FARCORO, January 2010

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Quadrimestrale dell’AERCO Associazione Emiliano Romagnola Cori N° 1 Gennaio — Aprile 2010 Farcoro Tariffa Associazioni Senza Fini di Lucro “Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Bologna

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FARCORO is the official Magazine of the AERCO, the Emilia Romagna Choral Association. Editor: Andrea Angelini

Transcript of FARCORO, January 2010

Quadrimestraledell’AERCO

Associazione EmilianoRomagnola Cori

N° 1 Gennaio — Aprile 2010

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3 EDITORIALE

di Andrea Angelini

4 DIDATTICAAlla scoperta della tecnicagestuale moderna Terza parte

di Walter Marzilli

13 DIDATTICALa tecnica vocale in Italianella seconda metà del XVI SecoloPrima parte

di Mauro Uberti

19 DIDATTICASignificato del canto popolare al giorno d’oggi.I giovani e le tradizioni

di Giovanni Cucci

24 STORIAOttaviano Petruccie la stampa della musica a caratteri mobili

di Franco Mariani

29 COMPOSIZIONIHibiscus

di Cristian Gentilini

36 ANALISISelva di varia ricreazione

di Giovanni Torre

40 PILLOLEMemorizzazione della partitura

di Andrea Landriscina

Farcoro - indice

4 Alla scoperta della tecnica gestuale moderna

13 La tecnica vocale in Italia nella 2^ metà XVI Secolo

29 Composizioni: Hibiscus di Cristian Gentilini

24 Ottaviano Petrucci e la stampa della musica

FARCOROQuadrimestrale dell’AercoAssociazione Emiliano Romagnola CoriGennaio-Aprile 2010

Autorizzazione del Tribunale di Bologna N° 4530 del 24/02/1977Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003Art. 1, comma 2 DCB, Bologna

Direttore ResponsabileAndrea Angelini

Comitato di RedazioneFedele FantuzziGiacomo MonicaPuccio PucciEdo MazzoniLoris TamburiniMatteo UnichMario Pigazzini

Grafica e impaginazioneAndrea Angelini

Sede Legalec/o Aerco – Via San Carlo 25/f40121 Bologna

Contatti Redazione:[email protected] +39 347 2573878

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Fuori..... come dentro!

Farcoro - editoriale

“Uno degli elementi che influisce senza dubbio sulla qualità del suono di un coro in concerto…… è la tecnica gestuale e la fisicità dei movimenti del direttore.”

Con tali parole Abraham

Kaplan, uno fra i più grandi direttori americani di coro, riassumeva un concetto “lapalissiano” nella pratica corale: il direttore dovrebbe

apparire dall’esterno esattamente come egli pensa internamente il suono del coro in quel preciso momento. E’ risaputo che il comportamento fisico del direttore produce un effetto diretto sul modo di cantare ad un livello psicologico definibile “inconscio ed involontario”. Questo effetto non deriva solamente da quelle che possono essere le volute scelte direttoriali ma anche, e soprattutto, dalla posizione e dai movimenti.

Perché ho voluto introdurre questo discorso? Semplicemente per generare un elemento di discussione spesso sottovalutato, una componente difficile da controllare e correggere, molto spesso reputata, erroneamente, affine al proprio carattere. Mi è capitato di vedere bravi direttori con movimenti corporei talmente ampi adatti a dirigere il traffico nell’ora di punta e viceversa ne ho visti altri, altrettanto bravi, che pennellavano movimenti microscopici difficili da percepire; li univa però il fatto che, a prescindere dalle movenze corporee,

riuscivano tutti a trasmettere al coro la loro idea. Non serve agitare le braccia a guisa di decollo per ottenere un fortissimo se in quel momento la tensione corporea e lo sguardo profondo non vanno a richiedere quel colore!

Paragonando l’attività che un direttore di coro compie per produrre il suono con quella di un qualsiasi altro musicista salta subito all’occhio una differenza macroscopica ovvero che il suono che il direttore ricava dal suo strumento (il coro) non è minimamente connesso con il contatto fisico tra lui e lo strumento e che la gestualità che esterna, e che lo rende così appariscente all’occhio dello spettatore, è un’attività che tutti gli altri musicisti compiono mentalmente (indicare il ritmo esecutivo e scegliere il giusto colore). Ecco allora la capacità di linguaggio del corpo che è elemento essenziale alla buona riuscita della musica! E che non è dipendente da ciò che si sta dirigendo (come accade magari per un pianista mentre suona…) ma che è veicolo informativo per interagire con coloro che sono deputati alla creazione sonora: i coristi. Purtroppo questo aspetto della capacità direttoriale è difficile da acquisire proprio perché fa parte di quel bagaglio musicale ed emozionale che è peculiare del vero artista. Sicuramente può migliorare con l’esperienza, lo studio e soprattutto con l’ascolto interiore del repertorio.Bologna, 2 Gennaio 2010

Andrea [email protected]

Non serve agitare le braccia a guisa di decollo per ottenere un fortissimo...

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Il gesto in tre movimenti

Si vuole subito ricordare come il precedente gesto in quattro movimenti sia stato definito

attraverso l’utilizzo di tre sole direzioni, una in meno rispetto al numero dei movimenti. A que-sto proposito è opportuno riproporre di seguito i quattro movimenti e le tre direzioni risultanti:1

Fig. 1

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Sovrapponendo i quattro PF3 coincidenti, ave-vamo potuto ottenere la configurazione definiti-va, costituita appunto da tre sole direzioni:

1 Cfr. Fig. 11 e Fig. 13 pubblicate nel precedente articolo: Walter Mar-zilli, Alla scoperta della tecnica gestuale moderna, in: Farcoro, n° 3, 2009, rispettivamente pp. 9 e 10. 2 Si ricorderà che la direzione verso il basso e quella verso l’alto, in realtà, coincidono. Viene utilizzata la separazione per facilitare l’identificazione della doppia direzione delle suddivisioni.3 Nei precedenti articoli (Cfr. Farcoro, n° 2 e 3) si era convenuto di indicare con questa sigla l’unico Punto Focale che si veniva a determinare.

Fig. 2

Si può quindi immaginare che anche per il gesto in tre tempi ci si possa limitare a due sole direzio-ni, una in meno rispetto ai movimenti. In effetti, anche ricordando la convenzione di attribuire al primo movimento la direzione verso il basso, al penultimo quella verso l’esterno del direttore e all’ultimo quella verso l’alto,4 si potrà facilmente determinare la seguente configurazione:5

Fig. 3

4 Cfr. articoli precedenti.5 Si ricorderà anche che l’identificazione di un unico PF suggeriva di passare attraverso di esso anche ad ogni seconda suddivisione di ogni tempo, quindi anche prima di salire verso l’alto per l’ultimo movimento.

Farcoro - didattica 1

Alla scoperta della tecnica gestuale moderna

di Walter Marzilli (*) - parte terza

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Facendo sovrapporre i PF coincidenti si otterrà la figura seguente:

Fig. 4

Sarà ovviamente possibile – in alcuni casi ad-dirittura necessario – aprire l’angolo di lavoro, adesso piuttosto acuto, per indirizzare la secon-da suddivisione del secondo tempo più in basso verso destra rispetto a quella in figura 4, per apri-re il braccio verso l’esterno.6

L’apparente schematicità del gesto proposto deve ovviamente considerarsi soltanto indicati-va. L’essenzialità del disegno non impedirà infatti di impossessarsi del gesto e di renderlo plastico, in rapporto alla propria sensibilità artistico-ge-stuale e alle personali caratteristiche morfologi-che. Il necessario arricchimento del gesto, però, non deve andare a discapito della sua chiarezza, che è frutto immediato, diretto, ma soprattutto estremamente efficace dell’uso del PF. Per que-sto si raccomanda, almeno all’inizio, di mante-nersi quanto più possibile fedeli al PF durante la scansione dei movimenti, specialmente quando si desideri intervenire variando i parametri della dinamica e dell’agogica.

Durante il movimento delle mani si dovrà av-

6 Si raccomanda solo di non raggiungere l’ampiezza di un angolo retto per non rendere inopportuno e soprattutto inefficace il movimento del terzo tempo, che attraverserebbe “silenziosamente” il PF.

vertire una speciale attrazione centripeta verso il PF - ma questo in tutte le misure di tutti i tempi quando adottiamo la tecnica del Punto Focale - evitando perciò di allontanarsi velocemente ver-so l’esterno dopo averlo toccato. Così facendo finiremmo con tutta probabilità per scandire il tactus ritmico con un leggero anticipo.7 Dovrem-mo cioè evitare tutte le tentazioni gestuali di tipo centrifugo, che spingono il gesto verso l’ester-no e spostano il tactus proprio dove si trovano “appostate” le seconde suddivisioni, pronte ad essere innescate anche quando non sia necessa-ria la loro presenza, o peggio quando essa sia addirittura controproducente.

È offerta una variante molto interessante per scandire il tempo ternario in modo diverso dal precedente, dipendentemente dalla velocità. Nel caso di un andamento alquanto veloce non è in-fatti consigliabile scandire tutti e tre i movimenti. E qui il direttore è posto di fronte a un bivio. Se la velocità lo permette passerà a dirigere “in uno” scandendo un unico movimento verticale, ma questo è ben noto. È il caso più comune dei passaggi in tempo ternario o senario di epoca medievale e anche rinascimentale. Quando in-vece la velocità non sarà tale da poter condurre in uno - per non lasciare troppo soli i cantori scandendo il tactus ogni tre note (men che meno se i cantori dovranno cantare note suddivise...) – ma non sia nemmeno agevole battere “in tre”, allora scandiremo il tempo ternario con la via di mezzo, cioè “in due”! Già, tornando a ciò che di-cevano gli antichi musici del Rinascimento, con-verrà scandire il ternario con due movimenti in battere e uno in levare.8 Si avrà cura di fermarsi un istante sul PF al primo tempo, e poi rimbal-7 Non si ripeterà mai abbastanza che il gesto in anticipo reclamato dalle scuole di direzione d’orchestra diviene inutile – anzi dannoso – con l’ado-zione della tecnica del PF.8 Cfr. fra gli altri Orazio Tigrini, Compendio della Musica, Venezia 1588, Libro IV, cap. 16.

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zare su di esso per indicare il secondo tempo e spostare il braccio verso l’alto per... lasciare che passi il tempo necessario perché trascorra il ter-zo tempo. Al di là del fatto che si tratta di un ge-sto molto elegante e molto musicale, si rifletta su come tale singolare movimento del braccio sia in grado di fornire una particolare vitalità ritmica al fraseggio. Cercando di scendere un po’ nella pratica – per quanto sia possibile farlo su un fo-glio di carta... - si consideri una frase ternaria di ¾ con la presenza di una minima seguita da una semiminima: il gesto del direttore dovrà scandi-re inversamente una semiminima seguita da una minima. L’impulso della ripercussione sul PF dato sul secondo tempo creerà una valida solle-citazione per i cantori – per non dire obbligo... - a muovere la voce sulla loro semiminima posta sul terzo tempo. Un po’ di sperimentazione da parte del direttore e anche dei cantori, trattando-si di una scansione di nuovo tipo, permetterà di raggiungere risultati molto intensi dal punto di vista del fraseggio e del ritmo.

Il gesto in due movimenti

Sembra ormai acquisita dalla prassi comune la possibilità di poter scartare subito il gesto con-formato secondo il vecchio sistema dell’uno in battere e uno in levare. Il motivo risiede nel fatto che qualunque impulso o comando gestuale che sia dato verso l’alto (levare) non contiene in sé nes-suna chiara sollecitazione per il cantore, e non ne suscita una reazione convinta. Ci limitiamo a ri-flettere sul fatto che in un gesto siffatto il battere acquisirebbe un carattere ritmico particolarmen-te incisivo, mentre il levare mostrerebbe tutta la sua evanescenza e la sua trasparenza a causa del fatto che non colpisce qualcosa, ma vola via dis-solvendosi. Questo sancirebbe la configurazione di un primo tempo forte e di un secondo tempo

debole, scontrandosi con la usuale situazione in cui uno stesso tema polifonico compare dap-prima sul primo tempo della moderna battuta e successivamente sul secondo tempo, senza che ovviamente in quest’ultimo caso la sua presenza debba in nessun modo apparire qualitativamente e/o quantitativamente minoritaria.9 Inoltre nel caso in cui si adottasse un primo tempo con un movimento perpendicolare dall’alto verso il bas-so simile ai gesti in tre e quattro movimenti già trattati, il disagio della situazione appena descrit-ta aumenterebbe a causa dell’incisività percussi-va perpendicolare di un tale gesto.

