FIDAart N.9 2015 Paolo Tomio

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PERIODICO della FIDAart N.9 - Settembre ANNO 2015 FIDAart

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Rivista di arte e cultura

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In copertina: Paolo Tomio, L’origine del mondo, 2013, digital art su plexiglass, 60x60 cm

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Intervista ad un artista Paolo Tomio

News dal mondo

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4° Biennale FIDA-TrentoPolitiche culturali

Editoriale Ars Artis

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pag. 20-21

L’arte dello Zen

Mercato dell’arte? Franz Kline

Oky Nagashi

FIDAartsommario09Settembre 2015, Anno 4 - N.9

Storia dell’arte pag. 24-25Thonet, la madre di tutte le sedie - 3

FRANZ KLINE

FRANZ KLINE

FRANZ KLINE

FRANZ KLINE

Omaggio a FRANZ KLINE

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UNTITLED, 1957

FOUR BLACK WOMEN, 2015

STEEPLECHASE, 1960

DE MEDICI, 1956

KING OLIVER, 1958

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EDITORIALE

4° BIENNALE FIDA-TRENTO

TORRE MIRANA - Trento, da 9 al 25 settembre

Il ruolo di un’associazione artistica, oggiPaolo Tomio, Presidente FIDA-Trento

Ha ancora senso fare arte? Ha ancora senso fare mo-stre d’arte? Non sono delle domande retoriche o peregrine ma interrogativi che, dopo anni di austerity e di spen-ding review palese e occulta, (chissà perché le frega-ture hanno sempre nomi inglesi?), nascono sponta-nei anche in coloro i quali operano in questo mondo, credendoci e spendendovi emozioni, tempo, risorse.Vale la pena di continuare a lavorare per qualcosa che interessa sempre meno e, anzi, viene vista come il divertimento di pochi narcisisti? Ricordo ancora un assessore alla cultura il quale, tracciando in un secondo un ghirigoro su un foglio, chiese (rigorosa-mente in trentino) agli astanti stupiti: “Chi può dirmi che questa non è arte?”.Domande obbligatorie in tempi in cui i “ragionieri” la fanno da padroni: “ragionieri” nel senso di politi-

ci e amministratori, locali, nazionali ed europei, che valutano tutto con la calcolatrice in mano. proprio quella a manovella, usata dai contabili: “entrate e uscite”, “dare e avere”. Se questa è la classe dirigente, prepariamoci al peg-gio perché di idee il futuro dell’arte è nero. Con una disoccupazione giovanile al 44% significa che quasi la metà dei giovani italiani non possiede un lavoro, moltissimi i “cervelli in fuga” che decidono di partire per l’estero: siamo ritornati un paese di emigranti. Gli artisti non rientrano nel settore disoccupati per-ché l’arte non è un lavoro in quanto “non serve”, si tratta di un’attività superflua per definizione. Ergo è una spesa inutile che va tagliata perché dobbiamo risparmiare: meglio asfaltare un parcheggio che in-vestire in opere d’arte per gli edifici e gli spazi pub-blici. La funzione dell’artista che insegue i suoi sogni (o i suoi incubi) ha perso qualsiasi interesse in una società di ragionieri. Nel passato l’arte aveva il primato su tutto perché le classi dirigenti erano colte, preparate, selezionate: chi non capiva di pittura, scultura, architettura, mu-sica, poesia aveva il buon gusto di stare zitto per non fare la figura dell’ignorante, della persona priva di gusto e, perciò stesso, uno spirito gretto e inferiore. I nobili, i potenti, la borghesia, facevano a gara per arricchirsi (come oggi) ma anche per promuovere le arti e abbellire le loro proprietà private e i luo-ghi pubblici con quadri, statue, affreschi, i palazzi, le chiese, i viali, le piazze, i giardini. Attraverso il lavoro di architetti, artisti e artigiani, attraverso il bello, il magnifico, ogni classe al potere voleva rappresen-tare l’idea che aveva di sé stessa. Ancora oggi noi viviamo di rendita, culturale ed economica, grazie all’eredità del nostro passato, prossimo e remoto. La fama di cui godono tuttora nel mondo gli italiani nasce proprio dalla bellezza unica e irripetibile dei mille monumenti, paesaggi, borghi di quello che è stato definito il “Bel Paese”. Ormai il Bel Paese è il nome un formaggio e la bellezza, rimasta solo nei film nostalgici, si sta corrompendo aggredita da un cancro che si chiama speculazioni, business, politica

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POLITICHE CULTURALI

affaristica, burocrazia, malattie ataviche nostrane.Gli artisti non contano più nulla perché la bellez-za - pubblica e privata - è gestita da una infinità di strumenti puramente quantitativi (quando ci sono) come i piani urbanistici, le norme e i regolamenti edilizi, che poco o nulla hanno a che fare con la qua-lità. Percorrendo il territorio italiano, l’unica regola sembra il caso o, peggio, il caos. Se il paesaggio è lo specchio di un Paese, mentre in passato raccontava il lavoro della collettività per trasformare e difendere il proprio ambiente, oggi racconta di un disinteresse generale, o meglio, della somma di tanti interessi in-dividuali in una società che ha perso ogni bussola etica ed estetica e in cui ognuno diventa vittima e carnefice allo stesso tempo.D’altronde, nel momento in cui si è accettata la te-oria duchampiana (rivoluzionaria 100 anni fa) che non esista la bellezza e qualsiasi cosa sia arte se lo afferma l’artista, spalancando le porte a millantatori, a provocatori di professione, a furbi disposti a tutto, allora è iniziato il declino estetico della società occi-dentale.Forse la “merda” paga più dell’arte, forse aveva ra-gione Piero Manzoni quando, non riuscendo a ven-dere i suoi Achrome, opere pittoriche alla ricerca di un ideale classico di bellezza assoluta, decise di proporre l’ennesima provocazione ironica dadaista: la “Merda in scatola”? Le sue scatolette dimostrano che lo scandalo paga perché ha permesso a critici, filosofi, intellettuali, artisti, politici di governo e op-posizione, di discuterne per anni dicendo tutto e il contrario di tutto. La “Merda” ha reso celebre Man-zoni, così come le teste mozzate di animali coperte da mosche e immerse nelle vasche di formalina di Damien Hirst oppure le bestie impagliate di Catte-lan, hanno scandalizzato pubblico e mass media contribuendo a rendere famosi i loro autori. Ovviamente, e per fortuna, oggi non esiste più un canone estetico condiviso e sottoscritto da tutti gli artisti: anzi, l’arte è totalmente autonoma, libera e globalizzata cosicché chiunque può fare riferimen-to al bagaglio delle proprie specifiche esperienze

