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FILOSOFIA KANT E IL CRITICISMO © GSCATULLO (

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FILOSOFIA KANT E IL CRITICISMO

© GSCATULLO

(

Kant e il Criticismo Introduzione

Biografia

Immanuel Kant nacque nel 1724 a Königsberg, capoluogo della Prussia orientale, da una famiglia scozzese.

Educato nel Collegium Fridericianum al pietismo, nel 1740 studia matematica, filosofia e teologia

all’Università di Königsberg. Si avvicinò alla fisica newtoniana grazie a Martin Knutzen, suo insegnante.

Terminati gli studi fu precettore presso case patrizie.

Nel 1755 ottenne la libera docenza presso l’Università di Königsberg dove insegnò varie discipline per quindici

anni. Nel 1766 divenne sottobibliotecario alla Biblioteca Reale, e nel 1770 fu nominato professore ordinario

di logica e metafisica.

Criticismo

Il pensiero di Kant è detto criticismo: contrapponendosi al dogmatismo, accettazione passiva, si propone di

vagliare la conoscenza tramite la critica filosofica. Si propone infatti di interrogarsi circa l’esperienza umana

per chiarirne: la possibilità, la validità ed i limiti. In particolare su quest’ultimi riflette Kant, stabilendo un

confine invalicabile entro il quale è possibile indagare e fare esperienza, ed è nei limiti che trovano

fondamento e legittimità le facoltà umane: l’impossibilità di trascendere l’esperienza permette la Critica alla

ragion pura, l’impossibilità di raggiungere la santità, la Critica alla ragion pratica, e l’impossibilità di

subordinare la natura all’uomo, la Critica del giudizio.

Il criticismo può essere storicamente contestualizzato come figlio della rivoluzione scientifica e della crisi

progressiva delle metafisiche tradizionali. Kant si trovava in questo modo davanti il grande problema di

legittimare l’etica, tradizionalmente fondata sulla metafisica.

Critica della Ragion Pura

Il problema generale

La Critica della ragion pura è un’analisi critica dei fondamenti del sapere, che si propone di indagare circa la

scienza e la metafisica. Ai tempi di Kant la metafisica aveva perso il ruolo importante che aveva un tempo,

penalizzata dalle continue dispute tra i pensatori ed in qualche modo offuscata dai successi della scienza.

Anche quest’ultima però aveva minati i suoi fondamenti dalla filosofia di Hume, che ne criticò il principio di

causalità, risvegliando così Kant a suo dire dal sonno dogmatico e spingendolo ad una ricerca di una nuova

legittimazione della scienza.

Kant era dunque convinto della necessità di un riesame della struttura e della validità della conoscenza. Il

filosofo rifiuta lo scetticismo scientifico di Hume, e si limita a condividerne quello riguardo la metafisica, di

cui si dichiara un innamorato deluso, poiché nonostante la disposizione naturale che spinge l’uomo ad

indagarla non si potrà mai verificarla.

I giudizi sintetici a priori

Nel corso del seicento si erano distinte due correnti filosofiche che indagavano riguardo la scienza e con cui

Kant è costretto a confrontarsi: da un lato i razionalisti, che proponevano di fondare la conoscenza su giudizi1

analitici a priori, che Hume identificava nelle proposizioni matematiche, universali e necessarie (a priori), il

cui predicato, non ricorrendo all’esperienza, esplicita una caratteristica già contenuta nel soggetto (predicati

esplicativi, non fecondi/sintetici ma analitici); dall’altro gli empiristi, che fondavano la conoscenza su giudizi

1 Per giudizio si intende, da un punto di vista logico-filosofico, il connettere un predicato con un soggetto.

sintetici a posteriori, basandosi sull’esperienza (a posteriori) riescono ad aggiungere con il loro predicato

qualcosa di nuovo al soggetto (predicati ampliativi, fecondi e cioè sintetici) ma mancano dell’universalità.

La Scienza, pur derivando in parte dall’esperienza, si fonda su principi universali e immutabili, che sono uguali

in tutti gli uomini (per esempio la proposizione “Tutto ciò che accade ha una causa”). Kant li chiama giudizi

sintetici a priori, poiché non derivano dall’esperienza ma sono propri della mente di ogni uomo (a priori), ma

nonostante ciò sono ampliativi (sintetici).

Superando le interpretazioni precedenti Kant identifica una scienza fondata sia sull’esperienza, che le

garantisce la fecondità della materia, che sui giudizi sintetici a priori, fecondi nella forma e universali e

necessari. Scienza = esperienza + principi sintetici a priori

L’accusa che viene rivolto a Hume, nella visione kantiana, è quella di aver confuso i giudizi sintetici derivati

dall’esperienza ed il principio di causalità, che è un giudizio sintetico a priori, e che è un concetto innato

nell’uomo ed universalmente valido.

La Rivoluzione Copernicana

Individuati i giudizi sintetici a priori come di fatto fondanti la scienza, a Kant spetta di spiegare da dove

derivano se non dall’esperienza. Ovvero di dimostrare se il quid facti del loro uso sia corrisposto da un quid

iuris della loro legittimità d’uso.