E’ anche per evitare quest’ultima situazione che si preferisce adottare la figura della parabola10 per scandire il gesto in due movimenti, in modo da limitare le personali interpretazioni della pur legittima dicitura “uno in battere e uno in leva-re”, che portano la gestualità nell’ambito incon-trollato del soggettivismo e del personalismo, dando vita a figurazioni altrettanto legittime, se vogliamo, quanto fumose e complicate:

Fig. 5

La parabola, già dotata di per sé di regolarità e simmetria tali da consentirne una immediata “lettura” da parte degli esecutori, permette di “accarezzare” il punto focale lateralmente, in

9 Sembra ormai consolidato il fatto che la polifonia antica debba essere condotta in due movimenti e non in quattro, ove possibile, nonostante ancora esistano ambiti culturali di parere opposto. 10 Non si tratta certo di una novità. Già nel 1611 Agostino Pisa nel suo trattato intitolato Della battuta musicale raccomandava di usare la parabola per scandire il tempo in due movimenti.

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modo più morbido e meno netto, ma non per questo meno preciso della percussione perpen-dicolare. Si tratta in pratica di disegnare una “U” con il vertice coincidente sul PF:

Fig. 6

Come si può vedere dal disegno, si suggerisce di orientare il primo tempo verso l’esterno del cor-po. Si tratta infatti di un comando per l’eventuale gesto d’attacco che appare più propositivo nei confronti di quello rivolto verso l’interno, più introverso e per questo meno adatto ad un mo-mento particolarmente significativo come l’ini-zio di una frase. Inoltre viene così rispettata la consuetudine internazionale riguardante la dire-zione dei gesti. Il primo movimento di una misu-ra in due tempi va infatti verso il basso essendo primo tempo, ma anche verso l’esterno essendo contemporaneamente penultimo tempo. In que-sto modo, come accennato poc’anzi, il PF viene accarezzato lateralmente, e questo movimento è in grado di rendere molto bene la fluida scorre-volezza delle frasi polifoniche, soprattutto nella musica coeva. In essa non contava l’accento sul primo tempo della battuta – che non esisteva nello stesso modo in cui la conosciamo noi – ma l’accento delle parole.

Si curi anche che i due lati della figura non siano disuguali (cfr. fig. 7), per non incorrere nell’er-rore di aumentare la velocità del movimento del braccio nel tratto più lungo e di diminuirla

in quello più corto, fornendo all’andamento un incedere in certo senso affannoso e in qualche modo irregolare:

Fig. 7

Ogni qual volta si dovesse sentire il bisogno di una scansione gestuale più netta e incisiva, che non conceda troppo spazio alla poetica discorsi-vità del testo musicale ma che si preoccupi par-ticolarmente del sincronismo dell’assieme corale e dell’esattezza ritmica, basterà rendere appunti-to l’angolo della parabola sul PF, passando dalla forma a “U” a quella a “V”:

Fig. 8

Anche in questo caso, come per gli altri tempi, il vantaggio, oltre che nella coincidenza dei due tempi in un unico PF, risiede nella possibilità di effettuare facilmente una suddivisione tutte le volte che essa si dovesse rendere necessaria, dal momento che si possono distinguere facilmente una prima metà di ogni gesto sul PF, e una se-conda metà all’estremità del movimento. Basterà fermarsi sul PF e rimbalzare.

Emerge anche un altro notevole vantaggio della

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tecnica del PF rispetto a quella classica: la possi-bilità di creare facilmente attraverso il gesto un fraseggio legato. Nella tecnica classica la mano era costretta a fermarsi una volta giunta su ogni tempo della battuta, poiché il movimento finiva lì e non poteva proseguire. A meno di non pro-cedere adottando quelle curve sinuose ma an-che fumose che il direttore d’orchestra è solito impiegare proprio per ottenere il legato laddove il gesto si dovrebbe fermare. La tecnica del PF non prevede di norma una fermata all’arrivo su ogni tempo, ma prosegue per percorrere la se-conda suddivisione del tempo. In questo modo, volendo, il gesto crea un continuum che può non fermarsi mai, creando negli esecutori lo stimolo a fraseggiare in modo ben legato.

Probabilmente non è necessario precisare che queste descrizioni, così apparentemente metico-lose dal punto di vista geometrico, vanno in re-altà in tutt’altra direzione rispetto al tentativo di omologare e uniformare in modo stereotipato e soprattutto inflessibile ciò che di per sé non può esserlo per sua natura, e cioè la gestualità diretto-riale. Essa rientra di diritto nella sfera personale della morfologia, della fisiologia muscolare, della cultura e del vissuto di ogni direttore: per questo è opportuno ripetere che dovrà essere riveduta e rivisitata secondo quelle che sono le variabili fisico-psichiche di ognuno. Quello che si sta cer-cando di fare è di fornire alcuni parametri che permettano di scegliere fra tanti gesti quelli do-tati di oggettiva efficacia, pensati, provati e ben assimilati, che permettano al pensiero musicale del direttore di fluire liberamente, senza nessun ostacolo, dalla sua mente alle sue mani attraverso le sue braccia, fino all’ultimo esecutore.

In fondo è quello che succede quando si impara una qualunque lingua, compresa la lingua madre:

vengono fornite indicazioni assolute a riguardo della grammatica e della sintassi, degli errori da non compiere, dell’uso corretto delle forme ver-bali e lessicali, ma poi ognuno parlerà la lingua secondo le caratteristiche del proprio pensiero e della propria organizzazione mentale, creando e seguendo uno stile personale. Anche in tema di pedagogia e didattica musicale nel campo della composizione, ad esempio, si imparano le regole da osservare, per poi magari anche poterle in-frangere con convinzione e soprattutto con una mirata e consapevole finalità.

Quindi, per allargare il discorso sulla direzione d’orchestra,11 per la cui tecnica gestuale valgo-no i medesimi parametri che stiamo valutando per il coro, in qualunque occasione sarà sempre possibile riconoscere la tipicità di alcune posture direttoriali. Saltano facilmente agli occhi di tutti alcuni tratti caratteristici e inconfondibili, come l’elegante raffinatezza della mano sinistra di Ab-bado, il gesto divertito e scanzonato di Bernstein, quello roboante del primo von Karajan e quello conciso e risolutivo delle sue ultime prestazioni, i movimenti nervosi degli avambracci di Prêtre, la sinuosità della punta della bacchetta di Metha, lo scatto del polso destro di Maazel…

Sembrerebbe opportuno adesso approfondire un argomento che riguarda i direttori nello stes-so modo come gli strumentisti ad arco. Essi si trovano di fronte alla stessa difficoltà quando devono capire istintivamente quale dovrà essere la giusta velocità costante per concludere la dura-ta della nota utilizzando l’intero arco. Quando il direttore riuscirà a capire la stessa cosa, allora ot-terrà un bellissimo suono legato. Il suo braccio, infatti, scorrerà uniformemente, percorrendo i raggi delle ideali circonferenze della dinamica, il

11 Ma solo per la sua maggiore incidenza sulla percentuale di presenza nei mezzi mediatici rispetto alla direzione del coro.

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cui centro coincide con il PF e di cui abbiamo già avuto modo di parlare in precedenza12:

Fig. 9

Probabilmente la cosa sembrerà naturale ed istintiva, ma un’attenta osservazione del gesto al-trui metterà certamente in evidenza questa carat-teristica del movimento, che compare molto più frequentemente di quanto si possa immaginare. Si potrà notare in molti casi la mano colpire il PF, rimbalzare, poi fermarsi sulla circonferenza, dove il braccio – giunto troppo presto – atten-derà l’arrivo del tempo successivo da scandire. La velocità del gesto risulterà pertanto irregolare e discontinua. Di conseguenza il fraseggio sarà anch’esso privo di continuità e di distensione, con un andamento irregolare particolarmente evidente in occasione dell’ultimo movimento. Esso sarà debole come l’accento, ma anche con-tratto e in qualche modo irrequieto. Anche le note lunghe risentiranno facilmente di qualche anomalia. Analogamente una velocità eccessiva costringe sempre il direttore a compiere alcune curve per “far trascorrere” il tempo, che confon-dono la chiarezza della conduzione e diminui-

12 Cfr. Walter Marzilli, Alla scoperta..., op. cit. p. 10.

scono la sua comunicatività.13

Al contrario, una volta raggiunto il dominio ne-cessario, il braccio dovrà riuscire a scorrere i mo-vimenti con grande uniformità, magari sfruttan-do anche l’articolazione del polso per ottenere maggiore fluidità e morbidezza, atteggiamenti entrambi essenziali per ottenere un fraseggio elegante e legato. Astraendo queste riflessioni dal contesto sembrerebbe che stiamo trattando della condotta dell’arco anziché della tecnica ge-stuale del direttore. In realtà il concetto è appli-cabile ad entrambe le situazioni.

In effetti, uno dei limiti più comuni riscontrabili durante le esecuzioni corali sono proprio le in-terruzioni del fraseggio, la frammentarietà delle frasi e della punteggiatura musicale, la presenza di respiri che accorciano i valori delle note e in-frangono la continuità delle linee melodiche. A tutto ciò il direttore finisce a volte per abituarsi, fin tanto che qualcuno non glielo fa notare, ma-gari durante i colloqui con la giuria nei concorsi o in occasioni simili… Nella maggior parte dei casi, però, è proprio alla frammentazione dei suoi stessi movimenti che può essere ricondotta la tendenza del coro a interrompere il legato. In qualche modo l’errore del direttore finisce per legittimare involontariamente una vocazione spontanea già posseduta dai cantori, che è quella di prendere il fiato nei momenti meno opportu-ni (prima delle note lunghe, dopo di esse, prima

13 E’ ben noto come i direttori d’orchestra siano soliti condurre il movi-mento andando sul tactus con un certo anticipo rispetto alla scansione ritmi-ca. Ciò è certamente da ricondurre alla pratica di attribuire al gesto proprio quell’impulso centrifugo di cui parlavamo poco fa. Non è da escludere che questo “prezioso” anticipo del direttore altro non sia che un semplice ritardo dell’orchestra, che risponde con una certa indecisione ai gesti del direttore. Spesso l’orchestra concede infatti solo una prova generale prima del concerto, e ciò non basta per raggiungere una comprensione profonda della tecnica del direttore invitato. Se a questo si aggiunge la possibilità che i gesti possano essere troppo poco comprensibili a causa delle curve, si capisce che l’orchestra attenda l’abbassarsi dell’archetto del primo violino per superare i passaggi pericolosi...

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della risoluzione di una dissonanza, nei momenti più delicati di un pedale, ecc.). Prima di accanirsi contro queste ben note situazioni inopportune e poco eleganti,14 il direttore farebbe bene a per-correre a ritroso la strada che ha condotto il coro a comportarsi così: con un certo grado di atten-ta autocritica potrebbe riconoscere che la causa non è distante da se stesso.

In questo caso è probabile che egli possa ancora migliorare la sua tecnica gestuale, anche se per giudicare i movimenti di un direttore non c’è persona meno adatta di lui stesso. Al di là di una eventuale manchevole capacità di autocritica, bi-sogna ammettere che nessuno di noi è esente da una certa dose di amorevole indulgenza verso se stesso in materia di giudizio estetico. Se poi al lato estetico si aggiunge la necessità di giudi-care la reale efficacia concertativa e direttoriale dei gesti, allora è inevitabile farsi scudo imme-diatamente di una “immunità direttoriale” che ci vorrebbe preservare da ogni assalto. La risposta classica è: “il mio non è un coro di professionisti, ma di dilettanti amatoriali”, oppure “i miei cantori mi capiscono benissimo”.

