l’identità d’origine. Una migrazione, quella di ritorno, frutto di una scelta consapevole e non sempre interpretata come definitiva.

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a cura di Emanuela C. Del Re

LUCIO CARACCIOLO, STEFANO FOLLI, MARIA IMMACOLATA MACIOTI

La questione del ritorno dei migranti nei paesi d’origine è rilevante, sia che sitratti di ritorno di rifugiati alla fine di un conflitto, di professionisti che desideranotornare per contribuire allo sviluppo del loro paese, di migranti irregolari o richieden-ti asilo. Il ritorno di rifugiati e migranti costituisce una opportunità per paesi in via disviluppo, specialmente se il ritorno è mosso dalla volontà e dalla partecipazione attivadei migranti stessi.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) definisce il ‘ritorno vo-lontario’ come ritorno fondato su una decisione volontaria dell’individuo. La volonta-rietà è determinata da una libera scelta, quindi senza pressioni di sorta – psicologiche,materiali, fisiche – e su una decisione informata, sulla base di un’analisi obiettiva e ac-curata delle opportunità e dei vantaggi. Le motivazioni principali alla base della deci-sione dei migranti di tornare in patria vanno dall’esito negativo della domanda di asi-lo alle difficoltà di integrazione nel paese ospitante, al desiderio di rifarsi una vita inpatria, alle tante forme di sfiducia, depressione e condizionamenti che caratterizzanospesso il percorso migratorio.

Sebbene il fenomeno non sia nuovo, si è riproposto all’opinione pubblica, in parti-colare, a seguito della crisi finanziaria del 2008, quando i media hanno cominciato adiffondere storie di migranti di ritorno nel loro paese. La chiusura delle imprese o lamodifica dei contratti di lavoro – sempre più di breve durata – hanno portato alcunimigranti a tornare nel proprio paese per investire i risparmi in attività in proprio. Al-cuni migranti scelgono di far tornare solo la famiglia nel paese d’origine, in attesa ditempi migliori. La scelta di far crescere i figli nel paese d’origine, però, non è semprevissuta come trauma, stando alle testimonianze dirette, piuttosto come un’opportuni-tà per ragazzi che hanno già sperimentato la vita in Europa e che, in questo modo, po-tranno riconquistare l’identità d’origine. Una migrazione, quella di ritorno, frutto diuna scelta consapevole e non sempre interpretata come definitiva.

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I migranti di ritorno ‘spontaneo’ costituiscono una risorsa, perché portano con sésaperi e competenze nuovi. Interessante, ad esempio, il caso delle donne senegalesi mi-grate in Italia e poi tornate in patria per scelta che lavorano per l’Association des Fem-mes pour la Solidarité et le Développement du Nord (AFSDN). Esse promuovononuove forme imprenditoriali nell’ambito della cooperazione (‘Dall’Italia al Senegal, lenuove imprenditrici sono migranti di ritorno’, IlSole24Ore, 4 gennaio 2011).

In Italia e in Europa esistono programmi di ‘Ritorno Volontario Assistito’ che for-niscono assistenza economica e organizzativa e che talvolta può prevedere anche misu-re di reintegrazione offerte all’individuo dallo Stato o da terzi, come per esempio le or-ganizzazioni internazionali. Possono usufruire del supporto al ‘Ritorno VolontarioAssistito’ i richiedenti asilo la cui domanda non ha avuto successo, gli immigrati indifficoltà e gli studenti, le vittime della tratta, gli immigrati qualificati e altri migran-ti che non desiderano o non possono rimanere nel paese di accoglienza e che si offronoper tornare nei loro paesi di origine.

La Germania, la Francia, il Belgio e l’Olanda, ad esempio, applicano i programmidi ritorno volontario già dal 1970, a seguito della crisi finanziaria che colpì l’Europain quegli anni; già nel 2005 la Global Commission on International Migration Report,rinnovava l’invito a rivolgere l’attenzione sulla crescente importanza del nesso tra mi-grazione di ritorno e sviluppo.

Un impulso alle politiche sul ritorno delle vittime di tratta è stato dato dall’allar-gamento dell’Unione Europea, che ha portato i paesi europei alla elaborazione di poli-tiche comuni, considerato che i nuovi paesi hanno mutato le frontiere dell’Unione.

La normativa italiana, in particolare, dalla legge 189/2002 (che segue la286/1998) prevede assistenza per il ritorno volontario per richiedenti asilo, rifugiati,beneficiari del permesso di soggiorno umanitario e persone ex Convenzione di Dubli-no (art. 32).

Il Ministero dell’Interno ha emanato linee guida per l’attuazione dei programmidi rimpatrio volontario assistito. Nel D.M. del 27 Ottobre 2011 sono, infatti, indicatii criteri e le modalità di ammissione a tali programmi, i criteri per l’individuazionedelle organizzazioni, degli enti e delle associazioni che collaborano all’attuazione deglistessi programmi. Nel testo del D.M. sono elencate diverse attività legate ai program-mi di rimpatrio: la divulgazione delle informazioni sulla possibilità di usufruire di so-stegno al rimpatrio e sulle modalità di partecipazione ai programmi; l’assistenza al cit-tadino straniero nella fase di presentazione della richiesta e negli adempimenti neces-sari, compreso il contatto con le rappresentanze consolari dei Paesi di origine per ac-quisire i documenti di viaggio; l’informazione sui diritti e doveri del cittadino stranie-ro connessi alla partecipazione al programma di rimpatrio; l’organizzazione dei trasfe-rimenti con particolare riguardo ai soggetti vulnerabili di cui all’art. 19, comma 2-bisdel Testo Unico, nelle fasi che precedono la partenza; il versamento di un contributoeconomico al migrante che vuole ritornare in patria, per le prime esigenze, e l’assisten-za e l’eventuale sostegno del cittadino straniero, con particolare riguardo per i sogget-ti vulnerabili, al momento dell’arrivo nel Paese di destinazione; la collaborazione con iPaesi di destinazione del cittadino straniero, per promuovere adeguate condizioni diinserimento.

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La maggior parte dei decisori concordano sul fatto che è necessario che le migrazio-ni di ritorno siano sostenibili, perché non ha senso facilitare il ritorno se poi i migran-ti dovranno migrare nuovamente. Tuttavia bisogna ancora definire su cosa costituiscaeffettivamente la sostenibilità del flusso migratorio di ritorno. Inoltre, va sottolineatoche il concetto di ‘sostenibilità’ cambia di significato a seconda degli individui da unaparte e delle società di accoglienza dall’altra.

Per favorire la sostenibilità del rientro, ovvero la reintegrazione, sono di certo ne-cessari progetti di micro-imprenditoria e percorsi di formazione o riqualificazione pro-fessionale, ma va ricordato che in molti casi le esigenze sono concrete e urgenti, perchéchi ritorna potrebbe doversi ricostruire una casa, potrebbe doversi ricreare un’attivitàprofessionale perduta e altro.

Il concetto di sostenibilità implica, poi, sia che l’individuo sia in grado di reinte-grarsi, sia che la comunità d’origine sia in grado di reintegrarlo dal punto di vista so-ciale, culturale, economico, per mantenere la reintegrazione stabile, sia per l’individuosia per la comunità.

Il ritorno dei migranti in patria è un fenomeno complesso e costituisce una sfidaper le nostre società in cui la presenza di immigrati costituisce una risorsa economicae culturale significativa, finalmente riconosciuta. È forse anche un successo, perché senon è percepito come fallimento del percorso migratorio, significa che il migrante haacquisito nelle nostre società sufficiente know how e capitale da sentirsi sicuro di potertornare in patria con spirito innovatore. Cosa comporterà questa inversione dei flussi?Quali scenari si delineano per il futuro?

Di questo e di molti altri aspetti del fenomeno delle migrazioni di ritorno discuto-no in questo forum LLuucciioo CCaarraacccciioolloo, direttore della Rivista Italiana di GeopoliticaLimes, SStteeffaannoo FFoollllii, editorialista de IlSole24Ore e MMaarriiaa IImmmmaaccoollaattaa MMaacciioottii, pro-fessore ordinario di Sociologia presso l’Università ‘Sapienza’, nota esperta di questio-ni migratorie, autrice con Enrico Pugliese del volume “L’esperienza migratoria” (La-terza, 2010).

Si registra oggi una flessione negli arrivi di stranieri migranti in Italia. Nel quinquen-nio 2005-2010, l’ISTAT rilevava una media di 330.000 ingressi di extracomunitariogni anno, mentre, tra il 2011 e il 2012, la media è di solo 105.000. Le richieste di per-messo di soggiorno, inoltre, nel 2011 sono calate del 40% rispetto all’anno precedente.Quali le motivazioni?

Lucio Caracciolo - Il forte calo dell’arrivo di migranti stranieri in Italia hamotivazioni tanto endogene quanto esogene. Le prime hanno soprattutto ache fare con la crisi economica attraversata dal nostro paese, che evidenzia lecarenze strutturali della nostra società rispetto a chi voglia entrarvi sia in mo-do saltuario che con una prospettiva permanente. Oltre alla crisi produttiva,che in Italia ha assunto caratteristiche particolarmente accentuate rispetto al

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resto d’Europa, occorre considerare l’impatto negativo del controllo criminaledel territorio. Le mafie organizzate sono un fattore di sfruttamento e di incer-tezza esistenziale non solo per i cittadini italiani ma ancor più per gli immigra-ti, molti dei quali, in particolare se almeno inizialmente clandestini, entranoda noi grazie allo sfruttamento di flussi di traffico gestiti da organizzazionicriminali locali e nostrane.

