FILOSOFIA TEORETICA PUTNAM, STOICISMO

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TESTO PER STUDENTI UNIVERSITARI SUI FILOSOFI TEORETICI PUTNAM, E GLI STOICI

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Filosofia Teoretica

Anno Accademico 2007 / 2008

(Professor Massimo Dell'Utri)

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Parte uno

L'antico intrecciarsi degli scetticismi

Emidio Spinelli(pagine 3 – 10)

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Scetticismo e Fallibilismo

Massimo Dell'utri(pagine 11 – 17)

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PARTE 1

Capitolo 1.(Spinelli)

1.1 L'ANTICO INTRECCIARSI DEGLI SCETTICISMI; premessa e sul cominciamento scettico.

Primo problema, quando s’inizia a parlare di un qualcosa, e in questo nostro caso questo qualcosa è lo scetticismo, è il problema di quando ciò ha avuto inizio.

Va innanzi tutto detto che occorre riannodare un minimo le fila di un secolare intrecciarsi degli scetticismi antichi, toccandone gli snodi fondamentali, passando per quelli che sono spesso definiti come padri fondatori per arrivare a Sesto Empirico, vero bacino collettore di tradizioni precedenti.

Innanzi tutto occorre definire cosa sia lo scetticismo. Il definire cosa sia ci aiuta anche a capire meglio quando vi è la prima apparizione di questo atteggiamento filosofico.

Non basta (in una sorta di graduatoria lessicale – cronologica) ricercare la prima apparizione del termine, va piuttosto compreso quando lo scetticismo, come forma di pensiero, si sia distinto da altre forme.

Nel momento di parlare di “quando” occorre prestare attenzione ed esseri rigorosi, se non vogliamo inglobare nello scetticismo ogni formulazione di dubbio o d’ignoranza espressa da scrittori. Altrimenti ci ritroveremo a citare Omero, Archiloco, Eraclito, o persino Democrito, citando persino Socrate, Platone, Gorgia e Protagora.

Quando parliamo di scetticismo parliamo di una corrente filosofica, di un movimento specifico, e sono quindi da escludere ipotesi interpretative allargate. La corrente filosofica scettica non volle in ogni modo mai assurgere al grado di scuola.

Innanzitutto attribuiamo alla corrente scettica due principali note di fondo:a) Il vero scettico persevera nella ricerca e nel dubbio oggettivo, nello stato d’aporia, che

lo caratterizza come un vero e proprio scopo.b) La capacità di supportare questo atteggiamento d’interminabile apertura mentale,

mediante una sistematica raccolta, o se necessario opportuna invenzione d’argomenti che devono mostrare l'impossibilità di qualsiasi pretesa conoscitiva.

Una volta assodati questi due punti si possono individuare un punto preciso in cui questo atteggiamento si consolidò. Si tratta del dibattito epistemologico – etico innescato da Pirrone e Arcesilao tra il IV° e il III° secolo avanti Cristo. Parleremo pertanto di due distinte forme di scetticismo.

1) Scetticismo Pirroniano. PIRRONE2) Scetticismo Accademico. Arcesilao.

I due scetticismi si trovano ad essere non coincidenti anzi spesso in netto contrasto.

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1.2 In principio era Pirrone?

Iniziamo dunque da Pirrone. La sua figura anche a causa delle difficoltà a rintracciare la sua formazione (forse filosofi orientali?) e dall'assenza di scritti suoi suscita una domanda quasi paradossale ma parimenti fondamentale: Pirrone fu davvero pirroniano? La risposta è presumibilmente negativa.La sua figura non è, infatti (come appare da diverse testimonianze antiche) per nulla intenta alla ricerca continua del vero, ricerca che sempre termina con la persuasione che non si possa dire nulla di definitivo sulla realtà.Aristotele ci dice a questo proposito:

“dice Pirrone, tramite il suo discepolo Timone, che chi vuole essere felice deve guardare a queste tre cose: come sono in natura le cose, quale deve essere la nostra disposizione verso di esse, che cosa ce ne verrà. Le cose a Pirrone appaiono come senza stabilità, indiscriminate e che le nostre opinioni su di esse non sono né vere né false.”

Occorre per questo essere senza opinioni. Senza scosse, e colui che raggiungerà questo stato raggiungerà prima l'afasia e poi l'atarassia (l'imperturbabilità).

Ne concludiamo che Pirrone si pronuncia in maniera negativa sulla natura delle cose e le vede così indeterminate che la separazione da esse così “senza differenze”, “senza stabilità”, “indiscriminate”, ci porterà ad uno stato prima afasico poi atarassico.

Quindi Pirrone più che come scettico si pone come filosofo di una metafisica negativa e indifferentista, dal punto di vista epistemico Pirrone non si ferma alla fase dubitativa ma dichiara non che non conosciamo nulla ma che non vi è nulla da conoscere. A conferma di ciò vi è l'indiretta constatazione del fatto che per lungo tempo non si parlò di Pirrone in qualità di filosofo scettico.

La “patente” di scettico gli fu riconosciuta a causa di molte opinioni e suoi concetti che lo vedono negare validità e forza a concetti basilari come quelli di bene e di male. Sino ad arrivare alla nota accusa d’apraxia (inattività). Tornando alla domanda iniziale “Pirrone fu pirroniano?” diciamo no, Pirrone non fu Pirroniano. Il primo pirroniano fu Timone che esaltò tanto alcuni aspetti della sophia del maestro, forse in chiave antisocratica, portandone in risalto soprattutto il senso di un’esasperante negazione di qualsiasi accesso conoscitivamente fondato alla vera realtà delle cose.

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1.3 Nel cuore dell'accademia scettica (e oltre)

Alcune correnti critiche videro Arcesilao riferirsi addirittura a Pirrone per la sua filosofia. Ma ciò non è. Se si vuole parlare dello scetticismo in maniera corretta dobbiamo concentrarci su altre fonti che ci facciano cogliere le differenze d’impostazione; differenze di background filosofico tali tra Arcesilao e Pirrone che è semplicemente impossibile affermare che i due filosofi siano vicini.

Ci racconta Cicerone:Arcesilao, trasse dagli scritti di Platone e Socrate la convinzione che nulla può essere appreso attraverso i sensi e la mente. Questo filosofo rifiutava ogni valutazione e stabilì per primo l'uso di non rivelare il proprio pensiero ed era solito confutare le opinioni dei propri interlocutori.Il passo di Cicerone ci mette sulla strada giusta, per capire Arcesilao dobbiamo trovare la sua continuità di metodo con Socrate e Platone. Di Platone, Arcesilao amava soprattutto una frase “discutere in un senso e in quello contrario”. Amava, infatti, tantissimo il carattere inconclusivo e aporetico dei cosiddetti dialoghi giovanili (soprattutto il Teeteto). Attraverso questi studi Arcesilao si convinse del concetto perciò né la testimonianza dei sensi né l'uso della ragione sono in grado di farci conoscere la vera natura delle cose.

L'atteggiamento filosofico di Arcesilao dunque nasce per la ricerca della verità ma si scontra con la forza uguale e contraria delle tesi opposte in un medesimo tema e non può che sfociare in una sospensione generalizzata dell'assenso.

Dice ancora Cicerone:

“Arcesilao dice che non vi è nulla che si possa sapere, neppure il sapere di non sapere nulla. Per questo motivo nessuno può con il suo assunto dichiarare, affermare, o approvare alcunché e che quando si afferma, o approva qualcosa ancora prima di conoscerla (almeno con i sensi), si compie qualcosa di turpe.

Alla base della filosofia di Arcesilao vi furono dunque tesi genuinamente socratiche (rifiuto al saggio della possibilità di formulare pareri) e tesi che di fondo ricalcavano Platone (cioè il sostenere il carattere limitato delle capacità conoscitive dell'uomo).

Arcesilao, rifacendosi al punto platonico delle limitate capacità conoscitive dell'uomo, attaccava la pretesa di altre scuole filosofiche di potere raggiungere una conoscenza certa e assoluta confidando nella sola testimonianza dei sensi.

Così prese di mira soprattutto il criterio di verità stoica. Gli stoici rintracciavano la verità nella rappresentazione comprensiva e nella solida comprensione che essa produce e adottò una polemica capace di sfruttare come punto di partenza le tesi stesse degli avversari.

(1) In un primo momento accettò il dogma stoico secondo cui il vero sapiente non formula mai opinioni nel senso che non concede mai il proprio assenso a una rappresentazione falsa.

(2) Individuò in secondo luogo una serie di coppie identiche, ad esempio: gemelli, uova, monete dello stesso conio, fino ad arrivare alle allucinazione alle illusioni che si hanno nella follia e nei sogni. Queste ultime soprattutto mostravano l'impossibilità di distinguere fra rappresentazioni false e rappresentazioni vere.

(3) Se le cose stanno così, il vero saggio (anche quello stoico) se davvero non vuole cadere vittima di opinioni deve evitare di concedere il proprio assenso a qualsiasi opinione; deve sospendere il giudizio in modo incondizionato.

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Ma se un saggio sarà costretto a sospendere il giudizio si troverà di certo costretto all'apraxia. Per sfuggire questa critica stoica Arcesilao propose la sua teoria morale. Il modello comportamentale da seguire è l'istinto naturale che spinge verso il bene e per metterlo in atto è sufficiente seguire l'esatto impulso senza bisogno dell'assenso che gli stoici richiedevano.

Il lavoro di Arcesilao continuò, dopo di lui con altri scettici. Sempre in funzione antistoica. Prendendo come punto di riferimento le lezioni di Arcesilao, Carneade elaborò un'insieme di argomenti contro tutte le parti della filosofia dogmatica.Carneade lavorò soprattutto contro il loro criterio di verità e contro la loro dottrina di conoscenza. Carneade con affinate obbiezioni mise in dubbio non solo l'attendibilità conoscitiva dei sensi, ma soprattutto la possibilità di individuare rappresentazioni comprensive e di conseguenza la pretesa di fondare su una rappresentazione comprensiva il funzionamento stesso della ragione.

La posizione di Carneade comunque non è mai radicale come quella di Arcesilao, infatti, non accolse la posizione della sospensione generalizzata del giudizio, secondo Carneade vi è la possibilità che il saggio concedesse l'assenso; ma questo assenso non era verso qualcosa di vero ma piuttosto un assenso a seguire ciò che si presenta come probabile e dunque persuasivo.

Carneade sottolineò la necessità di indagare con cura per capire e conoscere la realtà (ma non conoscere ciò che era vero, quanto ciò che appariva vero), senza però precipitazioni e capendo ogni aspetto della realtà esterna. Solo mettendo in atto questo metodo era possibile evitare la paralisi dell'azione.

Un punto di riferimento per ogni occasione era rintracciabile facendo uso delle rappresentazioni massimamente probabili e persuasive, attraverso queste ultime era possibile ottenere un punto di riferimento o più precisamente un criterio in base al quale regolare il proprio comportamento in ogni occasione. Tutte le situazioni, anche le più complesse, potevano essere affrontate attraverso il ricorso a scelte attuate attraverso la capacità di riflettere e confrontare i dati presentatisi nel passato.

Dalla lettura di Carneade (lettura nel senso di interpretazione poiché Carneade non ci ha lasciato nulla di scritto e tutto ciò che leggiamo di lui ci proviene da terzi) vennero a seguire due distinti partiti:

a) Clitomaco – vedeva Carneade come campione di uno scetticismo radicale, impegnato unicamente nella battaglia contro gli stoici.

b) Metrodoro – riconosceva un lato positivo nella filosofia di Carneade e ne mitigava le conclusioni scettiche.

Il progressivo indebolimento delle posizioni scettiche all'interno dell'accademia causò la reazione dogmatica di Antioco di Ascalona e il tentativo di proporre una forma di scetticismo, quella pirroniana, capace di reinterpretare in modo più radicale sia il senso dell'indagine filosofica sia l'intero panorama della storia della filosofia precedente.

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1.4 La rinascita pirroniana fra Enesidemo e Agrippa.

Dopo Timone, discepolo di Pirrone non vi fu diretta continuazione del pensiero pirroniano. Successivamente poi, nella seconda metà del primo secolo il pensiero di Pirrone fu ripreso da Enesidemo. La figura del pensiero di Enesidemo è innanzitutto caratterizzata dalla forte polemica contro i filosofi dell'accademia che accusava di “reputarsi” scettici mentre non erano niente altro che stoici che “combattevano” contro altri stoici.

Per Enesidemo il vero scetticismo non era quello dell'accademia e cercò altrove la sua figura di riferimento individuandola in Pirrone, che però interpretò rifacendosi a Timone come filosofo totalmente scettico e lo rese sua figura ideale di riferimento.Caratteristiche del lavoro di Enesidemo furono: la raccolta sistematica dei “tropi” (=modi, schemi, argomenti, ragioni) della sospensione del giudizio, ovvero l'insieme delle argomentazioni che permettevano agli scettici di evitare agli stoici di pronunciarsi dogmaticamente.Enesidemo classificò le opposizioni possibili fra ciò che una cosa appare e ciò che una cosa è in realtà e secondo natura e le raggruppò in dieci modi:

1) differenze negli animali

2) differenze tra gli uomini

3) diverse condizioni sensoriali

4) diverse circostanze

5) spazi e luogo come determinanti

6) mescolanza

7) quantità e modo di preparazione delle cose

8) ciò che è relativo

9) maggiore o minore frequenza degli avvenimenti

10) legato ai modi della vita, alle consuetudini, alle leggi, alle concezioni dogmatiche.

Vi sono poi, otto argomenti polemici, quindi altri otto tropi, elaborati contro coloro che volevano dare una spiegazione causale delle cose.Enesidemo piuttosto che la falsità delle opinioni sulle spiegazioni causali delle cose voleva dimostrarne l'infondatezza.

Ecco gli otto tropi di cui sopra:

1°) combatte la convinzione dogmatica secondo cui una determinata causa “C” non manifesta venga confermata da osservazioni di ciò che appare “A”. Non esiste alcuna “A” che possa essere considerata conferma di “C”.

2°) Combatte la convinzione dogmatica secondo cui di fronte ad un determinato oggetto “X” non evidente, che è passabile di una molteplicità di spiegazioni, tutte valide, ci si possa richiamare ad un'unica causa. Questo concetto delle spiegazioni multiple era parte integrante della filosofia di Epicuro.Enesidemo nella sua confutazione ci dice che egli presuppone che le spiegazioni multiple valgano indistintamente per qualsiasi oggetto e che quindi non potendo scegliere quale sia vera vi è la necessità di non preferirne alcuna.

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3°) Tropo contro le dottrine atomistiche che vedono il tutto che dipende da cause prime prive di ordine. La polemica mira a dimostrare che fatti fra loro distinti non implicano implicitamente una connessione in un tutto ordinato.

4°) Il quarto tropo è un caso particolare del secondo tropo. Se il punto di partenza è il volere spiegare le cose non manifeste e le sue caratteristiche bisogna per lo meno avere due spiegazioni alternative:a) si può ipotizzare che nel mondo a noi sconosciuto tutto accade come le cose che appaiono.b) si può ipotizzare che nel mondo a noi sconosciuto tutto accade diversamente dal mondo in cui le cose ci appaiono.Secondo Enesidemo i dogmatici si buttavano troppo precipitosamente sull'opzione “a)”. mentre egli proponeva la doppia validità delle opzioni “a” e “b”, mettendo in guardia contro qualsiasi ingiustificato oltrepassamento della nostra esperienza.

Gli ultimi quattro tropi sono moderati nella polemica rispetto ai tropi precedenti e si implicano a vicenda.

5°) Si parte dalla concessione che si possano incontrare metodi comuni per i procedimenti scientifici, ma nonostante questo punto di accordo ogni scuola dogmatica resta tenacemente ancorata alla propria tesi.6°) Il sesto tropo attacca quel vizio tipico di molte teorie scientifiche che pur di non mettere in discussione i propri fondamenti teorici accolgono solo fatti che possano concordare con la propria teoria ignorandone altri che possano avere pari plausibilità.7°) È estensione del sesto tropo e ne evidenzia l'errore in cui si vanno a trovare molte teorie dogmatiche che rincorrono cause la cui non validità si mostra non solo rispetto a ciò che appare ma anche rispetto a ciò che dovrebbe essere.

8°) L'ottavo tropo è un rifiuto verso qualsiasi tentativo di spiegare cose oscure attraverso il ricorso a teorie altrettanto oscure.

Senza definire nulla e accettando di parlare solo di ciò che gli appariva Enesidemo ritenne di essere rimasto fedele al messaggio di Pirrone anche per quanto riguardava l'atarassia. Infatti, secondo lui da un continuo stato di sospensione del giudizio non ne deriva uno stato di frustrazione e impotenza ma la libertà da tutti i mali e un conseguente stato di imperturbabilità.

Dopo il lavoro di Enesidemo siamo di nuovo costretti a scontrarci con l'incompletezza delle testimonianze.

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Eccezione va fatta per il lavoro di Agrippa (I° secolo dopo Cristo) il quale elaborò cinque modi (=tropi) che erano stati elaborati come una potentissima rete scettica, capace di bloccare ogni mossa dei dogmatici:

1) discordanza2) regresso3) relatività circolarità della prova.4) Ipotesi5) diallele

Soffermiamoci sul diallele: con il termine diallele (dal greco diallelos logos = ragionamento reciproco) si intende uno dei modi della sospensione del giudizio, e precisamente quel procedimento equivoco per cui le conoscenze si provano circolarmente le une con le altre, in modo tale da assumere per dimostrato proprio ciò che si dovrebbe dimostrare (circolo vizioso) 1 .

1.6 Infine, Sesto empirico.

Il lavoro di Sesto Empirico (180\ 220 d. C.) rappresenta per noi la summa del pensiero scettico antico. Siamo in grado di leggere quasi per intero la sua opera e la prima cosa che ci salta all'occhio è, di certo il muoversi contro ogni tendenza conciliatoria fra i due tipi di scetticismo. I suoi scritti rappresentarono lo sforzo di mettere in crisi tutta la filosofia antica, sia quella filosofica, sia la cultura enciclopedica. Sesto Empirico fu anche un grande raccoglitore delle tendenze filosofiche precedenti ma anche autore di grande indipendenza teorica.

