Fiabe e novelle del popolo pugliese, di Saverio La Sorsa

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La più ampia raccolta di fiabe e novelle popolari pugliesi, trascritte nei dialetti originali e corredate di traduzioni, raccolte nel secolo scorso dalla voce diretta dei testimoni narranti a cura del folklorista Saverio La Sorsa.

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Due particolari colpiscono immediatamente chi si accosti alla figura del folk-lorista molfettese Saverio La Sorsa (1877-1970): la quantità enorme dei suoi studi, da una parte, e la relativa scarsità di saggi dedicati alla sua opera, dall’al-tra.

Negli anni in cui La Sorsa iniziava a intraprendere la propria ricerca, le scienze sociali italiane, e in particolare l’antropologia culturale – la scienza che stu-dia gli esseri umani in quanto produttori di cultura –, erano influenzate dal pensiero evoluzionistico, secondo cui esisterebbero delle società più evolute di altre. Nella prospettiva evoluzionistica, il massimo livello di civilizzazione sarebbe quello raggiunto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo dalle borghesie europee, mentre al di fuori dei confini geografici e sociali di questa classe esisterebbero società a uno stadio evolutivo inferiore, società primitive o selvagge. Mentre le classi borghesi sono autrici della storia, le società extra-europee vivono nella natura e le plebi europee vivono nella tradizione.

In molti scritti di La Sorsa emerge questa prospettiva; il popolo di cui l’Autore parla sembra immobile in una tradizione intesa come realtà statica e astorica. La soluzione retorica del “presente etnografico” (Ugo Fabietti) contribuisce a questa rappresentazione di una società immobile nel proprio eterno presente e priva di storia. Ad esempio, il saggio Valore simbolico di certi numeri inizia con queste parole: «Non sono poche le false credenze del volgo intorno al potere che hanno certi numeri sul destino degli uomini e sullo svolgimento della vita»1.

La Sorsa separò i propri studi di storia da quelli del folklore: da una parte la storia delle classi egemoni, dall’altra le tradizioni del popolo2.

1 S. La Sorsa, Valore simbolico di certi numeri, in A.M. Tripputi (a cura di), Folklore pugliese. Antologia degli scritti di Saverio La Sorsa, Bari, Malagrinò, 1988, vol. 2, p. 443.

2 Cfr. ad esempio S. La Sorsa, Storia di Puglia, Bari, Tipografia Levante, 1918.

Prefazionedi Domenico Copertino

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Probabilmente fu proprio questa mancanza di collegamento tra storia e folklore la caratteristica che spinse le generazioni successive di studiosi delle tradizioni popolari a trascurare gli studi demologici compiuti nella prima metà del secolo da folkloristi come La Sorsa. Il mondo ritratto da La Sorsa stava scomparendo; negli anni Cinquanta del Novecento, gli studiosi delle tradizio-ni popolari si resero conto che una scienza che studiasse esclusivamente il pre-sente – o meglio, che intendesse la tradizione come l’eterno e astorico presente del popolo – non aveva più ragione d’essere, se spariva il proprio referente, ossia la cultura tradizionale così come era stata intesa fino allora. A partire dalla seconda metà del secolo, negli studi socioantropologici italiani ebbe il sopravvento la prospettiva di Ernesto De Martino che, influenzato dalla con-cezione gramsciana del folklore e dall’idea vichiana della cultura popolare, riconosceva un’evoluzione storica a quelle tradizioni e al popolo. Il popolo, secondo De Martino, non era fuori dalla storia; le tradizioni si trasformavano, le culture popolari erano soggette al cambiamento storico. Alcune tradizioni erano in declino e stavano scomparendo: l’antropologo partenopeo, a diffe-renza di La Sorsa, se ne accorse.

Ma De Martino non solo si accorse del declino di alcuni aspetti delle cultu-re popolari: in un certo senso egli, con i suoi studi e grazie all’enorme diffusio-ne delle sue pubblicazioni, contribuì alla scomparsa di quelle tradizioni. Infatti De Martino, da uomo politico, fu tra i massimi sostenitori dell’industrializza-zione del Mezzogiorno italiano, e quindi di un cambiamento socio-economico che avrebbe cancellato delle tradizioni che appartenevano a un mondo il cui sistema produttivo principale era legato alla terra e all’agricoltura. Inoltre egli ritrasse le tradizioni popolari come fenomeni irrazionali, legati al mondo ma-gico; da una parte l’autore riconosceva il magismo come un sistema culturale complesso e non primitivo, dall’altra sosteneva la necessità del superamento di questo sistema culturale. Ad esempio, osservando il documentario La Taranta, realizzato dal regista “demartiniano” Gianfranco Mingozzi con la consulenza dello stesso De Martino, si avverte l’intenzione degli autori di sottolineare l’ar-retratezza della cultura contadina salentina e l’inadeguatezza di questa cultura rispetto al mondo moderno. Paradossalmente, la diffusione della conoscen-za di fenomeni come il pianto rituale e il tarantismo ha contribuito alla loro scomparsa: i gruppi e gli attori sociali che ne erano protagonisti hanno smesso di tramandarli, mentre le nuove generazioni li hanno considerati arretrati.

In questo senso, la prospettiva di Saverio La Sorsa era molto più rispettosa nei confronti delle tradizioni popolari, che egli descriveva con grande simpatia e partecipazione. Mentre per De Martino le culture popolari erano «un altro pianeta»3, nelle opere del demopsicologo molfettese emerge l’adesione a quel

3 E. De Martino, La terra del rimorso (1961), Milano, Il Saggiatore, 1996, p. 66.

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mondo, con il quale egli trovava molti punti di contatto e al quale in parte le sue pubblicazioni4 intendevano rivolgersi.

La sterminata mole di materiale folklorico raccolto (proverbi, modi di dire, usanze giuridiche, nuziali, terapeutiche, aneddoti legati al mondo del lavo-ro, filastrocche, canzoni, giochi, fiabe) fa di Saverio La Sorsa un punto di riferimento importantissimo per «prendere contatto con tutto o quasi tutto il Folk-Lore pugliese»5. In questo senso, il suo lavoro è assimilabile all’etno-grafia, ossia l’osservazione diretta e lo studio dei gruppi umani sul campo, una disciplina che a lungo, nel corso del Novecento, è stata – un po’ forza-tamente – separata dall’antropologia culturale, intesa come elaborazione di teorie dell’uomo e della cultura sulla base delle osservazioni etnografiche. Gli innumerevoli studi di La Sorsa sulle culture popolari ne fanno un grande etno-grafo, lui sì «raccoglitore assiduo e tenace, paziente e convinto»6; se è vero che La Sorsa raccoglieva il materiale «spesso senza la citazione delle fonti»7, è vero anche che altrettanto spesso le citava, avvicinandosi così ai criteri moderni dell’autorità etnografica; uno schema di metodo di raccolta dei dati è delinea-to dall’autore nella sua Introduzione al primo volume delle Fiabe e novelle del popolo pugliese qui riprodotta (cfr. infra, pp. 2-12). L’intento di promuovere «l’unità del folklore»8, cioè di individuare i modi in cui le forme della lette-ratura popolare si inseriscono nella vita del popolo, avvicina la sua opera a quella del grande storico delle tradizioni popolari siciliane Giuseppe Pitrè; ed è lo stesso La Sorsa, nell’Introduzione citata, ad inserire la propria raccolta di fiabe pugliesi all’interno del panorama italiano ed europeo degli studi sulla letteratura popolare, accanto ai lavori di Pitrè, De Gubernatis, Imbriani, dei fratelli Grimm e di altri studiosi.