Per quanto riguarda i fattori esogeni il contesto di crisi globale rende piùdifficile gli spostamenti e imprevedibili gli sbocchi. La somma di questi impe-dimenti ha avuto e continuerà ad avere un forte effetto depressivo sui flussimigratori verso il nostro paese.

Maria Immacolata Macioti - Credo che il fenomeno sia da leggersi inrelazione ad una serie di concause. Certamente c’è da tener conto delle li-nee di chiusura delle frontiere da parte europea in genere ed italiana inparticolare. Oggi è indubbiamente più difficile entrare in Europa e in Italiadi quanto non lo fosse dieci, venti anni addietro. Il reato di clandestinità,unito agli effetti dell’ultima sanatoria fanno sì che essere in Italia da irre-golari è davvero una situazione molto rischiosa. Si rischiano oggi, moltoconcretamente, il carcere e l’espulsione. I datori di lavoro trovati ad impie-gare clandestini possono incorrere a loro volta in pesanti sanzioni: è vocecomune, tra i migranti, che oggi è difficile trovare, in Italia, lavoro al nero.D’altro canto la richiesta di manodopera ha certamente subìto contrazioniin numerosi settori in cui la presenza degli immigrati era piuttosto impor-tante in un recente passato. In Italia oggi è in difficoltà, ad esempio, l’edili-zia, che dava lavoro a operai non sempre e non necessariamente particolar-mente qualificati. Regge il settore degli aiuti domestici, regge la richiestadi cura alle persone anziane: ma per quanto tempo? Abbiamo tutti ascolta-to le parole del presidente Monti circa le difficoltà di garantire il welfare,in un futuro non certo molto lontano. Dovessero venire meno gli aiuti allefamiglie per persone anziane che necessitano di accompagnamento, si puòprevedere anche una contrazione di questo settore, oggi apparentementeuno dei più sicuri, insieme alla ristorazione. Immagino che il passa parolapossa avere fatto comprendere in molti paesi di provenienza che l’Italia èoggi un paese con forti difficoltà economiche, che offre poche prospettivedi miglioramento per chi dovesse giungervi, anche grazie ad una legisla-zione sempre più dura nei confronti di eventuali immigrati irregolari. Unpaese che, d’altro canto, offre poche occasioni di lavoro in regola mensil-mente pagato.

È sempre più evidente che chi arriva in Italia non trova sicurezze: finito unlavoro per il quale si aveva un regolare contratto, è difficile trovarne un altro.E non è consigliabile restare in modo irregolare. Tra gli immigrati già residen-ti si alza la percentuale di coloro che appaiono in difficoltà: se un tempo fun-zionavano le catene migratorie, oggi queste hanno probabilmente, in buonaparte, subìto arresti, imboccato altri percorsi.

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D’altro canto, date le politiche di chiusura dell’Europa, di esportazionedelle frontiere all’estero, è oggi più difficile di ieri partire verso l’Italia, versola Spagna dal Nord Africa. Partire in genere verso paesi europei. Ciò che negliultimi anni è accaduto, e tuttora accade nel Mediterraneo in termini di naufra-gi, di morti in mare nel tentativo di raggiungere le coste italiane e in particola-re l’isola di Lampedusa è ben noto. Recentemente il sindaco di Lampedusa hapubblicamente deplorato che nella sua isola giungano cadaveri, ha sottolinea-to il fatto che per quanti corpi il Mediterraneo abbia restituito e restituisca al-tri, invece, ne trattiene e ne occulta: impossibile, quindi, avere cifre precise.Ma nel Nord Africa è oggi ben noto che i viaggi verso la Spagna (paese an-ch’esso, oggi, pesantemente in difficoltà), verso l’Italia sono viaggi altamente arischio. Così come credo sia ben noto che questi paesi offrano oggi poche occa-sioni di inserimento lavorativo e, quindi, di vita sociale soddisfacente, mentresono aumentate notevolmente le controindicazioni. Come stupirsi quindi del-la contrazione dei flussi migratori? Si viene molto di meno oggi in Italia dal-l’Africa: si calcola infatti che gli africani siano circa il 22,1% degli immigrati (intotale, oggi, poco più di 5 milioni, 5.011.000 secondo il XXII DossierCaritas/Migrantes). Tra questi, sempre alta la presenza dei marocchini, circamezzo milione; interessante quella degli egiziani, di circa 117.000 unità: forsele delusioni seguite alla cosiddetta ‘primavera araba’ hanno qualcosa a che ve-dere con queste presenze.

Si viene comunque, ormai, in Italia soprattutto dall’Europa (50,8%). Gliasiatici corrispondono a un 18,8% del totale: tra questi, 277.000 cinesi, circa100.000 tra filippini – si tratta di una presenza tra le più longeve – e bengalesi.Vi è, inoltre, una certa presenza dalle Americhe, che non raggiunge l’8,3%: so-no presenti soprattutto peruviani – 107mila –, ecuadoriani, con circa 90milapresenze e circa 50mila brasiliani. Sono lontani, quindi, i tempi dei ritorni dal-l’Argentina, delle migrazioni da quel paese in crisi verso l’Italia: oggi, secondodati della Filef, ci sarebbe al contrario una ripresa di migrazioni dall’Italia ver-so l’Argentina stessa.

Ormai si viene quindi, in Italia, soprattutto dall’Europa: da paesi più lon-tani le mete sono in genere altre, visto che il paese non è una meta attrattivama lontana e respingente.

L’ultima sanatoria da poco conclusa ha, inoltre, presentato evidenti ano-malie, con un rigonfiamento delle domande nel settore domestico (il fatto chela cifra richiesta fosse minore di altri settori ha certamente avuto la sua parte)a scapito di altri più produttivi, domande compilate senza che fosse stata pa-gata la cifra prevista (gravosa, per un immigrato) o, al contrario, pagamentisenza la compilazione del modulo previsto: la burocrazia italiana è certamen-te molto scoraggiante, tanto per gli italiani, che pure vi sono assuefatti che, inprimo luogo, per gli stranieri.

Inoltre, alcuni paesi un tempo esportatori di manodopera hanno visto de-cisamente migliorate le condizioni di vita: anche questo può portare sia allacontrazione del numero di partenze, sia ad un certo numero di ritorni. Nel

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caso, poi, dei rifugiati il rientro assistito è una decisa tendenza accettata e per-seguita a livello europeo.

E l’Italia non fa eccezione. In Africa e in Asia, inoltre, vari Stati accolgo-no rifugiati con una certa generosità, nonostante le condizioni non sempreottimali: i paesi più in difficoltà possono mostrarsi più generosi di quelli eu-ropei.

Concludendo, mi sembra si possa parlare di cause legate alle vicende in-ternazionali (e si tratta di problematiche diverse a seconda del singolo paesedi origine), alle linee europee circa l’immigrazione e anche alla crisi europea,che sconsigliano ormai molte partenze verso la penisola. La crisi colpisce an-che gli immigrati. Secondo gli ultimi dati, la disoccupazione tra gli immigra-ti sarebbe al momento arrivata al 12%; a questo dato dovrebbe poi aggiun-gersi quello della crescita del numero dei cosiddetti inoccupati. L’attualenormativa di chiusura da parte italiana fa il resto. Ad esempio, si può ricor-dare che circa il 20% degli immigrati risulta proprietaria dell’alloggio in cuivive: il che vuol dire che nella stragrande maggioranza dei casi si è costrettiad affittare un qualche locale, non sempre tra i più confortevoli, dividendo-lo magari con altri, ove i pregiudizi dei proprietari lo consentano. In altri ca-si, a contentarsi di alloggi di fortuna, o a dormire in strada, come è stato am-piamente documentato con riguardo a grandi città come Torino, Bologna,Roma ma anche a più contenute realtà urbane come Catania e Lecce, con ri-guardo a persone che da oltre tre anni (in certi casi, sei, otto anni) avevano laqualifica di rifugiato e avrebbero quindi dovuto godere di protezione inter-nazionale (cfr. Le strade dell’integrazione, pubblicazione che riporta i dati diuna ricerca 2012 del CIR, Consiglio Italiano Rifugiati, dal Dip. di Studi Socia-li, con fondi europei per i rifugiati 2008-2013, cofinanziata dall’Unione Euro-pea e dal Min. dell’Interno, del giugno 2012). L’Italia è oggi molto meno diieri una meta attrattiva.

Stefano Folli - Dipende, come è naturale che sia, dalla crisi economica checolpisce l’intera struttura del sistema produttivo in ogni sua articolazione. Sof-frono la crisi in modo indistinto sia gli italiani sia gli immigrati. Anche questiultimi perdono il lavoro, con le conseguenze che ciò comporta. Ma in partico-lare questa dinamica negativa si traduce in una minore attrattiva dell’Italiaagli occhi dei nuovi potenziali immigranti. Il sogno di un facile benessere (serapportato con le condizioni di partenza) viene meno, il miraggio si appanna,i flussi dell’immigrazione prendono altre vie. Secondo le cifre, negli ultimidue anni è arrivato nel nostro paese un numero di nuovi immigrati che è ap-pena un terzo di quello registrato nel quinquennio precedente. Vuol dire chesiamo nel pieno della crisi e non sappiamo quando e se tale tendenza si inver-tirà di nuovo. Senza dubbio possiamo considerare che le statistiche sui nuoviarrivi costituiscano un indice da tenere d’occhio proprio per comprenderel’evoluzione del ciclo economico.