Sono entrambe risposte che non permettono un dialogo costruttivo, ma che nemmeno giu-stificano il perseverare in una tecnica di qualità

14 Bisogna ammettere che questi ultimi due aggettivi possono essere spesso attribuiti anche alle reazioni del direttore durante le prove. Qui, chi è senza peccato scagli la prima pietra…

non sufficiente. Nel primo caso ci sono tutte le premesse perché il coro di “dilettanti amatoriali” rimanga tale per sempre. Non è mai così vero come nel coro, infatti, che tutto dipende dal “capo”. Per sua stessa natura, l’insieme variegato dei cantori non è dotato di capacità auto-rige-neranti tali da innescare un qualunque processo di qualificazione, e meno che mai dare ad esso continuità. E questo sia sul piano vocale che - ancora di più – su quello della concertazione. Se il direttore non si pone a capo di questa cordata e non trascina uno per uno, solidalmente, verso un obiettivo sempre nuovo, la cordata si sfrangia e la metà delle persone si perde per strada. Com-presa la qualità artistica. Questo lento processo di sfaldamento porta ad una penosa agonia, nella quale il coro può faticosamente ritrovarsi a lan-guire anche per molto tempo prima di autodi-struggersi, o di cambiare direttore.

All’altrettanto comune affermazione secondo la quale, dopo tanti anni trascorsi insieme, il coro saprebbe capire ogni gesto del suo direttore, si dovrebbe rispondere con la pratica, cercando di mostrare quante delle potenzialità artistiche di quel coro siano rimaste per tanto tempo ad-dormentate e inespresse. Semplicemente perché non erano state stimolate attraverso un gesto adatto che - non è necessario ricordarlo – costi-tuisce l’unico mezzo di comunicazione possibile a disposizione del direttore durante il concerto. Ad ogni modo, anche limitandosi a valutare i fatti soltanto da un punto di vista concettuale e non pedagogico, non è mai opportuno trattare il coro per tutta la sua vita con un linguaggio gestuale semplificato fino al depauperamento. La paura di pretendere troppo da un gruppo del quale, evidentemente, non si ha troppa stima, impedirà di raggiungere nel tempo una duratura maturazione. Questo impedimento scaturisce in

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questo caso proprio dal direttore, il quale lascerà incompiuto un processo artistico che, per essere veramente tale, deve essere attraversato da uno sviluppo continuo.

Purtroppo è inevitabile anche fare i conti con la certezza che l’accontentarsi di quello che già si possiede in fatto di tecnica gestuale da parte del direttore costituisce un forte ostacolo a misurar-si con una metodologia nuova. D’altronde un certo sospetto iniziale può essere considerato le-gittimo, finché esso non arrivi ad erigere un muro insormontabile che impedisce di provare e di tentare altre soluzioni. Si aggiunga anche che per nessuno di noi è facile mettersi nella situa-zione di chi, pur godendo di una autorità ricono-sciuta e incontrastata, si debba mettere in discus-sione per migliorare se stesso, magari allontanando abitudini tanto dannose quanto consolidate. Un rimedio infallibile? Usare la tele-camera per riprendere i concerti, e soprattutto le prove. Ma attenzione: si possono avere brutte

sorprese. Nelle prove non ci sono i freni inibito-ri del concerto (pubblico, colleghi, persone che per qualche motivo risultano scomode), e la con-duzione può raggiungere parametri eccessivi per dimensioni, enfasi e carattere. Di contro, duran-

te il concerto si è sottoposti a sollecitazioni emo-tive ben più profonde e coinvolgenti, al punto da perdere potenzialmente il controllo dei movi-menti. Non solo delle braccia, ma di tutto il cor-po: ondulamenti eccessivi, proporzioni del gesto inadeguate alla situazione sonora contingente, gambe e ginocchia che si piegano continuamen-te, baricentro troppo mobile ed instabile, movi-menti di consenso della testa, articolazioni del braccio usate troppo o troppo poco, posizioni inopportune delle dita ecc… Tutti atteggiamenti inconsapevoli, che il direttore scopre di avere solo guardandosi attraverso un occhio non com-piacente come quello di una telecamera. Seguirà un fastidioso periodo di incertezza, preludio alla guarigione dagli inconsapevoli difetti che mina-vano l’efficacia del suo operato. Ne trarrà van-taggio lui stesso, ne guadagnerà il coro, troverà giovamento tutto l’apparato che ruota intorno ad esso, ne godrà il pubblico durante l’ascolto e la visione…

Alla fine, la questione si risolve nel trovare una tecnica che permetta alle proprie idee musicali di passare attraverso le braccia e di arrivare ai cantori in modo diretto, completo e significativo. Non importa se siano dilettanti o professionisti. Le intuizioni musicali del direttore non devono restare intrappolate nella rigidità delle braccia, o confuse fra movenze offuscate o insolite. La tec-nica di un attacco in levare, ad esempio, pur con tutte le sue varianti, deve rimanere molto spe-cifica e caratterizzata in ogni occasione, senza cedere alla tentazione di chiamare l’attacco con una suddivisione, per esempio. E non importa se lo si debba dare ad un coro parrocchiale o al coro di professionisti.15 Abbracciare soluzioni oggettive allontanando quelle troppo personali e

15 Anzi, nel secondo caso sarà assolutamente necessario, per non perdere autorevolezza e credibilità…

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individualistiche non significa sacrificare il pro-prio temperamento e ridurre all’anonimato la propria gestualità; e nemmeno soffocare la pro-pria personalità. L’indole di ognuno, infatti, non mancherà di manifestarsi ugualmente, attraverso una connotazione del gesto che non potrà co-munque in nessun modo separarsi dal proprio personale carattere.

Si tratta di imparare un linguaggio che serva per esprimersi e farsi capire da tutti. Come ac-cade nel caso delle lingue: se chi parla possiede un vocabolario limitato, ma soprattutto troppo personale, può soltanto raggiungere il risultato di mischiare i propri pensieri con quelli dell’in-terlocutore, senza arrivare ad una vera e propria comprensione dei messaggi. Come trovarsi in una Torre di Babele, dove ognuno parla senza nutrire troppe speranze di essere capito. Il mes-saggio artistico ha invece bisogno di un voca-bolario chiaro ed efficace, perché i concetti da esprimere possono raggiungere ambienti molto delicati. Magari attraversano la filosofia, oppure spaziano dall’estetica alla sociologia. Altre volte si immergono negli antri più emozionali dell’es-sere, risvegliando sensazioni addirittura ance-strali. In tutto questo può accadere che le note si rivelino essere soltanto una componente mar-ginale, o costituiscano solo la scintilla iniziale di

un complicato processo umano e artistico di alta levatura. Alta, come deve essere la qualità di tutti gli aspetti del dirigere.

NB: Il presente articolo costituisce un breve estratto e una anticipazione di un libro sulla direzione del coro che sarà pubblicato in se-guito dall’autore.

(*) Docente di Direzione di Coro nel biennio spe-cialistico del Conservatorio F. Cantelli di Novara e di Vocalità Corale presso il Conservatorio F. Cilea di Reggio Calabria. Insegna Psicoacustica presso l’Accademia Mediterranea di Arti-terapia di Saler-no, specializzazione in Musicoterapia, e Direzione di Coro presso la Scuola Superiore per direttori di coro della Fondazione Guido d’Arezzo. È profes-sore Ordinario di Direzione Corale presso il Pontifi-cio Istituto di Musica Sacra di Roma.

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La Tecnica Vocale in Italianella seconda metà del XVI Secolo

di Mauro Uberti (*) - prima parte

La fioritura di interessi per la musica antica, che caratterizza l’epoca attuale, sta dando

frutti. Dire, però, che questi siano tutti buoni sa-rebbe azzardato soprattutto se ci si riferisce alla vocalità. Mentre da parte di una scelta schiera di strumentisti si conduce una seria ricerca sulla prassi esecutiva delle epoche passate, non altret-tanto si può dire dei cantanti; non sono molti, infatti, quelli che si dispongono a recuperare la vocalità antica in atteggiamento critico e con ani-mo sgombro da pregiudizi. Accade invece che, di fronte a coloro che - Dio li perdoni! - continuano

a cantare le musiche me-dioevali, rinascimentali e barocche con tecnica ed espressività romantiche, stia crescendo la schie-ra di coloro che - Dio li perdoni! - si preoccupa-no soprattutto di cantare

con tecniche ed espressività «antiromantiche». «Antiromantico» non è sinonimo di «preroman-tico»: mentre il secondo aggettivo implica l’idea positiva di un’evoluzione estesa nel tempo e del-le radici che ogni epoca ha in quelle precedenti, il primo ne implica una tutta negativa e, nel no-stro caso, rischia di rappresentare soltanto l’idio-sincrasia per le esasperazioni stilistiche di tempi recenti e per il cattivo gusto (o l’ignoranza) di chi le applica acriticamente a tutti quelli passa-ti. Niente da eccepire a questa reazione - di per sé, anzi, lodevole - se, nella pratica, non portasse

anche all’invenzione di tecniche ed espressività prive di basi critiche. Se non è accettabile che si cantino musiche medioevali, rinascimentali e barocche con tecnica, per esempio, verista, non è neppure accettabile che le si canti con tecniche di fantasia, aventi per giustificazione soltanto il gusto per l’esotismo storico; non è accettabile, cioè l’invenzione di stili «antichi», concepiti es-senzialmente come negazione di quelli che sa-rebbero seguiti poi, mentre sono ormai note la basi genetiche e fisiologiche della comunicazio-ne umana, che impongono a quest’ultima una serie di caratteri universali e costanti nel tempo. È quindi necessario uscire dalla soggettività con la quale si pratica abitualmente la vocalità antica e, incominciando dalla tecnica, chiederci come si deve anziché come non si deve cantare.

Le conoscenze disponibili sulla fisiologia della voce ci consentono oggi di interpretare le testi-monianze superstiti sulla prassi vocale e quindi, indagando su queste senza preconcetti, di iden-tificare con buona sicurezza le tecniche in uso nei tempi passati. In questo articolo io vorrei esporre alcuni aspetti anatomo-fisiologici del-la voce per dimostrare come certe descrizioni del canto e certe osservazioni di quattro teorici rappresentativi del tardo rinascimento in Italia - Vicentino, Zarlino, Maffei e Zacconi - possano dirci molto più di quanto si possa ritenere possi-bile su elementi dello stile come timbro, agilità, articolazione e potenza.

E’ quindi necessario uscire dalla sogget-tività con la quale si pratica la vocalità antica......

Farcoro - didattica 2

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Vorrei cominciare distinguendo in generale fra tecniche «antiche» e «moderne», cioè romanti-che, ma presto apparirà evidente che, anche en-tro i limiti della seconda metà del XIV secolo, nel canto italiano le tecniche fondamentali usate erano più di una. Infatti, sia lo Zarlino che lo Zacconi hanno, come possiamo constatare, le stesse esplicite distinzioni fra il canto da cappel-la, che era, come verrà dimostrato, decisamente forte, e il canto da camera, che era più sommes-so e più agile.

Un passo importante verso la tecnica vocale ro-mantica fu fatto il 17 settembre 1831 quando, a Lucca, nel corso della prima rappresentazione italiana del «Guglielmo Tell» di Rossini, il gio-vane e ambizioso tenore francese Gilbert Du-prez fece uso per la prima volta del cosiddetto «do di petto». In pratica Duprez estese all’intera gamma vocale il modo stentoreo di cantare dei tenori come Domenico Donzelli, usato fino ad allora nel registro centrale.1

Le nascenti tecniche romantiche avevano in co-mune un nuovo modo di controllare la tensione dalle corde vocali e, di conseguenza, un nuovo modo di passare dal registro centrale della voce

1 A. DELLA CORTE, Vicende degli stili di canto dal tempo di Gluck al ‘900, in A. DELLA CORTE, «Canto e bel canto», Torino, 1933, pp. 244-5.

al registro superiore. In questo contesto il com-portamento fonatorio della laringe (fig. 1/a e 1/b) diventa un elemento di discriminazione fra vari tipi di voce nel cantare romantico e moder-no. Tre dei suoi meccanismi - il controllo della tensione delle corde vocali, il passaggio al regi-stro superiore e la posizione della laringe - abbi-sognano di qualche spiegazione.2

Tensione delle corde vocali. Le corde vocali, essendo muscoli, hanno la capacità di contrarsi attivamente; infatti quando noi parliamo presi da emozione, con voce piangente o esultante, esse si irrigidiscono in una contrazione isome-trica continua, cioè, tecnicamente parlando, in un atteggiamento caratteristico del canto ro-mantico. Questa rigidità delle corde vocali si accorda col comportamento dei polmoni per dar luogo ad una pressione più alta e, di conse-guenza, ad un suono più potente. Nello stesso tempo, però, esse sono meno agili e per eseguire passaggi e diminuzioni fanno un grande sfor-zo. C’è un altro modo di controllare la tensione delle corde vocali. Esse possono essere stirate da altri muscoli della laringe che le tendono per via indiretta con un movimento all’indietro delle piccole cartilagini a forma di imbuto alle quali

2 Un buon testo introduttivo è: F. D. MINIFIE e altri, Normal Aspects of Speech, Hearing, and Language, Nev York, 1973.

Fig. 1/a. Da una tavola del De vocis auditusque historia anatomica (Fer-rara, 1600) di Giulio Cesare Casseri (Casserius). Questa incisione rinasci-mentale mostra come la laringe (indicata con «E») costituisca il culmine della trachea e come la sua parte frontale corrisponda alla sporgenza del pomo d’Adamo. Svariati muscoli al di sopra e al di sotto di essa possono modificare la sua posizione verticale.