Come ricorda Bronzini9, la raccolta del patrimonio novellistico pugliese è stata «una delle più felici tappe» nel «viaggio demologico» del folklorista di Molfet-ta. «Due volumi di Fiabe e novelle del popolo pugliese vedono la luce negli anni 1927-28; ne verrà un terzo, a completare l’opera, nel 1941. È un repertorio ricchissimo», comprendente 287 testi raccolti su tutto il territorio della regio-ne, dal Gargano al Salento, trascritti nei dialetti originali e corredati di tradu-zione. Quest’opera, nonostante sia tenuta presente dagli addetti ai lavori, mol-

4 Cfr. G.B. Bronzini, La demopsicologia di Saverio La Sorsa, in «Archivio Storico Pugliese», a. XXIV, fasc. 3-4, luglio-dicembre 1971, pp. 312-338.

5 Ivi, p. 337.6 Cfr. infra, S. La Sorsa, Introduzione, p. 7.7 A.M. Tripputi, La vita e l’anima del popolo pugliese negli scritti di Saverio La Sorsa, in A.M.

Tripputi (a cura di), Folklore pugliese. Antologia degli scritti di Saverio La Sorsa, cit., vol. 1, p. 10.8 G.B. Bronzini, Profilo storico degli studi demologici in Italia, Roma, Edizioni dell’Ateneo,

1975, p. 111.9 Bronzini, La demopsicologia di Saverio La Sorsa, cit., p. 326.

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to citata e anche “saccheggiata”, è stata di fatto trascurata nella considerazione degli studiosi; noi riteniamo ingiustamente, visto che non è mai stato fatto per la Puglia un lavoro eguagliabile, sia dal punto di vista quantitativo che geogra-fico, per l’estensione, la capillarità, la varietà delle testimonianze riprodotte.

La riedizione della raccolta in una soluzione unitaria – mai più ristampata dopo le rispettive uscite degli originari tre volumi del 1927, 1928 e 1941, oggi consultabili solo nei fondi di biblioteca – esalta alcune delle qualità dell’opera di La Sorsa che nei tre volumi pubblicati nel giro di 15 anni erano in ombra. In essa emergono la tenacia dell’autore nella sua lunga ricerca delle fonti, la passione dedicata alla raccolta delle testimonianze sul campo, la vastità dei suoi interessi; si intravede inoltre la vicinanza della sua metodologia di espo-sizione del materiale alle attitudini dei gruppi sociali tra i quali conduceva la sua ricerca, che così diventano protagonisti dell’indagine, più che oggetti di studio. Questo punto di partenza di Saverio La Sorsa coincide con il punto d’arrivo dell’antropologia riflessiva, che dopo un lungo dibattito sulla politica degli studi antropologici ha teorizzato e praticato una metodologia che consi-ste nel dare la parola direttamente alle persone tra le quali si conduce il lavoro etnografico10.

Per evidenziare, dunque, tali aspetti del lavoro di La Sorsa, abbiamo corre-dato la presente edizione di tre indici (dei narratori, dei raccoglitori, dei luoghi di provenienza) ricavati dalle informazioni che l’Autore non mancava di anno-tare in calce ad ogni racconto. L’Indice dei narratori mostra la capillarità delle sue fonti (per lo più dirette): ben 128 testimoni, di cui si fornisce il nome, la provenienza e in alcuni casi la professione. L’Indice dei raccoglitori annovera i nomi di 10 collaboratori nel lavoro di raccolta, oltre a Maria Conte e Riccardo Zagaria che pubblicarono, rispettivamente nel 1910 e nel 1913, due saggi che radunavano materiali folklorici di Cerignola e di Andria, a cui La Sorsa ha at-tinto per le testimonianze narrative. L’Indice dei luoghi di provenienza, infine, conta ben 90 località della Puglia raggiunte dall’alacre curiosità di La Sorsa, che non lesinava mezzi e tempo e sfruttava ogni occasione per raggiungere e intervistare chiunque si prestasse alla sua indagine. Il “popolo pugliese” del titolo non ci appare tanto un’entità astratta o un ambito etnografico, quanto una concreta, varia, animata congerie di persone incontrate direttamente, al-cune di esse parenti (come il padre, Francesco La Sorsa; la madre, Rachele Angione; lo zio, Domenico La Sorsa; la sorella), e se ne può anche intuire la frequentazione dal numero di “storie” attribuite. Incrociandone i dati, gli in-dici parlano, colmando qualcuna delle lacune che critici svogliati e supponenti

10 P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Torino, Bollati Boringhieri, 1992 (Pa-ris 1992). Cfr. anche L. Abu-Lughod, Sentimenti velati. Onore e poesia in una società beduina, Torino, Le Nuove Muse, 2007 (London-Berkeley 1986) e V. Crapanzano, Tuhami. Ritratto di un uomo del Marocco, Roma, Meltemi, 1995 (Chicago-London 1980).

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hanno imputato al lavoro di questo longevo e solerte “collezionista” della vita popolare pugliese.

Un’utile integrazione a questo volume è lo studio forse più significativo dedicato a La Sorsa: il già citato saggio del 1971 di Giovanni B. Bronzini – La demopsicologia di Saverio La Sorsa11 – che offre un eccellente bilancio critico dell’opera dello studioso. in esso Bronzini analizza la ricerca demologica del folklorista pugliese all’interno dei contesti storici nei quali l’Autore operò, e problematizza l’evoluzione del pensiero e del metodo di La Sorsa nell’arco del sessantennio durante il quale egli ha infaticabilmente raccolto e diffuso le testimonianze popolari. Inoltre lo studio di Bronzini solleva questioni im-portanti come le relazioni di La Sorsa con il potere politico, le sue posizioni rispetto ai dibattiti culturali più ampi, le sue coraggiose e controverse decisio-ni editoriali, come quella di trascrivere il dialetto senza utilizzare una scrittura fonetica complessa – sebbene conoscesse gli studi di fonetica –, preferendo una forma semplificata di trascrizione, forse meno precisa dal punto di vista scientifico (ad esempio i suoni vocalici neutrali indicati con “e” sono sovrab-bondanti), ma di certo più efficace per la diffusione delle conoscenze a tutti i livelli sociali, obiettivo conseguito con successo dall’Autore12.

I refusi tipografici delle edizioni originali sono stati nella presente edizione emendati; le anomalie dovute alle scelte editoriali (o alla distrazione) dell’Au-tore e le modifiche significative del testo originale sono segnalate, e a volte se ne fornisce in nota una spiegazione. Riguardo all’accentuazione vocalica nelle trascrizioni vernacolari, non sono stati stravolti i criteri illustrati dall’Autore nell’Introduzione 13, pur avendo rilevato numerose incongruenze e difformità; ci si è limitati più che altro a emendare le evidenti sciatterie del tipografo che La Sorsa, probabilmente, non si peritava di controllare. In un unico caso ci siamo permessi di intervenire sistematicamente, uniformando all’accento grave le numerose alternanze “ì/í ”, “ù/ú”, che non hanno una giustificazione fonetica (almeno secondo i criteri dichiarati dall’Autore).

Naturalmente si sono mantenute la ripartizione originaria della raccolta (7 serie così distribuite nei 3 volumi: vol. I, serie I-III; vol. II, serie IV-V; vol. III, serie VI-VII) e la numerazione romana delle narrazioni, che riprende da I all’interno di ciascuna serie. Per comodità di consultazione abbiamo corre-dato, tra parentesi quadre, i titoli di una numerazione araba continua (da 1 a 287), a cui tutti gli indici fanno riferimento.

11 Il testo può essere liberamente consultato online all’indirizzo www.paginasc.it/lasorsa, in-sieme a una esauriente Bibliografia degli scritti demologici di S. La Sorsa.