culturali, artistiche, psicologiche, antropologiche e sviluppare un’idea di arte assolutamente personale. Andy Warhol poteva creare le sue icone edoniste e consumiste solo a New York, cuore del capitalismo americano, così come El Anatsui è figlio della fanta-sia solare e vitale della sua Africa; Takashi Murakami è puro prodotto del Giappone ipertecnologico e ne-vrotico dove convivono mostri, robot, transformer e Manga erotici, mentre il tedesco Gerhard Richter, invece, racconta una sua algida, ricca e un po’ de-pressa Germania ex marxista, e Jeff Koons, vero americano al cento per cento, ripropone i miti della sua felice infanzia televisiva. Gli artisti, in quanto prodotti di una storia collettiva e individuale, esprimono la loro visione della vita e, di conseguenza, il proprio ideale di bellezza, assumen-do, spesso inconsciamente o involontariamente, il ruolo di testimoni del loro tempo e di responsabili dell’”immagine” che si ha della loro epoca. Per questa ragione, se buona parte di quella che oggi va per la maggiore è “l’estetica del rifiuto”, vale a dire del trash (l’immondizia), del ready-made e dell’object trouvé, l’oggetto qualsiasi trovato ed esposto tale e quale come reliquia rivoluzionaria da venerare, del gesto “gestuale” inutilmente casuale o casualmente inutile da ammirare sempre e co-munque, della “provocazione” come fine e metodo, allora l’arte sarà sempre più considerata non solo incomprensibile (per certi versi, fatto positivo), ma inguardabile, inutile, superflua.Molta arte contemporanea è ormai un gioco dove si diverte solo il giocatore, mentre gli spettatori si annoiano. Perché, infatti, esporre nei musei ciarpa-me di recupero, accompagnato da critiche erudite ma banalmente misero, spiacevole, repulsivo e re-pellente, quando tutte le realtà urbane mondiali ne sono già piene? Affinché l’artista-moralizzatore possa denunciare la bruttezza del mondo? Come non si denuncia il male con la malvagità, così non si denuncia il brutto con la bruttezza ma solo mostrando che la bellezza, qua-

lunque essa sia, è possibile grazie all’arte.

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Intervista a PAOLO TOMIO

In basso a sinistra In basso a destra Muraglia celeste, 2012, fine art su plexiglass, 50x50 cm

Le porte del paradiso, 2012, stampa su plexiglass, 50x50

A sinistra: L’uomo E’ Natura, 2011, Stendardo digital art su PVC, 150x100 cmForest Magic Mountain - FAO Roma

Dopo che l’artista previsto nel numero di settembre, nonostante le reiterate assicurazioni, non mi ha fornito il materiale promesso, non disponendo di alcun sostituto, ho dovuto improvvisare in fretta e furia un’intervista all’unico artista che avevo sottomano: il sottoscritto. Lo so, nasce un conflitto di interessi dalla commistione di ruoli tra intervistato, intervistatore e cura-tore della rivista ma, visti i conflitti a cui assistiamo quotidianamente in Italia, si tratta di un peccato veniale. Oltretutto, involontario e irrisolvibile.Non nascondo che questa fosse un’intervista che, prima o poi, avevo intenzione di realizzare, e non perché, immodestamente, mi ritenga ai livelli dei grossi professionisti che ho pubblicato su FIDAart in questi anni, ma perché mi interessava chiarire in modo organico un punto di vista artistico abba-stanza eccentrico rispetto al panorama esistente. Le ragioni di questo mio non considerarmi vincola-to a consuetudini o tradizioni consolidate, nasce dalla molteplicità ed eterogenità dei miei interessi professionali e culturali (architettura, design, arte, grafica, tecnologia, fotografia, fumetto, cinema, storia, metodologia, teoria, più tutto ciò che l’uomo produce e mi incuriosisce), che mi consentono di misurarmi con la massima libertà con “attività a quoziente estetico” tra loro molto diverse. Il mon-do delle forme e delle immagini è talmente immenso che è un vero peccato limitarsi agli argomenti codificati o istituzionalizzati: meglio osservare le mille sfaccettature di una realtà globalizzata in continuo divenire. Io ritengo, infatti, che un artista impegnato a praticare tutta la vita la ripetizione di alcuni stilemi per garantirsi riconoscibilità e riconoscimenti, perda l’unica cosa che lo dovrebbe contraddistinguere dall’uomo “comune”: il privilegio di poter essere creativo.

Paolo Tomio

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Quando e perché hai cominciato a interessarti all’arte?

Anch’io, come quasi tutti quelli che si dedicano alle arti visive, avevo una naturale predisposi-zione che mi ha spinto sin da piccolo verso il disegno. L’interesse, poi, è diventato “profes-sionale” quando mi sono iscritto al corso di In-dustrial Design annesso al Magistero d’Arte di Firenze dove ho trovato un ambiente stimolan-te. Dopo il primo anno, però, ho preferito tra-sferirmi alla facoltà di architettura del Politec-nico di Torino che mi garantiva una formazione più ampia. Al mattino frequentavo l’università mentre, al pomeriggio disegnavo in uno studio di styling di automobili (campo che allora mi appassionava molto) e design, dove ho acquisi-to le tecniche grafiche utilizzate per presentare i bozzetti: pastelli, gessetti, pennarelli acquerel-lati, bombolette spry ecc.. Conclusa l’università,

ho deciso di ritornare a Trento per tentare di esercitare la professione di architetto.

Quali sono state le correnti artistiche e gli artisti che ti hanno influenzato agli inizi?

Chi mi ha influenzato? Gli amori influenza-no tutti inconsciamente e alla fine non sai più quanto c’è di tuo e quanto delle immagini al-trui. Ho avuto la fortuna di poter vedere molto presto l’arte moderna grazie ai molti libri che giravano per casa (allora esisteva solo il canale televisivo in bianco e nero della RAI!) e la mia immaginazione era colpita in particolare dalle opere astratte, sia di pittori gestuali o materici come Wols, George Mathieu, Burri, Picasso che dai dipinti perfetti di Dalì, e dalle magie croma-tiche di Kandinskji e, soprattutto, di Paul Klee, che rimane uno dei miei preferiti ancora oggi. Ero attirato anche dai progetti degli architetti moderni con le loro forme funzionali ma libere, colorate, mai viste prima: l’architettura organi-ca di Frank Lloyd Wright e le astratte architettu-re calviniste di Le Corbusier. Pur non praticando come artista, ho sempre seguito, attraverso gli studi e le letture delle riviste specializzate, gli sviluppi dell’arte contemporanea che, natural-mente, si intrecciano con le vicende dell’archi-tettura e del design.

Oggi, cosa ti interessa e cosa non ti piace dell’ar-te contemporanea?