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Il fenomeno della flessione investe anche altri paesi europei, ad esempio la Spagna, do-ve si registra un saldo negativo con 55.000 emigrati spagnoli in più rispetto agli im-migrati. Quali conseguenze demografiche ed economiche può avere questa tendenza inEuropa?

Stefano Folli - Questo è un punto di estrema importanza. Ci sono paesieuropei, come la Spagna (ma non solo), in cui gli effetti del ristagno dell’eco-nomia, o in molti casi di una grave recessione, danno il via a una nuova emi-grazione. In molti casi si tratta di un’emigrazione ‘intellettuale’, cioè di giova-ni qualificati che non trovano lavoro in patria e vanno a cercare le loro oppor-tunità altrove, magari in America Latina. Ma il perdurare della crisi produceanche, in qualche caso, un ritorno all’antico e, quindi, un’emigrazione di per-sone meno qualificate. In ogni caso, ecco il saldo negativo. Per quanto si sia ri-dotta anche l’immigrazione, in Spagna come in Italia, il bilancio è squilibrato:cresce il numero degli immigrati rispetto ai cittadini spagnoli che lasciano lamadrepatria. Ne deriva un’alterazione degli equilibri demografici con un am-pliamento delle quote di immigrati, in ogni nazione, a discapito della popola-zione locale (con un’età media sempre più alta e una bassa natalità). Se la ten-denza fosse confermata nei prossimi anni, l’Europa, soprattutto quella meri-dionale, cambierebbe volto.

Lucio Caracciolo - Il fatto che la flessione negli arrivi di extracomunitarinei vari paesi europei tenda a consolidarsi e a proiettarsi nel lungo periodo èparticolarmente evidente in Spagna. Si tratta, infatti, di un’economia relativa-mente grande in un paese piuttosto popoloso per gli standard europei, che èstato colpito in modo assai profondo dalla crisi economica. In particolare nehanno sofferto le poche industrie manifatturiere, l’edilizia, l’agricoltura e, an-cor più, il turismo. Con effetti paradossali: quello che una volta era il Muro diCeuta – exclave spagnola in terra marocchina – deputato a filtrare i flussi dal-l’Africa verso l’Europa, funziona ora in senso anche inverso. Troviamo, infat-ti, in Marocco una crescente quantità di lavoratori spagnoli, anche qualificati,espulsi dal mercato domestico, alla disperata ricerca di una prospettiva stabi-le che in patria pare ormai un miraggio.

Maria Immacolata Macioti - Certamente alcune nazioni europee in passa-to hanno avuto un saldo demografico attivo in buona parte grazie agli immi-grati provenienti da paesi di origine dove gli usi e i costumi vanno verso ilconsolidamento di un modello di famiglia numerosa. Si tratta di usi e costumiche si sono di regola legati alla necessità di avere braccia per il lavoro, quindisoprattutto a società agricole, pre-industriali. Man mano, però, che il mondoindustriale si è espanso e consolidato è cambiato, in genere, il modello di fami-glia. In Occidente questo ha portato a famiglie con uno o due figli invece degliotto, dieci figli che si tendeva ad avere ancora nella prima parte del ‘900, in

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Italia, dove l’industrializzazione è arrivata con ritardo (il prototipo della mac-china da scrivere Olivetti divenne funzionante durante la celebre Esposizionedel 1911) e dove la cultura industriale ha molto stentato ad affermarsi. Doveanzi, secondo vari commentatori, non si è mai davvero affermata. Comunque,in Italia così come in genere in Europa, si è da tempo compreso che mentre inpassato i figli apportavano benessere in quanto potevano essere utilizzati supiano lavorativo in campagna o in piccole imprese familiari, o anche fuori dal-l’ambito familiare, pur apportando contributi al nucleo familiare di prove-nienza, oggi è chiaro, invece, a chiunque che i figli sono, al contrario, bisogno-si di aiuto. Consumano e con difficoltà producono, vista la situazione di crisi.Appare quindi logico che ci si pensi a lungo, prima di fare figli. Che se ne ab-biano uno o forse due: ma ormai sono rare le famiglie più numerose. Questofenomeno, da tempo presente in Occidente, ed anche in Italia, è stato in partecorretto, come dicevo, dalle famiglie degli immigrati, che venendo da diverseculture, abitudini, tendevano ad avere invece più figli. Ma questo è un trendvalido per i primi tempi.

Dopo qualche anno di permanenza in paesi europei di regola anche le fa-miglie che provengono da paesi altri si rendono conto della situazione e siadeguano ad usi e costumi in merito. Ciò vuol dire (tutte le ricerche lo confer-mano) che anche gli immigrati dopo qualche anno evitano di fare figli: sareb-bero un peso eccessivo, sarebbe difficile per i genitori garantire loro un futuro.

Quindi, la maggiore natalità degli immigrati dopo i primi anni tende adavvicinarsi all’andamento del paese ospitante.

Credo, quindi, che le maggiori emigrazioni da paesi europei, che sono og-gi riprese non solo dalla Spagna ma anche dall’Italia siano inizialmente com-pensate da nascite dovute a famiglie di immigrati. Ma poi il numero delle na-scite dovrebbe attestarsi su livelli molto contenuti.

In termini economici è difficile fare oggi previsioni: molto dipenderà dacome i paesi europei sapranno reagire alla crisi. Oggi la situazione in Italia èmolto scoraggiante sia per i più giovani cittadini che per la generazione che èintorno ai 40 anni, costretta a lavori a termine, precari, sottopagati, che nonconsentono continuità e sicurezza, che impongono, quindi, una presenza pro-tratta nelle famiglie di origine, il posporre matrimoni e convivenze; che esclu-dono, tra l’altro, la possibilità di accedere a un mutuo, costringendo quindimolti giovani e meno giovani ad affitti e, quindi, ad esborsi non finalizzati aduna sicurezza abitativa. La vicenda dell’Ilva è, inoltre, emblematica mi sem-bra, di una scarsa cultura industriale nel paese: certamente sarà scoraggiantecon riguardo ad eventuali investimenti stranieri. Tutto ciò penalizza decisa-mente sia i giovani autoctoni che i giovani immigrati. Fino ad ora le famiglieitaliane sono riuscite a reggere, a sostenere i figli, i nipoti. Ma certo i risparmisi sono assottigliati, in molti casi si sono esauriti. Temo che ci sarà una ripresadell’emigrazione, e non soltanto a livelli di alta preparazione: non solo fugadei cervelli.

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Le associazioni di categoria degli agricoltori in Italia esprimono preoccupazione perquanto riguarda la flessione nell’entrata di immigrati evidenziando alcuni dati: unmilione di giornate di lavoro nei campi in meno nel 2011 rispetto al 2010. Qual è ilpossibile impatto della riduzione della forza lavoro degli immigrati sull’economia delPaese?

Stefano Folli - Qui bisogna distinguere. In un’economia come quella italia-na, che si è sempre più appoggiata alla manodopera immigrata, il vicolo ciecoè evidente. Come in passato si verificano situazioni di eccesso nell’offerta del-la forza lavoro, da cui derivavano vari fenomeni di sfruttamento, così oggi as-sistiamo al processo inverso. Tuttavia le carenze di manodopera dipendonoda settore a settore. L’agricoltura è, purtroppo, uno dei più colpiti. Ma in ge-nerale l’agricoltura è quasi sempre la prima a pagare le conseguenze dei ciclinegativi. Quando, come negli anni che stiamo vivendo, è sempre più difficilelavoranti agricoli di nazionalità italiana, accade che l’insufficienza della ma-nodopera immigrata produce immediati e gravi effetti.

Bisogna dire, però, che la domanda per gli immigrati resta abbastanza al-ta, nonostante tutto, in altri settori. In particolare nel campo dei servizi allapersona, ossia colf e badanti. Anche qui la crisi sta producendo alcune novità(ad esempio cresce dopo molti anni il numero relativo delle colf italiane) magli immigrati in questo campo trovano ancora una domanda importante.

Maria Immacolata Macioti - Questo è un punto davvero interessante.Sappiamo infatti che alcune correnti migratorie si sono particolarmente lega-te al lavoro agricolo, più vicino di altri tipi di impiego alla loro preparazionee cultura. Se si ha attenzione, ad esempio, alle religioni si nota subito un fortecoinvolgimento nell’agricoltura da parte dei Sikh, in larga parte di prove-nienza dal Punjab (India). I loro principali insediamenti sono nel Lazio e inalta Italia. Su di loro esistono oggi ricerche e documentazione filmica (v. unapuntata de Il cibo dell’anima, di Cannizzaro). Inoltre, esiste il fenomeno deglistagionali, migranti che sono presenti in Italia nei periodi in cui, soprattutto,servono braccia per l’agricoltura. Persone, quindi, che vengono solo per po-chi mesi, per questi lavori stagionali. Bisognerebbe chiarire se la preoccupa-zione delle associazioni di categoria degli agricoltori reputino che il calo digiornate di lavoro nei campi sia da attribuire ai brevi contratti stagionali onon, invece, agli immigrati regolarmente impiegati nell’agricoltura, per piùlunghi periodi.