12 La Sorsa conosceva le analoghe scelte di Pitrè nella trascrizione dei dialetti siciliani: cfr. infra, S. La Sorsa, Introduzione, p. 10.

13 Ivi, p. 11.

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Le fiabe sono narrazioni fantastiche di fatti meravigliosi, straordinari, com-piuti da esseri sovranaturali, i quali agiscono per virtù magiche, e sono dotati di forze occulte e superiori a quelle umane, hanno potere misterioso, che il popolo non sa spiegare, ma ammette che sia grande ed irresistibile.

Le novelle o favole, comunemente dette in Puglia «storie», sono racconti, quasi sempre inventati, in cui è nascosto un principio morale, una massima, una verità qualsiasi; oppure sono fatti d’indole religiosa, satirica, burlesca, faceta, che non hanno dell’irreale o dell’impossibile, ma sono ritenuti come avveratisi nella vita, e perciò vengono creduti dal volgo, che si compiace di narrazioni favolose, bizzare e meravigliose, si sente rapito da tutto ciò che è straordinario, eccezionale e miracoloso.

Sia le fiabe che le novelle hanno di caratteristico la finzione, cioè sono inventate o per semplice diletto, o per colorire un’idea, per esporre una verità tratta dall’esperienza quotidiana, bandire una massima morale, che serva di ammaestramento agli uomini.

Sono tali e tante le grazie di cui si rivestono, che non c’è fanciullo il quale non goda nel sentirle raccontare, non desideri avidamente di nutrire il suo spi-rito infantile, e non formi di esse come il sostrato delle sue future conoscenze, la prima base del suo sapere.

Chi di noi non ha ascoltato, nelle lunghe serate d’inverno, dinanzi al bra-ciere, dalla vecchia nonna o dal caro nonno, di queste ingenue narrazioni, che favoleggiavano di principi e di regine, di perfide matrigne, e d’innocenti figliastre, di castelli incantati, e di fate invisibili, di draghi dormienti con gli occhi aperti, e di uccelli parlanti, di mostri divoratori di carne umana, e di

Introduzione*

di Saverio La Sorsa

* Si tratta dell’Introduzione al I volume delle Fiabe e novelle del popolo pugliese che La Sorsa pubblicò nel 1927 (Casini ed., Roma).

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megere terribili, di fontane dalle acque salutari, di nani misteriosi, di briganti sanguinari, di furbi matricolati, di fanciulli prodigi, di re bizzarri, di sciocchi fortunati, di diavoli burlati, e di mille altre fantasticherie?

Questi ricordi ci accompagnano per tutta la vita, perché sono legati alla nostra mente ancora vergine d’istruzione, ed al nostro cuore, tenero e buono; sono le prime impressioni di bello e di meraviglioso che proviamo, e ci resta-no scolpite indelebilmente nel pensiero. Una memoria così lieta, così serena, come quella della nostra fanciullezza, quando in ogni fata vedevamo un buon genio, in una farfalla dalle ali dorate ci pareva di scorgere la nostra buona ventura, in una stella, che più brillava nel firmamento, l’anima di una nostra sorellina morta innanzi tempo, non si sradica facilmente dal cuore; ed anche quando sappiamo che tutte quelle fantasticherie erano sogni e chimere, le con-serviamo come caro ricordo di un’epoca serena e felice, come rimembranza di un periodo della nostra esistenza, quando tutto ci pareva sorriso, gioia, luce, e non conoscevamo le amarezze della vita quotidiana, ignoravamo gl’inganni, le ipocrisie, le delusioni, le malvagità della società umana.

Giambattista Vico disse che «nelle favole poetiche – e le novelle sono tali – fatte da tutto un popolo havvi maggiore verità che nel racconto storico scritto da un uomo». Il Pitrè, che in questo genere di studi è grande maestro, ritiene che «le credenze, i sentimenti morali, i costumi, il carattere della civiltà, a cui queste novelle appartengono, si scoprono attraverso a tante narrazioni, le quali serbano l’impronta dell’originalità popolare. Quindi è tutta una vita anti-chissima, con i suoi pensieri, i suoi desideri, il suo ideale, le sue mille illusioni. Il cuore vi ha lo sfogo dei suoi sentimenti intimi; la fantasia vi si manifesta in tutte le sue imagini di bello o di brutto, di piccolo o di grande, di basso o di sublime, di buono o di cattivo. L’anima non sofisticata dal velo, vi apparisce qual è, quale fu, senza orpelli, senza secrete intelligenze, senza riserve. La loro forma è semplice, schietta, ma espressiva, efficace, che dà luce e colorito alle cose che non l’hanno. Se pecca di monotonia nel ricorrere delle stesse circo-stanze, se si ripete per frasi e per voci, riconosciamo anche in questo una ca-ratteristica della tradizione, come quella che procede per formule consacrate, che nessuno si attenta mai di violare».

Uno dei quesiti che si affaccia alla nostra mente è quello di sapere donde traggano origine queste novelle; ora nulla è più pericoloso per gli studi, quanto il fatto della patria, del battesimo e della paternità delle tradizioni.

È un principio ormai ammesso nella scienza moderna che prima che un mito si formasse, vi dovettero essere degli elementi detti mitici, presi dai fenomeni naturali che circondano gli uomini, dai quali elementi scaturì il mito o la leggenda. Il mito passò allo stato di leggenda, e da leggenda diventò novella. Le novelle quindi sono l’ultima trasformazione della favola, di cui gli elementi mitici sono l’embrione. La differenza tra miti e novelle è principalmente questa: i miti cessarono dalla loro vita attiva, le novelle vivono tuttora d’una

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vita rigogliosa e gagliarda; gli uni celebrano gli dei, le altre raccontano azioni umane.

Il Benfey e Max Müller cercano nei miti antichi dell’India le fonti di tali novelle. Secondo gli studi di questi due grandi mitografi, si può affermare che le tradizioni in generale provengano più o meno direttamente dall’India.

Molti elementi stanno a comprovare l’origine orientale di queste ingenue narrazioni; il predominare della fantasia, la tendenza allo spettacoloso ed allo stravagante, l’accenno a palazzi incantati, a fontane magiche, ad antri miste-riosi, a giganti mostruosi, a serpenti voraci, a edifizi ricchi di pietre preziose, a giardini deliziosi, sono prove evidenti che la maggior parte di questo vasto e vario materiale fantastico proviene dai paesi d’oriente, pieni di fascino e d’in-canti. Chi non vede poi il mondo persiano, indiano in quelle fate, che appaio-no sotto forma di spiriti benefici, in quegli uccelli, che raccontano novelle, in quei mostri, che di fronte ad esseri umani o ad animali rappresentano l’eterna lotta del male col bene, delle tenebre con la luce?

Le varianti sono molte, perché cambiano secondo la fantasia del popolo che accoglie tali racconti, ma il fondo rimane lo stesso; i protagonisti sono sempre lì a reggere le fila del dramma; e pur con le aggiunte e amplificazio-ni si riscontra facilmente il tipo primitivo. La tradizione è unica, ma assume forme molteplici e varie, in ogni paese essa diventa paesana, dimenticando la primitiva origine e la patria antica; ogni narratore dotto o indotto la ripete come avvenuta nel suo paese, e trattandosi di fatti verosimili, crede che siano realmente accaduti in persona di Tizio o di Caio.

Quindi possiamo accogliere l’opinione di coloro, i quali ritengono essere le fiabe e le novelle documenti della parentela, che esiste fra le razze indo eu-ropee, e tra i diversi rampolli di esse; documenti che tanti secoli, tanti popoli e generazioni non hanno finora distrutto ed attenuato, ma che anzi il volger dei tempi ha reso più solidi.