Kant articola la sua ipotesi gnoseologica di fondo elaborando una nuova teoria che vuole la conoscenza come

sintesi di materia, elemento a posteriori, e forma, elemento a priori: la materia è la molteplicità caotica delle

impressioni sensibili che derivano dall’esperienza, mentre la forma è la modalità fissa tramite cui la mente

umana ordina queste impressioni.

La visione kantiana ritiene che la mente umana filtri attivamente i dati empirici attraverso forme innate

comuni a tutti i soggetti pensanti. Queste forme sono a priori rispetto l’esperienza, ed hanno validità

universale e necessaria poiché tutti le applicano allo stesso modo. Per chiarire cosa sono le forme a priori è

stato spesso utilizzato l’esempio delle lenti azzurre, che, comuni a tutti gli uomini, filtrano la realtà esterna

rendendola azzurra.

Impostando in questo modo il problema della conoscenza ne consegue necessariamente:

La rivoluzione copernicana che Kant si vantò di aver operato in filosofia ribaltando i rapporti tra

soggetto e oggetto, come Copernico aveva fatto tra spettatore e stelle in astronomia. Non è per Kant

la mente a modellarsi sulla realtà – tesi empirista che perde di universalità -, ma la realtà che si

modella sulle forme a priori attraverso cui il soggetto la percepisce.

È necessario introdurre una distinzione tra il fenomeno, la realtà percepita tramite le forme a priori,

e la cosa in sé, ovvero la realtà indipendentemente la percezione.

Partizione della Critica della ragion pura

Kant distingue tre facoltà conoscitive principali:

La sensibilità, facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e tramite le

forme a priori di spazio e tempo;

l’intelletto è la facoltà attraverso cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti puri o le categorie;

la ragione è la facoltà attraverso cui procedendo oltre l’esperienza cerchiamo di spiegare

globalmente la realtà.

Questa ripartizione della facoltà conoscitiva è alla base della divisione della Critica della ragion pura:

la dottrina degli elementi, che indaga quali sono gli elementi a priori (puri) della conoscenza.

la dottrina del metodo, che consiste nel determinare l’uso possibile degli elementi a priori, ovvero il

metodo con cui funziona la conoscenza.

La dottrina degli elementi è la parte più estesa della Critica e si ramifica a sua volta in due sezioni:

l’estetica trascendentale studia la sensibilità (αἴσθησις) e le sue forme a priori dello spazio e del

tempo, mostrando anche come su di esse si fondi la matematica;

la logica trascendentale si divide ancora in analitica trascendentale, che studia l’intelletto e le sue

forme a priori (le 12 categorie); e dialettica trascendentale, che studia la ragione e le sue tre idee su

cui si fonda la metafisica.

Il concetto di trascendentale

Kant rielabora il concetto di trascendentale, che nella terminologia scolastica-medievale indicava le proprietà

universali comuni a tutte le cose, e lo collega a quello di forma a priori: trascendentale non è ciò che

oltrepassa l’esperienza bensì che la precede (a priori) e la rende conoscibile. Non li identifica però con gli

elementi stessi ma con lo studio dei medesimi: sono trascendentali non tanto le forme a priori, quanto le

discipline filosofiche che li studiano (es. estetica t., analitica t., ecc.).

L’estetica trascendentale

L’estetica trascendentale è la parte della Critica della ragion pura in cui Kant studia la sensibilità e le sue

forme a priori. La sensibilità, dice Kant, è ricettiva poiché non genera i contenuti ma li accoglie, dalla realtà

esterna o da quella interna, per intuizione. La sensibilità però non è solo ricettiva ma anche attiva, poiché

organizza il materiale delle intuizioni empiriche (sensazioni) tramite lo spazio e il tempo, le forme a priori

(intuizioni pure) della sensibilità.

Spazio e Tempo

Lo spazio (Raum) è la forma del senso esterno, cioè quella «rappresentazione a priori necessaria che sta a

fondamento di tutte le intuizioni esterne»2, ovvero che permette di percepire la realtà esterna.

Il tempo (Zeit) è la forma del senso interno, cioè la rappresentazione a priori che sta a fondamento dei nostri

stati interni e del loro disporsi l’uno dopo l’altro. Va inteso anche come percepire di percepire, ovvero ogni

volta che si percepisce un qualcosa, sia con il senso esterno che interno, quest’operazione viene essa stessa

percepita dal tempo e disposta nel nostro interno secondo un ordine di successione. È ciò che ci fa in qualche

modo rendere conto dei cambiamenti a noi esterni (il rendersi conto che una luce si spenga è causato dalla

percezione di buio, subito dopo quella di luce). Per questa ragione Kant sostiene che il tempo è la forma

universale dell’esperienza, poiché «tutti i fenomeni in generale, ossia tutti gli oggetti dei sensi, cadono nel

tempo»3.

L’apriorità dello spazio e del tempo viene giustificata da Kant sia con argomenti teorici generali

(nell’esposizione metafisica), sia con argomenti della considerazione delle scienze matematiche

(nell’esposizione trascendentale).

Logica trascendentale

Nella seconda parte della dottrina degli elementi, la logica trascendentale, Kant presenta un tipo diverso di

scienza del pensiero discorsivo (logica), che ha come oggetto di indagine l’origine, l’estensione e la validità

oggettiva, delle conoscenze a priori che sono proprie dell’intelletto (studiato nell’analitica trascendentale) e

della ragione (studiata nella dialettica trascendentale).

