Fisica LB

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1.1– Introduzione (storica) 600 a.C. – Sono già noti alcuni fenomeni di attrazione ottenuti strofinando l’ambra, dal cui nome greco (élektron) ebbe in seguito origine la parola elettricità. XII sec. – Viene largamente utilizzata la bussola magnetica. 1600 De magnete, di William Gilbert, in attesa di una formalizzazione più rigorosa delle osservazioni sperimentali, ostacolata tra l’altro dalla difficoltà ad accettare l’esistenza di interazioni a distanza. Seconda metà del XIX secolo – Sintesi di Maxwell, unificazioni di fenomeni elettrici e di fenomeni magnetici in un’unica grande branca della fisica. La forza elettrica è una delle quattro interazioni fondamentali della Fisica (assieme alla forza gravitazionale, nucleare forte e nucleare debole). 1.2- Forze elettrostatiche Si manifestano, per esempio, quando due materiali diversi vengono strofinati l’uno contro l’altro (triboelettricità). Gli effetti dipendono, ovviamente, dalla scelta dei materiali; un buon strumento per individuare questi effetti è il pendolo di torsione, sensibile e semplicissimo nella sostanza: facendo una prova con due bacchette (una legata a un filo, l’altra da muovere nelle vicinanze alla prima) si scopre – ad esempio - che le bacchette si attraggono se una delle due è di plastica e l’altra di vetro, mentre che si respingono se sono dello stesso materiale. L’esistenza di forze sia attrattive che repulsive viene spiegata dicendo che si libera una carica convenzionalmente posta positiva sul vetro e una negativa sulla plastica. Il fenomeno può essere generalizzato affermando che cariche dello stesso segno si respingono, cariche di senso contrario si attraggono. Un altro metodo per caricare un corpo (oltre allo strofinio) è quello del contatto fra due conduttori (ad es. metallici): mettendoli a contatto, la carica si trasferirà da una parte all’altra con una certa proporzione. In particolare, se si tratta di due corpi uguali di cui uno solo inizialmente carico, una volta messi a contatto la carica si suddividerà fra entrambi allo stesso modo. 1.3 – Induzione elettrostatica Il comportamento dei materiali, in relazione alla mobilità delle loro cariche elettriche, permette di ricondurli a due importanti categorie: conduttori e isolanti. I primi (ad es. metalli, corpo umano, Terra), se caricati, non consentono che la carica resti localizzata in una particolare regione: essa è anzi libera di migrare da una zona all’altra del corpo. Gli isolanti manifestano la proprietà opposta. Nei metalli si evidenzia l’importante fenomeno dellinduzione elettrostatica: avvicinando - ad esempio - una bacchetta carica ad una sferetta metallica neutra, avverrà che nelle zone della sfera prossime alla bacchetta andranno ad accumularsi le cariche di segno opposto a quelle di quest’ultima. 1.4 – La carica elettrica L’origine delle forze elettriche è la carica elettrica, grandezza fisica misurata in Coulomb [C]. Questa unità di misura deriva dall’intensità di corrente elettrica, più facilmente misurabile e misurata in Ampére [A] (1 C = 1 A s). Una definizione operativa della grandezza “carica elettrica” può essere ricondotta alla misura di forze. Per decidere che due cariche q a e q b , che supporremo puntiformi per determinare in maniera univoca la distanza fra loro, sono uguali, basterà disporre di una terza carica puntiforme q c e verificare che sono uguali le forze che q a e q b esercitano su q c . Se invece le cariche sono diverse, il rapporto dei loro moduli sarà uguale a quello fra le intensità delle forze esercitate su q c .

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1.1– Introduzione (storica) 600 a.C. – Sono già noti alcuni fenomeni di attrazione ottenuti strofinando l’ambra, dal cui nome greco (élektron) ebbe in seguito origine la parola elettricità. XII sec. – Viene largamente utilizzata la bussola magnetica. 1600 – De magnete, di William Gilbert, in attesa di una formalizzazione più rigorosa delle osservazioni sperimentali, ostacolata tra l’altro dalla difficoltà ad accettare l’esistenza di interazioni a distanza. Seconda metà del XIX secolo – Sintesi di Maxwell, unificazioni di fenomeni elettrici e di fenomeni magnetici in un’unica grande branca della fisica. La forza elettrica è una delle quattro interazioni fondamentali della Fisica (assieme alla forza gravitazionale, nucleare forte e nucleare debole). 1.2- Forze elettrostatiche Si manifestano, per esempio, quando due materiali diversi vengono strofinati l’uno contro l’altro (triboelettricità). Gli effetti dipendono, ovviamente, dalla scelta dei materiali; un buon strumento per individuare questi effetti è il pendolo di torsione, sensibile e semplicissimo nella sostanza: facendo una prova con due bacchette (una legata a un filo, l’altra da muovere nelle vicinanze alla prima) si scopre – ad esempio - che le bacchette si attraggono se una delle due è di plastica e l’altra di vetro, mentre che si respingono se sono dello stesso materiale. L’esistenza di forze sia attrattive che repulsive viene spiegata dicendo che si libera una carica convenzionalmente posta positiva sul vetro e una negativa sulla plastica. Il fenomeno può essere generalizzato affermando che cariche dello stesso segno si respingono, cariche di senso contrario si attraggono. Un altro metodo per caricare un corpo (oltre allo strofinio) è quello del contatto fra due conduttori (ad es. metallici): mettendoli a contatto, la carica si trasferirà da una parte all’altra con una certa proporzione. In particolare, se si tratta di due corpi uguali di cui uno solo inizialmente carico, una volta messi a contatto la carica si suddividerà fra entrambi allo stesso modo. 1.3 – Induzione elettrostatica Il comportamento dei materiali, in relazione alla mobilità delle loro cariche elettriche, permette di ricondurli a due importanti categorie: conduttori e isolanti. I primi (ad es. metalli, corpo umano, Terra), se caricati, non consentono che la carica resti localizzata in una particolare regione: essa è anzi libera di migrare da una zona all’altra del corpo. Gli isolanti manifestano la proprietà opposta. Nei metalli si evidenzia l’importante fenomeno dell’induzione elettrostatica: avvicinando - ad esempio - una bacchetta carica ad una sferetta metallica neutra, avverrà che nelle zone della sfera prossime alla bacchetta andranno ad accumularsi le cariche di segno opposto a quelle di quest’ultima. 1.4 – La carica elettrica L’origine delle forze elettriche è la carica elettrica, grandezza fisica misurata in Coulomb [C]. Questa unità di misura deriva dall’intensità di corrente elettrica, più facilmente misurabile e misurata in Ampére [A] (1 C = 1 A ⋅ s). Una definizione operativa della grandezza “carica elettrica” può essere ricondotta alla misura di forze. Per decidere che due cariche qa e qb, che supporremo puntiformi per determinare in maniera univoca la distanza fra loro, sono uguali, basterà disporre di una terza carica puntiforme qc e verificare che sono uguali le forze che qa e qb esercitano su qc. Se invece le cariche sono diverse, il rapporto dei loro moduli sarà uguale a quello fra le intensità delle forze esercitate su qc.

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Anche se in questo contesto si considererà la carica elettrica come continua, si deve precisare che essa è sempre un multiplo intero di un quanto elementare, la carica (-e) portata da un elettrone con segno negativo e da un protone con segno positivo (+e = 1,6 ⋅10-19). La carica elettrica tende a conservarsi, qualunque sia il processo in cui essa è coinvolta: la carica elettrica totale è costante in ogni sistema isolato (che non scambia dunque materia con l’ambiente circostante). La carica elettrica gode pure della fondamentale proprietà di essere invariante: non dipende, ovvero, dal sistema di riferimento. 1.5 – La legge di Coulomb La legge che descrive la forza con cui interagiscono due cariche puntiformi fu studiata da Coulomb con un dispositivo (bilancia di torsione, in estrema sintesi un’asticella appesa a un filo) simile a quello utilizzato da Cavendish per la misura della costante G di gravitazione. Egli verificò che l’intensità della forza elettrica è proporzionale al prodotto delle due cariche e inversamente proporzionale al quadrato della distanza fra di esse.

1 22

q qF

r∝ Legge di Coulomb: 1 2

20

1

4

q qF

rπε=

La costante 0ε si dice costante dielettrica del vuoto 212 C8,85 10 N m

− = ⋅ ⋅ . Se fra le

due cariche, al posto del vuoto, è presente un fluido omogeneo, bisognerà far comparire nella formula la costante dielettrica relativa del fluido stesso.

1 22

0

1

4 r

q qF

rπ εε=

La forza espressa secondo la legge di Coulomb si esercita lungo la congiungente e due cariche e rispetta il principio di azione e reazione. Risulta utile, infine, sottolineare come la forza elettrostatica sia molto più intensa (2,23 ⋅1039 volte di più) di quella gravitazionale. 1.6 – Campo elettrostatico nel vuoto Consideriamo che in un certo punto (nel vuoto) si trovi una carica puntiforme fissa Q; possiamo pensare che la presenza della carica Q alteri le proprietà dello spazio circostante, rispetto alla situazione in cui essa è assente. Un modo per verificare ciò consiste nel prendere una carica puntiforme q (carica esploratrice), constatando la presenza su di essa di una forza F. Appare dunque naturale esprimere questa forza F come prodotto fra q e un vettore E che caratterizzi le proprietà del campo elettrostatico generato da Q.

F = qE Sfruttando le proprietà della legge di Coulomb si ottiene che il campo elettrostatico generato da una carica fissa e puntiforme Q è dato da

20

1

4

QE

rπε=

Questo campo, detto coulombiano, ha la come direzione la congiungente fra le cariche puntiformi Q e q, verso da q verso Q (se Q è negativa), da Q a q (se Q è positiva). L’unità di misura del campo elettrico è [N/C] o [V/m]. Tuttavia, la situazione sopradescritta (due sole cariche nel vuoto), non si verifica mai: quasi sempre bisogna - altresì - fare i conti con un insieme di cariche fisse qi, che supponiamo puntiformi, ciascuna delle quali posta nel punto Pi. Se prendiamo allora una carica esploratrice q sarà necessario, in base al principio di sovrapposizione,

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sommare tutti gli apporti al campo elettrico e alla forza elettrostatica di ognuna di queste cariche fisse.

301

( )

4

ni i

i i

qq r rF

r rπε=

−=−

F = qE 3

01

( )

4

ni i

i i

q r rE

r rπε=

−=−

(r-ri) è il vettore che individua le posizioni delle due cariche.

Come si nota, il vettore E (di cui sopra) dipende solo dalle cariche sorgenti qi e dalla loro distribuzione spaziale rispetto a P, e rappresenta quindi il campo elettrostatico generato dalla distribuzione di cariche. Esso è dato dalla somma dei campi Ei che le singole cariche determinerebbero da sole in P.

1,i

i n

E E=

= ∑

La definizione operativa generale del campo elettrico prodotto da una distribuzione di cariche richiede tuttavia una certa attenzione, in quanto va considerato l’effetto che l’introduzione della carica esploratrice può avere sulla distribuzione delle sorgenti, che fin’ora abbiamo considerato ferme. In tali casi, il vettore campo elettrico E non risulta in generale indipendente da q in quanto, al variare di tale carica, cambia anche la distribuzione di equilibrio raggiunta dalle altre cariche. Per tale motivo, allo scopo di limitare questi effetti, occorre operare con corpi di prova aventi cariche sufficientemente piccole. Il campo elettrico viene quindi definito come

0limq

FE

q→=

Da non intendere in senso strettamente matematico, visto che la carica è quantizzata e non può scendere sotto il livello di quanto elementare.

Infine, non si ha sempre a che fare con cariche puntiformi: se si fa uso di un modello in cui la carica viene descritta attraverso una distribuzione continua, il campo elettrostatico prodotto da una carica infinitesima può essere espresso nel seguente modo. Indichiamo, per un una carica dq distribuita in un volume infinitesimo dV (oppure in un’area infinitesima dS, o in un segmento infinitesimo dl) e quindi integriamo lungo tutta la distribuzione di carica. Si definiscono a tal proposito la

- densità di carica lineare λ : dq = λ dl - densità di carica superficiale σ : dq = σ dS - densità di carica volumica ρ : dq = ρ dV

Quindi, integrando, si ottiene:

30

( ')

4 '

dq r rE

r rπε−=−∫ .

A questo punto risulta conveniente scomporre questo calcolo lungo gli assi cartesiani (r’ varia per ogni elemento di carica dq). Ad esempio, per l’asse x,

30

1 ( ') ( ') '

4 'x

x x r dVE

r r

ρπε

−=−∫

L’esempio è qui fatto entro un volume.

La definizione operativa di campo elettrico può essere generalizzata ai casi in cui le sorgenti siano in moto rispetto all’osservatore (inerziale!); in tal caso, in ciascun punto dello spazio il campo elettrico dipenderà anche dal tempo.

Page 4: Fisica LB

1.6.1 – Esempi notevoli: 1.6.1.1 - Filo carico infinito: scegliamo un sistema di riferimento con l’origine sul filo, l’asse z lungo il filo e l’asse x passante per il punto P nel quale si vuole calcare il campo. Dividiamo il filo in tante parti infinitesime dz, ognuna delle quali contiene una carica dq, che contribuisce al campo

elettrico in P con un termine coulombiano pari a 2

0

1

4

dqdE

rπε= , diretto

lungo la congiungente tra il punto P e la porzione di carica dz. Data la simmetria assiale fra la parte di filo che sta “sopra” e quella che sta “sotto” l’asse z, notiamo che i contributi lungo l’asse z delle varie porzioni dz si annullano a due a due, mentre rimane inalterata soltanto la componente rivolta lungo l’asse x. Calcolando l’integrale

20

1( ) cos

4

dzE x

r

λ ϑπε

+∞

−∞

= ∫

Nella formula, r è la distanza del punto P dal filo, il termine coseno serve a ricavare la componente lungo l’asse x (dato che quelle lungo l’asse z non contano, annullandosi).

otteniamo

0( )

2E x

x

λπε

=

Che dipende soltanto dalla distanza del filo. Il risultato approssima bene il caso reale tanto meglio quanto più vicino al filo.

- 1.6.1.2 - Anello carico: vogliamo trovare il campo E nei punti P dell’asse di questo anello. Il ragionamento è analogo a quello appena fatto per il filo, ma questa volta la simmetria del sistema rende agevole la scelta di un sistema di riferimento con asse x coincidente con l’asse dell’anello. Ogni contributo, portato dalle porzioni dz dell’anello, subisce l’annullamento della sua componente z da parte della porzione dz che si trova dalla parte opposta per simmetria. Proiettando direttamente ogni contributo sull’asse x ricaviamo l’integrale

304 '

xdq x

Er rπε

=−∫

Che, risolto, dà

2 2 3/ 204 ( )

xq x

Ex Rπε

=+

- 1.6.1.3 - Disco carico: vogliamo trovare il campo E nei punti P dell’asse

di questo disco (densità superficiale di carica: 2

q

π= ; raggio: R). Si

possono fare le stesse considerazioni dei due casi precedenti, considerando il disco come un insieme di anelli di raggio r e spessore infinitesimo dr. Su ciascun anello è distribuita la carica

2dq dS rdrσ πσ= = e dunque l’integrale di prima diventa:

( )3/ 22 20 02

R

xx r

E drx r

σε

=+

∫ .

Page 5: Fisica LB

Il cui risultato finale è:

0(1 cos )

2xEσ ϑε

= − .

1.7 – La legge di Gauss 1.7.1 – Flusso Definiamo innanzitutto cos’è un flusso. Storicamente è una grandezza introdotta nella dinamica dei fluidi, ma possiamo tuttavia estenderla anche al campo dell’elettrostatica e ad un generico campo vettoriale. Prendiamo dunque un condotto percorso da un fluido in moto le cui particelle si muovono con velocità v

attraverso una sezione piana S (n è il versore a lei ortogonale). In un

intervallo di tempo t∆ , attraverso tale sezione S, passa una massa di fluido m∆ , la quale può essere ottenuta moltiplicando la densità ρ del fluido per il

volume occupato dalle particelle che attraversano S. Ecco l’espressione:

m v t Snρ∆ = ∆ ⋅ (o anche cosm v tSρ ϑ∆ = ∆ )

Da qui l’estensione al generico campo vettoriale:

d A dSΦ = ⋅

A è il generico campo vettoriale.

1.7.2 – Angolo solido Trattasi di una grandezza adimensionale, estensione al caso tridimensionale della definizione di angolo piano. Prendiamo due semirette uscenti dal punto O, formanti fra loro un angolo infinitesimo dϑ : manteniamo ferma una delle due, mentre l’altra ruota attorno a questa descrivendo un angolo pari a 2π . Il cono di semiapertura che si viene a formare dϑ è detto angolo solido, una cui parte infinitesimale si esprime come

2sferadS

dR

Ω =

Integrando l’espressione su tutto lo spazio 2

2 2

1 44tot sfera

tot

RdS

R R

π πΩ = = =∫

si ottiene l’angolo solido totale 4π . Utilizziamo ora questi risultati riferendoci al campo elettrostatico. Considerata una superficie infinitesima dS e indicato con n

un versore normale a dS (per convenzione

orientato verso l’esterno della superficie totale, che prendiamo chiusa), si definisce

flusso elementare dΦ del campo E attraverso dS

d E ndSΦ = ⋅

Integrando:

( )E E ndSΦ = ⋅∫

Consideriamo ora il flusso di campo elettrostatico generato da una carica puntiforme. Indicata con S una superficie finita, scegliamo come origine del sistema di riferimento il punto O occupato dalla carica q; tracciamo poi un cono avente vertice in O e angolo solido infinitesimo dΩ . Esso intercetta S con una superficie infinitesima dS. Il flusso infinitesimo (prendiamo in considerazione la superficie infinitesima dSsfera perpendicolare all’asse del cono) dΦ sarà pari a

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2 20 0 0

1cos

4 4 4sferadSq q q

d dS dr r

απε πε πε

Φ = ⋅ = = Ω

Integrando su tutta la (qualunque) superficie chiusa, si ottiene che il flusso del campo elettrico è uguale a

0 0 0( ) 4

4 4SCq q q

E d ππε πε ε

Φ = Ω = =∫

int0

1( )

iSC iE q

εΦ = ∑

Si è considerato il caso in qui vi è più di una carica all’interno della superficie chiusa.

Questa grandezza ha importanti proprietà: - se la carica q è esterna alla superficie considerata, il flusso del campo di una

carica esterna alla superficie è pari a 0, dato che i contributi del flusso - dati dalle parti di superficie intercettate dal cono con il vertice sulla carica - si annullano vicendevolmente;

- se la distribuzione di carica interna alla superficie è schematizzabile come continua, la legge di Gauss può essere espressa come:

0 int

1( )SC E dq

εΦ = ∫

L’integrale è esteso a tutta la carica interna alla superficie: dunque, la conoscenza di tale carica interna è sufficiente per calcolare il flusso, ma non

consente tuttavia di calcolare il campo E, che dipende anche dalle cariche

esterne alla superficie.

1.7.3 – Linee di forza del campo Si può visivamente rappresentare il campo elettrostatico attraverso le linee di forza, disegnate secondo i seguenti criteri: in ogni punto la tangente alla linea abbia la direzione del campo (entranti per il campo negativo, uscenti per quello positivo); il verso della linea sia lo stesso del campo; il numero delle linee tracciate sia proporzionale al flusso; le linee comincino e terminino sulle cariche stesse. Tracciando le linee di forza si riescono visivamente a distinguere le zone in cui il campo è più intenso da quelle in cui è meno intenso: infatti il flusso totale è proporzionale al numero delle linee uscenti, cui va sottratto quello delle linee entranti. 1.7.4 – Applicazioni della legge di Gauss La legge di Gauss permette di ottenere il campo elettrostatico ogniqualvolta il sistema si presenti con caratteristiche di simmetria tali da rendere agevole il calcolo del flusso, attraverso opportune superfici e la sua correlazione col campo. Si sfruttino quindi le proprietà di simmetria per scegliere la migliore superficie gaussiana possibile: di solito si considera l’unione di superfici su

ciascuna delle quali E sia uniforme in modulo e abbia orientazione fissa rispetto

alla normale.

1.7.4.1 – Lamina piana estesa Su di essa è presente una densità superficiale di carica (positiva,

uniforme) pari a dq

dSσ = . Il campo è diretto perpendicolarmente alla

Page 7: Fisica LB

superficie, verso l’esterno, e la sua intensità è la stessa dalle due parti della distribuzione di carica. Questo ci porta a scegliere una superficie cilindrica (che interseca la lamina con le basi parallele alla stessa) per il

calcolo del flusso di E: sulla superficie laterale del cilindro E

e en

(versore normale e uscente) sono ortogonali e il flusso è dunque pari a zero; influisce invece il flusso attraverso le basi di area S, nelle quali i

vettori E e bn (versore normale e uscente) sono paralleli e concordi.

Dunque il flusso è pari a 2ES

; la carica contenuta all’interno del cilindro (S è ancora una volta l’area di base) è uguale a q = Sσ e, in base alla

legge di Gauss, 0

2 SES σε= . Ciò permette di arrivare al risultato finale

02E

σε

= ; si noti che non dipende dalla distanza dalla distribuzione di

carica (purché la distanza possa essere trascurata rispetto alle dimensioni lineari della lamina). 1.7.4.2 – Sfera uniformemente carica in tutto il suo volume La sfera ha raggio R e carica q positiva. La densità di carica è data dal

rapporto fra la carica e il volume della sfera 0

3

4

q q

πε= = ; il campo ha

direzione radiale in ogni punto dello spazio, sia all’interno sia all’esterno della sfera. Il suo valore (all’esterno) può essere calcolato utilizzando come superficie gaussiana una sfera di raggio re > R avente centro coincidente con quello della distribuzione di carica. Grazie alla legge di Gauss otteniamo:

2

04 e

qr Eπ

ε=

(confronto con la definizione)

20

1

4 e

qE

rπε=

Se si considera come superficie gaussiana una sfera di raggio ri < R, invece, a carica interna a tale superficie non è quella totale, bensì

34

3 irπ ρ . Dalla legge di Gauss segue che:

32

0

44

3i

ir

r Eπ ρπ

ε=

(confronto con la definizione)

E dunque 03irE

ρε

= . Sostituendo a ρ il suo valore si può esprimere E in

funzione della distanza dal centro della sfera, ottenendo:

30 03 4i ir qr

ER

ρε πε

= =

Dunque l’intensità del campo è nulla al centro della sfera, cresce linearmente con la distanza fino a raggiungere il valore massimo sulla

superficie della sfera, poi decresce, proporzionalmente a 2

1

r.

Page 8: Fisica LB

1.7.4.3 – Guscio sferico Il guscio sferico ha raggi R1 e R2 ed è uniformemente carico in tutto il suo volume, con densità di carica ρ . Per calcolare il campo elettrico nella

cavità interna si può usare il risultato precedente (quello che fornisce il valore del campo interno) in questo modo

20 0

1

3 4i

i ii

qE r

ε πε= =

Tuttavia qi (rappresenta la carica che si trova entro la sfera di raggio r) è pari a zero. Dunque il campo elettrico all’interno della cavità è nullo, perché nulla è la densità di carica ρ .

All’esterno del guscio il campo elettrico è lo stesso che si avrebbe concentrando tutta la carica nel centro O della sfera. Ciò significa che, in tali situazioni di simmetria, il guscio compreso fra R1 e R2 non contribuisce al campo nel volume sferico di raggio R1. 1.7.4.4 – Filo Il filo è di lunghezza l e contiene una carica q distribuita uniformemente.

La densità lineare di carica è dunque qlλ = . Il campo ha struttura

radiale per la simmetria del sistema e, scelta dunque una superficie gaussiana cilindrico di raggio r e altezza h, coassiale col filo, valutiamo il

flusso di E: esso risulta nullo sulle due basi (parallele alla direzione del

campo) e pari a E moltiplicato per la superficie laterale (su

quest’ultima). Applicando, al solito, la legge di Gauss

02

hrhE

λπε

=

Dunque

0 02 2

qE

l r r

λπ ε π ε

= =

Che d’altronde avevamo già ricavato con la sola legge di Coulomb.

1.7.5 – Forma locale della legge di Gauss Ricordiamo la formulazione integrale della legge di Gauss

0 int

1( )SC E dq

εΦ = ∫

Di questa si può formulare una versione locale, espressa in forma differenziale, che descrive le proprietà del campo ovunque esso e continuo. Serve introdurre una relazione matematica, detta teorema della divergenza: nelle regioni in cui il campo è continuo, tale teorema esprime il flusso di un

vettore generico A attraverso una superficie chiusa Σ mediante l’integrale,

esteso al volume V racchiuso da tale superficie, dalla divergenza di A

V

A n dS divA dVΣ

⋅ =∫ ∫

L’operatore div A

è definito come:

yx zAA A

divA Ax y z

∂∂ ∂≡ ∇ ⋅ = + +∂ ∂ ∂

Il flusso del campo può essere dunque espresso attraverso questo artificio matematico: ecco la forma differenziale del teorema di Gauss.

Page 9: Fisica LB

( )0 int

1 SC

V

dq E E n dS divE dVε Σ

= Φ = ⋅ =∫ ∫ ∫

Scriviamo la carica elementare come dq dVρ= ; si ha:

0 int

1

V

dq divE dVε

=∫ ∫

0 int

1

V

dV divE dVρε

=∫ ∫

0int

0V

divE dV dVρε

− =∫ ∫

0

0V

divE dVρε

− =

Che è vera quando l’integrando è nullo e dunque quando: 0

divE Eρε

= = ∇ ⋅

.

Giustifichiamo questa affermazione. Prendiamo in considerazione il campo elettrico, generato da una distribuzione continua di carica di densità ρ , e un

elemento di volume infinitesimo avente la forma di un cubetto di spigoli dx, dy,

dz. Vogliamo calcolare il flusso di E attraverso la superficie del cubetto;

scegliamo dunque come origine O del sistema di riferimento un vertice del cubo e gli assi orientati da O verso gli altri vertici. Calcoliamo il flusso del campo attraverso le due facce perpendicolari all’asse x. Avremo, secondo la definizione, che

0( ) ( )x dx xd E dydz E dydzΦ = −

Dove (Ex)dx e (Ex)0 sono i vettori del campo elettrico attraverso le due facce.