«Fatto mirabile cotesto della storia dell’umanità – osserva il Pitrè – che mentre popoli e nazioni intere son quasi del tutto scomparse, e nuove nazio-ni e nuovi popoli sono cresciuti alla civiltà, e le fredde ali del tempo hanno perduto persino la memoria delle geste più clamorose, queste novelle infantili vivono a testimoniare un’antichità fuori di ogni calcolo remota».

C’è chi crede che tante tradizioni venute a noi da tempi e popoli così remo-ti, abbiano un germe comune nelle genti ariane prima della loro emigrazione; altri invece le riguardano come fantasticherie orientali introdotte in Europa da pellegrini, emissari, crociati, ovvero dagli arabi, che governarono la Spagna, e dai tartari, che ebbero lungo dominio in Russia.

La prima ipotesi sembra più probabile, perché così si spiega l’esistenza di talune novelle in ogni parte dell’Europa e dell’Asia; quando poi i popoli si divisero, ciascuno prese le tradizioni esistenti, e portandole in climi differenti, dette loro forme diverse fino a crearne delle nuove o alquanto diverse dalle

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originali. Tuttavia non è da escludersi l’altra ipotesi, in quanto che alcune fia-be e novelle non si ebbero attraverso la Grecia, che fu l’emporio favolistico dell’antica civiltà, ma furono introdotte in Europa dalle tradizioni orali, porta-te dagli arabi, dai pellegrini, dai mercanti e dai crociati.

Una prova dell’antichità delle novelle risulta dalla natura di esse, le quali sono produzione di popoli primitivi. «Nella sua infanzia – afferma giustamen-te il Pitrè – un popolo non racconta, favoleggia; il racconto nasce nella civiltà, quando cioè vi hanno fatti da ricordare. La novella, la favola sono portati di natura ancora vergine in vergine età. Mancando un passato, si crea, si dà vita ad esseri immaginari, si danno loro passioni ed istinti, che trovano riscontro nelle passioni e negl’istinti del popolo, che ebbe bisogno di crearsi quel pas-sato».

Ma accanto a queste fiabe e novelle d’antichissima origine, ve ne sono altre create nei tempi medievali ed anche moderni da persone di una certa cultura, le quali ebbero lo scopo di dilettare, o di esporre una verità morale, di acca-rezzare la fantasia dei lettori, o d’insegnare una massima; oppure furono la narrazione di fatti ovvii, comuni, che però avevano del raro e del caratteristico. Certe burle fatte a persone alquanto idiote, scherzi più o meno volgari rivolti a sciocchi o vanitosi, tiri a qualche frate maligno o a qualche marito geloso, racconti di atti generosi e di prodezze, di avventure strabilianti e di scaltri infingimenti, di abili truffe o d’ignobili tradimenti, di azioni generose o di puerili scempiaggini sono creazioni relativamente moderne, che riproducono condizioni di vita locale, ambienti paesani, stati di animo e situazioni ignote agli antichi.

È notevole però il fatto che fra le tradizioni le più originali sono quelle dei fanciulli; le fiabe, le storielle, le novelline conservano quella freschezza e quel candore che è caratteristica dei bimbi; l’anima infantile non sa, o non si attenta di modificare le tradizioni, le quali passano di generazione in generazione inal-terate, semplici ed ingenue, come si dicevano nei tempi remoti.

Il contenuto delle novelle è vario, vago e dilettevole; trovi delle novelle gustose, in cui senti tutta l’anima del popolo, semplice e buona; altre in cui intravedi la sua vita sana e gaia, i suoi affetti ingenui, le sue passioni generose; in altre invece riscontri la cattiveria dell’animo umano, la degradazione dei costumi, la malvagità di certi individui, la malignità di esseri spregevoli ed abbietti. Sono storie di uomini e di bimbi, di donne e di vecchi, di popolani e di principi, di persone che sentono il dolore e la gioia, la soddisfazione di operare il bene e l’abborrimento del male compiuto, che sono dominate da passioni brutali, o sono vittime della loro stessa ingenuità; e come trovi le fiabe incantevoli della fanciullezza, così leggi le facezie e le scaltrezze dell’età adulta. Gli attori delle novelle sono umani e sovrumani, reali e imaginari, uomini, animali, fate, draghi, megere, giganti, demoni, santi; ma tanto gli uni, quanto gli altri sono in fondo personificazioni fantastiche. Tra tutti gli uomini sono i

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principi, le reginette, i fratelli minori, le sorelle più piccole, gli eroi e i protago-nisti. L’ultimo figlio è sempre il più intelligente, scaltro, generoso e coraggioso; egli scende nei sotterranei profondi, cavalca aquile, entra in palazzi incantati, libera prigionieri, fa rivivere morti, rapisce oggetti preziosi, vede, indovina e riesce a tutto.

Anche l’ultima sorella è quasi sempre eroina, che compie prodigi d’ogni ge-nere, si sacrifica per il padre, rimedia agli errori e alle leggerezze delle sorelle, si sottopone ad ogni sacrifizio per riuscire all’intento, subisce prove terribili, e spesso è pagata d’ingratitudine, tradita dalle sorelle invidiose, abbandonata da chi aveva salvato.

Accanto ai giovani eroi si vede la miseria dei più bassi mortali, nelle sorelle maggiori, nelle matrigne, nelle suocere, nelle cognate, negli amici finti, nei vili calunniatori, negli abbietti sfruttatori, nei maligni e invidiosi. Quando non possono ostacolare il bene, cercano di scemarne gli effetti; invece di consiglia-re il bene, suggeriscono il male; mutano i figli in cagnolini, rubano oggetti ac-quistati dopo mille peripezie e pericoli, suggeriscono atti dannosi, carpiscono segreti, creano tranelli e ostilità d’ogni genere.

Tanti insegnamenti si possono trarre da queste fiabe e novelle; in esse si dimostra come l’innocenza trionfi dopo mille contrasti, come la violenza non sempre soffochi la libertà, come la giustizia divina presto o tardi punisca i per-versi, come l’onestà possa conservarsi anche attraverso alle più dure prove di corruzione, come il coraggio, l’arditezza, l’intelligenza, l’accorgimento offrano all’uomo il mezzo di elevarsi e di raggiungere mete inaccessibili; come Dio, Gesù, la Vergine, i Santi proteggano i deboli e gli oppressi dalle insidie dei demoni e dalle birbanterie degli uomini; come il diavolo sia sempre burlato dalle donne e spesso dagli uomini. Alcune fiabe però hanno carattere pauroso, ed alimentano i pregiudizi e le superstizioni che ancora dominano in mezzo al popolo.

Dapprima le novelle furono raccolte per semplice diletto o per passatempo di liete brigate, o per appagare lo spirito mobilissimo e avido di novità dei fan-ciulli. I primi raccoglitori di racconti di tal guisa furono due italiani: Giovanni Francesco Straparola di Caravaggio con le Piacenti notti, e Gian Battista Basile di Napoli col Pentamerone, ai nostri giorni rimesso in valore da Benedetto Croce. A questi seguirono altri saggi fra il ’500 e il ’700, che però non ebbero scopo letterario e tanto meno scientifico, perché non se n’era compresa l’im-portanza.

Ma quando i fratelli Grimm misero in evidenza la grande utilità che tali narrazioni hanno per la storia della civiltà, e sopratutto della mitologia nei tempi antichi, allora divennero campo di studi importanti e di feconde ri-cerche. Dalla Francia all’Olanda, dalla Germania alla Russia, dall’Inghilterra alla Spagna vi fu una larga schiera di scrittori, che misero in luce un mondo quasi totalmente sconosciuto, e rivelarono, non ai soli fanciulli, un campo

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vastissimo, dove c’era da mietere abbondanti messi, e da raccogliere frutti insperati.