L’arte contemporanea mi interessa tutta, ma poca mi convince o mi emoziona. Mi piace l’ap-proccio di artisti come Jeff Koons, Damien Hirst, Anish Kapoor, Christo, James Turrell, Richard Serra e anche Andy Warhol, spostato dal mo-mento manuale-tradizionale a quello inventivo-progettuale. La realizzazione materiale dell’o-pera è delegata a maestranze qualificate come,

Volare lontano, 2011, stampa su forex100x70 cm

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In basso: Nave di pietra, 2012, fine art su tela, 80x80 cm

in fondo, è sempre avvenuto nelle botteghe degli artisti e, soprattutto, in architettura e nel design. Ammiro molto la fantasia di El Anatsui il quale, pur lavorando con materiali poveri di recupero, realizza opere magnifiche.L’arte ha compiuto negli ultimi cento anni una tale rivoluzione del proprio linguaggio e dei propri contenuti e metodi, da lasciare spiazzati, oltre al pubblico normale anche molti addetti ai lavori. Basterebbe leggere le stroncature da parte di importanti critici di artisti che oggi sono considerati dei maestri. Se fosse vero, come te-orizzano alcuni, che tutto è arte, si dovrebbe dedurre che nulla è arte e, di conseguenza, il ruolo dell’artista risulti ormai inutile. Mi sembra una specie di masochismo culturale che contri-buisce solo ad abbassare ulteriormente il livello degli artisti.

Prima di approdare al linguaggio astratto hai frequentato anche forme più classiche di espressione?

Devo dire la verità, non ho mai provato molto interesse per il realismo e il linguaggio figura-tivo poiché non coerente con la “modernità” in cui mi riconosco, non perché sia “il migliore dei mondi possibili” di Candido, ma perché è il mondo in cui viviamo. Oggi, pur ammirando ar-tisti come Magritte, Gnoli, Lucian Freud e molti altri che hanno saputo dire qualcosa di assolu-tamente personale in una materia già così lun-gamente esplorata, rimango della stessa idea nel senso che non mi sento stimolato a riper-correre questo filone espressivo. Più che alla creazione dell’”opera unica”, io sono interes-sato alla ricerca di metodologie della creazio-ne artistica mediante la definizione di sistemi complessi, aperti e ripetibili e ad approfondire i problemi della riproducibilità tecnica, della pro-duzione seriale, dei libri digitali e delle poten-zialità aperte dalle nuove tecnologie.

In alto: Aggregazioni caotiche, 2012, digital art su plexiglass 80x80 cm

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I buoni proponimenti, 2013, digital art su plexiglass, 60x60 cm la composizione di volumi, in cui era leggibile

un chiaro riferimento alle avanguardie storiche dell’architettura e dell’arte. Nel 2009 ho svilup-pato il ciclo “Abachi”, opere più direttamente artistiche, utilizzando il libero assemblaggio di immagini grafiche, pittoriche e fotografiche, at-traverso le quali intendevo ricostruire un nuo-vo mondo di relazioni e significati imprevedibili nati grazie al recupero di memorie, associazioni d’idee, percezioni ed emozioni sedimentate. Parallelamente ho iniziato la serie di compo-sizioni policrome con forme plastiche e libere chiamate “Forme morbide” e “Forme liquide” che si situano nell’area di un’astrazione attenta a tutte le forme organiche che rimandano, di-rettamente o indirettamente, al mondo della Natura. Ciò che potrebbe legare queste opere all’arte informale non è tanto l’apparente ca-

Come sei giunto alle tue opere artistiche com-poste con le tecniche digitali?

Quando, una trentina di anni fa, ho visto il pri-mo software di disegno computerizzato per la progettazione, sono rimasto immediatamen-te affascinato dalle sue potenzialità. Se usato con competenza e, soprattutto, intelligenza, il computer è un prolungamento della mente che dilata le potenzialità creative e permette di ot-tenere risultati di qualità altrimenti irraggiun-gibili in tutti i settori, compresi quelli artistici. Per me, quindi, è stato naturale utilizzare arti-sticamente, già dieci anni, fa questa tecnologia che conoscevo bene, per realizzare opere che esploravano il mondo della geometria e del-

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Arcobaleno di colori, 2013, digital art su plexiglass, 225x75 cm (Comune di Dro)

sualità della forma, ma piuttosto il rifiuto di una forma preconcetta e il tentativo di introdur-re nello spazio limitato della composizione, le leggi del caos e del caso che regolano la nostra vita.

Qual è la tecnica che utilizzi principalmente nel-la tua attività?

Gran parte del mio lavoro, dopo gli schizzi pre-paratori iniziali, avviene a monitor mediante programmi grafici e fotografici con cui costru-isco, trasformo ed elaboro gli oggetti, le forme e le immagini che voglio ottenere. L’immensa comodità di una creazione digitale consiste pro-prio nel poter visualizzare e modificare integral-mente, nel corso della sua “nascita”, il materiale su cui stai lavorando. Si tratta di superfici e vo-lumi virtuali che alla fine dell’iter si trasformano in quadri, fotografie, manifesti o, appunto, libri e riviste d’arte digitali. Comprendo chi rimpian-

ge la progressiva riduzione della “manualità” dell’artista, una delle più antiche e nobili abi-lità umane ma, sicuramente non scomparirà il “cervello” che, anzi, viene esaltato dalle nuove possibilità. Sono convinto, però, che rimarran-no sempre monopolio degli artisti alcune carat-teristiche storiche immutabili: innanzitutto, la creatività e poi la capacità di realizzare con le proprie mani le opere d’arte uniche, non sog-gette a quella che Walter Benjamin definiva “la riproducibilità tecnica”. Detto questo, debbo confessare che io so nulla dell’hardware perché il mio atteggiamento è molto simile a quello del pilota che corre con un’auto senza conoscerne il motore.

Hai frequentato anche altre tecniche?

Passaggi di stato, 2011, digital art su plexiglass trittico: cadauno 60x60 cm (Comune di Calliano)

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Ho sempre utilizzato il disegno (e l’ho anche in-segnato a lungo) perché è, o dovrebbe essere, la tecnica fondamentale per chi opera nel mon-do delle arti visive. Per me è una forma natu-rale e immediata di esprimermi liberamente, meno impegnativa della pittura che nasce con un altro intento e richiede strumenti tecnici più strutturati. Il disegno è un vero e proprio linguaggio che permette di trasformare i pen-sieri in immagini in tempo reale attraverso un continuo dialogo intimo. I processi creativi che passano attraverso i disegni, sia quelli artistici che quelli progettuali, non sono mai lineari, ma “stellari”: la matita si muove sulla carta guidata dal rapporto mano-cervello e solo nel corso del processo “appare” l’idea che viene formandosi. Poi, ho praticato anche la pittura, ma nel tempo libero, poco e insufficiente per riuscire a svilup-parla con continuità e qualità.

Quando e perché è nata la rivista FIDAart?