Siccome il campo è continuo e differenziabile, possiamo usare la serie di Taylor per approssimare

0( ) ( ) xx dx x

EE E dx

x

∂≈ +∂

Dunque, eseguendo la sottrazione

xEd dxdydz

x

∂Φ =∂

Sommando a questo risultato il contributo al flusso delle altre quattro facce del cubo, si ottiene

yx zEE E

d dxdydz divEdVx y z

∂ ∂ ∂Φ = + + = ∂ ∂ ∂

Poiché la carica contenuta all’interno del cubo è dq = dVρ , e siccome dalla

legge di Gauss si ha 0

d dVρε

Φ = , arriviamo alla dimostrazione che:

0divE E

ρε

= = ∇ ⋅

1.7.6 – Moto di particelle in campi elettrostatici Una particella dotata di carica q, che si trova in un punto dello spazio in cui

esiste un campo elettrostatico E, diverso da zero, subisce l’azione di una forza

F qE=

, indipendentemente dalla distribuzione di carica che ha prodotto il

campo e dalla velocità della carica. Forza e campo hanno lo stesso verso se la carica q è positiva, opposto nel caso di q negativo. Per studiare il moto di quest’ultima possiamo dunque utilizzare il secondo principio della Dinamica

(nel limite non relativistico): F ma=

.

Page 10: Fisica LB

1.7.6.1 – Moto di una particella in un condensatore

La particella in questione sia un elettrone che si muove con velocità

uniforme 0v

fra due piastre (condensatore) che generano un campo

uniforme E perpendicolare a 0v

. La traiettoria dell’elettrone (sfruttando

l’analogia con un grave lanciato orizzontalmente nel campo gravitazionale della Terra) sarà parabolica fino a quando esso non uscirà dal campo elettrico (proseguendo il suo moto in maniera rettilinea e uniforme).

Scelti gli assi x e y paralleli ai vettori 0v e F eE= −

(-e è la carica

dell’elettrone), possiamo impostare la seguente formula: 2

220

1

2 2y

eEly a

mvτ= =

(m = massa dell’elettrone, v0 = velocità iniziale della particella, τ = tempo che ci mette l’elettrone

ad attraversare la regione con campo E diverso da zero, l = lunghezza delle piastre, ay = accelerazione lungo y)

Possiamo da qui trovare la velocità lungo y della particella

0y y

eElv a

mvτ= =

Il sistema così descritto trova applicazione nei tubi a raggi catodici, che forniscono l’immagine sullo schermo dei televisori e dei calcolatori. All’interno del tubo (in cui è stato praticato il vuoto) vengono termoionicamente generati degli elettroni che sono prima accelerati da un campo elettrico longitudinale e quindi deviati da altri due campi trasversali. Variando opportunamente l’intensità dei due campi, gli elettroni possono essere inviati in qualunque punto dello schermo. Le immagini si ottengono facendo variare, in funzione della posizione colpita, il numero degli elettroni e quindi la luminosità che essi producono per fluorescenza. 1.7.6.2 – Elettrone attorno al nucleo di atomo di idrogeno L’elettrone (negativo) si trova nel campo coulombiano prodotto dal nucleo (positivo). Il moto dell’elettrone può essere determinato tenendo conto del fatto che è circolare e che il carattere della forza (centripeta ed elettrica) fa sì che il moto sia uniforme in modulo. L’equazione è:

2 2

20

1

4

e vm

rrπε=

Da qui si può trovare la velocità dell’elettrone (2,18 ⋅106 ms ).

1.7.6.3 – Esperimento di Rutherford Nell’esperimento di Rutherford, che fu cruciale per determinare la struttura dell’atomo, particelle alfa emesse da una sorgente di radio furono utilizzate come “proiettili” contro nuclei d’oro. Le particelle incidenti verso il nucleo sono soggette a una forza Coulombiana e radiale. Sfruttiamo il teorema dell’impulso e scegliamo come origine O del sistema di riferimento il nucleo d’oro:

1 22

0

1( )

4

q qd mv dt

rπε=

(q1 e q2 sono le cariche delle due particelle)

Page 11: Fisica LB

Tenendo conto che dr = v dt otteniamo:

1 22

0

1( )

4

q qv d mv mv dv dr

rπε= =

Ora integriamo da entrambe le parti per ottenere:

2 2 1 20

0

1 1 1

2 2 4

q qm v m v

rα α πε− = −

Da questa formula si può trovare la distanza dal centro del nucleo alla quale avviene l’arresto del proiettile (si ponga v = 0): si osserva, in particolare, che la particella incidente si arresta prima di arrivare a toccare il nucleo del bersaglio e viene riflessa indietro. Fu l’osservazione sperimentale di questo effetto la prima prova dell’esistenza, negli atomi, di un nucleo centrale di carica positiva e di raggio molto piccolo rispetto alle dimensioni atomiche. All’epoca dell’esperimento (1909) si riteneva invece che la parte positivamente carica dell’atomo fosse distribuita su tutto il volume atomico e che all’interno di esso si trovassero gli elettroni (modello di Thomson): in questo caso il campo elettrico non avrebbe avuto intensità sufficiente per produrre deflessioni a grandi angoli (come invece è avvenuto, con deflessioni – addirittura - di 180°).

1.8 – L’esperimento di Millikan Nel periodo che va dal 1898 al 1911 vi furono diversi tentativi sperimentali di verificare l’ipotesi che la carica dell’elettrone non fosse ulteriormente divisibile. Fra questi spicca l’esperimento di Millikan: nel suo apparato minuscole gocce d’olio caricate per strofinio, ed emesse da un nebulizzatore, cadono per effetto di gravità. Alcune di esse passano attraverso una piccola apertura, penetrando in una regione limitata da due piastre metalliche orizzontali, distanti 1,6 cm l’una dell’altra. Il moto delle gocce viene studiato illuminando con un fascio di luce la regione centrale fra le piastre, osservando le gocce con un cannocchiale e determinando il tempo da esse impiegato a percorrere la distanza di caduta. Durante la caduta, le particelle raggiungono rapidamente una velocità di regime, determinata dall’equilibrio fra la forza peso e la resistenza del mezzo; per corpi sferici e per piccole velocità, tale forza

è data dalla Legge di Stokes 6 gF rvπη= (η= viscosità del mezzo, gv = velocità di

caduta a regime). Possiamo dunque scrivere che, sempre a regime:

6 gmg rvπη=

Con un campo elettrostatico di opportuna intensità e di opportuno verso, le gocce possono essere rallentate e fatte risalire. In questo caso, tenuto conto che la forza elettrostatica è diretta verso l’alto, indicata con q la carica esistente sulla goccia e con

Ev il valore (a regime) della velocità, si può scrivere:

6 EqE mg rvπη− =

Da cui, dividendo termine a termine le due equazioni mostrate fin’ora:

1E

g

vmgq

E v

= +

Misurando per ogni goccia i tempi impiegati in salita e in discesa, Millikan poté determinare che le cariche presenti erano sempre un multiplo intero di quella elementare dell’elettrone (e).

Page 12: Fisica LB

1.9 – La struttura della materia L’ipotesi di Democrito che la materia fosse costituita da elementi indivisibili (atomi) e che le differenti forme osservabili, e i loro comportamenti caratteristici, dipendessero dai diversi modi di aggregazione, si è dimostrata essenzialmente corretta (anche se oggi sappiamo che gli atomi non sono indivisibili).

Il raggio di un atomo è di circa 1010 mr −≈ ; al suo interno vi è un nucleo centrale (sferico, in prima approssimazione), con un raggio calcolabile mediante la relazione

1/30R R A= , in cui A è il numero di massa (numero totale di protoni e di neutroni

presenti nel nucleo) e 150 1,2 10 mR −= ⋅ . Il nucleo a sua volta è costituito da protoni e

da neutroni, i primi dotati di una carica positiva il cui valore è quello di quanto elementare, i secondi elettricamente neutri. Protoni e neutroni sono tenuti assieme nel nucleo dalla forza nucleare forte, che agisce a distanze dell’ordine del raggio nucleare ed è capace di controbilanciare l’effetto repulsivo delle forze elettriche tra i protoni. Se Z è il numero di protoni, negli atomi neutri il nucleo è circondato da una nuvola di Z elettroni, che hanno una massa oltre 1800 volte più piccola di quella delle particelle nucleari e piccola energia di legame, ma carica pari quella dei protoni (e di segno opposto). Elettroni e nucleo sono tenuti insieme dalla forza di Coulomb agente fra la carica (negativa) degli elettroni e la carica positiva (dei protoni). Le più importanti proprietà dell’atomo possono dunque essere così sintetizzate:

• la massa è quasi tutta contenuta nel nucleo; • le dimensioni del nucleo sono molto minori di quelle dell’atomo; • nella materia, la maggior parte dello spazio è vuota.

Negli atomi, gli elettroni possono trovarsi solo in stati ai quali corrispondono ben determinati valori dell’energia e del momento angolare, e particolari valori di un certo insieme di “numeri quantici”. Per il Principio di esclusione di Pauli, in ogni stato può trovar posto un solo elettrone. Inoltre, nello stato di minore energia per l’atomo, gli elettroni occupano gli stati liberi iniziando il riempimento da quelli cui corrispondono i valori più bassi di energia. I solidi possono essere schematizzati come un reticolo cristallino di atomi ordinati, o come un insieme di piccoli cristalli orientati casualmente. In un cristallo, i livelli dei singoli atomi vengono modificati per l’interazione degli elettroni con gli altri atomi del reticolo. Ciò provoca piccole variazioni dell’energia dei livelli di ciascun atomo: il risultato è che a ogni livello in un atomo isolato corrisponde per il reticolo cristallino un insieme di livelli tanto ravvicinati e numerosi da costituire delle bande, che possono essere parzialmente sovrapposte o separate. Se gli elettroni di valenza riempiono completamente una o più bande, lasciando vuote quelle in cui corrisponde un’energia maggiore, il solido si comporta coma un isolante, perché un campo esterno non riesce a provocare un movimento di cariche. Nel caso opposto, in cui l’ultima banda non è completamente occupata, gli elettroni, sotto l’azione di un campo elettrico, possono passare da uno stato all’altro all’interno di tale banda e il materiale si comporta come un conduttore.

Page 13: Fisica LB

2.1 – Campi conservativi e potenziale Se la forza che si esercita su una carica q in un campo elettrostatico E

è data

da F qE=

, allora il lavoro elementare di F, relativo a uno spostamento infinitesimo

dr della carica q, è L qE drδ = ⋅

. Il lavoro complessivo corrispondente allo spostamento da un punto A a un punto B lungo una linea γ è dato quindi dall’integrale di linea

B B

ABA A

L qE dr q E drγ γ

= ⋅ = ⋅∫ ∫

Se tale lavoro non dipende dalla linea, si dice che la forza è conservativa. Tale definizione si estende ai campi; un campo viene detto conservativo se, dati due generici punti A e B, l’integrale di linea fra di essi (relativo all’equazione del campo) è indipendente dal percorso scelto e dunque dalla linea γ . Si può esprimere la stessa proprietà in modi equivalenti, dicendo che:

- la circuitazione del campo lungo una qualunque linea chiusa è nulla 0E dr⋅ ≡∫

- la quantità elementare E dr⋅

è un differenziale esatto; di conseguenza, esiste una funzione scalare V( r

) detta potenziale* del campo, per la quale

E dr dV⋅ = −

- sussiste una relazione locale fra il campo e il potenziale mediante l’operazione

di gradiente E gradV V= − ≡ −∇

- che il rotore è pari a zero

0rot E E≡ ∇× =

2.2 – Potenziale del campo coulombiano Il campo coulombiano è formalmente analogo al già noto campo gravitazionale e come questo è conservativo. Dimostriamo infatti* che

2 2 200 0 0

( )44 4 4

r r r rQ Q Q Q

E dr u dr u dr u r du dr d dVrr r r πεπε πε πε

⋅ = ⋅ = ⋅ + = = − ≡ −

ur è versore radiale (va da dove è situata la carica al punto in cui si esamina il potenziale) del vettore campo elettrico,

dur è il versore a questo trasverso. La loro somma è uguale a dr (piccolo spostamento).

Integrando, otteniamo il potenziale V del campo in ogni punto dello spazio, più una costante. Fissando tale costante in modo che il potenziale sia nullo a distanza infinta dalla carica, il potenziale coulombiano in un punto a distanza r dalla sorgente assume la forma:

0

1

4

QV

rπε=

La differenza di potenziale tra due punti A e B è indipendente dalla scelta della costante additiva, e si ottiene integrando E dr⋅

lungo una linea qualsiasi.

0

1 1( ) ( )

4

B

A BA

QV A V B E dr

r rπε

− = ⋅ = −

2.3 – Potenziale del campo prodotto da una distribuzione di cariche Se P è il punto in cui si calcola il potenziale e qi una carica puntiforme posta in ri allora

Page 14: Fisica LB

0

1( )

4i

ii

qV r

r rπε=

Per il già citato principio di sovrapposizione, se ho più di una carica, la formula prende il seguente aspetto

0

1( )

4i

ii

qV r

r rπε=

−∑

Allo stesso modo di come si è già fatto, per una distribuzione continua di carica vale che

0 0

1 1 ( ') '( )

4 4 'i

dq r dVV r

r r r r

ρπε πε

= =− −∫ ∫

L’integrale va esteso a tutto il volume; se si può schematizzare la distribuzione di carica come superficiale (o lineare) si usi il corretto tipo di densità di carica (nel caso sopradescritto è volumica).

2.4 – Definizione operativa del potenziale elettrostatico Risulta possibile definire il potenziale tramite un procedimento operativo che prescinde dalla conoscenza dettagliata della distribuzione delle sorgenti o dalla conoscenza diretta del valore di E

in ogni punto.

Consideriamo un oggetto puntiforme inizialmente mantenuto fermo in un punto A, avente una carica q sufficientemente piccola da essere considerata come esploratrice. Successivamente, applicando opportune forze, spostiamo il corpo fino a fargli occupare un’altra posizione B, ove viene definitivamente fermato. In tale processo, il lavoro complessivamente fatto dalle forze agenti sul corpo è nullo, non essendo

variata la sua energia cinetica; tuttavia, tale lavoro è la somma di quello ( elABL ) delle

forze elettriche e di quello ( alABL ) delle forze esterne.

Se elABL + al

ABL = 0, allora si ha (per definizione) che ( )alAB

B AL

V Vq

− =

La differenza di potenziale – qui si vede bene – si esprime dunque in J/C: dato l’uso frequente di questa grandezza, le viene dato il nome Volt [V]. 2.5 – Potenziale del campo prodotto da un dipolo Un dipolo è un sistema di due cariche della stessa intensità q e di segno opposto, collocate ad una certa distanza d. Il potenziale calcolato in un punto p (distante r dal punto medio O del segmento che congiunge le cariche) sarà

2 1

0 1 2 0 1 2

( )1 1

4 4

q d dq qV

d d d dπε πε −= + − =

È quindi possibile fare alcune approssimazioni: se il punto p è molto distante dalle due cariche (o, comunque, la sua distanza da esse è molto maggiore della distanza fra le cariche stesse) la 1d e la 2d potranno essere considerate uguali (e pari a cosd ϑ , dove

ϑ è l’angolo fra l’asse in cui sono situate le cariche e il segmento che congiunge il

punto p col punto O). Infine 1 2d d può essere considerato come pari a 2r ; una volta

inserite queste approssimazioni nella formula, questa si semplifica notevolmente:

20

cos

4

q dV

r

ϑπε

Introduciamo ora il vettore momento di dipolo elettrico: esso è definito come p qdj=

(il verso è sempre quello dalla carica negativa verso quella positiva)

Page 15: Fisica LB

Possiamo trovare, grazie a questa grandezza, un ulteriore modo per definire il potenziale:

20

1

4rp u

Vrπε⋅

(r = vettore di posizione di P rispetto ad O;

ru = versore del vettore di posizione;

p = momento di dipolo)

Il potenziale è nullo quando r è perpendicolare a p (cos90 = 0). In varie occasioni il dipolo elettrico è un sistema molto importante: le molecole di alcune sostanze hanno infatti un momento di dipolo permanente ed intrinseco, mentre altre lo possono acquistare; infine vi sono sistemi (antenne di radio) nei quali gli elettroni oscillano periodicamente generando dipoli elettrici (anch’essi oscillanti). 2.5.1 – Potenziale del campo di un disco uniformemente carico

Studiamo il caso di una carica q positiva e distribuita uniformemente sulla superficie di un disco di raggio R: vogliamo trovare il potenziale V nei punti P dell’asse del disco. Consideriamo il disco come un insieme di corone circolari di raggio r e spessore

infinitesimo dr. Essendo la densità superficiale di carica pari a 2

q

π= ,

ciascuna corona circolare porterà una carica quantificabile in

2 2

22

q qrdq dS rdr dr

R Rσ π

π= = =

Questa corona circolare si troverà a distanza 2 2x r+ (x è la componente sull’asse, r quella che giace sul disco) da un punto P situato sull’asse del disco (coordinata: x, che è poi la distanza dal centro del disco stesso).

Il suo contributo sul potenziale sarà: 2 2 2 20 0

1 1 2

4 4

dq q rdr

Rx r x rπε πε=

+ +.

Ora, come di consueto, possiamo integrare su r (variabile da 0 [centro del disco] ad R [bordo del disco]).

2 2 20 0

1 2

4

Rq rdr

VR x rπε

=+

Il risultato (in seguito a un cambio di variabile 2 2 2y x r= + ) è

( )2 22

0

1 2

4

qV x R x

Rπε= + −

In particolare, il potenziale 0V al centro del disco si ricava dalla precedente

espressione per x = 0: 0 0 0

1 2

4 2 2

q q RV

RR

σπε π ε ε

= = =

2.5.2 – Potenziale di un filo uniformemente carico

Vogliamo determinare il potenziale del campo prodotto da un filo di lunghezza 2l, uniformemente carico (densità lineare λ ), in un punto P a distanza r dal filo, equidistante dai suoi estremi. Fissiamo l’origine O nel punto medio del filo e l’asse z diretto lungo quest’ultimo. Prendiamo quindi in considerazione il contributo al potenziale di due tratti elementari di filo, ciascuno di lunghezza dz, simmetrici rispetto a P:

Page 16: Fisica LB

questi piccoli tratti disteranno 2 2r z+ da P stesso, ed essendo la relativa carica pari a dq dzλ= tali tratti (a coppia) daranno un contributo al potenziale pari a

2 202

dzdV

r z

λπε

=+

Dopo alcune considerazioni fatte tenendo presente l’Analisi matematica, e dopo aver integrato dV fra 0 e l , ricaviamo

2 2

0ln

2

l r lV

r

λπε

+ +=

Tale risultato non è estendibile per l +∞ perché il risultato diverge.

2.6 – Calcolo di differenze di potenziale mediante l’integrale di linea del campo È possibile, tramite un integrale di linea, calcolare una precisa differenza di potenziale. Poniamo, ad esempio, di avere un filo indefinitamente carico (densità lineare λ ) e di voler calcolare il potenziale in un punto a distanza r dal filo.

Il filo emette un campo elettrico pari a 0

1

2E uρ

λπε ρ

=

(con uρ

semiretta

perpendicolare al filo e passante per il punto P). Assumendo che il potenziale sia nullo ad una distanza finita 0r dal filo (nel punto 0P ), valutiamo in questo modo il potenziale

in P: 0

0

P

P PP

V V E dr= + ⋅∫

che dà come risultato 0 0

ln2

r

r

λπε

Quindi la differenza di potenziale fra due punti generici è 21 2

0 1ln

2

rV V

r

λπε

− = .

Questo ragionamento e questa metodologia possono essere utilizzati anche nel caso della superficie piana infinitamente estesa; si dimostra infatti (in un modo analogo) che la differenza di potenziale fra due generici punti A e B dipende solo dalle loro

distanze dal piano carico: 0

( )2

A B B AV V d dσε

− = − . Nella valutazione della differenza di

potenziale va prestata particolare attenzione al verso del campo, sempre uscente dal piano (o entrante in esso) con segno positivo (o negativo) della densità di carica σ . All’interno di un doppio strato, costituito da due piani paralleli su cui sono distribuite uniformemente cariche di segno opposto (densità σ− e σ+ ) è presente un

campo elettrico uniforme di modulo 0

σε , perpendicolare ai piani e con verso

orientato dal piano positivo a quello negativo. All’esterno, invece, il campo è nullo. Il piano positivo si trova ad un potenziale maggiore rispetto a quello negativo: la

differenza fra i due è infatti di 0

V V dσε+ −− = . Inoltre, nella parte esterna del piano

negativo il potenziale vale V− , in quella esterna del piano positivo invece V+ .

Per concludere, ecco i potenziali all’interno e all’esterno di: - uno strato sferico di raggio R (carica distribuita uniformemente):

0

1

4

QV

rπε= (con r > R)

Page 17: Fisica LB

0

1

4

QV

Rπε= (con r ≤ R)

- una sfera di raggio R e uniformemente carica, con carica totale Q:

0

1

4

QV

rπε= (con r > R)

2

20

13

4 2

Q rV

R Rπε

= −

(con r ≤ R)

2.7 – Calcolo del campo del potenziale

Dalla relazione fra potenziale e campo dV E dr= − ⋅

, utilizzando l’espressione

cartesiana del prodotto scalare x y zE dr E dx E dy E dz⋅ = + +

e quella del differenziale

esatto V V V

dV dx dy dzx y z

∂ ∂ ∂= + +∂ ∂ ∂

, si ottiene:

, ,x y zV V V

E E Ex y z

∂ ∂ ∂= − = − = −∂ ∂ ∂

Dunque è possibile scrivere in modo compatto il legame fra E e V, e precisamente in questo modo:

E gradV V= − = −∇ Ciò mostra inoltre come, se vogliamo trovare le componenti del campo essendo nota l’equazione di quest’ultimo, sia sufficiente applicare operazioni di derivazione. Comunque sia, data l’arbitrarietà della scelta degli assi coordinati, è anche possibile trovare la componente del campo per uno spostamento infinitesimo dl: la relativa derivata direzionale sarà infatti

lV

El

∂= −∂

Queste relazioni ci danno la possibilità di descrivere le caratteristiche di un campo rappresentandone le superfici equipotenziali: su queste superfici ogni componente del campo elettrico risulta nulla grazie al fatto che, nel prodotto scalare, compare un cos 90°; ciò sta a significare la perpendicolarità del campo E a tale superficie. Il modulo del campo in un generico punto è perciò dato dal valore assoluto della sua derivata direzionale lungo la normale n alla superficie equipotenziale che passa per

tale punto: V

En

∂=∂

. Tenendo conto del segno negativo che compare in queste

formule, è immediato dedurre che il verso del campo è quello in cui diminuisce il potenziale. 2.8 – Energia potenziale e moto di particelle cariche Prendiamo in considerazione una carica q che viene spostata, all’interno di un campo elettrico, da un punto ad un altro. Il nostro scopo è individuare l’origine della variazione subita dall’energia potenziale elettrica U qV≡ ; con facilità abbiamo che

( )( ) elB A B A ABU U q V V L− ≡ − =

Tale differenza di energia può essere resa disponibile per una successiva trasformazione in energia cinetica; ciò si rivela utile in quanto il campo elettrostatico è conservativo e, dunque, è possibile risolvere molti problemi in modo assai semplice facendo ricorso alla conservazione dell’energia meccanica

212mv qV+

Page 18: Fisica LB

Se A e B sono due punti della traiettoria della particella, la variazione subita dall’energia cinetica fra A e B è quindi uguale (e opposta) a quella dell’energia potenziale:

2 21 1( )

2 2B A A BK mv mv q V V q V∆ = − = − = − ∆

Particelle cariche, inizialmente ferme in un punto A, sotto l’azione delle sole forze del campo si muovono (se non vincolate) verso posizioni in cui il potenziale è minore (maggiore), se la loro carica è positiva (negativa). In particolare, se fra due punti A e B esiste una differenza di potenziale V∆ con

B AV V> , prodotta e conservata con opportuno dispositivo, e nel punto A vengono

immessi elettroni con velocità iniziale trascurabile, questi vengono accelerati dalle forze del campo elettrico e raggiungono B con energia cinetica pari a

21( ) ( )

2 B A B B Amv e V V e V V= − − = −

Da tale relazione prende spunto la definizione di un’unità di misura per l’energia, denominata elettronvolt (abbreviata eV): essa misura l’energia cinetica acquistata da una particella avente carica pari a quella dell’elettrone e accelerata dalla differenza di potenziale di 1 Volt. È stato detto che una carica tende “naturalmente” a muoversi verso posizioni caratterizzate da minore energia potenziale; ne discende ovviamente che, affinché un punto sia di equilibrio stabile per una particella carica positivamente (negativamente), il potenziale elettrostatico vi dovrà avere un minimo (massimo) forte. Sperimentalmente si verifica che in un campo elettrostatico, per una particella carica, non esistono posizioni di equilibrio stabile in zone non occupate dalle sorgenti del campo. L’assenza di tali posizioni di equilibrio stabile nello spazio non occupato da sorgenti ha come conseguenza che ivi il potenziale elettrostatico non può avere né minimi né massimi forti. 2.9 – La seconda equazione di Maxwell per il campo elettrostatico Abbiamo mostrato che la Legge di Gauss consente di dedurre, nelle regioni in cui il

campo è differenziabile, la relazione locale scalare 0

divEρε

=

, oppure informazioni

sull’entità delle eventuali discontinuità. Vogliamo ora provare che anche il carattere conservativo del campo elettrostatico ( 0E dr⋅ ≡∫

) si traduce in una relazione

vettoriale locale. Ricordiamo anzitutto cos’è il rotore: dato un campo vettoriale A

differenziabile, si definisce rotore di A

il vettore

rot

x y z

i j k

A Ax y z

A A A

∂ ∂ ∂≡ ∇× ≡∂ ∂ ∂

Si dimostra che se A è conservativo (e quindi esprimibile in ogni punto come

gradiente di una funzione scalare f) il suo rotore è nullo in ogni punto in cui è definito. Infatti, per ogni funzione f di classe 2C sussiste l’identità: ( ) rot(grad ) 0f f∇× ∇ = = .