L’Italia non fu seconda alle altre nazioni nel raccogliere questo patrimonio fiabesco; anzi, come in tante altre manifestazioni dell’ingegno, così in questa dette uno dei più poderosi ed originali contributi. Se è vero che i primi racco-glitori di tali tradizioni furono stranieri, il Widter ed il Wolf per il Veneto, il Knust a Livorno, la Gonzembach per le provincie di Messina e di Catania, gli italiani che ne seguirono l’esempio li superarono nella vastità della raccolta, nella genialità dell’ordinamento, nella sagacia della critica. Il De Gubernatis, Vittorio Imbriani, Temistocle Gradi hanno raccolto le novelle della Toscana e della Lombardia; la Coronelli Berti raccolse le fiabe e le novelle dell’Emilia, Giuseppe Pitrè e Salomone Marino sfruttarono il fecondo terreno della Sici-lia, il Bernoni indagò le tradizioni del Veneto, il Nigra quelle del Piemonte, Raffaele Corso ed il barone Lombardi Satriani quelle della Calabria, il Pansa quelle dell’Abruzzo, Gaetano Amalfi quelle del Napoletano, ecc.

L’importanza di questi studi di demopsicologia in Puglia non è stata com-presa, o è stata fraintesa; perciò non si sono avuti cultori appassionati e co-scienziosi, ma, all’infuori di qualche modesto saggio dato dalla Conte nelle tradizioni cerignolane1, e dallo Zagaria, che se n’è occupato fugacemente nel Folklore andriese2, non si ha che qualche favola o racconto, apparso su questo o quel giornale, ormai introvabile. È mancato finora il raccoglitore assiduo e tenace, paziente e convinto, che avesse allargato lo sguardo ad una vasta contrada, abbracciato una larga zona, rilevato il carattere particolare della no-vellistica di tutta la regione. Ciò è derivato sia dalla poca attrattiva che offriva tal genere d’indagini, sia dalle enormi difficoltà che presentano.

Io, che da oltre un quindicennio cerco di studiare l’indole, i costumi, il pensiero, la vita delle nostre moltitudini, mi convinsi dell’importanza che ha questo vasto e vario patrimonio popolare, e mi accinsi all’improba fatica di raccoglierlo, controllarlo, coordinarlo ed ordinarlo. A chi non è pratico di tali studi, parrà cosa da nulla l’aver messo insieme quattro o cinque cento racconti popolari; ma forse nessuna ricerca richiede tanta fatica, acume e pazienza, si presenta così difficile e penosa, come una raccolta di fiabe e di novelle; se non mi avesse sostenuto il caldo amore che mi portava a tali studi, vi avrei rinun-ziato, appena ne intravidi le difficoltà.

Bisogna vincere la ritrosia di chi narra, ricordare tutti i minuti particola-ri del racconto per fermarli sulla carta, intuire le lacune e le manchevolezze della narrazione, leggere negli occhi e nel sorriso di chi parla, scegliere i fiori

1 Maria Conte, Tradizioni popolari di Cerignola, Tip. Scienza e Diletto, Cerignola 1910 (rist. anast. Forni, Bologna 1986).

2 Riccardo Zagaria, Folklore andriese con monumenti del dialetto di Andria, Forni, Bologna 1970 (rist. anast. della I ed., Martina Franca 1913).

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tra mille sterpi ed erbacce, tendere l’orecchio alle voci che salgono schiette, rozze, plebee, dalle piazze, dai trivi, dalle casupole campestri, dalle banchine; controllare ed ordinare tanta varietà e moltiplicità di racconti.

Un canto, un proverbio, una poesia, un motto, un indovinello si colgono facilmente sulla bocca del popolo; un’usanza, un rito, una consuetudine si osserva e si descrive; ma un racconto lungo, circostanziato, ricco di particolari minuti, i quali danno la caratteristica del fatto, ed in una sfumatura, in un epi-sodio secondario trovano la chiave per sciogliere una narrazione, non è facile raccoglierlo.

Vi sono delle novelle assai lunghe, che richiedono grande sforzo per ascol-tarle esattamente; ci sono dei narratori ignoranti e grossolani, che ti fanno disperare per capirli; altri sciocchi o trasandati; altri arruffoni e confusionari; i fanciulli, se sono, in generale, ingenui, semplici e spontanei, hanno spesso il difetto di essere monchi o puerili e disordinati; i vecchi, anche se non sono riottosi nel narrare, non sempre ricordano bene tutte le circostanze che ac-compagnano un fatto, e sovente da un argomento passano ad un altro. Ed il raccoglitore deve aver la pazienza di tornare a sentire, obbiettare, mettere sulla buona via, intuire dove c’è l’errore, confrontare, e trarre la dizione più vicina al vero.

La raccolta che presento è dovuta in parte a mie reminiscenze infantili, in parte a racconti uditi dai genitori o da altre persone di famiglia; ma la maggio-ranza di queste «storie» l’ho raccolta nei diversi luoghi di Puglia per mezzo di amici e scolari, i quali, da me ammaestrati, si sono recati nelle campagne o nei borghi, hanno interrogato contadini e massaie, fanciulli e gente dell’umile volgo, e dalla loro viva voce hanno attinto ciò che hanno scritto. Qualche valoroso insegnante mi ha coadiuvato nella difficile impresa, assegnando ai fanciulli e alle bimbe delle scuole elementari, come componimento, la narra-zione di una fiaba o novella udita dal babbo o dalla mamma; e devo segnalare particolarmente i nomi di Giovanni Bufano e di Enrico Castellaneta di Gioia, di Epifani Francesco, Calò Rosa di Taranto, di Francesco Schettini di Castel-lana, Maria Capotorti di Terlizzi, Giuseppe De Santis da Bisceglie, Rodolfo Santollino di Foggia, Buonfiglio Luisa di Manfredonia, Michelantonio Fino di Rodi Garganico, Angela Basta Mastropasqua da Canosa, Maria De Vito di Carovigno.

Uno speciale ringraziamento devo agl’Ispettori Enrico Bergamasco di Ba-ri, Renato Moro di Taranto, Francesco Gasso di Foggia, Raffaele Valletta di Lecce; alla Prof. Luigia Quintieri, Direttrice delle Scuole primarie di Taranto, ai Direttori comm. Pietro Montalti di Bari, F. Iavicoli ed Enrico Masciullo di Lecce, Nicola Gentile da Terlizzi, Domenico De Palo di Molfetta, Francesco De Palo di Bitonto, Alessandro D’Alessandro di Putignano, Acquaro Vincen-zo di Mesagne, Nicola Pitta di Serra Capriola, Giuseppe Grippa di Massafra, Giuseppe Coniglio di Gravina, Leonardo Centonze di Manfredonia, Anna

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Gaggiano di San Giorgio, Settimio Quarta di Trepuzzi, Rocco Porzia di Gru-mo, Montrone Angelo di Martina; alla Professoressa Vincenzina Giancaspro di Fasano, al Direttore Francesco Cucci del Ginnasio di Ostuni, al Prof. Fer-ruccio Rizzelli del Ginnasio di Maglie, i quali tutti, comprendendo l’alta fina-lità che mi moveva alla compilazione di sì arduo lavoro, vi hanno cooperato con entusiasmo, o raccogliendo dalla viva voce dei popolani racconti e fiabe, ovvero incitando gl’insegnanti di loro dipendenza ad assegnare ai propri sco-lari la narrazione di qualche novella o tradizione.