Sesto Empirico ci si presenta di fronte come la punta di quell'immenso iceberg che sono le tradizioni scettiche antiche, nei suoi testi ritroviamo, temi questioni argomentazioni di tutte le correnti dello scetticismo antico. Con Pirrone, Timone, Enesidemo, Agrippa, ma trae spunti dallo scetticismo accademico di Arcesilao e Carneade.

Nelle sue principali raccolte: “lineamenti pirroniani”, “ad versus mathematicos” argomenta contro la filosofia dogmatica. La sua esamina confuta, dibatte minuziosamente la tradizionale partizione della filosofia dogmatica che era quella della logica – fisica – etica.

Il primo libro “lineamenti pirroniani” possono essere esaminati leggendovi all'interno gli aspetti più interessanti della tradizione di Sesto Empirico.

Sesto qui propone innanzitutto una “giustificazione filosofica” in cui si impegna a difendere l'indirizzo pirroniano da accuse e fraintendimenti definendo inoltre un “manifesto programmatico” del proprio movimento di pensiero con un duplice intento:a) chiarire i punti di riferimento teorici e pratici che guidano pensiero e azione.b) delineare il ruolo unico e inimitabile del proprio movimento di pensiero sullo sfondo del grande e conflittuale quadro delle scuole precedenti.

1 È Sesto Empirico ad attribuire questo tropo ad Agrippa e ai suoi seguaci, che egli chiama “scettici più recenti”. A sua volta Sesto ritiene che ogni sillogismo sia un diallele, perché in esso la premessa maggiore, per esempio “tutti gli uomini sono mortali”, presuppone accertata la conclusione “Socrate è mortale”.

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Come punto di partenza della “costituzione scettica” vi sarebbe stato il contrapporre a ogni discorso un discorso uguale. Il primo compito di Sesto Empirico nel suo filosofare fu quello di evidenziare le differenze di pensiero esistenti fra i vari pensieri filosofici antecedenti rispetto alla ricerca della verità.

Per fare questo ricorse a una divisione funzionale del campo filosofico in tre categorie:

I. dogmatismo positivo

II. dogmatismo negativo (posizione attribuita agli scettici dell'accademia).

III. Scetticismo vero (genuino pirronismo).

Pur considerando i limiti di qualsiasi definizione ed etichettatura Sesto Empirico individuò l'essenza dello scetticismo vero in quella sorta di abilità nel contrapporre in qualsivoglia modo le cose che appaiono e quelle che vengono pensate e che con l'evidenziare l’eguale peso dei fatti contrapposti si giunge prima alla sospensione di giudizio, poi all'imperturbabilità.Sesto Empirico ci spiega anche la genesi dell'attitudine scettica che consta di due distinte fasi:

1) la prima tappa e causa scatenante è la speranza della conquista dell'imperturbabilità per fare fronte a una condizione conoscitiva sentita come fallimentare nonostante la ricerca continua e nonostante fossero inizialmente convinti che la serenità intellettuale potesse essere raggiunta solo una volta formulati indubitabili giudizi di verità \ falsità sulle cose; cosa che appunto nonostante la ricerca era impossibile.

2) L'essere tenuti in scacco da questa situazione non conoscitiva ci porta alla seconda tappa che è ancora più importante. Si tratta di quella caratteristica che Sesto Empirico chiama “disposizione o costituzione scettica”. Essa si risolve nella capacità di individuare e produrre discorsi in reciproco conflitto. I discorsi prodotti non devono essere necessariamente contraddittori ma egualmente dotati di forza persuasiva.

Questa disposizione filosofica è la vera contromisura per ogni forma di dogmatismo.

La ricerca ininterrotta e il protrarsi del domandare senza mai assentire non blocca però il pirroniano nell'apraxia. Egli, infatti, comunica la sua condizione intellettuale ed esistenziale attraverso un criterio (debole e non dogmatico) che lui chiama fantasia. Quindi non è, come dicono gli stoici condannato allo stato di inattività. Il pirroniano rifiuta si, qualsiasi filosofia dell'agire (in quanto sono esse sempre derivanti da dogmatismi), ma non rifiuta la possibilità di regolare il proprio comportamento in base alle norme della vita quotidiana: la vita è dettata da diverse leggi, vi è un'istruzione data dalla natura, vi sono necessità legate alle affezioni (es. la fame che ci spinge a nutrirci), seguire le leggi e tradizioni in accordo con il vivere comune, l'insegnamento delle arti; il tutto per rifiutare il dogmatismo.Il pirroniano delinea quindi il doppio fine del proprio comportamento che consiste nel raggiungimento dell'atarassia e nel moderato patire di fronte alle ineluttabile necessità dell'esistenza e della condizione umana.

Per raggiungere questi obiettivi Sesto Empirico propose l'epoche, vale a dire la sospensione del giudizio, attraverso schemi argomentativi ben organizzati. E in secondo luogo rifiutò il concetto del linguaggio come strumento capace di rivelare l'essenza della realtà.Nonostante il netto rifiuto verso ogni forma di dogmatismo l'intento di Sesto Empirico non è affatto aggressivo, ma anzi è filantropico e apertamente terapeutico. Afferma, infatti, che lo scettico intende curare (attraverso il ragionamento) la vanità e la precipitazione dei dogmatici. Lo scettico è il medico che deve curare l'animo di coloro che troppo precipitosamente aderiscono a vacue opinioni e che deve rendere la vita il più possibile sopportabile. Lo scetticismo è dunque un arte della vita. È questo il messaggio più duraturo della filosofia scettica antica, interessata appunto al raggiungimento di una felicità davvero alla nostra portata.

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Capitolo 2.(Dell'utri Massimo)

2.1 Scetticismo e Fallibilismo.

L'arma scettica del dubbio a partire dalla seconda metà è andata ad avere un ruolo sempre più importante.

Il dubbio è inevitabile nelle questioni scettiche, ma allo stesso modo esso è fonte e promotore di autentica conoscenza. Nel momento in cui il dubbio mette a repentaglio ogni nostra presunta acquisizione conoscitiva siamo spinti a migliorarci, a perfezionarla e quindi ad evolverci in meglio.

La possibilità di progredire nella conoscenza e l'impossibilità di avere una conoscenza certa si ritrovano nella convinzione secondo cui:

“possiamo sapere, ma non sapere di sapere”.Tale convinzione è alla base del fallibilismo. Il fallibilismo è la posizione per cui non si può escludere la possibilità logica dell'infondatezza delle nostre conoscenze, e che dunque, conseguentemente non siano conoscenze.Se le cose stanno così dobbiamo ammettere che nessun enunciato, nessuna preposizione sia immune dal dubbio e che tutte le conoscenze sono passabili di dubbio in quanto mai certe.Ma la certezza che sia impossibile una conoscenza epistemologica certa non esclude affatto la possibilità soggettiva di avere certezze, in quanto sarebbe impossibile vivere senza certezze.

Ma è lecito il dubbio di principio, in quanto le nostre certezze non saranno mai certezze oggettive, ma sempre soggettive. Questo dubbio di principio, quello della non oggettività della conoscenza mette in luce un aspetto etico del fallibilismo poiché ci invita implicitamente a non assumere un atteggiamento dogmatico nei confronti dei nostri enunciati e ad abbandonarli quando vi siano motivi per farlo.

L'inevitabilità del dubbio non coincide affatto con la bancarotta della conoscenza ed è in questo punto che rintracciamo la differenza tra fallibilismo e scetticismo. Lo scetticismo che si intende qua è quello globale che riguarda l'esperienza nella sua totalità e si tratta dell'idea secondo cui i nostri sensi potrebbero non riportare la realtà esattamente come noi pensiamo. Saremmo praticamente preda di un immenso inganno cosmico (Cartesio), ed è contro quest'idea che i filosofi anti – scettici si sono maggiormente scagliati con i loro argomenti.

Per comprendere meglio le argomentazioni le dividiamo in:

1. argomenti diretti – sono quelli più aggressivi mirano, infatti, ad una confutazione dell'ipotesi scettica o ad una dimostrazione dell'antiscetticismo, per sradicare lo scetticismo radicale una volta per tutte.

Nella letteratura filosofica coloro che tentano di escogitare un argomento diretto sono associati a seguire l'esempio di Kant che invita alla produzione di una prova della realtà del mondo esterno.

Colui che tenta di escogitare un argomento indiretto è associato ad un altro filosofo Heidegger che ritiene un vero scandalo il bisogno di una prova della realtà del mondo esterno.

Questi filosofi vogliono comunque dimostrare come, le pretese dello scetticismo possano comunque essere accantonate. Si differenziano a questo proposito altre due categorie:

i. quei filosofi che vogliono dimostrare come lo scetticismo sia accantonabile;

ii. quelli che riconosciuta allo scetticismo una propria forza cercano una conciliazione.

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2.2 Charles Sanders Pierce e il senso comune.

Pierce è il più notevole dei confutatori e a lui si deve l'introduzione del termine “fallibilismo”.

Uno degli argomenti scettici più diffusi è legato al nome di Agrippa e riguarda una presunta impossibilità di fermare il regresso delle giustificazioni.Quando vogliamo presentare l'affermazione di un enunciato come qualcosa che abbia una validità conoscitiva occorre comprovare l'affermazione stessa, giustificarla quindi, con un altra affermazione che sostenga la prima e così via in un regresso giustificativo che così procedendo andrà avanti all'infinito.

Lo scettico sostiene che questo regresso è vizioso perché impedisce di giustificare l'affermazione di partenza essendo impossibile per l'uomo percorrere una serie infinita.

Le due possibilità alternative al regresso delle giustificazioni sono l'assumere come vero un enunciato nella serie o riaffermare un enunciato precedente nella serie. Entrambe sono però da scartare. La prima è un rifiuto della giustificazione attuato con un assunzione dogmatica mentre la seconda possibilità presenta un enunciato già espresso che va quindi giustificato e che conseguentemente rende la serie circolare.

L'argomento scettico del regresso infinito delle giustificazioni si basa sul requisito, forte per molti filosofi, che la conoscenza sia certa. Questo valeva anche per Cartesio che cercò di arrestare il regresso infinito delle giustificazioni proponendo un enunciato stabile definitivo e immediatamente conoscibile.

Lo scettico nega esattamente ciò, cioè la possibilità di conoscere un enunciato simile. Non si può fermare il regresso. Pierce a questo proposito prese il toro per le corna: non nega l'esistenza del regresso ma sostiene che non è per nulla vizioso, scalzata la tesi per cui la conoscenza debba essere certa egli argomenta che è perfettamente legittimo fermarsi a un certo punto della conoscenza regressa assumendo la verità dell'enunciato in quel punto, avendo già stabilito il carattere inferenziale2 della conoscenza.

Per Pierce ogni azione mentale deve essere ridotta alla formula del ragionamento valido: la conoscenza si ottiene solo per via inferenziale. Il regresso delle giustificazioni in virtù del carattere inferenziale della conoscenza è inevitabile in quanto ogni cognizione viene appresa inferenzialmente a partire da una cognizione precedente.

La conoscenza però, così facendo, ci appare senza speranza, infatti, in ogni punto della catena vi sarà una credenza che avrà giustificazione solo in virtù di quella che la precede. Quindi essa non sarà effettivamente giustificata.

Ma nel 1905 Pierce pubblica la “dottrina critica del senso comune”, dove fra i sei punti elencati il più importante è quello “dell'indubitabilità delle proposizioni e delle inferenze del senso comune”.Se esistono inferenze e proposizioni indubitabili, inferenze e proposizioni che partono da inferenze e proposizioni parimenti indubitabili allora esse costituiscono per il nostro processo cognitivo qualcosa di originario. Sono allora le proposizioni da cui tali inferenze partono (le proposizioni del senso comune) che possono costituire il fondamento della conoscenza arrestando un regresso delle giustificazioni vizioso.

Non si tratta però di qualcosa dal valore assoluto ma è questo un fondamento relativo legato alla scelta comoda e utile di proposizioni di base. Se concepiamo una prova originaria come qualcosa che scaturisce da premesse che sono provabili avremo illustrato il pensiero di Pierce. La catena delle giustificazioni è percorribile a ritroso eppure motivi contingenti fanno si che noi ci si acquieti nelle proposizioni del senso comune.

2 Inferenza: data una o più premesse è possibile trarre una conclusione.12

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Nella “dottrina critica del senso comune” è notevole e interessante anche il quinto punto dove Pierce ribadisce una concezioni del dubbio che diventerà fondamentale per la filosofia antiscettica contemporanea.

Pierce si allontana con questo sia dal cristianesimo che dallo scetticismo, entrambi, infatti, propongono un dubbio radicale, totale che ci lascia privi di qualsiasi acquisizione conoscitiva, mentre il cristianesimo un unico punto con Dio, unico punto valido per qualsiasi conoscenza.

Ma per Pierce il dubbio ha un valore innegabile, la conoscenza progredisce solo in base alle domande e ai dubbi che ci poniamo e questo è un dubbio “sano e lecito”. Ma non va bene “dubitare sempre e comunque”; il dubbio senza limitazioni è un grosso sbaglio. Noi, infatti, non dubitiamo costantemente di tutto e non è un caso.

Ma se livello quotidiano e livello filosofico sono così legati, è norma di buon senso non pretendere di dubitare in filosofia di ciò che non dubitiamo nel nostro animo.

Senza un dubbio reale ogni nostra discussione è oziosa e non si risolve alcuna nostra difficoltà, non otteniamo altro che pedanti dubbi di carta.

Fondamentali per la nostra conoscenza sono dunque le credenze del senso comune: non si può fare delle nostre conoscenze comuni tabula rasa. Con queste si assiste alla trasformazione del dubbio cartesiano e scettico in dubbio fallibilista.

Lo scetticismo è accantonato in virtù di una critica della concezione che lo sorreggeva, una nuova concezione che reputa degno del nome di conoscenza solo ciò che è certo e ben fondato.

Con la perdita del concetto di conoscenza assoluta lo scetticismo viene liquidato e sostituito con una posizione che ne limita il raggio di azione assegnandoli il ruolo di positivo promotore di conoscenza genuina.

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2.3 Quine e l'empirismo.

Anche per Quine il dubbio scettico e cartesiano diventano dubbio fallibilista. Anche Quine, come Pierce fa appello, per quanto riguarda le procedure per acquisire la conoscenza al senso comune. Quine critica il cartesianesimo anche in virtù del ruolo che esso da alla filosofia. Infatti, per Cartesio il filosofo è il migliore teorico che riesce a cogliere la soluzione al problema della conoscenza del mondo esterno. La filosofia possiede una privilegiata posizione rispetto a tutte le altre scienze conoscitive e inoltre possiede la fondante nozione di cogito: la verità è individuata dal cogito rispetto ad ogni altro enunciato conoscitivo.

Il cogito è il tipico prodotto di un tipico ragionamento a priori che porta alla scoperta “filosofica” di un enunciato e di un concetto validi in maniera assoluta nello spazio e nel tempo. L'assolutezza di questo concetto a priori fa si che enunciati e concetti a priori possono essere colti da un essere dotato di capacità cognitive assolute: Dio. Dio contempla da un punto di vista cognitivo superiore ed esterno alla mente umana e il mondo in cui la mente umana cerca di capire Dio fa da tramite verso Dio che attraverso questa contemplazione ottiene una descrizione rigorosamente oggettiva della realtà.

La mente umana si giova di quest'occhio di Dio e acquisisce conoscenza certa e indubitabile. È proprio questa la concezione sostenuta da Cartesio che vede il filosofo che con il suo pensiero sta accanto a Dio e Dio che fornisce la base per l'attività cognitiva umana in generale e per la scienza in particolare.

Quine è un empirista: il più acceso empirista della filosofia contemporanea. La soluzione che il razionalista Cartesio propone gli apparve pertanto vacua. Quine non ha comunque soluzioni dirette allo scetticismo e inoltre nega che la filosofia abbia un ruolo privilegiato rispetto alle altre discipline che mirano alla conoscenza ed è piuttosto contigua con le altre scienze.

Il filosofo non è confinato in una sorta di esilio cosmico al di fuori degli schemi concettuali; Quine nega validità al progetto di una filosofia capace di abbracciare la totalità della conoscenza umana, che poggia su un fondamento costituito da uno o più enunciati. Per Quine ogni enunciato, credenza, o teoria, possono essere eliminati dal nostro sistema conoscitivo qualora che un dubbio ragionevole, ma mai ad oltranza, ci induca a farlo.Il dubbio è lecito giacché nessun enunciato è immune da revisione, ma non si deve dubitare di tutti i nostri enunciati. La struttura generale della conoscenza è sufficientemente valida per non dover essere affossata da inutili dubbi. Anche con Quine lo scetticismo viene abbandonato per una più valida posizione fallibilista.Ma la vicinanza tra Quine e Pierce finisce qua. Nel porre un limite al dubbio. Infatti, Quine non “liquida” lo scetticismo radicale in virtù della sua intrinseca impraticabilità nei confronti del mondo esterno, ma la sua posizione resta persino contigua allo scetticismo.Spieghiamo perché: Quine fu un empirista con una netta inclinazione naturalista. È convinto che la fonte e la giustificazione della conoscenza umana siano nell'esperienza e l'analisi epistemologica deve basarsi sul perché da un così basso numero di input (le esperienze sensibili) si abbia un così alto numero di output (le spiegazioni del mondo). E questa disparità tra input e output non è giustificata dai dati sensoriali. Tale disparità non è eliminabile, solo mitigabile, e la si può mitigare studiando la conoscenza. Studiando per lo più quelle scienze che hanno per oggetto la percezione e l'elaborazione dei dati sensoriali, la psicologia dunque. Tra tutti questi output vi è la teoria della conoscenza secondo cui esistono si tutti quegli oggetti di cui abbiamo reale e fisica esperienza, ma anche quelli di cui non avrò mai esperienza diretta ma che sono dimostrati dalla scienza. Scaturisce così un'opzione realista che è però ipotesi generata da fatti, e a sua volta confutabile. Ciò vale anche per l'ipotesi scettica. L'input è così scarno che genera una pluralità di ipotesi tra loro in alternativa, quindi ipotesi realista e ipotesi scettica sono compatibili con i dati osservativi.