2 Kant, Critica della ragion pura, B 38. 3 Ibidem, B 51.

Analitica trascendentale

Secondo Kant sensibilità e intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza: «senza sensibilità, nessun

oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono

vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche»4. Per spiegare cosa siano i concetti Kant scrive la prima parte

dell’Analitica trascendentale: l’Analitica dei concetti.

Mentre le intuizioni sono affezioni (cioè passive), i concetti sono funzioni, ovvero operazioni attive che

ordinano o unificano diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune. Possono essere empirici,

quando sono costituiti da materiale derivante dall’esperienza, o puri, se contenuti a priori nell’intelletto.

I concetti puri si identificano con le categorie, nel senso aristotelico del termine, concetti basilari della mente

che costituiscono le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto. Essendo ogni concetto il predicato di un

giudizio possibile, le categorie coincidono con i predicati primi.

A differenza delle categorie aristoteliche, che hanno valore contemporaneamente ontologico e gnoseologico

(leges entis et mentis), le categorie kantiane hanno portata esclusivamente gnoseologica, rappresentando

unicamente modi di funzionamento dell’intelletto (leges mentis) che agiscono quindi unicamente sul

fenomeno e non sull’oggetto.

A differenza di Aristotele, che Kant accusa di aver identificato «rapsodicamente» le categorie, il filosofo

tedesco prosegue secondo un principio sistematico, partendo dal presupposto: pensare è giudicare, ci

saranno allora tante categorie quante sono le modalità di giudizio: fa corrispondere allora ad ogni tipo di

giudizio (identificati secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità) un tipo di categoria:

Tavola dei giudizi

Quantità Qualità Relazione Modalità

Universali Affermativi Categorici Problematici Particolari Negativi Ipotetici Assertori Singolari Infiniti Disgiuntivi Apodittici

Tavola delle categorie

Quantità Qualità Relazione Modalità

Unità Realtà Inerenza e sussistenza Possibilità-impossibilità Pluralità Negazione Causalità e dipendenza Esistenza-inesistenza Totalità Limitazione Comunanza Necessità-contingenza

Formulata la tavola delle categorie sorge il problema di giustificarne la loro validità ed il loro uso. È il problema

che Kant considera il più difficile della Critica e che chiama deduzione trascendentale. Per deduzione non si

deve intendere il senso logico-matematico, ma quello giuridico-forense, e Kant allude alla dimostrazione

della legittimità di diritto (quid iuris) di una pretesa di fatto (quid facti).

Il problema della deduzione trascendentale è: perché le categorie, forme soggettive, debbano avere una

validità per gli oggetti esterni e non creati dall’intelletto? Che cosa garantisce che la natura obbedirà alle

categorie mostrandosi nell’esperienza secondo le nostre maniere di pensarla? Il problema non si pone per le

forme della sensibilità, lo spazio ed il tempo, poiché l’oggetto non può apparire all’uomo se non percepito da

lui tramite esse e sempre allo stesso modo. Ma questo discorso non può essere applicato anche ai pensieri

dell’uomo.

La soluzione che propone Kant può essere così articolata:

1. L’unificazione del molteplice non deriva dalla molteplicità ma da un’attività sintetica con sede

nell’intelletto.

4 Ibidem, B 75.

2. Quest’attività è la suprema unità fondatrice della conoscenza, ed è identificata dal filosofo tedesco

con l’identica struttura mentale che accomuna gli uomini, denominata io penso.

3. L’io penso si attua tramite i giudizi, i quali, come sappiamo sono i modi concreti con cui si pensa.

4. I giudizi però si basano sulle categorie, le dodici funzioni unificatrici in cui si concretizza l’attività

sintetica dell’io penso.

5. Di conseguenza tutti gli oggetto che vengono pensati vengono automaticamente categorizzati.

Il che può essere riassunto come: presupponendo tutti i pensieri l’io penso, e agendo questo tramite le

categorie, ne consegue che tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie. In questo modo si può

affermare che la natura fenomenica obbedisce alle forme a priori del nostro intelletto.

Ciò permette a Kant di introdurre la teoria dell’io legislatore della natura: l’ordine che sta alla base di tutti i

fenomeni della natura non deriva dall’esperienza ma dall’io penso e dalle forme a priori, che ogni uomo

applica sempre uguali ai fenomeni, garantendone l’universalità. Con questa dottrina raggiunge l’apice il

copernicanesimo filosofico kantiano, che anziché porre nell’oggetto o in Dio la garanzia della conoscenza,

fonda l’oggettività nel cuore stesso della soggettività: la mente umana.

La conoscenza umana è per Kant sempre limitata al fenomeno, poiché la cosa in sé, che chiama noumeno,

non può essere per definizione oggetto di esperienza possibile. A livello tecnico Kant ha distinto due significati

di noumeno:

In senso positivo, è l’oggetto di un’intuizione non sensibile, conoscenza a noi preclusa e possibile

solo ad un ipotetico intelletto divino dotato di un’intuizione intellettuale, ovvero un intuito che

coincide con la creazione delle cose stesse.

