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Vivere la malattia o essere malati? Riflessioni bibliche e varie esperienze sulla salute e la malattia Don Paolo Gessaga Edizione ottobre 2015 versione e-book marzo 2016 a cura di Luciano Folpini Itinerari d’amore

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Vivere la malattia o essere malati?

Riflessioni bibliche e varie esperienze

sulla salute e la malattia

Don Paolo Gessaga

Edizione

ottobre 2015 versione e-book marzo 2016

a cura di Luciano Folpini

Itinerari d’amore

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Essere malati o vivere la malattia

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Itinerari d’amore

Vivere la malattia o essere malati?

Riflessioni bibliche e varie esperienze

sulla salute e la malattia

Don Paolo Gessaga

edizione ottobre 2015

versione e-book marzo 2016

a cura di Luciano Folpini

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Essere malati o vivere la malattia

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Indice Vivere la malattia o essere malati? ............................................................................ 1

1 Prefazione ........................................................................................................... 4

2 Introduzione ........................................................................................................ 6

3 Lo sfondo biblico ................................................................................................. 7

La paura della morte ............................................................................................... 7

L’esperienza di Ezechia ........................................................................................... 8

Il dono della guarigione ........................................................................................ 15

4 Gesù e la malattia .............................................................................................. 23

Il lembo del mantello ............................................................................................ 24

5 L’itinerario sofferto di Paolo .............................................................................. 28

6 Esperienze del dolore ........................................................................................ 34

La vicenda di Gabriella .......................................................................................... 34

La luce interiore di Gabriella ................................................................................. 34

Ci si apre alla speranza .......................................................................................... 35

Il racconto di Giovanni .......................................................................................... 42

La vicenda di Fiorella e Pietro ............................................................................... 50

La carica di Luciana ............................................................................................... 61

La scelta di Mara ................................................................................................... 69

Testimonianze ...................................................................................................... 76

7 Verso un vademecum della malattia ................................................................. 78

Lo spirito benedettino .......................................................................................... 78

Consigli per affrontare il percorso di vita .............................................................. 80

8 Conclusione ....................................................................................................... 90

9 Itinerari d’amore ............................................................................................... 91

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Essere malati o vivere la malattia

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1 Prefazione

Caro don Paolo, cari lettori,

inaspettatamente, qualche mese fa, un mio giovane paziente mi ha messo in mano una lettera, nell'atto di salutarmi, dopo una visita in ambulatorio.

È un ragazzo di 23 anni , universitario, con una malattia cronica e con il quale crede-vo di aver impostato un buon dialogo, credevo di essergli stata vicina, di avergli ben spiegato la malattia e di avergli fatto capire che ero a sua disposizione, se ne avesse avuto bisogno, sempre, che avremmo attraversato insieme il tunnel della malattia e che ne saremmo usciti e in piena luce!

Mi scrive,

cara doc (è così che mi chiama) come è bastarda la malattia cronica! Ha cambiato la mia vita, personale e di relazione! In un primo momento, non mi ero reso conto del-la gravità della mia malattia, pensavo che sarebbe bastato un antibiotico, ed ero fi-ducioso nella guarigione.

Dopo il primo esame, la realtà si è presentata in tutta la sua crudezza. Non sarei più stato il giovane sano e sicuro di se’, non avrei più disposto del mio corpo per la vita di ragazzo che mi spettava di diritto! Le cure mi hanno provocato insonnia, sfoghi sulla pelle, ed è cominciata l'ansia per quella ventilata operazione che, purtroppo, poi si è resa necessaria. Doc, lo sa che è stato terribile? Che esperienza dolorosa la “stomia!”

Ho finto di essere forte, per me, per mia madre, ma mi sono sentito segnato, nel corpo e poi anche nell'anima. Gesti banali come andare in piscina, abbracciare la mia ragazza, mi sono stati negati e, anche se lei, doc, mi diceva che poteva essere un momento transitorio, che ce la avremmo "fatta", che tutto sarebbe passato, il male dell'anima mi ha travolto, quasi superando quello del corpo. Ho cercato di non ar-rendermi, ma sembra che la vita degli affetti, dello studio, sia congelata nel freddo di un dolore che diventa rabbia.

Così, doc, ora, (non ho avuto il coraggio di dirglielo a voce), bevo e mi sembra di sta-re fisicamente meglio. Adesso, poi, questi nuovi medicinali "biologici"... guarire? credo di no, ... convivere? non ci voglio neanche pensare, ... la ricerca? forse quando sarò morto ... e allora, mi lascio andare, mi lascio vivere così come viene e... sballo.

Questa, per ora, è la mia soluzione

Suo G.

Alla fine della lettura, confesso, mi sono sentita ferita mi sono posta degli interroga-tivi:

Mi sono spiegata male? Ho avuto paura di dirgli tutta la verità? l’ho illuso? Dovevo imporgli una psicoterapia? I genitori sono stati da me sufficientemente coinvolti?

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Dove ho sbagliato? Lui ha trovato la sua soluzione, ma la mia soluzione per lui? Chis-sà quante domande saranno passate per la sua testa, quanti… perché proprio a me?!

Cari lettori, gli scritti di don Paolo mostrano il suo amore senza giudizi e pregiudizi nei confronti delle persone che chiedono il suo aiuto, e che affidano a lui la loro sof-ferenza in momenti di difficoltà di malattia. Io mi ero fermata alle risposte del medi-co ma G. aveva bisogno di ben altre risposte…

Questo libro, sono certa, può ben rispondere a G. e a quelli che, come lui, credenti o no, si trovano nella malattia a meditare sui perché della sofferenza e della vita.

Marina Gusmeri

medico

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2 Introduzione

Introducendoci all’argomento mi viene da pensare a tre fatti che raccolgo dalla mia esperienza di vita:

spesso mi confronto con tante persone ammalate, persone che vivono la soffe-renza del momento che passa nello stato di infermità dovuto non solo a malanni vari, ma all’anzianità, alla decadenza fisica e psicologica che li costringe a una vita più riservata, isolata nella propria abitazione senza altre possibilità di movimento e di dipendenza anche totale da altri. Una condizione che mi fa pensare tra me:

io che per il momento, ho la possibilità di essere sano, di muovermi, di progetta-re, di agire, come utilizzo questi doni, come li impiego? Mi rendo conto che po-trei in un attimo perdere facilmente la salute stessa? E anche se sano, prendo co-scienza che il tempo passa inesorabilmente e mi sta portando verso una stagione della vita nella quale tante possibilità non saranno più tali?

Sono interrogativi che mi stimolano a guardare di fronte alla realtà senza paura, ma anche senza far finta di niente come se la malattia degli “altri” fosse qualcosa di lontano, un fatto che non mi accadrà. Il senso del provvisorio, della mancanza di adeguate sicurezze m’induce a una riflessione sul valore del tempo che passa e non ritorna, certo soltanto di voler realizzare di me stesso il massimo di possibili-tà positive che la vita può riservarmi e consapevole che tutto è dono e nulla mi è dovuto;

c’è un richiamo che emerge continuamente nelle mie riflessioni: il timore di esse-re solo, la mancanza di sostegno nelle prove riservate dalla vita. Lo rilevo soprat-tutto quando ho di fronte persone che stanno vivendo il dolore della perdita di una persona cara, il decesso improvviso, o inaspettato o in ogni caso pesante e faticoso da accettare, mi pone la domanda ancora più urgente:

Come posso dare il meglio di me stesso, come poter davvero essere di aiuto e conforto a qualche altra persona con la mia vita? Sono chiamato solo a dire delle “belle” parole, o debbo farmi prossimo, avvicinare, condividere, com-prendere tanti drammi?

Il silenzio di chi ascolta, l’interiorizzazione di chi comprende, la volontà di amare tende a comprendere il valore della prossimità intesa come solidarietà, capacità di sostenere il vuoto che in certi momenti si prova nonostante la fede e la fiducia massima nella Provvidenza divina;

quando visito il cimitero della mia Comunità d’origine, un piccolo paese dove ci si conosce ancora in modo storicamente dettagliato, passando tra le tombe, guar-dando le foto dei vari defunti penso a quante persone ho conosciuto, anzi ricono-sco, ricordo molti eventi condivisi insieme, anni passati dell’infanzia, esperienze raccolte e soprattutto il loro insegnamento di vita. Anzi guardare lì, al di là di una foto, una data, un monumento, dietro vi è la storia unica e irripetibile depositata anche dentro di me di quella persona, della sua esistenza terminata sì nel tempo, ma ancora capace di interrogare, di ridestare tanti ricordi. È qualcosa di vivo non

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solo una pietra di marmo che nasconde un corpo in decomposizione.

Sono queste riflessioni che mi hanno spinto a scrivere un testo sulla malattia, la salu-te e la volontà di affrontare la vita nella sua realtà: un cammino, anzi un pellegrinare verso l’incontro, non con la paura di perdere, ma con la fiducia di consegnare se stessi nelle Mani di Colui che creandoci ci richiama a sé, alla Sua condizione di eter-nità.

Da questi spunti nasce questo piccolo contributo a un tema molto sentito del dare significato alla propria esistenza ma anche nel saper vivere nella consapevolezza della possibilità di incontrare la malattia magari quando si assottigliano le energie fi-siche nella lenta e inesorabile conclusione. Come vivere? In che modo affrontare tutto ciò senza la paura del domani o dell’oggi e soprattutto su quali aiuti occorre fa-re affidamento?

Nel nostro testo affronteremo questi argomenti a partire dal testo biblico dove ab-biamo degli episodi di persone sofferenti e affaticate che hanno affrontato la malat-tia e la conclusione della vita. Cercheremo di estrarne dei contenuti che poi ripre-senteremo nella dinamica di fatti legati a episodi, storie, testimonianze per arrivare a delle conclusioni e dei consigli per affrontare la realtà o la sensazione della malat-tia.

3 Lo sfondo biblico

La paura della morte Parlare di malattia nell’antichità equivaleva ad avvicinarsi alla conclusione della vita. Non dimentichiamo l’età assai precoce della vita stessa con un’elevata mortalità in-fantile. Condizione sociale vissuta dalla nostra stessa società fino a poco più di cin-quant’anni or sono. Dunque come si accennava a una malattia subito il pensiero an-dava verso il probabile termine della vita. Non dimentichiamo che il testo biblico rappresenta una fonte inesauribile d’informazioni e d’insegnamenti non solo religio-si ma anche dal punto di vista storico, etnologico, medico.

Ridurre la lettura delle Sacre Scritture a una mera elencazione di descrizioni di pato-logie varie, sarebbe riduttivo e arido. Il nostro approccio con la Bibbia trae spunto da riflessioni sulla vita quotidiana: il contatto con il malato e con chi soffre insieme con lui.

La nostra lettura parte dalla convinzione che l’Antico e il Nuovo Testamento rappre-sentino uno strumento straordinario, una chiave interpretativa, in senso spirituale, della nostra vita quotidiana.

Il medico, l’infermiere, l’operatore sanitario, il volontario ospedaliero, il sacerdote, l’amico o il famigliare, e soprattutto il malato, chiamato paziente, possono trarre spunti di conforto, di riflessione, di preghiera, di speranza, che non fanno perdere immediatamente il timore della malattia ma, quanto meno, con la fiducia nella me-dicina e la certezza di essere con il Signore, di non essere abbandonati né tanto me-

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no puniti per lo stato di malattia, e permettono di riscoprire la propria spiritualità.

L’esperienza di Ezechia Interessante per la nostra riflessione è quanto accadde a questo re, saggio e fedele al Signore. Improvvisamente, si trovò ammalato e di un male difficilmente curabile, forse una forma d’infezione, che lo stava portando alla fine della vita. Leggiamo di-rettamente il testo:

In quei giorni Ezechia si ammalò mortalmente. Il profeta Isaia, figlio di Amoz, si recò da lui e gli disse: Così dice il Signore: «Da' disposizioni per la tua casa, perché tu morirai e non vivrai». 2Ezechia allora voltò la faccia verso la parete e pregò il Signore 3dicendo: «Signore, ricordati che ho camminato davanti a te con fedeltà e con cuore integro e ho compiuto ciò che è buono ai tuoi occhi». Ed Ezechia fece un gran pianto. 4Allora la parola del Signore fu rivolta a Isaia dicendo: 5«Va' e riferisci a Eze-chia: «Così dice il Signore, Dio di Davide, tuo padre: Ho udito la tua preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco, io aggiungerò ai tuoi giorni quindici anni. 6Libererò te e questa città dalla mano del re d'Assiria; proteggerò questa cit-tà». 7Da parte del Signore questo ti sia come segno che il Signore manterrà questa promessa che ti ha fatto. 8Ecco, io faccio tornare indietro di dieci gradi l'ombra sulla meridiana, che è già scesa con il sole sull'orologio di Acaz». E il sole retrocesse di dieci gradi sulla scala che aveva disceso. (Is.38,1-8)

Salute e giustizia È la motivazione che guida Ezechia nella sua richiesta di salute. Lui ha agito secondo Dio e non secondo la mentalità del proprio interesse. Ha avuto timore del Signore e ha cercato la giustizia mettendo il bene del suo popolo prima di ogni altra realtà. An-zi, stando alla storia Ezechia ha riformato il culto, ripristinato la fedeltà alla legge co-dificandola nel testo ritrovato del Deuteronomio ed ha abbattuto le alture, i luoghi dove il popolo si corrompeva con gli dei di altre nazioni. In altre parole ha dato il meglio di sé cercando la vera ricchezza che non si corrompe: la fede in Dio.

Può così invocare a suo vantaggio una specie di “retribuzione” come a dire che se si è fedeli al Signore si merita una ricompensa e questa è la salute e un allungamento della vita per completare la sua opera a favore del popolo. Anzi per proteggere ora il popolo dal pericolo incombente degli Assiri.

Siamo nella realtà assai diffusa nel tempo antico con la concezione della malattia come castigo per qualche colpa commessa direttamente o da qualche familiare e dall’altra parte la salute e la vita segnano invece un dono, un giusto premio per la persona che si è mantenuta vicina al Signore e non ha mai mancato di servirlo in tut-te le situazioni.

Il re Ezechia sa di aver seguito Dio e non altri interessi e per questo invoca la guari-gione e lo fa attraverso l’intervento del profeta Isaia che certamente non possiede la scienza medica, ma la capacità di leggere la storia secondo il volere di Dio.

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È lui che interpreta la realtà in cui vive il Re secondo il rinnovato piano divino. Colui che è la vita ascolta la preghiera dei suoi figli e concede il dono della salute, della possibilità di alcuni anni di vita affinché Ezechia possa riprendere il suo saggio ed il-luminato governo del popolo. Non è un caso che il profeta s’improvvisa, guidato da Dio, medico e farmacista perché dice:

Si vada a prendere un impiastro di fichi e si applichi sulla ferita, così guarirà (Is.38,21).

È evidente che la scienza medica in questo caso non ha molta importanza, vale l’unione con Dio, l’integrità morale della persona ammalata sì nel corpo ma non nel-la sua coscienza, nella parte interiore di sé che permette di scegliere nella propria esistenza se stare dalla parte di Dio o se preferire il proprio agire in modo dissoluto. Non s’intende la malattia solo come un evento che può accadere, quanto invece come realtà che colpisce spesso con riferimento alla condotta di vita della persona stessa. È un invito a uscire dalla pura realtà di un corpo malato per entrare nella lo-gica della pedagogia divina, anche attraverso la malattia invia un messaggio, ri-chiama a una condotta di vita secondo la logica della Legge.

La malattia indica la condizione dell’uomo oppresso sotto il peso dei suoi peccati e la guarigione coincide con il perdono dei peccati. Non sempre, però è facile distinguere l’ambito fisico da quello etico-religioso.

L’auto-esame di se stesso Non possiamo dimenticare nell’esperienza di Ezechia la sua confessione ben riporta-ta nel testo biblico. Anzi è forse uno degli esempi più incisivi della descrizione dell’animo umano provato dalla paura di perdere la propria vita e alle prese con la realtà della sofferenza in grado di controllare e dominare. La riflessione di Ezechia:

9Cantico di Ezechia, re di Giuda, quando si ammalò e guarì dalla malattia: 10Io dicevo: «A metà dei miei giorni me ne vado, sono trattenuto alle porte de-gli inferi per il resto dei miei anni». 11Dicevo: «Non vedrò più il Signore sulla terra dei viventi, non guarderò più nessuno fra gli abitanti del mondo. 12La mia dimora è stata divelta e gettata lontano da me, come una tenda di pastori. Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, mi hai tagliato dalla trama. Dal giorno alla notte mi riduci all'estremo. 13Io ho gridato fino al mattino. Come un leone, così egli stritola tutte le mie ossa. Dal giorno alla notte mi riduci all'e-stremo. 14Come una rondine io pigolo, gemo come una colomba.

Sono stanchi i miei occhi di guardare in alto. Signore, io sono oppresso: pro-teggimi». 15Che cosa dirò perché mi risponda, poiché è lui che agisce? Fuggirò per tutti i miei anni nell'amarezza dell'anima mia. 16Il Signore è su di loro: essi vivranno. Tutto ciò che è in loro è vita del suo spirito.

Guariscimi e rendimi la vita. 17Ecco, la mia amarezza si è trasformata in pace! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati.

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18Perché non sono gli inferi a renderti grazie, né la morte a lodarti; quelli che scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. 19Il vivente, il vivente ti rende grazie, come io faccio quest'oggi. Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà. 20Signore, vieni a salvarmi, e noi canteremo con le nostre cetre tutti i giorni della nostra vita, nel tempio del Signore». (Is.38,9-20)..

È una preghiera che potremmo chiamare testamento spirituale di un individuo ora-mai vicino alla fine dei propri giorni. Interessante la centralità dell’intervento divino che trasforma e permette la rinascita di una persona apparentemente perduta.

Potremmo commentarlo in cinque sequenze:

1 - vv.10-12 – Il vuoto della fine È il sentimento dell’abbandono, si prova dentro di sé una terribile angoscia esisten-ziale, più nulla vale, anzi emerge solo la solitudine, il senso della fine come se tutto crollasse addosso senza un minimo di sicurezza.

La persona di Ezechia che interpreta il credente, l’uomo giusto nella prova della ma-lattia, avverte la fine, e quello che è peggio il senso di essere solo di fronte alla con-clusione della propria vita.

Passano in fretta i ricordi dei momenti passati, le tante azioni realizzate per servire il Signore, il senso della dedizione senza limiti al bene del proprio popolo. Anche le persone che ha vicino, potremmo dire i suoi collaboratori, non contano granché. Lui non prova altro che angoscia, paura e quel che è peggio la fine è come una notte, qualcosa che non controlliamo dove c’è solo il buio, il vuoto, il timore che dall’altra parte ci sia una definitiva fine. E allora la fede dov’è? In che modo il nostro Re fedele a Dio dimostra di credere in un’altra vita?

Non si tratta di mancanza di fede, nemmeno di ribellione, quanto di non accettazio-ne della propria condizione di malato morente facendo prevalere il sentimento ne-gativo della tristezza e della paura fino allo sconforto, alla mancanza di coraggio e di reazione di fronte all’evento che lo sta distruggendo. È come se tutto crollasse e lui stesso non riesce a ragionare, a fare mente locale, a raccogliere il frutto immediato della sua esistenza: il bene seminato e il male evitato.

Troppo intensa è la tragedia che si sta profilando nei suoi confronti e forte la sua paura, la mancanza di punti di riferimento sicuri per poter affrontare questo evento con la fiducia prima di tutto in se stesso e nell’apertura al Signore. Siamo nella not-te oscura, è il passaggio dalla luce della vita verso il mistero della morte nella debo-lezza di un corpo malato gravido della prima conseguenza diretta: la propria vita è fuori controllo.

Quando non si ha più la consapevolezza di quello che siamo e che possiamo costrui-re prevale il senso della provvisorietà dove il dolore e l’imminenza della morte apro-no il confronto con se stesso in modo diretto e penetrante facendo esclamare: mi ha gettato via, è una protesta verso Dio, è il grido dell’uomo sì di fede, ma anche di carne e di terrestrità legato alla propria esistenza e timoroso di lasciarla per un de-

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stino che ancora non sa afferrare;

2 - vv.13-15 – È il grido interiore del disperato Si esprime come l’invocazione del condannato a morte sicura, fiducioso nella grazia del sovrano. Così Ezechia esprime il proprio disagio in un dialogo interiore con una splendida preghiera che prima di tutto lascia intendere il proprio vissuto del mo-mento. Quanti ammalati gravi in pericolo di morte non pensano ad altro che alla propria condizione invocando un segno, un dono quasi miracoloso che possa resti-tuire salute e possibilità di vita?