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Se le ipotesi sono allo stesso piano, come opporsi allo scacco scettico? Quine capovolge il punto di vista tradizionale asserendo che è la conoscenza a scaturire dal dubbio, quanto il dubbio dalla conoscenza. Solo quando si ha un certo livello di conoscenza empirica della realtà il dubbio sorge. Il dubbio cartesiano non è il punto da cui cominciare, i dubbi scettici sono dubbi scientifici e per rispondere allo scettico possiamo usare la scienza stessa. È la scienza che ci dice che l'ipotesi scettica è meno probabile dell'ipotesi realista sull'esistenza degli oggetti ordinari.

Si hanno più ragioni scientifiche in favore dell'ipotesi realista che non in favore dell'ipotesi scettica. Quine ci sta dicendo che sebbene lo scettico abbia diritto ai suoi dubbi lui sta reagendo in maniera esagerata alla situazione epistemica umana in quanto la sua operazione di dubbio avviene sempre all'interno dello schema concettuale umano dove egli stesso esiste. Se i dubbi dello scettico sulla conoscenza fossero empiricamente dimostrati si tratterebbe pur sempre di risultati conoscitivi.

Ma suo malgrado Quine non ci offre una risposta al problema scettico tradizionale quanto, piuttosto, una riformulazione.

2.4 Putnam e Davidson: la risposta semantica.

Putnam e Davidson sono due antiscettici. Le loro teorie si basano sulla particolare concezione del mondo per cui gli enunciati acquisiscono significato e le credenze contenuto.

L'idea di base è che significato e contenuto sono conferiti per la buona parte dal mondo che si trova fuori della mente dei soggetti conoscenti. Se le cose stanno così, il fatto che molti dei nostri enunciati abbiano significato e molte delle nostre credenze contenuto sta implicitamente a testimoniare l'esistenza effettiva del mondo esterno.

Lo scettico cade dunque in una contraddizione pragmatica perché tenterebbe di mettere in dubbio ciò che con l'espressione verbale del suo dubbio e la relativa credenza implicitamente presuppone.Questa è l'idea di base dell'esternismo semantico secondo cui significati e contenuti dipendono dall'ambiente in cui le menti dei parlanti e il loro linguaggio si trovano collocati.Putnam mise in evidenza come nomi propri, nomi di genere naturale, nomi di artefatti e termini si riferiscono ai loro oggetti in virtù di legami diretti o indiretti. Se io uso il termine “Isa” per riferirmi a una determinata persona occorre che io abbia avuto in passato un legame causale con questa persona, diretto se il legame è personale, indiretto se vi sia un tramite attraverso una persona che ne ha avuto un contatto diretto, lo stesso per i nomi di cose.

A mediare tra linguaggio e realtà vi sarebbero “catene causali di comunicazione” i cui anelli estremi sono uso linguistico e oggetto.

Con l'integramento del concetto di riferimento egli integra anche il concetto si significato. Il significato di una parola è dato dalla sua estensione, cioè l'insieme di oggetti a cui si riferisce, cioè il significato della parola bue coinciderebbe in gran parte con gli animali che designa. L'altra parte del significato è data dallo stereotipo, vale a dire dalle caratteristiche tipiche del bue (corna, zoccoli, mammifero, quadrupede, ecc ecc.). Lo stereotipo è pertanto l'aspetto mentale della concezione semantica di Putnam, aspetto che ogni parlante è tenuto a conoscere per poter usare la parola in modo significante.

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Ma Putnam ha sempre attribuito all'estensione un valore preponderante rispetto all'estensione; i “significati non sono nella testa”. Considerando lo slogan “i significati non sono nelle teste” immaginiamoci una situazione di inganno totale in cui ciascun esponente dell'umanità potrebbe essere privo del corpo e delle esperienze che pare possedere mentre potrebbe essere solo un cervello tenuto in vita in una vasca colma di elementi nutritivi con il cervello collegato ad un computer super sofisticato che, con il proprio programma, fa credere a ogni cervello di essere una persona normale, una persona con la vita che ha sempre condotto.

Chi ci garantisce la nostra esistenza e l'esistenza della realtà esterna? Come possiamo essere certi di non essere cervelli in una vasca?

Se fossimo cervelli in una vasca non potremmo renderci conto non potremmo renderci conto di essere cervelli in una vasca, non ci porremmo neppure il problema, se, infatti, non fossimo persone umane ma appunto C.I.V. Avremmo dei significati diversi. Cioè le nostre parole non avrebbero lo stesso riferimento.

I termini “tavolo”, “sedia”, “cervelli” ecc. non sarebbero determinati dagli oggetti mondani ma, semplicemente da quegli stimoli che il computer ci manda.

Se noi fossimo davvero C.I.V. e dicessimo di essere C.I.V. Muoveremmo da un ipotesi strutturalmente diversa sulla conformazione del mondo, per cui il nostro enunciato non potrebbe riferirsi a reali cervelli e a reali vasche quali noi le conosciamo con la nostra esperienza.Le espressioni nonostante la loro omofonia avrebbero differenti significati e di conseguenza allorché il cervello nella vasca dicesse di essere un cervello nella vasca non potrebbe significare davvero, come noi lo intendiamo in realtà di essere un cervello in vasca.

Anche Davidson sottoscrive lo slogan di Putnam “i significati non sono nelle teste”. A determinare un'interpretazione corretta delle parole di un parlante non basta la sua dote celebrale innata, ma piuttosto i significati delle parole e degli enunciati dipendono dagli oggetti e dalle circostanze in cui tali enunciati e parole sono stati appresi.

I linguaggi e il pensiero del mondo sono strettamente connessi e il legame diretto con il mondo no fa alcun riferimento a entità intermedie quali i dati sensoriali, le percezioni o stimolazioni nervose; in virtù di questo legame diretto il dubbio scettico radicale basato sulla possibilità che i nostri sensi ci ingannano non ha alcun valore; in quanto i sensi e i loro verdetti non svolgono alcun ruolo teorico centrale nella spiegazione della conoscenza o delle credenze.

Per Davidson la credenza è intrisicamente veridica, e dunque la maggior parte delle credenze è vera e costituisce un patrimonio condiviso dalla comunità dei parlanti, indipendentemente dalla lingua parlata.

Davidson dunque come Quine, non presenta una dimostrazione volta a confutare lo scettico e lo liquida presentando una teoria di comunicazione linguistica implicata con la verità con la credenza e con la conoscenza.Ammettendo la correttezza di questa spiegazione lo scettico va a farsi benedire.

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2.5 L'accomodante reazione di Robert Nozick.

Un altro filosofo, come Quine, concede molto allo scettico; infatti anche Nozick arriva a una concezione fallibilista e come lui lascia spazio allo scettico.

Secondo Nozick, l'ipotesi scettica radicale quella del C.I.V. è coerente e non eliminabile dalle situazioni umane logicamente e fattualmente possibili. Nozick ritiene che in noi agiscono due intuizioni contrastanti ma altrettanto lecite:− possiamo essere tutti cervelli in una vasca.− Potremmo essere soggetti cognitivi che intrattengono un proficuo rapporto di conoscenza

con il mondo.Nozick concede piena cittadinanza allo scettico radicale: a noi non è dato sapere che non siamo C.I.V., ciò nonostante l'ampiezza della cose che conosciamo è tale che ci fa escludere di essere preda di siffatto inganno.

Nozick concorda con lo scettico: io non so di non essere un C.I.V. ma non lo segue nel breve passo che arriva a dire “io non conosco nulla”. Per Nozick, al contrario, sono così tante quelle credenze che soddisfano le condizioni ragionevoli sulla conoscenza. Nozick si rifiuta di compiere il breve passo in quanto lo ritiene ingiustificato poiché tale passo assume per certo un principio da lui ritenuto falso: il principio deduttivo per la conoscenza. Nozick nega validità all'argomento scettico perché nega che la conoscenza sia chiusa rispetto all'implicazione logica conosciuta.

La fiducia nella conoscenza e nella sua possibilità è destinata ad abbinarsi alla possibilità che lo scettico abbia ragione.

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Parte due

Teoria della conoscenza

Nicla Vassallo(pagine 19 – 45)

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Libro 2(Vassallo)

Capitolo 1. L'idea di conoscenza

1.1 Apparenza e realt .à

Conoscere è tra gli obiettivi fondamentali della nostra vita. Tale processo è quotidiano, incessante: inizia con l’iniziare della vita e termina con essa. Noi teniamo in alta considerazione l'idea di conoscere anche perché se ci trovassimo a pensare di non poter più conoscere ci sentiremmo privati di qualcosa di veramente importante, quasi diventeremo dei vegetali.

Ci spaventa anche la possibilità che le nostre conoscenze “certe” non siano reali ma apparenti, ma non ci preoccupa allo stesso modo l'eventualità di perdere i mondi fittizi creati dall'immaginazione, quei mondi virtuali non esistenti. Sebbene a questi mondi virtuali non attribuiamo l'importanza di quelli reali vi ci si può riferire con enunciati veri e falsi: “Sherlock Holmes è un detective” = vero; “Sherlock Holmes è un boss mafioso” = falso. Quindi quando parliamo possiamo riferirci a queste entità fittizie ma esse non esistono come esistiamo noi.

La filosofia ragiona sui nostri timori e sui nostri problemi cercando di dare una risposta concreta.

Da sempre la filosofia ha avuto due tematiche cardine: “Cosa è la conoscenza?”; “cosa è la realtà?”Che cosa sia la conoscenza è il tema affrontato dalla teoria della conoscenza, vale a dire dall'epistemologia. Che cosa sia la realtà è il tema affrontato dalla metafisica o dall'ontologia.Le due cose sono intrecciate: per sapere cosa è la realtà dobbiamo conoscerla (sapere che cosa è la conoscenza dunque). Noi aspiriamo a sapere cosa è reale perciò la teoria della conoscenza necessità della metafisica.

Cosa è un tavolo? La risposta la dà la metafisica.

Come lo conosciamo? La risposta la dà l'epistemologia.

Noi conosciamo, ipotizziamo, un tavolo per le sue caratteristiche, forma, dimensioni, peso colore, e sempre pensiamo che siano queste caratteristiche a dirci cosa sia un tavolo. Proviamo a togliere ad un tavolo tutte le sue caratteristiche percepibili, come se ad una cipolla togliessimo tutti gli strati e restassimo senza nulla.

Siamo portati ad affermare che quindi un tavolo sia un insieme di dati percepibili, un insieme di fenomeni.

I filosofi che affermano la possibilità di conoscere solo fenomeni sono chiamati fenomenisti. Esistono due tipi di fenomenisti: uno solo epistemologico; uno epistemologico e metafisico.

Fenomenismo epistemologico; es. Kant; esiste la realtà intorno a noi ma di essa possiamo conoscere solo i fenomeni.

Fenomenismo epistemologico e ontologico; es. Berveley; possiamo affermare l'esistenza di una realtà a noi esterna solo appellandoci a Dio; il soggetto cognitivo percepisce fenomeni che non solo sono le uniche cose conoscibili, ma anche le uniche cose esistenti.

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Nella vita quotidiana il nostro senso comune c’impone di opporci a conclusioni fenomenistiche, infatti esigiamo che ciò che esiste si basi sul mondo fisico.

Crediamo di conoscere direttamente o indirettamente le cose così come sono nella realtà e non i loro fenomeni e tanto meno parvenze illusorie.Certo vi sono illusioni, vale a dire percezioni alterate da parte dei sensi, es. il bastone nell'acqua ci appare spezzato e allucinazioni (es. topi rosa nel delirium tremens). Questi fenomeni sono appunto illusioni e allucinazioni, così facendo implichiamo che esista qualcosa di non illusorio e allucinatorio.

Illusioni e allucinazioni sono errori percettivi. Quando nella vita quotidiana vogliamo distinguere tra percezione corretta e percezione scorretta invochiamo spesso un altra esperienza sensoriale; quindi tocchiamo il ramoscello e vediamo che non è affatto spezzato. In questo modo ci convinciamo tra l'altro di superare le apparenze e di afferrare la realtà e lo facciamo esprimendoci nel linguaggio comune, pertanto non diremo che il ramo è spezzato ma che è un illusione ottica causata dalla rifrazione e che per questo esso ci appare spezzato.

Nonostante allucinazioni e illusioni siamo convinti che la percezione sia una buona fonte conoscitiva che è in grado non solo di garantirci la consapevolezza dell'esistenza del mondo ma anche un accesso ad esso.

Il nostro senso comune è anche convinto che il mondo sia popolato da oggetti fisici che esistono indipendentemente dalla nostra percezione. Quest'ultima convinzione è stata elaborata dal realismo. Occorre però fare delle precisazioni.

Tutti i realisti pensano che gli oggetti fisici esistano indipendente dalle nostre percezioni ma non tutti dicono lo stesso per quanto riguarda le proprietà.

Parleremo a questo proposito di due forme di realismo: una ingenua e una scientifica.

Per la forma ingenua del realismo gli oggetti fisici hanno nella realtà hanno delle proprietà quali “gusto”, “odore”, “forma”, “temperatura” e continuano a possedere queste proprietà anche indipendentemente dalla nostra percezione.

Per il realismo scientifico gli oggetti perdono quelle proprietà qualora non vi fossimo noi a percepirle dato che l'esistenza di alcune di esse è vincolata dalla nostra percezione.

Locke ci parla a questo proposito di qualità primarie e qualità secondarie, le prime (es. estensione) sono inseparabili dagli oggetti e noi le percepiamo sempre. Le secondarie (ad esempio suoni, colore), sono solo poteri che gli oggetti hanno di produrre in noi diverse sensazioni attraverso le loro qualità primarie, benché negli oggetti non vi sia nulla di simile a queste sensazioni.

Le qualità primarie esistono realmente e sono pertanto reali.

Le qualità secondarie sono solo apparenti.

Consideriamo il colore del marmo rosso, quando la luce manca tale percezione scompare. Mentre se un pezzo di marmo rosso è rettangolare esso sarà sempre rettangolare. Per Locke, vi è corrispondenza tra realtà e qualità primarie, corrispondenza che manca per le secondarie.

Da questi discorsi siamo indubbiamente portati a credere di più al realismo scientifico anche se il realismo ingenuo resta indubbiamente affascinante. Ma anche il realismo scientifico viene aspramente criticato dall'antirealismo – scientifico che mette in dubbio l'esistenza di realtà scientifiche quali protoni o elettroni (sulla cui esistenza il realismo scientifico insiste).

L'antirealismo scientifico si spinge persino più in là, sostenendo che le teorie scientifiche non rappresentino per niente la realtà ma che rappresentino piuttosto solo convenzioni o mezzi utili per spiegare quelle entità di cui ci parla la scienza.

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Tornando al realismo ingenuo ci appare poi molto attraente per il vivere quotidiano. Noi, infatti, sperimentiamo qualità primarie e secondarie inscindibili le une dalle altre e ciò ci porta a dargli lo stesso valore ontologico. Anzi la concezione scientifica ci appare davvero di difficile comprensione poiché, ad esempio non c’è possibile vedere gli oggetti del mondo senza, ad esempio, percepirli come colorati con solo proprietà primarie.

Locke c’invita a far scomparire le qualità secondarie, ma accogliere questo suggerimento è possibile solo reprimendo tutti i nostri sensi, cosa che però ci farebbe anche perdere la percezione delle qualità primarie e, conseguentemente, perderemo la possibilità di accedere al mondo.

D'altra parte è vero che la scienza corregge gli errori del senso comune ed è quindi la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa, ma nonostante la presa d'atto degli errori del senso comune non possiamo, comunque, affidarci completamente alla scienza, in quanto essa stessa ha commesso così tanti errori.

Il dibattito tra realisti ingenui e realisti scientifici resta aperto. Entrambi condividono la convinzione del senso comune che la percezione, se si fa eccezione per le entità non osservabili, ci garantisce l'accesso conoscitivo al mondo fisico e che questo mondo fisico esiste indipendentemente dalle nostre percezioni.

Il realismo costituisce una via per comprendere cosa s’intende per conoscenza, ma quest’ultima rimane sempre qualcosa di problematico che viene catturato dalla sfida scettica.Vi sono forme parziali di scetticismo che mettono in dubbio solo la nostra conoscenza relativa a determinate aree, quali religione e matematica. Vi è poi lo scetticismo globale che mette in dubbio ogni nostra forma di conoscenza.Lo scetticismo globale mette in dubbio ogni nostra forma di conoscenza, non possiamo conoscere neppure i fenomeni, ma solo parvenze d’illusorie, non conosciamo nulla di quello che crediamo di conoscere.Consideriamo l'ipotesi del genio maligno di Cartesio o dei C.I.V. in una vasca di Putnam, se tali situazioni fossero “reali” tutto ciò che crediamo di conoscere sarebbe falso, quindi non conosceremo quasi nulla; quasi appunto perché continueremo a pensare e di conseguenza avremmo per lo meno un esistenza mentale, il famoso cogito ergo sum di Cartesio.

Le ipotesi scettiche costituiscono una sfida perché il conoscere è indissolubilmente legato alla verità e alla realtà. Se quasi tutto fosse falso, e se vi fossero solo i pensieri e le idee, lo scetticismo non sarebbe percepito come una sfida.

Ma cosa è la verità? Questa domanda è davvero di difficile risposta, entrano in ballo persino aspetti religiosi (ES. la concezione cristiana che vede in Dio la verità).

La Vassallo si chiede cosa sia la verità relativamente ad una proposizione, in modo da chiarire poi cosa sia la conoscenza.La domanda sulla verità presenta molteplici soluzioni. La Vassallo considera le più tradizionali:

a) La verità consiste nella corrispondenza tra proposizioni e realtà.b) La verità risulta nella coerenza tra proposizioni.c) La verità è pragmatica.

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1.2 La verità

Per la teoria della corrispondenza, una proposizione è vera se corrisponde ai fatti o agli stati di cose. Risale a Platone e ad Aristotele; ed è la teoria per cui:“dire di ciò che esiste che non esiste, o di ciò che non esiste che esiste – è falso”.“dire di ciò che esiste che esiste, e di ciò che non esiste che non esiste – è vero”.Wittgenstein dice: “La proposizione è un immagine della realtà”.

È intuitivo dichiarare che la verità dipende da qualcosa che è nel mondo, o che le proposizioni siano rese vere dalla realtà e che vi si trovino riscontri nei fatti o negli stati di cose.Consideriamo:

1) Il gatto è sul divano.