Sembra, inoltre, esistere un certo paradosso in merito: mentre ci si preoc-cupa per la diminuzione delle giornate lavorative e, quindi, della manodope-ra, in realtà molti immigrati e rifugiati già presenti in Italia, cercano invano la-vori anche di breve durata, come nel settore dell’agricoltura, documentato ades. dalla ricerca CIR del 2012 già menzionata, che riporta il caso di rifugiatoche, invano, hanno cercato lavori del genere intorno alle città di residenza, so-prattutto a Catania e Lecce. Forse si potrebbe utilmente sperimentare una

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campagna informativa a più ampio raggio, il che darebbe la possibilità di me-glio mettere a contatto domanda e offerta. Inoltre, va tenuto presente che inquesto settore è ampio, almeno in certi luoghi, il ricorso al lavoro nero. E che cisono stati rifugiati che hanno risposto di essere più che disponibili a lavoraresottopagati e senza tutele, pur di lavorare: credo che una maggiore attenzionealle modalità del lavoro, con riguardo a questi settori, sarebbe necessaria, cosìcome sarebbe opportuna una migliore tutela di persone che sono in Italia le-galmente, che hanno da anni il riconoscimento di rifugiato e che sono, oggi,senza tutela e senza lavoro.

Alla diminuzione degli ingressi corrisponde anche un aumento dei rimpatri volontarinei paesi d’origine. Molti Latino-Americani, ad esempio, dati i progressi economici neiloro paesi d’origine, decidono di rientrare per mettere a frutto i risparmi guadagnati inItalia. Nel corso degli ultimi dieci anni sono stati varati alcuni programmi di rimpa-trio assistito. Avvalendosi di fondi comunitari, e con la gestione dell’OIM, l’Italia haofferto i biglietti aerei ed una somma (tra i 2.500 e 5.000 euro) di bonus, per avviareun’attività nel proprio paese, ma stando ai dati, soltanto 8.000 immigrati hanno accet-tato. Le motivazioni sarebbero psicologiche, perché accettare equivarrebbe per l’immi-grato a un’ammissione di fallimento. Il programma non è veramente decollato. Cosanon va nel concetto alla base del programma? Come andrebbe rivisto?

Maria Immacolata Macioti - Stando a quanto qui detto si tratterebbe dimotivazioni di ordine essenzialmente psicologico legate, soprattutto, all’ideadi un fallimento migratorio. Se le cose stessero davvero in questi termini pre-sumo che si potrebbero ipotizzare delle azioni di contrasto, si potrebbe preve-dere una pubblicità attraente con riguardo ai paesi di origine, o accordi inter-nazionali perché venga diffusa una immagine attrattiva di possibili reinsedia-menti, o altre misure analoghe. Di fondo, in genere, i migranti nutrono a lun-go il sogno del rientro. Quando questo non avviene le motivazioni possono es-sere, credo, varie. Si può presumere che la cifra ipotizzata non sia tale da costi-tuire un incentivo cui non si può dire di no.

Si può ipotizzare che l’immigrato abbia ormai costruito in Italia (ma il di-scorso vale più in generale) un percorso di inserimento riuscito e che tema unrientro in una realtà abbandonata, ormai, da lungo tempo, in cui molti puntidi riferimento potrebbero essere cambiati, scomparsi: i tanti ritorni in Italia diemigrati italiani non sono stati sempre tra i più felici. Alcuni si sono risolti inuna ulteriore partenza. A volte esistono coniugi, figli: di regola figli nati nelpaese di emigrazione non ci tengono affatto a vivere in uno sconosciuto paesedi origine dei genitori. Spesso non ne conoscono neppure la lingua. Certamen-te hanno frequentato bambini, ragazzi italiani, hanno stretto amicizie, coltiva-to speranze. I figli possono essere assolutamente contrari all’abbandono del-l’Italia per una meta sconosciuta, di cui si sa che a un certo punto della loroesistenza non dava da vivere in modo adeguato ai genitori. Se parliamo di uo-

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mini, questi possono aver trovato in Italia una compagna, una moglie: e non èdetto che lei sia interessata ad abbandonare la famiglia di origine, gli amici.Magari, un proprio lavoro.

La casistica potrebbe continuare con diverse esemplificazioni. Credo cheandrebbero conosciute meglio le motivazioni di una non accettazione di que-sti incentivi al rientro, prima di ipotizzare interventi, linee di contrasto.

Stefano Folli - Occorre studiare nel dettaglio i programmi di rimpatrio everificare se sono adeguati alle circostanze economiche e sociali in cui inten-dono operare. Di sicuro l’andamento economico di cui abbiamo già parlato hala sua influenza. Evidentemente l’assistenza offerta non viene ancora ritenutasufficiente a creare una forte motivazione. È vero che le condizioni economi-che e sociali dell’America Latina sono in positiva evoluzione, ma si tratta di fe-nomeni valutabili nel lungo periodo. Stiamo parlando, infatti, di persone cheraramente sono attrezzate per cogliere le nuove opportunità in anticipo. Lopossono fare, ma con dinamiche piuttosto lente.

Accanto a questo, c’è con ogni probabilità anche l’aspetto psicologico. Il ti-more di essere percepiti al ritorno in patria come qualcuno che ‘non ce l’ha fat-ta’. In fondo, se è vero che l’immigrazione diminuisce perché l’Italia ha persoil suo fascino come produttrice di ricchezza, è altrettanto vero che agli occhi dichi è lontano, e magari appartiene a una generazione anziana (genitori o non-ni dell’immigrato), l’Europa rimane un sogno. Il ritorno del figlio o del nipoteequivale all’ammissione di un fallimento personale e, in definitiva, familiare.

Accordare uno status alle seconde generazioni potrebbe contrastare il fenomenodel rientro e costruire una cittadinanza italiana più solida e più adeguata al mon-do di oggi?

Stefano Folli - Senza dubbio. Stiamo parlando di dare la cittadinanza ai figlidegli immigrati ed è, come è noto, un tema su cui si è soffermato più volte ilpresidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Per varie ragioni, la questionenon è stata ancora affrontata con convinzione nel dibattito politico, ma rimanesullo sfondo con tutta la sua carica morale e di giustizia sociale. Non ci sonodubbi che una svolta legislativa di questo tipo determinerebbe le condizioni peruna migliore e crescente integrazione degli immigrati nel tessuto civile italiano.

Quelli di seconda generazione, peraltro, sono già cittadini italiani per lin-gua e costume, benché resi ‘diversi’ dalla carenza del riconoscimento giuridi-co. L’integrazione, quando è reale e non apparente, è sempre la strada piùconsigliabile. Si tratta di ammettere il principio che la cittadinanza italiana nelnostro secolo assume sempre più caratteri diversi di quelli che furono tipicinel Novecento. Il che non significa misconoscere i problemi e i limiti delle so-cietà multietniche, ma vuol dire attrezzarsi per affrontarli con gli strumentiidonei.

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Lucio Caracciolo - Il futuro dei migranti in terre europee si gioca soprat-tutto sulle seconde e sulle terze generazioni. Questo è specialmente vero inItalia, paese che fino a quarant’anni fa continuava metodicamente ad espelle-re parte della popolazione verso mercati più o meno promettenti e che invece,ora, è diventato un territorio a densa presenza migratoria.

Esiste in Italia un vasto consenso, almeno in base ad alcuni sondaggi, sullapossibilità/necessità di concedere la cittadinanza a chi nasce nel nostro paeseda genitori immigrati. Una opzione inedita per il nostro ordinamento giuridi-co, tuttora vincolato ai paradossali dogmi del diritto del sangue. A spiegarequesta inclinazione xenofila, apparentemente controintuitiva specie in tempodi crisi, contribuisce la svalutazione del concetto di cittadinanza in un paesecome il nostro, a statualità piuttosto debole. Se la cittadinanza conta poco pernoi, perché farne una barriera nei confronti di chi, non italiano per ‘sangue’, viambirebbe?

Maria Immacolata Macioti - Certamente. L’idea che dopo che si è investi-to fortemente nei figli degli immigrati, pagando i loro studi e il loro welfare epoi al diciottesimo anno di età non si dia loro la cittadinanza italiana in modoautomatico, che ciò non avvenga neppure per quelli che in Italia sono nati, misembra veramente poco comprensibile e, certamente, non funzionale. A tut-t’oggi le domande inoltrate in merito attendono anni per essere esaminate e ri-solte, con profondo scoraggiamento di numerose famiglie di immigrati, anchein situazione lavorativa tranquillamente svolta e certificata.

Dopo che un paese ha investito tanto nell’educazione e nella crescita dei fi-gli degli immigrati, perché non incoraggiarli piuttosto a rimanere, a lavorarenel paese e a pagare le relative tasse? Sarebbe un ritorno, in qualche modo, diquanto si è speso per loro e un vantaggio per il paese nel suo insieme. Inoltre,è noto a tutti che la socializzazione dei figli degli immigrati avviene in genere,ed è avvenuta in modo molto meno difficoltoso di quella dei genitori. I ragaz-zi hanno appreso e apprendono facilmente la lingua italiana, hanno interioriz-zato costumi, abitudini, valori proposti nell’ambito del contesto in cui hannotrascorso infanzia e giovinezza, più facilmente dei genitori di regola hanno sa-puto aprire una rete di amicizie, anche grazie alla scuola: dopo di che dovreb-bero essere allontanati? La ipotesi di un allontanamento non mi sembra trovigiustificazioni né su un piano logico né su un piano socio-economico. Tutto, alcontrario, mi sembra vada a favore di una cittadinanza da dare senza frappor-re altre difficoltà, in modo da consentire un radicamento nel paese.