Ciò vale anche per il campo elettrostatico: la relazione rot 0E =

rappresenta la forma locale assunta nel caso stazionario dalla seconda legge di Maxwell. I campi con rotore nullo vengono anche definiti campi irrotazionali: i campi conservativi sono dunque irrotazionali nelle zone in cui sono differenziabili.

Page 19: Fisica LB

2.10 – Equazioni di Poisson e di Laplace Combiniamo ora le due relazioni:

1) 0

divE Eρε

= ∇ ⋅ = (teorema della divergenza), dove , ,x y z

∂ ∂ ∂∇ ≡ ∂ ∂ ∂ (operatore nabla)

2) E = gradV V− = −∇

Si ottiene facilmente che 2 2 2

22 2 2

0

V V Vdiv gradV V V

x y z

ρε

∂ ∂ ∂= ∇⋅∇ = ∇ ≡ + + = −∂ ∂ ∂

.

Da qui l’equazione di Poisson: 2

0V

ρε

∇ = − . Nelle regioni dello spazio in cui non sono

presenti cariche, tipicamente nel vuoto, essa si riduce all’equazione di Laplace: 2 0V∇ = . La linearità di queste equazioni traduce formalmente il Principio di

sovrapposizione: il potenziale dovuto all’unione di due distribuzioni di cariche è la somma dei potenziali corrispondenti a ciascuna di esse. Tali equazioni, inoltre, si rivelano molto utili quando si ha una distribuzione di carica illimitata; si calcoli in questo caso il potenziale risolvendo l’equazione di Poisson, quindi se ne faccia il gradiente per trovare il campo elettrostatico. Se ad esempio non si conosce la distribuzione di carica, ma sono note le posizioni nello spazio di alcuni conduttori e i potenziali sulle loro superfici, il problema può essere risolto integrando l’equazione di Laplace con le condizioni al contorno note. Infine, una caratteristica generale delle soluzioni dell’equazione di Laplace e di essere funzioni armoniche, il che implica che esse siano prive di massimi e minimi forti.

Page 20: Fisica LB

3.1 – Campo elettrostatico nei conduttori 3.1.1 – Campi e cariche nei conduttori

I conduttori (metalli, ma non solo) costituiscono un’importante classe di materiali in quanto hanno la caratteristica di lasciarsi liberamente percorrere dalla corrente elettrica. Ciò significa che nella regione di spazio occupata dal conduttore il campo elettrostatico è nullo e che le cariche in eccesso si localizzano sulla superficie; dimostriamolo: consideriamo dapprima un conduttore omogeneo, a temperatura uniforme e privo di cavità. Esso sarà elettricamente neutro, ma ciò non significa che sia privo di cariche (positive e

negative): esse sono infatti tantissime, dell’ordine di 22 2410 10∼ per centimetro cubo e, semplicemente, si compensano fra loro. Fra queste, una certa frazione di elettroni (elettroni di conduzione) è libera di muoversi nel volume occupato dal conduttore. Caricare un metallo consiste nel cedergli o sottrargli elettroni, in modo che la sua carica complessiva risulti negativa o positiva. La carica trasferita deve distribuirsi in modo tale che in qualsiasi punto interno al metallo il campo risulti nullo, altrimenti le cariche libere di muoversi si sposterebbero per azione della forza elettrica, in contrasto con l’ipotesi di condizioni elettrostatiche (cioè di equilibrio). Il flusso di E

attraverso una qualsiasi superficie chiusa interna al metallo risulta di conseguenza nullo. Da ciò segue (legge di Gauss) che la carica interna a tale superficie è pari a zero; siccome la gaussiana può essere scelta di forma a piacere (arbitrariamente vicina alla superficie fisica che delimita il conduttore), ne consegue che la carica (che c’è, perché il sistema è stato caricato) si è distribuita tutta sulla superficie del conduttore. L’origine fisica di questo fenomeno sta nei reciproci effetti repulsivi che portano le cariche in eccesso a distribuirsi il più lontano possibile le une dalle altre, in modo da minimizzare l’energia d’interazione. Questo risultato è di carattere generale: se introduciamo un conduttore metallico scarico in una regione in cui esiste un campo elettrostatico, saranno gli elettroni di conduzione a ridistribuirsi nel conduttore in modo da produrre un campo che, sommato a quello della carica, dia un risultato nullo in tutto il volume occupato dal conduttore. Il fenomeno è detto induzione elettrostatica. 3.1.2 – Conduttore cavo e schermo elettrostatico Se all’interno del conduttore è presente una cavità, la situazione potrebbe essere diversa: si potrebbero avere cariche ferme sulla superficie della cavità, soggette a un campo perpendicolare alla superficie stessa. Applicando la legge di Gauss a una superficie molto vicina alla superficie interna si ha però che tale eventuale carica dovrebbe essere globalmente nulla. Si potrebbe allora pensare che vi siano cariche superficiali di segno opposto in regioni diverse della superficie interna, ma è facile dimostrare che una situazione del genere non può verificarsi, perché in tal caso dovrebbero formarsi delle linee di forza (all’interno della cavità) e la circuitazione non sarebbe più pari a zero (in contrasto con le ipotesi). In conclusione, non vi sono cariche neanche sulla superficie interna e il campo è nullo anche nella cavità. Diversa è la situazione se viene introdotto un corpo carico (carica = Q) all’interno della cavità: la legge di Gauss richiede infatti che la carica indotta sulla superficie interna sia –Q; ciò farà inoltre sì che una carica +Q si depositi sulla superficie esterna.

Page 21: Fisica LB

Ciò ci permette di sintetizzare il comportamento di un involucro metallico: esso trasferisce sulla propria superficie esterna una carica uguale al valore complessivo delle cariche contenute al suo interno e scherma da ogni influenza elettrostatica (gabbia di Faraday) gli oggetti posti al suo interno. Se l’interno non è collegato all’ambiente esterno, quest’ultimo non è influenzato da ciò che avviene nella cavità; in conclusione, ricordando che cambiamenti della configurazione di cariche esterne non alterano le differenze di potenziale fra qualsiasi coppia di punti della cavità, si può affermare che un involucro metallico chiuso scherma sia dall’interno verso l’esterno che viceversa. 3.1.3 – Campo nelle vicinanze di un conduttore metallico Sulla superficie esterna dei conduttori, in presenza di una carica superficiale, il campo E

è diretto perpendicolarmente alla superficie; infatti, in caso contrario, il suo componente tangente alla superficie metterebbe in movimento le cariche libere. Ricordando che il campo è nullo internamente al conduttore e tenendo presenti le proprietà di E

nell’attraversamento di una superficie su cui esiste una densità superficiale di carica σ , si trova che all’esterno, nelle immediate vicinanze del conduttore, il campo è normale alla superficie e vale, in modulo:

0E

σε

=

Se σ è positiva il campo è diretto verso l’esterno, se σ è negativa verso l’interno. Indicando con n

il versore della normale esterna alla superficie e

tenuto conto della relazione fra campo e gradiente del potenziale lV

El

∂= −∂

,

l’espressione vettoriale del campo è perciò data da (Teorema di Coulomb):

0

VE n n

n

σε

∂= − =∂

Tali relazioni mostrano che il campo elettrico raggiunge la massima intensità vicino alle zone della superficie in cui è massima la densità superficiale di carica. Ciò ha notevole importanza se il conduttore non è nel vuoto ma immerso nell’aria: in essa sono presenti ioni positivi e ioni negativi, i quali vengono attratti verso le regioni cariche del conduttore, dove il campo è più intenso. In tali regioni, al di sopra di certi valori di campo, si può verificare una diminuzione della carica superficiale, come se il conduttore “soffiasse” via alcune delle sue cariche in eccesso (effluvio elettrico). Come si può facilmente intuire, non è conveniente tentare di trasferire cariche tramite contatto: il completo trasferimento di carica non può essere infatti ottenuto, dato che la carica si suddividerebbe fra i due conduttori. È invece molto più utile sfruttare una cavità interna, come avviene nei generatori di Van de Graaf: essi sono costituiti da una sfera internamente cava al cui interno si muove una cinghia trasportatrice. La cinghia, trascinata da un motore elettrico, passa davanti a un pettine metallico le cui punte provocano trasferimento di carica alla cinghia. All’interno della cavità, le cariche portate dalla cinghia scorrono davanti alle punte di un secondo pettine metallico, collegato all’interno della sfera. Per induzione, le punte si caricano di segno opposto a quello della cinghia, mentre una carica dello stesso segno va ad aumentare la carica della superficie esterna. Successivamente, l’intenso campo elettrico prodotto dalle punte cariche provoca una corrente di ioni che

Page 22: Fisica LB

neutralizza le cariche di segno opposto presenti sulla cinghia e sul pettine. Si possono così raggiungere potenziali elevatissimi (milioni di V).

3.2 – Potenziale e capacità dei conduttori Due punti qualsiasi di un conduttore, interni o superficiali, si trovano allo stesso

potenziale (dato che ( ) ( )B

A

V A V B E dr− = ⋅∫ e che il campo E

è nullo lungo una

qualunque linea tutta interna al conduttore che colleghi i due punti). Per questo motivo si parla di potenziale di un conduttore. Consideriamo ora il caso ideale di conduttore isolato, in pratica unico in tutto lo spazio, il cui potenziale V è ovviamente funzione della carica totale Q su di esso. Misure sperimentali dimostrano l’esistenza di una proporzionalità tra la carica Q e il potenziale V: per tale motivo si può definire una nuova grandezza elettrica, la

capacità C del conduttore, il cui valore QC V= dipende dalle dimensioni geometriche

e dalla forma della superficie esterna al conduttore. L’unità di misura è il farad [F] (Coulomb/Volt). Il calcolo del potenziale (e quindi della capacità) di un conduttore su cui esiste una carica Q è facilmente eseguibile solo in particolarissime situazioni, nelle quali sono presenti semplici simmetrie. Prendiamo ad esempio una sfera di raggio R: essendo la carica distribuita sulla superficie, conviene calcolare il potenziale nel centro della sfera (equidistante da tutti i punti della superficie). In assenza di cariche esterne si può scrivere:

0 0

1 1

4 4

dq QV

r Rπε πε= =∫

La capacità della sfera è dunque: 1

00

14

4

QQ R

Rπε

πε

=

.

Possiamo ora esaminare il caso di distribuzione della carica fra due conduttori sferici, isolati da tutto. Trascurando gli effetti di induzione elettrostatica, indicando con 1R e

2R i raggi delle due sfere e con q la carica totale da esse posseduta, accade che tale

carica q si ripartisca in due parti 1q e 2q , in maniera che i potenziali delle due sfere

si eguaglino (altrimenti ci sarebbe una corrente e non un equilibrio). Dunque valgono le relazioni

1 2

0 1 0 2

1 1

4 4

q q

R Rπε πε= da cui (essendo 1 2q q q= + )

11

1 2

22

1 2

Rq q

R R

Rq q

R R

= + = +

Le cariche sulle sfere, come si nota, sono proporzionali ai relativi raggi: nel caso particolare di due sfere uguali, la carica q si suddivide a metà fra esse. Da questa

considerazione segue immediatamente che 1 2

1 2

q q

R R= , perciò 1 1 2 2R Rσ σ= .

Quest’ultima relazione ha un’interessante interpretazione fisica: dato che i due conduttori collegati in serie costituiscono un unico conduttore, il campo elettrico ha maggiore intensità in corrispondenza del raggio di curvatura più piccolo. Estendendo questo risultato al conduttore generico, ritroviamo che il campo elettrico ha maggiore intensità vicino alle zone più appuntite (potere delle punte).

Page 23: Fisica LB

Dal punto di vista energetico, il processo di carica di un conduttore consiste nel trasferire ripetutamente sulla superficie della sfera una piccola carica dq, fino al trasferimento completo della carica Q. Via via che il processo procede, occorre esercitare una forza sulla carica in avvicinamento per contrastare la forza repulsiva esercitata dalla carica q già presente sulla sfera. Tale forza esegue un lavoro il cui valore è dato dal prodotto del potenziale per la carica che si sta trasferendo; studiamo in maniera elementare tale processo di carica:

- il potenziale (q = carica presente sul conduttore, con 0 q Q< < ): 0

1( )

4

qV q

Rπε=

- sommando tutti i contributi infinitesimi fino al caricamento completo: 2

0 00

1 1

4 8

Qq Q

L dqR Rπε πε

= =∫ (= energia fornita col carico del sistema).

3.3 – Condensatori Un condensatore è un sistema di due conduttori aventi cariche uguali e segno contrario: i singoli conduttori vengono chiamati armature del condensatore.

La capacità elettrica di un condensatore è definita come Q

CV

=∆

, dove V∆ è la

differenza di potenziale fra le due armature. 3.3.1 – Condensatore sferico

È un sistema consistente in un conduttore di forma sferica (raggio 1r , superficie

1S ), situato all’interno di una sfera conduttrice cava, limitata da due superfici

sferiche 2S e 3S di raggio 2r e 3r (il sistema ha un centro comune O).

Si supponga di trasferire su 1S una carica +q: quest’ultima si distribuirà

uniformemente e indurrà una carica –q sulla superficie interna 2S della seconda

armatura; su 3S verrà inoltre a trovarsi una carica +q.

Calcoliamo ora:

- il potenziale sull’armatura 1 (centro O): 10 1 2 3

1

4

q q qV

r r rπε

= − +

- il potenziale sull’armatura 2: 20 3

1

4

qV

rπε=

- la differenza di potenziale fra le armature 1 e 2: 1 20 1 2

1

4

q qV V V

r rπε

− = ∆ = −

- la capacità C del condensatore: 1 20

2 14

r rQ qC

V V r rπε= = =

∆ ∆ −.

Si noti che se la distanza fra le due armature è molto piccola si può porre 2

1 2 1 2 2 1, , r r r r r d r r≈ ≈ = − e dunque riformulare la capacità: 01 20

2 14

Sr rC

r r d

επε= ≈−

.

La relazione ottenuta è la tipica espressione della capacità di un condensatore. 3.3.2 – Condensatore piano Il condensatore piano è formato da due superfici metalliche e parallele separate dal vuoto, le cui dimensioni lineari siano grandi rispetto alla reciproca distanza d. Se ai due conduttori vengono trasferite le cariche q e –q, queste si

Page 24: Fisica LB

disporranno uniformemente sulle due superfici che si fronteggiano. Lo schema di tale apparato è già stato esaminato col nome di doppio strato. La differenza

di potenziale fra le due armature è data da: 0

0

Sq SC

V dd

εσσε

= = =∆

(già ritrovata

nel caso del condensatore sferico; trascurato l’effetto di bordo delle superfici). 3.3.3 – Condensatore cilindrico Si tratta di un sistema formato da due conduttori cilindrici coassiali (raggio della prima superficie = 1r , raggio della seconda superficie = 2r , altezza = h,

carica = q). Facendo considerazioni simili a quelle del condensatore sferico otteniamo:

- campo elettrico in una regione distante r dal centro (con 1 2r r r< < ):

0

1 1

2

qE

h rπε= ;

- differenza di potenziale fra le armature: 2

0 1

1ln

2

rqV

h rπε∆ =

- capacità: 02

1

2

ln

hC

r

r

πε= .

3.3.4 – Collegamenti fra condensatori Il collegamento fra due (o più) condensatori può avvenire in due differenti modi, detti in parallelo e in serie. Nel collegamento in parallelo, ciascuna armatura del primo è collegata a un’armatura del secondo: l’insieme si collega all’esterno con due terminali, come se fosse un unico condensatore. Tale condensatore “unico” ha una capacità pari alla somma dei due condensatori collegati ( 1 2C C C= + ). Nel caso

generale, la capacità di n condensatori in parallelo è 1,

ii n

C C=

= ∑ .

Nel collegamento in serie, una sola armatura del primo condensatore è collegata con uno del secondo: visto da fuori, l’insieme appare anche in questo caso come un unico condensatore. Tale condensatore “unico” ha una capacità

che si può esprimere tramite la relazione 1 2

1 1 1C C C= + . Nel caso generale (n

condensatori in serie), la capacità è pari a:

1

1,

1

ii n

CC

=

= ∑ .

3.3.5 – Energia elettrostatica di un condensatore carico Tratteremo ora il caso di un condensatore avente qualsiasi forma geometrica: vogliamo calcolare il lavoro necessario per portare sulle sue armature due cariche uguali e contrarie +Q e –Q. Trattiamo (come già fatto) il processo di carica come una successione di operazioni consistenti nel trasferimento di una carica elementare dq da un’armatura all’altra, ciascuna delle quali richiede un lavoro pari a L dq Vδ = ∆ . Man mano che il processo di carica procede, la differenza di potenziale cambia, passando dal valore iniziale V = 0, a quello

Page 25: Fisica LB

finale V = Q/C. In una fase intermedia avremo invece che q

VC

∆ = , dove q è il

valore della carica presente in quell’istante sulle armature. Otteniamo il valore del lavoro (e quindi dell’energia potenziale elettrostatica immagazzinata nel

sistema) integrando in questo modo: 2 2

0

( )

2 2 2

Qq Q Q V C V

L dqC C

∆ ∆= = = =∫ .

Consideriamo ora il caso particolare del condensatore piano, che possiede un campo elettrostatico uniforme. Supponendo che fra le armature vi sia il vuoto e che siano trascurabili gli effetti di bordo, possiamo introdurre nell’equazione

2( )

2

C VL

∆= i valori della capacità 0SC

d

ε= e l’espressione V Ed∆ = . Otteniamo

che 2

0 (energia potenziale del campo elettrostatico)2E

E SdU

ε= .

3.4 – Condensatori con dielettrico

Come mostra la formula 0SC

d

ε= , il modo più semplice per aumentare la capacità di

un condensatore consiste nel diminuire la distanza tra le armature: ciò però non è facilmente eseguibile se fra le superfici affacciate dei condensatori è presente il vuoto o l’aria. È infatti opportuna e necessaria la presenza di un isolante. Dal punto di vista sperimentale, introducendo un dielettrico fra le armature di un condensatore caricato con una carica Q, i cambiamenti che si osservano sono l’aumento della capacità e la diminuzione della differenza di potenziale. Indicate con C e 0C le capacità con e senza dielettrico (quando fra le armature vi è il

vuoto) e con V∆ e 0V∆ le corrispondenti differenze di potenziale, valgono le relazioni:

- 0rC Cε= ( rε = costante dielettrica relativa (al vuoto) del materiale inserito fra le

armature);

- 0

r

VV

ε∆∆ = .

Ne consegue in particolare che l’espressione generale della capacità di un condensatore piano, quando fra le armature è presente un dielettrico di costante

dielettrica relativa rε , è data da 0 rSC

d

ε ε= .

Questa formula mostra (appunto) che si può aumentare il valore della capacità di un condensatore non solo aumentando la superficie o diminuendo la distanza d fra le armature, ma anche utilizzando un dielettrico con elevato rε .

3.5 – Polarizzazione nei dielettrici Nei dielettrici, diversamente che nei conduttori, le cariche non sono libere, ma sostanzialmente legate all’interno di strutture atomiche o molecolari. In presenza di un campo elettrico esterno avviene un fenomeno, detto polarizzazione del dielettrico, determinato da una ridistribuzione delle cariche elettriche “legate”, prodotta a sua volta da due differenti meccanismi: la polarizzazione per deformazione e la polarizzazione per orientamento. La polarizzazione per deformazione si verifica in tutti i dielettrici, mentre quella per orientamento avviene soltanto se le molecole del dielettrico possiedono già intrinsecamente un momento di dipolo.

Page 26: Fisica LB

Nel caso della deformazione, le cariche elettriche positive presenti (e legate) nelle molecole si spostano (di poco) nel verso del campo E

, mentre quelle negative si spostano in verso opposto, fino a raggiungere una nuova situazione di equilibrio, deformata rispetto a quella originaria. Agli spostamenti, che sono molto più piccoli delle dimensioni atomiche, corrisponde la comparsa di un momento di dipolo indotto in ciascuna struttura atomica o molecolare. Per i singoli atomi, è relativamente semplice giustificare che il momento di dipolo indotto p

dalla

deformazione ha la direzione del campo elettrico E

localmente agente su di esso, e un modulo che per intensità non troppo elevate del campo elettrico locale è approssimativamente proporzionale ad esso. Si ha cioè che p Eα=

, in cui la costante α è detta polarizzabilità elettronica e dipende dalla struttura dell’atomo. La polarizzazione per orientamento avviene quando si considera un dipolo elettrico posto in un campo elettrostatico E

, sul quale agisce una coppia di forze qE

e qE−

, che tende ad allineare il momento di dipolo con il campo elettrostatico. Ciò avviene con la comparsa di un momento meccanico pari a M p E= ×

, che porta i dipoli ad

orientarsi con p

parallelo ad E

.

Page 27: Fisica LB

4.1 – Intensità di corrente Il trasporto delle cariche (corrente) può avvenire nei mezzi in cui una certa frazione delle stesse è libera di muoversi: in pratica, esso può verificarsi, con intensità diverse, nei conduttori metallici, detti anche ohmici, nelle soluzioni elettrolitiche, nei gas ionizzati, nei semiconduttori, nei dielettrici imperfetti. In tutti questi casi, le particelle libere di muoversi vagano nel mezzo con valori della velocità la cui distribuzione dipende dalla temperatura. Tuttavia queste non generano correnti, perché sommando tutti i vettori velocità delle particelle mobili si ha un vettore equivalente nullo: non vi sono quindi spostamenti di carica complessivi, ma tante particelle che si scambiano di posto e si urtano in maniera locale. Se ci riferiamo a un conduttore metallico, gli elettroni liberi (di muoversi), detti di conduzione, si comportano, per certi aspetti, come gli atomi di un gas perfetto, con

velocità dell’ordine di m/s; la presenza di un campo elettrico non nullo all’interno del conduttore determina, per i portatori di carica dello stesso segno, un movimento collettivo aggiuntivo in una definita direzione, caratterizzato da una certa “velocità di deriva” (dell’ordine del millimetro al secondo), che si somma vettorialmente alla velocità di agitazione termica.

610

Si definisce intensità di corrente i la grandezza che esprime la quantità di carica che

attraversa la superficie orientata S nell’unità di tempo: dQidt

= .

L’unità di misura dell’intensità di corrente è l’ampère [A], che corrisponde a un flusso di carica pari a 1 coulomb al secondo. Per convenzione si assume come verso positivo delle correnti quello in cui si muovono i portatori di carica positiva; quindi, nel caso dei conduttori metallici, in cui i portatori di carica sono gli elettroni, la corrente ha verso opposto a quello della velocità di deriva degli elettroni. Si definisce poi vettore di densità di corrente elettrica la quantità:

dJ Nqv=

( è il numero di portatori di carica per unità di volume, la carica di un singolo portatore, N q dv la

velocità di deriva delle cariche)

Si può verificare che l’intensità di corrente che attraversa una superficie orientata S è

data dal flusso di attraverso la stessa superficie. Si ha infatti: J

dS S

dQ Nqv ndS J dSdt

= ⋅ = ⋅∫ ∫

Si può quindi dedurre che il modulo di J [A / ] misura il rapporto fra l’intensità della corrente che percorre un conduttore e l’area della sua sezione normale alla velocità di deriva dei portatori di carica.

2m

4.2 – Conservazione della carica elettrica Abbiamo già parlato del principio di conservazione della carica elettrica; questo può essere formalizzato considerando una superficie chiusa S all’interno di un materiale conduttore e scrivendo che la carica totale contenuta nel volume racchiuso da S all’istante t + t è uguale alla carica presente all’istante t, cui occorre sottrarre quella in uscita nell’intervallo t.

ΔΔ

Si può riformulare questo concetto in tal modo: ( ) ( )

S

Q t t Q t t J dS+ Δ = −Δ ⋅∫

(porto di là e divido per ( )Q t tΔ portando in seguito questo a ) 0→

Page 28: Fisica LB

0S

dQJ dSdt

⋅ + =∫

Otteniamo in questo modo il principio di conservazione della carica. Applicando artifici puramente matematici, si può ottenere la versione differenziale di questo principio:

(1 - teorema della divergenza: 0V V

ddivJdV dVdt

ρ+ =∫ ∫

V

A ndS divAdVΣ

⋅ =∫ ∫ ) (la carica è scritta come integrale della densità di carica ρ )

(2 - cambio fra integrazione e derivazione) 0V

divJ dVtρ∂⎛ ⎞+ =⎜ ⎟∂⎝ ⎠∫

(la derivata è parziale perché la densità di carica dipende dalla posizione, oltre che dal tempo)

Dunque deve accedere che: 0divJtρ∂

+ =∂

(teorema di continuità della corrente

elettrica). Per correnti stazionarie tale relazione si semplifica in 0divJ = .

Per correnti non stazionarie (ad es. sinusoidali): 0 0Ediv Jt

ε⎛ ⎞∂

+ =⎜ ⎟∂⎝ ⎠ (si è utilizzata la

legge di Gauss). 4.3 – La legge di Ohm Consideriamo un conduttore, per esempio un filo metallico di piccola sezione, i cui estremi vengono collegati ai poli di una pila. Fra i due poli esiste una differenza di potenziale il cui valore è tipicamente dell’ordine del volt; sotto l’azione di questa differenza di potenziale (e del campo elettrico conseguente), gli elettroni di conduzione acquistano una velocità di deriva e nel filo prende a circolare una corrente. Se si cambia la differenza di potenziale agli estremi del filo varia, di conseguenza, anche l’intensità della corrente. Si dimostra sperimentalmente che (a temperatura costante) differenza di potenziale e intensità di corrente sono legate dalla legge lineare:

V RiΔ =

nota come prima legge di Ohm. VΔ è la differenza di potenziale fra il punto a potenziale più elevato e quello a potenziale minore; R è detta resistenza del conduttore (si misura in Ohm [Ω]); i è la corrente circolante nel conduttore. La resistenza elettrica di un conduttore omogeneo, filiforme, di lunghezza l e sezione di area S, può essere scritta separando i contributi della geometria e del tipo di materiale:

RlRS

ρ=

In cui la resistività elettrica Rρ dipende dalla natura del materiale. Tale relazione

viene indicata anche come seconda legge di Ohm. La resistività elettrica dipende dalla temperatura secondo la relazione:

0( ) ( )(1 )R RT T Tρ ρ α= +

in cui α è detto coefficiente di temperatura.