È il grido che sale continuo e diremmo silenzioso, ma reale, vero, intriso di tanta sof-ferenza prima interiore che fisica, ma che delinea della persona la sua interiorità, la propria dignità vera e autentica. Potremmo dire che l’esperienza del dolore plasma in ciascuno il senso della propria reale personalità, senza maschera, senza rivesti-menti sociali, senza mezze misure.

Che cos’era il re Ezechia di fronte alla malattia? Dove erano finiti i suoi poteri con i quali aveva diretto i propri sudditi? Che cosa poteva realizzare con le sue ricchezze di fronte al dolore e alla morte che incombeva su di lui in modo così potente ed inar-restabile? Non era più in grado di fermare ciò che stava avvenendo, doveva solo ac-cettarlo e da qui il suo confronto serrato, il dialogo aspro e difficile con Dio. Nella traduzione più antica emerge il termine v.15 Che mi dirà? Come fosse in una specie di processo, di lite tra lui e Dio, una contesa dove il sovrano si sente attaccato da un leone che gli stritola le ossa e dall’altra parte lui avverte dentro di sé la propria debo-lezza come fosse un piccolo uccello che pigola, geme per farsi sentire, perché qual-cuno abbia compassione di lui.

E guarda verso l’alto per affermare che solo Colui che è Dio può aiutarlo, può inter-venire a colmare la propria amarezza e ridargli vita e fiducia. E come poteva dimen-ticare Ezechia che ben conosceva il testo sacro dove si afferma a proposito di Dio nel libro dell’Esodo:

Io sono l'Eterno che ti guarisce (15:26).

Il desiderio di Ezechia è di voler scoprire dentro di sé questa guarigione, la potenza di Dio per poter tornare a servirlo con tanti altri anni di vita. E chi non s’identifica in queste espressioni di Ezechia a indicare che la preghiera è elevazione del proprio do-lore, della propria paura, dello sconforto nel quale si vive? Si desidera, anche se non direttamente confessato, la capacità di raccogliere l’insegnamento diretto di Dio:

Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai, non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho detto” (Gn.28,15).

È una frase dal forte tono di attenzione di Dio verso la persona fedele, in questo ca-so Giacobbe alle prese con un lungo viaggio per sfuggire all’ira del fratello Esaù. È però anche il paradigma dell’uomo che intraprende un cammino difficile, misterioso e pieno di insidie, dove sa di non poter contare su validi alleati.

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Ecco proprio qui fa l’esperienza di questo incontro, di una presenza unica e diremmo inseparabile: Dio non nella lontananza di un altro mondo, non nella scrupolosità ap-plicativa di leggi e disposizioni, ma nella sicurezza di un accompagnamento che se-gna il cammino della vita e la rende un dono, un percorso carico dell’amorevole premura del Dio con noi, capace di condividere la vita dalla terrestrità alla eternità, ma in presenza di Dio, non senza di Lui.

Accorgersi di questa vicinanza comporta un cambiamento anche nella preghiera, nel divenire di un rapporto in cui è ridefinita la propria esistenza, non solo la provviso-rietà, ma anche la fiducia in Dio, unica Presenza.

3 - vv.16-18 – Guarigione e perdono Sono il binomio assai accreditato non soltanto nell’esperienza di Ezechia ma in molti altri episodi. Ciò indica il valore della cosiddetta paideia, ossia la pedagogia divina che mette alla prova i suoi figli e non per distruggerli, ma per salvarli e verificare la loro reale fiducia in Lui. Anche qui per Ezechia le spiegazioni razionali continuano a essere travalicate perché il dolore è riflesso di un mistero più alto, e che è penetrabi-le solo attraverso la Rivelazione. È un mistero che non si scioglie razionalmente, non è affidato all’assurdo, al fato, all’irrazionale, bensì ad una suprema razionalità, quella divina che disegna un suo progetto per noi incomprensibile. Dio si è gettato via i peccati di Ezechia, ha visto nell’animo del re la sua onestà, il suo dolore insieme con l’attaccamento alla vita e al bene che l’aveva fino a quel momento contraddistinta. Non può dimenticare il suo servo, non può lasciare che vada distruggendosi il suo corpo e la sua stessa vita.

L’intervento divino è una vera e propria trasformazione, potremmo chiamarlo una metamorfosi dal momento che viene restituita la vita stessa al malato, addirittura con un impiastro di fichi, una medicina forse sconosciuta ma efficacissima per curare una grave ferita. Dio vuole dare valore a tutta la creazione e chiede all’uomo di sa-perla trasformare affinché anche la salute fisica sia salvaguardata da malattie ed eventi che possono rovinarla.

È un’implicita affermazione della scienza medica, del valore della ricerca di farmaci atti a scongiurare malattie ed a salvare vite umane sebbene nella Bibbia non vi sia grande fiducia nei medici, spesso identificati come coloro che operavano in modo magico sotto l’influsso di altre culture. Ne è esempio il re Asa che aveva cercato di mantenersi fedele a Dio pur non agendo a totale favore della fedeltà al culto dell’unica Divinità. Ebbene quando si ammalò

Gravemente ai piedi. Neppure dell’infermità egli ricercò il Signore, ricorrendo solo ai medici” (2 Cr.16,13).

Asa viene condannato perché aveva pensato solo al corpo fisico, dimenticando il principio dell’immagine divina che il corpo stesso rappresenta. Aveva dimenticato il rapporto con Dio mettendosi solo nelle mani della scienza identificata con forme d’idolatria e culto a divinità magiche, non dimentichiamo il dio Esculapio che tanto

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influsso ebbe nella cultura ellenistica e romana. In ogni caso emerge il valore della cura terapeutica sviluppata anche in Israele. Alcuni passi della Bibbia sono dedicati al rapporto con il medico e soprattutto ci rammentano come sia fondamentale l’intervento divino nel processo di guarigione.

Onora il medico per le sue prestazioni, perché il Signore ha creato anche lui. Dall’Altissimo infatti viene la guarigione…” (Sir 38, 1-3).

Figlio, non trascurarti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà (Sir 38, 9).

Ci sono casi in cui il successo è nelle loro (riferito ai medici) mani; anch’essi in-fatti pregano il Signore perché conceda loro di dare sollievo e guarigione per salvare la vita (Sir 38, 13-14).

È bello citare un ammonimento di estrema attualità e che non dobbiamo mai scordare: Non esitare a visitare un malato, perché per questo sarai amato (Si-racide 7, 35).

Certo l’allungamento della vita di Ezechia e la sua guarigione sono un fatto così im-portante da non lasciare senza tracce la sua stessa esistenza, ora più che mai ringra-ziamento a Dio e impegno a dedicarla a suo servizio. C’è però un angolo ancora buio, una parte che fa riflettere e non permette di andare al di là della vita. La man-canza di una fondata speranza nella vita oltre la morte.

È vero che malattia e morte sono come un binomio, ma altrettanto vero che guari-gione e restituzione della vita danno un senso di provvisorietà, di limitatezza; non è così che Dio intende la vita. Non è il Signore solo del tempo che trascorre in questo mondo, ma è guida verso una realtà che ci supera e diviene fonte per una rinnovata carica di fiducia: oltre la morte c’è vita. La stessa guarigione insperata lo attesta, la preghiera a lungo sofferta e invocata da Ezechia vuole esprimere fiducia totale nel Dio della vita, in Colui che porta con sé oltre i confini stessi dell’esistenza.

Non è tutto finito nella tomba, ma è immersione in un’altra dimensione di vita, al-trimenti perché gioire così tanto per qualche anno quando la prospettiva rimane la medesima?

Dio non guarisce soltanto, ma perdona, ridà piena dignità e slancio a qualunque esi-stenza. Non la paura deve accompagnare la vita del credente, ma l’estrema fiducia in un rapporto con il Divino che nulla, nemmeno la cessazione della vita fisica e la distruzione del corpo materiale potranno separare. Come dice il salmista:

Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli (Ps.116,15).

4 - v. 19 – La riconoscenza È il contrasto con il sentimento dello sconforto e della tristezza. Ora Ezechia si ac-corge che Dio non solo l’esaudisce, ma gli dà forza, e accompagna il suo cammino perché lo ama come un padre ama il proprio figlio e vuole esaudirlo in ogni suo de-siderio di bene. Da qui la familiare disponibilità interiore a far crescere il rapporto

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con il Divino perché sa che non può farne a meno. Ha fatto esperienza della lonta-nanza divina, ha capito che cosa significhi essere solo e non poter contare su altri, ora più che mai vuole aprirsi a Dio e stabilire un rinnovato rapporto di fiducia.

Sa che la vita dipende solo da Lui, non può vivere dimenticandone il fondamento che dà significato a ogni sua scelta. L’esperienza di Ezechia è singolare e unica, ma di-remmo comune a molti. Quanti proprio durante un tempo di sofferenza spesso mol-to lunga, ritrovano la propria interiorità, si accorgono di essere figli di Dio e sanno ri-volgersi al Padre con fiducia e umile accettazione di quanto sta accadendo? E come Ezechia sperimentano la mancanza di mezzi umanamente adeguati per affrontare con tranquillità e sicurezza la stagione della malattia?

Diciamo che la prova dolorosa è davvero pedagogia, invito a uscire da se stessi, spesso da un’idea troppo enfatica, trionfalistica della salute, del benessere e della felicità equivalente al poter agire e fare di tutto senza considerare la provvisorietà dei mezzi e delle reali possibilità che abbiamo e che siamo. Diciamo che l’esperienza della sofferenza è maestra per una condotta di vita all’insegna dell’umile accetta-zione di quello che siamo e che a volte vogliamo negare: la nostra debolezza di per-sone fatte di carne e ossa, incamminate verso la conclusione della nostra esistenza il cui passaggio è facilmente descrivibile e visibile a partire dall’esperienza del dolore.

Qui più che mai il grido di Ezechia, il vivente che ringrazia non solo per la ritrovata salute, ma per la consapevolezza, ancora una volta confermata della transitorietà sul cammino della propria vita. Non la pretesa di una salute permanente e inattac-cabile, quanto il desiderio di un’apertura verso Dio ritrovato quale padre che dà vita e dignità ai suoi figli esaudendoli nei loro desideri di bene e sostenendoli in qualsiasi prova si vengano a trovare con un’azione continua e sicura.

5 - v. 20 – La permanenza Ezechia, non può dimenticare i benefici ricevuti e per questo loda il Signore, anzi vuole inneggiare sulle cetre a indicazione dell’esperienza così intesa, simile a quella di Davide quando portò l’Arca in Sion accompagnandosi con la cetra in canti e danze (2 Sam. 6,6).

Troppo grande la potenza di Dio per rimanere solo nell’animo di una singola perso-na. È contagio spirituale, tipico di chi sperimenta una gioia straordinaria insperata, vuole comunicarla ad altri nella forma sia verbale che non verbale, parla con il co-stume culturale orientale, della danza. Il senso di una ritrovata voglia di vivere per il Signore è programma di vita. Non può più fare a meno di Lui, ha capito che è il Si-gnore colui che guarisce, risana, perdona, restituisce la voglia di vivere e di operare per Lui.

Chiunque ha vissuto un dono, una guarigione, spesso una grazia improvvisa magari da lungo tempo attesa, non la può tenere dentro di sé, deve in qualche modo farla conoscere ad altri, favorirne la condivisione perché divenga patrimonio comune del-la presenza reale e vera di Dio nella propria esistenza.

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Ezechia da perduto diviene figlio ritrovato, ma solo per quindici anni, e poi sarebbe inesorabilmente mancato? Certamente era ben chiaro il suo tempo, aveva in ogni caso recuperato la definizione di Dio non solo nella sua paternità, non solo nel pote-re di una guarigione, ma nella volontà di operare solo per Lui al punto che vivere si-gnifica rispondere a Dio che chiama a servirlo fino a raggiungerlo alla conclusione dei suoi giorni in un’altra dimensione di vita, oltre la tomba, tanto temuta da Eze-chia.

La riconoscenza porta a un incontro, un dialogo personale con Dio, è a lui che viene rivolto l’interrogativo sulla sua esistenza, ma altrettanto vera la scoperta di un Dio amante della vita, accanto all’uomo sofferente per dargli speranza e sempre coinvol-to nella vicenda di un credente pieno di paure, dubbi e poco propenso alla speranza. In altre parole è l’immagine della divinità che entra nella storia non solo di un popo-lo, ma di ogni singola persona ascoltandone il grido di dolore, aiutandola a prender-si la propria responsabilità e a saper crescere in una dimensione di fede diversa, fi-duciosa non solo per i risultati sperati. Siamo consapevoli di amare il Signore quale Dio della vita capace di infondere in ciascuno il desiderio di vivere e di rimanere uniti a Lui?

È Dio al di là dei nostri schemi, della nostra lettura troppo razionale e ragionieristica quasi ci debba qualcosa, non deve, ma offre se stesso la Sua presenza in noi, segno di continuità e sostegno al cammino della propria esistenza. Ezechia possiamo dire passa da una fede ricevuta e troppo pensata su schemi razionali a una fede vissuta, dopo aver riconquistato il rapporto con Dio in un crescendo di paura, solitudine e speranza. Certo la figura dominante del profeta Isaia è guida e riferimento verso questo salto di qualità. Ora desidera lodare offrendo non solo le labbra che prega-no, il cuore che ringrazia, la vita che s’impegna a servire il Signore nella certezza di un incontro oltre la dimensione della morte.

Il dono della guarigione L’esperienza della medicina di Dio è determinante nei racconti biblici, è evidente che la componente umana, ossia la scienza è solo un mezzo. Dio è il vero protagonista come indica il salmo 30,3:

Signore mio Dio, ho gridato a te e mi ha guarito

Potremmo leggervi il segno della conversione del popolo d’Israele stesso quando dopo l’ennesima ribellione nei confronti di Mosè e di Dio subisce l’avvelenamento dei serpenti nel deserto e molti periscono. Ecco l’invocazione a Dio, il pentimento per il peccato e la medicina, davvero strepitosa e legata al simbolo stesso del ser-pente fabbricato in bronzo ed eretto su un bastone per indicare la possibilità della salvezza con una specie di contravveleno. Dio richiama il valore della gratitudine dopo che il popolo, nonostante i tanti prodigi aveva perduto e ciò equivale alla sal-vezza, alla liberazione dal male del veleno non solo di serpenti ma della mormora-zione e della calunnia nutrita da invidia e mancanza di fiducia. Dunque Dio si fa co-noscere come Colui che sana le malattie anzi la sua azione è più potente di qualsiasi

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altro veleno, è il Creatore che vuole conservare in vita le sue creature nonostante le loro mancanze e la loro scarsa riconoscenza.

Dallo squallore all’angelo guaritore L’episodio più significato della Scrittura con la presenza della medicina di Dio, avvie-ne però con Tobi, uomo retto, generoso e pronto al bene verso tutti nonostante i rischi cui incorreva per seppellire i morti con la diffida da parte degli Assiri. Ebbene nonostante la dimostrazione di carità e servizio quest’uomo per una sua sbadataggi-ne diviene cieco e come non vedente non è più in grado di provvedere né a se stesso né alla propria famiglia.

La moglie Sara lavorando per mantenerlo di fronte a una sua reazione gli risponde in modo brusco e offensivo dimenticando uno dei precetti della Scrittura: mettere al centro i malati e visitarli con amore. Il povero Tobi, disperato, lasciato solo e invali-do così prega:

Tu sei giusto, Signore, e giuste sono tutte le tue opere. Ogni tua via è miseri-cordia e verità. Tu sei il giudice del mondo. 3Ora, Signore, ricordati di me e guardami. Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri. 4Violando i tuoi comandamenti, abbiamo peccato davanti a te. Ci hai conse-gnato al saccheggio; ci hai abbandonato alla prigionia, alla morte e ad essere la favola, lo scherno, il disprezzo di tutte le genti, tra le quali ci hai dispersi. 5Ora, quando mi tratti secondo le colpe mie e dei miei padri, veri sono tutti i tuoi giudizi, perché non abbiamo osservato i tuoi comandamenti, camminando davanti a te nella verità. 6Agisci pure ora come meglio ti piace; da' ordine che venga presa la mia vita, in modo che io sia tolto dalla terra e divenga terra, poiché per me è preferibile la morte alla vita. Gli insulti bugiardi che mi tocca sentire destano in me gran-de dolore. Signore, comanda che sia liberato da questa prova; fa' che io parta verso la dimora eterna. Signore, non distogliere da me il tuo volto. Per me in-fatti è meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia, e così non sentirmi più insultare!».(Tb.3,2-6).

È sicuramente una preghiera nella quale l’orante immette tutto se stesso e riesce con forti tinte di dolore a manifestare il proprio disagio, la condizione disonorevole della malattia e la non accettazione di essa da parte della moglie. Ne facciamo tre spunti di riflessione:

1 – vv.2-3 – Il primato divino Tobi sa che Dio è giudice e che in Lui prevale la misericordia, il perdono la volontà di redimere il peccatore. Anzi dà una chiave di lettura della sua infermità legata al pec-cato commesso da altri, da tutto il popolo e comprende che l’amarezza della propria sofferenza si associa alla tristezza dell’esilio in terra lontana e al peccato che ha con-trassegnato il cammino del popolo. Non è più in grado di svolgere il bene per i suoi connazionali, nemmeno può più seppellirne i cadaveri lasciati lì per le strade. Può

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solo invocare il Signore e trasmettere amarezza, pianto, dolore, angoscia.

Anche questa è preghiera, anzi è l’espressione dell’animo sincero e fiducioso nono-stante tutto, nel Signore. È la preghiera di molti ammalati, di persone che vivono la malattia prima di tutto come combattimento contro se stessi ma anche nella visione del male del mondo dove molti dolori derivano dalla condotta dissennata ed irre-sponsabile di tanti, incapaci di realizzare il bene per se stessi e per gli altri. Ricordati di me, è la più diretta e profonda familiarità che Tobi ricerca con Dio, sa che ha biso-gno solo del suo conforto e sa che nessuno può aiutarlo dal momento che proprio la moglie l’ha messo da parte. Vuole sentire più che mai vicino il Signore che gli parla anche nella malattia, nella cecità e nella solitudine in cui è sprofondato. Solo una forte presenza della Divinità può scuoterlo e permettergli di riprendere il cammino della vita, desidera capire che cosa può ora fare, in che modo può rendersi utile a Dio e agli altri;

2 – vv.4-5 – L’ammissione delle colpe È vero il popolo ha abbandonato il Signore e la malattia più grave diventa la durezza di cuore, la mancanza di solidarietà, richiude su se stessi. Perché solo Tobi rischiava la vita per seppellire i defunti? Perché altri addirittura lo deridevano, l’ignoravano o ne segnalavano il comportamento alle autorità assire? Sì è vero le malattie fisiche sono pesanti, lo dimostra Tobi ridotto alla cecità nonostante le cure mediche ed i denari spesi! Peggiore è però la malattia dell’anima che si ritrae di fronte a Dio e agi-sce come se non esistesse mettendo al primo posto il proprio comodo, una vita all’insegna di ogni sregolatezza.

È vero la salute è un bene prezioso, ma altrettanto lo è la propria coscienza moral-mente ispirata al bene e capace di realizzarlo con tenacia e determinazione di fronte a ogni tentazione.

Da qui l’accettazione della malattia segno del proprio degrado fisico, a fronte di quello morale del popolo per le gravi mancanze contro Dio e i Comandamenti, indi-vidualmente accolta come espiazione a favore della collettività.

Siamo già nella linea della sofferenza vicaria, in quanto il giusto va a soffrire anche fisicamente per le colpe del popolo. Gli stessi dolori fisici che accusa sono il segnale della gravità dei peccati commessi collettivamente che richiedono espiazione, con-versione, ritorno verso Dio capace Lui solo di guarire e sanare:

purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve (Ps.50,9)

è quanto recita il salmista, molto probabilmente Davide, dopo aver commesso il peccato e averne verificato le conseguenze materiali e spirituali;

3 – v. 6 – Il desiderio di uscire dal mondo Invocare la morte è male? Tobi la invoca come liberazione da un corpo malato, im-pedito di svolgere qualsiasi attività a favore della famiglia e si sente non solo offeso, ma messo del tutto da parte. Avverte il dolore per la propria inutilità, il senso del

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decadimento senza alcuna possibilità di riscatto. Dalla sua condizione di malato non può risalire e il rifiuto dei familiari lo rende davvero sconsolato e senza alcuna pro-spettiva.