2) Il mare è in burrasca.

3) Il cristianesimo è la vera religione.

4) L'amore è verità.

Il senso comune ci suggerisce che:

(1) “a” è vera se il gatto sta sul divano, falsa se non vi sta sopra.

(2) “b” è vera se il mare è in tempesta, falsa se il mare è quieto.

(3) “c” è vera se tutte le proposizioni del cristianesimo sono vere. Ma molte delle proposizioni su cui il cristianesimo è basato non sono verificabili in modo empirico. Quindi la teoria della corrispondenza inizia a presentare qualche crepa.

(4) I problemi relativi al punto “d” sono tali per la loro complessità, che la loro trattazione non è fattibile.

Si può sostenere che sarebbe meglio non esprimere questioni come “C” e “D”, in quanto se non vi è verifica non le si può attribuire significato. Ci dice Wittgenstein: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. O possiamo dire che poiché “C” e “D” non riguardano il mondo fisico esse non sono trattabili e che fino a quando limitiamo la teoria della corrispondenza al mondo fisico essa ha validità.Ma con ciò non si esauriscono i problemi della teoria della corrispondenza. Il problema maggiore sorge quando ci domandiamo cosa si debba intendere quando parliamo di “corrispondenza”.Intuitivamente pensiamo che la corrispondenza tra un certo stato di cose e una certa proposizione non sia altro che l'identità, la somiglianza, tra quella proposizione quello stato di cose. Ma fatti e proposizioni non sono identici. Se io dico “il sole brucia”, sto percependo qualcosa, ma non vi è corrispondenza tra questa proposizione e la realtà, infatti, io sento sulla mia pelle che il sole con il suo calore mi riscalda e magari brucia, ma non il sole che brucia in se quanto tale.

Per ovviare a questi problemi vi sono diverse soluzioni, tra cui una molto recente che afferma che una proposizione è vera se è designata a descrivere la realtà e se il suo contenuto risulta adeguato alla realtà.

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La soluzione è valida: resta coerente alla teoria della corrispondenza e rifiuta l'idea che una proposizione “P” è vera se corrisponde ai fatti o agli stati di cose.

La teoria della coerenza è recente. Secondo essa una proposizione è vera se è solo è coerente con un, o con il, sistema di altre proposizioni. Nella teoria della coerenza sorge il problema su che cosa sia, che cosa intendiamo per “coerenza”. Innanzitutto ci possiamo domandare “coerenza con che cosa?” Infatti è troppo poco dire che una proposizione è vera se è solo è coerente con qualche altra proposizione.

Es. “gli scorpioni sono passionali”, è coerente con le proposizioni dell'astrologia, ma pur essendo coerente con un sistema di proposizioni non vuol dire che essa sia vera e che dunque essa sia conoscenza.

Cosa è la coerenza di un sistema? Al fine di essere coerente un sistema, deve essere, oltre che comprensivo, consistente; ovvero non deve contraddirsi o finire con il contraddirsi.

Molti sono giunti al coerentismo partendo da tesi corrispondentiste e uno fra questi fu Neurath che ci dice che siamo come marinai che devono riparare la loro nave pur trovandosi in mare aperto: la nostra conoscenza del mondo inizia con una serie di assunzioni e di teorie che costituiscono la condizione delle nostre indagini ulteriori e dobbiamo cambiarle e migliorarle via via che procediamo. Di conseguenza quando incontriamo una nuova proposizione, l'unico test possibile è quello di confrontarla con il sistema che possediamo, al fine di determinare se essa aderisce al sistema generale o se vi si trovi in conflitto. Se aderisce al sistema essa è utile o vera; nel secondo caso essa è inutile o falsa.

Ma è ovvia una cosa: chi assume la coerenza come unico criterio di verità è costretto a considerare vera anche una favola; è sufficiente che nella favola non compaia alcuna contraddizione di proposizioni e che le stesse proposizioni siano tra loro compatibili. E benché la favola contrasti con le osservazioni questo non è un argomento del coerentista giacché per lui l'osservazione non ha ruolo.

La soluzione a questo problema ci viene da Quine che vede tutta la nostra conoscenza e la scienza come una totalità strutturata a rete o a ragnatela, toccata lungo i margini periferici dall'esperienza. Un disaccordo con l'esperienza in periferia ci deve portare a ridisegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni, con un effetto domino che deve portare a riconsiderare tutte le nostre proposizioni del sistema.

Occorre selezionare però l'insieme di conoscenza più “giusto” e devono essere criteri pragmatici a guidarci, si tratta di una tesi assai controversa quella difesa da James, Quine, e Dewey. Infatti, per la teoria pragmatista una proposizione è vera se è utile ai nostri fini o se ha successo.

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Utilità e successo sono però criteri assai dubbi. Se ciò fosse vero, adottando il criterio del successo, dovremmo dire che se nella seconda guerra mondiale avesse vinto il nazismo allora le sue proposizioni sarebbero state vere. James dice che occorre considerare le cose nel lungo periodo, in un arco di tempo molto lungo. Ma anche in questo caso i dubbi sono grandi; non possiamo sapere cosa accadrà alla fine della storia, contemporaneamente avremmo dovuto considerare come vera la proposizione “la terra è al centro dell'universo” perché essa è stata di successo per un arco di tempo molto lungo.

James quando ci parla di una proposizione vera la chiama spesso “conveniente”, “vantaggiosa”, “buona”. Ma dire che una proposizione è vera, non vuol dire che è buona nel senso che la verità non sempre ci guida in questo senso. È vero che noi vogliamo essere felici, ma non è vero che tutte le verità, o fatti, ci appagano rendendosi vantaggiosi o utili (e conseguentemente rendendoci felici).

La nostra vita è costellata di molte verità dolorose che comunque vogliamo conoscere; es:

Virginia si reca a Sestriere a sciare e spera nel bel tempo. Ma c'è una terribile bufera, la cosa non rende felice Virginia, ne rende utile lo sciare, ma è comunque vera. Virginia non dirà: “Oggi è una bella giornata” solo perché tale cosa la rende felice. Accetterà la verità benché essa non sia né utile né vantaggiosa.

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1.3 Tipi di conoscenza

Abbiamo tre tipi di conoscenza:a) Conoscenza diretta; es. “conosco Virginia”.

b) Conoscenza competenziale; es. “so sciare”.

c) Conoscenza proposizionale; “so che Roma è la capitale dell'Italia”.

1) La conoscenza diretta ha luogo quando un soggetto cognitivo conosce qualcuno o qualcosa, richiede l'essere stati a contatto con qualcuno o qualcosa. Tipo di conoscenza molto frequente. Viene anche chiamata conoscenza oggettuale perché ci troviamo di fronte ad oggetti (o persone) e non di fronte a proposizioni.

2) Conoscenza competenziale; è chiamata anche conoscenza dell'abilità e comporta il disporre di una certa capacità o competenza. È il sapere fare le cose: es. “so usare il mio cellulare”. Può essere un saper fare automatico come nel caso del respirare, sia di un sapere acquisito come nel caso del sapere giocare a pallacanestro.

3) Conoscenza proposizionale: si concretizza nel sapere che una proposizione è vera.; es. “io ho 24 anni”; “il mio cellulare è prodotto dalla Nokia”; “l'acqua di fonte è trasparente” ecc. Il raggio d’azione della conoscenza proposizionale è amplissimo.

Le tre conoscenze sono tra loro connesse:

Quando sappiamo come fare certe cose (conoscenza competenziale), possediamo anche una conoscenza proposizionale relativa ad esse: se so guidare la moto so che la moto so, ad esempio, che la moto ha due ruote.

La conoscenza diretta a sua volta comporta, conoscenza proposizionale relativa ad essa. Se conosco Londra so che è una città e che si trova in Inghilterra e che sta sul Tamigi.

Conoscenza competenziale e conoscenza diretta sono a loro volta connesse: se conosco Londra so come muovermi quando mi ci trovo.

Conoscenza diretta e conoscenza competenziale sono poi egualmente connesse: se so come muovermi a Pechino, conosco Pechino.

E posso conoscere una moto (conoscenza diretta) senza saperla usare (conoscenza competenziale), ma difficilmente accadrà l'inverso.

Cosa implica avere conoscenza proposizionale? Non implica avere conoscenza competenziale. Posso avere letto mille manuali sull'arte della guida veloce ma non saper effettuare un sorpasso in scioltezza. La conoscenza proposizionale comporta spesso conoscenza diretta. Elisabeth ha gli occhi verdi. È una conoscenza proposizionale che comporta conoscenza diretta (spesso) infatti conosco Elisabeth e so che ha gli occhi verdi, ma non ho letto alcun trattato su di lei.

Ma naturalmente tutta la conoscenza proposizionale non comporta necessariamente conoscenza diretta, io ad esempio conosco che Virginia Woolf è una scrittrice senza averla mai incontrata. È opinione abbastanza condivisa che solo gli esseri umani siano in grado di avere conoscenza proposizionale (e forse, ma solo forse, alcuni primati e cetacei).E' però da dire che tutto il regno animale è in grado di possedere conoscenza competenziale e conoscenza diretta. Ma nonostante la sottolineatura delle possibilità della conoscenza proposizionale da parte di cetacei e primati è indubbio che la conoscenza proposizionale sia non solo più vasta ma anche estremamente sviluppata e sofisticata negli esseri umani.

La conoscenza proposizionale è dunque quello che caratterizza l'essere umano nel profondo.

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1.4 Il valore della testimonianza

Poniamoci la domanda: come fare a sapere che una certa proposizione sia vera? Abbiamo potenzialmente diverse risposte:

(a) Percepisco che; es. il gatto è sul divano; fonte conoscitiva PERCEZIONE.

(b) Ricordo che; es. mio nonno si chiamava Beniamino; fonte conoscitiva MEMORIA.

(c) Inferisco che; es. tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale;

(d) fonte conoscitiva RAGIONE O RAGIONAMENTO.

(e) Sono consapevole che ; es. penso di essere felice; fonte conoscitiva PERCEZIONE INTERNA, INTROSPEZIONE. (proposizioni che riguardano la conoscenza si sé).

(f) Mi viene testimoniato che; es. Clinton è stato presidente degli U.S.A

(g) fonte conoscitiva TESTIMONIANZA.

Le prime fonti conoscitive sono individuali, la quinta è sociale, vale a dire che la conoscenza acquisita per mezzo della testimonianza necessita dell'interazione sociale.

Le fonti conoscitive sono tra loro connesse. La testimonianza è stata fino ad ora poco indagata nonostante gli esseri umani siano esseri sociali che hanno sviluppato e continuino a sviluppare un sofisticato sistema di mutuo scambio di informazioni e conoscenze. Molto spesso le nostre conoscenze dipendono dalle parole degli altri, dall'altrui testimonianza, derivano non solo da una conversazione a faccia a faccia ma anche da una conversazione telefonica, da quando ascoltiamo la TV e radio, da documenti scritti, da Internet. Se ci affidassimo solo a percezione, memoria, ragione, introspezione, ma non alla testimonianza conosceremo molto meno di quanto supponiamo di conoscere. Senza la testimonianza non avremmo accesso ad eventi del passato o a quelle teorie scientifiche complesse, al di fuori delle nostre competenze. La stessa scienza si deve continuamente basare sulla testimonianza di altri scienziati, e spesso gli stessi scienziati collaborano per le loro ricerche e le teorie ci vengono per la maggior parte trasmesse attraverso la testimonianza.Il termine testimonianza è spesso da noi associato all'immagine di un palazzo di giustizia. Qui la testimonianza è spesso connessa al ragionamento. Infatti il giudice prima di accogliere una testimonianza la soppesa, la valuta e dopo averci ragionato l'accoglie o meno. La testimonianza appare secondaria rispetto al ragionamento, perché lo presuppone, cioè è il ragionamento ad accogliere o meno la testimonianza. Ma nella vita quotidiana non abbiamo sempre e necessariamente bisogno di valutare una testimonianza, solo quando essa ci risulta anomala è necessaria tale azione, se un mio amico con cui esco per due volte la settimana poiché entrambi siamo grandi appassionati di cinema, mi dice che oggi al teatro Verdi proietteranno “Hulk” alle 21:30 io non ho bisogno di ragionare su questa testimonianza; l'accetto e basta.La testimonianza nella storia della filosofia non ha mai assunto il valore, per esempio del ragionamento (Cartesio – razionalismo) o della percezione (Locke – Empirismo). Questo perché la testimonianza è sempre stata considerata debole per il fatto che sia sempre stato preso in considerazione, per lo più il singolo soggetto cognitivo.Ma per esempio, quando Cartesio rinuncia alla testimonianza per ripartire da zero nella dimostrazione filosofica – razionale dell'esistenza di Dio egli deve sempre e comunque fare ricorso al linguaggio che come tutti noi avrà appreso attraverso la testimonianza di altri soggetti (intenzionali o no). Anche nel rifiuto della testimonianza da parte degli empiristi troviamo punti deboli; se un empirista naviga nell'arcipelago della Maddalena e vedendo un'isola afferma “quella è l'isola di Budelli”, un marinaio sapendo che sbaglia gli dirà “no, quella è l'isola di Razzoli”; l'empirista sarà costretto a rigettare la sua affermazione per sostituirla con una testimonianza.

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Capitolo 2. I problemi della teoria della conoscenza

1.1 Conoscenza proposizionale.

Se noi sappiamo che l'acqua è composta da 2 atomi di idrogeno, da un atomo di ossigeno allora è vero che la formula dell'acqua è H2O e noi dunque crediamo che l'acqua sia chimicamente rappresentabile come H2O.

In termini generali al fine di sapere che una proposizione è vera, la proposizione deve essere vera e deve essere creduta tale.Ma la conoscenza non può consistere semplicemente nella credenza vera. Si può giungere a credenze vere anche in base a delle cose sciocche, ad esempio attraverso la lettura dell'oroscopo, ma nessuno di noi dirà ma i che noi conosciamo veramente.

Ce lo diceva già Platone nel Menone:

“l'opinione retta (la credenza vera) non è scienza (conoscenza) se non è legata alla causa (alla ragione): dobbiamo disporre anche di ragioni, o più in generale di giustificazioni per credere.”Io sono un soggetto cognitivo. L'affermazione X è una qualsiasi proposizione: l'analisi classica della conoscenza è la seguente:1. X è vera2. io credo che X sia vera3. la mia credenza di X è giustificata.

L'analisi ci mostra tre condizioni: è tripartita; ciò vuol dire:

1. condizione della verità, o condizione oggettiva della conoscenza.2. Condizione della credenza o condizione soggettiva della conoscenza3. condizione della giustificazione.

Io dico “Prodi è il presidente U.S.A.”; poiché si sa che Prodi non è il presidente U.S.A. Nessuno può dire che io sappia chi sia in realtà il presidente U.S.A. Ma piuttosto, tutti, direbbero che io credo, o penso di sapere chi sia il presidente U.S.A.

Affinché una proposizione mi dia conoscenza deve essere vera; ciò non implica che noi possiamo conoscere qualcosa di falso sapendo che è falso; es. “la professoressa Pissarello risiede nel mio appartamento a BariSardo”. Io so che è vero che tale proposizione è falsa.

Condizione della credenza.

Nell'eventualità che io dica “so di avere avuto un incidente d'auto ma non ci credo”, qualcuno potrebbe comprendermi sotto il profilo psicologico ma non sotto il profilo epistemico – conoscitivo: per quanto possa essere vero che io abbia avuto un incidente d'auto nessuno sarebbe disposto a dire che io non creda di avere avuto un incidente d'auto, benché lo sappia.

Lo stesso dicasi per la menzogna, perché quando si mente non si crede a quello che si dice.

Per quanto riguarda la terza condizione, la giustificazione, abbiamo già parlato del fatto che non possano essere considerate vere quelle conoscenze ottenute attraverso strane congetture, come ad esempio la lettura dell'oroscopo.

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Non possono essere conoscenze le credenze vere non giustificate. Nessuno direbbe che la credenza “il cavallo Leo vincerà la corsa”, espressa da uno stolto scommettitore, sia giustificata, benché tale cosa poi avvenga.

Le credenze devono essere giustificate per evitare:

iii. che le conoscenze congetturali o presunte tali assurgano al valore di conoscenza, ma anche perché abbiamo come scopo della nostra impresa epistemica la verità e le credenze giustificate, tendenzialmente diventano vere più di quelle non giustificate.

Quando nella teoria della conoscenza parliamo di giustificazione ci riferiamo alla giustificazione epistemica. Solitamente diciamo che le nostre decisioni nel vestire possono essere giustificate in base a determinati standard, ad esempio da standard della moda. Saremmo quindi portati a pensare che la giustificazione epistemica della credenza riguardi solo le credenze e non azioni o decisioni, quando parliamo di giustificazione per quanto riguarda le azioni, siamo propensi più verso una giustificazione pragmatica. Per esempio è credenza di molti che le aragoste non soffrano quando vengono cucinate vive. È pragmaticamente ragionevole nutrire questa credenza per continuare a nutrirci di aragoste ma essa non è epistemicamente ragionevole perché non vi è ragione di credere che sia vero che le aragoste non soffrano.

Distinguendo tra giustificazione pragmatica e giustificazione epistemica stiamo evidenziando il fatto che la giustificazione epistemica sia il nostro tramite per raggiungere la verità.

Finora abbiamo dimostrato la necessità delle tre condizioni, ma ciò non basta per dimostrare la validità dell'analisi.

Bisogna domandarsi se le tre condizioni siano sufficienti. Metteremo in dubbio la loro sufficienza attraverso controesempi, in cui pur essendo soddisfatte tutte e tre le condizioni non diremmo che ci troviamo di fronte a conoscenza.

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Nel 1963, il professore statunitense Edmund Gartier con un breve articolo pubblicato su “Analysis” presentò una critica al sistema tradizionale della tripartizione della conoscenza presentando un contro esempio. Egli presentò una proposizione che si è vera, una proposizione che si è giustificata ma che non potremmo dire che è vera.Tre condizioni della conoscenza: della credenza \ della verità \ della giustificazione.Gettier vi si scaglia contro sostenendo che è possibile avere una credenza vera e giustificata che non è conoscenza.