Fig. 1/b. Disegno anatomico moderno che mostra come la parte più cospicua della laringe, la cartilagine tiroide, presenti posteriormente due corni inferiori, con i quali si impernia sulla cartilagine cricoide, e due corni superiori che si collegano all’osso ioide per mezzo di un legamento. Nella fig. 1/a l’osso ioide, posto a metà strada fra ‘E’ ed ‘A’, è indicato con ‘B’.

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sono attaccate posteriormente (fig. 2). La loro contrazione attiva, allora, può essere limitata al controllo dell’intonazione. In questo tipo di tec-nica esse rimangono più lunghe e flessibili ma tuttavia capaci di contrarsi in funzione del co-lore della vocale per dare luogo a fini sfumature psicologiche. Questo tipo di tecnica era usato, combinato con quello che stiamo per descrive-

re nel paragrafo seguente, dai cantori da camera rinascimentali, senza di che essi non avrebbero potuto improvvisare gli elaborati abbellimenti e passaggi prescritti dai trattati dell’epoca.3

Passaggio al registro superiore. Per realizza-re il «passaggio» le tecniche romantiche e veriste comportano un alto grado di contrazione attiva delle corde vocali. Sia nelle tecniche antiche che in quelle più recenti il pomo d’Adamo viene in-clinato in avanti da muscoli esterni alla laringe determinando lo stiramento delle corde vocali; ma nelle tecniche antiche l’inclinazione è otte-nuta con la trazione in avanti dei corni superiori della parte posteriore del pomo d’Adamo (fig. 3/a) mentre in quelle moderne esso viene tira-

3 Cfr. H. M. BROWN, Embellishing Sixteenth-century Music, Lon-don, 1976, pp. xi-xii e i capp. 1 e 2.

Fig. 2. Visione posteriore della laringe. Le piccole cartilagini aritenoidi sono imperniate sulla cartilagine cricoide (i muscoli che presiedono al loro movi-mento non sono rappresenta-ti). A corde vocali riunite (a), l’aria non può passare attraver-so la laringe (nella fig. è rap-presentato soltanto il margine interno delle c. v., che occludo-no invece tutto il passaggio). Si costituisce così una valvola che si apre e si chiude alla frequen-za della nota desiderata come le labbra di un suonatore di tromba. Quando respiriamo la valvola è rilasciata e aperta (b). Nella parola e nel canto l’entità della tensione delle corde vocali è determinata da muscoli attac-cati alla parte posteriore delle cartilagini aritenoidi così come dal grado di inclinazione della cartilagine tiroide per azione di certi muscoli esterni alla larin-ge, che agiscono, su di essa.

to dal basso come avviene nello sbadiglio (fig. 3/b). In questi casi anche le corde vocali entra-no in azione arrivando a quella contrazione più vigorosa, necessaria per l’emissione potente e stentorea in uso nel canto lirico. Per realizzare il meno energico comportamento fonatorio in uso nelle tecniche vocali antiche l’inclinazione in avanti del pomo d’Adamo può essere facilitata adottando una posizione alquanto avanzata del-la mandibola. Noi possiamo constatare questo atteggiamento nelle raffigurazioni rinascimentali

e barocche di cantori (fig. 4) così come, ancora oggi, nell’articolazione della parola e del canto da parte delle popolazioni italiche meridionali (p. es. i napoletani).4 Sperimentando praticamen-te questo atteggiamento si sentirà che, mentre la parte anteriore della gola viene essa pure tra-scinata in avanti, la mandibola rimane libera di muoversi verticalmente.

Posizione della laringe. Nel 1847 il Traité complet de l’art du chant di Manuel Garçia pre-sentava una descrizione sistematica della nuova tecnica - che Garçia aveva conosciuto in Italia nel 1832 e che aveva fatto la sua prima comparsa nell’opera a Parigi nel 1837 - ed affermava che la maggior novità della stessa consisteva nel man-tenere la laringe costantemente più bassa che nelle altre tecniche.5 A parte tutti gli altri effetti

4 Un importante riferimento a questo fatto si trova in G. B. MANCINI, Riflessioni pratiche sul canto figurato, Milano, 3/1777, p. 110: «Ogni cantante deve situar la sua bocca, come suol situarla, quando naturalmente sorride, cioè in modo che i denti di sopra siano perpendicolarmente, e medio-cremente distaccati da quelli di sotto.»5 M. P. R. GARÇIA, Traité complet..., Paris, 1840, cap. 3. Cfr. inoltre Histoire de l’Académie royale des sciences, Paris, per l’anno 1841, nota 2 della seduta del 12 aprile.

Fig. 3/a: tecnica da camera rina-scimentale

Fig. 3/b: voix sombrée

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sul lavoro delle corde vocali all’interno della laringe, questa po-sizione «oscura» la voce allargando la camera di risonanza della gola. Il timbro del suono prodotto dalla laringe stessa (fig. 5/a) è fortemente modificato dalla forma e dal volume della gola e della bocca (fig. 5/b/c). In effetti certe limitate parti dello spettro, chiamate «formanti», sono esaltate nell’attraversamento delle successive camere di risonanza della gola e della bocca da parte della voce e le variazioni di timbro dovute alle modifica-zioni di queste camere nei diversi momenti articolatori vengono percepite come vocali (fig. 6). Tra le formanti delle vocali le pri-me due sono particolarmente importanti. La più bassa dipende dalla cavità della gola (perché questa è più ampia della bocca) e conferisce alla voce molto del suo colore fondamentale. La seconda formante, invece, dipende dalla cavità della bocca ed è responsabile principalmente della comprensibilità. Quanto più la banda di frequenza della formante della bocca è differenziata tra le vocali, tanto più sarà comprensibile il discorso, ma quanto meno la banda di frequenza della formante della gola cambia, tanto più omogeneo sarà il timbro generato.

La regola di Garçia, di tenere la laringe costantemente bassa, favorisce un timbro omogeneo e alquanto scuro che lui e i suoi contemporanei chiamavano «voix sombrée». In questo tipo di voce romantica6 - il più diffuso ancora oggi - tutte le vocali tendono al suono della «u» a causa dell’abbassamento della for-mante della gola. Il carattere «drammatico» della voix sombrée è ottenuto, però, a un certo prezzo perché la base della lingua è ancorata ad un osso, l’osso ioide (fig. 1/b e fig. 3/a/b), la cui posizione determina quella della laringe: se la laringe è costan-temente spinta in basso la lingua è meno libera di differenziare i volumi della bocca ad ogni vocale.

Da quanto ho detto finora si può desumere: primo, che le tec-niche antiche favorivano la flessibilità e l’agilità più che la po-tenza, che è ottenuta nel canto moderno con un alto grado di contrazione delle corde vocali; secondo, che il timbro dramma-tico della moderna voix sombrée è ottenuto con l’abbassamen-to della laringe tanto che l’attitudine della lingua ad articolare le diverse vocali è ostacolata. Prima di arrivare ai teorici italiani, io vorrei esaminare la relazione fra l’omogeneità del timbro e la comprensibilità delle vocali e rivolgere brevemente l’attenzione al vibrato.

6 È questa una descrizione tecnica tratta da R. HUSSON, La voix chantée, Paris, 1960, pp. 127-30. Per questa e altre tecniche vocali cfr. anche R. HUSSON, Physiologie de la phonation, Paris, 1962. pp. 503-6 e A. Wicart, Le chanteur, Paris, 1944, pp. 226-34.

Fig. 5/a: Nel timbro del suono prodotto dalla la-ringe gli armonici inferiori sono sensibilmente più intensi di quelli superiori.

Fig. 5/b: Le camere di risonanza della gola e della bocca rinforzano certe parti dello spettro, dipen-denti dalla grandezza e dalla forma delle due cavi-tà, assunte con l’articolazione. Nella figura appare la curva di risonanza del canale vocale (= gola + bocca) nella pronuncia della vocale /a/.

Fig. 5/c: Gli effetti dei due elementi combinati. I picchi della curva sono chiamati «formanti» e il timbro della voce dipende più da queste formanti, variabili da vocale a vocale, che da quello del suo-no laringeo. Nella figura appare lo spettro della vocale /a/.

Fig. 4. Luca della Robbia (1400-1482), Putti canto-ri, Firenze, Museo di S. Maria del Fiore

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Noi tendiamo a considerare una voce omogenea nel timbro quando l’altezza della prima formante rimane abbastanza costante durante la pronuncia delle diverse vocali. Quando le dimensioni della cavità della gola cambiano sensibilmente ad ogni vocale, l’effetto è di grande chiarezza e di per-dita di consistenza nel timbro vocale. Quando la mandibola è spinta in avanti (come nel canto rinascimentale), il volume della cavità della gola è un poco aumentato e le vocali sono alquanto arrotondate (fig. 7/a). Quando la gola è allargata uniformemente per l’abbassamento della larin-ge, invece, il timbro diventa molto omogeneo e in realtà tutte le vocali sono colorate di «u» (fig. 7/b).

Vorrei ricordare che lo «smalto» vocale, che ten-de a caratterizzare il canto in generale è dovuto ad una altra formante, detta «formante del can-to», che è sempre stabile all’altezza di circa 3.000 Hz sebbene sia variabile in larghezza e intensi-tà a seconda della particolare tecnica adottata. Quando, però, nell’emissione della voce inter-viene un certo irrigidimento delle corde vocali, vengono pure esaltati armonici di frequenza su-periore a quella della formante del canto, i quali conferiscono al timbro uno smalto e talvolta una pungente durezza, che può andare da una «punta di spillo» a una risonanza nettamente metallica. Noi possiamo vedere che lo Zacconi si riferisce a questo come alla «voce detta di testa» e ammo-nisce i cantori ad evitarla.

Le oscillazioni del vibrato sono molto più per-cepibili negli armonici acuti che in quelli bassi

Fig.6/b. Suonando contemporaneamente coi pugni chiusi dei gruppi di tasti sul pianoforte attorno alle note indicate sui due pentagrammi si ottengono dei suoni dal colore inequivocabilmente vocalico. L’altezza esatta e l’ampiezza dei gruppi devono essere trovate per tentativi anche in funzione del modo personale di intendere le vocali.

Fig. 6/a. Le sette vocali italiane: sezione schematica del canale vocale e spettri semplificati delle vocali, mostranti gli effetti della risonanza sul timbro del suono laringeo. La prima formante (la più bassa, dipendente dalla cavità della gola) cresce dalla /i/ alla /a/ e diminuisce dalla /a/ alla /u/ mentre la seconda (dipendente dalla cavità della bocca) diminuisce con continuità dalla /i/ alla /u/. L’altezza delle formanti dipende dal volume delle cavità di risonanza: a cavità grandi corrispondono formanti basse; a cavità piccole formanti alte. Nella pagina seguente viene indicato il modo, di ottenere dal pianoforte dei suoni dal colore in qualche modo vocalico.