Page 29: Fisica LB

La prima legge di Ohm può anche essere scritta da integrale a locale, utilizzabile con conduttori di forma qualsiasi (e non solo filiformi). Consideriamo ad esempio un cilindretto infinitesimo (altezza = dl, parallela a J ; sezione = dS, perpendicolare a J ) di un conduttore: la sua resistenza sarà pari a:

RdlRdS

ρ= (seconda legge di Ohm).

Indicata poi dV la differenza di potenziale fra le due basi del cilindretto, scriviamo la prima legge di Ohm:

R diRdiS

dld

ρ= =dV

da cui

RdldS

JEdl Sdρ=

quindi

RE Jρ=

(che equivale a 1

CE

σ= J , dove Cσ è l’inverso della resistività e si chiama

conduttività). 4.4 – Modello classico della conduzione Il modello classico della conduzione nei conduttori ohmici (modello di Drude-Lorentz) parte dalla schematizzazione più volte ricordata in cui si assume che in tali materiali, gli elettroni di conduzione si comportino in prima approssimazione come le particelle di un gas racchiuso in un contenitore. Inoltre, questo modello tiene conto della presenza di interazioni fra i portatori di carica e gli ioni del reticolo cristallino. È ragionevole assumere che, in assenza di campo elettrico, a un qualsiasi istante, le velocità dei portatori abbiano, anche a causa delle suddette collisioni, valore

medio pari a zero. In un tempo t (fino a una collisione con il reticolo), la presenza di

un eventuale campo cambia la velocità del generico portatore da a

1v

1v 2 1qEv vm

= + t . Il

valore medio della velocità sarà quindi 2v 2 1qE qEv v tm m

τ= + = , la quale può essere

considerata la velocità di deriva con cui avviene lo spostamento macroscopico collettivo dei portatori di carica nella direzione del campo. Si ha quindi che il vettore densità di corrente risulta pari a:

2

dNqJ Nqv E

= =

Tale relazione mostra che, per azione di E , le cariche mobili acquistano mediamente una velocità proporzionale a E ; in assenza di interazioni col reticolo, invece, l’accelerazione (non la velocità) sarebbe proporzionale al campo. È interessante osservare che nel modello proposto trovano una semplice spiegazione fisica gli effetti termici del passaggio di corrente (effetto Joule): gli elettroni trasferiscono al reticolo l’energia cinetica complessivamente acquistata per effetto del campo, provocando il riscaldamento del metallo in cui circola la corrente e la trasformazione di energia da elettrostatica a termica. 4.5 – Resistenze elettriche Le resistenze utilizzate per la realizzazione di circuiti sono caratterizzate da importanti parametri:

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- il valore della resistenza espresso in ohm; - la tolleranza (massima deviazione tra valore reale e quello nominale); - coefficiente di temperatura; - potenza massima supportata.

È possibile anche creare resistenze “variabili” (reostato) sfruttando la proporzionalità fra resistenza e lunghezza. Col reostato si possono ottenere sia resistenze variabili (con un contatto scorrevole lungo il conduttore), sia variabili differenze di potenziale. Nella costruzione dei circuiti, le resistenze possono essere collegate:

- in serie: res eq. kR R=∑

- in parallelo: res eq. 1 1

kR R=∑ .

Com’è stato discusso in precedenza, il passaggio di corrente attraverso un conduttore ohmico comporta una trasformazione di energia dalla forma elettrostatica a quella termica (effetto Joule): consideriamo infatti una situazione in cui il campo elettrostatico dà origine a una corrente di intensità i che attraversa un qualsiasi elemento di un circuito (un resistore, un motore, una cella elettrolitica…) sottoposto a una differenza di potenziale A BV V VΔ = − . Nel tempo dt l’elemento di circuito è

attraversato da una carica dq = i dt, per cui il lavoro eseguito dal campo è: ( ) ( )A B A BL V V dq i V V dtδ = − = −

Dunque la potenza erogata dal campo è W i V= Δ (si è integrato in dt). Se l’elemento del circuito è una pura resistenza, vale la legge di Ohm , dunque

la potenza risulta data da . Se il fenomeno dura un certo tempo t, durante il quale si mantengono costanti sia R che i, l’energia termica sviluppata è pari a:

V RiΔ =2W Ri=

2Wt Ri t= [J] 4.6 – Generatori di forza elettromotrice Per avere il passaggio di una corrente stazionaria, occorre che il circuito sia provvisto di un dispositivo detto generatore, in cui si originano forze non conservative in grado di mantenere una differenza di potenziale fra i suoi estremi (poli), anche quando questa viene utilizzata per spostare cariche nella parte esterna del circuito. Un esempio di generatore può essere la pila, o la batteria; entrambe sfruttano processi chimici che avvengono fra ciascuno dei poli e il materiale presente fra loro. È caratteristica comune a tutti i generatori elettrici l’esistenza, al loro interno, di forze di origine non elettrostatica (chimica, meccanica, etc…) che, agendo sulle cariche, le separano producendo e conservando fra i due poli una differenza di potenziale. Anche per codeste forze non elettrostatiche, comunque, introduciamo un concetto di campo (campo elettromotore mE ). È un campo non conservativo, quindi diverso

dal campo elettrostatico; sommato insieme a quest’ultimo genera un campo totale pari a:

m sE E E= +

Essendo sE conservativo (come s’è detto): 0sE dr⋅ =∫ .

Il passaggio di corrente, invece, richiede che 0E dr⋅ ≠∫ . Dunque (che è

detta forza elettromotrice del generatore: essa ha lo stesso valore della differenza

di potenziale ai capi del generatore, quando questo non eroga corrente).

E dr fem⋅ =∫(0)V

In un circuito semplice come quello costituito da un generatore e da un resistore, la fem è costituita (a sua volta) dalla somma di (corrente circolante ⋅ resistenza del circuito) e ir (corrente circolante ⋅ resistenza interna del generatore):

iRfem iR ir= + .

Page 31: Fisica LB

4.7 – Leggi di Kirchhoff Lo studio dei circuiti elettrici può essere condotto utilizzando due equazioni dovute a Kirchhoff, note come Legge delle maglie e Legge dei nodi. Per definizione, una maglia è un insieme di rami di un circuito che formano un circuito chiuso; un nodo è un punto di confluenza di due o più rami del circuito.

- Legge delle maglie: circolando in una maglia in uno qualsiasi dei due versi, la somma delle cadute di potenziale relative agli elementi del circuito è nulla;

- Legge dei nodi: in ogni nodo la somma delle correnti entranti è uguale alla somma di quelle uscenti.

Regole per i segni: se in un ramo di resistenza R la corrente è concorde (discorde) con il verso scelto nella maglia, il prodotto iR ha segno positivo (negativo); se un generatore di forza viene attraversato, seguendo il verso scelto nella maglia, nel verso che va dal polo negativo (positivo) a quello positivo (negativo), la forza elettromotrice ha segno positivo (negativo). 4.8 – Misure di corrente, tensione e resistenza Esistono molti strumenti per tali misurazioni; vi sono ad esempio i multimetri, con cui si possono effettuare direttamente misure sia di tensione, sia di corrente, sia di resistenza, collegando semplicemente i terminali dello strumento a due punti del circuito da esplorare, dopo aver scelto il tipo di misura che si desidera effettuare. Oggi questi strumenti sono digitali. Fra gli strumenti analogici troviamo invece i galvanometri e gli amperometri: i primi operano nel campo delle correnti di debole intensità, i secondi nel campo di intensità di correnti più elevate; esistono particolari modalità d’uso di tali strumenti:

- amperometri e galvanometri devono essere utilizzati interrompendo in un punto il circuito e inserendo in serie lo strumento;

- la resistenza interna di amperometri e galvanometri dev’esser la più bassa possibile per ridurre le perturbazioni prodotte dall’inserimento di tale strumento nel circuito attraversato da corrente;

- se la portata dello strumento è inferiore all’intensità della corrente da misurare, lo strumento può essere adattato collegandogli in parallelo una resistenza (shunt).

Per misurare la differenza di potenziale si utilizzano invece i voltmetri, che si possono costruire a partire da amperometri, collegando un serie una resistenza elettrica di valore elevato:

- devono essere collegati in parallelo all’elemento tra i cui estremi si desidera misurare la differenza di potenziale;

- devono avere elevata resistenza elettrica in modo da rendere minima la variazione della differenza di potenziale prodotta dal loro inserimento nel circuito.

4.9 – Fenomeni non stazionari Si è detto che la legge di Kirchhoff delle maglie traduce in altra forma la proprietà del campo elettrostatico di essere conservativo. In condizioni non stazionarie il campo elettrico non gode di tale proprietà e quindi, a rigore, non si potrebbe applicare tale relazione. Tuttavia, in molti casi, si ha a che fare con situazioni quasi stazionarie, per le quali si può considerare che le variazioni nel tempo delle correnti si facciano sentire quasi immediatamente in ogni punto del circuito, in modo che si possa assegnare all’intensità di corrente nei vari punti del circuito un valore comune i (e si possa applicare Kirchhoff). Consideriamo, ad esempio, un circuito RC-serie (generatore di forza elettromotrice = fem; resistenza = R; condensatore = C). Una volta messo in funzione il circuito tramite la chiusura di un contatto, la legge di Kirchhoff permette di scrivere:

Page 32: Fisica LB

0i Vfem R− − =Δ ( = differenza di potenziale fra le armature del condensatore) VΔ

0dqd

eCqf m

tR− − =

Integrando con la separazione delle variabili:

dq dt

C fem q RC=

0 0

q tdq dtC fem q RC

=−∫ ∫

tRCC fem q C fem e

−− =

( ) 1tRCq t C fem e−⎛ ⎞= −⎜ ⎟

⎝ ⎠

Questo risultato mostra che: - al momento iniziale la carica è nulla; - asintoticamente la carica tende al valore ; C fem- la rapidità con cui la funzione tende al valore asintotico dipende dal prodotto

RCτ = che ha le dimensioni di un tempo ed è denominato costante di tempo del circuito).

Derivando rispetto al tempo la funzione q(t) otteniamo la funzione i(t):

( )tRCdq femi t e

dt R−

= = .

Si nota che:

- la corrente ha un valore massimo iniziale: femR

;

- asintoticamente tende a zero con la costante di tempo RC del circuito. Analoghi ragionamenti possono essere fatti per la fase di scarica (riaprendo l’interruttore).

Funzione della carica: ( ) tRCq t C fem e

−=

Funzione della corrente: ( )tRCfemi t e

R−

= −

Page 33: Fisica LB

5.1 – Il magnetismo I fenomeni magnetici elementari, consistenti negli effetti di attrazione di alcuni metalli (in particolare il ferro) da parte della magnetite, sono noti fin dall’antichità. Già nell’antica Grecia (Socrate), e nell’antica Roma (Plinio, Lucrezio), troviamo le prime citazioni di questo fenomeno. I marinai già fin dal XI secolo conoscevano la capacità magnetica della bussola di orientarsi verso il nord, e risale al 1600 (W. Gilbert) l’ipotesi che la Terra si comporti come un gigantesco ago magnetico. Le prime misure rigorose risalgono al 1750 (John Michell) e aumentano di precisione col passare degli anni (1785, Coulomb). Nel 1813 l’esperimento di Oersted rivela che vi è un collegamento fra fenomeni elettrici e fenomeni magnetici, mentre prima di allora questi due mondi erano considerati come separati. Un’importante caratteristica dei magneti è che essi sono sempre formati da due distinti poli, denominati polo nord e polo sud; valgono per essi le stesse regole che caratterizzano il comportamento delle cariche elettriche: poli uguali si respingono, poli diversi si attraggono. Hanno poi un’altra proprietà: dividendo i magneti nel tentativo di separare fra loro i poli nord e sud, si ottengono invece altri due magneti completi. L’impossibilità di separare i due tipi di poli è espressa dalla relazione 0div B = , che analizzeremo in seguito. Come nel caso dei fenomeni elettrici, è conveniente descrivere l’interazione magnetica mediante un campo, chiamato B . Il campo B ha linee di forza chiuse che nascono sempre dal polo nord e terminano nel polo sud. 5.2 – Gli esperimenti di Oersted e Ampére Nel 1813 Oersted dimostrò l’esistenza di un legame profondo fra fenomeni elettrici e fenomeni magnetici, rompendo l’isolamento fra queste due classi di effetti. Facendo circolare una corrente in un filo rettilineo, si accorse che un ago magnetico posto nelle vicinanze si disponeva tangenzialmente a una circonferenza, situata su un piano perpendicolare al filo e avente centro sul filo. Invertendo il verso della corrente, l’ago magnetico ruotava di 180°. Il verso della corrente e quello di B si può ricordare grazie alla regola della mano destra (pollice perpendicolare alle dita tenute chiuse, nel verso della corrente; le altre dita indicano il verso del campo B ). Nel 1814 Ampère eseguì un esperimento utilizzando due fili paralleli percorsi da corrente, in cui era possibile cambiare il verso della corrente in uno dei due: egli osservò che i fili si attraevano se i versi erano gli stessi, si respingevano se le correnti circolavano in versi opposti. Il fenomeno osservato non era quindi di natura elettrostatica. Un altro importante contributo conoscitivo fu dato da Biot e da Savart che, utilizzando un lungo filo percorso da una corrente di intensità i, confermarono il risultato di Oersted relativo alle linee del campo, e determinarono la dipendenza del

campo magnetico da i e dalla distanza r da filo, secondo la legge iB r∝ .

5.3 – Forza di Lorentz e campo magnetico I dati sperimentali rivelano che la forza percepita da una carica q (viaggiante a velocità ) immersa in un campo magnetico v B , nota anche come Forza di Lorentz,

è pari a: . L’unità di misura che definisce l’intensità del campo F qv B= × B è il tesla [T], o il gauss [G] (1 T = 10000 G). Il lavoro compiuto dalla forza di Lorentz è sempre nullo.

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5.4 – Campo magnetico prodotto da correnti stazionarie La legge di Biot e Savart (prima citati), per un campo magnetico prodotto da una corrente stazionaria i che scorre in un filo rettilineo molto lungo, assume la forma:

02

iBr

μπ

=

dove il coefficiente di proporzionalità 0μ è detto permeabilità magnetica del vuoto

e vale 724 10 N

Aπ −⋅ .

Si può trovare questo risultato assumendo che ogni infinitesimo elemento dl di un conduttore percorso da corrente i contribuisca al campo magnetico in un punto P con un campo elementare espresso dalla relazione:

034

dl rdB ir

μπ

×=

(prima Legge elementare di Laplace) Per trovare il campo B totale si faccia un integrale:

034

dl rB dB ir

μπ

×= =∫ ∫

(Legge di Ampère-Laplace) L’intensità del campo B al centro di una spira circolare di raggio R, percorsa da corrente i, è invece la somma di tutti i contributi elementari:

024

dldB iR

μπ

=

Calcolando l’integrale:

02

B dB iRμ

= =∫

Volendo calcolare il valore del campo magnetico su un punto P situato sull’asse della spira a distanza d dal suo centro O (ipotesi: ): d R

- si cerca il contributo elementare di un frammento infinitesimo di spira sul punto

situato sull’asse distante 2 2R d+ : 02 2

4

i dldBR d

μπ

=+

;

- si tiene conto del fatto che tutti i contributi non diretti lungo l’asse z (sta sul piano in cui giace la spira) vengono annullati da un contributo simmetrico e dunque non vanno contati; quelli che davvero influiscono sono

02 2

sin4z

i dldBR d

μ ϑπ

=+

(dove ϑ è l’angolo tra il segmento PO e la congiungente P

e la il punto sulla circonferenza). Tenendo conto che 2 2

sin R

R dϑ =

+:

( )0

32 2 2

4z

Ri dldBR d

μπ

=+

;

- si integra su tutta la circonferenza:

( )2

03

2 2 22zR iB

R d

μ=

+, ma ricordando che

, si ottiene il risultato cercato: d R2

032z

R iBd

μ≈ .

Page 35: Fisica LB

5.5 – Forze magnetiche su circuiti percorsi da corrente L’esistenza di un campo B in un punto dello spazio produce su cariche in moto passanti per quel punto un’azione dinamica dovuta alla forza di Lorentz F qv B= × . Il

fatto che un conduttore, posto in un campo B , non subisca l’azione di alcuna forza se non è percorso da corrente dipende dall’annullamento complessivo di tutte le forze agenti sui singoli portatori di carica, le cui velocità hanno direzioni dirette casualmente. Se invece nel conduttore circola corrente, l’insieme delle forze agenti sulle singole cariche dà origine a una forza complessiva la cui espressione, per un tratto di lunghezza infinitesima dl di un conduttore, è data dalla seconda Legge elementare di Laplace:

dF i dl B= × Da questa relazione si può ricavare anche quella di Biot-Savart: prendiamo il caso particolare di un filo di lunghezza finita (da A a C), integriamo su di esso

C

A

i dlFΓ

B= ×∫

Desideriamo ora ottenere una nuova formulazione della forza complessiva che un circuito (1) percorso da corrente esercita su un secondo circuito (2).

Combiniamo dunque le relazioni 034

dl rd ir

B μπ

×= e i dldF B= × all’interno di quella

appena scritta, per ottenere: 1

2

0 11 32 2 4

dl rir

F i dl μπΓΓ

⎛ ⎞= ×⎜ ⎟⎜ ⎟

×

⎠∫ ∫ .

Portando fuori le costanti: 1

2

0 11 32 24

rμπ

dlir

F i dlΓΓ

⎛ ⎞= × ⎟

×⎜⎜ ⎟⎝

∫ ∫ .

La relazione, una volta integrata, indica la forza che il primo filo (corrente: ; distanza

dal filo due: d ) esercita su un tratto di lunghezza del secondo filo (corrente: ),

diventa:

1il 2i

21

01 2

04 2 2

1 22

F lF i ii i dd

ld π

μπ

μΓ

= × = =∫ .

Quest’ultima relazione è utilizzata per definire l’unità di misura dell’intensità della corrente elettrica: l’ampère è l’intensità di quella corrente che, circolando in due lunghi fili paralleli posti a distanza di 1 m l’uno dall’altro, produce su ciascuno dei due

una forza per unità di lunghezza di . 72 10 /N m−⋅ 5.6 – Le sorgenti di B e la sua divergenza Come s’è visto, siccome risulta impossibile separare il polo magnetico nord da quello sud, le linee di flusso di B hanno una struttura del tutto simile a quella delle linee del campo E del dipolo elettrico. Per una qualunque superficie chiusa SC che contenga al proprio interno un ago magnetico, il numero delle linee uscenti uguaglia quello delle linee entranti, dunque si può dire che:

( ) 0SC BΦ =

Che può essere espressa (sotto opportune condizioni) nella forma locale: 0B∇⋅ =

Page 36: Fisica LB

5.7 – Legge di Ampère e rotore di B La legge di Ampère afferma che, scelta una qualsiasi linea chiusa l lungo la quale

calcolare la circuitazione di B ad essa non danno alcun contributo le correnti non concatenate con la linea, mentre contribuiscono tutte quelle concatenate (che attraversano “l’interno” della linea). Il risultato finale è espresso in tale modo:

0

con

kk

B dl iμ⋅ = ∑∫

(ciascuna corrente concatenata è positiva se il verso della circuitazione è antiorario rispetto al suo verso, negativa nel caso contrario)

Tale legge è valida in generale, anche se i conduttori in cui circolano le correnti che generano il campo non sono rettilinei. La legge di Ampere può essere espressa in forma differenziale usando il teorema di Stokes, il quale afferma che il flusso del rotore di un campo vettoriale attraverso una particolare superficie è uguale alla circuitazione del campo lungo la frontiera della superficie stessa, cioè che

S

A dr rotA dSΓ ⋅ = ⋅∫ ∫ ,

in cui il verso della normale alla superficie S è tale che rispetto ad esso il verso positivo per il calcolo della circuitazione risulti antiorario. Sfruttiamo questa relazione per la circuitazione di B , ricordando che dJ Nqv=

(densità di corrente elettrica, sfruttata qui per esprimere la corrente totale):

0S S

rotB dS J dSμ⋅ = ⋅∫ ∫

(per additività) ( )0 0S

rotB J dSμ− ⋅ =∫

dunque 0rotB Jμ=

Il teorema di Stokes può inoltre essere riformulato e trasformato in modo da ottenere la relazione Sf dl f dSΓ = − ∇ ×∫ ∫ .

Un’interessante applicazione del teorema d’Ampère consiste nel calcolo del campo B , prodotto da un solenoide percorso da una corrente d’intensità i. Il solenoide viene costruito avvolgendo in modo elicoidale un filo attorno a un cilindro: i parametri che lo caratterizzano sono la sua lunghezza totale L e il numero N delle spire avvolte. Considerando un solenoide molto lungo (escludendo la zona immediatamente vicina ai bordi e considerando il solenoide stesso come una successione di spire circolari piane estremamente vicine l’una all’altra), utilizziamo una linea chiusa rettangolare tutta quanta esterna ad esso: non esistendo correnti concatenate con tale linea, il campo magnetico è uguale per ogni lato di questa linea, e dunque il campo fuori dal solenoide è uniforme (e pari a zero). Anche il campo all’interno del solenoide è uniforme (come si può dimostrare con una linea chiusa completamente inserita nello stesso). Calcoliamo invece la circuitazione di B lungo un circuito chiuso uguale ai precedenti, ma con un lato all’interno e uno all’esterno del solenoide. Stabilito un verso della corrente, tenuto conto che il numero di spire concatenate al

circuito chiuso è NlL

( l è la lunghezza dei lati del circuito scelto e paralleli al

solenoide) e che il campo esterno è nullo, applichiamo il teorema di Ampère e otteniamo:

Page 37: Fisica LB

0

con

kk

B dl iμ⋅ = ∑∫ int 0NB l lL

μ= i

Indicato con n il rapporto NL : int 0B niμ= (verso: regola della mano destra).

Abbiamo evidenziato che: - nell’attraversare la superficie del solenoide si va incontro a una discontinuità

di B ; - il solenoide è l’analogo del condensatore piano, essendo uniforme B al suo

interno; esso è dunque un sistema particolarmente adatto per valutare in modo semplice la densità di energia del campo magnetico.

5.7.1 – Calcolo del campo magnetico nel caso di un cilindro Consideriamo un cilindro di lunghezza indefinita, raggio R, percorso da una corrente di intensità i, avente densità omogenea su tutta la sezione del cilindro. Poniamo che non siano presenti altre correnti, così che il sistema presenti simmetria cilindrica attorno al proprio asse. La densità di corrente ha modulo

2I IJS Rπ

= = ; per i punti esterni al cilindro calcoliamo la circuitazione di B su una

circonferenza di raggio r > R: 02B dl rB iπ μ⋅ = =∫ . Dunque B dipende dalla

distanza dall’asse ed è pari a 0 2iBr

μπ

= . Per i punti interni al cilindro (r < R)

l’intensità di corrente concatenata è quella che attraversa una circonferenza di

raggio r, ovvero 22

2ri J r i

Rπ= = . Applichiamo il teorema d’Ampère:

0

con

kk

B dl iμ⋅ = ∑∫ 0 22 irrBR

π μ= 0 22irBR

μπ

=

Dunque, all’interno del cilindro il campo B aumenta linearmente con r fino alla superficie, dove raggiunge il valore massimo e quindi inizia a diminuire come 1/r all’esterno.

5.8 – Campo magnetico prodotto da una carica in moto L’esistenza di un campo magnetico prodotto dalla corrente che circola in un filo è evidentemente collegata alla presenza, nel conduttore, di cariche in movimento. L’evidenza sperimentale che in assenza di corrente non vi sia alcun campo, malgrado gli elettroni siano animati di velocità di modulo elevato nel loro moto d’agitazione termica, può essere conseguenza di due fattori: il campo prodotto da una singola carica dipende linearmente dalla sua velocità e le velocità delle varie cariche sono distribuite in modo casuale.

Per esplicitare tale dipendenza, conviene esprimere 034

dl rdB ir

μπ

×= in termini della

densità di corrente , collegata alla velocità di deriva delle cariche mobili. Considerata

una superficie elementare dS perpendicolare a

JJ , e tenendo conto di , si ha

allora che: dJ Nqv=

( di l = = ) d ii

J dVJ dS dl q N dV v qv= =∑

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Dunque possiamo riscrivere 034

dli rr

μ ×dB =π

come 034r

rdVdB Jμ

π×

= e poi

034

k

k

qv rdBr

μπ

×=∑ . Dunque, per un singolo portatore di carica, l’espressione del

campo magnetico (avente velocità v ): 034

qv rBr

μπ

×= . Qui, r è il vettore posizionale,

riferito alla carica q, del punto P in cui si desidera calcolare il campo. 5.9 – Moto di particelle cariche in campi magnetici Uniamo le relazioni e F qE= F qv B= × : otteniamo ( )f q E v B= + × (anch’essa indicata come Forza di Lorentz). A partire da questa relazione, se sono noti i campi, utilizzando il secondo Principio della dinamica, si può determinare l’accelerazione e, da questa, l’equazione del moto. Osserviamo anzitutto che la Forza di Lorentz compie lavoro nullo: la forza è infatti sempre perpendicolare allo spostamento e, di conseguenza, nei moti di questo tipo si conserva l’energia cinetica e resta costante il modulo (ma non la direzione) del vettore velocità. Consideriamo una situazione in cui una particella dotata di carica q penetra con velocità in una regione dello spazio in cui è presente un campo v B uniforme, con v

perpendicolare a B . La forza che agisce sulla carica, di modulo qvB , e diretta

perpendicolarmente a B e , dà origine ad un’accelerazione di modulo v qvBam

=

costante, e di direzione perpendicolare a v . Per indicare, graficamente, una linea di campo magnetico entrante, si usa il simbolo ⊗, altrimenti (se uscente) si usa . Il moto ha quindi le caratteristiche tipiche di un moto circolare uniforme, con

accelerazione (solo) centripeta pari a 2v qar m= =

vB. La traiettoria risulta quindi un

arco di circonferenza, di raggio mvrqB

= .

Se dunque una particella carica si sta muovendo con velocità perpendicolare al

campo

vB , in una regione in cui B è uniforme, il suo moto è circolare uniforme, con

pulsazione 0v qBr m

ω = = .