Certamente, la presenza dei nuovi italiani comporterà cambiamenti sulpiano culturale e politico: ma, comunque, il paese è andato verso una ‘conta-minazione’, verso un ‘meticciato’, per utilizzare termini cari all’antropologiaculturale. Ha visto un mutamento di usi e costumi, una migliore e più diffusaconoscenza delle culture, delle religioni di vari paesi di provenienza, anche sein merito ancora molto resta da fare. L’Italia è oggi, grazie agli immigrati, me-no chiusa in se stessa, meno provinciale. Più interessata di quanto non fosse

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l’Italia degli anni ‘60- ‘70 del Novecento alla Cina, all’India, alle credenze reli-giose diffuse in questi paesi.

Il fenomeno dell’immigrazione dovrebbe essere, ormai, chiaro a tutti: è un fe-nomeno strutturale, non emergenziale, andrebbe affrontato in questa ottica. Il te-ma della cittadinanza andrebbe affrontato con urgenza: siamo molto in ritardo.

La Germania sfrutta il fenomeno del rientro volontario per rafforzare e creare nuovi lega-mi con i paesi d’origine dei migranti che ritornano. L’Italia in che modo potrebbe trarrevantaggio da questo flusso di persone formate al lavoro sul suo territorio?

Lucio Caracciolo - L’esempio del rientro volontario, incentivato in Germa-nia e in altri paesi europei, esprime una notevole dose di ambiguità. Da unaparte, è difficile misurare quanto davvero volontario sia il ritorno a casa daparte di migranti che hanno sopportato enormi sacrifici per raggiungere ilpresunto o effettivo eldorado. Dall’altra, si tratta pur sempre di un incisivocontributo allo sviluppo economico e sociale dei paesi d’origine dei migranti,destinato a cambiare in profondità il panorama di quelle terre, attraverso imeccanismi delle rimesse e non solo, almeno quanto i migranti da essi prove-nienti hanno cambiato la nostra società e la nostra cultura.

Per quanto riguarda l’Italia, il fenomeno del rientro volontario, potrebbeanche giovarci nella misura in cui contribuisse a costruire reti permanenti direlazione fra il nostro paese e chi vi si è formato come lavoratore più o menospecializzato. In questo caso, più che rientro volontario, sarebbe opportunoparlare di rientro incentivato, ossia favorito anche per una visione strategicadella nostra influenza nel mondo, da accentuare grazie al dialogo con le futu-re élites di paesi stranieri che si sono formate nel nostro paese, vi conservanobuone relazioni e possono, quindi, fungere da ‘ponte’ fra interessi italiani e in-teressi e strategie altrui.

Maria Immacolata Macioti - Sarebbe una politica saggia: quello che già asuo tempo si attendevano gli italiani all’estero, che immaginavano e auspica-vano rapporti privilegiati con la madrepatria, visti i tanti acquisti fatti in Italia,i tanti legami. Non sempre l’Italia ha saputo all’epoca aprire politiche econo-miche vantaggiose in questo senso sia per i migranti italiani che per il paese.Ricordo ad esempio di aver fatto ricerche nel nord Africa, soprattutto in Tuni-sia e in Marocco, verso il 2004-2005 tra gli italiani emigrati, che lamentavanoproprio il disinteresse da parte delle autorità italiane nei loro confronti, la dif-ficoltà di aprire proficui scambi commerciali con la madrepatria, cosa inizial-mente attesa e auspicata.

Ma man mano che il tempo passava senza risposte adeguate naturalmentequesti imprenditori di origine italiana si rivolgevano altrove: uno spreco note-vole di possibile crescita per i due paesi in causa. Lo stesso sembrava essereaccaduto in un più lontano paese come il Sudafrica, dove pure si era inizial-

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mente estremamente disponibili a scambi commerciali, al mantenimento di le-gami: grande successo avevano cantanti italiani, opere, programmi televisivilegati al calcio, a corse automobilistiche in cui fosse presente la Ferrari ecc. Maal di là della evidente nostalgia da parte dei più anziani, il riscontro da parteitaliana sembrava essere stato piuttosto modesto: anche in questo caso, sostan-zialmente deludente (cfr. di Maria I. Macioti e Claudia Zaccai, Italiani in Suda-frica. Le trasformazioni culturali della migrazione, Milano, Guerini 2006). Ora lasituazione sembra riproporsi in altri termini, con soggetti che hanno appresoin Italia alcuni meccanismi, che magari hanno lavorato in ambiti tali da poterpoi loro permettere un utile reimpiego in patria.

Aprire canali commerciali con questi soggetti potrebbe essere certamenteproficuo per l’import-export e, quindi, per l’economia italiana che di questitempi avrebbe molto bisogno di investimenti e di sbocchi commerciali. Unapolitica lungimirante dovrebbe, quindi, certamente tenere presente questi po-tenziali partner, con i relativi potenziali mercati. L’industria italiana appareoggi in gravi difficoltà, né gli ultimi accadimenti sembrano incoraggiare even-tuali investitori stranieri. L’aprire quindi linee di vendita, scambi privilegiaticon persone che hanno conosciuto l’Italia dall’interno, che sanno cosa può es-sere utilmente proposto nei loro paesi mi sembrerebbe un’ipotesi decisamentepromettente e interessante. Sempre che non prevalga in queste persone unavisione troppo negativa dell’Italia a causa delle difficoltà ivi vissute, delle si-tuazioni non sempre accettabili subite su piano lavorativo e abitativo, oltreche nei rapporti sociali. Non sempre, infatti, tutto si è svolto nel migliore deimodi, nel soggiorno in Italia: molti immigrati da noi hanno conosciuto razzi-smo, lavoro nero, a volte mancanza di lavoro e vera e propria povertà.

Comunque, nei casi di migrazioni riuscite sarebbe certamente utile tenerepresenti queste opportunità. Già adesso esistono vari Stati di accoglienza checercano di aprire politiche di cooperazione con i paesi di origine dei migranti:sarebbe opportuno un coordinamento in merito, che eviterebbe che vengapresa a metro di giudizio l’opinione pubblica dominante nei singoli paesi. Og-gi si fa strada la percezione, a livello internazionale, degli effetti benefici dellemigrazioni per entrambi i paesi interessati, e questo anche grazie ai tanti rap-porti delle organizzazioni internazionali, dall’ONU a numerose Ong. Si sta fa-cendo strada la consapevolezza che le migrazioni siano potenzialmente positi-ve per tutti e due i paesi interessati.

SStteeffaannoo FFoollllii - Anche la Gran Bretagna tende a stabilire legami di questo tipo,favoriti dalla comunanza di lingua. Per l’Italia la questione è più complessa. Ser-virebbero programmi specifici e molto costosi per investire sui rimpatri in paesicome le Filippine o la fascia nord-africana, per fare due esempi. Oggi, come ab-biamo visto, i programmi di rimpatrio devono fare i conti con la scarsità di risor-se e con la difficoltà di ‘incrociare’ in modo appropriato il fenomeno dei flussimigratori. Una visione così ambiziosa, come quella fatta propria dalla Germaniarichiede, quindi, investimenti ingenti e una prospettiva di medio-lungo periodo.

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Non è detto, però, che qualcosa non si possa fare o non si stia già facendo inmodo empirico. In America Latina, ad esempio, l’Italia è popolare ed esiste,forse, una modalità spontanea attraverso cui si crea un rapporto speciale fra ilnostro paese e le comunità degli immigrati: quelli che sono sul nostro territorioe quelli che sono tornati a casa o prevedono di tornare in un prossimo futuro.

Il lavoro degli immigrati contribuisce per l’11,1% al PIL italiano e ha contribuito, so-prattutto, alle percentuali di crescita. La flessione nei flussi di entrata e il fenomeno delrientro potrebbero influire sul PIL?

Maria Immacolata Macioti - C’è da augurarsi che si possa evitare un ri-flesso negativo sul PIL a partire dalla constatazione della flessione dei flussiin entrata, congiunti con i fenomeni del rientro. Forse queste linee di tenden-za potrebbero essere corrette con politiche più lungimiranti rispetto a quellesin qui auspicate e decise, linee in primo luogo di difesa delle realtà europee.Si è fatta strada ampiamente, oggi, la consapevolezza della importanza, cer-tamente, di una regolamentazione, della inefficienza e negatività della re-pressione.

Del resto gli Usa insegnano: nonostante le risorse, il muro che divide gliUsa dal Messico, la sorveglianza dei confini, l’emigrazione messicana, sia re-golare che irregolare, non è stata contenibile. La California è un esempio illu-minante in merito, con le tante presenze di persone e di esercizi commercialimessicani, da ristoranti a lavanderie, da negozi di oggettistica varia ad altricon merci più raffinate. I murales a S. Francisco ricordano anche al passantepiù distratto i momenti salienti della storia messicana, l’arte messicana.

Le migrazioni oggi tendono ad essere più circolari. Se fosse possibile, i mi-granti più fortunati, quelli dalle iniziative più riuscite, lungi dal mettere radiciin un paese, tenderebbero a muoversi in più direzioni. In Italia e in Europa siè cercato per decenni di difendersi dai flussi migratori, di rafforzare i control-li alle frontiere, al più di selezionare i flussi. Ma, in generale, di dissuadere imigranti. In questo sforzo si sono rese più difficili anche le vie dei rifugiati,che ne hanno certamente risentito. Forse una revisione di questa politica dichiusura, una maggiore apertura rispetto a una migrazione più circolare, unripensamento sulla cittadinanza, politiche di agevolazione rispetto a investi-menti e aperture di piccole imprese, potrebbero, in parte, almeno scongiurareil rischio della flessione del PIL in Italia.