Fra i discepoli più zelanti ed entusiasti in questo lavoro, non sempre piano e facile, ricordo con gratitudine la signorina Maria Pulzone da Lecce, Cocola Antonio di Cerignola, Domenico Mastrangelo di San Michele, Elisa Oliva di Putignano, Vincenzo Lasorsa di Giovinazzo, Squeo Sergio e Damiano Miner-vini di Molfetta, Urso Michele di Ruvo.

Tutti questi miei collaboratori hanno interrogato persone prive d’istruzio-ne, per avere racconti genuini e semplici, scevri d’orpello e di ogni specie d’abbellimento. Perciò ho conservata la forma rozza dei racconti così come sono stati narrati, perché il loro pregio non sta nella venustà della forma, ma nella bontà del contenuto.

Solo qua e là, per chiarire meglio qualche punto che sembrava incerto, mi sono permesso di ritoccare qualche frase, o di correggere espressioni oscure, che forse non riproducevano esattamente il pensiero di chi le aveva dette.

La presente raccolta comprende circa cinquecento tradizioni popolari, che sono divise in XII serie3: Ia abbraccia favole ed apologhi; la IIa fiabe e racconti d’indole morale; la IIIa narrazioni di fatti riflettenti affetti o rapporti fami-gliari; la IVa narra avvenimenti fantastici ed imaginari; la Va tratta di fate e d’incantesimi; la VIa di maghe e di streghe; la VIIa di fatti a fondo religioso; la VIIIa di novelle che hanno per soggetto il diavolo; la IXa espone burle e beffe; la Xa scherzi e facezie; la XIa narra di fatuaggini o capestrerie; la XIIa illustra aneddoti, proverbi e modi di dire.

È difficile trovare un limite preciso fra una serie e l’altra; varie tradizioni di una serie avrebbero potuto mettersi insieme con altre, con le quali hanno iden-tico o analogo il fondo, sebbene lo svolgimento sia differente, ma ho creduto di assegnare ad esse quel dato posto per un insieme di elementi, che mi hanno persuaso della bontà di tale assegnazione.

L’ordine dei racconti in ogni serie mi è stato suggerito dal concetto che prevaleva nelle singole tradizioni, non meno che dall’eroe e dall’eroina, o dal protagonista, lavoro psicologico e critico che mi è costato lunga e penosa fati-ca. Chi legge una novella o una fiaba, è come se ne leggesse dieci, tanto esse si somigliano tra loro; i tipi fondamentali sono assai scarsi, invece i tipi seconda-

3 In realtà il programma qui dichiarato fu solo in parte completato: la raccolta comprende 287 narrazioni e si ferma alle prime 7 sezioni.

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ri, le circostanze e le varianti sono numerose. Io ho raccolto solo le novelle che avevano qualche caratteristica propria, ed ho trascurate quelle che avevano troppe somiglianze tra loro.

Per quanto numerose queste novelle, non può dirsi che il campo sia mie-tuto; occorrerebbe percorrere tutta la regione da un capo all’altro, fermarsi in ogni angolo della vasta pianura, frugare sul Gargano e nelle borgate delle Murge, interrogare pescatori e terrazzani, lavoro improbo e arduo, che richie-de tempo, fatica e pazienza maggiori di quanto parrebbe a prima vista.

Tuttavia posso affermare con orgoglio che questa è la prima raccolta in cui ogni contrada di Puglia è rappresentata, in una prosa veramente popolare, lontana tanto dalle pretenzioni letterarie, come dalla sguaiataggine plebea. La genuina parlata dei diversi Comuni è ritratta, se non come suona in bocca ai parlatori, come è possibile a chi può disporre di segni grafici ordinari.

L’indicazione del paese non vuole dire che il racconto esista solo in quel dato luogo, ma che esso, pur essendo diffuso in varie località, fu raccolto in detto posto.

Assai arduo si è presentato il problema della trascrizione di questi racconti. Vi è una scuola di filologi che, cercando di rendere esatto il suono delle parole, vorrebbe adoperare segni speciali, adatti ad esprimere qualunque suono dia-lettale e vernacolo. Questo metodo ha certamente i suoi pregi, ma sono supe-rati dai difetti per le conseguenze che esso produce nella pratica. Chiunque ha una certa dimestichezza di queste discipline, sa che molti e svariati sono i suo-ni, e che qualunque segno grafico ordinario riesce sempre inefficace a renderli. I dittonghi, i jati, le attenuazioni, i rafforzamenti, le aspirazioni, le atonie sono tali e tante, che è difficile ritrarre la parola con la esatta pronunzia popolare.

Dice a questo riguardo il Pitrè, la cui autorevole opinione ho seguito piena-mente, che se si dovesse applicare questo criterio, nessuno comprenderebbe più una scrittura piena di parole sformate, smozzate e guaste. «Donde – egli aggiunge – come conseguenza necessaria, una fonte inesauribile di errori per ragione delle etimologie, che verrebbero a fondarsi su basi malferme e poco precise».

Né è da preferirsi il metodo esclusivamente grammaticale, che vuol ren-dere la parola qual è nei libri, perché in tal modo la scienza non s’avanzerà di un passo verso la filologia, la quale deve conoscere tutte le differenze, che corrono tra il dialetto scritto e il dialetto parlato, tra un vernacolo e l’altro.

Dopo aver lungamente meditato, ho creduto di imitare il metodo tenuto dal grande Maestro siciliano, cioè ho adottato un metodo misto, che facili-tando quanto più la intelligenza delle parole con una grafia assai stretta alla fonica, rendesse nel miglior modo la caratteristica delle parlate varie in mezzo al dialetto comune.

In tal modo si raggiungeva lo scopo di fornire nuovi riscontri agli studi di novellistica, e di offrire testi popolari a chi cerca i dialetti non nei libri dei

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letterati, ma nella bocca del popolo, che è vero maestro di lingua per chi vuol parlarla.

La notevole differenza che si riscontra talora nella grafia di uno stesso ver-nacolo, è prova della instabilità di pronunzia e della mancanza di leggi fono-grafiche; un ceto di persone, in uno stesso paese, pronunzia le parole in un modo, un altro in un altro; vi sono nelle parlate certi suoni e sfumature, che mettono in costernazione quanti si studiano di volerli cogliere. Non si tratta di un dialetto per cui vocabolaristi e scrittori hanno stabilito certe norme, ma delle varietà di esso, le quali richiedono pratica ed esperienza che non si ha tempo e modo di acquistare. Si aggiungano le oscillazioni di pronunzia, le varianti dei suoni a seconda che una parola sia nel corpo del discorso o in fine, sia legata ad un’altra o separata, la perplessità, la frequente labilità di certe forme, e si comprenderà la difficoltà di scrivere non solo le parlate vernacole, ma anche le sottoparlate4.

Per facilitare la lettura alle persone, cui non sono famigliari le pronunzie dei dialetti pugliesi, ho creduto opportuno di accentuare le parole che sono meno comuni, o si allontanano troppo dalla grafia italiana, per determinare con esattezza il loro suono; così pure ho messo l’accento su tutte le «e» che non sono mute; ho fatto eccezione per le parole dei dialetti leccesi, nelle quali la vocale «e» è sempre pronunziata.

La traduzione che segue ad ogni fiaba o novella è quasi sempre «ad litte-ram» per mantenere la freschezza, la semplicità e la spontaneità dei racconti popolari; essa serve a farli comprendere dalle persone non troppo esperte dei nostri dialetti, e a quelle d’ogni regione d’Italia; le poche note mirano o a chiarire qualche punto oscuro della narrazione, o a riferire qualche riscontro.