In senso negativo è il concetto di una cosa in sé come di una x inconoscibile, che non potrà mai essere

oggetto della nostra intuizione sensibile.

La dialettica trascendentale

Se nell’Estetica e nell’Analitica Kant porta a termine la dimostrazione di come sia possibile il sapere

scientifico, la sua ricerca non può che proseguire chiedendosi se la metafisica possa costituirsi come scienza

nella Dialettica trascendentale.

Kant ritiene che la metafisica sia frutto della ragione, a sua volta frutto dell’intelletto, la facoltà logica di

unificare i dati sensibili tramite le categorie: così resta portato all’unificazione dei dati anche quando questi

mancano dall’esperienza.

In particolare la metafisica è frutto di tre idee trascendentali proprie della ragione, che è portata per

costituzione ad unificare:

I dati del senso interno mediante l’idea di anima, totalità assoluta dei fenomeni interni;

I dati del senso esterno mediante l’idea di mondo, inteso come totalità assoluta dei fenomeni

esterni;

I dati interni ed esterni mediante l’idea di Dio, inteso come totalità di ogni totalità e fondamento di

tutto ciò che esiste.

L’errore della metafisica, conclude Kant, è quello di trasformare in realtà queste tre esigenze della ragione.

Critica della ragion pratica

La ragione serve a dirigere - per Kant - non solo la conoscenza ma anche l’azione, egli pone accanto alla

ragione teoretica anche una ragione pratica. Il filosofo distingue quest’ultima in una ragion pura pratica, che

opera indipendentemente dall’esperienza e dalla sensibilità, e una ragion empirica pratica, che opera

basandosi sull’esperienza e sulla sensibilità. La ragion pura pratica corrisponde alla morale, ed è su questa

che si propone di indagare la Critica della ragion pratica.

Non è quindi una critica della ragion pura pratica, poiché nella sua parte pura (cioè universale e a priori) non

necessita di essere sottoposta ad esame, mentre nella sua parte pratica, legata all’esperienza, può darsi delle

massime, delle forme di azioni, e perciò potrebbe essere immorali.

Morale

La Critica della ragion pratica si basa sulla tesi che esista una legge morale a priori, valida per tutti e per

sempre, propria dell’uomo. Similmente a quanto avveniva per le conoscenze scientifiche a priori della Critica

alla ragion pura, nella seconda critica Kant è convinto dell’esistenza di una legge etica assoluta, ed il compito

del filosofo non è dedurla, né inventarla, ma semplicemente constatarla. Dunque non ha dubbi che esista

una legge morale assoluta o incondizionata, presupponendo una ragion pratica pura (a priori), comune a

tutti gli uomini, capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile.

L’assolutezza e l’incondizionatezza della morale implica due convinzioni di fondo strettamente connesse tra

loro: la libertà dell’agire, essendo la morale incondizionata dall’esterno lascia all’uomo la facoltà di

autodeterminarsi oltre l’istinto; ed essendo indipendente da condizionamenti esterni è sempre uguale a se

stessa in ogni tempo ed ogni luogo, ed è dunque universale e necessaria. Nonostante la morale sia slegata

dall’istinto, non può tuttavia prescinderlo: può infatti decondizionarsi da esso tramite la ragione, pur

rimanendo sempre inesorabilmente legata alla sensibilità (animalità e impulso). Se infatti l’uomo fosse

ragione pura sarebbe in uno stato di santità etica, di perfetta adeguazione alla legge, in cui la morale non

avrebbe senso di esistere.

È in questo che si concretizza l’agire morale, in una lotta continua tra ragione ed egoismo (impulsi sensibili),

non esistendo tra legge morale e volontà una spontanea coincidenza, è necessario che la prima si presenti

come imperativo, ovvero un comando che richieda il sacrificio delle proprie inclinazioni sensibili, e che

l’uomo, per la sua natura imperfetta, potrebbe anche trasgredire.

Principi

Kant nello scrivere la Critica non mette in discussione, consapevole della finitezza umana, la forza

condizionante che de facto i desideri e gli impulsi (istintuali) esercitano sulla volontà, ma avendo essi un

carattere soggettivo e mutevole non possono fondare la morale, che deve essere invece universale.

L’etica kantiana si configura non come descrittiva, non spiega infatti come l’uomo si comporta, ma

prescrittiva e deontologica, ponendo attenzione su come l’uomo dovrebbe comportarsi. Inoltre non riguarda

la materia, ovvero un oggetto desiderato, ma la forma, ovvero qualcosa degno di essere desiderato, e quindi

morale, indipendentemente dalla verificabilità empirica.

I principi pratici, le regole che disciplinano la nostra volontà, sono distinti da Kant in massime, prescrizioni di

valore puramente soggettivo, ed imperativi, prescrizioni di valore oggettivo, valide per chiunque.

A loro volta gli imperativi sono divisi in:

Ipotetici, prescrivono come fare per raggiungere determinati fini, nella forma del se … devi … a loro

volta suddivisi in regole dell’abilità, norme tecniche per raggiungere uno scopo, e consigli della

prudenza, mezzi per ottenere benessere e felicità.

Categorici, che ordinano in modo incondizionato il dovere, a prescindere dallo scopo, nella forma

del devi.