Stefano Folli - A mio avviso, solo in piccola parte. Il contributo degli im-migrati al PIL diventa rilevante e crescente quando l’economia si espande.Quando, al contrario, ristagna o si contrae, tale contributo segue la curva del-la crisi. Voglio dire che oggi il PIL italiano ha bisogno, per riprendere a salire,di condizioni che vanno oltre la questione dell’immigrazione. Abbiamo biso-gno di riforme strutturali e radicali in grado di spezzare la gabbia in cui è

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imprigionata la parte produttiva del paese. Quindi in primo luogo interventisul fisco, migliore accesso al credito, un programma moderno di investimentipubblici, in particolare nel campo delle infrastrutture, un mercato del lavorovia via adeguato ai modelli europei (oggi il lavoro costa ancora troppo al dato-re, mentre il prestatore d’opera guadagna troppo poco).

È chiaro che se il ciclo dovesse ripartire e il PIL riaccostarsi ai ritmi di cre-scita di cui abbiamo quasi perduto la memoria, allora sì che il lavoro degli im-migrati sarà valorizzato e il loro contributo all’economia nazionale potrà esse-re registrato in termini ancora più positivi rispetto al passato. Ma, in questomomento, siamo nel pieno della tempesta. Con tutto ciò che questo significa.

Lucio Caracciolo - Il forte calo nei flussi migratori verso l’Italia, accompa-gnato dal rientro verso i paesi di origine, ha ed avrà un notevole impatto sulvolume complessivo della nostra economia. Non è possibile ovviamentequantificarlo ma, certamente, il danno in termini di prodotto interno lordo è esarà ancor più rilevante. Una quota di questa flessione, peraltro, non potrà es-sere resa in termini statistici in quanto pertinente al lavoro nero che, per defi-nizione, sfugge non solo al fisco ma anche alle statistiche ufficiali e ufficiose. Emolto spesso, ma non esclusivamente, il lavoro degli immigrati resta impiglia-to nelle reti informali del lavoro nero o, comunque, non emerso.

La Germania, con altri, ha dichiarato che l’allargamento europeo con l’entrata dellaCroazia dovrà fermarsi per lungo tempo, anche se ci sono diversi paesi candidati in at-tesa. Molti temono grandi flussi migratori a seguito dell’entrata nell’UE così come èaccaduto con la Romania. Ci si può chiedere, però, se non sia meglio avere migrazioni‘qualificate’ in ambito europeo, già orientate verso princìpi europei. La ‘fortezza’ Eu-ropa ha, ancora, un senso da questo punto di vista?

Lucio Caracciolo - È molto probabile che nei prossimi anni non assistere-mo a ulteriori allargamenti dell’Unione Europea, dopo l’ingresso della Croa-zia. Questo ci permetterà, almeno, di riflettere sul senso e sui risultati dei re-centi allargamenti, in particolare quelli che hanno spostato verso Sud e, so-prattutto, verso Est le frontiere comunitarie. Una delle ragioni dichiarate diqueste espansioni dello spazio Ue era, ad esempio, la stabilizzazione dellenuove democrazie sorte negli Stati già satelliti dell’Urss (e/o dell’Asse du-rante l’ultima guerra). La stabilizzazione non è solo politica, ma anche de-mografica. Più una democrazia è fiorente, stabile e promettente, tanto meno,in teoria, c’è ragione per cercare fortuna altrove. Questa visione non è statasempre confortata dai fatti. L’ideale sarebbe stabilire dei criteri e delle politi-che migratorie comuni ma, ad oggi, questa sembra una prospettiva irrealiz-zabile. Anche perché investe l’identità nazionale degli Stati membri che,spesso, poggia su memorie storiche confliggenti e su approcci assai diversial valore/pericolo proveniente dai flussi migratori esterni. In ogni caso, la

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‘fortezza Europa’, ammesso abbia mai funzionato, oggi è totalmente priva disenso. Se mai, sarebbe uno stimolo alle correnti migratorie clandestine.

Maria Immacolata Macioti - È certo che in Italia si sono avuti notevoliflussi migratori dalla Romania e che, oggi, le presenze dei romeni in Italia so-no agevolate dalla appartenenza della Romania all’UE, il che vuol dire facilita-zioni negli spostamenti oltre che sul piano lavorativo. Qualche difficoltà si ècertamente avuta, con riguardo a queste presenze: ma anche in questo caso sideve tenere conto dell’enfasi dei media su specifici casi di devianza, ben pre-sto assurti a emblema generalizzato di una supposta tendenza nazionale.

Quel che in realtà va tenuto, inoltre, presente è che si è trattato di flussiprovenienti da un paese che aveva vissuto in situazioni di grande povertà edifficoltà, che aveva dovuto fare enormi sacrifici, subire un regime dittatorialeduro. Da poco un volume curato da Radu Pavel Gheo e Dan Lungu, pubblica-to in Italia da Sandro Teti editore, dal titolo Compagne di viaggio. Racconti di don-ne ai tempi del comunismo, ha proposto racconti autobiografici di donne vissutenel periodo del comunismo. Le donne romene sono state forse più sfortunate,hanno vissuto forse peggio di altre donne provenienti da più lontani paesi,non facenti parti dell’Europa. O, forse, per certi versi hanno vissuto situazionianaloghe. Credo che il confronto e il dialogo siano essenziali. Che non esistaancora, ad oggi, una ferrea uniforme cultura europea: le diverse storie che ipaesi europei hanno vissuto, che hanno alle spalle, rendono difficile il raggiun-gimento di valori e mete condivise. Pure, si tratta, di un percorso che faticosa-mente, anche con ritorni indietro, anche con deviazioni, sembra procedere. Edè importante che proceda. Credo che possano esistere molti diversi apporti daparte di popolazioni europee e anche di altra provenienza per un mondo futu-ro in cui muri e frontiere non siano necessariamente realtà essenziali.

Stefano Folli - Occorre approfondire il tema delle migrazioni ‘qualificate’,anche perché spesso le migrazioni non lo sono affatto. In linea generale non sipuò non essere d’accordo, ma è indispensabile essere precisi e, soprattutto,realistici. L’Europa di oggi, alle prese con la situazione economica che abbia-mo descritto, non è in grado – ad avviso di molti osservatori – di aprirsi in mo-do indistinto all’esterno. La Romania, per fare un esempio, è all’origine di pro-blemi di pubblica sicurezza che non sono del tutto risolti. Ecco un caso in cuila politica delle ‘porte aperte’ non ha dato un bilancio del tutto positivo. Que-sto non vuol dire certo sostenere l’idea anacronistica della ‘fortezza Europa’.Ma è bene agire senza mai perdere di vista il buonsenso. Ci sono molte ragio-ni che militano a favore di un’Europa che si apre gradualmente, calibrando ipropri interessi economici e la propria capacità di integrare gli immigrati.Quello che è, in ogni caso, sconsigliabile è confondere l’area europea con unperimetro in cui sperimentare un miscuglio etnico privo di criteri razionali. Ilfuturo dell’Europa non è la chiusura, ma nemmeno la perdita di ogni valore edi ogni distinzione.

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In che modo i conflitti e i cambiamenti politici nei paesi cosiddetti terzi influiscono ve-ramente oggi sui flussi migratori, sono veramente alla base dei flussi? Come dovrem-mo gestirli in Italia, in Europa? C’è bisogno di adeguamenti delle normative? Servonodiverse politiche diplomatiche? Dobbiamo intervenire sulla base dell’emergenza o pia-nificare politiche a lungo termine? È possibile?

Stefano Folli - I conflitti nei paesi terzi sono, spesso, un fattore determi-nante, anche se non l’unico, dell’emigrazione verso le nostre sponde. Ne ab-biamo avuto, negli anni recenti, una serie di esempi dolorosi e drammatici.Anche per questo, pianificare a tavolino la gestione di questi flussi rischia diessere un esercizio irrealistico.

È chiaro, d’altra parte, che l’Italia ha da trarre molti vantaggi da una situa-zione di stabilità nel bacino del Mediterraneo, mentre si trova a pagare il prez-zo più alto quando si verificano le ondate di destabilizzazione. Si tratta di af-frontare le crisi caso per caso. Dopo la rivoluzione araba in Tunisia, ad esem-pio, il governo ha saputo gestire con accortezza il cambio di regime e i riflessiche ne erano derivati. Non fu facile, ma si ottenne successo. Nacque un model-lo di relazioni di accordi che è servito a fare da filtro rispetto alle altre crisi chehanno investito la fascia nord-africana. Inoltre, va detto che il mondo moder-no è interdipendente. Non può essere l’Italia da sola ad affrontare certi proble-mi. Siamo nell’Unione europea ed è indispensabile che i nostri partners condi-vidano fino in fondo le linee guida della politica estera nel Mediterraneo e al-trove. E quando si dice politica estera s’intende anche, come è ovvio, gestionedelle migrazioni.