Un insegnamento molto prezioso per legare la malattia con la condivisione da parte di chi sta accanto al malato non solo con professionalità e attenzione, ma con lo spi-rito di rivalutare una vita che si spegne, una sofferenza che diviene pesante e scon-solante in ogni momento al punto che dolore più grande della sofferenza del corpo è l’indifferenza, l’offesa e la freddezza di quanti dovrebbero prendersene cura, la cui pazienza è davvero annullata.

Certo Tobi ammette che la volontà divina è sacra e come tale va rispettata, lui però non ne può più, è davvero logorato dal male e dal non senso della sua esistenza sempre più resa un peso dall’atteggiamento offensivo della moglie. Quanto male ar-reca l’indifferenza, la mancanza di sensibilità verso la persona ammalata, è più grave questo di qualunque altra azione perché va a colpire una persona che non può e non vuole difendersi e sa già di essere diventato un peso, un mantenuto.

E qui ci si pone la domanda: Accettare la persona malata o colpevolizzarla per la ma-lattia che sta vivendo? A volte ci si ammala per la propria trascuratezza, Tobi ne era parzialmente responsabile, ma quando si soffre, si deve dipendere da altri, quando si prova la durezza di essere soli e non sufficientemente sostenuti e soprattutto quando qualcuno arriva ad umiliare la persona sofferente perché noiosa o sempli-cemente troppo esigente, ecco che allora scatta la preghiera interiore di Tobi:

Che vita è, che cosa sono qui al mondo a fare, perché non mi vuole più nessu-no, molto meglio morire che andare avanti in queste condizioni.

Si trova nella preghiera di Tobi la raccolta di tante sofferenze che oggi hanno nomi piuttosto moderni e parlano di anziani soli ad affrontare la quotidianità senza la pos-sibilità di uno scambio, di un confronto accettabile sul piano relazionale. Si parla di operatori sanitari che vedono il numero del letto, la cartella clinica del paziente, ma la persona, la sua identità, il suo essere qui ora viene pressoché dimenticato. Si cura con mezzi moderni, efficacissimi, ma spesso alla stregua di un ingranaggio da ripara-re o di un pezzo da sostituire o rettificare.

L’umanizzazione della medicina costituisce un importante traguardo nel tempo che viviamo. E lì ci sono i tanti Tobi, assistiti sì, anche con medicine e terapie efficienti, ma trattati con la disinvoltura tipica della moglie che doveva tenerlo in casa, doveva accudirlo, doveva prendersene cura… ma con quale spirito? Certamente non quello della medicina di Dio, che è ben altra cosa!

La medicina di Dio È in questa direzione che si muove la narrazione del testo per dare conforto al mala-to e speranza al lettore. L’uomo giusto deve saper sopportare pazientemente le sciagure nella certezza che Dio lo libererà. È l’autentica saggezza di Tobi, non deve perdersi d’animo chi come lui ha osservato fino in fondo la legge ed ha cercato solo

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il bene. Potremmo dire che nella malattia e nello sconforto per il rifiuto dato dalla moglie, l’unica consolazione è riposta in Dio. Non è l’immagine della divinità assen-te, o posta in una specie di tribunale, giudicante, quanto di Colui che si fa carico del-la sofferenza dell’uomo giusto e vuole salvarlo, vuole portarlo verso una nuova sta-gione di vita. Non ci si rassegna alla sconfitta, non ci si arrende alla malattia, non ci si dispera per la sferzante argomentazione della moglie insensibile:

Dove sono le tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene dal come sei ridotto!(Tb.2,14).

Ne consegue la qualità della preghiera nella quale Tobi vi immette fede e abbando-no nelle mani di Dio. È vero che ha espresso il desiderio di morire piuttosto che di una vita siffatta, ma ha anche la consapevolezza di sentirsi ascoltato, guidato, so-stenuto, Dio è dentro di Lui, si tratta di saperlo trovare nonostante le condizioni fisi-che e familiari avverse. In questo caso viene dalla presenza della medicina di Dio, os-sia Dio guarisce, l’etimologia del nome di Raffaele l’Angelo inviato a recare sollievo a Tobi e a prendersi cura anche del figlio Tobia inviato in un paese lontano per recupe-rare una forte somma di denaro per far fronte alla delicata realtà.

Prendiamo spunto direttamente dalla lettura dell’incontro tra l’Angelo (non ricono-sciuto) e il figlio Tobia nella descrizione di un quadretto di vita familiare in cui emer-ge la partecipazione divina nelle vicende umane:

Ma l'angelo gli disse: «Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire». Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva. 4Gli disse allora l'angelo:

«Apri il pesce e togline il fiele, il cuore e il fegato; mettili in disparte ma getta via gli intestini. Infatti il suo fiele, il cuore e il fegato possono essere utili medi-camenti». 5Il ragazzo squartò il pesce, ne tolse il fiele, il cuore e il fegato. Arro-stì una porzione del pesce e la mangiò; l'altra parte la mise in serbo dopo aver-la salata. 6Poi ambedue ripresero il viaggio, finché non furono vicini alla Me-dia. 7Allora il ragazzo rivolse all'angelo questa domanda: «Azaria, fratello, che rimedio può esserci nel cuore, nel fegato e nel fiele del pesce?». 8Gli rispose: «Quanto al cuore e al fegato, ne puoi fare suffumigi in presenza di una perso-na, uomo o donna, invasata dal demonio o da uno spirito cattivo, e cesserà da lei ogni vessazione e non ne resterà più traccia alcuna. 9Il fiele invece serve per spalmarlo sugli occhi di chi è affetto da macchie bianche; si soffia su quelle macchie e gli occhi guariscono».(Tb.6,3-9).

È un piccolo prontuario per la salute utilizzando le risorse del creato, in questo caso le interiora di un pesce. Certo il racconto si riveste di usanze mediche e farmaceuti-che del tempo e risente dell’ambiente orientale, dove le varie terapie erano venate di elementi magico-sacrali per il semplice fatto che medicina e magia erano arti assai personalizzate da pochi.

Qui in Israele ha inizio un vero e proprio incontro tra Dio che guarisce, Raffaele e l’uomo che impara a utilizzare le risorse del creato per ottimizzarle fino a saperne

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estrarre una medicina atta a curare e guarire da gravi malattie. Non solo ma nel rac-conto si nota un altro particolare molto interessante ancora oggi: l’influsso demo-niaco.

Ciò sta a indicare lo spirito del male, la malattia come effetto malefico sia di qualche invocazione dello spirito sia perché la persona cade vittima del demonio capace di aggredire con molte sofferenze.

Nel libro di Tobia è il caso di Sara la futura moglie di Tobia colpita da un demonio persiano: Asmodeo. Le tante conseguenze della possessione demoniaca portano con sé fenomeni anche fisici o nel caso del testo improvvisi decessi inspiegabili di fronte alle conoscenze mediche del tempo. Entra qui la sorte di commistione tra malattia, peccato, punizione divina e malefici. Un insieme di fatti che portano a leggere nella malattia sia la conseguenza di una condotta morale dissoluta piuttosto che della di-retta maledizione invocata da qualche nemico utilizzando una sorte di rituale di ma-gia nera.

È scontro tra il Dio della vita, il cui scopo è guarire, restituire la possibilità di una esi-stenza piena e realizzata nel bene e la mentalità idolatra sacrale dove per guarire occorrono sacrifici e altre pratiche per ingraziarsi la divinità. Per essere più precisi dalla letteratura ebraica del tempo, esattamente dall’apocrifo di Enoch, (40,9), Raf-faele è uno dei quattro angeli della presenza, che guariscono tutte le malattie e le ferite degli uomini. Anzi diremmo di più Raffaele è una ipostatizzazione del potere taumaturgico di Dio.

Il potere che Dio ha di guarire non è limitato alla malattia e alle ferite, Dio attraverso il suo angelo protegge anche coloro che si trovano in viaggio e difende gli uomini dagli attacchi dei demoni come nel caso di Sara. Diciamo che l’angelo che guarisce è uno dei nomi con i quali raffiguriamo la Divinità. Lo stesso Tobi viene a beneficiare di questo dono e non può che ringraziare il Signore, non solo per la ritrovata vista del corpo, ma per aver sperimentato la straordinaria azione della sua Provvidenza.

Dio è con quanti lo cercano, con coloro che non hanno altro se non la fiducia in Lui e si affidano alla sua Azione. Può così ben affermare in uno splendido inno entrato nella liturgia delle Ore:

Benedetto Dio che vive in eterno il suo regno dura per tutti i secoli; Egli castiga ed usa misericordia, fa scendere negli abissi della terra, fa risalire dalla grande Perdizione e nulla sfugge alla sua mano. Lodatelo, figli d’Israele, davanti alle genti; Egli vi ha disperso in mezzo ad esse per proclamare la sua grandezza (Tb.13,2-4)

Interessante notare come l’esperienza della malattia viene metaforizzata nella di-scesa degli abissi detti in ebraico sheol, il regno dei morti, le profondità della terra dove tutto è tenebra.

Il Signore però fa risalire, permette di ritrovare una nuova esistenza con un inter-vento davvero prodigioso, al di là di ogni possibile azione umana, solo Dio è in grado

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di restituire la salute e quindi la vita.

Anzi in ciò se ne apprezza e apprende la grandezza. Si comprende come la cura, ogni terapia atta a cercare la guarigione s’inserisce nella dinamica della volontà divina perché ognuno possa ottenere vita, salute e salvezza.

A proposito della persona del medico Certamente Dio si serve degli uomini, di coloro che hanno provate capacità per cura-re ed utilizzano ogni risorsa fornita dal creato.

Non dimentichiamo qui l’influsso culturale della Grecia dove dal V sec. a.C. si era ben sviluppata la scienza medica con Ippocrate di Kos il cui giuramento è stato per secoli la base della deontologia medico-sanitaria.

Ora nel testo del Siracide (38,1-15), l’ultimo scritto prima della nascita di Gesù, e sotto l’influsso culturale dell’Ellenismo, c’è una vera e propria presentazione del medico:

1Onora il medico per le sue prestazioni, perché il Signore ha creato anche lui. 2Dall’Altissimo infatti viene la guarigione, e anche dal re egli riceve doni. 3La scienza del medico lo fa procedere a testa alta, egli è ammirato anche tra i grandi. 4Il Signore ha creato medicamenti dalla terra, l’uomo assennato non li disprezza. 5L’acqua non fu resa dolce per mezzo di un legno, per far conoscere la potenza di lui? 6Ed egli ha dato agli uomini la scienza perché fosse glorifica-to nelle sue meraviglie. 7Con esse il medico cura e toglie il dolore, 8con queste il farmacista prepara le misture. Certo non verranno meno le opere del Signore; da lui proviene il benessere sulla terra. 9Figlio, non trascurarti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà. 10Allontana l’errore, regola le tue mani, purifica il cuore da ogni peccato. 11Offri l’incenso e un memoriale di fior di fari-na e sacrifici pingui secondo le tue possibilità. 12Poi ricorri pure al medico, per-ché il Signore ha creato anche lui: non stia lontano da te, poiché c’è bisogno di lui. 13Ci sono casi in cui il successo è nelle loro mani; 14anch’essi infatti pregano il Signore perché conceda loro di dare sollievo e guarigione per salvare la vita. 15Chi pecca contro il proprio creatore cada nelle mani del medico”.

Evitiamo di fronte alla malattia da un lato un fideismo esasperato che porta inevita-bilmente a una cura solo di tipo spirituale, come se non avessimo un corpo debole e facilmente attaccabile dalle malattie e dallo stesso decadimento naturale.

Dall’altra parte però è altrettanto vero che va evitato uno scientismo eccessivo co-me se la vita e la sua reale qualità dipendesse dalla riuscita o meno delle terapie mediche. Giustamente la medicina deve possedere un’autonomia con cui si propo-ne, diviene una vera e propria scienza capace di studiare e comprendere il corpo e tutti gli eventi patologici. Non bisogna però arrivare a pensare e a credere in una medicina sempre più sviluppata e sicura in grado di superare quella soglia del dolore e della sofferenza insita nella stessa biologia umana e creaturale.

Solo accettando questa realtà possiamo comprendere la grandezza del Creatore,

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come ha fatto Tobi il quale ha dato risalto a una terapia oftalmica alquanto scono-sciuta e diremmo originale, ma molto efficace perché in grado di restituirgli la vista (Tb. 11,8): disse Raffaele:

Spalma il fiele del pesce sui suoi occhi; il farmaco intaccherà e asporterà come scaglie le macchie bianche dai suoi occhi. Così tuo padre riavrà la vista e vedrà la luce.

Il medico è presentato nel ruolo di collaboratore del piano divino per dare alla per-sona malata il senso dell’accompagnamento e della cura per la propria malattia così che ciascuno non si senta né abbandonato, né solo curato nel corpo esterno.

Il vero messaggio è quello ben indicato da Ben Sira ossia salvare la vita non solo al-lungare di qualche tempo la sopravvivenza dello stesso corpo provato dalla malattia e sollevato dalla scienza medica.

Ogni malattia, infatti, per quanto leggera, non colpisce solo un corpo malato, un corpo oggetto, ma coinvolge la persona nella sua totalità, nella sua psiche, nelle sue relazioni, nel suo essere stesso. Tobi prima di cadere malato e non vedente aveva ben altro rapporto con la moglie, anzi forse l’evento malattia mette a nudo, sma-schera le vere posizioni delle persone.

Chissà come la moglie avrà trattato Tobi quando era sano, ora lo offendeva e lo de-rideva persino per la sua generosa disponibilità agli altri. Davvero strane queste per-sone, ma pesanti quando se ne deve dipendere! Davanti alla malattia o all'handicap è impossibile non porsi domande.

E la domanda è ancora più lancinante quando è declinata in prima persona: Perché a me? Perché ora? Per quanto tempo?

Sorgeva già in Tobi il bisogno di trovare un senso. Ma questo senso ci sfugge sem-pre ed è difficile parlare a fondo, in modo completo della malattia. La Bibbia resta una guida preziosa. I riferimenti medici, che vi troviamo, sono di un certo interesse per la storia delle scienze, ma quel che la Bibbia dice del vissuto del malato, delle sue domande, di quel che può sperare, della sua preghiera, non ha perso valore.

La Bibbia è parola di Dio, una parola che Dio continua a rivolgere agli uomini e alle donne di oggi, una parola di salvezza per tutti, sani e malati. Apre una prospettiva che va ben al di là della semplice guarigione fisica, si entra nella dinamica del rap-porto con Dio dove occorre recuperare fiducia in Lui e significato al proprio vissuto come segno di offerta e riconoscenza per il dono della vita stessa.

La fiducia di Tobi è pur, tra mille difficoltà, segnata da un positivo traguardo: la ritro-vata salute e la certezza che Dio assiste, si prende cura dei suoi fedeli.

La malattia, la sofferenza e il disagio per la propria infermità segnano il percorso e oggi, con molti mezzi scientifici, si vuole addirittura ricorrere all’accanimento tera-peutico, quasi per esorcizzare la paura della propria morte. In tal senso l’uomo di-mentica che la malattia e la morte sono parte importante della nostra esistenza.

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L’insegnamento della Sacra Scrittura e in specie in persone giuste di fronte a Dio, come Ezechia e Tobi, ci fa rendere conto di come anche la persona retta ed onesta può scontrarsi con la dura realtà della malattia e della morte.

L’uomo è chiamato a vivere l’esistenza in salute e benessere come un dono e non come un diritto. Da qui abbiamo già una chiave di lettura per il nostro testo: la salu-te è prima di tutto l’offerta dell’opportunità di dedicare la vita, le energie, le capaci-tà personali per uno scopo.

Anzi ogni dono è finalizzato a un altro. Pensiamo a Ezechia voleva vivere qualche an-no in più per completare la sua riforma religiosa, per proteggere al meglio il suo po-polo dai nemici, per mettere in pratica gli insegnamenti divini ed essere a servizio del suo Regno.

Il dono della vita unito a quello della salute rende le persone responsabili di un com-pito: mettersi a servizio senza pretese, donare senza la pretesa del diritto a mante-nersi sani, e inattaccabili da ogni malattia. Importante è infine ricordare il nostro rapporto con chi soffre: spesso l’indifferenza è più dolorosa della malattia stessa, ne è prova diretta l’atteggiamento della moglie di Tobia, capace solo di umiliarlo in ogni circostanza senza condividere la propria esperienza di persona sofferente.

4 Gesù e la malattia

Non vogliamo certamente esaurire un argomento così vasto, solo estrarne qualche contenuto per la nostra trattazione sul tema della malattia e dell’essere malato. Nei Vangeli Gesù incontra centinaia di persone affette da gravi patologie anche molto pesanti fino a isolare gli ammalati in una sorte di morte civile.

Ci riferiamo ai lebbrosi, così come paralitici, zoppi, ciechi, persone cui era esclusa ogni assistenza diretta, costringendoli a dover mendicare per sopravvivere. Una realtà drammatica di fronte alla quale Gesù vi risponde con la mano di Dio.

Al centro non c’è solo l’anima o la spiritualità ma tutta la realtà dell’essere e dell’esistere umano, compresa la corporeità e la debolezza creaturale.

Gesù non passa invano tra gli uomini e le donne del suo tempo, anzi si fa carico dei loro dolori e s’impegna per sanare, curare e restituire salute e dignità a ciascuno. Se prendiamo il Vangelo di Marco oltre il trenta per cento del testo (209 versetti su 666) è occupato da racconti di miracoli, ossia interventi su persone colpite da malat-tie o indemoniate.

Le mani di Gesù Cristo si sono posate su carni malate e sofferenti per dare, oltre che la salute, il dono della presenza di Dio come Colui che riempie di significato la vita stessa. A che serve la ritrovata salute se poi ci si perde in scelte che non danno valo-re alla persona e la distolgono dal suo fine principale: amare come Gesù ci ha inse-gnato?

Il malato ha bisogno di risposte al suo soffrire e non soltanto di salute, ha necessità

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prima di tutto di incontrare il Signore che viene con fiducia e accoglierlo nella pro-pria vita. Ci ricorda prima di tutto che il nostro io non è formato solo dalla dimensio-ne corporea, ma è intessuto di spirito, di interiorità, si apre all’incontro profondo e vero con Colui che dà forza, con Colui che è Dio con noi e dentro di noi.

Il lembo del mantello Sono davvero tanti i racconti di guarigione operata da Gesù, ci vorremmo fermare e riflettere su un episodio, apparentemente poco incisivo, in realtà di ampio contenu-to. Scorriamo il racconto nella versione di Marco:

Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. 25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peg-giorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era usci-ta da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». 31I suoi di-scepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male»” (5,25-34).

Il bisogno è quello di una guarigione ritenuta per la scienza medica del tempo im-possibile. Ben dodici anni di gravi emorragie, la persona incapace di qualsiasi inter-vento sociale, era messa ai margini. Da lì la sua speranza riposta nei medici, i quali pur curandola e mettendola sul lastrico non avevano di fatto portato a risultati ac-cettabili.

Il suo disappunto, la sua delusione e, quel che peggio, era stata lasciata con l’assoluta mancanza di altri mezzi per affrontare la situazione. Unica speranza era nel Maestro, indicato come Colui che guarisce con la potenza di Dio.

Lei era il triste quadro di una persona che aveva perso la speranza di guarire, ma non si arrendeva, non si dava per ammalata senza possibilità, lottava ancora, credeva di poter trovare un rimedio alla sua grave e invalidante malattia.

Da qui il coraggio, davvero straordinario di toccare anche solo il lembo del mantello per poter trovarne beneficio. La legge dichiarava impura una donna che aveva perdi-te di sangue (Lev. 15,19.25), e impuro diventava tutto ciò che essa toccava: ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della folla, ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta.

Ed è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità all'accaduto: vuole dichiarare di fronte a tutti, che non si sente impuro perché una donna l'ha toccato e che le cate-gorie del puro e dell'impuro non lo interessano: Dio non bada al puro o all'impuro

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ma alla fede.

Fa superare la paura dell’impurità della malattia come fosse qualcosa che compro-mette la dignità della persona. La donna non deve mettersi da parte, sentirsi esclusa al punto che di nascosto tenta un approccio al Maestro.

Primo insegnamento è l’accettazione del proprio stato fisico con la volontà di affron-tare la situazione senza il timore né degli altri, né tanto meno di leggi e regolamenti costruiti più dalle paure collettive e da pregiudizi ancestrali sulla sessualità, che da veri e autentici motivi religiosi di purificazione.

Da qui l’atteggiamento supplichevole della donna, la sua umile confessione di una presunta colpa ma non il giudizio, anzi Gesù vede nel suo profondo, ben al di là della malattia fisica.