Esempio ALFA.Io sono amico di Lorenzo. E credo giustificatamente alla seguente proposizione:

X: Lorenzo possiede una Clio.

Sono giustificato a credere che Lorenzo possiede una Clio perché ricordo benissimo quando Lorenzo l'acquistò e perché recentemente mi ha offerto un passaggio sulla Clio.

Io ho un altro amico: Matteo. Per quanto non sappia assolutamente dove si trovi Matteo deduco correttamente da X la seguente proposizione Y:

Y: o Lorenzo possiede una Clio, o Matteo si trova a Pechino.

E credo a Y.

Si da il caso che Lorenzo non possiede più una Clio (l'ha infatti venduta e quella con cui mi ha dato un passaggio apparteneva al cugino) e che Matteo si trovi a Pechino per caso avendo vinto il biglietto a una lotteria.

Domanda: ma io conosco Y?

Intuitivamente la risposta è no, ma tuttavia le tre condizioni della conoscenza sono soddisfatte:

− Y è vera perché una disgiunzione è vera se uno dei disgiunti è vero, ed è vero che Matteo si trova a Pechino.

− Io credo a Y.

− Io credo giustificatamente a Y avendola correttamente dedotta da X.

Questi tipi di controesempi problematici sono chiamati “problemi di Gattier” dal filosofo che li propose. Essi si oppongono alle analisi poiché dimostrano che io posso conoscere, o non conoscere quando intuitivamente sarei portato ad affermare il contrario. Tale problema di Gattier lo si risolve arricchendo l'analisi tripartita con una o più condizioni.

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Esempio BETA.Tre condizioni della conoscenza: della credenza \ della verità \ della giustificazione.Gettier vi si scaglia contro sostenendo che è possibile avere una credenza vera e giustificata che non è conoscenza.

È logico sostenere che qualsiasi credenza A sia seguita logicamente da B

da A si può ricavare B3) oggi piove A - → oggi è brutto tempo B.

4) “Frida è una giumenta → A - Frida è una cavalla→ B.”5) Susanna è una donna → Α − Susanna è un essere umano → Β

Tutte le proposizioni che a loro volta seguono una proposizione sono a loro volta giustificate.Solitamente nel conceto tradizionale tutte le proposizioni che logicamente seguono una proposizione giustificata sono a loro volta giustificate.

*Smith concorre per un posto: supponiamo che Smith ha un evidenza molto forte per la proposizione “Watson vincerà il concorso e sarà assunto e Watson ha dieci monete in tasca”.

Da ciò ricaviamo la nostra proposizione “B”.

“la persona che sarà assunta ha 10 monete in tasca.”

“Arrivati” a questo punto accade che:Inconsapevolmente Smith ha pure lui dieci monete in tasca, e a seguito di un pentimento del capo assunzioni colluso con Watson, viene assunto proprio lui (Smith) .

Il “fatto” che la persona che sarà assunta ha dieci monete in tasca è dunque una proposizione “vera”. Ma pur essendo giustificata essa non è conoscenza; infatti:

(4) è vera perchè chi ottiene il posto ha dieci monete in tasca.(5) è vera giustificata perchè la persona che ottiene il posto e ciò è verificabile.(6) NON è CONOSCENZA perchè non è Watson ad ottenere il posto.

Occorre dunque stare attenti al concetto di verità. Tale concetto può dunque essere interpretato diversamente.

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2.2 Analisi della conoscenza.

Vi sono diverse soluzioni al controesempio di Gattier:

I. teoria delle falsità rilevanti.Abbiamo detto che io credo a Y perché l'ho inferito dalla proposizione falsa X (credo che Matteo sia a Pechino perché lo deduco dal fatto che Lorenzo possieda una Clio). Possiamo integrare l'analisi tripartita dicendo che vi sia una quarta condizione

► 4° ) una credenza vera non deve derivare da una credenza falsa.

Tale “quarta condizione” però può essere troppo debole o troppo forte perché anche in questo caso è possibile soddisfare tutte e quattro le condizioni ed avere una credenza giustificata non vera.

È pertanto meglio enunciarla nel seguente modo:

► 4.1° ) una credenza vera non deve derivare da, o essere basata su, una credenza falsa rilevante.

II. Teoria della non sconfiggibilità► 4° ) non deve esserci una proposizione Z che se aggiunta al mio corpus conoscitivo, sia capace di sconfiggere la mia giustificazione nella credenza Y.

es.

guardo la televisione e vedo che Capirossi vince una gara moto GP a Daytona. Spengo la tv e con giustificazione credo che a Daytona il 3 giugno 2008 abbia vinto Capirossi. - Ma a mia insaputa i tecnici della TV hanno, per errore, trasmesso la gara di Daytona 2007. A Daytona 2007, come quest'anno, aveva vinto Capirossi.

La mia credenza che Biaggi ha vinto a Daytona 2008 è giustificata, eppure non è conoscenza, perché se avessi creduto di vedere la gara dello scorso anno la mia giustificazione sarebbe stata annullata. Da questa osservazione sorge l'idea che la giustificazione non deve essere “sconfiggibile”.

L'idea delle proposizioni che sconfiggono altre proposizioni coglie un'importante aspetto della nostra vita conoscitiva – epistemica. Infatti accade spesso che una nuova credenza aggiunta al corpus delle nostre precedenti credenze, metta in crisi la nostra giustificazione di una data proposizione, oltre alla proposizione sconfiggitrice si può immaginare una catena di proposizioni sconfiggitrici delle proposizioni precedenti e così di seguito all'infinito. Questo è un problema perché la mente umana non è infinita e non può valutare una serie infinita di proposizioni sconfiggitrici, intesa in questo modo la teoria della non sconfiggibilità rischia di rendere la conoscenza impossibile.

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III.La teoria delle ragioni conclusive.L'esempio ALFA ha messo in luce una certa accidentalità dello status conoscitivo di Y. Infatti non vi sono ragioni valide per cui Matteo si trovi a Pechino. La teoria delle ragioni conclusive intende evitare il ripetersi di casi simili. La teoria delle ragioni conclusive intende evitare questi problemi. Impone che quando si afferma una data proposizione io abbia in mano qualcosa di più che ragioni validi. Impone che io abbia ragioni conclusive. Ragioni tali che se una data proposizione non è vera io non abbia ragione per credere che sia vera.

Le ragioni per cui io credo che Lorenza possieda una Clio sono valide; Lorenzo ha sempre posseduto una Clio, Lorenzo mi ha dato un passaggio con la Clio appena tre giorni fa. Ma queste ragioni non sono conclusive, sarebbe invece una ragione conclusiva l'avere visto il libretto di circolazione di Lorenzo, esso infatti mi attesterebbe che Lorenzo possiede una renault Clio.

La condizione che completerebbe le tre condizioni base è dunque la seguente:

► 4° ) Se Y non fosse vera non avrei ragioni conclusive a favore della verità di Y.

Tale condizione appare appagante: infatti soddisfa le nostre aspirazioni al legare una certa proposizione con la verità della proposizione stessa.

Ma vi sono casi in cui questa condizione può essere invalidata. Infatti se io mi trovo in biblioteca ho tutte le ragioni per dire che il sul tavolo alla mia destra si trovi effettivamente un libro, ciò suggerisce che io abbia ragioni conclusive per tale proposizione. Ma se quello invece di un vero libro fosse piuttosto un sofisticato ologramma? Questa ipotetica situazione mi dimostra che si possono avere ragioni conclusive a favore di una certa verità anche quando risulta falsa.

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IV.La teoria causale.Il limite dell'analisi tripartita può essere evidenziato nell'assenza di una connessione causale appropriata; nel senso che la produzione di una credenza deve essere tale che il fatto, l'oggetto o l'evento, in virtù del quale la credenza è vera gioca un certo ruolo nel generare la credenza stessa; cioè quando dico che Matteo è a Pechino non è casualmente connesso con la proposizione Lorenzo ha una Clio. Quindi la concezione tripartita della conoscenza va integrata con:

► 4° ) il fatto Y deve essere casualmente connesso in modo appropriato con la mia credenza di X.

Questa condizione è carente se applicata alle proposizioni universali che non sono casualmente connesse tra di loro, o nel caso del libro – ologramma della biblioteca. Infatti il fatto di essere in biblioteca, il fatto di vedere altri libri, mi porta casualmente a dire che quello sia un libro ma, comunque esso non è un libro. Quindi anche la condizione 4 viene soddisfatta nel caso dell'ologramma, infatti a causare in me la credenza che quello sia un libro sono sempre altri libri.

V. La teoria delle alternative rilevanti.L'idea che la conoscenza sia legata alla capacità di distinguere è ovvia, ma non viene adeguatamente sottolineata. Infatti non dirò che Francesco ha visto un delfino (anche se lui pensa di trovarsi di fronte ad un delfino) quando non è in grado di distinguere un delfino da un tonno. Dobbiamo quindi dire:

► 4° ) l'attuale stato di cose in cui una proposizione è vera è quello in cui il soggetto è in grado di distinguerla da un'alternativa rilevante in cui la data proposizione è valida.

Occorre pertanto che l'alternativa sia rilevante nel senso che sia connessa è valida in quel dato contesto, è una cosa importante da considerare e mostrano i limiti della condizione delle alternative rilevanti, essendo il concetto di “rilevante” estremamente impreciso e sfuggente.

VI.Teoria condizionalevi è un limite evidente nella teoria della conoscenza tripartita. L'assenza di una connessione tra il fatto che rende vera una certa proposizione e la credenza del soggetto in quella stessa proposizione, infatti questo permette che una credenza possa risultare vera e giustificata per puro caso. Sono due le condizioni da aggiungere alla teoria della conoscenza ma la teoria condizionale concede troppo facilmente la conoscenza.

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2.3 Analisi della giustificazione.

Cosa è la giustificazione? Vi sono varie teorie che lo spiegano.

1) CoerentismoUna credenza è ingiustificata o giustificata a seconda che essa sia coerente o meno con le altre credenze. Essa è una risposta strutturale. Un corpus doxetico come è quello che governa le nostre vite (mentre io scrivo so che scrivo in italiano, che scrivo di filosofia ecc) implica una certa coerenza nella globalità, ma non una necessità di coerenza nella totalità, visto che l'intero insieme doxetico delle nostre vite ammette incoerenze. Ad esempio io dico “Virginia è simpatica”, è ciò è coerente con una serie di proposizioni: “Virginia è amabile”, “Virginia è socievole”, “Virginia ha un buon generosa” ecc. Ma non è coerente con informazioni tipo “Virginia è una ladra”, visto che tale proposizione è comunque presente nella mia mente a causa del fatto che in terza elementare Virginia mi ha rubato una matita.

Ma cosa è la coerenza, o meglio quale tipo di relazione coerenziale è essenziale per la giustificazione? Apparentemente la risposta è semplice: la coerenza specifica come le credenze debbano stare insieme e sostenersi reciprocamente per essere un sistema strutturato in maniera organizzata e unificata. Ma dal punto di vista epistemologico dobbiamo capire cosa sia la relazione coerenziale e tale definizione è complessa e quelle prodotte fino ad ora sono scarse.

La giustificazione poi, non può essere ottenuta solo attraverso la coerenza. Infatti la proposizione “una coalizione di decine di pianeti sta per attaccare la repubblica” è in grado di spiegare molto del film Star Wars ed è coerente al contenuto del film ma non è giustificata affatto rispetto al mondo reale.

Quest'ultimo esempio ci mostra che la coerenza non è sufficiente alla giustificazione.

2) FondazionalismoIl classico rivale del coerentismo è il fondazionalismo.

Il fondazionalismo (che vanta illustrissimi sostenitori quali Aristotele, Cartesio, Locke) vuole chiarire cosa è la giustificazione.

Il fondazionalismo come il coerentismo va inteso come una proposta che riguarda la struttura delle credenze e non il loro contenuto. Sul piano strutturale il fondazionalismo ripartisce le credenze di base e credenze derivate: le prime chiamate anche fondamentali o fondanti, sono immediatamente giustificate e non necessitano di alcuna giustificazione inferenziale, mentre le seconde sono giustificate inferenzialmente a partire dalle prime.

Esistono due tipi di fondazionalismo: uno moderato abbracciato dai filosofi contemporanei;

uno forte abbracciato dai filosofi tradizionali.

Il fondazionalismo (tradizionale) forte è la ricerca della certezza cartesiana, cosicché viene richiesto che le credenze di base siano certe ovvero immuni dal dubbio, e che le credenze derivate siano ottenute dalle prime tramite catene logico – deduttive che trasferiscano loro la certezza. Tale posizione oggi attrae ben pochi filosofi. I migliori candidati per le credenze di base che aspirano alla certezza non risultano informativi a sufficienza per giustificare.

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La rinuncia alla ricerca della certezza ha portato al fondazionalismo contemporaneo moderato. Viene mantenuta la tesi di base che divide tra credenze di base e credenze derivate. Ma le certezze di base non sono certe e sono dubitabili e la loro base è relativa al soggetto cognitivo.Abbandonata la ricerca di certezze assolute, scevre da dubbi, non è più necessario partire da credenze base quali “io penso” (razionalisti), oppure “vedo qualcosa di grigio” (empiristi).

Un determinato soggetto cognitivo può giudicare di base alcune credenze un altro soggetto altre.Ad esempio per un cattolico praticante vi è la sacralità della vita umana, e come credenza di base vieterà, pertanto, l'aborto. Per un ateo i tratti che contraddistinguono l'essere umano sono razionalità e autoconsapevolezza e può (l'ateo) inferire che i feti non siano “veri” esseri umani e pertanto concepire l'aborto.

Le credenze di base non sono certe e possono essere abbandonate e confutate. Ne segue l'abbandono delle credenze derivate che si basano sulle credenze di base confutate e non l'abbandono del fondazionalismo.La rinuncia alla ricerca della certezza è totale nel fondazionalismo moderato.Il fondazionalismo moderato appare plausibile. Ma vi è una nota obiezione: essa riguarda le credenze di base e recita come segue: nessuna nostra credenza di base è giustificata, poiché essa è giustificata solo se disponiamo di buone ragioni per ritenerla vera e disporre di buone ragioni per ritenerla vera rappresenta a sua volta una credenza, ciò però ci porta al regresso infinito nel senso che via via che diamo giustificazioni ad una credenza per farla ritenere vera entriamo nel meccanismo del regresso infinito e ne consegue che il fondazionalismo risulta incapace di affrontare il problema del regresso che motiva la sua stessa esistenza.

Il fondazionalismo moderato ha dovuto sposare la tesi stando alla quale è sufficiente avere credenze giustificate senza essere necessariamente in grado di giustificarle, ciò comporta che i soggetti cognitivi non devono mostrare che le loro credenze di base possiedano lo status richiesto. Dunque ripetiamo il concetto per cui i soggetti cognitivi possono avere credenze giustificate senza essere giustificati nel credere di avere credenze giustificate.

Parliamo un po' delle credenze di base: esse sono immediatamente giustificate e non necessitano di alcuna giustificazione inferenziale. Ciò vuol dire che:

i. Le credenze di base sono immediatamente giustificate nel senso che sono autogiustificate.

ii. Le credenze di base sono immediatamente giustificate da esperienze non conoscitive.iii. Le credenze di base sono immediatamente giustificate da una fonte affidabile delle

credenze (che a sua volta non è una credenza).

Esempi:

i. Se io dico “vedo Luigi” non ho bisogno di giustificare ulteriormente la credenza.

ii. Occorre l'esperienza esterna alla conoscenza quale il mero atto fisico del vedere il libro per sostenere che vi sia effettivamente un libro.

iii. Occorrono fonti affidabili delle credenze (percezione, memoria, razionalità, introspezione) per produrre credenze vere che siano giustificate.

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3) AffidabilismoL'affidabilismo non fa dipendere lo status giustificativo dalla struttura delle credenze ma dalle loro fonti. Vi sono naturalmente, fonti delle credenze che sono inaffidabili, carenti e generanti confusione quali il ragionamento confuso, attaccamenti emotivi, la mera congettura ecc. Tali fonti sono inaffidabili e creano credenza errate o credenze false.

Quali sono le fonti che conferiscono giustificazione alle credenze? Intuitivamente elencheremo le fonti che ci permettono di generare spesso credenze vere, quali percezione, memoria, razionalità, introspezione, testimonianza.

Ma ciò è intuitivo perché spesso, ad esempio, la percezione ci inganna e risulterebbe pertanto inaffidabile. Diremo che in quel caso essa non è capace di offrirci credenze giustificate dato che le fonti delle credenze per conferire giustificazione devono condurre alla verità.

L'affidabilismo pertanto afferma che io sono giustificato a credere a una determinata proposizione se e solo se la credenza “X” sia prodotta da un processo cognitivo o da un processo affidabile che tenda a produrre molte tendenze vere, ma non la totalità di credenze vere, ammettendo, infatti, la naturale fallibilità delle capacità cognitive umane.Problema dell'affidabilismo è il cosiddetto problema delle generalità che riguarda le esatte circostanze in cui un processo o un metodo deve essere considerato affidabile, al fine di conferire giustificazione.

Ad esempio vi sono diversi processi percettivi che ricadono sotto il tipo “percezione”, se noi considerassimo generalmente affidabile questo processo, tutte le occorrenze di processi percettivi diventerebbero credenze giustificate, in tutte le condizioni, anche quelle che in realtà non garantirebbero affatto condizioni ideali di conoscenza.

Quindi, in questo caso (ma potremmo sostituire la percezione con la memoria, o la testimonianza ecc.) ci troviamo di fronte ad un'attribuzione indiscriminata dello status di giustificazione. Quello delle generalità è tra i problemi principali dell'affidabilismo, altri problemi risultano meno incisivi.

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4) Funzionalismo proprioNell'affidabilismo, abbiamo detto, che l'affidabilità dovrebbe essere sufficiente alla giustificazione, ma abbiamo visto come il problema delle generalità possa facilmente minare questa teoria.

Da Plantinga, per la teoria della giustificazione viene proposta la teoria del funzionalismo proprio. Secondo Plantinga, infatti, per acquisire lo status della giustificazione una credenza deve essere formata da una facoltà che funziona propriamente in un ambiente favorevole.Sorge, per quanto riguarda il funzionalismo proprio il problema di capire esattamente quali facoltà siano all'opera. La condizione portante del funzionalismo proprio è che nega la possibilità di ottenere credenze garantite attraverso facoltà che funzionano male a causa sia di fattori interni al soggetto cognitivo (es. un danno cerebrale) o esterni quali la manipolazione subita dal soggetto nel caso di C.I.V.