FIDAart, la rivista digitale mensile che ho ideato tre anni e mezzo fa e che curo, scrivo, impagi-no, pubblico e invio online ad una mailing list con un migliaio di iscritti, ha ormai raggiunto il trentottesimo numero: un lavoro ambizioso ma anche gratificante, speriamo utile, investi-to nella valorizzazione degli artisti trentini vi-venti. Il numero Zero, nato in modo informale nel giugno 2012 come bollettino interno della FIDA, contiene già tutti gli elementi che prose-guiranno inalterati nel corso degli anni, come la copertina nera con il titolo bianco, l’immagine quadrata a colori, l’impaginazione interna. Ma già con il numero successivo, dedicato a Renato Pancheri, si era trasformata nel progetto quasi definitivo di rivista illustrata di arte e di cultura, rivolta a chiunque fosse interessato allo stato dell’arte nel nostro territorio. Dopo di allora, in ogni numero è apparsa un’intervista a un arti-sta trentino individuato tra quelli più importanti

In alto: Le ombre del deserto, 2013, digital artsu plexiglass 50x50 cm

In basso: Il tempo dei ricordi, 2011, digital art su tela, 80x80 cm

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e interessanti, tra cui molti giovani. L’obbiettivo era (ed è) quello di fornire un panorama ben documentato del suo lavoro, commentato in totale libertà dall’artista stesso. Le domande rivolte agli intervistati sono semplici, quasi ele-mentari, così da non vincolarli e poter ricavare un quadro generale confrontabile: una specie di indagine sociologica che potrebbe essere uti-le per eventuali future analisi. Molte domande attengono anche alle tecniche usate, in modo da far comprendere anche quel-la parte pratica ed esecutiva, generalmente ignorata dai testi critici, che interessa chi opera nello stesso campo.

Come si inserisce la rivista FIDAart nella tua at-tività artistica?

Ormai considero FIDAart una mia vera e propria “opera artistica che cresce nel tempo”, un espe-rimento forse unico, particolarmente impegna-tivo e faticoso per un singolo artista poiché è una vera performance mensile in cui - nel bene o nel male - c’è di mio molto di più di quel che appaia. L’idea originaria è andata poco a poco affinandosi e arricchendosi di nuove rubriche dedicate alla storia dell’arte, alla critica, al mer-cato, alle tendenze in atto ma anche ad altre discipline centrali nella società come l’architet-tura, il design, la fotografia, lo styling, le nuove tecnologie oppure le mode della cultura e sot-tocultura di massa. Non tanto articoli o saggi specialistici riservati a pochi ma il tentativo di contribuire a diffondere e divulgare anche tra i non addetti ai lavori, idee e punti di vista diver-si che siano in grado di incuriosire o stimolare l’interesse per il mondo delle forme e dei loro significati. Contemporaneamente, a parte le decine di cataloghi di mostre mie e della FIDA, ho iniziato a creare anche dei libri grafici e foto-grafici digitali, di satira politica, arte, architettu-ra e di storia.

In basso: Lo stupore immaginario, 2011 digital art su tela, 80x80x4 cm

In alto: The green green apples of home, 2013 fine art su plexiglass, 75x75 cm

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Melamorfosi, 2013, digital art su carta, 80x80 cm

In basso: La sindrome di Stendhal - Il sogno, 2014 fine art su plexiglass, 109x72 cm

Ti consideri più architetto, designer, artista, cu-ratore, cos’altro?

Ho esercitato per quarant’anni la professione di architetto durante la quale ho avuto la fortuna di progettare delle opere molto gratificanti (tra cui l’arredo urbano del centro storico di Tren-to) e, quindi, la mia “forma mentis” è principal-mente quella. E, anche se l’architettura era con-siderata dai Greci la maggiore delle arti (oggi è raramente così), è evidente che ormai architet-tura e arti visive hanno preso strade differenti, se non divergenti. Dato che le mie esperienze nel design, nello styling, nella grafica e nell’in-segnamento del disegno e delle tecnologie, mi hanno sempre spinto naturalmente verso tutte le attività creative, il mio ideale rimane l’”arte totale” teorizzata dal Bauhaus in cui forma, fun-zione, tecnica, arte e coscienza sociale si fondo-no armonicamente.Proprio grazie a questa molteplicità di interes-si, ho studiato e pubblicato nel 1994, assieme all’architetto Fiorino Filippi, il “Manuale del porfido”, uno libro di oltre duecento pagine fi-nalizzato alla progettazione degli arredi urbani, tradotto anche in tedesco, inglese e francese.

Nelle tue opere il colore è molto importante. Cosa rappresenta per te?

Come architetto, per ovvie ragioni, non ho mai potuto sperimentare in modo totalmente libero il colore anche se ho sempre cercato di utilizzar-lo quando potevo. Nella mia attività artistica mi sono svincolato da esigenze pratiche tentando di superare la bidimensionalità del supporto at-traverso la simulazione della tridimensionalità spaziale caratterizzato da una grande ricchezza di colori. In queste forme organiche, morbide e liquide che si richiamano esplicitamente al mondo della natura, volevo suggerire un mon-do coloratissimo e in movimento in cui i riflessi

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te, nell’opera. Quando si riconosce tra molte, l’autore di un’opera mai vista, ciò dipende pro-prio dalla percezione del suo stile personale. Anche se nel tempo le caratteristiche possono e debbono cambiare (altrimenti diventerebbe manierismo), lo stile è il modo assolutamente unico di vedere e rappresentare la vita. Io non so se esista un “mio stile” riconoscibile perché questo devono giudicarlo gli altri. Come dire: spero di sì.

Ritieni di rappresentare nelle tue tele concetti o emozioni?

L’arte comunica sempre emozioni, anche quan-do privilegia i concetti perché, il problema cen-

I frutti proibiti, 2013, fine art su plexiglass, 75x75 cm

delle luci e delle ombre creassero l’impressione della leggerezza, della trasparenza, quasi come in un sogno.

Come definiresti il tuo stile? Quali sono, secon-do te, le caratteristiche che ti rendono ricono-scibile?

Anche se il termine “stile” viene guardato con sospetto dalla critica moderna, io ritengo, inve-ce, che esso sia proprio quel tratto distintivo ca-ratteristico di un artista e che vale per uno scrit-tore, un musicista, un architetto, un fotografo ecc. Non si tratta solo della ripetizione di canoni riconoscibili ma del suo modo specifico di espri-mersi. Se è vero che un dipinto è l’autoritratto dell’artista, allora è evidente che la personalità dell’autore si rispecchia, più o meno fortemen-

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In basso: L’abbandono dei sensi, 2011, fine art su tela, trittico: cadauno 80x80 cm

In alto: Discesa negli abissi, 2015, fine art e timbrisu tela, 100x70 cm - “Arte Timbrica in progress”

trale nell’arte non è il “cosa” ma “il come”, cioè non il contenuto ma la sua rappresentazione. Questo problema non esiste per il mio tipo di arte la quale, essendo astratta e, per definizio-ne, priva di tema, attraverso le sue forme e i suoi colori esprime solo emozioni. Io non opto mai aprioristicamente per un unico linguaggio perché mi piace sperimentare varie modalità espressive in funzione del risultato finale.