Imperativi categorici

Per Kant la legge morale non può essere contingente, ovvero legata ad impulsi sensibili soggettivi (massime)

o circostanze mutevoli (i. ipotetici): l’unica forma che può assumere è dunque quella dell’imperativo

categorico, che si imponga indipendentemente dalla persona cui si rivolge, dall’obbiettivo che si prefigge e

dalla circostanza in cui si agisce. La legge deve essere un comando con valore perentorio per ogni persona

ed in tutte le circostanze.

Posto che la legge debba avere per forma l’imperativo categorico, universale ed incondizionato, Kant spiega

quale deve essere il suo contenuto: l’agire in modo tale che la massima, la prescrizione soggettiva, che muove

l’azione sia universalizzabile, ovvero possa essere resa oggettiva, generalizzata e valida per tutti. Ogni azione

dovrebbe essere in qualche modo sottoposta ad un “test della generalizzabilità”.

I. “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello

stesso tempo come principio di una legislazione universale”

(Critica della ragion pratica, A 54)

A questa formula, contenuta nella Critica della ragion pratica, Kant aggiunge nella Fondazione della

metafisica dei costumi (1785) una seconda ed una terza formula:

II. “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni

altro, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo.”

(Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67)

III. “La volontà in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se

stessa come universalmente legislatrice.”

(Fondazione della metafisica dei costumi, BA 76)

La seconda formula intima di rispettare la dignità propria e degli altri, invitando a non ridurre nessuno come

mezzo del proprio egoismo o per soddisfare le proprie passioni. Con fine si intende la caratteristica della

persona umana di essere scopo a se stessa, ovvero di essere soggetto e non oggetto.

La terza formula infine, che ripete in parte la prima, sottolinea l’autonomia della volontà che è essa stessa,

spontaneamente, a produrre il comando morale, non frutto di qualcosa di esterno e schiavizzante, o di altri

scopi diversi dal bene per il bene: non sarebbe pienamente morale cioè compiere il bene perché ciò mi rende

felice o mi fa sentire buono.

La formalità e il dovere

Peculiare caratteristica dell’etica kantiana è che la legge morale non spiega cosa bisogna fare, ma come,

supera cioè l’etica della materia e propone una forma, universale, entro la quale dovrebbero essere svolti

tutti i comportamenti dai soggetti stessi: è il formalismo. L’imperativo categorico viene quindi proposto come

motore su cui fondare ogni norma morale.

Taluni hanno identificato nell’imperativo categorico una potenziale contraddizione nel sistema etico di Kant:

sembrerebbe che il ragionare sulle conseguenze di un’azione – sottoponendola al test della generalizzabilità

– significherebbe in qualche modo giudicarla secondo criteri utilitaristici. In realtà il “test” è solo di tipo logico-

formale, e non si propone di giudicare le conseguenze quanto la razionalità della massima generalizzata.

Nel suo sistema Kant impone di eliminare da ogni azione le emozioni ed i sentimenti ed ogni fine che non sia

il dovere (Pflicht, necessità di un’azione nel rispetto della legge) stesso: è il rigorismo del dovere-per-il-

dovere. Da questo ragionamento viene escluso ogni altro obiettivo che spingerebbe a compiere un’azione

(felicità, utile, Dio, ecc.) ponendosi in un’ottica materiale e finalistica.

I postulati pratici

Nella Dialettica della ragion pura pratica Kant prende in considerazione l’assoluto morale (o sommo bene).

La felicità, premette Kant, non può erigersi ad obbiettivo del dovere, perché in tal caso comprometterebbe

l’incondizionatezza della legge etica; ma la virtù, l’intenzione morale in lotta (il dovere), che pure è

l’obbiettivo del dovere e costituisce il bene supremo, non appaga l’essere umano (per esempio

nell’aspirazione alla felicità), che tende invece ad un bene più grande, il sommo bene. Questo, cui appunto

la natura umana tende irresistibilmente, è l’unione di virtù + felicità. Non si pensi che Kant, introducendo il

concetto di sommo bene, abbia spostato l’obbiettivo della morale, il bene supremo, piuttosto si limita a

constatare un bisogno dell’uomo che, pur agendo virtuosamente, non può reprimere in lui il bisogno della

felicità.

In questo mondo tuttavia la virtù e la felicità non possono mai essere congiunti, essendo gli sforzi per

raggiungerle opposti, e costituiscono l’antinomia etica per eccellenza. Gli antichi, nota Kant, avevano tentato

di scioglierla proponendo la felicità nella virtù (gli Stoici) o la virtù nella felicità (gli Epicurei). L’unico modo

per uscirne fuori, conclude Kant, è di postulare l’esistenza di un mondo dell’aldilà, dove sia possibile far

coincidere la virtù con la felicità.

Kant nell’usare il termine postulato si rifà alla matematica classica: i postulati, distinti dagli assiomi che sono

le verità auto-fondate poiché evidenti, sono principi indimostrabili necessari per rendere possibili

determinate entità o verità geometriche. Così i postulati della ragion pura pratica kantiani sono proposizioni

non dimostrabili che permettono l’esistenza e la possibilità della legge morale, non sono dunque dogmi ma

presupposizioni necessarie nella pratica.