È una persona di fede, cerca sì di guarire, in un contesto di fede. Il corpo è dono di Dio come la salute, credere è invocare la potenza di Colui che può donare non solo la guarigione del corpo, ma anche una qualità nuova di vita. La donna si rende conto che è stata scoperta. È per lei un momento difficile e pericoloso. Ma malgrado ciò, la donna ha il coraggio di assumere ciò che ha fatto. Ma la donna, impaurita e treman-te, gli si getta ai piedi e racconta la sua verità. Gesù pronuncia allora la parola finale dicendo:

Figlia, la tua fede ti ha salvato, va in pace e sii guarita dal tuo male!

Belle parole, molto umane. Con la parola Figlia, Gesù accoglie la donna nella nuova famiglia, nella comunità, che si forma attorno a lui. Avvenne ciò che lei pensava. Ge-sù riconosce che senza la fede di quella donna lui non avrebbe potuto operare il mi-racolo.

Ne estraiamo tre riflessioni sulla condizione di malato e sulla malattia:

1 – vv.25-27 – Lo stato di esclusione Era così grave subire delle perdite di sangue? Molto probabilmente oltre al rischio di emorragie e d’infezioni esisteva una mentalità nella quale coloro che erano in que-sto stato venivano escluse da tutto e quindi la malattia comportava uno status di vi-ta molto diverso dalla normalità. Essere malati in questo modo equivaleva a una pressoché totale mancanza di supporti sul piano sociale e umano e a un’esclusione perfino dalla vita familiare. Certo questo fa la propria parte, ma va considerato un fatto: l’essere vittime di un sistema o saper trovare la propria identità e determina-zione per uscirne. Che cosa vuol dire?

Talvolta la più grave malattia non è quella che colpisce e rende infermo un corpo li-mitandone le attività è la mentalità e la cultura che si crea attorno a ciò. La donna del Vangelo aveva reagito dapprima cercando aiuto con la medicina del tempo fino a spendere i suoi averi e non si era arresa pensando perfino di raggiungere un lembo del mantello del Maestro affinché la sua malattia potesse cessare e soprattutto po-tersi reinserire del contesto sociale e lì costruire una vita normale.

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È nella dialettica tra subire la sorte del malato escluso e limitato e vivere la malattia con il coraggio di cercarne una via di uscita per recuperare pienamente se stessa. Non si arrende, sa che la malattia è una difficoltà, è un limite, ma il Maestro, la fede in Lui costituisce la più importante risorsa alla quale può e deve attingere anche a ri-schio di essere fermata dalla folla.

Quando si ama la vita, si cerca uno stato di salute combattendo la prima delle malat-tie: la sfiducia in se stessi e negli altri, a volte non solo negativi come la moglie di To-bi, ma anche avversi come la folla attorno a Gesù.

No, la donna malata sfida tutto questo, non teme giudizi, non ha paura, si getta ver-so Gesù convinta della sua scelta, crede profondamente nel Dio della vita, nel Mae-stro per una nuova opportunità;

2 – vv.28-29 Una nuova esistenza – straordinario questo incontro, senza una parola, senza nem-meno un cenno, senza una presentazione da parte di qualcuno. Solo un semplice at-taccamento al mantello riporta alla donna malata l’auspicata salute. Anzi ne avverte fisicamente il beneficio al punto che non può fare a meno di prenderne atto nel proprio corpo.

È la medicina di Dio, anzi l’azione rivelata del Padre nell’agire del Figlio a beneficio dell’umanità bisognosa di salvezza. La buona notizia del Regno è per questo stretta-mente collegata alla guarigione di ogni malattia e infermità:

Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, proclamando la buona notizia del Regno guarendo ogni sorta di malattia e in-fermità...” (Mt 9,35).

C’è una stretta relazione tra il contenuto della buona notizia (Dio è amore) e la salu-te degli uomini. E se la guarigione è opera della buona notizia, molte infermità oltre ad essere un evento naturale e biologico del corpo sono frutto d’ignoranza, paura e mancanza di solidarietà nei confronti di chi soffre.

È più sbrigativo isolare, mettere da parte, non assistere le persone ammalate o inva-lide piuttosto che farsi loro incontro cercando modalità con le quali assistere e so-stenere le loro condizioni. Ciò significa mettere da parte remore e timori e imparare a condividere la propria umanità senza nascondersi dietro perbenismi o stereotipati schemi di purificazione rituale e sociale. No, l’evento che dà una possibilità di guari-gione a una donna ammalata viene registrato subito come miracolo ossia guarigione inspiegabile, ma reale, totale e completa.

È l’immagine incarnata del Dio della vita, di Colui che agisce per amore degli uomini, non vuole la sofferenza e il dolore, anzi desidera sollevare dalla malattia. Conosce la nostra condizione e lui stesso l’assume facendosi fin dall’inizio uomo tra gli uomini accettando ogni fatica e sofferenza per riscattarci dal male. La guarigione non è solo un segno teofanico della potenza taumaturgica di Cristo, quanto un emblema, il se-gno efficace della sua volontà salvifica e redentiva, solidale con l’umanità fino ad ar-

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rivare a patire e soffrire donando la propria vita.

È la rottura con gli schemi del passato troppo orientati alla retribuzione divina per quanto riguarda la malattia consequenziale al peccato o ad una grave mancanza e quindi interpretata sul versante punitivo, non sulla comprensione del dramma e del-le fatiche della persona malata.

Un corpo da sanare e una persona da accogliere, accettare nella sua infermità e ac-compagnare in un nuovo percorso. Non è solo ciò che opera Gesù, quanto poi fa-ranno i suoi Apostoli. La chiesa stessa portatrice della medicina divina nel farsi pros-simo di ogni umana sofferenza e nel prendersi cura delle tante persone rifiutate o messe da parte per la gravità delle loro patologie.

Gesù è prototipo del medico non solo per la parte scientifica, ma per la sua azione improntata a una grande attenzione alla persona nella sua integralità. Non siamo so-lo un corpo da sanare, siamo figli da comprendere nella loro pienezza d’immagine e somiglianza con Dio, in perfetta unità tra corpo e spirito, chiamati all’Amore e soste-nuti nella speranza;

3 – vv.30-34 – l’incontro tra Gesù e la risanata Alla base va chiarito un possibile malinteso in quanto Gesù non va inteso come una sorte di guaritore da chiamare o addirittura toccare per trovarvi salute in modo ma-gico. La fede è una disposizione necessaria, affinché il miracolo possa attuare la più profonda realtà salvifica che esso simboleggia:

Figlia, la tua fede ti ha salvata.

Non è stato solo un gesto di disperazione, nemmeno una forma di fiducia per prova-re ogni tentativo… no, essere con Gesù significa cercare il bene per sé al di là di ogni evento fisico, al di sopra di ogni malattia, Egli è il solo, l’unico da cercare perché ama i suoi. Aver fede significa aprirsi all’incontro vero, reale, autentico tra la nostra uma-nità peccatrice, debole, fragile e naturalmente limitata con Colui che ci rende perso-ne nuove, ci dona una vita che va oltre, ci offre un’opportunità che riempie la nostra esistenza non solo col benessere fisico e qualche anno in più di vita.

No, Gesù è colui che ha assunto il nostro dolore per trasformarlo, renderlo addirittu-ra offerta a Dio gradita come espiazione, sofferenza vicaria per redimerci dal pecca-to, per restituirci la dignità di figli di Dio e liberarci dal male peggiore: il nostro orgo-glio, la nostra presunzione. La stessa malattia di fronte alla quale la donna si umilia e chiede una benevola compassione per il suo gesto, è pedagogia divina verso la liber-tà interiore di chi si sente chiamato a uscire da sé per immergersi in Dio e ritrovare una nuova mentalità.

Gesù feconda il nostro dolore e il nostro morire con la sua sofferenza, morte e risur-rezione. È la parola definitiva di Dio sull’uomo, è la mano provvidenziale di un Padre che va incontro ai suoi figli che come la donna ora risanata sanno osare, sanno aprir-si, credono nella potenza divina che opera a nostro favore per dare salute e sicurez-za al nostro cammino. Non solo ma è anche segnale di un incontro fuori dagli sche-

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mi: Gesù guarisce una donna poi gli parla in pubblico, la rende protagonista di un gesto di liberazione.

Era davvero incomprensibile, per la mentalità del tempo, dove la donna viveva so-stanzialmente isolata e non aveva contatti diretti con rabbini, veniva istruita solo dagli uomini di casa.

Gesù la guarisce e la rende finalmente pura per poter partecipare alla vita sociale, ma le parla direttamente e la fa sentire accolta nella grande famiglia della Comunità cristiana che si stava formando dove chiunque ha fede e si mette al seguito del Mae-stro può seguirlo senza subire discriminazioni né incontrare ostacoli. È il segnale del-la solidarietà verso il malato senza mettergli sterili tabù e nemmeno creargli spaven-tosi vuoti sociali attorno.

Raccogliamo il messaggio di una nuova umanità,l’azione efficace e continua dei cre-denti verso gli ammalati diviene già il primo segno della volontà di dar loro assisten-za e conforto per farli sentire parte attiva del cammino della vita familiare e sociale. Questa non è la condizione del malato isolato e fuori dall’ambito sociale, ma è inve-ce la persona ammalata sostenuta e accompagnata nel cammino di vita perché pos-sa sentirsi ancora valorizzata per quello che è e può ancora offrire. Tutto ciò fa parte dell’umanesimo evangelico presentato da Gesù e vissuto nella chiesa.

Gesù viene per dare una svolta all’interpretazione stessa del dolore, non la conseguenza diretta del peccato personale o della famiglia, quanto l’evento naturale mandato perché l’uomo si faccia un auto-esame, si metta in discussione e ritrovi senso e valore al proprio vissuto per essere gra-dito a Dio ed in piena unione con gli altri.

La vera guarigione diviene la salute dell’animo liberato dal male e pronto a realizzarsi nel Bene supremo che Gesù ci ha insegnato: dare la vita per gli altri, essere grandi nella bontà vincere ogni divisone con il perdono, siamo nel cammino di vita del Vangelo, nella logica del dare che dà più gioia piuttosto che ricevere.

5 L’itinerario sofferto di Paolo

È senza dubbio l’Apostolo di cui abbiamo maggior notizie anche a riguardo della sua salute. Vorremmo riportare i testi attestanti le sue sofferenze:

A) – un primo testo parla di un periodo di malattia durante il quale però l’Apostolo non si arrende, non si mette a fare il malato infermo e inerte. Utilizza le sue capacità per annunciare il Vangelo, anzi considerando la lunga terapia per la guarigione si im-pegna a dare una forte spinta alla Comunità dei Galati:

Sapete che fu a causa di una malattia del corpo che vi annunziai la prima volta il Vangelo; e quella che nella mia carne era per voi una prova non l’avete di-sprezzata né respinta, ma al contrario mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù (Gal.4,13-14).

La malattia, di cui non sappiamo né il nome né il tempo necessario per la riabilita-

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zione, è stata letta da Paolo come un segno. Dio l’ha chiamato a essere Maestro e guida di una Comunità bisognosa di assistenza e se lui l’ha ricevuta per la guarigione ne ha offerto la disponibilità per la conversione di molti.

Viene così inteso lo stato di salute malfermo come una prova riservata da Dio. Non è lo status del malato che deve entrare quanto la volontà di combattere la malattia con la medicina possibile e con la tenacia e la volontà di continuare il buon combat-timento della fede e della dedizione ai fratelli. È anche questa spinta a essere dono a servizio di altri una interessante componente nel processo di guarigione: la volontà di vivere e di rendere la vita stessa dono d’amore per gli altri. Paolo quasi non avver-te di stare male, di avere degli impedimenti, infatti non viaggia, non va oltre la zona della Galazia. Rilegge però l’evento malattia come segno cui deve una risposta:

si rende utile più che mai per il Vangelo, sapendo che il suo lavoro, l’opera di guida delle Comunità non può fermarsi per una malattia, un impedimento fisico. Sappiamo era piccolo (etimologia di Paolo) e debole disadorno come scrive:

Le lettere che scrive sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa” (2 Cor.10,10).

Ciò però poco conta, Dio si serve di tutti, anche delle persone deboli per affermare la sua presenza nel mondo, per potare il messaggio della speranza. È lo stesso Apo-stolo ad affermarlo:

Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze purché dimori in me la potenza di Cristo (2 Cor.12,9-10).

Quel Dio, sceglie gli umili, i deboli e gli ultimi, che riescono più agevolmente a rivela-re la sua Parola di salvezza attraverso la fragilità. Siamo al paradosso evangelico de-gli ultimi che sono primi nel Regno di Dio. Certo nel mondo apparentemente vinco-no e primeggiano i sani, le persone di successo, quanti sanno intrattenerne altri con discorsi e conversazioni coinvolgenti perché potenti. Certo il debole non è solo il ma-lato, la persona colpita da un male pesante e invalidante. Deboli sono tutti coloro che subiscono tante prove, hanno ostacoli d’ogni genere e quel che peggio non tro-vano conforto, sicurezza ed aiuti adatti dalle persone su cui contano.

Ecco perché Paolo può affermare nel suo stato di debolezza di aver incontrato Cristo e questa è la sua forza, ossia la capacità di vedere, con l’occhio della fede e dell’amore, la realtà. Non è più lui che vive ma Cristo vive in lui (Gal.2,20) e questa unione profondamente spirituale motiva, sostiene e guida l’Apostolo nel proprio cammino verso il traguardo: l’incontro definitivo con Cristo risorto.

La sua fede, la grande fiducia in Dio è la più potente medicina che si possa assumere, è la più sicura via per accettare anche la prova della malattia. Soprattutto Paolo av-verte di non essere solo, la compagnia del Cristo vivente lo sostiene in ogni momen-to. Lo stesso cristianesimo ha nella stoltezza e scandalo della Croce il suo centro vi-tale, dal patibolo del crocifisso viene esaltato ogni sofferente, viene ribaltata ogni in-

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terpretazione di commiserazione e di pietismo.

Certamente è lui per primo che desidera la sua salute e quella dei suoi collaboratori, come Timoteo cui suggerisce di bere del vino ai pasti per favorire la delicata dige-stione (1 Tm.5,23).

Una buona salute in un corpo sano e ben curato costituiscono l’impegno anche per Paolo, il tutto però finalizzato al ministero, al compito di annunciare Cristo con la propria vita senza sconti e senza lesinare fatiche e rinunce.

B) – un secondo testo parla direttamente di una sofferenza acuta e cronica, sicura-mente sopportata lungo una buona parte della sua esistenza:

Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. (2Cor.12,7-8)

C’è un netto contrasto tra la malattia come schiaffo di Satana e come epifania della potenza divina. Certo Satana ha favorito l’ingresso delle malattie nel mondo come conseguenza diretta del peccato adamitico. La debolezza dei sensi dei primogenitori diviene debolezza della stessa carne facile a sentire il sudore per la stanchezza del lavoro e propensa al decadimento per le malattie, la vecchiaia e la morte stessa che segna la conclusione della vita (Gn.3,17-19).

Difficile dire di che cosa si tratta per quanto riguarda la spina nel fianco, forse una piaga non rimarginata, un dolore continuo causato da un infortunio guarito in qual-che modo, un gesto di ascetica con una forma di cilicio? Non sappiamo davvero di che si tratti, in ogni caso Paolo ha sofferto, offerto e riletto il tutto con la dirittura morale del credente che si fida di Dio e non smette di pregare e mantenere saldo il rapporto con Lui certo di non venirne abbandonato.

Nelle sue parole si legge la propria umanità, sa come ogni sofferente di essere debo-le (asthenes in greco) e che la debolezza è uno stato tipico di ogni persona che si rende conto di poter fare ben poco di fronte al dolore. Desidera un miglioramento, un minimo in più di benessere, ma dall’altra parte come Gesù nell’orto, sa accettare il calice amaro, la volontà divina che anche se misteriosa, resta però il piano di Dio su di lui.

Ora potremmo però anche domandarci in che cosa consista questo pungiglione, for-se non è nemmeno un evento fisico. Tante le ipotesi, perché le ricordiamo? Per far comprendere quanto i mali dell’anima e le pesanti conseguenze di cattiverie altrui vanno a condizionare ogni persona come fossero dei dolori fisici acutissimi e ben dif-ficili da contenere.

È San Gregorio Magno che parla del dolore dell’anima di Paolo, possa forse essere stato causato dal fatto di sentirsi braccato come un bandito dai suoi connazionali, egli desiderava portare a conoscere il dono di Dio incarnato in Cristo Gesù a lui ap-

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parso nel cammino verso Damasco.

Certamente ogni volta che si parlava di: fratelli ebrei e rabbini da lui conosciuti, con i quali aveva collaborato, sentiva una vera spina nel fianco, un dolore lacerante e in-sanabile per un animo come il suo sensibile, aperto e generoso verso tutti.

La malattia e il dolore in Paolo sono descritti con un’immagine plastica: un demone che lo schiaffeggia. Una persona incaricata da Dio di metterlo alla prova, per render-lo più umile, abbassi se stesso e si renda conto di servire il Signore prima di sé.

L’esperienza del dolore fisico e morale plasma una persona, la trasforma come il fuoco fa col ferro, come il vasaio con l’argilla perché lascia un segno, mette ciascuno di fronte al proprio stato di debolezza lo fa riflettere sul significato e valore della sua vita. È un’esperienza dove essere umili significa apprendere la presenza divina nel male che rende deboli, e richiede a ciascuno di cercare di trovare forza solo nel Si-gnore.

La malattia come segno di elezione, come sede non di maledizione, ma di benedi-zione, non come luogo satanico ma come orizzonte teofanico: lì si manifestano le opere di Dio.

È un livello di lettura della spiritualità di uomo, di Paolo e di altre figure di santi ca-paci d’intelligere, leggere dentro, la realtà e capire la rivelazione divina anche in mezzo ai dolori umani. È la risposta all’appello misterioso di Dio, Paolo lo sa bene al punto da aumentare da un lato il suo lavoro di Apostolo e dall’altro la sua preghiera non solo per chiedere la grazia di guarire, ma per entrare in relazione più intesa e profonda con Cristo e a Lui affidarsi interamente;

C) – il terzo testo è tratto dalla lettera ai Colossesi e qui Paolo offre uno spunto di spiritualità della Croce applicato alla malattia e al dolore sull’esempio della sofferen-za vicaria di Gesù Cristo:

Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro secondo la missione affidatami da Dio stesso presso di voi di realizzare la sua parola (Col.1,24).

Si chiama partecipazione piena e vera ai patimenti di Cristo che ha sofferto per sta-bilire il regno di Dio tra gli uomini. Quanti condividono la sua opera, la sua missione, come l’Apostolo, devono o possono anche condividere le sue sofferenze. È la perfet-ta imitazione del Maestro, e certamente Paolo non pretende di aggiungere qualche cosa al valore redentivo della croce e dei dolori di Gesù.

Egli vive una sorte di associazione spirituale e d’intimità con le prove di Gesù. Anzi proprio perché desidera la salvezza di tutti, specie dei pagani e degli israeliti, Paolo volentieri accoglie anche le sue sofferenze e le offre per il loro bene.

Oltre il suo lavoro indefesso e senza limiti e con ogni genere di sacrificio v’immette la sua sofferenza, i suoi dolori fisici e morali affinché unendoli a quelli di Cristo sulla

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Croce, contribuisca alla redenzione dell’umanità. È una straordinaria elevazione del-la sofferenza, nella logica della sublimazione nell’immensità d’amore di Dio capace di trasformare il male degli uomini in fonte perenne per guarirne altri dal male.

Paolo ci fa comprendere sia la realtà del dolore fisico difficilmente curabile, sia quel-lo morale capace di lasciare una traccia profonda come una ferita sanguinante simile alle piaghe di Gesù. Lo stesso Maestro aveva sofferto per i colpi subiti, le ferite pro-curate fino allo spasimo della morte sulla Croce, ma aveva anche le sofferenze dovu-te alla solitudine nella quale era precipitato. Nessuno dei suoi discepoli, tranne l’adolescente Giovanni, l’aveva seguito sulla Croce, ne aveva preso le difese, l’aveva sostenuto nel processo di fronte alle autorità giudaiche e romane. Il senso del vuo-to, dopo il generoso impegno verso tutti, era ripagato con il silenzio, l’indifferenza e con aperta opposizione. E Paolo non ha provato anche lui la stessa sofferta prova! Lo dice chiaramente:

Alessandro il ramaio, mi ha procurato molti mali, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione. Nella mia prima difesa in tribunale nes-suno mi ha assistito, tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto con-tro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza” (2 Tm.4,14-16).

Ecco le sofferenze, unite a quelle di Cristo, per il bene della chiesa e la redenzione dell’umanità vittima del peccato.