La frequenza di questo moto prende il nome di frequenza di ciclotrone 02ωυπ

= ,

derivato da quello della macchina acceleratrice di particelle (ciclotrone) in cui trova applicazione questa proprietà del moto. Il ciclotrone, il cui primo esemplare fu costruito da Ernest Lawrence nel 1932, è costituito da due armature metalliche aventi la forma della lettera D, poste nel vuoto in una regione in cui è presente un campo B uniforme, prodotto da un elettromagnete. Al centro una sorgente emette ioni che prendono a ruotare su orbite

circolari con frequenza 02 2

qBm

ωυπ π

= = . Con la stessa frequenza viene applicata fra le

due armature una differenza di potenziale alternata, il cui valore è dell’ordine di 50-100 kV. Così la particella, ogni volta che transita nella regione compresa fra i due

Page 39: Fisica LB

elettrodi, acquista un’energia equivalente al prodotto della caria per la differenza di potenziale attraversata: il raggio di curvatura aumenta, essendo aumentata la velocità, per cui la traiettoria risulta una successione di semicirconferenze, di raggio via via crescente. Un altro esempio di applicazione della ( )f q E v B= + × è l’esperimento eseguito nel

1897 da Thomson, col quale venne misurato il rapporto em fra la carica e la massa

dell’elettrone e determinato il segno negativo di tale carica. Thomson utilizzò un tubo a raggi catodici, dotato di due sistemi di deflessione, in grado di produrre nella stessa regione dello spazio un campo elettrostatico e un campo magnetico, reciprocamente perpendicolari. In assenza dei due campi, il fascio di elettroni formava un’immagine puntiforme sullo schermo del tubo, che con un campo elettrostatico diverso da zero si spostava di un tratto misurabile. Ciò permise a Thomson (vedi par. 1.7.6.1) di determinare, conoscendo la geometria del sistema, lo spostamento del fascio all’uscita delle placchette di deflessione. Com’è stato dimostrato, esso risulta:

2 22

20

1 12 2

eE ly am v

τ= =

Successivamente, egli regolò l’intensità della corrente in modo da produrre un campo elettromagnetico che, bilanciando l’effetto del campo E , riportasse il fascio di elettroni nella posizione originale. Dalla ( )f q E v B= + × è immediato stabilire la relazione

esistente fra le intensità dei campi e il modulo della velocità 0EvB

= che, combinata

con la 2 2

20

12

eE lym v

= , dà come risultato: 2 22e y

mE

B l= .

Il valore trovato da Thomson è molto vicino a quello delle misurazioni più recenti. 5.10 – Effetto Hall Esiste una verifica sperimentale del fatto che siano gli elettroni a muoversi nei metalli: essa sfrutta quel particolare fenomeno chiamato Effetto Hall. Consideriamo un sottile conduttore metallico di forma rettangolare, percorso da una corrente di intensità i e immerso in un campo B diretto perpendicolarmente alla lamina; quest’ultimo esercita ovviamente la forza di Lorentz ( )f q E v B= + × sulle cariche in movimento dal punto di potenziale maggiore al punto di potenziale minore, ai due estremi del conduttore. L’azione complessiva del campo magnetico sui portatori di carica presenti in un volume dV è dunque pari a:

HJE B

Nq= ×

Il campo magnetico ha dunque l’effetto di deviare le nostre cariche da un lato all’altro della lamina conduttrice, nello stesso tempo in cui esse si muovono verso il potenziale minore (ad un estremo). Tenendo conto che ha in ogni caso lo stesso verso (da un estremo all’altro del conduttore, tra i quali esiste la differenza di potenziale) e che tale caratteristica ha anche la forza di Lorentz (dipende sia dalla velocità che dalla carica, ma nei casi che andremo ad esaminare cambiano entrambe queste grandezze, dunque il verso della

J

Page 40: Fisica LB

forza è sempre lo stesso), si possono ora formulare due ipotesi, una sola delle quale è corretta:

- la carica dei portatori è positiva: in questo caso le cariche positive vengono sospinte verso uno dei due lati, generando una differenza di potenziale fra questi;

- la carica dei portatori è negativa: le cariche negative vengono sospinte verso uno dei due lati (lo stesso del caso precedente), generando una differenza di potenziale (ma opposta a quella del caso precedente) fra questi.

Comunque sia, tale spostamento trasversale ha termine nel momento in cui si raggiunge una situazione di regime, in cui le cariche così accumulate danno luogo ad un campo elettrostatico SE , uguale e opposto al campo HE .

A quel punto, misurando la differenza di potenziale fra i due bordi della lamina è possibile capire quale dei due casi precedentemente illustrati sia quello veritiero. 5.11 – Equivalenza tra spire ed aghi magnetici Si mostrerà che, purché esista la semplice relazione:

m iSk= Fra momento di dipolo magnetico m di un magnete e il prodotto dell’intensità di

corrente i per l’area S della spira ( k è il versore perpendicolare al piano della spira, che vede la corrente come antioraria), magnete e spira si equivalgono. Tale equivalenza ha due aspetti:

- spira e magnete producono lo stesso campo B ; - posti in uno stesso campo B , subiscono la stessa azione meccanica.

Dimostriamo anzitutto il primo punto: il campo prodotto da una spira (vedi 5.4) è 2

032z

R iBd

μ≈ , che diventa 0

32zAiBd

μπ

≈ (moltiplicando per π al numeratore e al

denominatore, e tenendo conto che 2R π è l’area A della spira). Ricordiamo però che

(S sta per superficie, quindi qui è la nostra A), dunque la relazione diventa: m iSk=0

32zmBd

μπ

=

(si ricordi che si riferisce a un punto P distante d dal centro della spira, col verso dell’asse z scelto in modo che rispetto ad esso la corrente circoli in verso antiorario)ù

Ora cerchiamo il campo dell’ago magnetico: si definisce intensità p di un polo il rapporto fra i moduli della forza agente su di esso in un dato campo e l’intensità di questo. Otteniamo dunque che il modulo del campo B , prodotto dal polo di intensità

1p , risulta 0 124

pBr

μπ

= (verso: uscente dal polo nord, entrante nel polo sud).

Come fatto nel paragrafo 5.4, calcoliamo ora il campo B prodotto da un ago magnetico di lunghezza l in un punto del suo asse (distante d, dove ). d lScegliamo un sistema di riferimento con l’origine O nel punto medio del dipolo e l’asse z diretto dal polo nord verso l’esterno; in analogia con la definizione del momento di dipolo elettrico, definiamo il momento di dipolo magnetico come il vettore di intensità m = pl, parallelo all’ago magnetico, col verso orientato dal polo sud al polo nord (come dire: da carica negativa a positiva). In un punto P dell’asse z, distante d

dall’origine O, la componente

m

zB del campo risulta: 02 24 ( / 2) ( / 2)z

p pBd l d l

μπ⎛ ⎞

= −⎜ ⎟⎜ ⎟− +⎝ ⎠.

Page 41: Fisica LB

Siccome per ipotesi , possiamo trascurare al denominatore tutto ciò che riguarda l e scrivere:

d l

2 20

4 4( / 2) ( / 2)

4zp d l p d lB

d dμπ⎛ ⎞+ −

≈ −⎜ ⎟⎜ ⎟⎝ ⎠

Un’altra approssimazione consiste nel trascurare, al numeratore, rispetto a l ; si

ottiene:

2l0 0

4 32

4 2zpld mBd d

μ μπ π

≈ ≈ .

Dunque, aghi e spire si equivalgono per quanto riguarda il campo generato. Esaminiamo ora il secondo aspetto dell’equivalenza, quello relativo al comportamento di aghi e spire posti in un campo B uniforme. A partire dalla relazione M p E= × , che

esprime il momento meccanico M agente sul momento di dipolo elettrico p situato in

un campo esterno , possiamo per analogia scrivere il momento meccanico E M che agisce sul momento di dipolo magnetico m situato in un campo esterno B come:

M m B= × Se si tiene presente (qui, senza dimostrazione) che una spira di area S, percorsa da una corrente di intensità i, subisce in un campo uniforme B l’azione di un momento meccanico M iS B= × , ne segue che m iS= (modulo S : area della spira; direzione: perpendicolare al piano della spira, verso tale che la corrente circoli in direzione antioraria) e dunque ago e spira subiscono da un campo esterno B le stesse azioni meccaniche (la m era tra l’altro data per ipotesi all’inizio del paragrafo). iS= 5.12 – Riassumendo Campo generato da:

- filo cilindrico percorso da corrente: 022 i

iB rR

μπ

=

- solenoide: 0B niμ=

- toroide: 02

NiBr

μπ

=

- lamina piana: 02JB μ

=

- doppia lamina piana: 0B Jμ=

Page 42: Fisica LB

6.1 – La legge di Faraday dell’induzione Fu formulata nel 1831, ma trovata indipendentemente sia da Faraday che da Henry e nello stesso periodo. Per anni, validi ricercatori avevano cercato inutilmente di dimostrare che, agli effetti magnetici prodotti da una corrente elettrica e rilevati per la prima volta da Oersted, dovessero corrispondere effetti (di interazione) provocati da campi magnetici sulle cariche elettriche. Faraday per primo realizzò le basi sperimentali necessarie a comprendere che le forze di natura elettrica e quelle magnetiche rappresentano aspetti differenti di un’unica interazione. Con uno dei suoi esperimenti, egli dimostrò che il movimento di una calamita, nelle vicinanze di un circuito elettrico, produceva una corrente; analoghi effetti si osservavano tenendo fermo il magnete e muovendo la spira. Tale risultato ha un’importanza straordinaria, non solo sul piano della conoscenza, ma anche dal punto di vista tecnologico, perché è alla base del funzionamento dei generatori elettrici, che permettono di ottenere correnti elettriche facendo ruotare un circuito in prossimità di una calamita. Nel tentativo di ottenere le leggi che regolano i fenomeni che stava studiando, egli costruì il primo motore elettrico. Con un’altra serie di esperimenti, Faraday mise in evidenza che, utilizzando due avvolgimenti formati da numerose spire e schematizzati con due spire affacciate l’una all’altra, chiudendo il contatto A che fa circolare corrente nella prima di esse, il galvanometro G, inserito nel circuito della seconda, registra un passaggio di corrente (indotta). Lo stesso fenomeno si manifesta quando il contatto A viene aperto, interrompendo la circolazione della corrente nella prima spira. In quest’ultimo caso, il galvanometro indica che il verso della corrente è opposto a quello della corrente osservata alla chiusura del circuito. Il punto fondamentale è che tali fenomeni si manifestano solo nella fase in cui la corrente del primo circuito non è stazionaria; nella situazione stazionaria, infatti, Faraday osservò che il galvanometro non segnava il passaggio di alcuna corrente indotta. Si tratta, in fondo, di effetti analoghi a quelli che si verificano avvicinando o allontanando un magnete da una spira; solo mentre il magnete è in moto si osserva passaggio di corrente, il cui verso di circolazione nella spira dipende da quello in cui si sta muovendo il magnete. Le osservazioni sperimentali sopra descritte portarono Faraday alla conclusione che tutti gli effetti osservati sono dovuti alla variazione temporale del flusso ( )BΦ del campo magnetico concatenato con la spira. Il verso in cui circola la corrente indotta è tale che il campo magnetico da questa a sua volta generato si opponga alla variazione che l’ha prodotto (Legge di Lenz). La circolazione di una corrente nella spira dimostra l’esistenza di una forza elettromotrice (indotta) prodotta dalla variazione del flusso. L’analisi quantitativa dei risultati sperimentali porta a stabilire la Legge dell’induzione:

( )ind

d BfemdtΦ

= −

Il segno negativo esprime in modo formale la legge di Lenz. Va posta attenzione al fatto che tale segno non ha, in realtà, carattere assoluto, essendo condizionato dal modo in cui si fissa il versore della superficie delimitata dalla spira.

- versore quello determinato dal corrente positiva circolante in senso antiorario lungo (ad es.) una spira;

n

- corrente indotta i: si guardi la direzione delle linee di forza del campo magnetico (entranti o uscenti);

o il magnete si avvicina (direzione n ) con linee di forza entranti nella spira: la corrente ha senso orario (con la regola della mano destra, la corrente indotta “segue” il moto del magnete);

Page 43: Fisica LB

o il magnete si allontana (direzione - n ) con linee di forza entranti nella spira: la corrente ha senso antiorario (con la regola della mano destra, la corrente indotta “segue” il moto del magnete);

o il magnete si avvicina (direzione n ) con linee di forza uscenti dalla spira: la corrente ha senso antiorario (con la regola della mano destra, la corrente indotta “si oppone” al moto del magnete);

o il magnete si allontana (direzione -n ) con linee di forza uscenti dalla spira: la corrente ha senso orario (con la regola della mano destra, la corrente indotta “si oppone” al moto del magnete).

6.2 – Induzione dovuta al moto relativo Consideriamo una situazione di flusso tagliato, quale può verificarsi estraendo con velocità costante v una spira rettangolare di lati a ed l dal traferro di un

elettromagnete che produce un campo B uniforme, diretto perpendicolarmente al piano della spira. A causa di tale traslazione, gli elettroni presenti nel conduttore metallico, in media fermi rispetto alla spira, acquistano tutti la medesima velocità di trascinamento . Se consideriamo tutti i portatori di carica che si trovano in un volumetto elementare del conduttore, il campo elettromotore “macroscopico” è rappresentato da

v

emE v B= × . Tale campo non produce alcun effetto macroscopico sui

lati paralleli alla velocità , ma sugli altri due (quelli perpendicolari) vengono a formarsi differenze di potenziale

vV vBlΔ = . Quando però la spira è completamente

immersa nel campo B la circuitazione lungo di essa risulta nulla, e tale è anche la forza elettromotrice indotta, perché queste differenze di potenziale si oppongono e si annullano. Se la spira inizia ad uscire dal campo, la circuitazione di emE risulta diversa da zero, e

indfem vBl= . La scelta del verso della circuitazione determina quello della normale n

alla superficie della spira; indicata con x la lunghezza della parte di spira ancora immersa nel campo (riferita ai lati paralleli a v ), il flusso del campo attraverso la

superficie della spira risulta BlxΦ = (lx è l’area della spira ancora immersa in B ). Se ne facciamo la derivata temporale:

d dxBl Bdt dt

lvΦ= = −

(il – è dovuto al fatto che x diminuisce nel tempo)

Utilizzando la legge di Faraday si ha dunque che ( )inddfem vBl vBldtΦ

= − = − − = (che è lo

stesso risultato ottenuto la forza elettromotrice mediante la forza di Lorentz). La circuitazione del campo elettromotore è però diversa da zero e la spira Γ diventa sede della forza elettromotrice indotta: ( )indfem v B dr

Γ

= × ⋅∫ .

La corrente che si forma si “oppone” all’estrazione della spira dalla regione in cui è presente il campo magnetico, e tende ad “incrementare” il flusso del campo magnetico (che di contro diminuisce, perché diminuisce l’area immersa). Tale risultato è valido per il caso generale di una spira indeformabile di forma arbitraria. Infine, il lavoro compiuto dalla forza per estrarre la spira dal campo risulta uguale all’energia termica dissipata per effetto Joule nella spira. Il flusso tagliato è un meccanismo che, nei generatori elettrici, è alla base delle trasformazioni di energia dalla forma meccanica a quella elettrica. La parte in movimento, dovendo rimanere confinata all’interno della macchina, deve necessariamente ruotare attorno ad un asse fisso. Schematizziamo la situazione

Page 44: Fisica LB

considerando una spira rettangolare, avente lati di lunghezza a ed l (lato l parallelo all’asse di rotazione, perpendicolare al campo B ), che ruota con velocità angolare ω attorno a un asse fisso passante per i punti medi dei lati di lunghezza a, all’interno di un campo magnetico uniforme B . Le forze di Lorentz agenti sulle cariche mobili presenti nei due conduttori di lunghezza a sono dirette perpendicolarmente ai conduttori e quindi non danno alcun contributo alla forza elettromotrice (non circolano!). Le cariche di conduzione presente invece nei tratti di lunghezza l si

muovono rispetto al campo con velocità di modulo 2

av ω= ; se ϑ è l’angolo tra i vettori

(= velocità tangenziale istantanea di rotazione della spira) e v B , il campo

elettromotore derivante dalla forza di Lorentz risulta emev BE

e− × v B= = ×−

, diretto

parallelamente ai lati di lunghezza l. Di conseguenza, il modulo del campo è dato da sinemE vB ϑ= (massimo quando la v è perpendicolare a B ). La differenza di

potenziale agli estremi del tratto di lunghezza l è dunque sinV vBl ϑΔ = . Sul lato parallelo si verifica un effetto analogo, e poiché i due campi elettromotori agenti nei due lati paralleli sono opposti, i loro contributi alla circuitazione si sommano, dando come risultato: 2 2 sinfem V vBl ϑ= Δ = . Tenendo conto del valore di (= v / 2aω ), si ottiene: sin sinfe alm Bω ϑ ω ϑΦ= = , dove BalΦ = è il flusso massimo del campo

magnetico attraverso la superficie della spira (che si ha quando B e il versore normale alla spira normale alla spira sono paralleli e concordi). nAl variare di ϑ nel tempo, sinϑ assume valori positivi e negativi, per cui se la spira è interrotta in un punto e ruota con velocità angolare costante, fra i due estremi si ottiene una forza elettromotrice che varia nel tempo con legge

0 sinfem fem tω=

Essa non è continua, ma alternata, e il suo verso cambia nel tempo con la stessa frequenza di rotazione della spira. Se tale spira non è interrotta, in essa circola corrente con intensità e verso che cambiano nel tempo secondo la legge

0 sinfem tfemi R Rω= =

6.3 – Induzione per trasformazione Consideriamo ora le situazioni in cui le variazioni di flusso attraverso una spira Γ ferma nel laboratorio siano dovute esclusivamente alla variazione nel tempo del campo magnetico nella zona occupata dalla spira. Se il campo magnetico è generato da circuiti rigidi percorsi da correnti, mantenuti in posizioni fissate nel laboratorio, tali variazioni sono dovute a variazioni nel tempo delle intensità delle correnti. Per la legge di Faraday la forza elettromotrice indotta è data da

( ) ( )traemind

S

d B dfem E dr B dSdt dt

Γ

Φ= ⋅ = − = − ⋅∫ ∫

ove l’integrale va calcolato su una qualunque superficie S che si appoggia alla spira Γ .

Dato che quest’ultima è fissa, tale superficie è indipendente dal tempo e quindi ( )BΦ

può cambiare solo in dipendenza dall’eventuale variazione nel tempo di B . In altri

termini: ( )traind

S

Bfem dSt

⎛ ⎞∂= − ⋅⎜ ⎟∂⎝ ⎠∫ .

Page 45: Fisica LB

Per il teorema di Stokes si ha che: ( )( )traem emind

S

fem E dr E dSΓ

= ⋅ = ∇× ⋅∫ ∫ .

Da questa relazione si può dedurre (per confronto) che il campo elettromotore

soddisfa la relazione emBEt

∂ dS∇× = − ⋅∂

. D’altra parte, tenendo conto della discussione

fatta nel paragrafo precedente, il campo elettromotore agente nella presente situazione, in cui il conduttore è fisso, non è associabile alla parte magnetica della forza di Lorentz, ma a un campo elettrico indotto indicato con iE , per il quale

iS

BE dr dSt

Γ

⎛ ⎞∂⋅ = − ⋅⎜ ⎟∂⎝ ⎠

∫ ∫

i iBrotE Et

∂≡ ∇× = −

In diversi casi, il calcolo del campo elettrico indotto dalle variazioni nel tempo del campo magnetico può essere facilitato dalla somiglianza delle equazioni valide per

a quelle valide per un campo magnetico stazionario iE stazB . Infatti, entrambi i campi

hanno divergenza nulla (non esistono cariche sorgenti per iE ) e nelle equazioni

relative ai rotori:

0Jstazor tB μ= i ir t Bo E E≡ ∇× =t

∂−∂

il vettore Bt

∂−∂

ha per lo steso ruolo del vettore iE 0Jμ per stazB .

6.4 – Rotore di E In generale, un campo elettrico avrà anche il contributo di una parte elettrostatica

(per la quale E

SE 0SE∇× = ); quindi, la validità sperimentale della Legge di Faraday

implica anche la relazione: BrotE Et

∂≡ ∇× = −

Tale equazione risulta valida, in ogni punto di regolarità dei campi, in presenza di un campo magnetico variabile nel tempo, anche in assenza di un circuito elettrico. Ad essa corrisponde la forma integrale:

S

BE dr dSt

Γ

⎛ ⎞∂⋅ = − ⋅⎜ ⎟∂⎝ ⎠

∫ ∫

(valida per ogni linea geometrica chiusa Γ ) Le due equazioni ora esaminate rappresentano una nuova e fondamentale legge dell’Elettromagnetismo, e sostituiscono le leggi (solo statiche):

S

BE dr dSt

Γ

⎛ ⎞∂⋅ = − ⋅⎜ ⎟∂⎝ ⎠

∫ ∫ 0E dr⋅ =∫

BrotE Et

∂≡ ∇× = −

∂ 0rotE =

Mostrano inoltre che un campo elettrico può essere prodotto non solo da cariche elettriche, ma anche da campi magnetici variabili nel tempo.

Page 46: Fisica LB

6.5 – Mutua induzione e autoinduzione La legge di Faraday stabilisce una connessione fra le variazione dell’intensità di corrente in un circuito e gli effetti che esse producono in circuiti posti nelle vicinanze o nel circuito stesso. I fenomeni di induzione elettromagnetica non sono stazionari e quindi, in linea di principio, per il calcolo del campo magnetico non potrebbero essere utilizzate le stesse relazioni discusse nel capitolo 5 per i campi magnetici stazionari. Tuttavia, si può dimostrare che gli errori indotti dall’uso delle leggi della magnetostatica nel calcolo di flussi e campi sono trascurabili (purché essi non cambino molto rapidamente nel tempo). Teniamo presente questa premessa nei casi che esaminiamo ora: abbiamo due circuiti, con il primo concatenato nel secondo. Il flusso del campo 1B (prodotto dalla

corrente di intensità , circolante nel circuito 1) concatenato col circuito 2 si scrive

allora come:

1i

2 1 12 1( )B M iΦ = . 12M è detto coefficiente di mutua induzione (o mutua

induttanza). In modo del tutto analogo, si può scrivere il flusso concatenato col circuito 1, dovuto al campo 2B (prodotto dalla corrente di intensità , circolante nel

circuito 2):

2i

1 2 21 2( )B M iΦ = .

Si vedrà che vale la relazione 12 21M M M= = . L’unità di misura di M è l’Henry [H].

Unendo questa definizione alla legge di Faraday, è possibile esprimere la forza elettromotrice indotta dalle variazioni temporali della corrente che circola il un circuito vicino:

difem Mdt

= −

6.5.1 – Solenoide

A titolo d’esempio, consideriamo la situazione in cui un solenoide formato da N avvolgimenti, ciascuno di area A, è collocato al centro di un secondo solenoide più lungo, di lunghezza , costituito da avvolgimenti attorno ad un cilindro,

avente sezione di area S > A. Sl SN

Si vuole calcolare il coefficiente di mutua induzione del primo solenoide sul secondo, nell’ipotesi che i due sistemi abbiano gli assi coincidenti. Sfruttiamo la proprietà 12 21M M M= = per trovare M, ad esempio, come coefficiente di mutua

induzione del solenoide più grande su quello più piccolo. Ci serve il flusso del campo prodotto dal solenoide più grande su quello più piccolo (il quale è concatenato con N avvolgimenti di area A del solenoide più piccolo):

0( ) S

S

N il

B ANB NA μΦ = = dato che 0S

S

NB il

μ= ;

siccome 2 1 12 1( )B M iΦ = 2 112

1

( )B Mi

Φ= possiamo dire che

( )0

S

S

B ANNMi l

μΦ

= = .

Naturalmente, se in un circuito varia l’intensità di corrente, si ha anche una variazione del flusso magnetico concatenato con il circuito stesso. In questo caso si definisce un coefficiente di autoinduzione L, spesso chiamato anche induttanza, legato al flusso del campo magnetico dalla relazione ( )B LiΦ = [H].

Page 47: Fisica LB

Un circuito percorso da corrente di intensità variabile nel tempo diventa sede di una forza elettromotrice che si oppone alla variazione che l’ha generata e che è legata a

questa dalla relazione: difem Ldt

= − .

6.5.2 – Solenoide (II) Calcoliamo ora l’induttanza di un lungo solenoide di lunghezza , costituito da

avvolgimenti attorno ad un cilindro avente sezione di area A, nell’ipotesi in

cui si possa considerare il solenoide come infinito: ciò equivale a supporre che il campo vicino ai bordi del solenoide abbia lo stesso valore che ha al centro (sia

cioè uniforme). Assumiamo dunque

Sl

SN

0S

S

NB il

μ= ovunque, internamente al

solenoide, e valutiamo il flusso complessivo moltiplicando l’intensità del campo

per l’area A delle spire e per i loro numero complessivo ( )2

0: SS

S

ANN Bl

μΦ = i .

Ricordando che ( )B LiΦ = , si ottiene per L il valore: ( ) 2

0S

S

B ANi l

μΦ

= .

Se i circuiti coinvolti sono più di due, allora in ciascuno di essi si manifestano fenomeni sia di autoinduzione che di mutua induzione. In tale caso, per il primo di essi potrà

essere scritta la forza elettromotrice indotta nella forma: 1 21 1

di difem L Mdt dt

= − − .

6.5.3 – Correnti di Foucault Le correnti di Foucault, dette anche correnti parassite, sono un esempio di correnti indotte che compaiono quando cambia nel tempo il flusso di un campo magnetico attraverso un conduttore. Gli effetti di tali correnti mostrano esplicitamente il significato della Legge di Lenz. Una sperimentazione efficace potrebbe consistere nel far oscillare un pendolo costituito da un conduttore appeso a un filo in una regione in cui è presente un campo magnetico. Il campo magnetico entro cui si muove il pendolo può essere quello generato da un elettromagnete. Inizialmente si fa oscillare il sistema a elettromagnete spento; quando però l’elettromagnete viene attivato, si osserva un rallentamento del pendolo: la variazione di flusso magnetico concatenato ha generato nel conduttore piccole spire di corrente, naturalmente con verso tale da opporsi alla variazione del flusso. Dal punto di vista energetico, il rallentamento è dovuto a dissipazione dell’energia meccanica: le correnti indotte, infatti, possono sviluppare calore per effetto Joule, energia che verrà sottratta all’energia meccanica dell’oscillazione.