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a causa del comportamento del nostro orecchio nell’ascolto. Poiché una delle caratteristiche delle tecniche moderne è quella di concentrare l’ener-gia nella regione acuta, il vibrato appare in esse più accentuato di quanto in realtà non sia. I due aspetti del canto moderno - la risonanza me-tallica degli armonici più alti e il vibrato accen-tuato - sono così strettamente associati che noi oggi spesso percepiamo una voce non metallica con un vibrato moderato come se non ne aves-se affatto (agendo sulle manopole dell’impianto ad alta fedeltà è possibile alterare il timbro del-la voce dei cantanti mettendo in risalto gli ar-

monici bassi o quelli acuti; anche se questo non corrisponde esattamente a far cantare un tenore romantico come uno rinascimentale o viceversa, il procedimento è utile per capire come possa essere influenzata la valutazione soggettiva del vibrato). È possibile, dal punto di vista dell’emis-sione, ridurre il vibrato della voce fino a renderla «fissa», ma io non conosco alcun autore che mai lo abbia richiesto. È invece ben documentata,7 nel canto da camera rinascimentale e barocco, la pratica di «fermare» («fermare», si badi, non fissare») o «vibrare» la voce a seconda delle esi-genze espressive mentre penso sia ragionevole 7 M. Uberti e O Schindler, Contributo alla ricerca di una vocalità monte-verdiana: il «colore» in «Congresso internazionale sul tema Claudio Monte-verdi e il suo tempo: relazioni a comunicazioni», Venezia, Mantova e Cre-mona, 1968, a cura di R. Monterosso, pp. 519-37. Può essere interessante osservare che Zacconi, il quale definisce il tremolo come «la voce tremante» (Prattica di musica, cc. 60r), dice a c. 54v: «Il tremolo nella Musica non è necessario; ma facendolo oltra che dimostra sincerità, et ardire; abbellisce le cantilene».

Fig. 7/a: tecnica rinascimentale da camera

Fig. 7/b: Voix sombrée

dedurre che nel più sonoro canto da cappella esso fosse un elemento costante anche se non così evidente come, più tardi, nel canto roman-tico da teatro.

Fine della prima parte

(*) Già Docente ai Conservatori di Musica di Pesa-ro, Parma e Torino; Ricercatore e Direttore di Coro.

Fig. 8: Gruppo di cantori rinascimentali

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Significato del canto popolare regionaleal giorno d’oggi. I giovani e la tradizione

di Giovanni Cucci (*)

La locuzione “canto popolare” l’abbiamo ap-presa a scuola o in famiglia; a scuola, se e

dove abbiamo incontrato, per nostra fortuna, un docente interessante ed esperto dell’argomento, e anche, capace di farci apprezzare questo filo-ne della musica e di farcela praticare da giova-nissimi, o più avanti, da meno giovani. Se poi abbiamo desiderato progredire nello studio della musica, abbiamo potuto associare alla musica la storia, l’etnologia, le scienze sociali, umanisti-che, la danza, il teatro (e la lista potrebbe essere lunga) e possiamo aver raggiunto un certo grado di competenza.

In ogni caso ho parlato di “studio” e ciò per me è un aspetto essenziale per la formazione della persona.

Tengo molto a sottolineare l’importanza e il ruo-lo della scuola di ogni livello, per l’educazione musicale e, in prospettiva più lunga, per suscitare vitali energie nei giovani perché possano godere delle bellezze della musica e farne mezzo, maga-ri inconscio, di educazione civile, psicologica, di scienza ed arte, per la salvaguardia delle tradizio-ni. Questi argomenti sono esposti nel fascicolet-to Validità Del Canto Corale, introduttivo alla

stesura del libro “Cantar Leggendo” del Maestro Roberto Goitre.

Andando ora più vicino al significato del tito-lo dell’articolo, dirò, in base alla mia esperienza, che il canto popolare regionale è materia di molti cori, alcuni dei quali ancora oggi riescono a pren-dere (leggi: ascoltare, registrare, usare vocalmen-te) melodie vive del passato, ricordate da anzia-ni, con l’intervento di persone (generalmente un musicista, spesso il direttore del coro) in grado di mutare questo esito canoro in un brano da eseguire in coro. Altri cori utilizzano, come il Coro Sette Torri, da me diretto, canti del passa-to composti da famosi musicisti, quali Kodály, Sinigaglia, Bàrdos op-pure canti composti da musicisti viventi di chia-ra fama, tra i quali cito Paolo Bon, Javier Busto, Elena Camoletto, Mauro Zuccate, Davide Canti-no, Roberto Padoin, Corrado Margutti.

Autori famosi ed affermati, perché le opere arti-stiche….. giovano alla salute di più delle opere

popolare è stato (e sempre meno è) un cantare spontaneo ed incolto di testi tradizionali, cioè es-senzialmente “tra-mandati”.......

Farcoro - didattica 3

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mediocri, e ciò, a mio parere, non vale soltanto per i canti popolari.

Per la ricerca delle fonti originali regionali af-fermo che in certe regioni il lavoro di raccolta e di utilizzazione dei canti popolari è più agevole e produttivo che in altre, perché negli anni, la tradizione si è conservata più viva ed apprezzata ed anche perché le istituzioni pubbliche (la scuo-la, le associazioni Pro Loco, le amministrazioni comunali, provinciali, regionali ecc.) la sostengo-no in modo più convinto e concreto. E’ ancora accettato da quasi tutti che cantare “bene” è una modalità conveniente, anche se non è il caso di dettagliare tanti particolari.

Insisto pertanto che occorre “studiare” per can-tare bene, come occorre studiare per svolgere mille altre attività della vita.

Nei Concorsi corali, quasi sempre, si chiede di essere intonati, di avere un gradevole timbro vocale, di rispettare i canoni stilistici, di essere

espressivi. Molti cori organizzano o frequen-tano corsi di vocalità, affermati e propaganda-

ti ai diversi punti cardinali del globo terrestre; frequentano seminari di svariati argomenti, vuoi relativi a periodi storici della musica, dagli anti-chi agli ultra moderni, vuoi relativi a particolari musicisti. Molti cori ascoltano spesso altri cori, per imparare, per confrontare, per ampliare le capacità di giudizio, per prendere spunti interes-santi da imitare, per rivedere amici e trascorrere momenti piacevoli insieme. Tutto questo lavorio di preparazione, di affinamento, che può durare anni, tende al migliore sviluppo della persona, alla individuale realizzazione.

Armonizzazione ed elaborazione del canto corale popolare: metodi a confronto

Si parte da una canzone e si ottiene alla fine un pezzo polifonico. Può essere molto divertente questo lavoro, avendo un buon orecchio musi-cale, sfruttando appieno le conoscenze del con-trappunto. La melodia è associata ad un testo ed il testo ha una grande importanza, perché fonte di idee, spesso di tante idee. La melodia mentre è resa polifonia acquista delle libertà, si riveste di colori musicali, può persino accogliere qualche incertezza di intonazione o ritmica della fonte originale. In certi casi può essere utile usare tem-pi irregolari, procurando qualche difficoltà agli esecutori ma esprimendo un tocco aggiuntivo di creatività.

Certamente l’occhio rimane consapevolmente attento alle possibilità del coro esecutore per cui la nascente polifonia può essere irta di difficoltà solo se il coro esecutore è di alto livello; quasi mai conviene approntare pezzi troppo difficili, con possibile perdita di efficacia. Nell’economia del coro può ancora essere fruttuoso, a scopo didattico, fare sperimentazioni di invenzioni rit-miche e armoniche speciali, inconsuete. A volte

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può essere interessante inserire voci recitanti sin-gole o dialoganti, per creare momenti riassunti-vi, e/o teatralizzanti, e ciò può avvenire tenendo presente che l’informatore originale quasi mai è un coro. In tal modo si rende più attraente il can-tare, soprattutto per i cantori giovani.

A questo punto riporto delle interessanti anno-tazioni di un compositore, che conosco da una diecina d’anni, Davide Cantino, col quale il coro Sette Torri ha collaborato.

Armonizzare, eleborare e... madrigalizzare?

Il diploma di Musica Corale e di Direzione di Coro richiede sette anni durante i quali il di-scente analizza pazientemente i sacri testi della polifonia, quelli di Palestrina, Marenzio, Mon-teverdi, per citare i più noti, al fine di acquisire una tecnica contrappuntistica che gli permetta di imitare il loro stile; lo scopo non è però tanto quello di imitare lo stile dei classici, quanto piut-tosto quello di imparare a scrivere per coro. E qualcuno dei diplomati impara effettivamente a scrivere, più o meno bene, per coro, ma sicco-me in tale apprendimento si usa - e giustamente - come modello i classici sopraccitati, alla fine del corso di studio, questi diplomati escono dal Conservatorio con l’idea che lo stile della musica corale sia lo stile polifonico e che lo stile polifo-nico sia innanzitutto quello della musica sacra, la polifonia per eccellenza, senza considerare che la polifonia non fu solo, nel magico periodo

della vocalità rinascimentale, quella del Mottetto, ma anche, e non di meno quella del Madrigale eminentemente, cioè della musica profana... La conseguenza deteriore di questa forma mentis inculcata nei diplomati in “Musica Corale” è quella di considerare musica corale solamente la Polifonia, laddove per polifonia si intende quella sacra (e profana) del Rinascimento e quella di tutti i compositori (anche contemporanei) che hanno saputo (o sanno), in qualche modo, ripro-durre lo stile della vocalità polifonica. Che posto può trovare, in questo panorama, il cosiddetto genere popolare? A dire il vero non lo può trova-re! Può crearsi la convinzione che popolare equi-valga a leggero e polifonico equivalga a classico, e siccome la musica classica è degna di passare alla storia, chi passa al popolare esce dalla storia. Sembra una conclusone affatto logica. Ma con-viene esplicitare la parola “popolare”. Prima di tutto è l’espressione genuina del popolo, e su ciò dovremmo essere tutti d’accordo.

Popolare è stato (e sempre meno è) un cantare spontaneo ed incolto di testi tradizionali, cioè essenzialmente “tramandati”. Possiamo pensare ragionevolmente che queste esecuzioni sponta-nee non possono che avere una esistenza tem-poralmente limitata, anche se ancora, in zone territorialmente limitate, sussistono. E poi, una forma di esecuzione deve lasciare forzatamen-te passivi studenti che hanno dedicato anni di studio alla musica? E non sarà certo qualche ar-monizzazione ben fatta a far entrare il popolare

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nella storia della musica. Se si afferma la visione secondo la quale “fa storia” solo ciò che è colto e se il “popolare” vuole rimanere “incolto” allo-ra non può pretendere di avere le attenzioni del mondo colto.

Qualche diplomato in “musica corale” ha pen-sato di dare al popolare il diritto di cittadinanza nel mondo della musica colta facendolo passare al vaglio della cosiddetta elaborazione, ma anche questo è un escamotage: il popolo del popolare la-vorava, ma non elaborava, nel senso che i suoi canti potevano anche essere canti di lavoro, ma non lavoro sui canti.

Poi, elaborare è più deviare, è più trasformare che tramandare perché, come è noto, l’elaborazione aggiunge al canto popolare elementi estranei in-trodotti dallo stesso compositore che elabora.

Quindi, armonizzare è poco, elaborare è trop-po. Bisogna trovare una soluzione che consenta al popolare di essere tramandato senza essere tradito. E siccome i soggetti che lo tramandano sono sempre meno numerosi –mi riferisco alla gente del popolo che ancora canta – è necessario affidare questa tradizione alle cure degli addetti ai lavori, cioè a quei diplomati in musica corale, che non sanno bene come trattarlo. Escludiamo pertanto l’armonizzazione, escludiamo l’elabo-razione. La madrigalizzazione potrebbe essere la soluzione. Va spiegata , con i tempi necessari e con la calma necessaria, ma essa potrebbe far entrare il popolare nella storia della musica (ov-viamente colta, cioè classica). L’entrata del po-polare nella storia può avvenire se i diplomati in musica corale saranno disposti a mettere al ser-vizio delle melodie della musica incolta tutte le tecniche polifoniche della musica colta.

La melodia popolare non va toccata, non deve subire modificazioni, ma può essere trattata a mo’ di cantus firmus, così come il canto grego-riano veniva trattato ai bei tempi della nascita della polifonia... Il canto popolare dovrebbe es-sere come la pietra angolare di una nuova “sto-ria” della polifonia.

Il canto popolare si esaurirà abbastanza pre-sto, anche se non lo vorremo e ci dispiacerà; un modo di salvarlo è sradicarlo dall’incolto per tra-piantarlo nel colto: se ne potrà fare una coltura, assonante, non a caso, con cultura.