La sofferenza fisica può anche trovare la sua causa nei mali morali, nelle delusioni per la mancanza di solidarietà, di attenzione, di riconoscenza, ossia nello sconforto dovuto alla mancanza di sostegno da parte di altri su cui si contava.

Non è mai la malattia solo un fatto biologico, un agente esterno che va a colpire qualche parte del corpo o un suo improvviso infortunio. Epidemie, virus e altri mi-crorganismi possono causare tante patologie, ma prevale oggi più che mai la malat-tia psicofisica. Esistono stati di rabbia, delusione, paura, vergogna in grado di spri-gionare emozioni così intense e profonde da portare facilmente le persone verso sofferenze pesanti e difficili anche da curare. Lo stesso ritmo stressante e ansioso della quotidianità logora, lascia il segno di un malessere in grado di incidere nel cat-tivo funzionamento di vari organi umani portandoli allo stato patologico.

Un po’ così doveva essere anche Paolo sempre in viaggio in mezzo a mille pericoli e con l’insicurezza di trovare un luogo per il riposo e il conforto. È lui stesso a parlare di sé:

Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato (1 Cor.9,27).

L’Apostolo deve essere di esempio anche nel saper condurre una vita austera con tanti rischi per la salute, senza né lamentarsi, né temere per i mali fisici. Conosce la sua missione, non può fermarsi, troppo importante servire il Regno di Dio per fer-marsi a guardare tutto quanto riguarda il buon andamento della salute fisica.

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Questo può darci uno spunto per valorizzare il bene della salute per essere a servizio di altri con la volontà di andare oltre, di immettere il massimo di energie al fine di donarci, nonostante fatica, limiti e malanni che indeboliscono il corpo ma nulla pos-sono fare di fronte alla propria coscienza, all’animus interiore che spinge ad andare avanti incuranti di dolori e fatiche.

Quando è forte la motivazione dello spirito, il corpo segue e esegue. Questa è la le-zione di vita di Paolo come di tanti altri testimoni coraggiosi di beni che vanno oltre la vita terrena e il senso di salute intesa solo come benessere fisico ed esaltazione della corporeità.

Qui entra in gioco la motivazione a vivere, il desiderio di donarsi, di spendersi per gli altri. Questa spinta, interiore sicuramente, è di sicura efficacia per il benessere fisi-co. Motivati significa capaci di affrontare ogni combattimento, ogni fatica, ogni sof-ferto dolore per amore di Cristo.

Lui è la spinta e diremmo il motore che guida il cammino della vita verso la vittoria sul proprio egoismo e sulle proprie paure di ammalarsi, ferirsi, indebolirsi e di anda-re verso la fine della vita. Si comprende bene come la malattia sia ben lontana dal divenire un impedimento ad agire, se si trasforma in occasione per rinnovare l’impegno a servire il Signore. Affrontare così la malattia permette di amare ancor di più la vita nell’essere consapevoli di essere inseriti in un progetto ben più grande ed elevato del proprio stato fisico.

In sintesi dall’esperienza di vita di Paolo emerge:

La permanenza dell’agire se mossi dalla fede. Questa condizione è di grande spinta ad affrontare ogni sofferenza per malattie biologiche, pericoli incombenti e da persone invidiose e calunniose. Non si tratta di annullare l’esperienza del dolore o viverlo come fosse una specie di masochistico voler soffrire, quanto di relativizzare corpo e beni materiali al Regno di Dio. Ogni malattia è così riletta al-la luce delle prove cui Dio sottopone chi crede e s’impegna per servirlo senza mai perdere la fiducia e la determinazione nell’agire;

Il senso dell’offerta, come persona capace di dare un prezioso regalo a qualcuno che si ama. Ora il regalo potrebbe facilmente essere inteso come la salute del corpo offerta a Dio per portare il Suo nome ovunque. Invece Paolo offre anche la sua malattia, i suoi disagi, tutto ciò che lo rende debole incapace di affrontare da solo tutte le scadenze dell’evangelizzazione. Ecco un’altra chiave di lettura della sua sofferenza finalizzata a divenire fonte di bene per altri sull’esempio di Gesù, offertosi in sacrificio per la redenzione dell’umanità. Dunque il dolore può parte-cipare a quello della Croce e per l’unità della Chiesa stessa divisa da lotte e sepa-razioni. Quando si offre malattia e dolore vuol dire dare loro un significato, evi-tando ribellione e rottura con Dio stesso. Paolo legge tutto come impegno a con-tinuare l’opera missionaria. Immette ogni sforzo per il Bene altrui.

È la testimonianza di come sia possibile superare se stessi, vincere ogni dolore e fatica con l’entusiasmo e la fede in Dio. Paolo si sente davvero amato da Cristo,

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sa di essere accanto a lui. Questo è un punto importante per capire la vocazione di Paolo e la nostra, di farci tutto a tutti.

Dobbiamo fare anche i nostri progetti, però il vero realizzatore di noi come dono agli altri nell'apostolato è sempre lui. Dio ci dice:

lasciatemi fare! Fidatevi pienamente del mio amore! Fate tutto quello che po-tete, ma guardate a me, fidatevi pienamente del mio amore e io farò.

Paolo per capire questo, c'ha messo del tempo! Pregai il Signore tre volte! Vuol dire: pregai il Signore a lungo, con intensità crescente, con tutte le mie forze, e solo alla fine acquista luce e significato alla sua esistenza. L’esperienza della ma-lattia e del dolore non allontana ma consente di scoprirsi vicino a Cristo, amati da Lui al punto da ricevere il dono della sofferenza offerta per amore e in grado di rigenerare la vita liberandola da ambizioni e successi.

6 Esperienze del dolore

La vicenda di Gabriella Vorremmo ora immettere nel testo delle riflessioni sul dolore vissuto direttamente da persone. Certamente il testo Sacro, di cui abbiamo riportato alcuni passaggi del Primo e Secondo Testamento, lascia intendere non soltanto la realtà pesante della malattia e della sofferenza, quanto l’esperienza spirituale con la tenacia, la volontà di affrontarla consapevoli che solo il Signore è guida, maestro e punto di riferimento per aver sofferto per primo per la salvezza dell’umanità. Ha accettato e portato con sé ogni genere di dolore per liberarci dalla paura del male, dal sentimento di abban-dono e dalla lettura al negativo della malattia. Siamo invitati a interpretarla quale prova, a volte dura e misteriosa, che mette in evidenza la vita come dono, la salute come risposta a questo dono e l’infermità prova da affrontare con fiducia.

La luce interiore di Gabriella È il racconto della giovane Gabriella affetta da una terribile malattia invalidante: la sclerosi multipla. Dapprima la nega, nonostante sintomi evidenti, e continua imper-territa il suo lavoro di educatrice per l’infanzia con più energia di prima. Avverte do-lori alle gambe, senso di affaticamento molto rapido e in certi momenti acutissime sofferenze alla colonna che la rendono passiva. Non si arrende e vuole affermare se stessa, convinta che il lavoro, l’impegno e la dedizione verso gli altri costituiscano ef-ficace metodo per lottare contro il male che crede frutto di suggestione.

Poi la lunga la strada che la porta dopo estenuanti e pesanti controlli medici, alla diagnosi finale che non dà scampo. Lei, giovane trentenne piena di speranze e pro-getti per la vita, è affetta da una malattia invalidante senza rimedi adeguati.

Inizia da qui il suo calvario, il suo passaggio lento e inesorabile da un medico all’altro in cerca di qualche terapia più convincente, di qualche cura, magari sperimentale, in grado di darle un po’ di benessere fisico. Non vuole arrendersi alla condizione di ammalata, di persona affetta dalla malattia che sempre la colpisce con dolori e sof-ferenze. Ora più che mai deve ammettere, non è più la stessa rispetto a prima, ha

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dei movimenti rallentati e dei dolori continui che infastidiscono e danno un senso di debolezza che le impedisce una normale condizione di lavoro.

Qui scatta una rinnovata volontà di combattere ma cresce anche un senso di sfiducia verso le persone con cui vive. A questo punto è bene lasciare la parola direttamente alla giovane ascoltandone il racconto. Era andata in pellegrinaggio a Lourdes, la città degli ammalati, luogo di speranza, il cui messaggio è: non perdere la fiducia in Dio e convertirsi. Così Gabriella parlava di sé:

Che cosa posso dire? Perché proprio a me questa Croce? Che cosa ho fatto di male? Mi ritrovo sempre più impedita nei movimenti e con dolori tremendi che sopporto a fatica. Mi sento vuota di dentro. Mi chiedo che cosa sarà del mio futuro, come potrò affrontare questa malattia con i miei genitori, non sa nulla anche il mio fidanzato, temo che mi lascerà una volta che comprenderà che le mie indisposizioni sono la conseguenza di un male devastante. Sono venuta qui a Lourdes per chiedere una grazia, vorrei stare meglio e vorrei riuscire ad essere me stessa nell’affrontare questa malattia senza diventare una malata e basta

Di fronte a racconti come questo emerge un sentimento d’incapacità a recare con-forto. Certamente la fede, l’abbandono in Dio e la preghiera, costituiscono un’ottima medicina interiore, ma la realtà fisica resta pesante per le forti sofferen-ze.

È necessario saper entrare in sintonia senza dire troppe e inutili parole, senza pre-tendere di aver tutto compreso con un discorso teologico sull’ammalarsi e soprat-tutto restare in sintonia spirituale di fronte a una persona che vive un dramma deva-stante che radicalmente modifica la propria condizione esistenziale. Ascoltare, favo-rire la relazione, mettersi da parte affinché una persona sofferente, e nello stesso tempo bisognosa di aiuto possa parlare, liberarsi da ogni timore.

Ci si apre alla speranza Perché Gabriella era venuta a Lourdes? Semplice e chiara la risposta, perché voleva guarire, sperava diremmo proprio in un miracolo dal momento che i medici da lei consultati avevano dichiarato la progressività della malattia nella sua gravità.

Il pellegrinaggio era per lei occasione per ritrovare da un lato coraggio e dall’altro non perdere la speranza di poter fermare, anche con delle cure più efficaci, l’avanzare del male. Il suo racconto si allargava a tutte le cure cui era sottoposta, te-rapie raccolte anche da altri Stati e con farmaci sperimentali con la speranza scienti-fica di un miglioramento o al più di non peggiorare le già precarie condizioni di salu-te.

In ogni caso tali cure con farmaci molto potenti rischiavano di renderla agitata o de-pressa emotivamente. La ragazza aveva necessità di raccontare in modo articolato e ampio la sua esistenza senza timori e con la fiducia che qualcuno potesse anche solo ascoltandola attentamente, aiutarla nel sostenere questa dolorosa situazione. Ga-

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briella visibilmente scossa e come trasportata da una forza interiore e dall’istinto di sopravvivenza, continuava a raccontare di sé:

Incontrando i medici alcuni leggono freddamente la mia cartella, gli esami vari e mi dicono apertamente che ben poche sono le speranze anche solo di ferma-re e controllare l’avanzamento della malattia sempre più invalidante. Del resto gli stessi dolori che avverto alla colonna e nei movimenti quando sto con i bambini per il mio lavoro di educatrice lasciano ben poco a sperare. Io però non mi arrendo, so che il Signore se mi ha dato una croce dura come questa non manca di sostenermi anche con la sua presenza. Sono qui a Lourdes per-ché credo che la Madonna apparsa per confortare e guidare una povera con-tadina pure lei ammalata, mi è vicina. Sento che ce la posso fare, che la mia vi-ta non è finita, il mio futuro non può crollare sotto i colpi del male fisico. Io dentro mi sento sana, mi sento capace di lottare e non voglio fare l’ammalata per tutto il resto della mia vita

A queste sue riflessioni si poteva solo replicare con un ascolto silenzioso e attento alla sua mimica: parlava come fosse di fronte a un esaminatore, qualcuno che do-vesse darle un giudizio, una specie di valutazione sul come operava e stava di fronte alla realtà. Allora trovando il coraggio per una risposta, portai il discorso sull’unicità della vita:

Vivere è dire di “sì” a un dono, una possibilità che ci viene offerta per dare il meglio, le nostre energie su un progetto chiamato con tanti nomi, ma in realtà si chiama solo fede. E fede non è immediatamente credere in Dio e qui a Lour-des alla Madonna apparsa a darci un messaggio di coraggio per vivere secon-do Dio. Fede anche nel tuo caso significa non leggere l’esistenza solo nella di-rezione della salute, del corpo perfetto, delle capacità che uno ha o vorrebbe avere per realizzare grandi progetti.

Per molti vivere significa agire, costruire, mettere su tante iniziative ed emergere per le proprie capacità quasi fossimo in una gara. Ecco la malattia, la sofferenza che sta purtroppo rendendo più difficile qualsiasi movimento implica una revisione im-mediata e diremmo serena nell’animo di tutto quello che è il nostro pensato, il no-stro desiderato per capire che cosa possiamo davvero costruire e quale fede anima ancora la vita.

Non si può perdere tutto perché una malattia ci colpisce e tende ad avanzare. Hai detto che non vuoi arrenderti che l’animo lotta, anche se il corpo è colpito, allora a maggior ragione continua a credere nella qualità di vita che puoi realizzare e cerca la motivazione per andare avanti.

Questa conversazione nella prateria di fronte alla Grotta nella sera che scendeva lentamente e con lo sfondo di molti ammalati accompagnati sulle carrozzine rende-va ancor più l’idea della misteriosità del vivere e del tempo inesorabilmente non no-stro da amministrare.

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Ci faceva sentire deboli e dall’altra parte consapevoli del dono interiore non solo della fede, ma della volontà di non sprecare il tempo, di non sciupare le occasioni, di rivalutare le scelte del proprio cammino.

Gabriella, pensavo tra me, chissà come reagirà al mio parlare, forse ha già sentito queste cose tante volte e forse è stanca di parole, magari desidera una esperienza nuova in grado di darle speranza. Lei taceva, forse stava pensando a quanto le avevo detto. Ricordo una frase:

Questa fede che dici forse non ce l’ho, ho dei dubbi, il Signore è stato ingiusto, quante volte l’ho pensato.

Mi venne subito in mente una realtà di Lourdes: le immersioni nelle piscine. Lì oltre all’esperienza unica e diremmo straordinaria dell’immersione nell’acqua provenien-te dalla sorgente scavata nella grotta da Bernadette c’è tutta una preparazione, un’attesa fatta di preghiere, di canti e spesso di esperienze raccontate da altri am-malati.

Anzi avendo di continuo pellegrinaggi italiani, era interessante mettersi in coda con qualcuno di questi gruppi organizzati spiritualmente dagli Assistenti e ben guidati da Dame a Barellieri. La proposta fu accettata così come quella di partecipare la stessa sera alla santa Messa dei giovani che ogni sabato durante l’estate raggruppa la gio-ventù di molte nazioni con un’animazione universale.

Lei diceva:

Guardando già i tanti ammalati in carrozzina mi immagino tra non molto tem-po anch’io lì tra costoro senza più nemmeno la mia autonomia di movimenti e senza la speranza di guarire. Dall’altra parte però vedo una possibilità, forse posso essere anch’io una di quelle persone che porta a casa da qui, da questo luogo di preghiera la possibilità della guarigione o almeno di non crollare sotto il peso dei dolori che mi assediano e mi fanno sentire debole e fragile come non mai.

Prendemmo un po’ di tempo, era solo l’inizio del pellegrinaggio, ci saremmo risentiti a distanza di un giorno e mezzo per raccogliere le sue impressioni. Così avvenne lei aveva seguito il piccolo programma stabilito e aveva qualcosa da raccontare. Innan-zitutto parlava molto più tranquillamente, non era presa dalla foga di dare tante in-formazioni, nemmeno era quasi bloccata dall’emotività. Sicuramente si sentiva me-glio con se stessa e aveva a lungo pensato anche quello che voleva comunicare. Sì aprì al colloquio dicendo:

Non avevo idea di che cosa fosse davvero il bagno nella piscina. Sono andata con tanti altri ammalati e ho visto il clima di familiarità, attenzione e gentilez-za da parte di tutti sia verso gli ammalati come verso gli altri pellegrini. Davve-ro un’esperienza bella e positiva, fosse così il mondo, fosse così l’assistenza ospedaliera e gli stessi medici che si prendono cura della mia salute. Mi sono sentita accolta come mi avessero conosciuto da lungo tempo, anzi ho potuto

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conversare con qualcuno e lì ho raccolto una testimonianza di vita di una si-gnora ammalata cronica da molti anni, viene qui a Lourdes ogni anno per ri-trovare la voglia di vivere e di offrire la sua sofferenza perché altri credano. Anzi diceva che questo è quanto la Madonna ha chiesto a Bernadetta, pregare per la conversione dei peccatori, offrire il proprio vissuto perché altri credano, cambino vita, si convertano. E così anche il bagno che cosa potevo domanda-re, certo ho chiesto alla Madonna la grazia di tanta salute, ma ho pregato an-che per i miei che ancora non sanno tutto quello che mi può capitare perché non mi lascino sola e sappia esser loro vicina senza pesare sulla loro condizio-ne.

Questa esperienza è stata coinvolgente, tanti pregavano e lo sentivo per ritro-vare la salute, per poter riprendere una vita normale, ma dicendo “sia fatta tua volontà”.

Qui Gabriella si commuove, riemergono i sentimenti di profonda partecipazione avuti qualche ora prima e sente ancora dentro di sé la solidarietà al dolore da parte degli altri ammalati a Lourdes per l’auspicata guarigione, ma anche per manifestare la volontà di andare avanti senza perdere la fede e il senso della solidale vicinanza. Qui mi sono permesso solo di aggiungere una breve riflessione:

Vedi quando il nostro corpo è provato, subisce degli impedimenti, perde le for-ze, in questo luogo speciale, Lourdes, scopriamo di non essere fatti solo di car-ne, di non curare solo l’aspetto materiale di noi stessi.

C’è davvero una vita dentro di noi che ci fa capire il nostro cammino, il nostro destino ultimo, la realtà che più ci appassiona e ci prende: siamo immagine di Dio. Non il corpo soltanto, ma tutta la nostra persona. Pensa Bernadette di Lourdes era malata, povera ed anche piuttosto lenta a capire visto che a quat-tordici anni non aveva ancora ricevuto la Prima Comunione.

Eppure lei è scelta, non sono le cose degli uomini che danno valore alla vita come i denari, il successo, il potere ed anche le prestazioni fisiche ma la nostra identità di persone figli di Dio, immagine del Figlio che ha dato se stesso per noi.

Hai sperimentato l’intensità di un’esperienza unica, di un momento dove non è il corpo sano a essere esaltato, ma il bene della persona condiviso con altri e vissuto nella comune accettazione di un cammino misterioso certo, ma ancora in grado di offrire qualcosa, ne vale la pena viverlo. E della Messa dei giovani che dici (era mia curiosità)?

Gabriella immediatamente rispondeva che nella sua parrocchia, in mezzo ai suoi non aveva giovani così comunicativi, anzi andavano a Messa annoiati; in quella celebra-zione aveva sentito la gioia di lodare il Signore in tutte le lingue e con tanta passione per la vita e per la chiesa così ben rappresentata in almeno una decina di nazioni del mondo. A questo punto il nostro dialogare nel pellegrinaggio si chiudeva, la ragazza

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però manifestava il desiderio di rimanere in contatto e così prendemmo l’impegno di comunicarci utilizzando lo scritto (non esistevano ancora gli e-mail).

La volontà di vivere Non ho conservato la sua corrispondenza, Gabriella scriveva con passione per co-municare una realtà: la voglia di vivere e di sapersi accettare con la malattia che stava purtroppo progredendo. Oramai ne erano consapevoli i genitori ed anche il suo ragazzo aveva capito che qualcosa non andava bene dal momento che in molti movimenti, specialmente nella deambulazione, faticava e a tratti quando era stanca zoppicava.

Ora si trattava di arrivare a un chiarimento per potere e volere accettare la malattia inesorabile, entrata a far parte del proprio vissuto. Arrivammo a vederci per ripren-dere dopo qualche mese la conservazione interrotta a Lourdes e lei disse:

Ho capito che la vera ammalata sono io, è vero ho la sclerosi multipla sono in cura, sto facendo anche la fisioterapia continua per potermi muovere il più possibile con disinvoltura, ma non vedo risultati apprezzabili. Mi sento avvilita e in certi momenti credo che nessuno mi possa aiutare, tutti pretendono, tutti vogliono che faccia questo o quello, ma io davvero non sono in grado di fare gran che senza che avverta dolori acutissimi. Sì dopo Lourdes ho pensato a una vita diversa da quella sognata, non potrò avere un marito, una casa, dei figli, mi sento sola, questo è vero.