6.6 – Induttanze in serie e in parallelo (in breve, vedi riassunto elettrotecnica) Induttori / induttanze: alcuni componenti circuitali caratterizzati (es. solenoidi) da una significativa (e nota) induttanza. Induttanze in serie: K

KL L=∑ ,

Induttanze in parallelo: 1 1

KKL L=∑ .

6.7 – Densità di energia del campo magnetico Il fatto che per variare l’intensità della corrente in un circuito sia necessario contrastare la forza elettromotrice autoindotta fa comprendere che occorre un lavoro

Page 48: Fisica LB

dall’esterno, ad opera di un generatore di forza elettromotrice: al termine dell’operazione, l’energia così trasferita e non altrimenti dissipata, deve ritrovarsi da qualche parte, sotto forma di energia potenziale. Consideriamo ad esempio un’induttanza L, percorsa da una corrente di intensità i variabile nel tempo, a partire da una situazione in cui la corrente è nulla. Ai capi dell’induttanza si manifesta una

forza “controelettromotrice” data dalla legge di Faraday: inddifem Ldt

= − .

A questa corrisponde un lavoro: ind indL fem dq fem i dtδ = = (quando il circuito è

attraversato da una carica elementare dq). Dall’esterno contro tale campo si deve quindi compiere il lavoro:

est diL L L i dt Li didt

δ δ= − = =

Integrando fino al raggiungimento della corrente di regime:

2

0

1 2

i

BL Li di Li U= = =∫

(dove BU è l’energia potenziale del campo, corrispondente al lavoro L)

Tale lavoro si trova immagazzinato sotto forma di energia potenziale del campo; è

ora possibile calcolare la densità di energia, BB

dUudV

= , nel caso di un solenoide (di

grande lunghezza campo interno uniforme). Ricordando infatti che 2

0S

S

ANLl

μ= , si

ottiene:

212BU Li=

2

0S

S

ANl

μ 212BU i=

BB

duV

Ud

= ( )

22

012

S

SB

SAN il

du

d Al

μ⎛ ⎞⎜ ⎟⎜ ⎟⎝ ⎠=

(siccome il campo può essere considerato uniforme e il volume è esprimibile con ) SAl

2 2 2 200 0

20

12

2 2

SS

BS S

AN i N i BuAl l

μ μ μμ

⎛ ⎞ ⎛ ⎞= = =⎜ ⎟ ⎜ ⎟⎜ ⎟ ⎝ ⎠⎝ ⎠

(ricordando che in un solenoide 0S

S

NB il

μ= )

In conclusione, la densità di energia del campo, nel vuoto, può essere espressa come:

2

0

( ) 1( ) ( ) ( )2 2B

B ru r B r H rμ

= =

Se nel solenoide è presente un mezzo lineare, avente permeabilità magnetica relativa

rμ , al denominatore si deve porre 0rμ μ .

6.8 – Circuiti oscillanti (vedi anche riassunto elettrotecnica) Un sistema fisico di notevole interesse per le applicazioni è quello costituito da un condensatore di capacità C e un’induttanza L fra loro collegati.

Page 49: Fisica LB

Supponiamo che il condensatore, sconnesso dall’induttanza, sia stato caricato con una carica q. Eseguendo la connessione, le due armature iniziano a scaricarsi, facendo circolare corrente nell’induttanza. Se, per semplificare la trattazione, si fa l’ipotesi che la resistenza del circuito sia nulla, e che siano trascurabili le perdine di energia dovute a emissione di radiazione elettromagnetica, si può imporre la conservazione dell’energia. Utilizzando le relazioni

2

0

1 2

i

BL Li di Li U= = =∫ 2

2EqUC

=

Che rappresentano rispettivamente l’energia immagazzinata nell’induttanza e quella nella capacità, si ottiene:

2 2costante

2 2Li q

C+ =

Derivando tale equazione rispetto al tempo si ha che:

0di q di qL Ldt C dt

dqi id Ct

⎛ ⎞+ = +⎜ ⎟⎝ ⎠

=

Tale relazione è soddisfatta per i=0 e 0di qLdt C+ = . Quest’ultima si può riscrivere come

0di qLdt C+ =

2

2 0LL

d q qCdt

+ =

La sua soluzione generale è dunque: 01( ) sinq t q tLC

ϕ⎛ ⎞= +⎜ ⎟

⎝ ⎠

La funzione i(t), invece, si può ottenere mediante dqi dt= : 0 1( ) cosqi t tLC LC

ϕ⎛ ⎞= +⎜ ⎟

⎝ ⎠.

Fra le due è presente uno sfasamento di 2π (in una compare il seno, nell’altra il

coseno): la sua presenza permette di concludere che quando l’energia è tutta nella forma magnetica, l’energia elettrostatica è nulla e viceversa. L’energia quindi si trasferisce da una forma all’altra in maniera continua, così come nell’oscillatore meccanico, in cui muta costantemente dalla forma cinetica a quella potenziale. 6.9 – Fenomeni transitori Consideriamo un semplice circuito elettrico, i cui componenti sono:

- un generatore di forza elettromotrice continua = fem; - un’induttanza = L; - una resistenza R.

Fatto in modo che, inizialmente, non passi corrente (tramite un commutatore), una volta che questa inizia a circolare, possiamo utilizzare la legge di Kirchhoff delle maglie per ottenere:

0difem L Ridt

− − = di dt

fem Ri L=

(separando le variabili) ( )

0 0

i t tdi dtfem Ri L

=−∫ ∫

1 ( )ln fem Ri t t1R fem L

−− =

(integrando)

( ) 1Rt

Lfemi t eR

−⎛ ⎞= −⎜ ⎟⎝ ⎠

Facciamo alcune considerazioni su questo risultato:

Page 50: Fisica LB

- nell’argomento compare il rapporto LR

τ = , che ha le dimensioni di un tempo e

prende il nome di costante di tempo del circuito; - inizialmente l’intensità della corrente è nulla (la forza elettromotrice dovuta

all’autoinduzione annulla l’effetto di quella del generatore);

- la corrente tende a raggiungere il valore femR

(extracorrente di chiusura).

Prendiamo ora in esame l’andamento della differenza di potenziale: dalla Legge di Faraday è immediato calcolare la differenza di potenziale che si manifesta ai capi

dell’induttanza: ( ) Rt

LL

diV t L fem edt

−Δ = − = − .

Agendo sul commutatore e facendolo tornare alla posizione di partenza, l’equazione del circuito diventa (eliminata la fem):

0diL Ridt

− − = di dtRi L= −

(separando le variabili)

Integrando, come nel caso precedente, si ottiene ( )Rt

Lfemi t eR

−= , che è detta

extracorrente d’apertura. Essa, per effetto dell’induttanza, continua a circolare nello stesso verso di prima; inoltre, l’energia magnetica, precedentemente immagazzinata nell’induttanza, si trasforma in energia termica per effetto Joule. 6.10 – Equazioni di Maxwell Facciamo una panoramica delle leggi viste fin’ora:

0E

BEt

ρε

⎧∇ ⋅ =⎪⎪⎨

∂⎪∇× = −⎪ ∂⎩

0

0B

B Jμ

⎧∇ ⋅ =⎪⎨∇× =⎪⎩

L’intuizione di Maxwell fu quella di aver trovato un’inconsistenza fra:

0B Jμ∇× = e Jtρ∂

∇ ⋅ = −∂

(legge di conservazione della carica) Formalmente, ciò può essere collegato al fatto che la divergenza del rotore di un campo vettoriale è sempre nulla: per la legge di Ampère si dovrebbe quindi avere:

0B Jμ∇× = 0

B Jμ

∇×=

( )0

01 Bμ

∇×J∇ ∇= ⋅⋅ =

Che però è in disaccordo con 0divJtρ∂

+ =∂

nei casi non stazionari.

L’ipotesi avanzata da Maxwell può essere sintetizzata nella proposta di considerare alla stessa stregua, a tutti gli effetti (e, in particolare, come sorgenti di un campo magnetico), sia la corrente di conduzione, sia la corrente di spostamento, assegnando alla corrispondente densità di quest’ultima l’espressione:

0SEJt

ε ∂=

Egli modificò quindi la legge di Ampère, aggiungendo questa quantità:

Page 51: Fisica LB

( )0 0 0SEB J J Jt

μ μ ε⎛ ⎞∂

∇× = + = +⎜ ⎟∂⎝ ⎠

(Legge di Ampère-Maxwell) Questa legge introduce un’importante novità: l’esistenza di un campo elettrico variabile nel tempo determina, da sola, l’insorgere di un campo magnetico del tutto indistinguibile da quello che sarebbe generato dalla presenza di sole correnti di

conduzione (aventi una densità di corrente 0SEJt

ε ∂=

∂).

La validità dell’ipotesi di Maxwell venne verificata sperimentalmente da Hertz, nel 1887. 6.10.1 – Le leggi fondamentali dell’elettromagnetismo

Con quest’ultima modifica, le leggi fondamentali dell’elettromagnetismo (equazioni di Maxwell) diventano:

0E

BEt

ρε

⎧∇ ⋅ =⎪⎪⎨

∂⎪∇× = −⎪ ∂⎩

0 0

0B

EB Jt

μ ε

⎧∇ ⋅ =⎪

⎛ ⎞⎨ ∂∇× = +⎜ ⎟⎪ ∂⎝ ⎠⎩

Che, nel vuoto, assumono tale veste:

0E

BEt

⎧∇ ⋅ =⎪⎨ ∂∇× = −⎪ ∂⎩

0 0

0B

EBt

μ ε

⎧∇ ⋅ =⎪⎨ ∂∇× =⎪ ∂⎩

In questa forma, si evidenzia molto bene l’esistenza di una notevole simmetria fra i due campi, entrambi a divergenza nulla, ciascuno con un rotore legato alla variazione temporale dell’altro. Queste leggi indicano che le variazioni spazio-temporali dei campi elettrici e di quelli magnetici sono intimamente connesse, suggerendo la presenza di un’unica entità fisica: il campo elettromagnetico. Nei casi stazionari, invece, elettricità e magnetismo paiono slegati totalmente.

Page 52: Fisica LB

7.1 – La scoperta delle onde elettromagnetiche L’esistenza delle onde elettromagnetiche, prevista teoricamente da Maxwell nel 1873, ricevette una conferma sperimentale diretta degli esperimenti condotti da Hertz fra il 1886 e il 1889. Essi sono basati sull’idea che le intense perturbazioni nei campi elettrici che accompagnano le scariche elettriche potessero propagarsi a distanza come onde ed essere poi rivelate sfruttando fenomeni di induzione elettromagnetica da esse determinati. Hertz verificò anche la proprietà di tali onde di essere riflesse da materiali conduttori e di presentare fenomeni di interferenza. Ciò gli permise di misurare la loro lunghezza d’onda, di cui poté verificare la velocità, che risultò essere pari a quella della luce. 7.2 – Equazione delle onde elettromagnetiche nel vuoto Ricordiamo le equazioni di Maxwell per le onde nel vuoto:

0

Bt

E ∂∇× = −

E∇⋅⎧ =⎪⎨⎪⎩

0 0

0B

EBt

μ ε

⎧∇ ⋅ =⎪⎨ ∂∇× =⎪ ∂⎩

Ricordando la proprietà: ( ) ( ) 2v v∇ ∇∇× ∇× ⋅= v−∇ (dove qui v è ) E

( ) ( )2

0 0 2Bt

BEt

⎛ ⎞∂∇× − =

Et

μ ε−∇× = ∇× ∇ =×⎜ ⎟∂⎝

∂−∂⎠

∂∂

(=primo membro)

( ) 22E EE −∇∇ ∇⋅ = −∇ (perché la divergenza è nulla, = secondo membro)

Alla fine risulta che: 2

20 0 2 EE

tμ ε ∂

−∂

−∇=

Procedendo in modo analogo per B 2

20 0 2

B Bt

μ ε ∂− = −∇

Si nota che le due formule hanno la stessa forma, che è poi quella dell’equazione di D’Alembert (tridimensionale):

22

2 21 ffv t

∂∇ =

(equazione d’onda) Si sostituisca a v la velocità c della luce (con cui si propagano le onde elettromagnetiche nel vuoto). È sperimentalmente confermato che per tutte le onde elettromagnetiche la velocità di propagazione nel vuoto ha lo stesso valore in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Questo fatto, assieme al Principio di Relatività, impone la validità delle leggi di Maxwell in ogni sistema di riferimento e la necessità di sostituire le trasformazioni di Galileo con quelle di Lorentz. 7.3 – Onde piane

L’equazione 2

22 21 ffv t

∂∇ =

∂ ha, come soluzioni, campi con una particolare dipendenza

dalle coordinate spazio-temporali. Sono per esempio soluzioni della 2

20 0 2

E Et

μ ε ∂− = −

∂∇

le onde piane uniformi (equazione: ( )0 nE E f r u vt= ⋅ ± , dove è un generico nu

Page 53: Fisica LB

versore, è un arbitrario vettore costante, f è una arbitraria funzione dell’argomento

tra parentesi). Fra le caratteristiche di queste onde: 0E

- in un dato punto e in un fissato istante, questi campi dipendono solo dalla distanza dal piano perpendicolare a nr u⋅ nu passante per l’origine. Il luogo dei

punti in cui il campo ha, in un dato istante, un determinato valore è quindi un piano perpendicolare a caratterizzato dallo stesso valore dell’argomento di

f; nu

- al variare di t, tale piano si sposta parallelamente a sé stesso con velocità . nv vu= ∓

7.3.1 – Onde sferiche Esistono altri tipi di onde, caratterizzate da particolari simmetrie, che soddisfano la

22

2 21 ffv t

∂∇ =

∂: le onde sferiche, ad esempio; esaminiamone ora le

caratteristiche: - per definizione, i campi da esse rappresentati sono espressi, per ogni loro

componente, in coordinate polari sferiche ( , , )r ϑ ϕ , da funzioni F(r,t) a “simmetria sferica”, dipendenti cioè (oltre che da t) solo dalla distanza r (dalla sorgente). Si dimostra, in particolare, che tale dipendenza è del tipo:

( ) ( ),f r vt

F r tr

=∓

- una qualunque funzione dell’argomento è ovviamente soluzione di tale equazione. Nel caso di f(r-vt), le superfici su cui f ha valori costanti sono quelle di sfere, con centro nell’origine, e raggio crescente linearmente con il tempo: si ha quindi in questo caso un’onda sferica progressiva, che al crescere del tempo “investe” zone sempre più lontane dall’origine, propagandosi radialmente con velocità di modulo v. Il valore delle componenti (e del modulo) del campo a

distanza r=vt dall’origine, essendo determinati da

r vt∓

fF r= , diminuiscono però

con l’inverso della distanza; - a questa proprietà è strettamente collegata la dipendenza (dall’inverso del

quadrato della distanza) dell’intensità delle onde prodotte da una sorgente puntiforme;

7.3.2 – Onde piane monocromatiche Altro caso particolare di onde piane è quello delle onde piane armoniche (o monocromatiche), in cui la funzione f che compare nell’espressione delle componenti dei campi è di tipo sinusoidale. Esistono varie forme per questo tipo di onda:

cos( )f A k r tω δ= ⋅ − +

cos k tf A k rk k

ω δ⎛ ⎞⎛ ⎞

= ⋅ − +⎜ ⎟⎜ ⎟⎜ ⎟⎝ ⎠⎝ ⎠

cos ktf A k u r

kω δ⎛ ⎞⎛ ⎞= ⋅ −⎜ ⎟⎜ ⎟

⎝ ⎠⎝ ⎠+

( A = ampiezza, δ = fase iniziale, k = “vettore d’onda”, ω = pulsazione)

Osserviamo che:

Page 54: Fisica LB

- l’argomento del coseno (“fase” dell’onda monocromatica), ha la struttura delle

onde piane (0 n )E E f r u vt= ⋅ ± , con v = c, solo se fra il modulo di e k ω sussiste

il legame: 0 0

( ) kk kcωε μ

= = (“relazione di dispersione”);

- il versore kkuk

= individua la direzione di propagazione e il rapporto kω

esprime la rapidità con cui cambia nel tempo, in un dato punto, la “fase”

dell’onda, da cui il nome di velocità di fase; per la 0 0

( ) kkωε μ

= tale rapporto è

lo stesso per ogni pulsazione ω , coincide con c e rappresenta anche la velocità con cui si muovono i piani di “egual fase”, o “superfici d’onda”, perpendicolari a ; ku

- come noto, ad esempio dallo studio dei moti armonici o delle correnti alternate, la pulsazione ω caratterizza la periodicità temporale della funzione f; infatti,

per ogni , definito il periodo r 2T πω

= , risulta:

cos( ) cos( ( ) )A k r t A k r t Tω δ ω⋅ − + = ⋅ − + +δ

- analogamente, il modulo di k (detto numero d’onda), caratterizza la

periodicità spaziale della cos( )f A k r tω δ= ⋅ − + , come si può facilmente verificare nel caso di un’onda che si propaghi nel verso positivo dell’asse x.

Infatti, definita la lunghezza d’onda 2kπλ = , si ha:

cos( ) cos( ( ) )A kx t A k x tω δ λ− + = + − +ω δ - fra λ e T sussiste la relazione: cTλ = .

7.4 – Campi elettrici e magnetici nelle onde piane I campi elettrici e magnetici variabili nello spazio e nel tempo che si propagano per onde nel vuoto devono soddisfare anche le equazioni di Maxwell. Esaminiamo il caso di un’onda piana generica (non necessariamente monocromatica) che si propaga liberamente nel vuoto: e E B sono perpendicolari alla direzione in cui l’onda si

propaga, si mantengono sempre ortogonali fra loro e presentano fra i loro moduli un rapporto uguale alla velocità della luce.

nu

Tali proprietà sono formalmente espresse dalle relazioni: 0n nE u B u⋅ = ⋅ =

2v EBv×

=

E B v= × E cB=

Le onde elettromagnetiche che si propagano liberamente nel vuoto sono trasversali (onde TEM). Se il campo elettrico mantiene nel tempo sempre la stessa direzione, l’onda si dice polarizzata linearmente lungo quella direzione. Ovviamente, in questo caso ance il campo magnetico resta parallelo a una direzione (perpendicolare a quella del campo elettrico). Per linearità delle equazioni delle onde, anche una qualunque sovrapposizione di onde polarizzate linearmente in direzioni ortogonali, del tipo sopra considerato, è un’onda

Page 55: Fisica LB

piana che si propaga nella medesima direzione: in essa, però, le direzioni di E e B (ancora mutuamente ortogonali) non si mantengono in generale costanti nel tempo e nello spazio. 7.5 – Energia e impulso nei campi elettromagnetici, teorema di Poynting e densità di energia Nei precedenti capitoli sono state derivate le espressioni delle densità di energia associate, separatamente, al campo elettrostatico e al campo magnetico (quasi) stazionario:

20

12Eu ε= E 2

012Bu Bμ=

In maniera anche intuitiva, si può immaginare che nel caso di campi elettromagnetici non stazionari valga una relazione di questo tipo:

2 20

01 1

2 2u Eε μ= + B

Questo risultato può essere giustificato sulla base del teorema di Poynting, che gioca nell’elettrodinamica il ruolo che in meccanica ha il teorema delle forze vive (o teorema lavoro-energia). Consideriamo una zona V (vuota) dello spazio in cui siano presenti, oltre al campo elettromagnetico anche delle particelle cariche, generalmente in moto. L’interazione

tra cariche e campo elettromagnetico è descritta dalla forza di Lorentz ( )f q E v B= + ×

che si esercita su ciascuna carica q. In un intervallo di tempo dt, tale forza compie il lavoro elementare f dr qE dr qE vdt⋅ = ⋅ = ⋅ , quindi il lavoro fatto in dt dal campo elettromagnetico su tutte le cariche contenute in un elemento di volume dV è dato da:

L E JdVdtδ = ⋅

(dove J è la densità di corrente che, ricordiamo, è ) dNqvL’energia trasferita nell’unità di tempo dal campo alla materia corrisponde ad una potenza per unità di volume data dal valore locale di E J⋅ . Tralasciando la dimostrazione, tale valore locale è dato da:

2 20

0 0

11 1 ( )2 2E J E B E Bt

ε μ μ∂ ⎛ ⎞⋅ = − + − ∇⋅ ×⎜ ⎟∂ ⎝ ⎠

Per quanto riguarda l’energia trasferita ad un volume finito V, bisogna integrare quest’ultima relazione:

2 20

0 0

( )1 12 2

V V V

E BE JdV E B dV dVt

ε μ μ∂ ×⎛ ⎞⋅ = − + − ∇⋅⎜ ⎟∂ ⎝ ⎠∫ ∫ ∫

(poi applico il teorema della divergenza al secondo in g le, per ottenere) te ra

2 20

0 0

E dBμ

Σ

⎛ ⎞×1 12 2

mat

V

U E B dVt t με

∂ ∂ ⎛ ⎞= − + −⎜ ⋅ Σ⎜ ⎟⎝ ⎠∫⎟

∂ ∂ ⎝ ⎠∫

(teorema di Poynting) Da qui si vede che un trasferimento di energia alla materia in V, ad opera del campo, deve essere accompagnato da una diminuzione dell’energia totale del campo elettromagnetico: i due termini suddetti corrispondono a due modalità di realizzazione di tale variazione, il primo mediante una variazione dell’energia elettromagnetica “immagazzinata” nel volume V, il secondo per mezzo di un flusso netto di energia attraverso la superficie chiusa che racchiude V. In base a queste considerazione è lecito:

Page 56: Fisica LB

- considerare 20

01 1

2 2u Eε μ= + 2B come densità di energia del campo

elettromagnetico;

- porre 2 20

01 1

2 2emV

U E Bε μ⎛= +⎜⎝ ⎠∫ dV⎞

⎟ (energia elettromagnetica

immagazzinata nel volume V); - considerare la somma dell’energia trasferita (per unità di tempo) alla

materia e quella immagazzinata nel volume V nella forma: matU

emU

0( )mat em

E BU U d S dt μ

Σ Σ

⎛ ⎞∂ ×+ = − ⋅ Σ ≡ − ⋅⎜ ⎟∂ ⎝ ⎠

∫ ∫ Σ

(dove è detto vettore di Poynting) STale vettore corrisponde all’energia che “fuoriesce” per unità di tempo da V, “trasportata” del campo elettromagnetico per mezzo di onde elettromagnetiche.

NOTA: in forma locale ( )mat emu ut∂ S+ = −∇⋅∂

; in essa S rappresenta il flusso di

energia analogamente a come J rappresenta il flusso di carica. Il teorema di Poynting ha validità generale e, nel caso particolare in cui applichiamo il teorema in una parte di spazio completamente priva di materia, esso ci aiuta a definire il trasporto di energia associato alla propagazione delle onde. Nel caso di onde elettromagnetiche piane, in cui E e B sono perpendicolari fra loro, il vettore di Poynting ha la direzione di propagazione dell’onda, e il suo modulo è:

22

00 0

EB cBS cεμ μ

= = = E

Page 57: Fisica LB

1.1 – Coordinate termodinamiche

Un sistema termodinamico è definito come un insieme di uno o più corpi, di composizione nota, che si trovano in una regione dello spazio delimitata da superfici (reali o ideali) che li distinguono dagli altri corpi o sistemi con cui essi possono interagire, e che costituiscono il cosiddetto ambiente circostante del sistema. L’insieme formato dal sistema termodinamico e dal suo ambiente circostante si chiama universo termodinamico del sistema. Le interazioni del sistema con il suo ambiente possono avvenire mediante scambi di energia e di materia; si definiscono aperti i sistemi che sono in grado di scambiare sia energia che massa con l’ambiente, chiusi quelli che possono scambiare solo energia e isolati quelli che non possono effettuare alcuno scambio. Per descrivere i sistemi termodinamici si introduce un certo numero di grandezze fisiche macroscopiche dette coordinate termodinamiche, direttamente osservabili e misurabili.

1.1.1- Pressione e volume

Consideriamo un sistema costituito da un fluido, per esempio un gas, e cerchiamo di descriverlo svincolandoci da qualsiasi modello microscopico. Un primo parametro che appare di tutto rilievo è certamente il volume occupato dal gas: per la proprietà dei gas di occupare tutto lo spazio loro disponibile, tale volume coincide con quello del contenitore in cui il gas si trova. L’evidenza sperimentale suggerisce inoltre che il comportamento del sistema dipende dal fatto che il gas, come tutti i fluidi, esercita forze sulle superfici. Prendiamo un recipiente con un solo grado di libertà (un pistone che lo delimita e che può alzarsi o abbassarsi, senza attrito), contenente del gas: se poniamo questo recipiente in una camera in cui è stato creato il vuoto, osserviamo sperimentalmente che il coperchio (area = A) tende a sollevarsi e ad assecondare il processo di espansione del gas. Per impedire tale espansione possiamo agire dall’esterno, applicando un’opportuna

forza f

, in modo che il coperchio stia fermo. Come si può intuire facilmente, dato che il coperchio ha un solo grado di libertà, è necessario un ben preciso valore della

componente di f

, perpendicolare al coperchio, cioè lungo n

.

e

f np

A

⋅=

A questa quantità si dà il nome di pressione esterna; in questo caso particolare, tale pressione coincide con quella del gas. La pressione è una grandezza scalare e sempre positiva: si misura in pascal [Pa], equivalente a 1 N/m2. È poi una grandezza intensiva, cioè non dipende né dalle dimensioni, né dalla massa del sistema considerato: la pressione di un sistema non è la somma delle pressioni delle sue parti! Al contrario, il volume è una misura estensiva.

1.2 – Pareti adiabatiche e diatermiche: equilibrio termico

Consideriamo un sistema termodinamico semplice, descrivibile con le tre coordinate termodinamiche X, Y, Z. Lo stato termodinamico del sistema è determinato dai valori che tali coordinate hanno in una certa configurazione: la terna di valori 1 1 1( , , )X Y Z definisce uno

stato; la terna 2 2 2( , , )X Y Z ne definisce un altro.