Come ti sembra il panorama dei pittori trentini d’oggi? Cosa manca al Trentino per poter essere più presente sul mercato esterno?

Ho avuto modo di constatare che in Trentino esiste un’ampia base di artisti di buono e ottimo livello perché acculturati, formati e informati, aggiornati e interessati alla ricerca nel loro la-voro. Gli artisti trentini non hanno nulla da invi-diare ai loro colleghi nazionali e internazionali, come dimostra la nostra storia. Purtroppo, questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per inserirsi in un “mercato” che richiede anche molte altre capacità sociali che poco hanno a che fare con l’arte così come è comunemente intesa.

Segui la “politica culturale” trentina: pensi che si possa fare di più per il settore artistico?

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Paura di precipitare, 2012, digital art su plexiglass 60x60 cm

Il concetto di bellezza è strano: tutti ne parla-no ma nessuno è in grado di definirlo. Termine oggi considerato desueto, anti intellettuale e, perciò, espulso dal vocabolario di molti artisti contemporanei interessati più all’aspetto “con-cettuale” dell’opera che non alla sua forma, diventata spesso ininfluente. Io, invece, penso che il ruolo degli artisti sia proprio quello di cre-are e proporre il “proprio concetto di bellezza” che, inevitabilmente, rappresenta lo spirito del loro tempo, lasciando la produzione di “concet-ti astratti” (generalmente, a posteriori) ad altre discipline metodologicamente più strutturate e attrezzate, come la filosofia o la scienza. Per queste ragioni, è chiaro che il concetto di bel-lezza non è assolutamente oggettivo ma, anzi, è

Mi sembra di poter dire che le istituzioni tren-tine hanno fatto poco per valorizzare le risorse artistiche (e architettoniche) locali in una sorta di provincialismo all’incontrario che privilegia sempre chi venga da fuori. Basti pensare alle pochissime mostre realizzate dal Mart con arti-sti trentini o ai miseri investimenti e aiuti mate-riali erogati alle associazioni locali. Una miopia politico-culturale che non ha ancora compreso che una classe politica moderna deve investire sulla cultura e le capacità creative delle nuove generazioni, anche se ciò non paga immediata-mente sotto il profilo elettorale.

Cos’è la bellezza? E’ un valore che ricerchi o è subordinato ad altri valori?

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A destra: La Stella Polare dell’artista, 2014 digital art su tela, 90x63 cm

PAOLO TOMIO, alcuni dei libri grafici e fotografici digitali, di satira politica, arte, architettura, storia, pubblicati onlineA sinistra, dall’alto in basso: 23597 J KLA Auschwitz, 2013, 50x47,8 cm, pagg. 88MONUMENTI DI CARNE, 2013, 50x50 cm, pagg.38AUSCHWITZ , 2013, 50x37,5 cm, pagg. 66

soggetto a continue - e auspicabili - trasforma-zioni nel tempo e nello spazio.

Chi è l’artista?

Artista, è colui il quale è capace di migliorare gli uomini grazie alla bellezza delle sue opere. In passato, l’artista era quella persona a cui la società riconosceva il dono del talento attri-buendogli l’onere e l’onore di far fronte alla richiesta di bellezza che esisteva (e sempre esisterà). Oggi mi sembra che questo ruolo sia molto cambiato, forse perduto, perché sostitui-to da altre figure a cui gli artisti hanno delegato il monopolio della bellezza per mantenersi solo quello di elite critica sempre più inascoltata.

E, per finire, cosa è per te l’arte?

L’arte è la grande invenzione dell’uomo per li-berarsi dal peso della vita quotidiana e dalla paura della morte. Essa rappresenta il simbolo della lotta contro la realtà da parte della fantasia, quella magica fa-coltà del cervello, che spinge gli uomini a creare con il massimo impegno tutte quelle cose “inu-tili” come la pittura, la poesia, la danza, per l’in-spiegabile senso di piacere che sanno donare.

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PAOLO TOMIONato nel 1947, vive e lavora a Trento.Dopo gli studi superiori, si iscrive al Corso superiore di Industrial Design presso il Magistero di Firenze con Pier Luigi Spadolini e Giovanni Klaus Koenig. Dopo aver frequentato il primo anno, si trasferisce alla facoltà di architettura del Politecnico di Torino dove, contemporaneamente, può collaborare come industrial designer con uno studio nel settore dello styling automobilistico, del design e della grafica progettando veicoli sportivi, industriali, city cars, arredi urbani e oggetti di design.Si laurea in architettura nel 1974 e comincia a esercitare l’attività libero professionale a Trento come progettista, direttore dei lavori nell’edilizia privata e pubblica. Realizza opere di edilizia privata e pubblica in tutta la Provincia, scuole elementari e medie, centri sportivi, restauri di palazzi storici, edifici sportivi, numerosi interventi di arredo urbano. Progetta come designer innumerevoli arredi privati e pubblici e la realizzazione di oggetti prodotti in piccola serie.Alla professione di architetto si affianca l’attività di insegnante, prima di materie artistiche presso l’Istituto d’Arte e poi di disegno tecnico e tecnologia presso l’Istituto Tecnico.Concorsi di architetturaVince con il collega Roberto Ferrari il concorso a Pergine Valsugana per la sede del Comprensorio e del nuovo teatro comunale.Vince con l’arch. Alda Rebecchi il progetto per la pavimentazione del centro storico di Trento. Vince il concorso a Cles per la realizzazione del plesso scolastico composto da scuole medie, palestra e centro pubblico.Attività artisticaParallelamente all’attività professionale coltivare l’interesse per il mondo artistico partecipando,