Ma quale è una situazione adatta, dovrebbe essere “quella più normale”, ma cosa vuol dire “normalità”, si è normali quanto più si è vicini e simili ai propri simili. Ma dal punto di vista epistemologico questo è un azzardo perché riferendoci al ragionamento inferenziale (ed è comunque una limitazione) e in particolare al ragionamento deduttivo corretto è assodato che esso non sia dovuto al ragionamento deduttivo corretto, visto che la maggior parte degli umani ragiona scorrettamente.

Per quanto riguarda l'ambiente “appropriato”, anche qui abbiamo notevoli problemi nella definizione, anche se in linea di massima una “cosa” funziona propriamente quando funziona in accordo con il suo progetto, è il progetto di quella cosa è la specificazione del modo in cui quella cosa funziona propriamente. Ma anche qui sussistono problemi di definizione.

Per questi due motivi il funzionalismo proprio, sebbene possa apparire una buona teoria è suscettibile di sottolineature che ne mettono in discussione la sua condizione principe.Ciò che va detto, chiudendo sul funzionalismo proprio è che se togliamo la condizione principe alla sua definizione, poiché ci risulta difficile determinarla, il funzionalismo proprio si riduce all'affidabilismo.

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2.4 Naturalismo.

Fondazionalismo e coerentismo sono le teorie tradizionali della giustificazione. L'idea naturalistica vede l'idea di giustificazione (e conseguentemente l'idea di conoscenza) chiarite attraverso il ricorso alla scienza della cognizione: psicologia o scienze cognitive.Fondazionalismo e coerentismo quindi sono molto lontane dal naturalismo. Il naturalismo muove i primi passi nella seconda metà dell'ottocento con l'avviarsi della psicologia; le scienze cognitive nella seconda metà del '900.

Un antinaturalista autorevole fu Wittgenstein che ci dice: “La filosofia non è una delle scienze naturali e la psicologia non è più affine alla filosofia che una qualsiasi altra scienza naturale”.

La differenza sta soprattutto in questo punto: quando studiamo la teoria della conoscenza analizziamo i concetti di giustificazione e di conoscenza domandandoci: come dovremmo conseguire le nostre credenze, affinché esse siano giustificate o siano conoscenze?Nelle scienze invece, ci domandiamo: come conseguiamo le nostre credenze?Attraverso queste due domande capiamo la profonda differenza di base: la prima domanda prevede una risposta normativa, la seconda una risposta descrittiva.Per gli antinaturalisti è la sola teoria della conoscenza a poter chiarire cosa siano conoscenza e giustificazione, ma Quine propone che la teoria della conoscenza venga integralmente assorbita dalle scienza. Per Quine infatti l'epistemologia trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale.Infatti ciò che i naturalisti sostengono è: la sola teoria della conoscenza (= epistemologia) non è sufficiente a chiarire le definizioni di conoscenza e giustificazione.

A causa della loro astrattezza esse non sono capaci di dirci se gli esseri umani effettivamente conoscono o se abbiano credenze giustificate. Le scienze cognitive ci possono aiutare a studiare l'affidabilità dei processi cognitivi. Due filosofi che si sono sporti fortemente verso le questioni naturalistiche sono Goldman e appunto il sopra citato Quine.

Goldman ha una visione del naturalismo in termini moderati.Quine ha una visione del naturalismo in termini radicali.Goldman critica la teoria della conoscenza o meglio una certa analisi della giustificazione e in virtù di ciò propone di limitarsi alla sola psicologia.

Quine sviluppa un'analisi epistemologica prima causalistica e poi affidabilistica che necessita di un apporto fondamentale da parte delle scienze cognitive.Quine realizza la sua analisi utilizzando solo la descrittività della scienza e coerentemente abbandona la classica normativa epistemologica.

Per Quine tutte le questioni epistemologiche devono essere rimpiazzate da quelle scientifiche, per Goldman solo alcune questioni sono risolvibili con la scienza.

L'ambizione di Quine a disfarsi della componente normativa è del tutto incompatibile con la richiesta che la teoria della conoscenza venga sostituita dalla psicologia.

Per Goldman invece è fondamentale il riconoscimento esplicito all'importante vena normativa della teoria della conoscenza e la volontà di preservarla.

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La posizione radicale di Quine risulta poi evidente per quanto riguarda il dubbio scettico. Infatti per Quine i dubbi scettici sono dubbi scientifici ed essi costituiscono ipotesi empiristiche suscettibili di un trattamento scientifico ma senza ombra di dubbio se poniamo il naturalismo di fronte alla sfida dello scettico globale esso risulta fallimentare: non vi è metodo empirico che ci possa dimostrare che non siamo ingannati da un genio maligno, o che stiamo sognando o che siamo C.I.V. Ogni esperimento empirico che potremmo condurre per confutare ciò sarebbe il frutto dell’inganno del genio, o dello status di C.I.V. o di sogno.

L'esito scettico non è eludibile, ma possiamo dire: sia nel caso in cui la scienza è falsa, sia nel caso in cui sia vera, dice Quine, non conosciamo quasi nulla e non nulla, perché possiamo sempre sapere cartesianamente parlando che stiamo pensando.L'impostazione quiniana non solo ci ha condotti a parlare di scetticismo ma ci ha indotti ad abbracciarlo. Da un lato vi è il soggetto cognitivo che da un basso numero di input produce un alto numero di output, dall'altro lato vi è la teoria della conoscenza ridotta a psicologia e quindi vista come scienza empirica, vista come una nostra costruzione che parte da nostri input.

Quali siano le nostre credenze, sia le conclusioni dello scienziato potrebbero risultare vere per un mero accidente (o false!) e non avrebbero affatto lo status di conoscenza. L'esito scettico è inevitabile e viene ancora di più consolidato dall'esistenza di teorie scientifiche con esiti diversi che partivano dal medesimo input.Quine è comunque sempre fedele al naturalismo radicale quando si tratta di rifiutare la concezione del concetto di giustificazione in quanto normativa, è fedele a tal punto che non tenta di fornirci neanche una giustificazione diretta per la sua impostazione naturalistica perché potrebbe sorgere la domanda: perché dobbiamo credere in essa? A cui non si può rispondere.

Per Quine il naturalismo è l'abbandono della filosofia prima, quella che sostiene la teoria della conoscenza e così facendo Quine rifiuta essenzialmente il trascendentalismo, soprattutto quello globale per cui è possibile trascendere tutti gli schemi concettuali.

Per quanto riguarda il trascendentalismo parziale esso è abbracciabile dai naturalisti in quanto è possibile trascendere qualche schema concettuale per aderire, anche contemporaneamente a qualche altro. Quine nega la possibilità di abbracciare anche il trascendentalismo parziale ma esso andrebbe adottato in quanto è impossibile abbandonare la fattibilità di trascendere tutti gli schemi concettuali.

Sebbene la proposta di Quine abbia molti estimatori essa non ha abbastanza presupposti per poterla accogliere: è eccessivo sostenere che le teorie antinaturaliste siano fallimentari, ma è anche eccessivo rifiutare il trascendentalismo.

Dovendo scegliere tra i due naturalismi, ci dice la Vassallo, è più opportuno scegliere l'impostazione moderata, in quanto concerne la teoria della conoscenza e no è una mera impresa scientifica. Chi la pensa diversamente travisa il senso di teoria della conoscenza.

Resta comunque insoluto il problema riguardante il fatto che la naturalizzazione deve mostrare ancora che la norma sia più importante del fattuale.

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2.5 Scetticismo.

Abbiamo incontrato diverse strategie atte ad affrontare lo scetticismo, nessuna valida del tutto.Vediamone altre ora, partendo da quella classica cartesiana e del noto metodo del dubbio.

Cartesio applica il dubbio alle credenze, e usa deliberatamente argomenti scettici per dimostrare la loro non validità al fine di approdare alla scoperta di una conoscenza su cui non è possibile più dubitare. Cartesio ponendosi di fronte alla percezione prova a dubitare che essa sia reale, ma basandosi essa stessa sulla percezione sarebbe folle dubitare così dei sensi che sia basano su una fattuale continua esperienza empirica.

Subentra però un nuovo dubbio, l'ipotesi del sogno, secondo la quale, in questo stesso momento io starei sognando e non avrei argomenti per distinguere nettamente la veglia dal sonno.

Questo è un dubbio globale , su tutta la conoscenza empirica. Ma anche le certezze che appartengono a categorie universali quali matematica, estensione, forma, numero ecc non sono esenti dal dubbio. Se vi è un Dio onnipotente, come posso escludere che Egli mi abbia ingannato su tutto, sia sotto il profilo epistemologico, sia sotto il profilo empirico? Potrebbe benissimo essere che io sia sempre stato ingannato su tutto.

Cartesio è costretto a concludere che non vi sia alcuna conoscenza di cui non sia possibile dubitare, e tale ipotesi viene bene espressa dal racconto del “genio maligno” che ci inganna su tutto. Ma tutto ciò non vuole affatto dire che Cartesio fosse uno scettico, benché quando si parli di scetticismo cartesiano si intende scetticismo globale.Infatti il metodo di dubbio sistematico non vuole solo demolire ma anche costruire esso è infatti il percorso da seguire per arrivare a una conoscenza che lo scettico non può intaccare.La conoscenza inattaccabile la si raggiunge nel momento che se il genio maligno mi inganna, allora io esisto, ed è sintetizzato nel “cogito ergo sum”; infatti il genio mi potrà ingannare tutte le volte che vuole, ma fin tanto che lo farà io sarò qualcosa. Cartesio con questo ottiene quanto si era proposto: spingere ai limiti il metodo del dubbio per mostrare che esso giunge ad auto confutarsi.

Questa auto confutazione va bene anche per lo scettico, visto che il soggetto cognitivo continua a conoscere ben poco: solo che è un essere pensante.Si deve quindi partire dal sapere di essere un “essere pensante” per arrivare a costruire la conoscenza rimanente. Ma la strategia cartesiana appare labile: Cartesio sostiene che la nostra idea d’essere perfetto ci è stata inculcata necessariamente da un essere perfetto: Dio. Dio che inoltre permetterebbe all'uomo di avere conoscenze percettive ed essendo un essere innegabilmente perfetto non ingannerebbe l'uomo.

Ma la strategia cartesiana antiscetticismo funziona davvero?

La strategia trova il suo punto saldo nella conoscenza dell'esistenza di Dio, esistenza che Cartesio assume per certa.

La strategia dipende allora da un ragionamento circolare: il cosiddetto “circolo cartesiano”; infatti non si comprenderebbe come si potrebbe conoscere in prima istanza l'esistenza di Dio senza già presupporla a garanzia della medesima conoscenza.Ma a questo punto dobbiamo arrenderci allo scettico: i ragionamenti circolari non hanno valore; lo scetticismo trionfa rimaniamo con la consolazione di essere esseri pensanti che nulla realmente conoscono del mondo esterno. Il tentativo di Cartesio è un tentativo razionalista di replica allo scetticismo.

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Vi sono anche tentativi di matrice empirista (Moore) che iniziano dalla percezione. Ciò che si vuole è una prova che il mondo esterno esista, e che lo si possa conoscere. Ma Moore non offre una vera prova. Lui si limita ad alzare le mani e dirci che se le mani sono là vuol dire che esistono. Moore è dunque convinto di offrirci una prova del mondo esterno mostrandoci le sue mani e concludendo che quindi esse esistano.

Lo scettico potrebbe obbiettare a Moore di offrire una prova del mondo esterno mostrandoci le mani e concludendo che quindi esse esistono e che quindi due oggetti del mondo esterno esistono.

Lo scettico potrebbe obbiettare a Moore di dare una prova della sua premessa “le mie mani sono qua e le alzo ”. che Moore ci mostri le mani non è una prova, e dire che esse esistono non è una prova, perché se anche io le tocco nulla sfugge al dubbio.

E la fisicità pretende una spiegazione delle premesse; ma allo scettico non si può concedere l'inaccettabile. E non è accettabile che si chieda sempre una spiegazione delle premesse; perché data la prova richiesta si richiederà sempre una prova delle prove presentate con un regresso infinito.

La conclusione scettica appare inevitabile (in quanto è impossibile agli esseri umani di fornire prove infinite), ma comunque essa è inaccettabile.Il problema del regresso infinito delle giustificazioni insieme al dubbio scettico globale non ci permette di dimostrare l'esistenza reale del mondo. La strategia empirista, come già quella razionalista non si è dimostrata convincente. Molti filosofi, non empiristi, non razionalisti tentano di affrontare questo problema come Wittgenstein che afferma: “lo scetticismo è non confutabile, ma apertamente insensato se vuole mettere in dubbio ove non si può domandare”. E Wittgenstein ci parla anche dell'immagine empirica del mondo e la considera non un caso paradigmatico di conoscenza ma piuttosto casi che assolvono a una funzione di riferimento della nostra situazione concettuale, fornendoci un'immagine del mondo che non è necessaria non perché siamo certi della sua correttezza, ma perché rappresentano il substrato di ogni nostra ricerca e osservazione. Per Wittgenstein la nostra ricerca deve essere protetta dal dubbio e certe proposizioni sono protette dal dubbio; dice Wittgenstein: “le questioni che poniamo e il nostro dubbio riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio, come se fossero i perni su cui le altre si muovono”. Non si può dubitare di certe convinzioni incrollabili (quali ad esempio “sotto di me vi è un pavimento su cui poggio”), proposizioni di cui non posso fare a meno, esse sono la nostra base conoscitiva e ogni nostra domanda e ogni nostra risposta sono ancorate su di esse.Tale sistema non è tanto il punto di partenza, quanto il punto vitale per ogni nostra argomentazione.

Questa posizione di Wittgenstein è molto importante perché ci porta a concludere che il dubbio che dubita di tutto non è un dubbio, lo scetticismo globale, dunque, non è possibile. Il dubbio nello scetticismo globale, infatti, sta sempre su ciò che deve restare fuori di dubbio.

La porta allo scetticismo globale deve essere chiusa perché come detto non si può dubitare di quelle asserzioni basilari su cui si basa la nostra conoscenza, rimane aperta la porta a più deboli forme di scetticismo che sollevano dubbi circa la nostra conoscenza relativamente a certe aree, ben determinate.Anche Kant, come Wittgenstein, aveva sostenuto la necessità di avere certi concetti a priori per la conoscenza del mondo esterno. Kant chiama questi concetti le categorie pure dell'intelletto (es. spazio tempo causa). Kant si prefissa di spiegare la validità dei suoi concetti, ma questo tentativo può essere letto come una risposta allo scetticismo globale.

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Ma con ciò che ci dicono Kant e Wittgenstein abbiamo sconfitto lo scetticismo?La risposta è negativa perché anche se abbiamo proposizioni che applichiamo al mondo esterno non possiamo dimostrare l'esistenza del mondo esterno. Pur possedendo le proposizioni, come possiamo dimostrare anche gli atti che descriviamo? Senza queste seconde dimostrazioni lo scettico vince.

Io sto scrivendo in questo momento, lo vedo e lo credo ma se fossi ingannato dal genio? Non sarebbe affatto conoscenza. Possiamo autoconfutare il dubbio sostenendo che il dubbio esiste solo in virtù dell'assenza di dubbio. Ma anche questa è una ben misera vittoria nei confronti dello scettico che afferma che oltre a ciò di certo non conosciamo nulla.Dobbiamo allora forse, fare una cosa: riconoscere la robustezza delle ipotesi scettiche. La robustezza delle ragioni scettiche ci viene tra l'altro confermata dall'insuccesso delle ipotesi antiscettiche. Già Nozick lo riconobbe: se le ipotesi scettiche globali sono tali che, anche se sussistessero continueremmo a credere che non sussistano. Se, infatti, fosse vero che un genio maligno ci sta ingannando continueremmo a crederlo sempre; lo scetticismo ci presenta abilmente mondi doxaticamente identici a quello reale. Il mondo creato dal pazzo neurologo sarebbe indistinguibile dal mondo reale. Nozick contesta la posizione scettica globale contestando il “principio di chiusura della conoscenza rispetto all'implicazione logica”. Si tratta, quello di Nozick. Di un ragionamento molto complesso che dovrebbe essere una confutazione dello scetticismo, ma essa è solo parziale: lo scettico ha torto nel condurci a ritenere che sia impossibile la maggior parte della nostra conoscenza, ma ha ragione nel condurci a ritenere che non c’è concesso di sapere che le ipotesi scettiche globali siano false. Ciò che Nozick ci vuole dire è che possiamo conoscere molte proposizioni relative al mondo esterno, ma che d'altra parte dobbiamo riconoscere la potenza e il fascino dello scetticismo. Siamo dunque costretti ad accettare la conoscenza contraddittoria di

A) Poter sapere che il nostro cervello è nel nostro cranio.

B) Poter non sapere che il nostro cervello non è nel nostro cranio.

Siamo intuitivamente spinti verso due diverse direzioni:

A) Da una parte recepiamo la forza dello scetticismo

B) Dall'altra siamo riluttanti ad abbandonare le nostre quotidiane attribuzioni di conoscenza.

Le nostre intuizioni scettiche rappresentano una sfida per le nostre attribuzioni di realtà alle manifestazioni empiriche. Ma le nostre attribuzioni sono a loro volta una sfida per lo scettico. Ciò che stiamo dicendo ce lo disse già Hume con chiarezza:

“esiste un contesto filosofico, o scettico, e un contesto quotidiano. Nel primo contesto si sollevano le ipotesi scettiche e sembra impossibile deleggittimarle. Nel contesto quotidiano esse appaiono forzate e ridicole”.Il contestualismo contemporaneo elabora quest'idea, ammettendo sia le ragioni dello scettico sia le ragioni delle nostre normali e quotidiane attribuzioni di conoscenza. Il contestualismo sottolinea bene che noi come esseri razionali siamo intuitivamente condotti a recepire la forza dello scetticismo, ma rende conto anche della nostra intuitiva propensione a riabilitare le attribuzioni quotidiane di conoscenza. Non abbracciamo lo scetticismo una volta per sempre, perché torniamo in contesti situazionali e conversazionali più quotidiani, ove vigono standard più rilassati, e ove le ipotesi scettiche se non menzionate non acquisiscono rilevanza. Ogni contesto, quello quotidiano o quello filosofico, ha i suoi standard, e ogni volta che vi entriamo ne adottiamo il “modo”. Dato che esistono due standard, per due “modi” di pensiero la negazione scettica della conoscenza è perfettamente compatibile con l'attribuzione quotidiana della conoscenza: non sussiste alcuna contraddizione.