In altri termini l’esecuzione incolta è canto po-polare “in diretta”, mentre l’esecuzione colta è canto popolare “in differita”. Certo, la diretta è preferibile alla differita, ma, se i tempi non lo permettono, ben venga anche la differita; per l’equivalente sportivo mancherà il trasporto ed il coinvolgimento della diretta, ma rimarrà un do-cumento utilizzabile con gradimento, con possi-bilità di rinnovate emozioni. E proseguendo con queste considerazioni di filosofia corale possia-mo dire che il canto popolare è quel fascino della diretta, con il quale è nato ed è rimasto, finché il popolo lo ha cantato; ma da che il popolo non lo canta quasi più, sarà forse la differita di un coro popolare che “ finge “ la diretta, quello che lo salverà dall’estinzione? Mi riferisco a quei cori che pensano di ricreare la diretta con scialbe esecuzioni denominate “spontanee”: qui la di-retta non esiste più perché il concetto stesso di coro non è proprio del gruppo spontaneo.

Se vedi un filo d’erba vivere in diretta in un pra-to, non puoi pensare di vederlo vivere allo stesso modo se lo trapianti in una serra: la differita sarà inevitabile, anche se ben simulata. E se quel filo d’erba potesse parlare, forse direbbe: “riportami

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alla luce del sole e al suo calore naturale!”

Noi non possiamo più dare al canto popolare il suo calore naturale, ma possiamo riportarlo alla luce sotto un nuovo aspetto: quello della coltura colta. La cultura è come la differita: toglie alla coltura la naturalezza della diretta. Ma, ancora, è meglio lasciar morire in “diretta” o far sopravvi-vere in “differita”?

Il coro Sette Torri ha inciso nel 2005 un CD, uscito all’interno di un libretto intitolato Casina sòla per i tipi di Giancarlo Zedde, nel quale cin-que compositori hanno cercato di far vivere “in differita” una quindicina di canti cosiddetti “po-polari”. Ogni compositore ha messo, ciascuno

a suo modo, la propria tecnica colta al servizio dell’incolto, cercando di strappare dall’oblio can-ti che, diversamente, sarebbero rimasti solo nella memoria di chi quegli stessi canti ebbe la fortuna di viverli in diretta. Questa operazione somiglia molto ad un specie di clonazione, e tuttavia non abbiamo altro modo per innestare nella storia della musica ciò che, diversamente, non avrebbe storia. Se per sopravvivere bisogna acculturarsi, ben venga dunque la cultura!

Questa analisi, seppure interessante, non toglie che sia sopravvissuto, anche nella storia della musica, solo ciò che è nato, o almeno è diven-tato, colto. Non fa storia, senza l’acculturarsi, l’aver eseguito, potremmo dire, facendo il verso

a Dante Alighieri, “non fa scienza, sanza lo ritener, l’avere inteso” [ Paradiso V, 41-42 ].

E allora bisogna che il popolare si lasci trucca-re dagli esperti di “musica corale” che, in buona fede, desiderano abbellirlo senza fargli perdere i connotati: qui non si tratta di dover truccare un brutto viso per renderlo meno spiacevole, ma soltanto di poterlo incorniciare per metterlo in un museo; e il museo è quello della storia, infi-ne niente può passare alla storia senza che sia incorniciato per opera della cultura, nemmeno il popolare. Prendiamo una scena tante volte vis-suta in diretta dai suoi protagonisti: una nonna che canta un canto popolare ai suoi nipotini. Un bel soggetto, sicuramente, ma che per noi non è più contemplabile: per questo non ne sentiamo più il suono. Invece, prendiamo quel soggetto, e inquadriamolo, come farebbe un pittore con un suo quadro, e mettiamolo in un museo; lì chiun-que può ancora ammirarlo, seppur fuori dal con-testo originale: non ci sarà il contesto ma almeno c’è ancora il testo!

Se riusciremo ad incorniciare il canto popolare potremmo anche utilmente evitare che tanti can-tori escano dai cori popolari per il solo motivo che lì non ci sono quadri da ammirare; invece no: sappiano questi cantori che i quadri non sono contemplabili solo nei cori polifonici di musica sacra, ma lo sono anche nei cori che hanno fatto “incorniciare” qualche canto popolare affidan-dolo alla maestria di artigiani capaci di fare tale lavoro “artistico”.

(*) Direttore del “Coro Sette Torri” di Settimo To-rinese e della “Bottega Musicale” di San Raffaele Cimena

Il Coro “Sette Torri” di Settimo Torinese

24

Ottaviano Petruccie la stampa della musica a caratteri mobili

di Franco Mariani (*)

ci anni più tardi appare a Essinglen il Collectorium super magnificat, stampato da Fyner usando note musicali fuse ma con i righi tracciati a mano in un secondo tempo. Subito dopo, a Roma Ulrich Han (Gallo) stampa il Missale romanum (1476) che, come recita il colophon “…con il metodo dell’arte nuova venne composto e stampato insieme con il canto, il che mai era sta-to fatto”; l’effetto finale non è entusiasmante essendo il risultato di una stampa con matrici lignee dal disegno piut-tosto grossolano e dalle dimensioni irregolari. I tentativi per arrivare a esiti soddisfacenti si susseguirono, ma sempre con dubbi risultati ed era ormai acquisito che il miglior modo di stampare musica “figurata”, cioè composta da note e canto, fosse quello di stampare solo due delle tre componenti (righi, note, testo del canto) e tracciare a mano la re-stante.

Nel 2001 è stato celebrato il quinto centenario di un avvenimento importante nel campo della tipo-

grafia, secondo forse solo all’innovazione apportata da Gutenberg alla stampa del libro: nel 1501 a Venezia lasciava i torchi una raccolta di musica a stampa, per la prima volta realizzata con caratteri mobili dal tipografo Ottaviano Petrucci, un nome ancora oggi poco conosciuto ai più, ma ben noto a quanti si interessano di storia della musica. La ricorrenza è stata ricordata a Venezia con un Convegno internazionale organizzato dalla prestigio-sa “Fondazione Ugo e Olga Levi per gli studi musicali” al quale hanno partecipato studiosi di storia della stampa (compreso l’autore di questo contributo), della musica e di musicologia provenienti, oltre che dall’Italia, da Francia, Gran Bretagna, Germania, Canada, Stati Uniti, Nuo-va Zelanda.

Chi era Ottaviano Petrucci, definito anche il Gutenberg della musica?

A Magonza, nel 1457, J. Fust e P. Schoeffer stampano il Salterio, nel quale ai righi stampati al torchio furono aggiunte a mano le note. Quindi-

Farcoro - storia

Petrucci non indicò mai quale proce-dimento adottasse nella stampa; secon-do alcuni questa av-veniva in tre impres-sioni successive...

25

Ottaviano Petrucci fa la sua comparsa a Vene-zia alla fine del secolo. Della sua giovinezza si sa poco: nato nel 1466 a Fossombrone (non di-stante da Urbino) si era trasferito in laguna nel 1490, sembra per apprendere l’arte tipografica, anche se a ventiquattro anni era un po’ tardi, allora, per imparare un mestiere; in effetti cosa abbia fatto Petrucci fino al 1490 rimane un mi-stero. Originaria di Fano, città dalla quale era stata allontanata per motivi politici, la sua fami-glia si era trasferita a Fossombrone ed è proba-bile che Ottaviano abbia frequentato la nobiltà locale e, verosimilmente, a Urbino la corte del duca Federico del Montefeltro e poi di suo figlio Guidobaldo. Questa ipotesi è sostenibile consi-derando la fiducia riposta in lui dai duchi Della Rovere, successori dei Montefeltro, nel corso della sua vita; per contro non trova corrispon-denza nel mestiere che Ottaviano intraprende: quella tipografica non era certo arte di prestigio, meglio sarebbe stato essere mercante. È possibi-le poi che Petrucci si sia trasferito a Venezia già conoscendo la tipografia? Per quanto se ne sa, la stampa fu introdotta a Urbino proprio nel 1490, e quindi troppo tardi per Ottaviano. Nel 1476 a Cagli, prossima sia a Urbino che a Fossombro-ne, era stata attiva una tipografia che però non ebbe vita lunga e quindi sembra da escludere che abbia potuto compiervi un apprendistato (a soli dieci anni?). Se non conosceva la tipografia, co-nosceva almeno la musica?

Certo è che Petrucci nell’ultimo decennio del secolo è a Venezia. La Serenissima era all’epo-ca il centro di gran parte del traffico internazio-nale; disponeva di una notevole organizzazione commerciale che le consentiva di intrattene-re rapporti con tutti i paesi che si affacciavano sull’Adriatico, sullo Jonio, sull’Egeo e con paesi dell’entroterra (Austria, Boemia, Ungheria). Ol-

tre alle attività commerciali fiorivano in Venezia quelle artigianali ed artistiche; le diverse espres-sioni culturali godevano di protezione e favori; la vita civile era regolata da ordinamenti illuminati. Il benessere raggiunto favoriva un tenore di vita elevato nel quale trovavano posto feste, canti, rappresentazioni musicali e i musici e i letterati che approdavano da più parti a San Marco erano

tenuti in grande considerazione. La stampa a ca-ratteri mobili aveva trovato in Venezia il terreno ideale per svilupparsi ed affermarsi: agli stampa-tori la Serenissima accordava privilegi (specie di brevetto o monopolio dell’opera prodotta) e nel retroterra (a Treviso, Padova, Toscolano, Mader-no) era possibile approvvigionarsi della carta ne-cessaria, di buona qualità e già esportata in larga

il colophon della Paolina

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misura; le opere realizzate godevano di un vastis-simo mercato di vendita, in pratica tutte le terre toccate dai mercanti veneziani. Merita ricordare che nell’ultimo quarto del secolo in laguna ope-rarono più di centocinquanta tipografie – tra le quali quella di Aldo Manuzio – mentre a Roma erano una trentina, poco meno di cinquanta a Bologna ed una ventina a Firenze.

Non si sa cosa abbia fatto e chi abbia frequen-tato Petrucci appena arrivato a Venezia; dalle due lettere che presentano la sua prima opera si deduce che si era bene inserito negli ambienti culturali veneziani, così come è verosimile che abbia incontrato e frequentato due suoi concitta-dini, Bartolomeo Budrio e Franceco Spinaccino, personaggi interessanti per le rispettive attività: tipografo il primo, maestro di liuto il secondo (del quale Petrucci stamperà un’opera); deve aver, quanto meno, imparato l’arte tipografica, o deve essersi dedicato a perfezionare le sue cono-scenze. Il 25 maggio del 1498 Ottaviano avanzò richiesta alla Serenissima per ottenere il privile-gio esclusivo per stampare musica affermando che “con molte sue spese et vigilantissima cura ha trovato quello che molti non solo in Italia, ma etiam dio de fuora de Italia za longamente indarno hanno investigato che è stampar comodissimamente canto figurado. Ed per con-seguenza molto più facilmente canto fermo; cosa precipue alla Religione Cristiana de grande ornamento et maxime necessaria; per tanto el soprascritto supplicante ricorre alla Ill.ma Signoria … supplicando se degni concederli come a primo inventore che niuno altro nel dominio di V. S. possi stampare canto figurado né intabuladure de organo e de liuto per anni venti ne anche possi portare ne far portare o vendere dicte cose in le terre e luoghi de Excelsa V. S. stampade fuora in qualunque altro luogo sotto pena de perdere dicte opere et de pagare ducati X per ciascheduna opera…”; il Consiglio concesse il privi-legio con la formula: “Quod suprascripto supplicanti

concedatur prout petit”.

Contro ogni previsione, alla concessione non fece seguito alcuna stampa: bisognerà attendere fino al 1501 perché veda la luce la prima edizio-ne musicale stampata interamente con caratteri

mobili. Le ragioni del ritardo potrebbero esse-re ricercate nella messa a punto del sistema di stampa, o forse nella necessità di reperire i fi-nanziamenti necessari per avviare una tipografia propria e per una prima edizione. Fatto è che dopo tre anni esatti, il 15 maggio 1501, Ottavia-no Petrucci edita la sua prima opera, l’Harmonice musices Odhecaton (noto più spesso come Odhe-caton), cioè cento canti di musica armonica (in realtà sono novantasei), un volumetto in 4° di forma oblunga (23 x 16 cm), con testo a carat-teri gotici, nitidissimi, stampato con un inchio-stro nero brillante, mantenutosi inalterato nelle pagine pervenuteci a distanza di cinque secoli. I caratteri metallici usati, non si sa se in piombo, o stagno, o in loro lega, furono certamente incisi da maestri del mestiere: non era difficile trovar-ne allora a Venezia dove i maggiori stampatori davano rilevante importanza ai caratteri usati per le loro opere (ricordiamo ancora che all’epoca era attiva da oltre un decennio la tipografia di Aldo Manuzio, noto per la ricerca posta nella

la prima pagina dell’Odhecaton (Venezia, 1501)

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scelta dei caratteri e nell’eleganza della pagina stampata). È molto verosimile che il Petrucci si sia avvalso dell’opera di Francesco Griffo, bo-lognese, raffinato incisore “dalle mani dedalee”, padre del corsivo usato per il Virgilio stampato da Manuzio (Venezia, 1501) e per il Petrarca del Soncino (Fano, 1503).