I postulati di Kant sono:

l’immortalità dell’anima; poiché solo la santità permette il sommo bene, ed essa non è realizzabile

in questo mondo si deve postulare un tempo infinito che renda possibile all’uomo di progredire

all’infinito verso la santità;

l’esistenza di Dio, una volontà santa e onnipotente, che renda possibile la corrispondenza tra felicità

e virtù, ovvero il raggiungimento del sommo bene;

la libertà, che è condizione stessa dell’etica nel momento in cui, prescrivendo il dovere, si deve

necessariamente ammettere la possibilità di agire o meno in conformità ad esso (devi dunque puoi).

Come possono coesistere però il determinismo della prima Critica con la libertà della seconda? Una stessa

azione diventa in Kant determinata nel mondo sensibile e libera in quanto atto morale, nel mondo

fenomenico infatti essa ha una causa nel passato che la determina, ma nel mondo noumenico è stata frutto

di una libera scelta, e avrebbe potuto essere evitata.

Inoltre là dove nella Critica alla ragion pura l’uomo non poteva risultare libero poiché la sua ragione si

scontrava con il limite (esterno) dell’esperienza, nella seconda critica si supera poiché la libertà è postulata

nel mondo noumenico (metafisico).

Kant infine sostiene il primato della ragion pratica sulla pura, poiché essa riesce con i postulati ad ipotizzare

nel metafisico quello che nella prima critica era completamente precluso all’indagine. Non si pensi tuttavia

che i postulati abbiano un valore teoretico, questione che Kant ci tiene a precisare, ma costituiscono piuttosto

una ragionevole speranza. E la non certezza assoluta dell’esistenza di Dio viene intesa dal filosofo tedesco

come quello spazio necessario alla libertà.

Critica del Giudizio

La Critica del Giudizio parte da un dualismo instauratosi con le prime due Critiche: da un lato infatti la Critica

della ragion pura mostrava un mondo fenomenico e deterministico conosciuto dalla scienza, dall’altro la

Critica della ragion pratica indicava un mondo noumenico e finalistico postulato dall’etica.

Nella Critica del Giudizio Kant studia il sentimento, così come nella prima critica aveva analizzato la

conoscenza e nella seconda la morale. Esso viene proposto come una terza facoltà, che chiama

genericamente giudizio, quella mediante cui l’uomo fa esperienza di quella finalità del reale esclusa dalla

prima Critica nel fenomeno, e postulata dalla seconda nel noumeno.

Kant identifica due tipi di giudizi sentimentali: i giudizi determinanti, quelli conoscitivi e scientifici studiati

nella Critica della ragion pura, e i giudizi riflettenti, che si limitano a riflettere su una natura conosciuta

tramite i giudizi determinanti e appresa tramite le nostre esigenze universali di finalità e di armonia. È di

questo tipo di giudizi che Kant si occupa nella sua terza Critica, i giudizi sentimentali puri, derivanti cioè a

priori dalla nostra mente, e che distingue a loro volta in due gruppi secondo il diverso rimando al finalismo:

il giudizio estetico, con cui viviamo immediatamente o intuitivamente la finalità della natura, che pensiamo

essere bella per noi, ed è soggettivo; ed il giudizio teleologico, con cui pensiamo tramite (mediatamente) la

nozione di fine alla finalità di un oggetto o di un fenomeno presente in natura.

Questa divisione dei giudizi sentimentali puri viene ripresa nella struttura stessa dell’opera, divisa in due parti

Critica del giudizio estetico e critica del giudizio teleologico, entrambe a loro volta divisi in Analitica e

Dialettica.

Il giudizio estetico

Il giudizio estetico risponde ad un esigenza di finalità come se la natura fosse bella apposta per noi, è frutto

della proiezione nell’oggetto di quell’armonia tra le parti propria del soggetto. Infatti secondo Kant il bello

non è una proprietà ontologica dell’oggetto ma il frutto dell’incontro tra soggetto e oggetto.

Il giudizio estetico è caratterizzato dall’essere disinteressato, ciò che è bello lo è perché bello, universale e

necessario, poiché in questo giudizio ognuno ha una pretesa di universalità essendo esso fondato sulla

comune struttura della mente umana.

La tesi kantiana dell’universalità del giudizio estetico può apparire “strana” o infondata, ma nel sostenerla si

basa su una constatazione:

“In tutti i giudizi coi quali dichiariamo bella una cosa, noi non permettiamo a nessuno di

essere di altro parere, senza fondare tuttavia il nostro giudizio sopra concetti, ma

soltanto sul nostro sentimento” (Critica del Giudizio, par. 22)

Per comprendere meglio la tesi bisogna considerare che Kant distingue nettamente il piacevole, ciò che piace

ai sensi della sensazione, che dà luogo ai giudizi estetici empirici ed è legato alle inclinazioni individuali,

dunque è soggettivo e vale la massima de gustibus non est disputandum; ed il piacere estetico, che muove

lo spirito più che il corpo, e si concretizza nei giudizi estetici puri, causati dalla sola contemplazione della

forma di un oggetto e sono i soli ad avere la pretesa di universalità.