Lucio Caracciolo - Il legame tra flussi migratori e sicurezza esiste. È inne-gabile. Ma farne l’esclusivo criterio di valutazione delle politiche migratorie èinsensato e controproducente. Una cosa è il contrasto ai traffici clandestini, al-tra la mentalità da ‘fortezza’ che, fra l’altro, ha conseguenze gravi sulla quali-tà della nostra vita associata e sulla nostra stessa democrazia.

Per esempio, qualche anno fa su alcuni media, si sosteneva come fosse in-teresse nazionale che il Quarto Mondo, in particolare la fascia più povera del-l’Africa centromeridionale, restasse tale, ossia depresso e immiserito, con uo-mini e donne costretti a sopravvivere in condizioni di totale indigenza. Moti-vo: in tal modo essi non avrebbero avuto i mezzi per intraprendere i lunghi ecostosi viaggi verso il Nord, e dunque verso e/o attraverso il nostro paese, cheinvece avrebbero potuto permettersi quando avessero raggiunto uno stadio dievoluzione economica meno disastroso, paragonabile a quello delle popola-zioni meno abbienti della fascia nordafricana.

A parte ogni considerazione morale, è del tutto evidente che una politicadi questo genere avrebbe creato, e creerebbe, un potenziale esplosivo sotto di-versi profili: socio-economico, geopolitico e sanitario. Una bomba molto piùpericolosa di qualsiasi flusso migratorio.

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Maria Immacolata Macioti - Certamente i conflitti e i cambiamenti politi-ci che avvengono in altre parti del mondo rispetto all’occidente influiscono suiflussi migratori. Al momento però è in atto un andamento per cui molti diquesti flussi sono interni al paese stesso, oppure, possono interessare realtàpiù vicine, magari confinanti piuttosto che non paesi più lontani, di difficileaccesso, che non offrono al momento grandi prospettive lavorative. Si dà il ca-so che nazioni in difficoltà accolgano persone costrette a lasciare il propriopaese in numero maggiore di quanto non avvenga necessariamente con paesieuropei.

Nel sud est asiatico, ad esempio, tra le regioni di partenza più interessateabbiamo Filippine ed Indonesia. I dati riportati nell’Atlante mondiale dellemigrazioni, di Catherine Withol de Wenden, pubblicato in Italia da Vallardinel 2012 ci dicono che un filippino su 11 è un migrante internazionale; un ter-zo vive negli USA, un terzo in Europa (buona parte, in Italia). Per il sud estasiatico le aree di accoglienza sono soprattutto Giappone e Corea, Taiwan,Singapore e Malaysia (dove si trovano 2 milioni di migranti legali e 1 milionedi clandestini, tra cui 800mila indonesiani). Più in generale, l’Asia appare esse-re la più importante zona di partenza e anche di accoglienza di rifugiati: ades., tra i 5 e i 6 milioni di afghani vivono in Iran e in Pakistan, che sono i duepaesi che accolgono più rifugiati al mondo. Anche l’India esporta uomini edonne: circa 20 milioni, si calcola, gli indiani all’estero. Si tratta sia di personecon alte qualificazioni che di individui invece poco qualificati. Sono oggi pre-senti negli Usa e in Europa, in Africa e in Medio Oriente dove si calcola vi sia-no 3,5 milioni di persone, ma anche nel sud-est asiatico e in Oceania.

Nel vicino e nel medio Oriente esiste oggi una forte mobilità legata ai con-flitti, si hanno intense migrazioni: molti rimangono nella stessa area, pur spo-standosi da un paese all’altro. L’Iraq in particolare vive il più grande sposta-mento di persone del vicino e medio Oriente; secondo dati UNHCR nel 2007in particolare 2 milioni di iracheni avrebbero lasciato il paese, dirigendosi ver-so la Siria (1 milione), la Giordania (750.000), il Libano, l’Egitto.

Le migrazioni verso l’Europa si sono avute soprattutto agli inizi del XXIsecolo. Anche nell’Africa sub sahariana la mobilità intraregionale appare digran lunga superiore (di ben sette volte) rispetto a quella verso più lontanemete. Inoltre, sottolinea la de Wenden, il continente è diventato un luogo pri-vilegiato di investimenti per capitali cinesi (56 miliardi di dollari nel 2007) eindiani (30 miliardi di dollari). Vengono sfruttate materie prime e pesca, si in-veste nell’edilizia, si aprono contratti nel campo delle tecnologie dell’informa-zione, della sanità, della farmacia: che interessano soprattutto gli indiani. Perquanto attiene al mondo arabo e al maghreb, è noto che le migrazioni preva-lenti sono quelle da sud a sud, che gli stessi paesi di partenza divengono pae-si di accoglienza.

Insomma, credo che l’Europa faccia bene a procedere verso una conver-genza di politiche con riguardo a immigrati e rifugiati, ma nella consapevolez-za che non è necessariamente al centro, oggi, dei flussi migratori. Vanno

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previste comuni politiche in merito, si dovrebbe procedere verso un riconosci-mento dei diritti alla mobilità, verso una maggiore democraticizzazione delpassaggio delle frontiere: aiutati dalla consapevolezza che l’Europa non è ne-cessariamente la meta privilegiata dei flussi migratori.

I flussi migratori sono sempre stati legati alle questioni di sicurezza. È così anche og-gi? Lo sarà in futuro? Quali le misure per affrontare il problema?

Maria Immacolata Macioti - Credo e ho sempre creduto che sia stato unerrore l’abbinamento del tema immigrati a quello dell’ordine pubblico, dellasicurezza. Che in Italia è stato però dominante, di modo che purtroppo hastentato ad affermarsi una visione più positiva degli immigrati e del contribu-to che stavano portando e che hanno dato all’Italia. Solo recentemente, e nono-stante la politica di sostanziale chiusura, il mercato italiano, le banche hannoaiutato a far crescere una diversa visione: quella degli immigrati lavoratori eimprenditori capaci, quindi, non solo di inviare rimesse a casa (rimesse chequindi potevano essere viste come un risparmio circa futuri aiuti a paesi in viadi sviluppo) ma, altresì, capaci di risparmio. Quindi, in grado di aprire conticorrenti, di utilizzare servizi bancari, di consumare.

Certamente i media non sempre propongono una corretta visione in meri-to. Ancora oggi circolano in Italia idee e cifre non sempre corrette, che metto-no in relazione immigrati e devianza. Eppure seri studi ci hanno mostrato chele cose non stanno in questi termini, che spesso le incriminazioni degli immi-grati avvengono per questioni di soggiorno, di visti scaduti, non rinnovati intempo utile piuttosto che non, come pensano in molti, per ‘efferati’ delitti. Laprecarietà della situazione dei rifugiati concorre anch’essa a far sì che sia rela-tivamente facile scivolare o ricadere nella condizione di irregolare. La primamisura da adottare dovrebbe essere, credo, quella di una corretta informazio-ne in merito. Il sovraffollamento delle carceri in Italia si basa anche sulla con-dizione non paritaria tra detenuti italiani e stranieri. Questi, infatti, non usu-fruiscono, in genere, della detenzione domiciliare, non avendo famiglie allespalle che possano sostenerli. Non evitano quindi la carcerazione, con tutte lerelative esperienze negative. Essi hanno maggiori difficoltà nella propria dife-sa, a partire da problemi linguistici: hanno, cioè, percorsi differenziati rispettoagli italiani (Dossier Caritas Migrantes, Agenzia Redattore Sociale, La crimina-lità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi, Roma 2009).

Inoltre, gli immigrati sono spesso trasferiti da un carcere all’altro: gli in-gressi vengono ogni volta registrati, il che vuol dire che lo stesso soggetto, lastessa persona può, quindi, essere contato più volte. Il totale degli ingressi ri-sulta con un numero più alto di quello delle reali presenze in carcere. Quindi,ci dice chi studia queste questioni, si può ipotizzare che gli stranieri perman-gano nel circuito penitenziario per periodi più brevi rispetto ai detenuti italia-ni. I tratti somatici diversi da quelli italiani attirano l’attenzione, i fermi: si trat-

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ta, scrive il giurista Dario Melossi, di un noto processo di ‘etichettamento’ cheporta a una differenza di dieci volte dei fermi per identificazione tra stranierie italiani, ovviamente a danno degli stranieri (D. Melossi, Il giurista, il sociologoe la criminalizzazione dei migranti: cosa significa etichettamento, in D. Melossi, acura di, “Subordinazione informale e criminalizzazione dei migranti, ‘Studisulla questione criminale’”, 3, 3, Roma 2008, pp. 9-23). Da tutto ciò consegue ilsovraffollamento degli istituti di detenzione, in strutture sempre meno suffi-cienti: tutto ciò contraddice sostanzialmente il programma di Stoccolma (UE2009) che intende siano garantiti nei territori dell’Unione diritti e doveri deglistranieri, in comparazione con quelli degli italiani, con misure da prendere en-tro il 2014 (Claudio Marra, La presenza degli stranieri negli istituti di pena italiani,in ‘La Critica Sociologica’, 184, inverno 2012).

Essenziale, quindi, appare una corretta informazione. Utile sarebbe un ri-pensamento in termini giuridici in merito.