in gruppo con altri artisti o da solo, a numerosi concorsi per sculture e installazioni da collocare in edifici pubblici affrontando l’uso di materiali vari: marmo, mosaico, strutture in acciaio verniciato, inox o Corten, cemento, ceramica, legno ecc.. Una sua opera “Frammenti di immagine, immagine in frammenti” del 1982, fa parte della raccolta presso il Museo Provinciale delle Albere - MART di Trento.Interessato più alla ricerca e allo studio di metodologie della creazione-progettazione artistica mediante la definizione di sistemi complessi, aperti e ripetibili, che non alla creazione dell’opera unica, approfondisce il problema della riproducibilità tecnica, della produzione seriale, dei multipli e delle potenzialità rese possibili dalle nuove tecnologie. Da sempre produce opere grafiche che affrontano il mondo della geometria e della composizione di volumi in cui è leggibile un chiaro riferimento alle avanguardie storiche dell’architettura e dell’arte: appartengono a questo filone “Decostruzioni” e “Architektony” Omaggio a Malevich. Nel 2009 partecipa alla rifondazione della FIDA che viene trasformata in FIDA-Trento, associazione culturale, disegnandone il logo. Dopo aver svolto dal 2010 al 2012 il ruolo di Segretario Degli Artisti, è eletto Presidente della FIDA-Trento nel maggio 2012. Presenta le sue dimissioni il 30 agosto 2013Dal 2009 comincia a sviluppare un ciclo di opere di impegno civile - nominato “Abachi” - che utilizzano un libero assemblaggio di immagini grafiche, pittoriche e fotografiche rielaborate - personali e di origini varie - attraverso le quali intende ricostruire un nuovo mondo di relazioni e significati che nascono grazie al recupero delle memorie sedimentate, alle libere associazioni d’idee, alle percezioni ed emozioni che suscitano nell’osservatore.Parallelamente, convinto delle potenzialità della elaborazione computerizzata, sviluppa una serie di composizioni astratte policrome con forme plastiche e organiche libere e svincolate da riferimenti storici, definite “Forme morbide” e “Forme liquide”. Le sue opere più conosciute si situano nell’area di un’astrazione interessata e attenta a tutte le forme organiche che rimandano, direttamente o indirettamente, al mondo della Natura.Hanno scritto di luiAldo Pancheri, Paola Pizzamano, Antonella Iozzo, Marco Tomasini, Aldo Nardi, Renzo Francescotti, Roberto Codroico, Paolo Zammatteo, Davide

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FIDAart copertina del N.9 2015

Periodico di arte e cultura della FIDAart

Curatore e responsabile

Paolo Tomio

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Tutti i numeri 2012-2013-2014-2015

della rivista FIDAart

sono scaricabili da:

www.fida-trento.com/books.html

Tutti i numeri 2012-2013-2014-2015

della rivista FIDAart

sono sfogliabili su:

http://issuu.com/tomio2013

FIDAart

Francesco Rota, Riccarda Turrina, Claudio Cerrittelli, Maurizio Scudiero, Gabriele Lorenzoni Concorsi d’arte2010 Vince il concorso per un’opera d’arte per il Comune di Taio; 2012 Vince il concorso per un’opera d’arte per il Comune di Calliano; 2013 Vince il concorso per un’opera d’arte per il Comune di Dro Grafica/arteHa realizzato l’apparato grafico e cataloghi d’arte delle proprie esposizioni personali e di tutte le collettive della FIDA. Ha ideato, scrive, impagina e pubblica dal 2012 la rivista digitale mensile online FIDAart che si interessa di arte e cultura nel Trentino-Alto Adige.Ha realizzato numerosi libri digitali grafici o fotografici di satira politica sfogliabili su http://issuu.com/tomio2013. Ha approfondito il tema della violenza e dell’Olocausto con tre libri fotografici digitaliPubblicazioniHa pubblicato con l’arch. Alda Rebecchi il libro su “L’arredo del centro storico di Trento” Trento 1991Ha pubblicato con l’arch. Fiorino Filippi, il “Manuale del porfido”, ES.PO, Albiano - 1994 tradotto anche in tedesco, inglese e francese.Mostre personaliNovembre 2010 “L’occhio sinfonico”, Spazio Symposium XXI - Milano;Dicembre 2010 “Morfologie luminose”, Grand Hotel Trento - Trento;Settembre 2011 “Gli ospiti sono speciali”, Museo del Turismo Trentino - Montagnaga;Ottobre 2011 “Lo stupore immaginario”, galleria Arianna Sartori - Mantova;Luglio 2012 “Nell’inconscio dell’uomo”, Spazio d’Arte L’Altrove - Ferrara;Marzo 2013 “Forma Mentis”, Sala Thun di Torre Mirana - Trento;Maggio 2014 “Forme morbide”, Spazio Klien - Borgo Valsugana;Mostre collettiveHa partecipato a innumerevoli mostre collettive in Italia e all’estero.Via Cernidor, 4338123 TRENTOTel. 0461 934276Mail: [email protected]: www.tomiopaolo.comFacebook: www.facebook.com/paolo.tomioIssuu:http://issuu.com/tomio2013

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FRANZ KLINE, FLANDERS, 1961, Sotheby’s New York 2015, olio su tela, 201x150 cm, venduto a

$ 9.210.000 (€ 8.208.000)

MERCATO DELL’ARTE ?

FRANZ KLINE (1910-1962), UNTITLED, 1957, olio su tela, 201x280 cm, Christie’s New York 2012, stimato $ 20-30milioni, venduto a $ 40.402.500 (€ 31.713.000) vedi sopra e immagine a pag.28.Franz Kline, uno dei più noti esponenti dell’E-spressionismo Astratto, immediatamente ri-conoscibile per i suoi drammatici ideogrammi neri su fondo bianco, dopo aver attraversato una lunga stagione di oblio sta conoscendo una nuova stagione d’oro con un conseguente au-mento del valore di mercato delle sue opere. Nato nel 1910 nella città mineraria del carbone di Wilkes-Barre in Pennsylvania, non ha avuto

un’infanzia facile: il padre, di origini tedesche e proprietario di un bar, si suicida quando l’arti-sta ha sette anni; la madre, originaria della Cor-novaglia, deve iniziare a lavorare e, quando si risposa, manda Franz al Girard College di Phila-delphia per adolescenti senza padre (Kline dirà: un orfanotrofio per bambini poveri).Dopo il diploma di scuola superiore riesce ad accedere nel 1931 alla School of Art Universi-ty di Boston dove completa il corso di quattro anni; si trasferisce a New York per frequenta-re l’Art Students League e, nel 1936, parte per Londra dove si iscrive alla Scuola d’Arte di Hea-therly. Durante questo periodo, sposa Elizabeth Parsons, una ballerina britannica e dopo due anni la coppia ritorna insieme a New York. Qui, Kline che è un bravo pittore realista, vive rea-lizzando dei lavori di pittura murale per negozi e bar del quartiere ed eseguendo paesaggi, ri-tratti e illustrazioni tradizionali su commissione. Nel 1943 la svolta; conosce il pittore olandese Willem de Kooning che lo introduce nel giro di artisti frequentato da Jackson Pollock e Philip Guston, futuri fondatori dell’Espressionismo astratto. L’influenza del gruppo lo spinge a spe-rimentare l’astrazione e i suggerimenti datigli dall’amico de Kooning ad adottare nuove tecni-che (come l’uso di un proiettore), lo indirizzano verso opere di grandi dimensioni caratterizzate da ampie pennellate gestuali in cui prevale quel nero e il bianco che contraddistingueranno per sempre il suo stile.Quando, nel 1950, inaugura la prima perso-nale alla galleria Charles Egan di New York, la sua pittura radicalmente innovativa riscuote un

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FRANZ KLINE, ORANGE BLACK WALL, 1959 olio su tela, 170x367 cm