Affermando l’universalità del giudizio estetico puro, Kant si trova davanti al problema della deduzione, ovvero

della legittimazione di quanto afferma. Egli sostiene che il giudizio estetico scaturisca dal rapporto

dell’immaginazione con l’intelletto, che mostra l’immagine della cosa adeguata alle esigenze dell’intelletto e

provoca un senso di armonia. Essendo questo meccanismo identico per tutti gli uomini si spiega l’universalità

estetica e si giustifica la presenza di un senso comune del gusto.

Proseguendo questo ragionamento Kant risolve la cosiddetta antinomia del gusto: non potendo disputare

del giudizio di gusto esso non si fonda sui concetti (Tesi), ma poiché si pretende la necessaria approvazione

altrui è necessario che si fondi sui concetti (Antitesi). La soluzione che propone Kant è di intendere il termine

concetti in due modi differenti: il giudizio di gusto non si basa sui concetti, non essendo un giudizio di

conoscenza, ma sulla facoltà del Giudizio, comune a tutti gli uomini.

Si attua così la rivoluzione copernicana estetica: il bello, sostiene Kant, non è una proprietà oggettiva delle

cose, ma il frutto dell’incontro di esse con la mente, valida solo per essa ed in rapporto ad essa, ovvero una

proprietà che il soggetto proietta sull’oggetto e che esiste in virtù del soggetto. Se la bellezza fosse una

proprietà ontologica dell’oggetto (eteronomia) perderebbe di universalità e di libertà, essendo a noi imposta

dalla natura.

Il sublime

L’idea del sublime era stata già presa in considerazione dal filosofo irlandese Edmund Burke (1729-1797) che

aveva definito il sublime come collegato alla sproporzione, e ad un sentimento di dilettoso orrore che prova

l’uomo quando sperimenta la sua fragilità di fronte a qualcosa che non può controllare (es. una tempesta)

ma che può contemplare senza correre pericolo.

Kant riprende l’analisi del sublime e lo identifica come un valore estetico prodotto da qualcosa di smisurato

o di incommensurabile, e distingue due tipi di sublime:

il sublime matematico, provocato da qualcosa di smisuratamente grande, che provoca un dispiacere

nell’immaginazione incapace di carpire le incommensurabili grandezze ma un piacere nella ragione,

poiché l’oggetto risveglia in lei l’idea di infinito superiore ad ogni realtà dell’immaginazione sensibile;

il sublime dinamico, provocato da qualcosa di terribilmente potente, da cui avvertiamo la nostra

piccolezza materiale, ma che risveglia in noi il piacere della grandezza spirituale: la morale è una forza

della ragione che ordina il dovere e supera ogni condizionamento esterno, è libera.

Verifica delle conoscenze

Critica della Ragion Pura

Come si conosce secondo Kant?

Kant ritiene che la conoscenza avvenga per l’uomo tramite i giudizi sintetici a priori che filtrano l’esperienza

con le forme della ragione (spazio e tempo) e con le categorie che, uguali in tutti gli uomini, la rendono

universale. Ciò comporta la distinzione tra la realtà così come appare al soggetto (fenomeno) e come essa è

in sé, inconoscibile e per questa chiamata dal filosofo tedesco noumeno.

Cosa sono l’Io-Penso e la deduzione trascendentale?

La deduzione trascendentale è quella parte di trattazione dell’analitica trascendentale in cui Kant affronta il

problema della legittimità della pretesa di fatto che la natura e gli oggetti obbediscano alle categorie. Kant lo

risolve sostenendo che l’attività sintetica della conoscenza ha sede nell’Intelletto, in particolare si identifica

con l’appercezione trascendentale (l’Io Penso). Tutte le intuizioni sensibili, e quindi tutti i pensieri,

presuppongono l’Io Penso, che a sua volta li elabora tramite i giudizi basati sulle categorie. Per questo ogni

cosa per venir pensata presuppone le dodici categorie.

Cos’è la Rivoluzione Copernicana in ambito teoretico?

Come Copernico in astronomia aveva dimostrato l’eliocentrismo invertendo il rapporto tra astri e spettatore,

così Kant in filosofia inverte il rapporto tra soggetto ed oggetto: non è la mente a modellarsi passivamente

sulla realtà, ma quest’ultima si modella sulla struttura mentale dell’uomo.

Cosa si intende per Io legislatore della natura?

La teoria dell’io legislatore della natura è l’apice della rivoluzione copernicana kantiana: il filosofo tedesco

suppone che la natura, intesa come conformità a leggi dei fenomeni, non deve il suo ordine all’esperienza

ma all’io penso e le sue forme a priori, che gliele prescrivono. In questo modo supera lo scetticismo di Hume

e legittima la scienza che studia proprio quell’ordine della natura: l’esperienza non smentirà mai le scoperte

scientifiche riguardo le leggi della natura, poiché quest’ultime la presuppongono.

A che conclusioni giunge nella prima critica riguardo la metafisica?

Nella Critica alla Ragion Pura Kant, in particolare nella Dialettica Trascendentale, Kant analizza la metafisica,

considerandola un prodotto della ragione che, unificatrice dei dati sensibili nelle categorie, è portata

istintivamente ad unificare anche in assenza dei dati empirici: nascono in questo modo le tre idee

trascendentali. I dati del senso interno vengono unificati a formare l’idea di anima, quelli del senso esterno

a formare l’idea di mondo, e tutti i dati unificati formano l’idea di Dio. Queste tre esigenze mentali di

unificazione vengono erroneamente trasformate in realtà dalla metafisica.