Ho però di fronte a me la Grotta e penso alle persone ammalate forse anche più gravi di me e mi dico:

Perché mi devo rassegnare, perché devo essere triste e arrabbiata, cambia for-se qualcosa.

Ecco ora vorrei ritrovare un po’ di slancio per riprendere un buon rapporto con tutti senza la sfiducia che fino ad adesso mi ha preso verso le persone. Ciascu-no del resto pensa a se stesso e cosa può fare per aiutarmi? Sono io che mi de-vo aiutare a non scoraggiarmi, a non perdere il senso e il valore della vita, che nonostante tutto è il dono d’amore che a Lourdes ho capito bene.

Gabriella aveva bisogno di incontrare un gruppo di amici e quale occasione migliore di qualche sezione delle Associazioni che portano i malati a Lourdes e durante l’anno continuano il loro compito di assistenza, animazione e accompagnamento delle per-sone. Questo non solo era utile, ma diventava occasione da un lato per dare ancora molto di se stessa e dall’altro per condividere e sentirsi accolta con spirito di fami-liarità.

Questo Gabriella lo accettò volentieri, anzi fu contenta di poter entrare in qualche realtà giovanile anche diversa dalla propria Comunità parrocchiale di un piccolo pae-se della Bassa Padana. Mi permisi però di aggiungere:

Il rapporto con me è ovvio può proseguire, anzi una chiacchierata, una lettera

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è sempre possibile e auspicabile, ma il primo interlocutore è l’amore e la fidu-cia verso il Signore.

Se la Madonna ti ha chiamato a Lourdes è perché devi continuare a vivere la malattia non come resa al male che avanza, ma come combattimento per af-fermare te stessa, la tua voglia di vivere e di agire.

Non perdere questa determinazione, anzi riaffermala ogni giorno e soprattut-to vedi oltre i tuoi progetti. Non è detto che il pensato sia sempre il vissuto, certo adattarsi non è facile, per questo hai preso un supplemento di coraggio e di volontà nel pellegrinare a Lourdes e ora continui questa esperienza creden-do nella vita che hai di fronte ed estraendovi tutto quello che è davvero possi-bile realizzare.

La giovane aveva sicuramente chiaro il suo nuovo obbiettivo: vivere con coraggio e serenità d’animo senza lamentarsi per quello che non poteva più ottenere. Aveva solo necessità di esservi accompagnata, per questo oltre al gruppo dei giovani volon-tari consigliai un gruppo terapeutico dove con altri ammalati simili poteva condivi-dere le emozioni e le sensazioni che solo chi li vive è in grado di comprendere. Cosa sia avvenuto nel tempo successivo non è più dato a sapere.

Per una riflessione Senza dubbio la malattia, quando colpisce come in questa persona, lascia un segno tremendo: cambia la vita. Anzi mette ciascuno di fronte a un bivio: o vivere la malat-tia con la motivazione ad andare avanti e adattarsi, o soccombere e cadere ammala-ti vivendo nella malattia senza altre prospettive.

È significativo che Gabriella all’inizio parlava molto della sua patologia, delle terapie, della sua storia con tutti i sintomi che l’avevano accompagnata, poi invece racconta-va soprattutto di se stessa dell’esperienza vissuta nel pellegrinaggio e di possibili e nuove attività. Non che sia cambiata la condizione fisica, forse c’è stato un cambia-mento interiore, nel come vivere la malattia, come affrontare la drammatica realtà e nel modo di trovare le energie per andare avanti. Su Gabriella vorremmo proporre tre spunti:

A) – La paura di non farcela È stata dominante, la ragazza la viveva come una seconda malattia, sentiva le forze mancargli e insieme la volontà di affrontarla. Tutto sembrava crollare addosso. Uno stato d’animo non lontano dalla descrizione di Ezechia che piangeva per la paura di concludere così la propria vita, caduto come in un abisso, finito in un buio senza uscita.

È la condizione dell’attaccamento alla sola dimensione corporea. Presto o tardi il corpo tende ad ammalarsi, a perdere molte capacità, è l’inesorabile progredire dell’esistenza. Certo a trent’anni non si pensa né alla malattia, né all’invecchiamento, né tanto meno alla morte. Eppure Gabriella è stata costretta, suo malgrado, a dover diventare adulta nella vita ossia, a guardare molto più in là

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dei suoi pensieri, nelle sue attese, dei suoi progetti. Ne consegue sia la paura di aver perso tutto e non poterlo recuperare, sia la lungimiranza di riuscire a pensarsi in al-tro modo;

B) – Il bisogno di condividere Non dimentichiamo che nelle storie riportate dalla Bibbia una gran brutta figura vie-ne fatta dalla moglie di Tobi, non solo non accompagna, ma addirittura offende il povero marito già afflitto dalla cecità. Non così dobbiamo essere tutti noi e sicura-mente era quello che Gabriella temeva: sentirsi scaricata dagli altri perché ammala-ta.

La paura di non essere accettata nella sua malattia il cui sviluppo porta verso l’invalidità. Qui si pone la questione di che cosa dire, alle persone di casa e al fidan-zato. Oltre la paura di essere lasciata e non aiutata subentra la sfiducia perché non è facile condividere uno stato permanente di malattia.

Partiamo dal fatto che il malato vive una dimensione esistenziale molto differente dall’altra persona sana la quale pur con tanta buona volontà fatica a comprendere il suo dramma esterno e interiore, ci si sente davvero soli. Tutta la responsabilità rica-de sul paziente è lui che deve mettersi in gioco con la sua malattia, gli altri cosa pos-sono dargli?

Si spera almeno il conforto di una presenza, il calore dell’accoglienza e l’ascolto della propria esperienza. Non è poco, anzi già molto perché chi vive la sofferenza per una malattia sente la necessità di condividerla nella speranza di trovare conforto, aiuto e rispetto. Così era Gabriella ma così non era forse anche nel racconto biblico l’esperienza di Tobi, solo Raffaele l’aveva aiutato non solo a capire il dramma della cecità, ma addirittura l’aveva curato per dimostrare quanto è importante la presen-za di qualcuno che si prende cura di chi soffre;

C) – La necessità di cambiare vita Gabriella stava cercando di rielaborare il suo progetto, il suo sogno, desiderato fin dall’infanzia: una famiglia, dei figli e una professione a lungo preparata. Ora però questo veniva irrimediabilmente messo in discussione. La malattia pesante e pro-gressiva si faceva sentire al punto che lei stessa aveva capito quanto fosse importan-te rivedere i propri progetti, rimettersi in discussione e pensare una nuova situazio-ne di vita. Era però troppo sola, aveva perduto la voglia, lo slancio e la sicurezza in se stessa. In fondo tutti noi ci sentiamo sicuri e decisi quando le cose funzionano come vogliamo perché le abbiamo elaborate e riusciamo a metterle in pratica. Quando in-vece si frappone, come in questo caso, una malattia pesante e imprevista tutto è compromesso e non si riesce più a reagire in modo ordinato, tranquillo e pacato.

Da qui lo stato di agitazione, l’ansia per il domani, la mancanza di punti sicuri cui ag-grapparsi. È il passaggio dallo stato di salute a quello della malattia, non deve preva-lere la sfiducia e l’arrendevolezza. Gabriella lottava non voleva chiudersi in carrozzi-na a dipendere dagli altri, voleva ancora la sua vita, le sue scelte, la sua identità. È il

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lungo cammino della catarsi, della purificazione interiore che si prova di fronte a eventi che letteralmente cambiano tutto senza alternative. Non si tratta di sminuire, di buttarsi a terra, quanto di elevare la qualità della vita stessa verso altre mete. E quali?

Ad esempio iniziava a capire come altre persone potevano inserirsi nella sua situa-zione, aprirsi a loro, condividere il suo dramma con il loro e mettersi in discussione di fronte a giovani volontari pronti per formare un nuovo tessuto di relazioni appro-di prima mai cercati.

Si apriva una prospettiva differente, ma interessante, ed era necessario motivarne il percorso. Certamente la fede come spinta, energia interiore, possibilità di una rispo-sta di fronte a Dio che chiama e manda un messaggio anche attraverso la malattia, sono il segno che nessuno è arbitro del proprio esistere.

Riqualificare il rapporto con Lui costituisce la base per una rinnovata carica interiore. Lei stava entrando in quella dimensione presentata dall’Apostolo Paolo: la familiari-tà con Dio. Non c’è una prova, una Croce senza il dono di una Presenza, senza la cer-tezza di sentirsi accompagnati. Sperimentare questo anche attraverso il pellegrinag-gio a Lourdes costituisce motivo di speranza in un rinnovato slancio per la vita.

Il racconto di Giovanni L’esperienza che andiamo presentando è assai diversa da quella precedente. È una storia raccolta nella corsia di un ospedale nel reparto per i pazienti infettivi. Si tratta di una storia dove emerge la malattia come conseguenza di una vita all’insegna della sregolatezza e dell’imprudenza, con un peso non solo fisico e psicologico, ma anche esistenziale e diremmo morale. Per questo vogliamo presentare la storia di Giovanni giovane venticinquenne malato di AIDS.

Il senso di colpa Il primo incontro con un paziente in isolamento ci immerge in un mondo fuori dalla realtà. Tutti con i camici sterili così come guanti, mascherine, copri piede per gli zoc-coli obbligatori in corsia. Ebbene in questa situazione si trovava Giovanni, colpito dalla sindrome della sieropositività e con effetti pesanti a livello respiratorio: parec-chie infezioni polmonari e difficoltà nella respirazione.

Lui stesso notava l’impeccabilità dell’ambiente, il buon livello di assistenza e la con-tinua terapia per alleviargli gli immancabili momenti di crisi. Da un lato si sentiva si-curo per le cure, dall’altro avvertiva un notevole senso di colpa per quanto gli era accaduto e per la mancanza di attenzione nell’evitare di contrarre l’infezione.

Non parlava volentieri di se stesso, ma essendo lì per giorni in una camera da solo, in isolamento, non potendo ricevere visite se non attraverso un telefono comunicante con l’esterno e vedendo parenti e amici dai vetri, avvertiva un profondo senso di so-litudine. Per instaurare una conversazione e costruire un rapporto con lui ci volle qualche tempo, forse un mese, ma la degenza era lunga e intervallata da brevi pe-riodi casalinghi (quando era possibile). Giovanni non parlava, o meglio diceva solo

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quello che voleva tutti credessero, la fatalità della malattia. La sua voglia di guarire per ritornare al lavoro di meccanico, dove era ben accettato lo faceva spesso parlare di auto e di motori.

Non era mio scopo farmi raccontare la sua vita, lui si voleva fidare della persona che aveva di fronte. Non voleva raccontare a chicchessia la sua storia, temeva di essere giudicato e magari pure rimproverato.

Custodiva come in uno scrigno il proprio vissuto e non apriva bocca per condividerlo. Fu solo dopo un certo tempo, che Giovanni iniziò a confidarsi e a dire apertamente con voce bassa, interrotta spesso dalla respirazione affannosa che richiedeva la ma-scherina per l’ossigeno. Dalla sua vita emergeva il disordine, la mancanza di un pro-getto preciso. Lasciamo però a lui la parola:

Sto male, mi sento mancare il respiro, so che la mia malattia è grave, ho preso sicuramente un virus con focolaio d’infezione ai polmoni e sono debole perché sieropositivo da tanto tempo. È questo che mi fa sentire proprio uno scemo, ho vissuto male perché non sono stato capace di sottrarmi agli altri. In fondo non mi è mai mancato nulla, ho un lavoro, anzi sai che il mio principale è stato a parlarmi dal vetro proprio ieri e mi ha detto che tanti clienti mi cercano per-ché oramai sono quasi due mesi che manco in officina.

Io con le macchine ci so proprio fare e ho imparato bene a venire incontro a tutte le esigenze dei clienti, sai alcuni con le auto grosse sono rompiscatole, qualsiasi piccola cosa vogliono che gliela risolvo fosse anche solo il rumore ec-cessivo della ventola per l’aria condizionata.

Mi ha fatto piacere vedere qui il principale e poi i miei genitori che mi coprono di attenzioni, non passa giorno che non vengano a trovarmi e qualunque cosa desideri subito si danno da fare e me la portano. Peccato che ho poco appetito e se mangio troppo poi faccio fatica a digerire. Sono davvero a disagio, gli altri mi vogliono guarito, in forma, hanno fiducia in me, ma la mia malattia mi ren-de debole e ho paura del domani

Fino a quel momento non aveva mai parlato in questo modo e si era limitato a darmi dati sulle sue cure. Era ben consapevole della gravità e del delicato cammino che l’attendeva. Inoltre nel reparto erano diversi i giovani affetti da infezioni derivanti dalla loro debolezza organica e dalle basse difese immunitarie e purtroppo i decessi non mancavano anche di alcuni che aveva conosciuto.

Che cosa potevo rispondere, il suo era un chiaro messaggio rivolto a me perché ini-ziassi a entrare nel suo mondo fino a quel momento rimasto nascosto e che ora ini-ziava ad aprirsi con un una ventata di fiducia anche nei miei confronti. Mi sentivo contento di aver stabilito empatia con lui, ero uno dei pochi che poteva entrare nella sua camera, sia pure con tutti gli accorgimenti igienici del caso, e parlargli diretta-mente.

Sul momento mi aveva preso alla sprovvista non seppi dire gran che, ma poi ripren-

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dendo il discorso dopo che mi aveva parlato della sua passione calcistica, ripresi la conversazione sull’argomento in questo modo:

Dimmi un po’ che differenza c’è tra un ammalato e un sano? Uno sta bene e l’altro sta male in una camera in isolamento dove le ore non passano e ci si sente deboli e pieni di paura. Questo è vero, ma è altrettanto vero che tu hai ancora delle capacità, come ha riconosciuto il tuo datore di lavoro.

Lui non ha pensato troppo alla tua malattia, ti ha detto che sei per lui un pun-to di riferimento, che sai mandare avanti l’officina come pochi. È un segno che hai innanzitutto ben utilizzato le tue risorse fisiche da sano. Ora una malattia ti costringe qui, ma la tua mente, il tuo desiderio è là e i tuoi e tanti hanno fi-ducia in te, credono nelle tue possibilità. Devi essere tu che ce la metti tutta per guarire e stare a quanto i nostri bravi dottori ti dicono.

Il mio improvvisato discorsetto l’aveva scosso e poi per tutto il tempo delle visite fatte anche due volte la settimana, che duravano un’oretta, Giovanni parlava in mo-do disteso e tranquillo del suo lavoro e di quante persone l’avevano ringraziato.

La voglia di ricominciare La volta successiva mi aspettava e mi aveva perfin fatto notare che ero arrivato con un piccolo ritardo. Mi scusai dicendogli che mi ero intrattenuto con un altro paziente forse un po’ più del previsto.

Niente di male, ora voleva riprendere il discorso iniziato e disse:

Sai che avevo degli amici piuttosto invadenti, tutte le sere o quasi erano sotto casa, qualcuno l’avevo conosciuto come cliente perché prima aggiustavo i mo-torini e dacci oggi e domani con qualche ragazzo siamo entrati in relazione.

Fin qui certo niente di male, ma più di una volta abbiamo iniziato a fumare, eh hai capito, non le sigarette normali. Loro me le davano mi dicevano che non c’è niente di male, anzi provaci e vedrai come ti piace è una sensazione così forte che non puoi descriverla, la tieni per te.

E così quando ci vedevamo sempre ai fine settimana qualche canna ce la face-vamo senza problemi, anzi era la normalità, davvero mi piaceva e poi mi tro-vavo bene con loro. Con la compagnia, quando c’eravamo tutti eravamo circa una decina, si usciva e dopo le canne poi abbiamo fatto anche altro.

Ci si sballava specialmente la sera del sabato non mancava un po’ di cockatil e qualche cosa in più. Io non mi tiravo indietro, mi faceva bene avere delle per-sone che mi cercavano e se avevo bisogno qualche favore ero certo di ricever-lo.

Qui il racconto si era un po’ interrotto e a parte la respirazione sempre difficile e la voce ridotta, era come bloccato nel proseguire il racconto. Io intervenni per ripren-dere un passaggio:

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Non ti sei mai chiesto se questi amici cercavano il tuo bene oppure volevano solo farti entrare in una compagnia senza regole, visto che sballarsi, bere sen-za misura e fare canne costituivano la normalità. Ti pensavano e magari anche ti aiutavano, ma forse erano anche forti, determinati e ti trascinavano almeno quei due o tre che erano i piccoli capetti.

Sì iniziava ad allargare la storia della sua vita, era indubbio che Giovanni provava verso questi amici la sensazione di abbandono, forse mai o una volta all’inizio erano venuti a trovarlo, a parlargli tramite il telefono. Ora che era pesantemente ammala-to non interessava più, non aveva le caratteristiche per stare nella compagnia e pre-starsi ai tanti servizi che facevano insieme.

Senza ammetterlo più di tanto lui iniziava a capire chi davvero lo pensava e l’aveva vicino: i suoi familiari genitori e sorella e qualche amico dell’officina, questi erano davvero affezionati a lui e gli rendevano la visita non di cortesia ma di squisita parte-cipazione. Che cosa dirgli ora? Semplicemente di proseguire la sua storia dal mo-mento che l’aveva iniziata e mancava una parte importante quella riguardante la malattia e il suo stato attuale. Giovanni riprendendosi diceva:

Una volta, qualche anno fa uno del gruppo portò con sé la roba, e mi disse che non c’era niente di male, in fondo lui l’aveva già provata tante volte, ci si sen-tiva meglio, anzi ti dava il senso di una tranquillità mai provata prima. Io ero esitante, la prima volta gli avevo detto che non m’interessava, ero con loro perché mi trovavo bene e basta e non volevo provare la roba, ne avevo sì un po’ paura e poi non ne sentivo il bisogno.

E dopo che cosa successe? Passò un po’ di tempo e vedevo che mi considera-vano meno, se dicevo qualcosa non venivo più di tanto ascoltato e mi ritene-vano un debole che non sa nemmeno farsi qualche volta in gruppo. Diciamo che temevo che mi lasciassero, non avevo altri in quel momento con cui uscire.

Non avevo una vera e propria ragazza, ne conoscevo ma non mi volevo legare con una storia di quelle serie, dove devi stare solo con lei e non guardarne al-tre. Mi piaceva guardare e fare anche di più con altre… Per questo temevo la compagnia, temevo che il gruppetto mi scaricasse e non mi volessero più con loro.

Non mi ritengo un tossicodipendente, nemmeno loro forse lo erano, ma alla fi-ne ho voluto provare anch’io la sensazione di bucarmi utilizzando la spada del gruppo. Da lì si può dire sia iniziata una nuova vita.

Avevamo raggiunto il punto principale del discorso: la sua fragilità di fronte all’apparente sicurezza del gruppo e di chi lo dirigeva, avevano utilizzato il suo biso-gno di compagnia, la sua volontà di condividere con gli altri il divertimento senza pe-rò valutarne le conseguenze. Ora si rendeva conto di essere stato usato, il capo compagnia sapeva bene che un affiliato in più vuole anche dire guadagno sulla roba che viene smerciata ed ovviamente pagata. Lui si era legato senza accorgersi con un

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giro di persone capaci di condizionarlo e di prenderlo per un bisogno sempre più emergente: provare le sensazioni di piacere dello stupefacente, godere di istanti di stordimento ben più potenti della canna e dell’alcool era entrato nel mondo dell’eroina.

Era stato preso in un laccio e diventava molto difficoltosa l’uscita di scena. Ora che aveva ritrovato dentro se stesso la consapevolezza di iniziare un nuovo percorso di vita lasciava uscire quel disagio esistenziale che non gli dava pace. La malattia face-va la sua parte in modo pesante e dirompente, ogni giorno era una battaglia. Gli stessi medici quando parlavamo di lui dicevano di stare facendo il possibile perché nei suoi polmoni, assai provati, le terapie trovavano scarsa collaborazione con le sue difese immunitaria alquanto compromesse dalla malattia. Certo era una pedagogia della sofferenza devastante e metteva a nudo la sua vita passata, le sue scelte e le tante occasioni avute per poter scegliere forse in ben altro modo. Da qui la mia ri-presa diretta per dirgli:

Vorresti vivere un’altra vita, se fosse possibile tornare indietro certamente non faresti quel che hai sperimentato e non è stato bene per te, in quel momento però non hai voluto avere altra possibilità. Non bisogna farsene una colpa, come avessi commesso chissà quale grave mancanza.

è stato il tuo bisogno di affermarti in un gruppo di amici, di sentirti accolto e cercato che ti ha portato a stare con loro e provare ogni genere di sensazione anche quello che magari tu stesso non avresti né voluto, né mai cercato di fa-re.