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Capitolo 3. Sviluppi recenti

3.1 Contestualismo.

Il contestualismo è, insieme al femminismo, la corrente epistemologica contemporanea che più spicca.Il contestualismo nasce come risposta allo scetticismo, e come detto, l'attribuzione di verità e di conoscenza varia secondo il contesto.

Es. “l'undici settembre 2001 le Torri Gemelle sono state distrutte”. Questa proposizione è valida in un libro di storia e può diventare una falsità nel corso di una conferenza sullo scetticismo. Il contestualismo inoltre è connesso ai tentativi di integrare la definizione tripartita della conoscenza con una quarta condizione. Pensando alla teoria della non sconfiggibilità che aggiunge alla concezione tripartita della conoscenza il concetto secondo cui “non vi deve essere una data proposizione che aggiunta al corpus conoscitivo di un dato soggetto sia in grado di sconfiggere la giustificazione del soggetto riguardo ad un’altra proposizione sostenuta”.

Il contestualismo cerca di rendere conto del fatto che, secondo i contesti, una medesima proposizione può assurgere o meno al ruolo di sconfiggitrice.Vi sono due forme di contestualismo:

una soggettiva secondo la quale i fattori che determinano l'attribuzione di conoscenza – non solo prettamente epistemici, ma anche connessi agli scopi, alle intenzioni, alle presupposizioni – dipendono dalla situazione, o dal contesto in cui si trova il soggetto cognitivo.

Vi è una seconda forma di contestualismo detta contestualismo attributivo, stando al quale le attribuzioni di conoscenza sono relative al contesto d’attribuzione, o a colui che attribuisce conoscenza o, più in generale, al contesto conversazionale; in altre parole, le attribuzioni di conoscenza sono determinate anche dagli scopi, dalle intenzioni, dalle presupposizioni di colui che attribuisce conoscenza e soprattutto, da quanto viene menzionato durante la conversazione.

Visto così il contestualismo è applicato alla sola nozione di conoscenza, esso però lo si può applicare alla nozione di giustificazione; si tratta di due tipi di contestualismo tra loro un po' diversi ma collegati: dato infatti che la giustificazione è una condizione necessaria per la conoscenza, se si contestualizza la nozione di giustificazione viene contestualizzata anche la nozione di conoscenza.

Es.

Virginia legge su un quotidiano la seguente notizia: “Ritrovato un quadro di Leonardo”; se le dovessimo domandare una giustificazione di questa proposizione e lei ci dicesse “l'ho letto su un quotidiano” ci riterremmo di sicuro soddisfatti.

Modifichiamo ora il contesto:

Virginia si trova ora a sostenere un esame di storia dell'arte e il soggetto d'esame è proprio il quadro di Leonardo ritrovato da poco. Le viene chiesto dal docente proprio la suddetta domanda: “Perché. credi a tale proposizione” Virginia risponde che vi crede perché l'ha letto sul giornale. In questo caso non ci riterremmo per niente soddisfatti e neghiamo giustificazione alla sua credenza.

Nel contesto di un esame universitario impieghiamo uno standard epistemico piuttosto elevato relativamente alla giustificazione. Quest’esempio, visto in un’ottica contestualista ci mostra con chiarezza che l'attribuzione di giustificazione è relativa il contesto: uno stesso soggetto cognitivo può risultare giustificato nel credere ad una data proposizione in un dato contesto, e in un altro contesto può risultare ingiustificato nel credere alla medesima proposizione.

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Il contesto determina non solo il livello di giustificazione appropriato ma anche il livello degli obbiettori appropriato.Il contestualismo è spesso stato letto dai critici come un'alternativa a qualche specifica teoria della giustificazione, ma è anche compatibile con ogni teoria della giustificazione, la si può applicare al fondazionalismo, al coerentismo, all'affidabilismo, al funzionalismo.

Ciò che va detto, concludendo, è che il contestualismo ha un'ottima compatibilità con la nostra prassi epistemica. Nella nostra vita si verifica, infatti, una fluttuazione degli standard epistemici. Non usiamo, infatti, un unico standard conoscitivo per ogni contesto. Usiamo diversi standard, diversi sensi di conoscenza, diversi standard di giustificazione più o meno elevati secondo i contesti in cui ci troviamo e questo è un aspetto fondamentale della nostra vita epistemica.

3.2 Femminismo.

Caratteristica primaria del femminismo è il suo forte essere critico nei confronti della teoria della conoscenza classica, e tale suo criticismo è attuato presentando in modo nuovo alcuni tratti contestualistici.

Punto di partenza della teoria femminista è la constatazione che sebbene la teoria classica della conoscenza assuma un soggetto cognitivo neutro essa è prettamente basata su un soggetto cognitivo che è uomo. Ciò è dimostrato dal fatto che le donne sono state spesso considerate cognitivamente inferiori.La teoria femminista vuole riconoscere i pregi epistemici femminili.

Secondo la teoria femminista, i vari tentativi classici di offrire una teoria della conoscenza non sono buoni perché la pretesa della filosofia classica di avere un soggetto neutro è sbagliata. Infatti, non possono darsi condizioni valide per tutti i soggetti facendo questo a dispetto dell'identità del soggetto, dei suoi interessi e delle circostanze in cui si trova: il soggetto cognitivo è sempre situato in un contesto sociale che è diverso secondo il genere a cui appartiene.Essendo il punto di vista maschile e quello femminile molto diverso si ottengono esperienze epistemiche diverse. Nell'ottica femminile assurge ad un ruolo più importante la conoscenza competenziale e quella diretta rispetto a quella proposizionale. Il soggetto femminile cognitivo ha maggiore penetrazione cognitiva di tipo diretto perché è un “essere” molto più socievole rispetto a quello maschile. Oltre alla conoscenza diretta dicevamo della conoscenza competenziale, essa è quella che comporta sempre qualche abilità ed è la conoscenza che viene solitamente attribuita alle donne anche in virtù di loro competenze innate come il saper curare i bambini e il sapere educarli, saper gestire la casa, la famiglia, saper partorire, saper aiutare anziani ecc.

È un tipo di conoscenza non sempre traducibile in conoscenza proposizionale, un manuale, seppure perfetto non insegnerà mai davvero come curare un neonato, certe conoscenze sono acquisibili solo con una particolare empatia con il bimbo.La conoscenza competenziale contiene in se un riferimento al contesto; essendo alcuni saperi prettamente femminili, possono manifestarsi solo in quei contesti ove certe pratiche accadono, e quindi determinate da un contesto.Ma ciò che è più interessante nella teoria epistemologica femminista è che l'accento è sempre posto sul genere, il che significa – volenti o nolenti – presupporre che vi siano differenze essenziali tra le capacità cognitive delle donne e quelle degli uomini, ed è una tesi essenzialista che attribuisce alle donne caratteristiche peculiari: il soggetto femminile è culturalmente collettivista, dipendente e correlato agli altri, le donne sono essenzialmente esseri sociali; le donne sono empatiche e sensibili, la conoscenza delle altre persone è per lo più una prassi epistemica femminile.

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Ma la teoria essenzialista è suscettibile di tre critiche:1) Vi sono donne con caratteristiche maschili, e maschi con caratteristiche femminili.

2) Si può dubitare che due donne cresciute in contesi opposti abbiano il medesimo punto di vista cognitivo. Es.: donna bianca, occidentale, colta, ricca VS donna nera, africana, analfabeta, povera

3) Sostenere che le donne presentino similarità essenziali serve spesso a costringere i soggetti a comportarsi in determinati modi, a legittimare alcune pratiche e a deleggitimarne altri.

Riassumendo, la teoria femminista della conoscenza si differenzia all'approccio classico sulle seguenti tesi:

1) I soggetti cognitivi non sono epistemologicamente interscambiabili, perché sussistono tra essi variazioni epistemiche significative.

2) I soggetti cognitivi non sono epistemologicamente autosufficienti perché necessitano d’interazioni con altri soggetti.

3) Il soggetto cognitivo individuale non è il soggetto cognitivo primario, perché sono le comunità a conoscere.

4) La conoscenza diretta e la conoscenza competenziale sono importanti quanto la conoscenza proposizionale.

Le tesi sono però attaccabili.1) La tesi 1 implica l'affermazione che uomini e donne hanno un'attività cognitiva diversa, e

che pensano e conoscono in maniera diversa, e che pensano e conoscono in modo diverso. L'affermazione è imputabile di sessismo e classismo e la questione se i soggetti possiedono o no medesime capacità cognitive ed empiriche e l'ambito di studio di questo argomento sono le scienze cognitive.

2) I soggetti cognitivi, è vero, necessitano d’interazioni epistemiche con altri soggetti ma è irragionevole sostenere che i soggetti cognitivi necessitano solo d’interazioni cognitive con altri soggetti.

3) È implausibile sostenere che siano le comunità a conoscere, benché il processo interazionale aiuti.

4) È una cosa buona che il femminismo rivaluti conoscenza competenziale e conoscenza diretta, ma occorre prestare attenzione a non screditare l'assoluto valore della conoscenza proposizionale.

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Parte tre

Il pragmatismo una questione aperta

Hilary Putnam(pagine 47 – 54)

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Libro 3

Capitolo 1.

1.1 La permanenza di William James.

L'opera di William James si presenta come fondamentale nella filosofia contemporanea, presentandosi, infatti, come una filosofia capace di scatenare accesissime discussioni, talvolta molto critiche; come ad esempio la polemica di Russel.Secondo Putnam, James fu un pensatore di grandissima forza intellettuale, e fu uno dei grandissimi maestri del pragmatismo americano. Putnam sottolinea come la sua non sarà una trattazione esaustiva della totalità della filosofia di James, quanto piuttosto una presentazione della stessa.Tra le caratteristiche principali della filosofia di James è l'olismo. L'olismo è un termine usato da Quine per indicare che il linguaggio nel suo insieme costituisce un unità (dal greco olon = tutto unico) e che comprendere un enunciato vuol dire comprendere un intero sistema. Conseguentemente, per Quine, nessuna proposizione scientifica ha significato se presa isolatamente: “L’unità di misura della significanza empirica è tutta la scienza nella sua globalità”.All'interno dell'olismo è fondamentale il concetto di rifiuto dei dualismi tipici della filosofia tradizionale:Fatto – valore – teoria vengono tutti considerati come connessi e interdipendenti. La seconda caratteristica fondamentale è quella del cosiddetto “realismo diretto ”, dottrina secondo la quale la percezione riguarda oggetti ed eventi la fuori e non dati sensoriali privati.A molti filosofi olismo e realismo diretto sono apparsi incompatibili. Secondo Putnam, questi due aspetti, lungi dall'essere opposti, sono interdipendenti e cerca di darci un'idea del mondo in cui questi due aspetti consistono.

1.2 La verità

James ci disse: “Il vero per dirla molto brevemente, è solo ciò che conviene nel nostro modo di pensare, proprio come il giusto è solo ciò che conviene nel nostro modo di comportarci”.Vale a dire che è vero ciò che conviene in pressappoco tutte le situazioni e ciò che conviene nel lungo periodo e nell'insieme delle cose, in quanto ciò che soddisfa l'esperienza presente non soddisferà necessariamente anche tutta l'esperienza futura.Ne deriva, che secondo diversi tipi d’asserzione, ne conseguano diversi tipi di convenienza, ma non è vi è, secondo Putnam, alcun indizio che ci porti a pensare che James sostenesse che una qualsiasi asserzione arbitraria sia vera se è conveniente. Infatti, James rifiutò categoricamente l'interpretazione secondo cui un'asserzione è vera se renderà le persone soggettivamente contente di crederla.Altra critica riferita a James a proposito di quest’asserzione è che egli non parli di “verità” ma di “conferma”. Putnam afferma che, benché vi sia stretta connessione tra “conferma” e “verità” esse non sono la stessa cosa. La connessione tra “verità” e “conferma” esiste per la seguente ragione: “Dire che la verità è corrispondenza alla realtà” non è falso ma vuoto, finché non viene detto nulla su cosa sia la “corrispondenza”. Quindi la corrispondenza è totalmente indipendente dai modi in cui noi confermiamo le affermazioni che facciamo e in questo modo ne risulta che la corrispondenza sia qualcosa di “occulto”. Come occulta ne risulta, a questo punto la nostra comprensione di tale concetto.

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Ma la verità per W. James deve essere tale che noi siamo in grado di dire come c’è possibile afferrare quel che essa è. Allo stesso modo di Pierce, James spesso identifica la verità con “l'opinione finale”, cioè non con ciò che è attualmente confermato ma con ciò che è destinato ad essere confermato, se la ricerca viene protratta abbastanza a lungo ed in maniera responsabile.

La verità è il destino del pensiero; e l'unico criterio oggettivo di realtà, è la costrizione nel lungo periodo nei confronti del pensiero.

Putnam si trova d'accordo con quanto appena detto, ma solo per quanto riguarda il concetto per cui la verità non vada considerata come una corrispondenza “occulta”, ma piuttosto come “un'idealizzazione dell'asseribilità garantita”. Putnam si trova comunque in disaccordo con Pierce e James per quanto riguarda il concetto di “opinione finale”.

Ma un'idea di James resta fondamentale: il nostro concetto di verità non deve essere considerato un atto mentale misterioso con il quale ci connettiamo a qualcosa di totalmente indipendente dalle pratiche in base alle quali noi diciamo ciò che è vero da ciò che non è vero.Se ciò che è vero è ciò che sarebbe confermato in perfette condizioni di ricerca, parrebbe che il miglior modo di spiegare la verità sarebbe di spiegare come si decida ciò che è confermato.

Ma questo non comporta alcuna confusione tra “vero” e “confermato”. E James questo lo illustra molto bene con un esempio: “Se io ti dico come arrivare alla stazione della ferrovia, non t’introduco implicitamente al “che cosa” all'essere, alla natura di quell'edificio?”.

1.3 L'olismo.

Ad alcuni critici la posizione di James apparve una ripresa fenomenistica del positivismo, ma James è diverso dai neopositivisti 3 come Quine. E la differenza principale consta nel rifiuto dei dualismi tipici dei neopositivisti:

Dualismi come: fatto – teoria; fatto e valore; fatto e interpretazione.

Da tali principi di rifiuto dualistico con studi sulla filosofia di James ne derivano i seguenti principi:

d) La conoscenza dei fatti presuppone la conoscenza delle teorie.

e) La conoscenza delle teorie presuppone la conoscenza dei fatti.

f) La conoscenza dei fatti presuppone la conoscenza dei valori.

g) La conoscenza dei valori presuppone la conoscenza dei fatti.

I principi “a” e “b” sono oramai assodati e non più messi in discussione, mentre i principi “c” e “d” sono ancora sottoposti a valutazioni. Putnam comunque li sostiene e ci afferma che non si può parlare di “fatti osservativi prestabiliti in un oggetto di descrizione”; infatti persino a livello dei fatti osservabili, ciò che c'è dipenderà in parte da quali culture noi osserviamo.

3 Neopositivismo: detto anche “neoempirismo”, “empirismo logico”, o “positivismo logico”, è la corrente che, pur condividendo con il positivismo ottocentesco il privilegiamento della razionalità scientifica, se ne differenzia notevolmente (per questa ragione è adottato il prefisso “neo”) sia per un concetto più critico della scienza, sia per l'attenzione prestata al suo aspetto logico – linguistico (da qui l'aggettivo “logico” di una delle sue denominazioni), sia per una tendenza più marcatamente empirista.

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Ci dice James: “Per quanto mi riguarda non posso sfuggire alla considerazione secondo la quale il soggetto conoscente non è altro che un semplice specchio fluttuante senza alcun appiglio, che si trova a riflettere un ordine già esistente e in cui s’imbatte. Il soggetto conoscente è un attore, il quale da un lato codetermina la verità, dall'altro registra la verità che aiuta a creare”.

Quindi le decisioni che riguardano fatti e giudizi di valore dipendono le une dalle altre e a vicenda si condizionano. E se afferma (James) che il vero è “ciò che conviene i pressappoco tutti i rispetti” è perché non si possono prevedere in anticipo quali considerazioni possono dimostrarsi pertinenti nel lungo periodo per una data questione.

Parafrasando si potrebbe dire che se una teoria può essere vera con i fatti e bianca con le convenzioni potrebbe diventare rossa con i valori.

Quindi ai quattro principi di cui sopra Putnam ne aggiunge altri due:

5) La conoscenza dei fatti presuppone la conoscenza delle interpretazioni.

6) La conoscenza delle interpretazioni presuppone la conoscenza dei fatti.

1.4 Il realismo.

Oltre all'attacco ai dualismi la filosofia di James contiene una fortissima tendenza al “realismo diretto”. Teoria secondo la quale la percezione riguarda oggetti ed eventi la fuori e non fati sensoriali privati. Ciascuno di questi due aspetti, “rifiuto dei dualismi” e “realismo diretto” presuppongono l'altro e ciascuno dei due è necessario per la corretta interpretazione dell'altro. Ciò porterebbe quasi a vedere James come uno scetticista (che escluda quindi la possibilità di una reale conoscenza), ma ad allontanare James da ogni forma di scetticismo è proprio il fatto che la “plasticità della verità” (noi come codeterminanti della verità) venga controbilanciata dal sostenere che noi condividiamo e percepiamo un mondo comune. Il pragmatismo è stato caratterizato sin dai primi scritti pragmatici di Pierce dall'antiscetticimo.