Critica della Ragion Pratica

Che differenza c’è tra imperativi categorici ed ipotetici?

Entrambi gli imperativi hanno valore di prescrizione oggettiva, valida per chiunque ed universali. L’imperativo

ipotetico però condiziona la prescrizione al fine da raggiungere, ha la forma per questo del se…devi. Esempio:

se vuoi andare bene in filosofia devi studiare. L’imperativo categorico invece ordina il dovere in modo

incondizionato ed ha la forma della legge, è una prescrizione valida sempre per qualsiasi azione e contesto

morale, per questo ha la forma del devi.

Quali sono e cosa significano le formule dell’Imperativo Categorico?

L’imperativo categorico è stato formulato da Kant in tre maniere diverse. La prima prescrive che l’azione

morale sia svolta sempre in maniera da essere universalizzabile, quello che potrebbe essere definito test della

geralizzabilità. La seconda formulazione prescrive che l’azione sia svolta considerando l’altro e sé stessi nella

propria dignità, ovvero sempre come fine dell’azione morale e mai come mezzo. L’ultima formulazione insiste

sulla volontà di compiere l’azione che deve essere secondo il filosofo tedesco slegata da qualsiasi altro scopo

che quello di compiere l’azione morale (il dovere per il dovere). Quest’ultima diviene particolarmente

importante dal momento che esclude che un atto morale possa compiersi con il fine ultimo della propria

felicità, ciò indurrà Kant alla formulazione dei due postulati religiosi.

Qual è il concetto di libertà nella ragion pratica?

La libertà viene postulata da Kant come condizione stessa dell’etica: l’esistenza di un dovere presuppone la

possibilità di scegliere se adempirlo o meno, e se aderire o no alla legge morale. In questo caso la libertà è

considerata da Kant da un punto di vista noumenico, non opponendosi così al determinismo che aveva

caratterizzato la prima critica.

Cos’è il sommo bene? Cosa sono i postulati?

Il sommo bene corrisponde alla santità per Kant, obiettivo della morale, è lo stato di coesistenza della virtù e

della felicità. Ma considerando la terza formulazione dell’imperativo categorico esso risulta irraggiungibile,

poiché se l’azione viene subordinata al bisogno di felicità essa perde la caratteristica della moralità/virtù, così

anche un’azione esclusivamente morale non comporterebbe il raggiungimento della felicità, cui ogni uomo

irresistibilmente tende. Superando la soluzione stoica di annullamento della felicità, e l’esaltazione epicurea

di questa a scapito della virtù, Kant ritiene necessario perché la legge morale fondata sulla ragione sia

raggiungibile e dunque valida, alcuni concetti che nella prima critica erano stati definiti metafisici:

l’immortalità dell’anima, che garantirebbe all’uomo la possibilità oltre il tempo della vita terrena di

raggiungere il sommo bene, e l’esistenza di un Dio che faccia corrispondere alla virtù la felicità. A questi due

postulati si aggiunge quello della libertà.

Perché si parla di primato della ragion pratica sulla ragion pura?

Si parla di primato della Ragion Pratica poiché in questa Critica l’uomo è libero, privo di condizionamenti

esterni, mentre nella Pura esso è limitato dall’esperienza, che gli rende impossibile la conoscenza della

metafisica. Inoltre nella critica della Ragion Pratica i postulati forniscono all’uomo la ragionevole speranza

nelle idee della metafisica altrimenti impossibili nella Pura.

Critica del Giudizio

Quali sono le caratteristiche del giudizio riflettente?

I giudizi riflettenti sono quei giudizi che riflettono su una natura già conosciuta e la interpretano tramite le

esigenze universali di finalità ed armonia. Si distinguono dai giudizi determinanti, che determinano la realtà

ed hanno valore teoretico, e si dividono in giudizi riflettenti estetici e teleologici.

Quali sono le caratteristiche del giudizio estetico?

Il giudizio riflettente estetico è per Kant quello nel quale viviamo immediatamente ed intuitivamente la

finalità della natura, pensando che essa sia bella per noi. Il rapporto tra soggetto ed oggetto non è dunque

mediato dalla nozione di fine. Per il filosofo tedesco esso è universale e necessario, ovvero fondato sulla

comune struttura della mente umana che proietta nell’oggetto l’idea di armonia, e che è per questo comune

a tutti gli uomini (e si distingue dal piacevole che è invece contingente). Inoltre è disinteressato poiché se

fosse condizionato da un qualche interesse (contingente) perderebbe la caratteristica di universalità.

Cos’è il sublime?

Il sublime è quella sensazione di dispiacere che proviamo dalla contemplazione della sproporzione tra l’uomo

e la natura, cui subentra il piacere per la grandezza della nostra ragione. Ne possiamo individuare due tipi: il

sublime matematico, causato dalla grandezza della natura, e che suscita nell’uomo l’idea di Infinito; e il

sublime dinamico, che è richiamato dalla potenza di alcuni fenomeni, che portano l’uomo a riflettere sulla

sua grandezza morale (e sul potere della volontà capace di vincere ogni istinto).