Sei arrivato a bucarti, a farti senza desiderarlo, del resto la tua vita è stata la stessa con il tuo lavoro, la stima dei colleghi e un buon rapporto con i tuoi che hanno sempre visto in te il buon ragazzo tranquillo, quieto che non dà proble-mi, mai li hai contestati.

Rifletti sul positivo che hai trasmesso e che ora ti torna a vantaggio nel saper accettare questa malattia cercando di voler vivere per le persone che ti ama-no, ti danno ancora fiducia.

Giovanni iniziava a capire e scoprire una nuova possibilità forse finora rimasta in se-condo piano.

Il desiderio di aiutare Le forze diminuivano, la malattia avanzava e ora Giovanni, dopo altre settimane, vo-leva rendersi utile a qualcuno ricominciare a vivere. Aveva citato parecchi ragazzi passati anche dalle corsie del reparto infettivi, con cui aveva parlato e fatto compa-gnia, specie nelle serate in cui lo stesso staff medico era ridotto nel numero.

Capiva il valore della vita da non sprecare e rovinare per una specie di gioco dove ciò che conta è stare nel gruppo, restare con gli altri incuranti delle conseguenze. Di questo se ne era reso consapevole al punto che s’informava sulle modalità per ten-tare di recuperare i ragazzi vittime della droga fino a divenirne gravemente dipen-

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denti.

Mi chiedeva spesso di parlargli delle comunità terapeutiche. In quegli anni seguivo qualche confratello che si occupava di centri diurni e di primo ascolto per ragazzi della strada ed era in contatto con alcune comunità per il recupero degli ex tossici.

L’impegno fu quello di far riflettere Giovanni su questo percorso perché, e l’avevo capito da subito, lui stesso si rispecchiava. Più volte affermava:

Io saprei come riprenderli, non bisogna fidarsi troppo di quello che dicono, fanno delle affermazioni, ma poi le contraddicono con i comportamenti, per-ché nessuno o ben pochi dicono apertamente di essere tossicodipendenti, lo nascondono sempre.

Io saprei star loro vicino e comprendere quando dicono la verità o raccontano delle balle per ingannare e far credere un’altra cosa di se stessi. Io ho fatto co-sì per tanto tempo, solo ora comprendo la verità di me stesso e quanto gli altri mi abbiano condizionato.

Però è anche vero che prendere la roba dà sul momento una sensazione unica, peccato che però svanisce presto e lascia conseguenze pesanti nel fisico e nella mente, io non riuscivo a pensare ad altro in certi momenti dovevo cercare la compagnia e con loro procurarci la droga. Bisogna staccare i ragazzi da recu-perare dal loro gruppo, dal loro ambiente, dalle loro abitudini, altrimenti non è possibile ridare loro un’altra possibilità.

Lui aveva ben compreso l’importanza di un gruppo alternativo a quello che invece lui aveva trovato e nel quale si era attaccato in modo sicuramente morboso e pauro-samente dipendente. Era il suo cruccio e non riusciva a darsi pace, quasi non si per-donasse di aver contratto sicuramente la malattia attraverso il rito di passarsi la si-ringa (spada) l’uno con l’altro aumentando la possibilità di infettarsi.

Ora era convinto che avrebbe iniziato un’altra vita se la malattia glielo avesse con-sentito. Era sempre in precarie condizioni di salute e anche il morale subiva alter-nanti momenti di ottimismo quando tornava alla desiderata casa e di pessimismo quando si rendeva conto dell’eventualità di una fine rapida.

Avevamo anche compreso che lui cercava conforto e conferma alle sue scelte con dialoghi ora sempre più confidenziali e sinceri, non parlava di altri argomenti, tanto per passare insieme un po’ di tempo. No, voleva capire di più se stesso anche in or-dine alla fede, certo non era l’espressione di un credente praticante, ma aveva ri-spetto, attenzione e sensibilità verso gli altri anche i propri compagni di corsia al punto che qualcuno con lui si confidava.

In fondo non era un tossicodipendente cronico e tanto meno uno spacciatore, aveva sempre pagato con i suoi soldi, guadagnati onestamente con il lavoro. Lui si era semplicemente lasciato trasportare da altri e non aveva avuto il coraggio di una scel-ta per se stesso di distacco dal pericolo rappresentato dall’eroina.

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Era ora perfino pronto a parlarne apertamente con i genitori fino a quel momento ignari della sua seconda vita e della quasi certa causa della malattia di cui l’infezione polmonare era solo la conseguenza.

Per chi legge sarebbe interessante sapere come andò a finire il tutto. Io so che Gio-vanni riebbe un po’ di salute e poté tornare dai suoi che ormai anch’io avevo avuto modo di conoscere, che lo seguirono con affetto, ma non so come poi finì la terapia o se arrivò a una precoce fine, poiché ero stato chiamato ad altro servizio.

Per riflettere insieme È una vicenda differente da quella di Graziella, ma ogni storia, ogni persona merita il massimo rispetto nella sua unicità. Certamente in Giovanni la parola dominante è la colpa. Non riusciva a darsi una ragione sul perché delle sue scelte disordinate che gli avevano procurato una malattia così pesante.

Prendendo il testo biblico potrebbe assomigliare a Paolo che per amore di Cristo e per il bene della chiesa era incurante di ogni pur minimo consiglio e si buttava in ogni situazione rischiando l’incolumità e mettendo a rischio la salute e la sua tenuta psicologica.

La differenza è che Paolo ne era consapevole e aveva scelto un’esistenza di missio-nario itinerante totalmente a rischio mentre il buon Giovanni aveva ceduto ad una compagnia mettendosi nelle loro mani e rovinando la sua salute senza esserne nemmeno accorto. Aveva sprecato la propria esistenza e ora non aveva solo una ma-lattia gravissima con pericolo per la vita, ma era nello stato di ammalato totalmente dipendente dai medici e dalle tante terapie e non riusciva a tornare ad un minimo di vita sociale. Ne estraiamo due riflessioni oltre a quanto già elaborato:

A) – La malattia consequenziale ai propri comportamenti

È ciò che appare con evidente drammaticità dalla vicenda di Giovanni. Aveva vissuto senza delle regole precise, non si era minimamente protetto di fronte ai riti proposti dal gruppo e non si era dato una cura adeguata fin da subito per arginare l’avanzare della sieropositività.

Ora lui della sua malattia, in ritardo perché era in fase avanzata, era diventato un esperto, conosceva tutte le fasi con la loro sintomatologia ed era a conoscenza delle terapie con tutti i nomi delle medicine.

Dobbiamo riflettere che a volte affermiamo e non ammettiamo, neanche alla nostra coscienza, quello che effettivamente facciamo e finiamo col nasconderci nelle nostre contraddizioni, i nostri disordini, i nostri vizi: disordini alimentari, fumo, alcool o al-tro.

È la divisione tra l’io razionale che pensa e sa quello che è giusto fare per prevenire il male fisico e psicologico e l’io passionale e sentimentale che a volte condiziona il nostro modo di vivere e ci fa operare scelte che non vorremmo compiere, spinti da altri bisogni, abitudini e tendenze non controllate.

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Pensiamo a quante malattie, disturbi comportamentali psicosomatici colpiscono il fisico e sono generati da scelte nettamente sbagliate ma si è incapaci, o non si vuole fermarli. Farsi aiutare, quello che è mancato a Giovanni, consultare uno specialista. È però necessario prima di ogni altra cosa ammettere la propria realtà e mettersi in condizione di voler migliorare, di voler uscire da quanto ci condiziona e non ci impe-disce di essere persone davvero libere, vere, autentiche e coerenti;

B) – L’auto esame di sé di fronte a lunghe e pesanti malattie. È il caso di Giovanni pensiamo alle settimane passate nel reparto in camera da solo nei momenti in cui era maggiormente a rischio di infettarsi e infettare. Pensare, ri-pensare, riflettere e mettersi di fronte alla realtà, è il cammino dell’ammalato cui è chiamato non solo ad una guarigione del corpo, ma soprattutto dell’animo. Sapersi riconciliare con se stessi.

Non dimentichiamo l’attività taumaturgica di Gesù, noi abbiamo riportato l’episodio dell’emorroissa, guarita nel corpo, ma sana interiormente. Egli rimette ogni persona in grado di ricominciare il cammino della vita, consapevoli che guarire è come rina-scere, restituire dignità e coraggio per intraprendere una nuova condizione esi-stenziale.

In questo la lettura della malattia come paideia ossia la pedagogia divina per far ri-flettere soprattutto nella mente le persone colpite da mali fisici. Vorremmo portare brevemente l’esperienza di Sant’Ignazio di Loyola gravemente ferito a una gamba durante la battaglia di Pamplona e rimasto lunghi mesi a letto per guarire dalle pia-ghe e dalle ossa spezzate. Ebbene durante questa lunga degenza lesse dapprima romanzi di avventura e di imprese militari, poi prese tra le mani dei testi di altro ge-nere:

Vita di Cristo e Florilegio di Santi. Si mise a leggerli e rileggerli, e man mano che assimilava il loro contenuto, sentiva nascere in sé un certo interesse ai te-mi ivi trattati. Ma spesso la sua mente ritornata a tutto quel mondo immagi-noso descritto dalle letture precedenti.

Qui s’inserì l’azione di Cristo nostro Signore e dei santi, pensava dentro di sé e così s’interrogava:

e se facessi anch’io quello che ha fatto San Francesco; e se imitassi l’esempio di San Domenico?

Un tale susseguirsi di stati d’animo lo occupava molto tempo. Immaginava di dover condividere l’austerità che aveva visto mettere in pratica dai santi, allo-ra non solo provava piacere mentre vi pensava, ma la gioia continuava anche dopo (dagli Atti raccolti da Ludovico Consalvo dalla bocca di Sant’Ignazio 7,1868,647)

Anche il nostro Giovanni forse con qualche aiuto esterno aveva trovato un nuovo coraggio: rendere la vita un dono e mettere la propria esperienza a servizio della rieducazione di altri giovani.

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Aveva capito che vivere non è passare da una sensazione all’altra per provare l’ebbrezza di un piacere breve e rischioso e subire i condizionamenti di una compa-gnia per non essere soli. L’aver constatato con pesanti sofferenze la caduta libera per una malattia l’aveva forgiato, ne aveva temprato il carattere al punto che ora vo-leva cambiar vita.

Certo forse senza questa malattia ciò non si sarebbe verificato ma è anche questo l’insegnamento: non sprechiamo la vita per l’avventura di un istante e non faccia-moci del male senza capire le conseguenze delle nostre azioni.

La vicenda di Fiorella e Pietro Inseriamo nella nostra riflessione sull’essere ammalati e sul vivere nella malattia questa vicenda che vede protagonista una coppia di persone unite da parecchi anni, almeno una ventina e con una buona intesa tra loro. A un certo punto entra un evento che rischia di devastare tutto e mandare in crisi la stessa vita di coppia: una grave malattia di Fiorella cui viene diagnosticato una forma tumorale al seno già in stato avanzato. Come affrontare questa realtà? In che modo trovare la volontà di combattere e stare più che mai uniti per non lasciare che sia il male a vincere? Sono le domande cui vorremmo rispondere nell’esaminare questa storia.

L’incubo a riconoscersi ammalati La coppia non si può dire fosse in crisi. Anzi l’unione era collaudata da oltre vent’anni, Fiorella con un carattere timido a volte chiuso aveva una predilezione per il marito molto sicuro di sé, brillante e capace di affrontare tante situazioni dal lavo-ro, alla casa ai rapporti esterni con abilità e ottimismo.

Fiorella aveva una innata dedizione agli altri, molto generosa e pronta a servire tutti coloro che ne avevano necessità dai propri parenti, agli amici e anche a persone vi-cine. Non voleva però far sapere a nessuno la sua dedizione e il suo impegno. Di sa-lute gracile, non avevano figli, anche se Fiorella lo desiderava al punto che erano an-cora intenzionati a iniziare il percorso per l’adozione. Buona era la loro situazione economica, un lavoro sicuro da dirigente per il marito e lei con un impiego soddisfa-cente di responsabilità amministrativa.

Perché diciamo tutte queste cose, semplicemente per capire il momento in cui la nostra coppia e in particolare Fiorella si trova di fronte a un fatto reale e grave sul piano personale: una forma tumorale al seno.

Aveva notato al tatto un nodulo che non solo non passava o rimaneva lì piccolo, ma invece progrediva a vista d’occhio. Che fare? Subito le vennero alla mente le cure, il ricovero in ospedale sicuramente un intervento di mastectomia, ossia l’asportazione del seno. Ma pensava:

E dopo come potrò presentarmi al marito, non sono più la stessa, sicuramente non mi vorrà più nemmeno vedere, vuole tutto efficiente e perfetto. Non solo ma penso anche alle terapie, oh i miei capelli castani devo sicuramente perder-li e come mi presenterò agli altri?

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E poi nelle cure non è che mi trovano anche altro e magari subisco qualche al-tra pesante conseguenza sul mio corpo?

Con questi pensieri si lacerava interiormente, non comunicava nulla al marito il quale però notava uno stato di debolezza organica e l’aumento della fatica anche nel condurre la giornata di lavoro e in casa. Il tempo passava e il male dava sempre più segnali di presenza con la mancanza di voglia nel fare le cose e da qui qualche sospetto di Pietro il quale volle una volta per tutte domandar-le direttamente la reale entità dei fatti.

Non sto bene è vero, temo di avere un po’ di anemia, forse ho tirato troppo con il lavoro, in questo momento abbiamo tante scadenze e dovrei anche mangiare con più ordine e costanza, talvolta non ho fame.

Erano le parole poco convincenti di Fiorella al che Pietro di rimbalzo sul momento cercò di crederle, ma aveva già avuto qualche sospetto per il semplice fatto che ogni tanto la notava massaggiarsi il seno, cosa che non aveva mai fatto.

Da qui la sua iniziativa di consultare il medico di famiglia affinché la visitasse anche perché si dà il caso, che in quei giorni aveva rifiutato il vaccino anti influenzale che sempre aveva assunto, considerato il suo lavoro a contatto con il pubblico e quindi a rischio contagio.

Il medico capì tutto, si arrabbiò con Fiorella e con Pietro per il lungo tempo che ave-vano atteso prima di apprestare le cure del caso. Da lì iniziò un rapporto di coppia molto teso con Pietro a rivendicare il suo diritto all’informazione puntuale e precisa e la sua rabbia nei confronti della moglie per le stupide paure accumulate.

La croce della terapia Certo era passato almeno un paio di mesi e ora era urgente ridurre la massa tumora-le con la chemioterapia e poi con un intervento risolutore. Iniziò subito il ciclo delle chemio tutto sommato ben accettate e sopportate da Fiorella, almeno le prime quattro, ma certo i capelli castani cadevano e la parrucca arrivò a compensare que-sta perdita e il fisico ne risentiva. Si sentiva svogliata e il senso della possibile fine prendeva posto nei suoi pensieri. Per permettere di ottenere aiuto Fiorella raccontò così la sua storia:

Non riesco a pensarmi ammalata, ho paura della malattia, delle cure. I medici mi danno un po’ di fiducia, ma temo di stare nelle loro mani. E poi che vita è se siamo sempre sotto queste cure così pesanti. Del resto che importa un anno o due in più, tanto con queste malattie è difficile uscirne. Non me la sento di an-dare avanti, mi mancano le forze e mi sento giudicata da Pietro che mi fa pe-sare tutto e non mi incoraggia ma mi continua a rinfacciare che ho aspettato troppo tempo. Sono stata irresponsabile anche verso di lui che mi ama e vuole vivere ancora a lungo con me. Lo dice, ma sarà vero?

Erano le riflessioni che si affollavano nella sua mente unite a un umore diremmo al-quanto altalenante, specie quando iniziò la seconda parte delle chemioterapie, più

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pesanti fisicamente, con aumento della debolezza organica, del vomito e dell’abbassamento dei globuli rossi e conseguenza anemia. Certo questo era il qua-dro clinico a monte della situazione psicologica.

Questa volta ascoltiamo la voce di Pietro che, a differenza di quello che affermava la moglie, le era molto attaccato e non voleva perderla e nemmeno vederla soffrire. Aveva solo il limite di nascondere i suoi sentimenti e di mostrarsi freddo ed in certi momenti distaccato come a volere permanentemente provocare Pietro, diceva:

Non so come prenderla, è diventata di una suscettibilità elevatissima, non gli si può dire una parola contraria e soprattutto non parlare del suo male. Se ne parla lei ok, ma se all’argomento ci arrivo io, apriti cielo!

Inizia a minimizzare tutto e a dirmi che io sono pessimista che vedo il male do-ve non c’è e che non capisco quello che lei prova perché non sono ammalato. Ora è vero che vorrei Fiorella più determinata a vivere affrontando insieme questa malattia, ma lei mi parla come se io fossi un controllore, o uno del per-sonale sanitario.

La sento lontana, non avverto dentro di lei il bisogno di confidarsi, di aprirsi, di stabilire una relazione più intensa. Forse ho sbagliato qualcosa nel rapporto con lei ma dentro di me ho tanta rabbia e delusione per il fatto che ha taciuto per troppo tempo il suo stato di salute non solo con me ma anche con il medi-co di famiglia e con altri familiari, nemmeno ai suoi ha detto nulla. Come fare per aiutarla?

Era un grido di speranza, un’invocazione a vedere nella malattia di Fiorella non solo un evento pesante clinicamente e biologicamente, ma un’occasione per starle ac-canto e cercare insieme le giuste soluzioni del caso.

Fiorella andava dai medici oncologici accompagnata dalla sorella o da altri parenti della sua casa, ma mai volle con sé il marito, o almeno non lo coinvolgeva. Da un la-to perché magari s’impressionava e dall’altro perché ne temeva il giudizio e la pe-santezza del carattere, il suo modo di voler tutto risolvere con quattro soldi in più e magari andare in altre strutture più attrezzate per la cura dei tumori. Non a caso Pie-tro suggeriva di curarsi in altra Città, perché più affidabile, in realtà voleva allontana-re Fiorella.

Certo che essere ammalati, o meglio vivere la malattia con un male pesante e a ri-schio della vita e dall’altra parte sentirsi in disparte da parte del proprio coniuge non è bello.

Qui inizia una parte della loro vicenda che vede protagonista soprattutto i medici so-stanzialmente ottimisti sul controllo della forma tumorale e attenti agli effetti inde-siderati della chemioterapia. Lei aveva attacchi di panico che le facevano provare paura per tutto, accusava il cibo come causa della malattia e accusava Pietro di aver-le sempre fatto mangiare vivande troppo nutrienti e quantità di carni eccessive.

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Certo a Pietro piacciono i dolci e le serate con amici dove bisognava fare bella figura e cucinare tanto, pietanze deliziose al palato ma troppo condite o fritte.

Da qui una sua dieta sempre più ferrea e una specie di avversione a tutte le carni, davvero un’ossessione perfino per qualche fetta di prosciutto cotto o crudo, visti come concausa della possibilità di sviluppare la malattia.

In questo modo era complesso vivere con lei, sembrava che la stessa relazione di coppia fosse a un bivio, se si va avanti con queste fisse come si può pensare un rap-porto tranquillo e desiderato da entrambi? Non solo ma l’esito psicologico delle te-rapie la portava a nutrire tanta insicurezza verso gli altri, si era come rinchiusa in se stessa, parlava solo con un’amica della sua condizione.

Non si confidava, temeva in modo eccessivo e diremmo maniacale il giudizio su di sé. Riemergeva un’insicurezza di fondo forse un po’ nascosta in precedenza che ora aumentava. Anche ai colloqui con i medici e per i vari esami, vi andava solo in com-pagnia o di quest’amica o sua sorella, agli altri non diceva che scarne notizie, teneva tutto per sé. Così quando le ultime chemioterapie produssero una debolezza che la costringeva a restare a letto molto tempo specie nei pomeriggi dopo la terapia. An-che questo non faceva altro che aumentare il disagio col marito che pensava a come assisterla. Lei diceva:

Non è che non voglia bene a Pietro, mi è vicino, ma non mi capisce, non sa quello che provo di dentro, il dramma che ogni mattina quando mi alzo mi chiedo: arriverò a sera?

Temo che la malattia all’improvviso mi attacchi e che nulla si possa fare per fermarla. Lui so che andrebbe ovunque per potermi aiutare a guarire, dentro di me sento che mi ama, ma mi vuole diversa da come sono ora, non mi accet-ta, è un po’ egoista, anche perché non ha mai provato la malattia pesante e la paura del domani.