Non mancherà il facile critico di rilevare che sarebbe stato bene corredare ogni tradizione di confronti e di riscontri con questa o quella raccolta, con le fiabe e le novelle delle diverse regioni d’Italia, e magari dell’estero; anche a me sarebbe piaciuto fare l’erudito, ma l’impresa era ardua se non impossibile, in primo luogo perché un lavoro di tal genere, per quanto paziente, scrupoloso, minuzioso e faticosissimo, non riesce mai completo ed esauriente, trattandosi di una materia vasta, varia e inesauribile, su cui nessuno può dire mai l’ultima parola; e poi perché mi mancavano il tempo, i libri, e l’opportunità di tener dietro a tutto quello che nelle diverse parti d’Italia e d’Europa si è scritto su tale argomento.

Il mio principale scopo è stato quello di raccogliere quanto di meglio offra la Puglia in fatto di novellistica, di controllarlo e d’ordinarlo, per far conoscere

4 Sarò grato a quegli studiosi che, riscontrando delle inesattezze di pronunzia o di accen-tuazione nelle novelle scritte nei dialetti dei loro paesi, volessero compiacersi di farmele notare, affinché io possa evitarle in eventuali ristampe della presente raccolta [N.d.A.].

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al pubblico uno dei prodotti caratteristici del suo spirito, una delle manifesta-zioni più genuine della sua intelligenza.

Il lettore troverà nella presente raccolta molte fiabe, racconti e novelle, che corrono in altre regioni d’Italia, e magari d’Europa; rileverà facilmente che alcune tradizioni collimano con quelle lette in altri libri; ma che perciò, forse non le conoscono anche i pugliesi? Forse il nostro popolo non ne fa pane del suo spirito, non le narra e tramanda di generazione in generazione? Le novelle non conoscono barriere, e passano facilmente da una contrada all’altra per i mille rapporti che intercedono tra loro; quindi è difficile dire quali siano nate in un luogo e quali in un altro.

Ma accanto alle tradizioni comuni, troverà quelle originali, nuove, create nella nostra terra, le quali rispecchiano la nostra indole, i nostri ambienti, il carattere del nostro popolo.

Specialmente le favole, le novelle morali, le burle, le facezie, le capestraggi-ni hanno un sapore prettamente paesano, riproducono lo spirito ed il pensiero delle nostre plebi, che sono vivaci, argute, briose, amanti degli scherzi e dei lazzi.

Un campo così vasto e complesso non può essere mietuto da una sola per-sona; a me basta il conforto di aver compiuto opera, per quanto possibile, completa ed organica, e sarò lieto se altri, seguendo le mie tracce, continuerà ad esplorare un terreno ancora sfruttabile. Il mio più fervido augurio è quello di sapere che altri più competenti e degni di me si accingano a questi studi, che dai presuntuosi e dagl’ignoranti non sono tenuti in debito conto.

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I. La volpe a cavadde o lupe [1][Narrata da Nardulli Nicola di Gioia del Colle]

Nu lupe e na volpe facèrene na sucetà tra jóre. Cammenànne vedèrne na casèdde, ca prevedèrne na prevedènze de fermagge. Trasèrne e mangiárne tanta recotte e tante fermagge. Au remore se descetò u patrune, ca pegghiò nu bastone e scennì au piantèrrène, addo stave la despènde. La volpe fu svèlte, e se ne fescì da nu buche; u lupe remanì inde, e avì tanta botte de bastone.

La volpe ca stave da fore nu poche lentane, redève a sènte come gredava u cumbagne, e sperave ci sa merève pe le mazzate; quanne u vedì d’assì tutte nzanguenate, pegghjò pagure ca se velèsse vendecà cu jédde, ca nudde avève fatte. Allore fengèje de chjange, e se mette ngape nu picche de recotte, c’avève pertate quann’ére asciute da la despènde, e cumenzò a gredà: «Oh! Come me dole la cape!»

U lupe, pure avénne delore, avìe chembassione, e s’avvecenò decénne: «Cè cose jè, cummare?». «Non vide, – decì la volpe – cudde bregande mi è spacca-te la cape, e m’ha fatte assì u cervidde. Ie non me pozze chjù move pi delure».

U lupe n’avìe pietá, e la pregò de mèttese sop’a la spadde pe pertalle da nu mìdeche. La volpe tutt’allégre se mettì a cantàje: «Nina nonna, la robbe malate porte u sane». U lupe sentì, e nan capì u segnefecate de quidde parole, e le re-spunnì: «Cè vu disce?». «Nudde, chembare, ténghe na frèva forte, e me fasce male alla cape». Acchessì chèndenuò nu lunghe cammine u lupe nzanguenate a pertà la volpe sane, bélle e allègre.

[1] La volpe a cavallo al lupo

Un lupo ed una volpe fecero società fra loro. Lungo il cammino videro una ca-sina, da cui proveniva un bell’odore di formaggio. Vi entrarono e mangiarono molta ricotta e cacio. Al rumore si svegliò il padrone, il quale prese una mazza, e scese nel pianterreno, dove era la dispensa. La volpe fu svelta a fuggire da un buco, ma il lupo rimase dentro, ed ebbe botte da orbi.

La volpe, che era fuori poco distante, godeva a sentire gli strilli del compa-gno, e sperava che morisse alle percosse; quando lo vide uscire tutto pesto ed insanguinato, temé che volesse vendicarsi con lei del tiro fattogli. Allora finse di piangere, e messa sul capo un po’ di ricotta, che aveva portato nella fuga dalla dispensa, cominciò a gridare: «Ahi come mi duole la testa!».

Il lupo, benché sofferente, n’ebbe compassione e le si avvicinò dicendole: «Che hai, comare?».

«Non vedi – disse ella – che quell’assassino mi ha spaccato la testa e mi ha cavato fuori il cervello? Io non ne posso più, muoio dal dolore!». Il lupo n’ebbe pietà e la pregò di montare sulle sue spalle per portarla da un medico. La vogongolante di gioia si diè a canta: «Ninna nanna; il rotto porta il sano».

Il lupo la sentì, e non comprendendo il significato di quelle parole, le do-

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mandò: «Che cosa dici?». «Niente, compare, ho una gran febbre che mi fa delirare». Così continuò per lungo cammino, il lupo sanguinante e pesto, a portare la volpe, che era sana, fresca ed allegra.

II. U lìupe e la vôlpe [2][Narrata da Fanelli Angela di Castellana]

Ière na vòlte nu lìupe i na vôlpe ca stàvene nzìeme. Lu lìupe tutte i dòje de-ciàjve alla vôlpe: «E nan me jácchje da mangiò manghe a tàje!». A vôlpe disse: «Na fémene à fritte tanta fecazze. Ci vu, va t’i mange». «Sòine», disse u lìupe, i sciòje.

Dâppe ca s’i mangióje, se n’avvertóje a patràune, i nge détte mazzôte. Quanne sciòje alla vôlpe, s’inquietóje cu dòjsce: «À viste! M’ànne date tan-ta mazzôte». L’alta dòje disse u stesse; a vôlpe p’a paghìure disse: «È viste nu vellône ca tène dò agnìelle; ci vu, vat’i mange» i se ne scióje. Scióje addò stévene i dò agnìelle, agguantòje u pròjme, i se ne fuciòje; l’agnìelle se mettóje a gredô; se n’avvertóje u patrìune, e se mettòje de pôste.

Appéne u lìupe scióje pe mangiarse l’alte, u patrìune nge détte na bella mazziôte. U lìupe gredànne gredànne se ne scióje alla vôlpe decénne: «M’à mannóte a na vanne, addò m’ére a fô muróje».

All’alta dòje u lìupe arréte disse alla vôlpe: «Ma ci nan me jacchje da man-giò, te mange a tòje». A vôlpe respunnòje: «È viste nu pettiôre, ca av’acciòjse nu puérche, i l’av’appòjse int’a cantójne». Ma u lìupe spaventôte nan ge valze sciòje sìule; disse a la vôlpe: «Scióme nzìeme».