Petrucci non indicò mai quale procedimento adottasse nella stampa; secondo alcuni questa avveniva in tre impressioni successive: la prima per i righi, la seconda per le note, la terza per il testo, le iniziali, i numeri di registro ecc.; se-condo altri la stampa - almeno in un secondo tempo - avvenne mediante due sole impressioni. Ma ciò che meravigliò fin dall’inizio fu l’elevata perfezione raggiunta nelle impressioni successi-ve (in pratica le ristampe) nelle quali mai furono riscontrate differenze di registro, il che faceva dell’opera del Petrucci un vero capolavoro e del suo autore un vero artista; con i mezzi a dispo-sizione, il problema della tenuta del registro era una delle maggiori difficoltà che gli stampato-ri incontravano in occasione di ristampe (per la carta, supporto altamente igroscopico, sono suf-ficienti piccole variazioni di temperatura e umi-dità per creare problemi di registro).

L’Odhecaton e le molte edizioni che seguirono, incontrarono subito il favore del pubblico e il forsempronese deve averne tratto discreti utili, una parte dei quali venne sicuramente investita nell’acquisto di beni nella città natia, dato che - nell’aprile 1504 - il duca Guidobaldo gli conces-se l’onore di essere eletto nel Consiglio di Fos-sombrone, nel quale, secondo gli statuti vigenti, nessuno poteva sedere “nisi sit et esse reperiatur civis originarius eiusdem civitatis, possideat bona stabilia in dicta civitate forisempronii et eius districtu valoris cen-tum florinorum ad minus et habitaverit ad minus per vi-

ginti annos continuos…”. Nel 1511 Petrucci decise di trasferire la propria attività nella città natale, spintovi dalla situazione politica veneziana, dal-la scomparsa dei suoi protettori e forse anche dall’età; da un atto notarile risulta che nell’aprile di quell’anno prese in affitto a Fossombrone una casa di Francesco di Paolo Guidi da Urbino, con l’uso delle stalle e della cisterna, al prezzo di ven-tidue ducati e mezzo l’anno. Nella sua terra, Pe-trucci continua a dedicarsi alla stampa, ma non

più solo musicale. Nel 1513 edita l’opera più im-portante di Paolo da Middelburgo, vescovo della città: la De recta Paschae Celebratione: et de die Passio-nis domini nostri Jesu Christi, più nota come Paulina, trattato sulla correzione del calendario romano e sui calcoli per determinare l’esatta cadenza della Pasqua. Un volume prestigioso, con fregi bellis-simi e iniziali stupende, un testo nitido, di grande effetto tipografico, che ancora oggi colpisce e si lascia ammirare quale esempio superbo di bella stampa; della Paulina è da rimarcare la bellezza del carattere, disegnato da Francesco Griffo, in quegli anni presente a Fossombrone. Nel 1519 Ottaviano Petrucci viene invitato dalla comunità di Sora (Frosinone) a impiantare colà una tipo-grafia; per rendere più appetibile l’offerta, la co-munità decide di regalare al Petrucci un appez-zamento di terra sulle rive del torrente Carnello

la pagina d’apertura della Paolina (o Paulina)

28

per erigervi una cartiera, in modo che non debba preoccuparsi per l’approvvigionamento di carta. Molti hanno dubitato dell’esistenza di questa cartiera, almeno fino ad oggi, ma della sua co-struzione e del suo funzionamento si può esse-re certi, dal momento che abbiamo rintracciato

sia l’atto di donazione del terreno per costruirla (1519), sia un atto notarile del 5 gennaio 1535 che ne riporta la vendita fatta dal nostro Ottavia-no a Sebastiano Bonaventura di Urbino.

Non è, quella di Sora, l’unica cartiera possedu-ta dal Petrucci, che ne ebbe un’altra nei pressi della sua città natale, in località Acquasanta, nel-la frazione di San Lazzaro di Fossombrone. Di questa cartiera, per il cui impianto lo storico for-sempronese A. Vernarecci cita la data del 1520, ma certamente anteriore di alcuni anni (gli atti notarili di Sora lo identificano già come posses-sore di cartiera), Ottaviano Petrucci ne venderà metà nel 1523 e metà dieci anni più tardi, sempre allo stesso acquirente, Gio. Francesco di Paolo

di Guido di Urbino, antenato della famiglia Pas-sionei.

Delle opere musicali da lui stampate ci resta-no pochissime copie, peraltro incomplete, dell’Odhecaton e pochi frammenti delle oltre cento edizioni musicali edite dalla sua officina ti-pografica. Tra le sue edizioni ricordiamo le Mes-se di Josquin de Pres, Brumel, Ghiselin, e Pierre de la Rue. E ancora undici libri delle Frottole, le intavolature del Bossiniensis, le Messe di Mou-ton e quelle di Fevin, i Mottetti della Corona, la Musica di messer Bernardo Pisano sopra Petrar-ca,…

Petrucci muore nel 1539, forse a Venezia (e non se ne conosce il luogo di sepoltura) dopo un’esi-stenza che lo ha visto alla ribalta dell’intensa vita tipografica veneziana e dopo aver ricoperto nella sua città natale una serie ininterrotta di cariche pubbliche.

(*) Già docente di Storia del libro presso l’Istituto

Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino e di

Storia della stampa e dell’editoria presso l’Univer-

sità degli studi di Urbino. È socio dell’IPH (Interna-

tional Paper Historians) e della BAPH (British Asso-

ciation of Paper Historian).

disegno della cartiera di O.P. a San Lazzaro di Fossombrone

29

Farcoro - composizioni

Hibiscus

di Cristian Gentilini

Hibiscus è ispirato ad una melodia popolare di origine quattrocentesca dal titolo “E d’un bel matin d’amore”, dove il lento risveglio di due amanti ai primi chiarori dell’alba, ho immaginato sia simile

al delicato fremito col quale si schiude il fiore hibiscus. L’idea poetica di questa lieve vibrazione rivive musicalmente nel battimento generato dalle voci che partendo dall’unisono si spostano gradualmente formando piccoli cluster diatonici. Il suono delle vocali è arricchito da quello particolare delle consonanti sonore “N” ed “L”. La composizione inizia con un lento e progressivo aumento di tensione, creato con un lieve spostamento verso l’alto del registro sulle note del tema molto dilatate nel tempo (dalla nota perno Sib nella sezione A, si passa al Do nella sezione B poi al Re alla sezione C). Nella parte centrale B quattro soli (uno per sezione) si impongono all’attenz ione dell’ascoltatore cantando liberamente con messe di voce sui medesimi suoni tenuti in pianissimo ognuno dalla propria sezione. Nell’ultima sezione C le escursioni dinamiche coinvolgono le intere sezioni di voci e con un accelerando ed un crescendo di-namico si raggiunge il “risveglio” connotato da un movimento melodico, anch’esso desunto dalla melodia originale, che diventa ripetitivo e che vuole quasi evocare il suono delle campane a festa.

Testo

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Compositore e direttore di coro, ha svolto gli studi accademici presso il Conservatorio di musica G.B. Martini di Bologna diplomandosi in chitarra sotto la guida del M° E. Becherucci, in musica corale con il M° P.P. Scattolin, e composizione con il M° F. Carluccio. In seguito si è perfezionato nella direzione corale conseguendo numerosi stage e masterclasses con i maestri G. Graden, L. Larsen, G. Grun, D. Fasolis, P. White e F. Heyerick. Svolge un’intensa attività concertistica come direttore di varie formazioni corali

e cantore in diversi gruppi vocali (fra cui Speculum Ensemble e Schola Gregoriana Benedetto XVI di Bologna). Nell’ottobre 2003 è stato finalista del Concorso Internazionale per direttori di coro Mariele Ventre. Come compositore ha ottenuto impor-tanti premi e segnalazioni in concorsi nazionali ed internazionali (“Mozart oggi” Milano 2006; “Simone Gentile” Arezzo 2006; “Fosco Corti “ Arezzo 2006; “...nuvole sopra Torino” Torino

2006; Concorso Internazionale di Composizione Corale FTSC Lugano 2007; III International Com-posers Competition “Musica Sacra” Cambridge 2007; Concorso internazionale di composizione corale “Città di Vittorio Veneto” ed. 2007 e ed. 2008; Concorso internazionale di composizione corale “Se-ghizzi” Gorizia 2007). Nel 2005 ha fondato il “Coro da Camera Eclectica”, formazione specializzata nel repertorio corale contemporaneo. Dal 2008 collabora con l’Accademia Filarmonica di Bologna nel “Progetto cori giovanili”.

CRISTIAN GENTILINIe-mail: [email protected]

web: www.cristiangentilini.it

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Farcoro - analisi

Selva di varia ricreazioneOrazio Vecchi (Modena 1550 - 1605)

di Giovanni Torre (*)

La Selva di Varia Ricreatione di Horatio Vecchi, data alle stampe per la prima volta nel 1590

(Venezia, A. Gardano), è una delle opere più geniali del musicista modenese e sicuramente anche la più varia e interessante fra quelle com-poste durante i sette anni di permanenza a Cor-reggio (1586 – 1593), anni che a loro volta risul-tano fra i più fertili della sua vita artistica.

Fanno parte di quest’opera 47 brani suddivisi in “Vari soggetti a 3, a 4, a 5, a 6, a 7, a 8, a 9, e a 10 voci. Cioè, Madrigali, Capricci, Balli, Arie, Justinia-ne, Canzonette, Fantasie, Serenate, Dialoghi, un Lotto amoroso, con una Battaglia a Dieci nel fine, e accomo-datovi la Intavolatura di Liuto alli Arie, ai Balli, e alle Canzonette”.

Frontespizio della Selva nella stampa del 1590 Frontespizio della Revisione critica a cura di Giovanni Torre (2007)

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Fino a pochi anni fa, di questi 47 brani ne figu-ravano molto pochi nei repertori dei gruppi vo-cali interessati alla produzione profana del ‘500 italiano. Questa assenza era sicuramente dovuta anche alla mancanza di una edizione moderna e completa dell’opera a cui fare riferimento. Con la presente pubblicazione, realizzata in occasione delle Celebrazioni del IV Centenario della mor-te di Orazio Vecchi, tenutesi a Modena durante tutto l’anno 2005, si è voluto colmare questa la-cuna, con la speranza di far conoscere meglio uno degli Artisti più sensibili e umani del grande secolo dell’arte polifonica italiana, e di far rivive-re, in chi lo canta e in chi lo ascolta, l’atmosfera poetica e popolare della sua terra d’origine.

Attualità della Selva per un repertorio di mu-sica d’assieme

Nella Selva, Orazio Vecchi utilizza per la prima volta e in forma pienamente articolata, quella «poetica» del «molteplice» che continuerà a spe-rimentare anche in tutti i suoi successivi e mol-to più noti capolavori: Il Convito musicale (1597), L’Anfiparnaso (1597) e Le Veglie di Siena (1604).

La Selva rappresenta quindi una primizia, e come tale sprigiona tutta la freschezza e il sapore pro-pri dei frutti selvaggi d’inizio stagione (come Vec-chi stesso definisce i 47 brani della raccolta). E questa freschezza e questo sapore donano alla raccolta, rispetto alle altre tre opere maggiori, un fascino del tutto particolare. E’ il fascino selvati-co della brulicante efflorescenza di forme e della compresenza, apparentemente casuale, di aulico e di villanesco (e di vocale e strumentale: nella Selva c’è la sola musica di Vecchi esplicitamente per strumenti).