FRANZ KLINE

successo immediato tra i critici e collezionisti. I suoi “monogrammi” monumentali, grazie alla vitalità dell’atto creativo e alla forza aggressiva del segno, esprimono perfettamente l’idea del gesto e dell’azione teorizzati dall’Action Pain-ting. A chi gli chiede se la sua pittura subisca l’influsso dell’arte calligrafica orientale, Kline ri-sponde: “Innanzitutto la calligrafia è una forma di scrittura e io non scrivo. Alcuni, talvolta, pen-sano che io prenda una tela bianca e ci dipin-ga sopra un segno nero, ma non è così. Oltre al nero dipingo anche il bianco, che è altrettanto importante.” Per quanto possa sembrare strano, infatti, solo pochi quadri di Kline sono eseguiti di getto poiché le sue larghe e tragiche pennellate che sembrano il risultato di un singolo gesto, sono pitturate con piccoli colpi di pennello. Coeren-temente con la sua storia di pittore, egli predi-spone innumerevoli disegni preparatori che gli servono per dipingere la tela definitiva. Anche se molti vedono nella sua produzione chiare allusioni all’architettura urbana e industriale delle metropoli americane, Kline rifiuta questa interpretazione: “Io non dipingo in modo ogget-tivo, non dipingo un oggetto dato, una figura o

un tavolo, ponti, grattacieli: dipingo un’organiz-zazione che diventa un quadro”. Quando comincia ad essere conosciuto a livello internazionale, il suo matrimonio è già in crisi perchè la moglie soffre da sempre di depres-sione ed esaurimenti nervosi e negli ultimi anni trascorre il resto della vita dentro e fuori le cli-niche psichiatriche. A partire dal 1955, Kline comincia a reintrodur-re il colore nelle sue tele, ricercando così una maggior profondità spaziale e dinamicità nelle composizioni grazie al linguaggio ormai maturo e a una tecnica più fluida. I risultati, pur diven-tando una pittura meno essenziale e drammati-ca, sono sempre altrettanto suggestivi, possenti e riconoscibili. Nel 1962, quando è ormai affermato come uno dei principali esponenti dell’Espressionismo astratto, Kline muore per un attacco cardiaco all’età di 52 anni. La sua opera entrerà in una zona di silenzio perchè troppo difficile o, forse, troppo pessimista; sarà recuperata solo verso il 1980 dagli artisti minimalisti che riconoscono in lui un precursore e un maestro.

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L’ARTE DELLO ZEN

In Giappone, oltre a quella antichissima della porcellana e della giada, esiste anche una lunga tradizione nella lavorazione delle pietre prezio-se. Pietre che, pur avendo una vita che si di-spiega in sequenze temporali diverse da quelle umane, sono comunque soggette alle condizio-ni di ciò che la filosofia definisce “l’imperma-nenza” di tutte le cose, cioè la realtà in conti-nuo cambiamento. L’estetica giapponese che è un insieme di ideali tradizionali accomunati dalla nozione Buddista (in particolare Zen) della transitorietà della vita, ha sempre riflesso tale concetto per cui vita e natura sono inseparabili.il Maestro Oky Nagashi, un artista che con le pietre preziose crea delle sculture ricercatissi-me dagli amatori, spiega che «La Natura è tutto l’Universo e tutto l’Universo è la Natura». Non serve guardare il cosmo per capire il senso del Tutto perché il Tutto è in ogni elemento della natura: cioè un micro-cosmo. Ciò vale sia per gli organismi viventi che per i corpi inorganici come certi minerali in cui la storia del mondo si è solidificata presentandosi in tutta la sua magnificenza. Le sculture di Na-gashi possiedono un gioco di colori dai riflessi metallici varianti tra il blu e il verde, in alcune può apparire tutto lo spettro dei colori mentre altre presentano un fenomeno ottico che si ma-nifesta con un luccichio differente a seconda di dove provenga la luce. Al loro interno, o in su-perficie, dopo essere state lavorate e lucidate, appaiono i segni misteriosi delle forze naturali che hanno trasformato la Terra in centinaia di milioni di anni. Nagashi ricerca pazientemen-te e mette in luce proprio questo passaggio del tempo per rivelare la mono no aware, l’ammi-razione sia per ciò che mostra i segni del tra-scorrere del tempo e del suo fluire spontaneo nel corso irreversibile dei processi naturali ma

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L’ARTE DELLO ZEN OKY NAGASHI

sia anche la conseguente accettazione del cam-biamento implacabile di tutte le cose. Il concetto estetico primario al centro della cul-tura tradizionale giapponese, infatti, è la ricerca del valore armonico in tutte le cose che avviene attraverso la natura e riguarda la bellezza del-la semplicità studiata in armonia con la natura stessa. Le sue prezione sculture dalle forme perfette in cui (per chi sappia vedere), si concentra tutto l’universo, corrispondono alla shibusa, concet-to che si riferisce a quel tipo più elevato di bel-lezza in cui si ritrovano sette qualità.La semplicità (un significato implicito che lasci libero spazio alle interpretazioni sul suo senso profondo); la modestia (l’oggetto shibui non fa valere la sua presenza né sottolinea la persona-lità del suo creatore); la serenità (compostezza, sobrietà, calma come in tutte le sculture buddi-ste); la naturalezza (ciò che è shibui non può es-sere artificiale); l’imperfezione (oggetti naturali asimmetrici dai colori sommessi e tranquilli); la ruvidezza (in quanto naturali, percezione di irregolarità al tatto); la normalità (forte e robu-sto) per ricalcare l’ideale della Purezza, uno dei cardini dello Shintoismo. Il Maestro Nagashi riassume così il suo credo artistico: «L’eleganza nasce quando la norma-lità viene abbreviata, concentrata e ridotta all’essenziale». La bellezza degli oggetti shibui non è creata dall’artista per ammaliare l’osser-vatore, bensì lo scopo del creatore è invitarlo a trarre la bellezza dagli oggetti stessi elevandolo allo stato di artista. Il fine ultimo dell’artista è la Yohaku-no-bi, “la bellezza di ciò che manca”, dal significato miste-rioso e imperscrutabile: ciò che è rimasto fuori dall’opera d’arte piuttosto che ciò che si trova al suo interno.