Arrevôt’ alla porte d’a cantójne, se sckaffèrene afforze ddà inte da nu carvutte stritte, purcióje a vénte stàje vacande. U lìupe accume arrevòje, se mettòje a mangiò, sénza penzò chjù a nudde; ma la vôlpe ogni tande sciàje a fô a prova pe putàje passò da int’u carvutte; i u lìupe addumannòje: «Purciàje ogni tande jìsse?». Chédde disse: «Voche a vedàje ancore véne u patrìune».

U lìupe s’ère fatte na vénte, ca nan putáje manche cammenè, ma nan alzàje ancore u musse. Tutte na volte sentóie d’apróje a porte d’a cantòjne, i jére u patrìune.

A vôlpe s’a dètt’o péte; ma u lìupe scióje p’assirasìnne, i nan nge capáje. Assóje da fore sòl’a côpe. U patrìune cu na mazze tante nge ne détte, ca u fàisce muróje.

A vôlpe vide ca lu lìupe nan nge turnàje chjù, e disse: «Finalménde me so libéràjte da cudde puérche!».

Appéne u lìupe scióje pe mangiarse l’alte, u patrìune nge détte na bella mazziôte. U lìupe gredànne gredànne se ne scióje alla vôlpe decénne: «M’à mannóte a na vanne, addò m’ére a fô muróje».

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[2] Il lupo e la volpe

Un lupo ed una volpe vivevano insieme. Egli un giorno disse alla compagna: «Come sei sciocca! Non sei capace di procurar il cibo nemmeno per te!». La volpe rispose: «Una donna ha preparato delle focacce; se le desideri, valle a mangiare». Esso non se lo fece ripetere, e recatosi alla casa di quella donna, divorò le focacce; però fu sorpreso e conciato per le feste.

Tornato dalla volpe la rimproverò d’avergli dato un consiglio così perico-loso.

Il giorno seguente il ladrone fece la stessa lagnanza, ed essa gli disse che aveva visto un contadino con due agnelli.

Egli andò al luogo dove stavano gli agnelli, e mentre era per afferrarne uno, questo se ne scappò belando. Se ne accorse il padrone e si mise alla posta; ap-pena il malvagio ritentò l’impresa, quegli gli assestò una forte mazzata.

Il lupo ululando se ne tornò alla compagna, alla quale riferì quanto gli era accaduto. Il giorno dopo la minacciò di morte, se non gli avesse procurato del mangiare. Essa gli disse che aveva visto un beccaio, il quale aveva ucciso un porco, e l’aveva appeso nella bottega.

Il lupo, scottato per quanto gli era capitato nei giorni precedenti, non volle andar da solo alla nuova impresa, ma pregò l’amica di accompagnarlo. S’in-camminarono insieme, e giunti dinanzi alla porta della beccheria, s’intrufola-rono per un buco, che era situato nella parte inferiore. L’entrata fu agevole, perché tutti due erano a stomaco vuoto. Il lupo, affamato, a vedere quel grosso maiale, non pensò ad altro che a farsene una scorpacciata; mentre la volpe, che pur mangiava, ogni tanto provava se le era possibile passare per il gattaiuolo. Il compagno le domandò perché facesse ciò, ed ella rispose astutamente che andava a spiare se per caso venisse il padrone.

Il lupo s’era impinzato tanto, che non poteva più muoversi; tuttavia conti-nuava a divorare.

Ad un tratto il beccaio mise la chiave nella toppa della serratura; i due ladroni compresero il pericolo e tentarono di fuggire; la volpe riuscì a darsela a gambe; ma l’altro si sforzò invano di passare per il buco; poté metter fuori solo la testa, ed il beccaio gli assestò tanti colpi che lo fece morire. Quando la volpe vide che quel prepotente non tornava più, esclamò: «Finalmente mi sono liberata da un porco!».

III. Lu cuntu te le to pecure [3][Narrata da Panzera Carmelo di San Cesario]

Na urpe rubau to pecure e le mise sutta nnu trainieddru. Le pecure se chjamàa-nu una Cefalu e l’àura Palummu. Se mise a camenare e truàu nnu lupu ca ni tisse: «Cummare urpe, aggiu straccatu, me faci puggiare nnu pete sullu trai-

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neddru?». Ma la urpe nnu mbulìa, e respuse: «Se spezza l’assu!». «Fàmmela pe carità, nnu me fitu cchjui cu camine!». La urpe se tispiacìu e nni tisse cu minta lu pete.

Toppu nnu picca, lu lupu mise nn’àuru pete, e po se mise tuttu stisu sullu trainieddru. Allu mutu pisu se spezzau l’assu, e la urpe tisse allu lupu cu bàscia a nnu cucchju addrai, cu pìja nnu tàccaru, lu cchjù ruttu ca nc’era, cu lu mìn-tanu allu postu te l’assu.

Pe dispiettu tu lupu pijáu tu tàccaru cchju stertu, e tuccau cu scinna la urpe, cu ne ba tròa unu adattu.

Quannu se idde sulu lu lupu, scannau le to pecure e se beiu lu sangu, e quannu turnàu la urpe ca cunzau lu traineddru e se chiantau te subra, cumen-zau a dare alle pecure, puru ca nu camenànu, ma capìu tuttu e se stese citta.

Se ne scèra tutti toi e bìddera nu fuessu chjni t’acqua; se fermàra e bìddera ca nc’eranu muti pisci. La urpe tisse allu cumpagnu: «Uèi cu scinni ccu pìj to pisci?». E tu lupu tisse sine. Se taccàu cu na corda, ca tenìa la urpe e scise. Quannu tu lupu scia intru l’acqua, la urpe lassau la corda, e lu lupu, ca se sta nfucaa tisse: «Aiutu, ca sta mueru!». La urpe tisse: «Comu t’à piaciutu lu sangu te Cefalu e Palummu, cussìne te piazza l’acqua te stu funnu!»... E ne restau cuntenta.

[3] Il racconto delle due pecore

Una volpe avendo rubato due pecore, le mise sotto ad un trainello. Esse si chiamavano una Cefalo e l’altra Palombo. Camminando, incontrò un lupo che le disse: «Comare volpe, sono assai stanco, mi permetti di poggiare una zampa sul carrello?». Essa rispose: «Non posso, perché si spezza l’asse». «Fallo per carità, non mi fido più di camminare», insisté il lupo. E la volpe finì col per-mettergli che poggiasse la zampa.

Dopo un poco egli vi mise l’altra zampa, e finalmente si sdraiò tutto sul trainello. Al troppo peso si spezzò l’asse, e la volpe pregò il lupo di andare in un campo vicino a prendere un pezzo di legno, il più diritto che vi fosse, per metterlo al posto dell’asse. Quello per dispetto ne scelse uno storto, per cui dovette scendere lei per trovarne uno più adatto.

Quando il birbone si vide solo, strangolò le pecore e ne bevve il sangue. Al ritorno la volpe vide quella strage, e dovè zittire per prudenza. Indi si avviaro-no insieme, e trovarono uno stagno pieno d’acqua. Si fermarono, e videro che c’erano molti pesci. La volpe allora disse al compagno: «Vuoi scendere per ac-chiappare di quei pesci?». Egli, che era avido, accettò l’invito, e legatosi ad una corda tenuta dalla volpe, scese nello stagno. Quando fu nell’acqua, essa lasciò la corda, e il malvagio, mentre stava affogando, gridava: «Aiutami ché muoio!».

La volpe, allegra, rispose: «Come t’è piaciuto il sangue di Cefalo e Palom-bo, così ti deve piacere l’acqua del fondo!».

Così si prese la rivincita sull’ingordo lupo.