Come tali, essi non solo si prestano a una grande

elasticità di scelta per un repertorio che voglia spaziare sui più svariati generi del XVI secolo, ma si prefigurano anche, e a pieno titolo, come esempi di musica d’assieme, da sperimentare all’insegna del divertimento musicale ancora oggi perfettamente in linea con lo spiri-to originale voluto dal suo Autore: “SELVA dico dunque per non se-guire in essa un filo conti-nuato, così veggiamo nelle Selve gli arbori posti sen-za quell’ordine che ne gli artificiosi giardini veder si suole .......A questa voce SELVA aggiungo poi di RI-CREAZIONE, perché si come in una Selva si mirano varietà d’herbe, e di piante porgere ai riguardanti tan-to diletto, così debba la varietà dell’harmonie sparsa fra questi miei canti sembrare una SELVA. Et havendo altresì giunto in uno lo stil serio col famigliare, il grave col faceto, e col danzevole, dovrà nascerne quella varietà, di che tanto il mondo gode.”

Lo «stil serio e il famigliare, il grave, il face-to e il danzevole» nella «varietà d’herbe e di piante» della Selva

Delle quattordici “varietà d’herbe” e di piante che nella Selva Vecchi espone all’ammirazione dei “riguardanti”, e dei quarantasette sapori di “frutti selvatici” che lo stesso offre all’assaggio dei visi-tatori, quelle che meritano una attenzione par-ticolare, perché capaci di generare il maggior “diletto”, appartengono al “famigliare”, al “faceto” e al “danzevole”. Sono “frutti” cresciuti sugli alberi centenari della cultura popolare e che offrono al Vecchi, nella sua veste di «poeta e cantore della sua terra», il mezzo per esprimere al meglio la sua ineguagliabile arte musicale.

La Selva rappresenta quindi una primizia, e come tale sprigio-na tutta la freschez-za e il sapore propri dei frutti selvaggi d’inizio stagione.....

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Di questi sapori, che meriterebbero «in toto» di figurare in un repertorio di canti del ‘5oo emilia-no, soprattutto se caratterizzato dalla volontà di testimoniare le produzioni artistiche che hanno trovato nella cultura popolare dell’epoca motivo di ispirazione, mi limiterò a citarne solo alcuni.

Il primo frutto che il “riguardante” è invitato ad assaggiare è il Capriccio a 5, Margarita dai Corai: esempio di stile «comico-famigliare» in cui viene descritto il comportamento di una giovane sposa che senza tanti scrupoli usa darsi ad avventure extra-coniugali, approfittando delle frequenti assenze del marito, da lei considerato «turluru», o sempliciotto, perché più preoccupato di disse-tare il suo asino con vino malvasia comprato a Pavia, che a tenerle compagnia. Ora, è interes-sante notare come il testo utilizzato dal Vecchi sia ancora conosciuto in ambito popolare con piccole variazioni, per esempio, nel folklore della stalla della bassa modenese, o come filastrocca nel carpigiano, e nelle campagne del veronese.

Altro esempio è il Capriccio ancora a 5 Cicirlanda, magistrale tratteggio dell’ambiente dell’osteria e dell’atmosfera che in essa creavano i contrasti fra la bella cameriera e gli allegri avventori, al can-to del «Buon pro ti faccia». Nelle parole iniziali «Cicirlanda», «Che comanda?», il testo è rimasto nella tradizione come filastrocca per bambini.

A questa «vinata» ne segue un’altra abbinata a una suggestiva “chanson a boire” popolare fran-cese, Je veu le cerf, che nella versione ritmica italia-na dello stesso Vecchi viene trasformata, nella parte finale, in un fantasmagorico inno a Bacco.

Gli altri quattro Capricci sono esempi di “sti-le danzevole” con cui Vecchi, servendosi anche dell’accompagnamento del liuto, amplia e arric-chisce la vivacità espressiva già presente nei testi poetici. Fra questi brani, una citazione partico-lare merita il ballo in ritmo ternario Gioite tutti, indicato nella stampa originale come «Saltarello detto il Vecchi». Questo Capriccio è una diretta testimonianza, in forma artisticamente elevata, del credo estetico del Maestro: un vero e proprio inno ai piaceri della giovinezza che il Vecchi in-vita a gustare per tempo, «in suoni e in canti e in balli», prima che «s’imbianchi il crine».

Allo stesso genere di brani con accompagna-mento di liuto appartengono le Arie a 3 e le Can-zonette a 4. Di queste ultime, esempio particolar-mente interessante è il brano So ben mi c’ha buon tempo, aria che ha goduto subito di una grande celebrità e che ha mantenuto fino ai giorni no-stri, tanto da figurare in molte raccolte di musica rinascimentale per coro. Il testo poetico, condito con un intreccio musicale vivace e arguto a ritmo di balletto, inizia con espressioni dialettali ancora tipiche della parlata modenese e si articola in una

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lunga serie di massime e di proverbi popolari ri-volti con fare scherzoso e per dileggio alla figura dello Zanni, eterno innamorato non ricambiato e contrapposto a chi invece «ha buon tempo», cioè a chi è assistito dalla buona sorte amorosa.

Giunto alla metà dell’opera, il “riguardante”, nell’addentrarsi sempre più nei sentieri della Selva, non può non rimanere affascinato e coin-volto dal grazioso quadretto musicale «en plein air», che il Vecchi traccia con tocchi di pennello vivaci e luminosi nelle due parti della Serenata a 6, Tiridola non dormire, e Sai ch’io ti dico. Questo capolavoro è uno degli esempi meglio riusciti di realizzazione di «varietà d’harmonie» all’interno dello stesso brano. Procedendo, il cammino si fa più aspro e imper-vio, articolandosi su canti a cori contrapposti a 7, 8, 9, e 10 voci. Ma anche in queste composizioni Vecchi offre motivo di divertimento musicale, come nel simpatico gioco di società delle tre par-ti del Lotto Amoroso a 7, o nella bizzarra quanto singolare babele linguistica dei Diversi linguaggi a 9, costruita con l’ausilio delle maschere della commedia dell’arte, sulle arie delle due canzoni popolari «La Franceschina» e «La Girometta».

Per giungere, infine, alla conclusione del viaggio con la monumentale Battaglia d’Amore e Dispet-to a 10 e a cori contrapposti: saggio di notevole perizia contrappuntistica scritto in occasione dei festeggiamenti organizzati da Marco Pio, signore di Sassuolo, in onore della sposa Clelia Farnese, figlia naturale del cardinale Alessandro Farnese, al ritorno dalle nozze celebrate nell’autunno del 1587 nella principesca villa Farnese di Caprarola.Si chiude così, con un inno all’amore e con la Battaglia delle battaglie, un’opera che si può con-siderare un tributo completo al secolo della po-

lifonia vocale, da parte di uno dei più sensibili interpreti dell’arte polifonica del suo tempo.

A me non resta che rivolgere ai lettori che si sono avventurati in questa Selva, lo stesso au-gurio che era solito esprimere il suo Giardiniere:

«E VIVETE FELICI»(Orazio Vecchi, Le Veglie di Siena)

(*) Direttore del Coro Tomas Luis de Victoria di Ca-

stelfranco Emilia; socio fondatore ed ex vice Pre-

sidente della FENIARCO; ex Presidente e Membro

della Commissione Artistica dell’AERCO.

Orazio Vecchi Nacque a Modena e studiò con Salvatore Essenga, un monaco dell’ordine dei Servi di Maria; contemporaneamente era guidato negli studi spirituali in un monastero benedettino. Prese i voti nel 1577. Sin dalla fine degli anni settanta del secolo aveva fre-quenti relazioni coi musicisti della Scuola Veneziana, come Claudio Merulo e Giovanni Gabrieli; quindi collaborò con essi nella realiz-zazione di una sestina per un matrimonio ducale. In questo periodo si trovava in viaggio al séguito del conte Baldassarre Rangoni, da Bergamo a Brescia. Occupò la carica di Maestro di cappella presso Salò dal 1581 al 1584. Poi divenne direttore di coro a Reggio Emi-lia fino al 1586. Nello stesso anno si trasferí a Correggio, ove scrisse moltissimo, benché si sentisse isolato dai maggiori centri musicali come Roma, Venezia, Firenze e Ferrara. Per ovviare a ciò tornò a Modena, ove ricoprì la carica di mansionario (sacerdote che cura anche il coro). In questo periodo ebbe delle difficoltà finanziarie, come accennò in alcune lettere. Nel 1597 visitò Venezia, ove pubblicò una raccolta di canzonette ed una nutrita serie di altre composizioni, verosimilmente i frutti dei sedici anni precedenti a Correggio ed altre città. Una delle più importanti composizioni, che poi rimarrà la più nota, è l’Amfiparnaso, una via di mezzo tra madrigale e melodram-ma. Nel 1598 il duca Cesare d’Este chiamò Vecchi come maestro di corte. A Firenze Vecchi udì il nuovo genere dell’opera nell’Euridice di Jacopo Peri. In séguito tornò a Modena, ove continuò a servire nella cattedrale fino alla sua morte, avvenuta nel 1605.

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Farcoro - pillole

Memorizzazione della partituradi Andrea Landriscina (*)

Se lo scopo del dirigere è quello di fare un concer-to o comunque un’esibizione finale, imparare a

memoria il brano può essere molto utile, anche per-ché dà una grande sensazione di dominio assoluto della partitura. Si badi bene: non c’è alcun rapporto tra la memorizzazione e la qualità di n’esecuzione. Ho visto dei direttori dirigere malissimo a memoria e altri dirigere meravigliosamente con lo spartito. Ge-org Solti, per esempio, ha diretto per tutta la vita con lo spartito sempre aperto davanti ed è sempre stato un artista di primo piano nel panorama mondiale. La celeberrima affermazione di Hans von Bulow che un direttore «deve avere la partitura in testa e non la testa nella partitura», non significa che tutti debba-no necessariamente dirigere a memoria, ma che ogni direttore deve avere studiato profondamente le par-titure che dirige. Poi, che il leggio sia pieno o vuoto, è un dettaglio irrilevante.

Quindi mettiamo subito bene in chiaro: per dirigere un pezzo occorre comunque memorizzarlo e farlo proprio nell’orecchio interiore. Altrimenti non sarà mai possibile fare decentemente le prove, che sono un continuo confronto tra l’immagine della musica memorizzata nell’orecchio interiore e la musica effet-tivamente prodotta dagli esecutori. Inoltre esistono delle situazioni dove dirigere a memoria non è par-ticolarmente consigliabile (anche se esistono dei su-perdotati che fanno sempre eccezione): mi riferisco all’opera lirica, soprattutto quando è piena di lunghi recitativi accompagnati, e alla musica contempora-nea, a causa dell’enorme complessità della metrica. Come pure esistono dei casi dove è impossibile leg-gere la partitura, per evitare di dover voltare pagina ogni mezzo secondo o perché in certi casi la partitura è così complessa che non può essere eseguita altro che a memoria, un esempio per tutti la Sacre du Prin-temps di Stravinsky, soprattutto il finale. Quando parliamo di memorizzazione, parliamo unicamente di dirigere in pubblico a memoria, e questa è un’altra

questione, rispetto al doveroso studio che ogni parti-tura richiede. Riflettiamo però su di un fatto: mentre uno strumentista deve ricordare con precisione tutte le singole note che dovrà suonare, il direttore ha una memorizzazione molto particolare, molto sintetica, limitabile essenzialmente solo ad alcuni parametri. Le cose indispensabili da memorizzare, quindi, sono:

» La metrica del pezzo e tutti i suoi cambia-menti.

» La forma e il fraseggio (sezioni, frasi, periodi, gruppi di battute e loro ulteriori raggruppamen-ti).

» I coloriti e le espressioni principali (accenti, staccati, legati, ecc.).

» Le entrate delle varie voci e dei vari strumen-ti.

» Tutti i movimenti attivi della direzione, ad es. corone, respiri, cesure, ecc.

Come si può ben vedere, rispetto alla memorizza-zione di un brano per suonarlo sullo strumento, la memorizzazione per un direttore è molto più sem-plice. Pertanto non è una cosa difficile da affrontare. Molti direttori di formazione pianistica amano me-morizzare le partiture suonandole al pianoforte, altri preferiscono un memorizzazione immaginativa. In questa sede non ho intenzione di affrontare detta-gliatamente i principi della mnemotecnica musicale, tuttavia ognuno può trovare la sua strada personale mediante prove ed errori. E comunque una partitura ben studiata ed analizzata a fondo si manda a memo-ria con estrema facilità.

NB: Il presente articolo costituisce un breve estratto dal “Ma-nuale di Direzione” di Andrea Landriscina.

(*) Musicologo, Docente di Direzione di Coro e Re-

pertorio Corale per Didattica della Musica al Con-

servatorio “G. Tartini” di Trieste.