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STORIA DELL’ARTE THONET, LA MADRE DI TUTTE LE SEDIE - parte 3

Alla fine del 19° secolo il mercato dei mobili in legno curvato a vapore si concentra in tre azien-de: Jacob & Josef Kohn, Mundus AG e Gebrüder Thonet la quale, nel 1912, raggiunge il suo apice con 1,8 milioni di mobili prodotti annualmente. Lo scoppio della prima guerra mondiale muta drasticamente la situazione: gli operai e le ma-terie prime scarseggiano, le esportazioni si fer-mano e quando, alla fine della guerra si dissol-ve l’Impero l'austro-ungarico, a Thonet rimane solo lo stabilimento di Frankenberg. Nel 1920 il mercante ebreo Leopold Pilzer proprietario di Mundus AG, acquisisce il controllo anche di Thonet AG, diventata società per azioni, e crea Mundus-Allgemeine, il più grande complesso industriale di mobili in tutto il mondo. Nel dopo guerra ha inizio il graduale inserimen-to, parallelamente alla normale produzione di sedie in legno curvato, di nuove tipologie in tubo metallico, più coerenti con le nuove idee architettoniche funzionaliste e alle esigenze di una moderna produzione industriale.La spinta a questa rivoluzione sociale, estetica e tecnica proviene da uno dei centri più impor-tanti delle avanguardie artistiche, il Bauhaus, una scuola fondata da Walter Gropius nel 1919

a Weimar, che si propone di ricondurre arte e tecnica ad un’unica unità formale, in cui inse-gnano alcuni dei migliori creativi dell’epoca.La creazione più significativa dell’epoca, consi-derata una delle più importanti innovazioni nel design, è la sedia a sbalzo (“cantilever chair”) ovvero la sedia senza gambe posteriori, inven-tata nel 1925 dal giovane architetto olandese Mart Stam il quale per primo aveva presentato - e brevettato - un prototipo realizzato in tubi di acciaio del gas assemblati con i raccordi an-golari. All’esposizione “Die Wohnung” curata dal Deutscher Werkbund nel 1927 a Stoccarda vengono presentati per la prima volta al grande pubblico i mobili in tubolare d’acciaio di Mart Stam e di Ludwig Mies van der Rohe. Caratteriz-zati dalla sobrietà, trasparenza, funzionalità in linea con uno stile di arredamento radicalmen-te nuovo, riscuotono un grande interesse. La prima sedia a sbalzo in tubolare di acciaio curvato di Mart Stam è messa in produzione nel 1929 dalla Thonet con la sigla “B 33” e “B 43“ con braccioli. (vedi in basso a sinistra). I due modelli ben presto si arricchiscono di nuove ti-pologie dotate di sedute e schienali rigidi o im-bottiti in vari materiali.

THONET “B 43” Mart Stam, 1928 THONET “S 32” (Cesca), Marcel Breuer, 1929

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STORIA DELL’ARTE

Anche Marcel Breuer, insegnante del Bauhaus che aveva avuto modo di vedere gli studi di Mart Stam, inizia a sperimentare con il tubola-re d’acciaio piegato a freddo, unico materiale a consentire un effetto oscillante, realizzando per Thonet la sedia “S 32” basata sul principio dello sbalzo. Realizzata con struttura in tubo d’accia-io cromato, sedile e spalliera in canna di Vien-na con bordo in faggio naturale o laccato nero, diventerà nel corso degli anni uno dei modelli classici del’industrial design.Thonet-Mundus, acquisisce questa tecnologia con i diritti dei progetti di importanti architetti e inizia a realizzare ogni tipo di mobili in tubo-lare d’acciaio nello stabilimento di Frankenberg arrivando a diventare, fino all’inizio della se-conda guerra mondiale, il maggior fabbricante al mondo di arredi in acciaio.Gran parte della produzione Thonet nei primi anni Trenta è progettata da Breuer, i cui modelli più celebri rimangono le sedie “S 32” (e “S 64”, con braccioli), prodotte nel 1929-30 e ancor oggi in commercio con il nome “Cesca” (vedi in basso a sinistra e sotto). L’attribuzione dei diritti d’autore su questa sua invenzione sono oggetto di una lunga contesa legale conclusasi poi con

l’assegnazione a Mart Stam del copyright arti-stico relativo alla forma e al principio di base sulla sedia cantilever. Breuer deve rinunciare alle cospicue royalties sulle vendite e Stam vie-ne spesso indicato come il progettista. Diverso il caso della sedia a slitta “MR 533” (vedi in basso a destra) di Ludwig Mies van der Rohe in cui la seduta è ottenuta facendo proseguire il grande arco della parte anteriore in tubolare d’acciaio temprato in modo da garantire un ef-fetto oscillante permanente, a cui viene conces-so un brevetto che protegge non la forma ma il principio della sospensione. Il monopolio di Mart Stam costringe i progetti-sti a studiare soluzioni che non utilizzino il suo principio con il risultato che nascono numero-si modelli a sbalzo tra loro simili ma dotati di accorgimenti strutturali tali da differenziarli dal modello brevettato. Oltre alle sedie cantilever, Thonet sviluppa il tubolare di acciaio fino alla seconda guerra mondiale ampliando la sua produzione a tutta la gamma di arredi moderni: tavolini, sgabelli, scaffali ecc. coinvolgendo nei nuovi progetti an-che grandi architetti francesi come Le Corbusier e Pierre Jeanneret.

THONET “MR 533”, L. Mies van der Rohe, 1930 THONET “S 64” (con braccioli), Marcel Breuer, 1929

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News dal mondo

FRANZ KLINE

FRANZ KLINE

FRANZ KLINE

FRANZ KLINE

Omaggio a FRANZ KLINE

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UNTITLED, 1957

FOUR BLACK WOMEN, 2015

STEEPLECHASE, 1960

DE MEDICI, 1956

KING OLIVER, 1958

Settembre 2015, Anno 4 - N.09

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FRANZ KLINE, Untitled, 1957, olio su tela, 201x280 cmChristie’s New York 2012, stimato $ 20-30milionivenduto a $ 40.402.500 (€ 31.713.000)

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FRANZ KLINE, King Oliver, 1958, olio su tela, 251x197 cm, Christie’s New York 2014, stimato $ 25-35milioni

venduto a $ 26.485.000 (€ 21.286.000)

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FRANZ KLINE, Steeplechase, 1960, olio su tela, 204x165cm, Christie’s New York 2015, stimato $ 18-22milionivenduto a $ 21.445.000 (€ 19.113.000)

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FRANZ KLINE, De MedicI, 1956, olio e carboncino su tela 210x291 cm, Christie’s New York 2012, stimato

$ 5-7 milioni, venduto a $ 11.058.500 (€ 8.680.000)

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PAOLO TOMIO, Omaggio a FRANZ KLINEFour Black Women, 2015, fine art su tela, 290x210 cm

Dialogo tratto da "Provaci ancora Sam" di Woody Allen.

Allen: "... Bello quel quadro di Frank Kline eh?"

Ragazza: "Sì, bello"

Allen: "A te cosa ti dice?"

Ragazza: "Riafferma la negatività dell'universo. L'atroce solitudine e il vuoto dell'esistenza -il nulla-

la condanna dell'uomo costretto a vivere in una brulla eternità senza Dio, come una fiam-

mella che vacilla in un immenso vuoto, senza nulla intorno che desolazione, orrore e degra-

dazione... stretto in un'inutile, squallida camicia di forza in un cosmo tenebroso, assurdo"

Allen: "Cosa fai sabato sera?"

Ragazza: "Mi suicido"

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