In generale, si dice che un sistema si trova in uno stato di equilibrio termodinamico quando, ferme restando le condizioni esterne, lo stato termodinamico non varia. Prendiamo due sistemi (ciascuno nel suo equilibrio termodinamico) separati da una parete:

- se la parete è adiabatica (isolante), i due sistemi rimangono nei loro rispettivi stati di equilibrio iniziali (non possono effettuare scambi di energia);

Page 58: Fisica LB

- se la parete è diatermica (conduttrice), i due sistemi tendono, con scambi di energia, a raggiungere un nuovo stato di equilibrio, che questa volta li accomuna fra loro. La successione di cambiamenti delle coordinate termodinamiche di questi gas rappresenta un primo esempio di trasformazione termodinamica.

Possiamo affermare infine che un sistema si trova in equilibrio termodinamico quando è in equilibrio:

- termodinamico (sopra descritto); - meccanico (senza scambi di materia e senza interventi dall’esterno); - chimico (non devono essere in atto reazioni chimiche o processi di diffusione).

1.3 – Principio zero e temperatura

Per caratterizzare l’equilibrio termico fra i sistemi si introduce una nuova grandezza, la temperatura; si afferma così, per definizione, che due sistemi sono fra loro in equilibrio se hanno la stessa temperatura. Per definire la temperatura occorre stabilire un procedimento per la sua misurazione. A tale scopo risulta di particolare utilità una notevole caratteristica della condizione di equilibrio termico: vi sono infatti indicazioni sperimentali che portano a considerare valida, per l’equilibrio termico, la proprietà transitiva. L’assunzione della validità di questa proprietà è a volte formulata come principio zero della Termodinamica: due sistemi, separatamente in equilibrio termico con un terzo sistema, sono in equilibrio termico fra loro. Sulla base di tale principio, è possibile procedere alla misura della temperatura, utilizzando un sistema campione (termometro), che presenti variazioni particolarmente rilevanti di una sua proprietà quando venga messo in contatto termico (separatamente) con sistemi che possiedono temperature diverse. Nel nostro caso, il termometro possiede la proprietà di variare in maniera lineare la lunghezza (e il volume) della propria colonnina di mercurio, proporzionalmente alla variazione di temperatura. Scelti due punti di riferimento (per la scala Celsius si sceglie lo 0° in prossimità della fusione dell’acqua e il 100° alla temperatura di ebollizione di quest’ultima), si può creare una scala graduata (con la possibilità di estenderla sotto lo 0° e sopra i 100°). La scelta moderna di costruzione delle scale termometriche consiste nell’utilizzare un solo punto fisso e nell’imporre una relazione di proporzionalità fra la temperatura e la grandezza utilizzata: T aL= . Come punto fisso si utilizza il punto triplo dell’acqua (circa 0,01°C), cioè lo stato in cui coesistono le sue tre fasi (solida, liquida e gassosa). Esso ha infatti il vantaggio di essere riproducibile con una precisione molto maggiore rispetto ai punti di fusione ed ebollizione. Tale temperatura è stata fissata dal S.I. con il valore 273,16 K (Kelvin). La conversione fra i gradi della scala Celsius e quelli della scala Kelvin è dunque la seguente:

273,15CT T= −

1.4 – Temperatura del termometro a gas perfetto

A causa della notevole imprecisione di alcuni termometri (come quelli a liquido), si è cercato di realizzare un termometro campione al quale fare riferimento; a questo scopo si è scelto un termometro con gas a volume costante: in tale tipo di dispositivo, la proprietà termometrica (che ci consente la misura della temperatura) è la pressione del gas

3273,16 [ ]

pT K

p=

(p3 è la pressione alla temperatura di punto triplo dell’acqua) Ovviamente tale risposta e il valore della pressione si modificano (ma non di molto, come accade coi fluidi) in base al gas scelto. È necessario quindi ritarare la scala ad ogni misurazione effettuata con gas diverso da quello “base”. Si nota fisicamente che, a pressioni molto basse, tutti i gas tendono a comportarsi allo stesso modo, “dimenticandosi” di essere, ad esempio, ossigeno, oppure idrogeno o azoto: tale comportamento comune viene detto di gas perfetto. Si assume dunque come temperatura del termometro a gas perfetto:

Page 59: Fisica LB

3 0 3lim 273,16 [ ]p

pT K

p→=

1.5 – Dilatazione termica

Com’è noto dall’esperienza quotidiana, i corpi subiscono deformazioni, più o meno evidenti, al variare della loro temperatura. Studiando il comportamento di un corpo che abbia una sola dimensione apprezzabile (tipo la lunghezza, per quanto riguarda una sbarra di metallo di sezione trascurabile), si trova che la sua variazione di lunghezza l∆ , in seguito a una variazione di temperatura T∆ , può essere espressa da una relazione lineare del tipo:

l l Tα∆ = ∆

In tale formula, 1

p

l

l Tα ∂ = ∂

prende il nome di coefficiente di dilatazione termica

lineare (a pressione costante) e ha le dimensioni dell’inverso di una temperatura. Per sistemi tridimensionali, si definisce in modo analogo un coefficiente di dilatazione

cubica (a pressione costante): 1

p

V

V Tβ ∂ = ∂

.

Si trova facilmente che, per una fissata sostanza, vale 3β α= . Il fenomeno della dilatazione termica ha una spiegazione abbastanza semplice a livello microscopico: consideriamo ad esempio un solido, in cui gli atomi oscillano attorno a certe posizioni di equilibrio, sotto le azioni delle forze interatomiche, che in prima approssimazione possono essere considerate di tipo elastico. La distanza media fra gli atomi e il loro numero fissano naturalmente le dimensioni macroscopiche del solido: tuttavia, al crescere della temperatura crescono l’energia cinetica media associata a tali moti oscillatori e, di conseguenza, l’ampiezza delle oscillazioni. 1.6 – Trasformazioni termodinamiche

Se vengono meno le condizioni di equilibrio termodinamico di un sistema, inizialmente in uno stato i, ha luogo un processo nel quale alcune proprietà del sistema cambiano: si dice che esso esegue una trasformazione termodinamica (i f). Supponendo che, al termine di tale trasformazione, il sistema raggiunga un diverso stato di equilibrio f, i modi in cui esso viene raggiunto possono essere i più svariati; si parla di trasformazioni:

- reversibili: il caso in cui il sistema possa essere riportato allo stato iniziale in modo che anche l’ambiente circostante torni allo stato originario (f i);

- irreversibili: nel caso in cui sia impossibile ogni tentativo di reversibilità. Tutti i processi reali hanno un certo grado di irreversibilità; le trasformazioni reversibili rappresentano una situazione limite e necessitano di alcune condizioni:

- la trasformazione dev’essere quasi statica (è necessario che il sistema abbia una trasformazione che differisce – istante per istante – di una quantità infinitesima da quella dell’ambiente circostante);

- durante la trasformazione non devono agire forze dissipative (impossibile, nella realtà, vista l’esistenza degli attriti).

Due stati di equilibrio termodinamico di un sistema possono essere collegati da trasformazioni di diverso tipo; alcune, fra queste, essendo particolarmente importanti perché di facile realizzazione, vengono identificate con nomi specifici:

- isocòre = lavoro nullo; - isobare = pressione costante; - isotèrme = temperatura costante; - adiabatiche = sistema termicamente isolato.

Page 60: Fisica LB

Un insieme di trasformazioni al termine delle quali il sistema si ritrova nello stato iniziale viene chiamato ciclo. 1.7 – Equazione di stato dei gas

Si verifica facilmente che in un sistema idrostatico di massa costante le tre coordinate macroscopiche non sono indipendenti. Se infatti si fissano due di esse, si trova sperimentalmente che non è possibile intervenire sulla terza; ciò consente di affermare che deve esistere una relazione analitica che lega le tre coordinate f(p,V,T) = 0 e, ad essa, viene dato il nome di equazione di stato. 1.7.1 – Gas ideali (o perfetti)

Consideriamo una determinata quantità di gas perfetto, contenuta in un recipiente cilindrico con pareti adiabatiche. La quantità di materia può essere espressa dal numero di moli n, dato dal rapporto tra il valore della massa (espressa in grammi) e il peso molecolare. Il modo più semplice per trovare la relazione fra le variabili di stato consiste nello studiare la relazione fra due parametri, mantenendo fissi tutti gli altri. Studiamo ad esempio la relazione fra p e V, tenendo fisso T: sperimentalmente, otterremo la relazione

una costantep

V=

(legge di Boyle)

In modo analogo si possono verificare sperimentalmente le seguenti relazioni empiriche fra le altre coppie di coordinate:

- legge di Charles/prima legge di Gay-Lussac:

0 0(1 )t TV V t V V Tβ β= + ⇒ =

(con pressione costante) - seconda legge di Gay-Lussac:

0 0(1 )t Tp p t p p Tβ β= + ⇒ =

(con volume costante)

Il coefficiente di dilatazione cubica è : 11273,15 Cβ −= ° .

Estrapolando la legge di Charles, il volume del gas diventerebbe nullo alla temperatura di circa -273,15°C, che è la temperatura limite di zero assoluto, al di sotto della quale è impossibile andare. Richiamiamo ora le due leggi di Avogadro:

o una mole di qualsiasi sostanza contiene 236,02 10AN = ⋅ molecole;

o volumi uguali di gas diversi, nelle stesse condizioni di temperatura e pressione, contengono lo stesso numero di molecole (e, quindi, lo stesso numero n di moli).

Si ottiene dunque:

- 1

Vp

∝ (n, T costanti);

- V T∝ (n, p costanti); - V n∝ (p, T costanti).

Segue che: costTn

Vp

∝ ⋅ , da cui costpV Tn∝ ⋅ .

Si trova così la tanto agognata Equazione di stato del gas perfetto: pV nRT=

(dove R è la costante universale dei gas: 8,3145 J / (mol K)

Si trova anche: R = AN k , dove k è la Costante di Boltzmann = 1,38066 ⋅ 10-23 J/K)

Page 61: Fisica LB

1.7.2 – Gas reali

I gas perfetti non esistono in natura, ma rappresentano un modello cui tende il comportamento dei gas reali a bassa pressione. Tale osservazione ci permette solo di scrivere:

0lim ( )p

pV nRT→

=

L’equazione di stato di un gas reale, in realtà, non è così semplice, ed è anzi tanto più complessa quanto è alta la pressione. Una delle espressioni frequentemente utilizzate come funzione di stato di un gas reale è il cosiddetto sviluppo del viriale. Esso

consiste nell’esprimere il rapporto pV

nRT come:

- sviluppo di potenze della pressione: 21 ...pV

Bp CpnRT

= + + + . B, C, … vengono

chiamati coefficienti del viriale e hanno valori per cui ogni termine ha un valore molto più piccolo del precedente (con C<<B, D<<C, etc…)

- sviluppo dell’inverso del volume, tramite l’equazione di van der Waals:

( )2

2

np a V nb nRT

V

+ − =

Tale equazione nasce da un modello del gas in cui le molecole sono schematizzate come sfere rigide e ciò fa sì che ognuna di esse abbia a disposizione il volume totale diminuito di quello occupato dalle altre molecole (covolume). Indicando con b il covolume di una mole di gas, con n moli il volume effettivamente disponibile diventa ( )V nb− e la formula si può semplificare

(generando un errore minimo) in:

( )nRT

pV nb

=−

1.8 – Lavoro termodinamico

In generale si hanno scambi di energia mediante lavoro termodinamico quando, come conseguenza di tali scambi (e solo di essi), nell’ambiente avviene un cambiamento della configurazione macroscopica di un sistema meccanico (innalzamento di un peso, compressione di una molla, etc…). Per chiarire la definizione di lavoro termodinamico, mostrando anche come può essere calcolato, consideriamo uno specifico sistema, per esempio un gas in un recipiente cilindrico. Il coperchio del cilindro sia mobile senza attrito. Supponiamo che inizialmente la pressione del gas sia uguale alla pressione esterna ep , che in

generale sarà la somma di quella dell’ambiente e di quella dovuta al peso del coperchio. Aumentando la temperatura del gas si osserva un aumento della pressione del gas, che determina una sua espansione. Così facendo, il gas solleva sia il coperchio sia l’aria dell’ambiente: dunque esegue un lavoro. Il gas fa lavoro motore, mentre le forze esterne, il cui

risultante possiamo chiamare con ( )eF

, fanno lavoro resistente. Ciò si esprime dicendo che il gas lavora contro le forze esterne. Per uno spostamento dr

del coperchio, verso l’alto, il gas fa dunque un lavoro elementare Lδ tale che

( ) ( )0e ee eL F dr L F dr p Adh p dVδ δ+ ⋅ = ⇒ = − ⋅ = =

Dunque, il corrispondente lavoro esterno (elementare) fatto dal sistema durante la trasformazione è eL p dVδ = .

A uno spostamento finito del coperchio, dal volume iniziale AV a quello finale BV , corrisponde

dunque un lavoro esterno fatto dal sistema ed espresso da

Page 62: Fisica LB

B

A

V

AB eV

L p dV= ∫

Questo integrale si può calcolare solo se sono noti e definiti i valori della pressione esterna e del volume, ma è un caso raro, salvo eccezioni: se, ad esempio, la pressione non varia

apprezzabilmente durante la trasformazione, possiamo portare fuori dall’integrale il fattore

ep (che è costante):

( )B B

A A

V V

AB e e e B AV V

L p dV p dV p V V= = = −∫ ∫

Altrimenti, se il sistema può espandersi liberamente nel vuoto, si ha che ep = 0 e quindi non

si compie nessun lavoro. Infine, un terzo caso è quello delle trasformazioni quasi-statiche; in tali trasformazioni, la pressione del sistema differisce per infinitesimi da quella esterna, e quindi ep p≈ :

B

A

V

ABV

L p dV= ∫

Poiché la pressione non può essere negativa, a una variazione positiva del volume (del sistema) corrisponde un lavoro positivo; ciò è coerente con la convenzione adottata, secondo la quale il lavoro è positivo se fatto dal sistema e negativo se fatto sul sistema. Quando stato iniziale e finale coincidono (ciclo termodinamico), il lavoro è espresso dall’area racchiusa dal ciclo: esso risulta positivo o negativo a seconda che il ciclo sia compiuto in senso orario (ciclo termico) o antiorario (ciclo frigorifero). 1.8.1 – Lavoro dei gas ideali

- A pressione costante: ( )B B

AB e A A B AA A

L p dV p dV p V V= = = −∫ ∫ (la pressione va fuori

dall’integrale perché è costante per ipotesi);

- a volume costante: 0B

ABA

L p dV= =∫ ;

- a temperatura costante:

1ln ln

B B BB A

ABA BA A A

V pnRTL p dV dV nRT dV nRT nRT

V V V p= = = = =∫ ∫ ∫

1.9 – Metodo statistico

Per valutare alcune problematiche insite in una trattazione microscopica dei sistemi termodinamici, consideriamo il caso in cui il sistema complesso sia costituito da un gas contenuto in un opportuno recipiente chiuso, fermo in un sistema di riferimento inerziale. Le molecole del gas sono in costante movimento, interagendo fra loro mediante forze che possiamo supporre conservative, descrivibili attraverso energie potenziali più o meno complesse. Proviamo a semplificare il quadro descrittivo con un modello. Ipotesi:

- l’interazione fra le molecole del gas ha raggio d’azione trascurabile, e dunque esse si muovono di moto rettilineo uniforme senza posizioni o direzioni privilegiate;

- gli urti delle molecole contro le pareti sono istantanei e elastici; - il volume occupato dalle molecole è trascurabile rispetto a quello del recipiente.

Tale modello è ragionevolmente applicabile ai gas rarefatti, cioè a bassa pressione e a temperatura elevata rispetto al punto di liquefazione. Esaminiamo per semplicità il caso di un gas puro, contenuto in un recipiente cubico di lato L.

Page 63: Fisica LB

Consideriamo una particella che urta contro la parete di destra con velocità 1v

; dopo l’urto

essa assume una velocità (diversa) 2v

, ma rispetto a prima soltanto la componente

perpendicolare alla parete è cambiata, invertendosi. Di conseguenza, nell’urto la quantità di moto della particella cambia di

2i xiq mv i∆ = −

(dove i

è il versore perpendicolare alla parete, m è la massa della particella, xiv è la componente della velocità

parallela alla parete) Questa particella, andando avanti e indietro fra le due pareti opposte e non urtando altre particelle, si muove, fra un urto e il successivo, di moto rettilineo uniforme; in un intervallo di

tempo pari a t∆ essa esegue 2 /t

xi

tN

L v∆∆= urti, in ciascuno dei quali scambia con la parete un

impulso 2 ximv i

. Quindi, l’impulso scambiato in t∆ dalla particella è pari a:

222 /xi xi

xi

t tI mv mv

L v L

∆ ∆= =

Sommando i contributi di tutte le particelle: 2

tot xii

tI mv

L

∆=∑

Siccome il modulo dell’impulso (appena trovato), diviso per l’unità di tempo, dà come risultato la forza media esercitata sulle pareti, otteniamo che questa è pari a

2x xi

i

mf v

L= ∑

Dividendo per l’area della parete, otteniamo la pressione:

2 2 22

(1, )

1xxi xi xi

i i N

f m mN mNp v v v

V V N VL

= = = =

∑ ∑

(dove 2xiv è il valor medio del quadrato di vx, N è il numero di particelle, m la massa, V il volume)

Siccome, facendo analoghe considerazioni, otteniamo un uguale valore anche per 2yiv e 2

ziv , ed

essendo valida la relazione: 2 2 2 2x y zv v v v= + + (in cui tutte le velocità nella somma sono uguali),

si ha che 2 213xv v= , e dunque

2 22 1 2

3 3 2 3

mN N Np v mv K

V V V = = =

(dove è ben in evidenza l’energia cinetica K) Tale risultato va utilizzato con cautela, visto che abbiamo semplificato di molto il modello; tuttavia, esso è sufficiente per ricavare proprietà molto interessanti dei gas. Ricordando, ad esempio, che

2

3pV NK

pV NkT

= =

possiamo dire 2

3

KT

k=

Ovvero, la temperatura è proporzionale all’energia cinetica media delle molecole. Si deve ricordare che, nel modello di gas perfetto, l’energia interna del gas coincide con l’energia cinetica totale delle sue molecole, in quanto non vi sono energie potenziali da considerare.

Page 64: Fisica LB

2.1 – Energia e sistemi termodinamici La trattazione macroscopica dello stato interno dei sistemi termodinamici, mediante l’introduzione di coordinate termodinamiche e di funzioni di stato del sistema definite in modo operativo, consente di arrivare a un’ulteriore formulazione del Principio di conservazione dell’energia, rispetto a quella che viene data in Meccanica. Nella discussione di tale principio, secondo il quale l’energia totale di un sistema cambia solo se esso non è isolato, si mette in evidenza che il lavoro delle forze esterne che agiscono su un sistema meccanico può essere espresso come variazione di una grandezza che viene chiamata energia meccanica interna:

( )eL U= Δ D’altro canto, si è visto che un sistema non isolato termicamente può interagire con l’ambiente circostante anche per via termica, oltre che per via meccanica. Tale interazione si mantiene finché esiste una differenza di temperatura fra sistema e ambiente circostante: quando questi raggiungono l’equilibrio termico, l’interazione non c’è più, o meglio, non ha più effetti macroscopici. In situazioni di questo genere, ad esempio nel caso in cui due corpi inizialmente a temperature diverse siano messi in contatto attraverso pareti conduttrici, viene naturale assumere che, durante le conseguenti trasformazioni, fra i corpi interagenti avvenga lo scambio di qualcosa, chiamato calore. Per convenzione, si assume che il calore fluisca spontaneamente dal sistema a temperatura maggiore (detto caldo) a quello di temperatura minore (detto freddo). È importante sottolineare che il calore, come il lavoro, rappresenta un modo per variare l’energia di un sistema. 2.2 – Lavoro adiabatico ed energia interna Come le altre grandezze termodinamiche illustrate finora, anche l’energia interna dovrà essere definita in modo operativo, sulla base di indicazioni sperimentali. Possiamo quindi cominciare il nostro studio esaminando, dal punto di vista termodinamico, il comportamento di un sistema racchiuso da pareti adiabatiche: in tal modo ad esso sono consentite unicamente interazioni meccaniche con l’ambiente. Le corrispondenti trasformazioni che il sistema può subire sono trasformazioni adiabatiche e gli scambi di energia avvengono mediante lavoro termodinamico. Ci aspettiamo che in una generica trasformazione, in cui il sistema passi da uno stato di equilibrio termodinamico iniziale i ad uno finale f, il lavoro dipenda sia da tali stati sia dalla trasformazione. È quindi di particolare importanza il fatto, sperimentalmente provato, che quando un sistema subisce diverse trasformazioni adiabatiche fra gli stessi stati termodinamici i e f, il lavoro (detto lavoro adiabatico) sia sempre lo stesso. Siccome non vi sono scambi di calore possiamo dire che:

adi fL U U= −

Dove a U viene dato il nome di energia interna (che è poi quella che si trasforma in lavoro). Questa grandezza, che è quindi funzione di stato (termodinamico), risulta definita a meno di una costante: infatti, ciò che è definito in maniera operativa è la sua variazione, che è uguale al lavoro adiabatico cambiato di segno. 2.3 – Primo principio e calore Consideriamo ora la situazione in cui a un sistema siano consentiti anche scambi di tipo termico; eseguendo trasformazioni diverse che portano il sistema dallo stato i allo stato f, si trovano valori del lavoro differenti sia dal corrispondente lavoro adiabatico, sia fra di loro.

adif ifL L≠ cioè ifL U≠ −Δ

Possiamo però scrivere che: , dove Q è una grandezza che dipende dalla trasformazione, e non solo dagli stati i e f. Questa relazione stabilisce che Q ha le dimensioni di un’energia. Si tratta di un’energia scambiata grazie alle pareti termicamente conduttrici: essa corrisponde dunque proprio alla grandezza che era stata chiamata calore.

ifL U+ Δ =Q

Page 65: Fisica LB

Scrivendo mettiamo allora in evidenza che l’energia interna di un sistema può variare in due modi: attraverso il lavoro esterno, e/o per scambi di calore (Primo principio della Termodinamica).

ifU Q LΔ = −

Si assumono a tal proposito delle convenzioni per il lavoro ed il calore: - il lavoro è positivo (negativo) quando viene eseguito dal sistema (dall’ambiente esterno); - il calore è positivo (negativo) se fluisce dall’esterno (dall’interno). Si mostrerà poi che le macchine il cui scopo è la trasformazione di energia interna in energia meccanica, attraverso scambi di calore, costituiscono sistemi che realizzano trasformazioni cicliche; se un sistema termodinamico compie una trasformazione di tal genere, che lo riporta nello stato iniziale, anche la sua energia interna, che è una funzione di stato, torna ad essere quella iniziale; perciò risulta: 0UΔ = . Per il primo principio della dinamica si ha allora che: U Q L Q LΔ = − ⇒ = . Il calore complessivamente scambiato dal sistema in una trasformazione ciclica è perciò uguale al lavoro totale fatto dal sistema. Si dice dunque che un sistema può compiere un lavoro (positivo) durante una trasformazione ciclica solo se, nel complesso, riceve dall’esterno un’uguale quantità di calore. Unità di misura: caloria [cal] ( non S.I.) = 4,186 J ( S.I.); Nel caso di trasformazioni quasi statiche (per le quali sono continuamente definite le variabili macroscopiche), il Primo Principio della Termodinamica può essere scritto in forma differenziale:

dU Q Lδ δ= − Questa relazione, attraverso l’utilizzazione di simboli diversi (d e δ ) mette in particolare evidenza l’importante differenza fra la variazione dU (che è un differenziale esatto), della funzione di stato U e le quantità elementari Qδ e Lδ , i cui valori dipendono dalla trasformazione. Un’altra grandezza, funzione di stato, di uso frequente nei casi di trasformazioni a pressione costante, è l’entalpia, definita come: H U pV= + . Nelle trasformazioni a pressione esterna ( ep ) costante, poiché il lavoro è , per il Primo principio si ha: .

eL p V= Δ

p e f iQ U p V H H= Δ + Δ = − ≡ ΔH 2.4 – Trasmissione del calore L’esperienza dimostra che esistono solo tre modi per trasferire il calore: la conduzione, la convezione e l’irraggiamento. La conduzione è trasporto di calore senza movimento macroscopico di materia; nella convezione, invece, tale trasporto si realizza sfruttando il movimento di masse fluide, generato dall’effetto di differenze di temperatura che provocano variazioni di densità; infine, l’irraggiamento consiste nel trasporto del calore per mezzo di onde elettromagnetiche. 2.4.1 – Conduzione

Dal punto di vista sperimentale, il modo più semplice per mettere in evidenza questo meccanismo di trasporto consiste nello scaldare uno dei due estremi della barretta meccanica. All’equilibrio, anche la temperatura del secondo estremo risulta aumentata. La conduzione di calore è descritta dalla Legge di Fourier, secondo la quel il flusso di energia è opposto al gradiente di temperatura ed è proporzionale a una grandezza, chiamata conducibilità termica K, che è tipica del materiale. Si può quindi esprimere la quantità di calore infinitesima che, nel tempo dt, attraversa una lamina di materiale di superficie dS e spessore dx, con un salto termico dT, nella forma:

dTQ KdS dtdx

δ = − WmK⎡ ⎤⎢ ⎥⎣ ⎦

Page 66: Fisica LB

Il segno negativo indica che il calore fluisce dalla faccia più calda a quella più fredda della lamina. Integrando in maniera opportuna questa formula, si può ottenere il flusso di calore attraverso una parete:

Qdx K dS dT dtδ = − Integrando su tutte le variabili, indicato con D lo spessore, con A l’area della superficie, con T1 e T2 le temperature sulla faccia interna ed esterna della parete, si ottiene la quantità di calore che, nell’intervallo di tempo tΔ , attraversa la parete:

1 2AQ K T TD

t= − Δ

Il meccanismo di trasporto per conduzione dipende dal fase del materiale: - metalli: è dovuto alle vibrazioni reticolari e alla possibilità di trasferimento degli

elettroni di conduzione; se si confronta il coefficiente di conducibilità termica con quello di conducibilità elettrica si vede infatti che i migliori conduttori di elettricità sono anche i migliori conduttori di calore: tale osservazione suggerisce che il meccanismo prevalente sia associato alla mobilità degli elettroni di conduzione. Nella parte più calda della barretta, infatti, la velocità media di tali particelle è maggiore e, impoverendosi di elettroni il lato più caldo, si produce una differenza di potenziale elettrico (effetto termoelettrico);

- gas: il trasporto del calore è dovuto al movimento degli atomi o delle molecole (si è vista la relazione fra la loro energia cinetica e la temperatura); essendo queste particelle in continuo movimento, esse si scambiano energia e quantità di moto nei loro urti reciproci e la trasferiscono piano piano dalla regione più calda verso quella più fredda;

- liquidi: il meccanismo è qualitativamente lo stesso di quello dei gas, ma la situazione è resa più complicata dal fatto che le distanze medie fra le molecole sono molto più piccole e non si possono trascurare le forze intermolecolari.