Stefano Folli - L’impressione è che flussi migratori e temi della sicurezzasiano e saranno sempre, almeno nel futuro prevedibile, questioni strettamen-te collegate. Il che esige un rafforzamento della cooperazione intergovernati-va. Dicevo nella risposta precedente che la coesistenza nell’Unione europeaimpone dei doveri, ma postula anche dei diritti. Fra questi ultimi credo che cisia proprio il diritto alla sicurezza. Per cui una visione strategica suggeriscedi rinsaldare la cooperazione fra le Forze di polizia a tutti i livelli, miglioraregli accordi internazionali in essere, cooperare nella politica dei rimpatri (assi-stiti o no) e in tutto quel che serve a garantire il rispetto della legalità. La po-litica deve essere lungimirante, l’amministrazione pubblica deve, invece, es-sere inflessibile nel far rispettare le leggi.

Il migrante, oggi, è la persona integrata, il letterato o politico, così come lo sbandatoclandestino o il bracciante agricolo. Com’è il migrante oggi? Quali le caratteristiche?Quali le motivazioni? Quali i problemi? Quali le difficoltà? Perché l’immaginario col-lettivo continua a perpetuare stereotipi negativi?

Maria Immacolata Macioti - Credo che le responsabilità di una situazionein cui si tende a fare dell’immigrato il capro espiatorio siano molteplici. Inbuona parte questo può dipendere dal fatto che è più comodo additare unestraneo come responsabile di atti di devianza piuttosto che persone italiane,il che metterebbe in forse la solidarietà collettiva, incrinerebbe l’autostima dialcuni, metterebbe a rischio l’immagine degli ‘italiani brava gente’.

I media, poi, hanno fatto il resto, perché ormai da decenni si è affrontata latematica degli immigrati e rifugiati con una certa approssimazione. Prima an-cora di mettere piede in Italia l’immigrato è già definito come un clandestino,parola che rinvia al concetto di pericolosità, tanto che si è venuto affermandoun abbinamento tra i due termini: clandestino = deviante. Questo, nonostante

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in realtà sia evidente che molti immigrati regolarmente presenti nel paese,bravi lavoratori, hanno avuto alle spalle un passato da irregolari. E che variepersone dopo un periodo di lavoro regolare hanno difficoltà, oggi, a rinnova-re il permesso a causa della contrazione del mondo del lavoro. Si è diffuso nel-la carta stampata e nei programmi televisivi, nei media in generale, un uso di-sinvolto di concetti e parole improprie.

Così, ad esempio, si parla di immigrati da ‘alfabetizzare’, laddove in gene-re essi arrivano sapendo già più lingue, anche se non sempre l’italiano. Ma so-no diffuse lingue europee come spagnolo, francese e inglese. Ma nell’immagi-nario collettivo gli immigrati si confermano come persone senza cultura. In unsuo agile libretto uscito presso Derive approdi nel 2008, Lessico del razzismo de-mocratico. Le parole che escludono, Giuseppe Faso ha sottolineato il fatto che bi-sogna dubitare di un certo tipo di parole, semplificatrici rispetto a complesseproblematiche. In un certo periodo storico dire ‘albanese’ equivaleva a unasorta di stigmatizzazione, all’evocazione di paure da parte degli italiani. Poi èstato il turno dei romeni e dei rom, spesso confusi tra loro.

Vi sono parole, come ‘talebano’, di cui si ignora in realtà il significato mache vengono utilizzate in senso negativo, applicate a persone di carnagionescura con un generico significato di allarme sociale. In questo caso, nessuno ingenere sa che i talibe sono allievi che apprendono da un qualche maestro sufile vie della autorealizzazione e della saggezza. La parola suscita comunquebiasimo, timore, rigetto. Così come l’aggettivo qualificativo ‘disperati’ usato aproposito e a sproposito: Faso nota che la disperazione rende competenti insperanza. Un’ampia letteratura si è sviluppata intorno all’uso di una parolacome ‘etnico’. E gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Non è tutto qua. Va ricordato come più volte, di fronte a un atto delittuo-so, si sia subito indicato un colpevole straniero: salvo a dovere poi ammettereche si era trattato di un errore, che si trattava invece magari di un parente ita-liano. Quando davvero è un immigrato a compiere un’aggressione contro unadonna (le donne sono più vulnerabili degli uomini) il delitto subito diviene‘efferato’. E così via.

Studi attenti da parte di Lunaria, oltre che dell’Unar hanno sottolineato ilmodo tendenzioso con il quale i media si accostano a questo fenomeno. Tuttociò, nonostante in teoria esista un patto siglato tra l’UNHCR, la Federazionenazionale della stampa italiana e varie altre realtà per una più corretta infor-mazione, patto noto come ‘Carta di Roma’.

Stefano Folli - Non c’è mai una medicina sicura contro gli stereotipi nega-tivi. Si curano sempre nel lungo termine, man mano che cambia la cultura dif-fusa e quello che chiamiamo l’immaginario collettivo. Gli stereotipi nell’Euro-pa degli anni Trenta erano spesso terribili e hanno contribuito, come purtrop-po sappiamo, al disastro del totalitarismo. Oggi ne abbiamo altri, ma per for-tuna disponiamo anche degli anticorpi nel nostro bagaglio di cittadini europeivaccinati (forse) rispetto ai mali del passato.

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In linea generale si può dire che gli stereotipi si vanno modificando, anzi sisono già modificati rispetto a dieci o vent’anni fa. Sarà così anche in futuro, ameno che i morsi della crisi economica non siano così forti da imporre l’iden-tificazione di un ‘nemico’ o un capro espiatorio verso cui scagliarsi. È già acca-duto purtroppo tante volte nella storia e dobbiamo sforzarci di impedire cheaccada ancora. Oggi, nella società aperta, è possibile riuscirci. Bisogna essereottimisti e operare con i mezzi della cultura e della solidarietà per abbattere lebarriere.

L’Italia nel 2050: chi sarà l’Italiano? Quale scenario si delinea per il futuro dell’Italiae dell’Europa dal punto di vista demografico?

Stefano Folli - Sarà un cittadino molto meno provinciale di oggi. Sarà inte-grato in un’Europa che ci auguriamo uscita dalle strettoie di oggi. Un’Europain cui sarà possibile viaggiare e lavorare liberamente e con ottime opportunitàindividuali. Sarà anche un italiano diverso rispetto a oggi. I gruppi etnici si sa-ranno mescolati e le nuove generazioni avranno assimilato fino in fondo i di-ritti e i doveri della cittadinanza. Vogliamo sperare, però, che sia un italianocapace di sentire come proprie le tradizioni del paese, di apprezzarne la cultu-ra e la lingua. E, soprattutto, che sia in grado di sentirsi orgoglioso della pro-pria originale identità nel mondo che cambia.

Maria Immacolata Macioti - Tutti gli studi previsionali parlano di evi-denti mutamenti nella composizione dell’Europa e, quindi, anche dell’Italia,al 2050. Già, oggi, l’Europa è diversa da questo punto di vista da quella di cin-quant’anni addietro. Sarà, per cominciare, un paese non più esclusivamentecristiano: già oggi questa tendenza è in atto, date le rilevanti presenze islami-che. Ma, prevedibilmente, si rafforzeranno anche fedi e religioni, a partire dalbuddhismo e da vari tipi di hinduismi. Saranno, probabilmente, più presentireligioni oggi assolutamente minoritarie. Tutto questo prevedibilmente porte-rà da un lato a scontri e intolleranze reciproche, dall’altro a volontà di cono-scenze reciproche e dialogo. L’Europa dovrà prendere atto di una sua minorecentralità sullo scacchiere internazionale, rispetto ad altre parti del mondo og-gi nettamente in crescita.

Probabilmente la mobilità sarà più ampia e percepita come usuale da par-te almeno dei ceti medi e medio alti rispetto alla stanzialità che ha, invece, ca-ratterizzato soprattutto tempi passati. Forse sulle misure restrittive circa le mi-grazioni prevarranno le tendenze alla valorizzazione del ruolo dei migrantianche con riguardo all’economia. Da questo punto di vista, forse, la coopera-zione assumerà aspetti diversi, non tanto di tipo assistenziale quanto di pro-mozione effettiva di investimenti produttivi, di agevolazione per le imprese.Si coglieranno meglio gli effetti benefici della mobilità, delle migrazioni: anche se si può con ragione supporre che resteranno sacche di pregiudizi e

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chiusure, fenomeni legati soprattutto a persone in situazione economica e so-ciale disagiata.

Si giungerà, probabilmente, a un governo mondiale delle migrazioni, chenon implichi principalmente difesa e chiusura ma che sappia aiutare le poten-zialità insite in questi mutamenti.

L’Europa sarà più multivariata e multicolorata, l’Italia probabilmente me-no provinciale: forse in media la gente parlerà più facilmente almeno un’altralingua straniera se non due, cosa che oggi accade soprattutto nelle classi me-dio alte.

Lucio Caracciolo - Nella speranza che l’Italia nel 2050 esista ancora, il mi-glior scenario induce a dipingerla come un paese aperto ai flussi migratori, macapace di intercettarne anche e soprattutto le fasce alte: i cervelli e le compe-tenze che hanno fatto grandi e forti le democrazie occidentali, a cominciaredagli Stati Uniti d’America.

Un’Italia così strutturata avrebbe al suo interno una forte porzione di citta-dini figli o nipoti di immigrati, ma che ormai si sentirebbero nostri compatrio-ti e sarebbero trattati come tali. Essi avrebbero accesso alle professioni miglio-ri, non solo ai lavori di sopravvivenza o poco più. E potrebbero diventare pro-tagonisti della nostra vita politica, culturale e sociale. In tale caso nel 2050 po-tremmo forse festeggiare un nero al Quirinale.

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