I pragmatisti ritengono che il dubbio abbia bisogno di una giustificazione così come la credenza stessa4. Altra caratteristica del pragmatismo è il fallibilismo: si ritiene che non esistano garanzie metafisiche tali grazie alle quali almeno le nostre garanzie più incrollabili non avranno più bisogno di essere riviste. Questa è forse la più grande intuizione del pragmatismo americano: essere allo stesso tempo fallibilisti e antiscettici.Le due cose però ci appaiono a prima vista totalmente inconciliabili. Il sostenere la possibilità di una realtà comune non esige l'esattezza di giudizio. Allo stesso modo il fallibilismo non ci chiede di dubitare d’ogni cosa ma di “qualcosa”, quando sorgono le condizioni adatte per farlo.

James ha dunque cercato di umanizzare la nozione di verità, di renderla percepibile come una nozione umana, come uno strumento per e dell'uomo e non come qualcosa che sia piovuto dal cielo.

La filosofia di James è dunque lungi dall'essere incoerente ed è centrale per lui il “come vivere”.

4 Pierce sottolineò sempre la necessità di fare differenza tra dubbio filosofico e dubbio reale.49

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Capitolo 2.

2.1 Wittgenstein era un pragmatista?

Lo scopo di Putnam nel secondo capitolo del testo è quello di smentire la diffusa idea che vede la filosofia tarda di Wittgenstein (l'ultimo Wittgenstein) come una filosofia della “fine della filosofia”, e che il suo scopo sia quello di metterci in condizioni di “smettere di fare filosofia”.

Nella sua “ultima filosofia” Wittgenstein rifiuta qualsiasi teoria filosofica nel senso che non ne esprime alcuna e unico suo scopo è quello di farci cambiare punto di vista.

Secondo Putnam le riflessioni di Wittgenstein derivano e continuano da alcune riflessioni Kantiane, e che tali riflessioni poi si allacciano ad alcuni aspetti del pragmatismo.

2.2 Kant

Putnam inizia questa sua riflessione evidenziando cosa vi sia stabile nella prima delle sue critiche (quelle kantiane intendiamo) e lo riconosce nel fatto che Kant sia stato il primo ad accorgersi che descrivere il mondo non vuol dire semplicemente copiarlo. Le nostre descrizioni del mondo sono, secondo Kant, modellate dalle nostre scelte concettuali, ciò significa che noi descriviamo il mondo per scopi differenti (ad esempio per scopi scientifici e per scopi morali).

Ma Kant (secondo Putnam) andava soggetto ad una confusione: “essendo questa nostra descrizione modellata da scelte concettuali, per lo stesso motivo questa descrizione non mostra come l'oggetto è”. Sorge spontanea la domanda, a questo punto su quale sia la descrizione delle cose in sé. Ma questo “in se” è completamente vuoto come concetto, sarebbe come domandare come deve essere descritto il mondo nel linguaggio proprio del mondo; ma questo non esiste, in quanto esistono i vari linguaggi che noi parlanti inventiamo per i nostri disparati scopi.

In una sorta di compromesso, tra il fatto che le nostre descrizioni del mondo sono modellate dalle nostre scelte concettuali e che esse sono a loro volta determinate dalla nostra natura e dai nostri interessi, Kant è il primo ad abbandonare l'idea secondo cui una qualsiasi descrizione del mondo possa essere una semplice copia del mondo.

Ma Kant non si fermò qua, mostrando una tendenza al pluralismo (che non vi è ma affiora) mostrando, infatti, non un semplice “dualismo” tra immagine scientifica del mondo ed immagine morale ma tra le due vi sono ampliamenti e interazioni, parlando, infatti, di “immagini religiose del mondo”, di immagini estetiche ed altro. Kant come Quine ha sempre sostenuto che solo l'immagine scientifica del mondo contiene ciò che si può chiamare in senso stretto “conoscenza”.Tale aspetto fu fortemente messo in discussione sia da James sia da Wittgenstein. Wittgenstein nel suo momento di rifiuto ci dice che epistemologia e metafisica hanno fallito; ma non alla fine del loro percorso, quanto già dal nascere e che le grandi “questioni” che sono alla base dell'epistemologia, siano, sostanzialmente prive di senso.Spesso si è portati a pensare che l'epistemologia abbia origine dalla domanda “quale è la natura della conoscenza?” Ma per Wittgenstein il semplice fatto che noi si dica che la conoscenza abbia una natura non ha alcun senso. Wittgenstein ribadisce il fatto che l'idea secondo la quale la conoscenza ha una sorta di “aura” che la circonda in tutti i suoi contesti sia un illusione. La parola “conoscere” è una parola che usiamo per assolvere a differenti scopi e non sapremo se le definizioni date oggi avranno la stessa validità in futuro, non conosciamo ciò che è il futuro. Gli esseri umani, hanno sempre esteso e modificato il significato della parola conoscere e continueranno a farlo.

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2.3 Ancora su Wittgenstein e Kant.

Putnam torna alla relazione tra la filosofia dell'ultimo Wittgenstein e Kant e dopo aver espresso le differenze tra i due ne ribadisce le connessioni intrinseche.Il primato della ragion pratica.

Vi è un aspetto di Kant che si connette in maniera diretta al pragmatismo ed è il primato della ragion pratica. Molti dei lavori di Kant presentavano non solo un'ispirazione politica ma anche un'applicazione politica. Parla ad esempio di autolegislazione, concetto per cui dipendeva direttamente da Rosseau.Vi è in Kant il concetto fondamentale di un'idea regolativa della natura non solo governata da leggi individuali, ma da un sistema di leggi, immagine che secondo Kant ci proviene dalla ragion pura pratica. Kant sostiene che le norme che guidano la scienza teoretica nelle sue acquisizioni più alte sono norme che derivano da una certa nozione, da noi posseduta, di ciò in cui consisterebbe la perfezione della ricerca umana.

Per Kant il primato della ragion pratica si estende alla filosofia stessa. Egli ritiene che non si possa costruire un immagine morale del mondo tentando di provare a priori che ci sono giudizi di valore veri e lo spiega attraverso il suo opposto: “In quanto essere che esprime ogni giorno dei giudizi di valore, senza dubbio, io debbo presupporre l'idea che vi siano giudizi di valore “veri” e che se esistano giudizi di valore veri come devono stare le cose perché siano tali?”

Il primato della ragion pratica si mostra fondamentale quando s’incontrano disquisizioni e trattati che discutono sul nulla ad esempio “i numeri esistono realmente?” ed è difficile capire il senso reale di questo tipo di filosofia, e in questo contesto s’inserisce il filosofo Dewey che ha affermato che il concetto primario della ricerca filosofica non dovrebbe essere quello di costituire una “filosofia del tutto”, ma piuttosto dovrebbe essere la critica della cultura, ed è questo che (nonostante gli eccessi metafisici) ha fatto la filosofia di Kant.Essa è stata una critica della cultura, un abbozzo o uno schema per una società illuminata che avrebbe dovuto portare a uno stato dominato dalla giustizia sociale.Ed è qui che Putnam focalizza la nostra attenzione per quanto riguarda la vicinanza tra le filosofie dell'ultimo Wittgenstein e su Kant. La filosofia dell'ultimo Wittgenstein pur apparendo come una feroce critica alla filosofia teoretica ha, allo stesso modo di quella kantiana, uno scopo morale, che seppur mostrato in modo diverso mostra il primato della ragion pratica.

2.4 lo scopo etico della filosofia dell'ultimo Wittgenstein.

Per spiegare bene il rapporto tra la filosofia dell'ultimo Wittgenstein e la sua connessione con la critica della ragion pratica di Kant occorre dire che sebbene molti filosofi vedano in lui solo attacchi alla filosofia, nella sua filosofia vi è uno scopo sia morale sia pratico.

Egli sì rifiuta la metafisica, ma la rifiuta in maniera morale, in quanto le immagini metafisiche sono “cattive” per noi, in quanto troppo lontane dalla realtà. Il problema è capire se una forma di vita ha un valore pratico o spirituale. In sintesi Wittgenstein non fu né un pragmatista né un kantiano. Egli divide con il pragmatismo una certa eredità kantiana e con esso anche l'accentuazione del primato della pratica.

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Capitolo 3.

3.1 il pragmatismo e il dibattito contemporaneo.

Putnam ci ha parlato di come l'interdipendenza olistica di teoria, valore e fatto sia un tema centrale degli scritti di James. Ma i tre termini più che interdipendenti sono compenetranti poiché i tre elementi non possono venire scissi neppure con l'immaginazione.

Consideriamo i seguenti esempi:

(5) “è sbagliato picchiare un bambino” → giudizio di valore.(6) “il mio ombrello è nell'armadio” → ho asserito un fatto.(7) “Caligola fu un imperatore crudele” → giudizio di valore più fatto storico

I filosofi della scienza hanno fatto talvolta una distinzione tra “osservazioni” e “generalizzazioni induttive”. Questa dicotomia, tra dati osservativi e generalizzazioni induttive non è assoluta perché la comprensione con il proprio intelletto delle affermazioni sui dati reali presuppone sempre uno sfondo di leggi.

Certamente è logico presupporre la validità di leggi tipo “se sollevo la sedia tutto il resto resterà invariato”. E naturalmente presuppongo la validità di un gran numero di leggi e asserzioni che lo stesso pronunciarle è un atto linguistico senza senso. Es. “se gli sorrido non diventerà un ippopotamo”.

Parlare d’interdipendenza suggerisce il fatto che la “giustificazione” dell'affermazione “vedo una sedia” dipenda da un grande numero di leggi ma non mette bene in rilievo che lo stesso contenuto dell'asserzione non sia ben distinguibile da queste leggi, e questo è quello che è la compenetrazione.

Quando nel primo capitolo Putnam ci parla d’interpretazione egli intende l'interpretazione d’espressioni linguistiche.

Per sapere se una previsione, se un fatto, sia stato verificato io devo essere prima di tutto in grado di comprenderla, vale a dire capire l'espressione linguistica in questione. Ogni nostro atto conoscitivo presuppone l'interpretazione.

Capire un linguaggio non è ancora di per sé un vero comprendere e non implica un processo d’interpretazione, ma è un atto vitale immediato.

Quindi quando chiamiamo “fatti” le verità sui significati (vale a dire le traduzioni, ciò “come” noi interpretiamo un messaggio) di questi enunciati e di queste parole abbiamo ragione a farlo in quanto adempiendo a tale funzione esse sono davvero fatti.

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3.2 la risposta pragmatista allo scetticismo.Parte della risposta pragmatista allo scetticismo è la distinzione di Pierce tra dubbio reale e dubbio filosofico. Secondo i pragmatisti, la conoscenza dovrebbe (e può!) produrre una salutare consapevolezza della fallibilità umana ma di certo non deve produrre uno scetticismo universale. Non si può dubitare di tutto a piacimento, smettere di credere del tutto a qualcosa non è una capacità umana reale. Sebbene nel corso della storia l'uomo abbia commesso molti sbagli conoscitivi, ciò non vuol dire che io per questa ragione possa dubitare su tutto indistintamente.

Ma se contemporaneamente non vi è ragione per dubitare di tutte le cose, ciò non vuol dire che io debba “fidarmi” di tutto. Infatti se diciamo che non sin può dubitare di tutto non debbo sentirmi autorizzato a giustificare tutte le credenze, trovare un metodo del genere sarebbe come mettersi alla ricerca di un metodo definitivo, quello della ricerca della “certezza”.Questo paradigma filosofico della ricerca della certezza risolvibile con una sorta di algoritmo magico è una fantasia filosofica, ma il fatto che non si possa ridurre la ricerca scientifica ad un algoritmo, e il fatto che non si possano esibire garanzie metafisiche sulla conoscenza non vuol dire che non si sappia nulla su come dirigere la ricerca.

Sia Pierce sia Dewey ponevano l’accento come si fosse già appreso tantissimo dalla ricerca e su come dovrebbe essere condotta, e ciò vale per la ricerca in generale e non solo per un certo tipo di ricerca in particolare.

Per Dewey e Pierce la ricerca è un'interazione umana e cooperativa con un ambiente, e tutti gli aspetti di questa cooperazione sono vitali: intervento attivo, attiva manipolazione dell'ambiente, cooperazione con gli altri esseri umani. Il tutto connesso con il fallibilismo pragmatista. Il riconoscimento del fatto che l'osservazione futura potrebbe invalidare una teoria oggi molto ben confermata è presupposto del concetto secondo cui tale fallibilismo non sarà completo sino a quando non capiremo che le idee non saranno falsificate a meno che non siamo noi stessi a adoperarci per falsificare attivamente le esperienze.

Dai pragmatisti è poi rifiutato il modello dell'algoritmo come metodo conoscitivo (ad esempio un programma per il computer), per i pragmatisti ciò che abbiamo sono massime non algoritmi e le massime stesse vanno interpretate attraverso il contesto.

A questo proposito diventa importante il problema della soggettività e dell'intersoggettività, non come problema metafisico riguardante la nostra capacità di comprensione del mondo ma come problema generale della vita umana. Pierce, Dewey, i pragmatisti in generale, ritenevano che quando un essere umano, isolato, tenta di interpretare (=comprendere) persino le massime migliori per se stesso e non permette che altri critichino il suo modo di interpretarle (o come lui le applichi al contesto) allora il suo genere di certezza è in pratica contaminato dalla soggettività.

La nozione di “verità” diventa priva di significato in una simile “solitudine morale” poiché la verità presuppone uno standard esterno al soggetto pensante.

L'introduzione di nuove idee da sottomettere ad esame dipende allo stesso modo dalla cooperazione, perché un singolo essere umano termina le sue idee, la quali, tra l'altro, finiranno con l'essere viziate dai propri pregiudizi. La cooperazione è fondamentale sia per la formazione delle idee sia per il loro esame razionale.

La cooperazione per diventare davvero utile deve essere a sua volta basata su principi suoi quali quelli dell'etica del discorso.L'impresa scientifica è sempre danneggiata quando mancano le opportunità di discussione, confronto, critica ai metodi della (e alla) ricerca precedente. Quando tra gli scienziati, più che il valore della ricerca contano le relazioni di gerarchia e dipendenza, la ricerca ne esce danneggiata.

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Secondo Dewey la buona scienza richiede rispetto per l'autonomia dalle strumentalizzazioni, la reciprocità e l'etica del discorso. Tanto per il suo pieno sviluppo quanto per la sua applicazione ai problemi umani, la scienza rende necessaria la democratizzazione della ricerca. La scienza secondo Dewey ci aiuta a raggiungere molti obiettivi oltre alla conoscenza.

E quando rendiamo la ricerca democratica noi ci impegniamo in uno scopo essendo facilitati negli obiettivi pratici, ma non siamo orientati alla conoscenza per i suoi benefici pratici: il desiderio di sapere è insito nella specie umana e la conoscenza pura è sempre, entro certi limiti e ambiti un valore anche per chi è meno desideroso di sapere. Promuovere la cooperazione democratica e l'apertura alla critica nella formulazione e nella valutazione delle teorie è parte della natura della ricerca: queste norme ci dicono come dovremmo comportarci quando il nostro scopo è la conoscenza.

Secondo Putnam, ciò che accomuna i pensatori pragmatisti (Pierce – Dewey – Quine) era la convinzione che la perdita del mondo (il concetto secondo cui a furia di fare metafisica astratta ci si sia allontanati dalla realtà) si possa risolvere nell'azione; i tre affermano che ci si deve fidare della ricerca democraticamente condotta, non perché sia infallibile, ma perché la via lungo la quale si scoprirà come e dove modificare le nostre convinzioni passa attraverso la ricerca stessa e ciò che si apprende dalla ricerca scientifica lo si può applicare alla ricerca etica.Il bisogno di conoscenza convalidata intersoggettivamente, il bisogno di tolleranza, il bisogno di forme di vita basate su responsabilità sono bisogni reali; e la filosofia ne avrebbe molto da analizzare su questi bisogni.

Ma quando la filosofia ripete che non vi è nulla al di fuori del testo o che tutto il nostro pensiero non è altro che meri segni e suoni causati da un mondo materiale e cieco a cui noi non possiamo nemmeno riferirci, non costituisce un'analisi di nessuno di quei bisogni, bensì una sterile oscillazione tra idealismi linguistici e scientismo metafisico auto confutante.

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Capitolo 1.............................................................................................................................................11.1 L'ANTICO INTRECCIARSI DEGLI SCETTICISMI; premessa e sul cominciamento scettico...1

1.2 In principio era Pirrone?..............................................................................................................21.3 Nel cuore dell'accademia scettica (e oltre)...................................................................................3 1.4 La rinascita pirroniana fra Enesidemo e Agrippa......................................................................5 1.6 Infine, Sesto empirico..................................................................................................................7Capitolo 2.............................................................................................................................................9 2.1 Scetticismo e Fallibilismo............................................................................................................9 2.2 Charles Sanders Pierce e il senso comune................................................................................10 2.3 Quine e l'empirismo...................................................................................................................12 2.4 Putnam e Davidson: la risposta semantica...............................................................................13 2.5 L'accomodante reazione di Robert Nozick................................................................................15Capitolo 1. L'idea di conoscenza......................................................................................................16

1.1 Apparenza e realtà.............................................................................................................................16

1.2 La verità..............................................................................................................................................19

1.3 Tipi di conoscenza..............................................................................................................................22

1.4 Il valore della testimonianza..............................................................................................................23

Capitolo 2. I problemi della teoria della conoscenza.......................................................................241.1 Conoscenza proposizionale................................................................................................................24

2.2 Analisi della conoscenza.....................................................................................................................28

2.5 Scetticismo...........................................................................................................................................37

Capitolo 3. Sviluppi recenti...............................................................................................................403.1 Contestualismo....................................................................................................................................40

3.2 Femminismo........................................................................................................................................41

Capitolo 1...........................................................................................................................................431.1 La permanenza di William James.....................................................................................................43

1.2 La verità..............................................................................................................................................43

1.3 L'olismo...............................................................................................................................................44

1.4 Il realismo...........................................................................................................................................45

Capitolo 2...........................................................................................................................................462.1 Wittgenstein era un pragmatista?.....................................................................................................46

2.2 Kant.....................................................................................................................................................46

2.3 Ancora su Wittgenstein e Kant..........................................................................................................47

2.4 lo scopo etico della filosofia dell'ultimo Wittgenstein......................................................................47

Capitolo 3...........................................................................................................................................483.1 il pragmatismo e il dibattito contemporaneo....................................................................................48

3.2 la risposta pragmatista allo scetticismo............................................................................................49

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