2.4.2 – Convezione Il trasporto di calore per convezione implica la presenza di un fluido (quasi sempre aria o acqua) e, se si escludono i fenomeni naturali, le sue interazioni con una parete solida. Consideriamo ad esempio il problema del raffreddamento in aria di una lamina metallica riscaldata. La quantità di calore che può essere asportata dall’aria nel tempo

dipende in maniera critica dal fatto che l’aria venga spinta o meno verso la lamina e può essere espressa mediante una relazione assai semplice, nota come Legge di Newton:

( )Q hA T T t∞= − Δ (Dove A rappresenta l’area della superficie esposta al flusso, T e T∞ sono le temperature sulla superficie

della lamina e del fluido a grande distanza) Il coefficiente h dipende dalla natura del fluido, dalla geometria del sistema e dal regime di trasporto del fluido. 2.4.3 – Irraggiamento Il fenomeno dell’irraggiamento consiste nel trasporto di calore per onde elettromagnetiche: la vita sulla Terra esiste in virtù dell’energia termica che il Sole fornisce in tale modo al nostro pianeta. L’energia irradiata da un corpo dipende dalla sua temperatura, dall’area A della superficie radiante e dal tempo , secondo la legge di Stefan:

4Q ATεσ t= Δ

σ = 5,67051 810⋅ 2 4W

m K = costante di Stefan-Boltzmann;

Page 67: Fisica LB

1ε = solo in caso di corpo nero (che assorbe tutte le variazioni dalle quali è investito); altrimenti è 1ε < . Un’altra legge importante per l’irraggiamento è la Legge di Wien, che indica come il prodotto fra la lunghezza massima maxλ delle onde emesse da un corpo caldo e la temperatura T sia costante e pari a:

3max costante = 2,898 10T mλ −= ⋅ K

Dunque, tutti i corpi emettono energia per radiazione, anche se ci accorgiamo soltanto delle radiazioni elettromagnetiche che il nostro occhio è in grado di percepire (spettro visibile).

2.5 – Capacità termica Consideriamo un sistema che, scambiando calore Q con l’ambiente circostante, varia la sua temperatura da a iT fT . Si definisce capacità termica media nell’intervallo : tΔ

mQCt

da cui, con un passaggio al limite, si ottiene la capacità termica alla temperatura T:

( ) QC TdTδ

=

Inoltre, viene definito calore specifico la capacità termica riferito all’unità di massa del sistema in oggetto:

C Qm m dT

δ= =

In modo analogo si definisce il calore (specifico) molare: 1C Qc

n n dTδ

= =

(n = numero di moli del sistema) Il calore specifico e il calore specifico molare dipendono: - dalla sostanza; - dal tipo di trasformazione attraverso la quale avviene lo scambio di calore; - dalla temperatura alla quale avviene lo scambio di calore. Tali grandezze riflettono la (maggiore o minore) capacità di un sistema di assorbire (o cedere) calore senza variare (apprezzabilmente) la propria temperatura. In particolare, dalla

C Qm m dT

δ= = , si ottiene che:

f

i

T

T

Q m dT= ∫

Se consideriamo costante, nell’intervallo di temperatura considerato, il calore specifico, allora possiamo integrare e dire:

Q = m tΔ

Sperimentalmente si nota che vi sono situazioni fisiche nelle quali un sistema non cambia la propria temperatura, pur scambiando calore con l’ambiente circostante. Questo avviene quando nel sistema sta avvenendo un cambiamento di fase (o di stato); viene chiamato calore latente (di fusione o di evaporazione) il calore necessario a far cambiare fase alla massa unitaria di una certa sostanza; esso risulta equivalente alla corrispondente variazione di entalpia.

Page 68: Fisica LB

Infine, accenniamo un interessante risultato sperimentale (legge di Dulong e Petit), secondo cui quasi tutti i calori molari dei solidi degli elementi chimici tendono allo stesso valore, per temperature sufficientemente grandi. 2.6 – Proprietà dei gas ideali 2.6.1 – Energia interna

Si è discussa la proprietà dell’energia interna di un sistema termodinamico di essere funzione di stato delle variabili termodinamiche indipendenti che lo descrivono (nel caso di un sistema idrostatico, di due qualsiasi delle coordinate macroscopiche p, V, T). In effetti, si trova sperimentalmente che l’energia interna dei gas perfetti (cioè dei gas reali a bassa pressione) dipende solo dalla temperatura. Prendiamo ora in considerazione un contenitore adiabatico (con termometro che misura la temperatura), diviso in due camere che possono essere connesse realizzando un opportuno rubinetto. Inizialmente il rubinetto è chiuso e un gas è contenuto in una delle due camere, mentre nell’altra c’è il vuoto. Ad un certo punto si apre il rubinetto in modo che il gas sia libero di riempire anche la seconda camera: il processo è chiaramente irreversibile (in quanto non è quasi-statico), e durante la trasformazione la pressione esterna (rispetto al gas) è nulla, quindi il gas non fa lavoro. Non vi è neppure scambio di calore, perché il contenitore è adiabatico, quindi:

00

0L

UQ=⎧

⇒ Δ =⎨ =⎩

Quando il gas ha raggiunto il suo nuovo stato di equilibrio termodinamico, se ne misura nuovamente la temperatura e si osserva una sua diminuzione, tanto più trascurabile quanto minore è la pressione iniziale del gas. Estrapolando questo risultato, otteniamo che:

0lim 0p

T→

Δ =

Si noti che nella trasformazione il gas cambia sia il volume che la temperatura. Considerando come coordinate indipendenti volume e temperatura, abbiamo che

( , ) ( , )f iU V T U V T= dunque l’energia interna non è sensibile alla variazione di volume, ma è funzione solo della temperatura. Si scrive:

( )U U T= (gas perfetto) 2.6.2 – Capacità termica e relazione di Mayer Poiché l’energia interna di un gas perfetto è funzione solo di T, in una trasformazione a volume costante si ha che:

( )VdUQ dU ddT

δ ⎛ ⎞= = ⎜ ⎟⎝ ⎠

T

Il calore molare a volume costante può quindi essere espresso come: 1 1

V Vc cn d

= =V

dQ dU d nn

TT dT

Uδ⎛ ⎞ ⇒ =⎜ ⎟⎝ ⎠

Possiamo dunque scrivere il Primo Principio per le trasformazioni quasi-statiche dei gas perfetti nella seguente forma:

VQ nc dT p dVδ = + (gas perfetti) Da questa espressione siamo in grado di ottenere la relazione di Mayer fra i calori molari di un gas perfetto, a volume costante e a pressione costante.

Page 69: Fisica LB

- differenziamo l’equazione di stato: p dV V dp nR dT+ = , da cui si trova facilmente che ; p Vd = nR d pT V d−

- ricordiamo che VQ nc d dT p Vδ = + ; - dunque Vnc dT nR dTQ V dpδ = + − ;

- siccome 1 1p

p

V

p

nc dcn dT

T nR dT V dpQn dT

δ ⎛ ⎞⎛ ⎞= =⎜ ⎟ ⎜ ⎟⎝ ⎠ ⎝ ⎠

+ − ;

- operando semplificazioni si ottiene: p vc c R= + (relazione di Mayer, valida solo per

i gas perfetti). Notiamo come nei gas perfetti si ha sempre che p vc c> ;

- in conclusione, stante la VdU nc dT= , si ha che costanteVU nc T= + . Aggiungiamo, senza troppo approfondire, che anche l’entalpia dipende solo dalla temperatura: pdH nc dT= . Per i gas perfetti possiamo utilizzare due diverse espressioni del calore scambiato, secondo convenienza:

1) VQ nc dT p dV dU p dVδ = + = + 2) pQ nc dT V dp dH V dpδ = − = −

2.6.3 – Trasformazioni adiabatiche quasi statiche In queste trasformazioni non c’è scambio di calore, per cui modifichiamo le due equazioni appena poco fa scritte ponendo 0Qδ =

1) 0 V Vnc dT p dV nc dT p dV= + ⇒ = − 2) 0 p pnc dT V dp nc dT V dp= − ⇒ =

Dividiamo fra loro queste due equazioni: 1

VV

p

nc dT p dV p

p

dV p dVnc dT V dp V dp V dp

= − cc γ

− −⇒ = ⇒ =

=

Si ricava facilmente che: dp dVp V

γ= −

Assumiamo γ costante e integriamo per ottenere:

0 0 0 0 0 0ln ln ln 0 1p V pV pV

p V p V p V

γ γ

γ γγ= − ⇒ = ⇒ =

(dopo aver applicato le proprietà dei logaritmi) Si ottiene dunque l’equazione di Poisson:

costantepV γ = Dalla quale derivano:

1 costanteTV γ − = 1

costanteTpγγ−

= (applicando l’equazione di stato dei gas perfetti)

2.6.4 – Trasformazioni politropiche Le trasformazioni isoterme e le trasformazioni adiabatiche (quasi-statiche) di un gas perfetto fanno parte di una classe di trasformazioni, chiamate generalmente politropiche, che passano attraverso stati le cui coordinate termodinamiche soddisfano equazioni del tipo (costantepVα = 1α = per le isoterme, α γ= per le

Page 70: Fisica LB

adiabatiche, 0α = per le isobare). Più α è grande, maggiore è la pendenza della curva della trasformazione nel piano di Clapeyron (p-V). Il calore molare di un gas ideale in una trasformazione politropica può essere calcolato utilizzando: - il Primo Principio nella forma differenziale dU Q Lδ δ= − ; - l’equazione di stato pV nRT= e la sua versione p dV V dp nR dT+ = ;

- l’equazione ; costantepVα =

- la definizione di calore molare: 1 Qcn dTδ

= .

Si agisca così: 1) Differenziamo in costantepVα = ( ) 0p dV V dpα + = ; 2) Sottraiamo ( ) 0p dV V dpα + = da p dV V dp nR dT+ = e otteniamo

(1 )( ) p dV nR dTαα− = 3) Applichiamo il risultato alla definizione di calore molare, così trasformata:

1 1 1V

Q dU dVc p cn dT n d

dVpT dT n dTα

α α α

δ ⎡ ⎤⎛ ⎞ ⎛ ⎞= = + = +⎢ ⎥⎜ ⎟ ⎜ ⎟⎝ ⎠ ⎝

⎛ ⎞⎜⎝⎣ ⎦

⎟⎠⎠

Si ottiene:

1VRc cα α

= +−

2.7 – Aspetti microscopici Ricordiamo che, per una molecola monoatomica, si può scrivere per l’energia cinetica media la relazione:

32

K k= T

Siccome una molecola puntiforme ha tre gradi di libertà, tutto va come se tale molecola contribuisse (mediamente) all’energia interna con un’energia 1

2 kTε = per ciascun grado di

libertà. Questa affermazione, apparentemente arbitraria e “a naso”, può essere giustificata da un punto di vista statistico attraverso il teorema di equipartizione: in un sistema che si trovi in equilibrio termodinamico, alla temperatura T, ogni termine quadratico indipendente della sua energia interna ha un valore medio di 1

2 kTε = .

Di conseguenza, come detto, l’energia interna di n moli di gas perfetto monoatomico sarà

semplicemente 32

U nR= T . Da qui è facile ricavare il calore molare a volume costante:

1 32V

dUc Rn dT

= =

Se ricordiamo la relazione di Mayer: p vc c R= + 3 52 2Vc R R= + = R

Per una molecola biatomica (che ha due gradi di libertà in più), tali relazioni diventano: 52Vc = R 7

2Vc R=

Page 71: Fisica LB

3.1 – Come ottenere lavoro da un serbatoio di calore I serbatoi di calore sono corpi che non interagiscono per via meccanica con il sistema e con i quali è possibile scambiare calore a piacere, senza che essi cambino (apprezzabilmente) la propria temperatura. Si potrebbe pensare di utilizzare l’energia interna di un serbatoio a temperatura , sottraendogli calore da trasformare in lavoro, mediante una macchina. Ciò si può fare con un dispositivo in cui un gas, inizialmente in uno stato di equilibrio termodinamico, si trova in un contenitore adiabatico con un coperchio mobile, mentre la base conduttrice permette scambi di calore con un serbatoio di temperatura uguale a quella iniziale. Prendiamo una situazione ideale: quella di un gas perfetto che esegue trasformazioni quasi-statiche, con un coperchio che si muove in assenza di attrito. In queste condizioni, togliendo in lenta successione piccoli pesetti inizialmente appoggiati sul coperchio, il gas, espandendosi, fa un lavoro positivo sull’ambiente.

1T

1T

Siccome l’energia interna di un gas perfetto è funzione solo della temperatura (che in questo caso non cambia, grazie al contatto col serbatoio), si ha che

0UΔ = dunque Q L= Il calore assorbito è stato trasformato completamente in lavoro. Una macchina del genera fa lavoro finché vi sono pesetti da togliere: in seguito, perché possa continuare a funzionare, occorre riportare il sistema allo stato iniziale. Se, per fare ciò, comprimiamo il gas facendogli compiere una trasformazione reversibile (isotermica), vale ancora la relazione Q L= , ma questa volta il lavoro bisogna farlo dall’esterno sul gas. Una trasformazione simile, come si può ben capire, non serve a niente. 3.2 – Enunciato di Kelvin - Planck Tutte le macchine operano in maniera ciclica e ciò vale anche per le macchine termiche, la cui variazione di energia interna lungo un ciclo è nulla (essendo U funzione di stato). Dunque, per ogni macchina termica (ciclica) si ha Q = L. Ebbene, è un fatto sperimentale che fino ad oggi nessuno sia mai riuscito a realizzare una macchina termica che fornisca energia meccanica lavorando con un solo serbatoio. In un ciclo non si riesce a trasformare completamente in lavoro l’energia sottratta a un solo serbatoio; una parte di tale energia viene sempre trasferita (mediante scambio di calore) a un altro serbatoio, che ha la temperatura più bassa del primo. Se la macchina è reversibile e deve tornare allo stato iniziale, restando in contatto termico con un termostato a temperatura , si ricade nella situazione del paragrafo precedente e non si ottiene alcun lavoro. In realtà, dato che le trasformazioni reali non sono reversibili, il lavoro risulta negativo: ne segue che una macchina termica, per funzionare, ha bisogno di almeno due serbatoi di calore.

1T

Il termostato a temperatura maggiore è quello al quale la macchina sottrae energia, l’altro riceve un flusso di calore dalla macchina stessa; la macchina monoterma (poco fa descritta, con un solo serbatoio) è impossibile dal realizzare per il Secondo principio della termodinamica (o di Kelvin-Planck), che è così enunciato: è impossibile realizzare una qualsiasi trasformazione il cui unico risultato sia quello di convertire completamente in lavoro il calore prelevato da un solo serbatoio. Si osservi che tale principio non vieta la conversione completa di calore in lavoro lungo la trasformazione isotermica discussa nel precedente paragrafo, in quanto tale conversione non rappresenta l’unico risultato della trasformazione. Infatti, nel contempo, è cambiato lo stato del sistema. Il modo più semplice per realizzare una macchina termica è quindi costruire una macchina con:

- un serbatoio caldo (temperatura ); 1T- un serbatoio freddo (temperatura ); 2T- la possibilità di scambiare calore tra il primo e il secondo serbatoio:

o calore assorbito dal serbatoio caldo: ; 1Qo calore ceduto al serbatoio freddo: . 2Q

Il lavoro eseguito dalla macchina termica diventerà 1Q Q2+ (tenendo conto dei segni: 1 2Q Q− = L ). Poiché una macchina termica è un trasformatore energetico che fornisce lavoro meccanico L, utilizzando il calore , si definisce rendimento della macchina termica il rapporto fra tali quantità: 1Q

21 2 2

1 1 11 1

QQ Q QLQ Q Q Q

η += = = + = −

1

Si nota subito che è impossibile ottenere rendimento pari a 1, perché in tal caso dovrebbe essere 0. 2Q

Page 72: Fisica LB

3.3 – Enunciato di Clausius: macchine frigorifere Un’altra formulazione del secondo principio della termodinamica è stata data da Clausius, nella forma: è impossibile realizzare una qualsiasi trasformazione il cui unico risultato sia quello di far passare calore da un corpo (più) freddo a un corpo (più) caldo. Un sistema per trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo (usufruendo di un lavoro esterno, che quindi ha segno negativo) viene chiamato macchina frigorifera: naturalmente, dovendo il frigorifero lavorare ciclicamente, per la conservazione dell’energia anche in questo caso vale la relazione . Q L=

Si dice coefficiente di prestazione: 2QL

ω = ( è il calore assorbito dal serbatoio freddo). 2Q

Si può dimostrare che gli enunciati di Clausius e di Kelvin costituiscono due modi diversi per esprimere lo stesso principio. 3.4 – Macchine reversibili e ciclo di Carnot I limiti di funzionamento delle macchine termiche (e frigorifere) reversibili sono stati discussi in precedenza. In ogni caso è da aspettarsi che, a parità di tutte le altre condizioni, il rendimento delle macchine reversibili sia superiore a quello delle macchine non reversibili. Limitandoci per ora al solo caso di macchine termiche reversibili che lavorano con due serbatoi, possiamo anzitutto mostrare che esiste un solo tipo di ciclo reversibile che tale macchina può compiere. Sappiamo che, quando la macchina è a contatto con uno dei termostati, l’unica trasformazione reversibile possibile è una isoterma alla temperatura del serbatoio stesso. Se invece la macchina è termicamente isolata dai termostati, non può che fare una trasformazione adiabatica. Dunque l’unico tipo di ciclo possibile si ottiene alternando isoterme reversibili e adiabatiche reversibili. Lo stesso ciclo, percorso nel verso opposto, rappresenta l’unico tipo di ciclo reversibile realizzabile con due soli serbatoi. Data la reversibilità, i cambiamenti di versi comportano esclusivamente cambiamenti di segno delle energie scambiate. Tale ciclo è detto di Carnot, e gode di importanti proprietà:

- il rendimento di una macchina termica generica non può essere maggiore di quello di una macchina reversibile di Carnot;

- tutte le macchine di Carnot che lavorano fra le stesse due sorgenti hanno lo stesso rendimento. Dal teorema di Carnot discende che:

- tutte le macchine reversibili che lavorano fra gli stessi due serbatoi hanno lo stesso rendimento. Facciamo ora un esempio di macchina reversibile a gas perfetto.

Consideriamo una singola mole di gas perfetto, la quale compia il ciclo di Carnot costituito da due adiabatiche e due isoterme, e calcoliamo i calori e scambiati dal sistema con i serbatoi. 1Q 2QNella trasformazione isotermica A B l’energia interna non cambia per cui il valore ricevuto dal sistema è uguale al lavoro che esso esegue:

1 1 ln 0B B

B

AA A

VRT dV RTV VABQ L p dV= = = >∫ ∫ =

In maniera analoga si calcola il valore del calore Q scambiato (ceduto) dal gas con il serbatoio freddo, nella trasformazione C D:

2

2 2 2ln 0CD

C D

VVQ RT RTV V

= = − <

Le altre due trasformazioni sono adiabatiche reversibili; quindi, per le equazioni di Poisson, si può scrivere: 1 11 1

1 21 1

1 2

B C C CB B

A D ADA

TV T V V VV VV V VTV T V

γ γγ γ

γ γ

− −− −

− −

⎧ = ⎛ ⎞ ⎛ ⎞⎪ ⇒ = ⇒ =⎨ ⎜ ⎟ ⎜ ⎟= ⎝ ⎠ ⎝ ⎠⎪⎩ DV

Si ottiene dunque la seguente relazione, valida per un qualsiasi ciclo di Carnot: 2 2

1 1

Q TQ T

= .

Page 73: Fisica LB

Essa vale qualunque sia il fluido con cui opera la macchina. 3.5 – Rendimento delle macchine di Carnot Le relazioni:

2 2

1 1

Q TQ T

= e 21 2 2

1 1 11 1

QQ Q QLQ Q Q Q

η += = = + = −

1

Ci permettono di scrivere in maniera semplice il rendimento di una qualsiasi macchina di Carnot, che scambi i calori e con due serbatoi di temperature T e T : 1Q 2Q 1 2

2 2

1 11 1

Q TQ T

η = − = −

Anche il coefficiente di prestazione di un ciclo frigorifero può essere espresso mediante le relazioni di cui sopra:

2 2

1 2 1C

Q TQ Q T T

ω = =2− −

La definizione di rendimento di una macchina termica può essere estesa anche al caso in cui essa lavori con più di due serbatoi. In tal caso, nell’espressione

LQ

η =

Il denominatore rappresenta la somma di tutti i calori assorbiti dalla macchina nel ciclo. 3.6 – Ciclo Stirling

È un ciclo reversibile costituito da due isoterme e due isocore eseguite da un gas perfetto. L’isoterma a temperatura T collega lo stato 2 allo stato 1, la prima isocora 1 con 4, l’altra isoterma (a temperatura T ) collega 4 con 3, e infine una seconda isocora chiude il ciclo.

1 2( )T>

2

Lavoro: 1 2ln lnB D

A C

V VL nRT nRTV V

= + , ma siccome B CV V= e

A DV V= possiamo scrivere ( )1 2 ln B

A

VL nR T TV

= − .

Calore ricevuto dall’esterno: 1 2 1( ) ln BV

A

VQ n c T T nRTV

= − +

Rendimento: ( )1 2

1 2 1

ln

( ) ln

B

A

BV

A

VnR T TVL

VQ nc T T nRTV

η−

= =− +

.

3.7 – Ciclo Otto

Il motore a scoppio può essere schematizzato con un ciclo di Otto, costituito da due adiabatiche e due isocore, tutte reversibili. Si consideri una macchina che esegue un ciclo del genere in cui le adiabatiche collegano gli stati 3-4 e 2-1. Lavoro: L Q ( ) (DA BC V A D V C B )Q Q nc T T nc T T= = + = − + −

evuto dall’esterno: ( )DA V C BQ nc T T= − Calore ric

Rendimento: 1

1

21 B C

DA A D

T T VLQ T T V

γ

η−

⎛ ⎞−= = − = ⎜ ⎟− ⎝ ⎠

.

Page 74: Fisica LB

3.8 – Ciclo Diesel Il motore Diesel può essere schematizzato con quattro

avoro )

trasformazioni reversibili, due adiabatiche, una isobara e una isocora. L : ( ) (DA CD p B A v D CL Q Q Q nc T T nc T T= = + = − + −

Calore ricevuto dall’esterno: ( )AB p BQ nc T TA= −

Rendimento: 1 v C D

AB p B A

c T TQ c T T

Lη −= = −

−.

3.9 – Teorema di Clausius er un’ulteriore formalizzazione del Secondo principio della Termodinamica è di fondamentale importanza il

P

teorema di Clausius, che può essere dimostrato generalizzando la relazione 1 2 0T T1 2

Q Q+ ≤ (il segno = vale per i

cicli irreversibili, il segno < per quelli irreversibili) al caso di una macchina ter n ciclo scambi calore

1 2 n

Immaginiamo di avere a disposizio he un ulteriore serbatoio a temperatura T , e n macchine di Carnot C ,

mica che in ucon n serbatoi aventi temperature T T T .

ne anc

o

ip

, ,...,

0 i

ciascuna operante fra la sorgente 0T e la corrispondente sorgente iT . Supponiam inoltre che, a ogni ciclo, i

scambi col serbatoio iT il calore iQ , uguale ma di segno contrario alla quantità iQ che il serbatoio ha scambiato con M. Esaminiamo la macchina costituita da M e dall’insieme delle macchine iC ; per le otesi fatte sui calori

C −

scambiati, i serbatoi iT risultano non essenziali per il suo funzionamento: s tratta in effetti di una macchina

ciclica monoterma, ch funziona con un solo serbatoio, quello a temperatura 0T , con il quale scambia il calore ''

T iQ Q=∑ . Per l’enunciato di Kelvin del secondo principio ' 0TQ

i

e

≤ e quindi la macchina trasforma lavoro in

D’altra p

calore.

arte, però, per ogni macchina di Carnot vale la iC 1 2

1 20Q Q

T T+ ≤ quindi si ha che:

( )'i iQQ − '

00

0ii

i i

QQ TT T T

+ = ⇒ =

''0 0 0i i

T ii i

Q QQ Q TT T

= = ≤ ⇒ ≤∑ ∑ ∑

Si può dimostrare che, se la macchina M è reversibile, nella formula appena scritta vale il segno di uguaglianza. In tal caso, infatti, è possibile realizzare il ciclo inverso, nel quale tutte le quantità in gioco hanno lo stesso

modulo ma cambiano segno. Se ne deduce una relazione identica a 0iQTi

≤∑ , ma con tutti i calori cambiati di

segno:

0 0i i

i i

Q QT T−

≤ ⇒ ≥∑ ∑

Che sono compatibili solo se 0i

i

QT

=∑ .

Page 75: Fisica LB

L’estensione a una trasformazione ciclica in cui la temperatura del sistema varia con continuità, equivalente a considerare un numero di serbatoio tendente all’infinito, è immediata: chiamando Qδ il calore scambiato con il

serbatoio a temperatura T, si ha 0QTδ

≤∫ .

Page 76: Fisica LB

4.1 - Entropia

Nel caso di cicli reversibili, la relazione 0Q

T

δ ≤∫ equivale ad un’importante proprietà:

l’indipendenza dalla trasformazione eseguita dell’integrale 0f

R i

Q

T

δ ≤∫ (che ora non

dimostriamo). Si definisce allora, attraverso tale integrale, la variazione di una grandezza

termodinamica, detta entropia: f f

R f ii i

QdS S S S

T

δ = = − ≡ ∆∫ ∫

Tale indipendenza dalla trasformazione mette in evidenza l’importante proprietà dell’entropia di

essere una funzione di stato e il fatto che R

QdS

T

δ =

è un differenziale esatto.

[da terminare…]