Il loro rapporto subiva una crisi e anche Pietro lo ammetteva dicendo chiaramente:

Non so come prenderla, in certi momenti l’abbraccerei e basta, tanto è il biso-gno che ha di essere accolta e amata con la sua situazione di malattia. In altri momenti però non la vorrei vedere in faccia, si arrabbia e vuole fare di testa sua. Pensare che prima ero io a decidere tutto! Dice e lo ripete che forse sono gli ultimi mesi che viviamo insieme.

Come si nota le cure sicuramente cercano di fermare la diffusione della malattia ma dall’altro lasciano conseguenze cui occorrerebbe preparare gli stessi familiari altri-menti, sono tante le crisi che ne derivano.

Sapersi accettare Come Pietro vedeva ora Fiorella? Certamente come una persona ammalata e in certi momenti in preda all’angoscia per la malattia stessa. Il pericolo di vita esiste, così come il fatto che le cure non danno assoluta certezza di guarigione e i medici sono

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freddi esecutori di protocolli. Diventava difficoltoso entrare in una relazione più sul versante dell’uomo, della persona che soffre e desidera oltre che sperimentate te-rapie l’attenzione alla propria umanità, alla propria identità personale.

Qui Fiorella ammetteva di aver trovato nel suo oncologo uno con cui si poteva apri-re, e riuscire perfino a confidargli la paura per le cure e l’imminente intervento chi-rurgico. Gli altri medici erano soltanto necessari per seguirla, ma rimaneva una nor-male forma di educazione e niente di più oltre alla paura delle loro dichiarazioni sul-la salute.

Certo lei avendo poca fiducia in se stessa allargava tale senso di paura verso tutti, medici e medicine comprese, ma si avvertiva il suo bisogno di protezione, di affetto e tenerezza dove il buon marito doveva e poteva fare qualcosa in più. Da qui la deci-sione, conoscendo la coppia da lungo tempo, di parlare direttamente con lui.

Ci inventammo una festa legata al loro ventitreesimo anniversario di matrimonio e ai due di fidanzamento, quindi un venticinquesimo da non lasciare inosservato. In un clima disteso e di sana tranquillità affrontammo il discorso di come far sentire amata una persona ammalata e angosciata.

Pietro prese a parlare dicendo:

Mia moglie fino a quando stava bene in salute parlava poco, anzi sapeva tace-re e conservare il ricordo di tante cose che magari a me sfuggivano. Forse mi sono approfittato del fatto che è buona e generosa, ma ora è completamente cambiata. Parla molto di se stessa e, quel che peggio, diviene aggressiva per poco, basta una mia idea su cui non concorda e cambia atteggiamento, mi sfi-da, diviene perfino musona se ho l’ardire di continuare a contraddirla.

È diventata un’altra persona, la vedo agitata, in ansia per tutto quello che de-ve fare, mentre prima imparavo da lei la calma e la programmazione delle co-se da fare. La malattia l’ha cambiata, è diventato difficile parlarle e stare in sintonia, mi racconta molto di sé, ma non vuole più di tanto essere guidata, né ripresa, né tanto meno trovare degli ostacoli sulle sue idee tra l’altro frutto si-curamente di letture e testimonianza di altri ammalati che la condizionano nell’aumentare le sue paure.

Lui aveva parlato con tono calmo e animo rassegnato e teso perché dopo alcuni me-si di malattia ancora non capiva come poter rilanciare il rapporto di coppia e la pro-spettiva dell’intervento non migliorava le cose, anzi aumentava lo stato di ansia per questa attesa. Era giusto ora ascoltare Fiorella invece visibilmente scossa dalle paro-le dal marito e un po’ delusa da lui perché?

Sono sempre stata vicina a Pietro, uomo serio, responsabile che sa dare ordine e affrontare anche situazioni complesse, non spreca nulla e sa vedere il bene della famiglia prima del proprio. Anche per questo l’ho sposato, mi ha dato si-curezza, ma ora mi sento debole, avverto che le mie forze non sono quelle di prima e che le cure mi faranno sicuramente bene, ma in tanto ho dolori vari e

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non posso condurre la vita di prima.

Faccio tanta fatica a lavorare e per fortuna che i colleghi lo sanno e mi vengo-no incontro, ma io sono proprio uno straccio. Che cosa ho da lui?

A volte pretende e mi fa sentire in colpa, spesso crede di aver capito tutto su di me alla luce dei suoi ragionamenti, lo sento lontano. Si muove anche meno da casa, ma non lo sento presente e di sostegno alla mia condizione di ammalata con un cammino per me misterioso, lo vorrei diverso.

Era troppo evidente che ora la parola passava a me che dovevo cercare di comporre questa lontananza e indicare, nella misura possibile, un cammino da percorrere in-sieme.

Avevo preparato un riassunto della loro lunga storia di amore e di coppia con un nome solo: credere l’uno all’altro pur con tante differenze di carattere e di storie personali. Ad esempio Fiorella non aveva mai subito gravi malattie, non aveva avuto ricoveri ospedalieri e seppure con qualche problema di salute aveva ben affrontato la propria vita.

Pietro sano, forte fisicamente e intraprendente, era sempre pronto a pensare qual-cosa di nuovo per il tempo libero. Non era certamente un pantofolaio! Da qui una difficoltà per lui: sapersi immedesimare nella sofferenza e insicurezza emotiva e fisi-ca della moglie, tendendo a minimizzare e a vedere le cose con senso scientifico di sufficienza. E allora che cosa abbiamo detto:

Troviamo subito una sintesi a questa tensione che vi portate avanti, il vero dramma non è la malattia di Fiorella è la mancanza di comunicazione tra voi. Per troppo tempo Fiorella ha taciuto e si è adattata a una realtà nella quale tu Pietro hai deciso anche per lei e gli hai dato sicurezza in tante scelte per la vita di casa e per la vostra famiglia.

Il fatto della sua bontà d’animo l’hai fatta diventare un po’ comoda perché spesso nemmeno gli hai chiesto come la pensasse e lei diceva di sì perché è buona e davvero ti ama, non vuole contraddirti.

Ora qualcosa è cambiato Fiorella sente la paura, avverte il suo corpo, ancora in giovane età minacciato dalla malattia, ha il senso della precarietà della propria vita in questo momento ha bisogno di te. Non del Pietro gagliardo che tutto mette a posto, come sai fare in azienda, ma del Pietro che sa soffrire con lei che magari tace, ascolta, non parla ma esprime tenerezza, partecipazione alla sua vicenda.

Ma la sai ancora abbracciare, sai dimostrarle quello che provi per lei con qual-che gesto spontaneo, vero che la faccia sentire in relazione. La sai accettare davvero per quello che ora è. Ami la persona con questo corpo ammalato ma ancora in grado d’essere amato e di rilanciare la relazione di coppia?

Immediato silenzio, era cambiata l’atmosfera, non si scherzava e nemmeno si voleva

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riprendere in modo diretto il discorso. Avevo capito che qualcosa era passato se non altro perché Pietro, assai comunicativo e pronto alle risposte ora stava ripensando quanto detto. Fiorella soltanto rispondeva dicendo:

Forse quando ci si ammala si diventa un po’ egoisti tutto si vorrebbe per sé, ma io ora sento il bisogno di aiuto, non solo quello del professore che mi cura, ma di tutti quelli che mi stanno vicino e il primo aiuto è non venire giudicata e messa da parte, altrimenti come faccio ad affrontare le varie fasi della terapia che mi aspettano?

Qui finiva il nostro discorso, potrei dire soltanto che Pietro, qualche giorno dopo, per telefono aveva semplicemente affermato:

Sto imparando a conoscere una persona nuova, non avrei creduto che lei sa-pesse così bene parlare di sé di fronte ad altri. Mi sta facendo capire che il va-lore della nostra coppia è la capacità di comprenderci anche se mi è difficile accettarla come malata con i tanti nuovi risvolti del suo carattere e del com-portamento. Devo cambiare il modo di guardarla per comunicare con lei.

Era proprio questo il messaggio che ci aspettava, entrare in sintonia psicologica, sa-per leggere nella persona ammalata il bisogno di affetto, di attenzione non di risolu-zione diretta delle sue difficoltà.

Troppo il marito aveva fatto la parte del medico asettico che cura un corpo, che vuo-le rimetterlo in salute. Il suo compito era l’attenzione alla persona affetta da grave malattia, che non doveva perdere né la sua dignità, né la sua capacità di essere mo-glie.

Amare esige non solo il sacrificio di chi si dà da fare per affrontare delle difficoltà va-rie, ma il vero sacrificio di se stessi; entrare nella vita di un’altra persona nel mas-simo rispetto per le sue scelte e nella massima apertura per darle sicurezza.

Ci si ama ancora di più quando si affrontano insieme momenti difficili, ci si sente coppia nel saper condividere e capirsi di fronte all’esperienza della sofferenza che rende diversi, impedisce di fare le stesse cose di sempre, in altre parole interpella la volontà di venirsi incontro cercando il bene della persona. Questo è il servizio alla vi-ta stimolato dall’amore.

Come poi sia finita la storia qualcosa ci è dato conoscere, sappiamo che l’intervento aveva dato un buon risultato e che lei dopo una lunga radio terapia era tornata a una vita pressoché normale. Pietro aveva imparato bene una realtà: il rispetto per l’altra persona anche quando non è quella che vorremmo, ma che desideriamo ama-re con sincerità di animo e disponibilità a venirle incontro.

Per una riflessione Certo questa vicenda dà molti spunti per riflettere sull’essere ammalato o affrontare la malattia, ne avremmo ricavati cinque:

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A) – Mettersi nelle mani di qualcuno È quanto esige la terapia per una malattia grave come il tumore al seno. Ora Fiorella da un lato aveva scarsa fiducia in se stessa, era piena di paure, figuriamoci se osava fidarsi di un medico o di un’equipe che non conosceva e di cui temeva le conseguen-ze per il suo fisico. Si può dire che questo è eccessivo, è una forma di mania persecu-toria.

Forse la componente più delicata e complessa della malattia da accettare è la con-segna di se stessi nelle mani di altri. I medici sono preparati, a volte sono in struttu-re di eccellenza dove i pazienti ricevono attenzione su ogni loro bisogno, ma alla ba-se ci deve essere un atto di fiducia. Ci si consegna a qualcun altro.

Negli episodi biblici riportati non fa una bella figura il re Asa che preferisce fidarsi troppo dei medici piuttosto che di Dio e quindi legge la malattia esclusivamente nell’aspetto esterno del corpo da curare. Questo è quanto va ben evidenziato: non siamo solo in balìa di medici per mettere a posto nel miglior modo possibile il corpo, destinato per natura a soffrire, invecchiare e finire.

La nostra identità di persone, di uomini e donne figli di Dio è la perfetta unità tra corpo e anima tra vita esterna e vita interiore. Fiorella temeva i medici che la sot-tomettevano alla trafila lunga ed estenuante di cure, esami e interventi. Ma la cura più autentica è quella di essere sempre se stessi, non perdere la propria identità e trovare anche attraverso l’esperienza della malattia, la motivazione per vivere e agi-re con le persone che si amano.

Un po’ più di fiducia nei medici e nel loro impegno professionale tuttavia è richiesto se non altro dal fatto che prima si agisce sul male e meglio si ricavano brillanti risul-tati;

B) – Il senso dello sconforto È davvero una notizia terrificante venire a sapere, magari leggendo l’esito di qualche esame di essere affetti da un male quale il cancro la cui parola fa tremare tutti e fa immediatamente pensare a una precoce conclusione della propria vita. Si dice che non vi sia scampo, ma si dice anche che chi lotta e immette tanta volontà di vivere e collaborare con la medicina può ottenere strabilianti risultati.

Per Fiorella si apriva quest’opportunità, peccato che lei per prima era alquanto sco-raggiata, non sapeva come affrontare la malattia, non voleva ammettere a se stessa di esserne colpita. È una difesa, un modo per esorcizzare la paura, non dirsi ammala-ti, magari minimizzare il male, ma intanto c’è e assedia tutti i pensieri dalla mattina alla sera, e di notte quando ci si sveglia si ha la sensazione di essere più deboli, am-malati e con tanta paura.

La prima malattia non è solo quella che colpisce un organo del proprio corpo, ma la mente che si concentra e non si stana dal pensare a questa condizione. Lei infatti nei primi tempi dopo aver ammesso di essere malata e accettare le cure, parlava quasi sempre della sua malattia, delle terapie cui era sottoposta e della preoccupazione

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continua di peggiorare e non riuscire ad arginare il male.

Si dirà: tutto questo è normale, ma se pensiamo a quale cambiamento di vita com-porta.

Più penetrante del male biologico è quello psicologico, capace di condizionare ogni comportamento e far diventare la malattia anche grave l’unico argomento e l’unica preoccupazione per sé e per gli altri. Certo lo sconforto c’è, tutti temiamo di soffrire e morire specie in giovane età. È invece bene pensare alla vita, tenere ancora insie-me la propria agenda, rimettere le relazioni umane con gli altri a livello di apertura e disponibilità. Ciò rende la persona malata ancora se stessa e la motiva ancor di più con la volontà di curarsi per guarire, per vincere il brutto ospite che ha invaso la ca-sa della propria vita. Motivati nella cura si procede nella via sicura (anche lo slogan);

C) – Il bisogno di sentirsi accettati Credo sia l’argomento più importante di questa storia. Già Fiorella non aveva grande stima di se stessa e temeva i giudizi degli altri, specie del marito sostanzialmente guida e punto di sicurezza per la coppia. Ebbene lei si è sentita menomata non solo per la probabile asportazione di un seno, ma perché non sarebbe più stata accettata come da Pietro e dagli altri. Avendo la salute compromessa lo erano anche gli altri rapporti con le persone. Non voleva presentarsi come un’ammalata, non voleva la comprensione e la compassione e desiderava che qualcuno la incoraggiasse, le stes-se vicino senza però chiedere nulla.

Invece Pietro era troppo direttivo, programmava ed entrava nel merito di valutazio-ni proprie solo della moglie. L’immediato bisogno era provare affetto, avvertire te-nerezza verso di lei anche solo con un sorriso, una maggiore gentilezza e tanto amore con attenzioni al suo modo di parlare senza dire, di presentarsi senza aprirsi.

Vincere la paura con una carica di rinnovata fiducia nei suoi confronti era la sfida cui si era chiamati a misurarsi. Ovviamente il compito è quasi simile per ogni persona ammalata, inutile dare troppe spiegazioni tecniche e scientifiche. Sono fredde, sper-sonalizzate perché stereotipate, mentre occorre immettere partecipazione anche solo con una presenza gioiosa e simpatica, che aiuta a sdrammatizzare la situazione del momento.

Importante è l’incoraggiamento, non tanto la pacca sulla spalla, fatto con rinnovata volontà di credere nelle possibilità dell’altro.

Ce la faremo perché insieme siamo invincibili, non molliamo, non diventiamo diversi da quello che siamo, non diventiamo ammalati quando vogliamo batte-re la malattia con la medicina dell’amore di coppia, i due sono una cosa sola.

Qui si ha la misura di una vita di coppia che è cresciuta oppure si è spenta per vari motivi e non si può tenere accesa in qualche modo. Si capisce subito quando una persona assiste un ammalato per amore e partecipazione oppure per dovere senza alcun trasporto. Può purtroppo essere vero nello stesso rapporto di coppia.

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Non dimentichiamo che il ferro si prova con il fuoco, così il vero amore si prova con il fuoco della sofferenza e l’altoforno della malattia. Fuor di metafora, quando si ama per davvero si accetta, anzi ci si impegna a essere veramente disponibili per venirsi incontro adattandosi a tutte le situazioni con animo sereno e spirito costruttivo.

Questo stavano sperimentando Fiorella e Pietro nel loro cammino quando lei sentiva lontano il marito e andava con la sorella e l’amica dai medici e lasciava fuori Pietro. Lo sentiva lontano dal suo bisogno d’essere amata. Pietro capiva la necessità di cambiare stile verso la moglie perché non era più come prima non solo nel corpo.

La sua personalità interiore rimaneva la stessa ma ora non gradiva più la sua razio-nalità e la faceva sentire troppo sola.

La donna emorragica aveva fiducia che anche solo il lembo del mantello di Gesù po-tesse giovarle, qui Fiorella aveva la stessa fiducia in un atto di accoglienza e parteci-pazione del marito troppo sicuro di se stesso;

D) – Un percorso lungo e misterioso Non tutte le malattie hanno gli stessi sintomi fisici e psicologici. Ora in Fiorella e ne-gli ammalati affetti da questa patologia il percorso risulta lungo e spesso gravido di incognite. Il male apparentemente vinto può ripresentarsi e aggredire. Che fare?

Fiorella voleva prima di tutto chiarezza e verità nei medici. Questo implica la re-sponsabilità di saper sostenere la prova senza spaventarsi, senza far venir meno la propria collaborazione attiva. Entra qui in gioco la fede, lei era credente e molto de-vota alla Madonna, aveva anche organizzato pellegrinaggi a Lourdes e in altri san-tuari. La qualità della fede non consiste solo in un insieme di devozioni, è invece la presa di coscienza della volontà di Dio, come diceva San Paolo sulla spina nel fianco.

Così è la malattia, una vera e propria presenza che fa soffrire, che lascia il segno e che in ogni momento può riacutizzarsi e pungere ancora. Da qui la dimensione spiri-tuale simile a quella paolina della partecipazione alle sofferenze di Gesù crocifisso.

Non si tratta di masochismo, quanto di offerta, anche di dolore, nelle mani di Lui. Ciò si chiama unione spirituale che rendere lo spirito forte, e fa accettare che la pro-pria carne sia debole e fragile, soggetta alla malattia. Quanto più si è vicini al Signore Gesù, tanto più si avverte la relatività del corpo, da custodire e curare con i mezzi della scienza medica, ma anche la sua apertura a Dio.

Non siamo solo un corpo, questo è il percorso della fede che dà consolazione e mo-tivazione per combattere con i fratelli e le sorelle ammalati. Pensiamo alle giornate che passano lente, quando si è bloccati dalla malattia. Alla degenza da subire per l’intervento. Le ore sono lunghe, in corsia senza distrazioni, tutto porta a pensare al-la malattia, al proprio destino e per riflesso a quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto nella vita, ai propri sbagli e alle idee ancora possibili da realizzare.

Lì gli ammalati subiscono i momenti cruciali della malattia, avvertono lo stato di pre-carietà del nostro esistere e prospettiva, per chi crede, in una vita oltre.

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E) - Il superamento dei ruoli Quando si è ammalati cadono alcune remore, non si teme a parlare chiaro. Potrem-mo dire che si desidera chiarire quanto da sani non si ha il coraggio di affrontare. Pietro, per rimanere a commentare questa storia, non riconosceva più Fiorella, che arrivava perfino a ribellarsi, a contraddirlo, a tenere il muso come protesta per i suoi comportamenti. Incredibile! Era spiazzato, non aveva elaborato questa possibilità per la moglie fino a quel momento sostanzialmente buona, arrendevole e genero-samente disponibile anche per il quieto vivere.

Che significa questo? Lei come molti ammalati, che cosa aveva da perdere? Che cosa temeva? Finalmente voleva liberare la propria interiorità e comunicare al marito il disagio per essere ancora troppo invadente e distaccato dalla sua condizione. Non aveva più timore di parlare, anzi per lei esprimersi diventava l’occasione per rimet-tersi in discussione come donna che aveva ritrovato slancio e decisione non solo per affrontare la lunga malattia, ma anche per proporsi a Pietro in modo diverso con i suoi reali bisogni, il suo stato emotivo. Prima era come imbalsamata dal suo ruolo, che aveva preso per comodo.

Ecco uscire una personalità celata, un carattere combattivo assopito, una voglia di chiarezza con la determinazione di chi esprime il suo bisogno principale: sentirsi amata come persona fragile nella sofferenza e ha paura di morire in breve tempo. Siamo al punto cruciale, tutto si relativizza di fronte a questo fatto che la malattia grave inevitabilmente pone, non possiamo sfuggire di fronte a ciò che non control-liamo e che la nostra stessa ragione non sa spiegare e condurre dove vorrebbe.

La malattia ci mette di fronte ai nostri limiti, alla nostra debolezza, ma siamo anco-ra persone che possono proporsi, camminare e ritrovare il coraggio per manifestare il proprio vissuto senza timori e senza sconti.

Ripensiamo alla chiarezza di Ezechia, non aveva nascosto la sua volontà di guarire per fare bene il suo servizio di re e aveva espresso la sua paura di morire, il suo dolo-re fino ad affliggersi perché non capiva ciò che accadeva proprio a lui che aveva ono-rato Dio e il prossimo.

Così vale per ciascuno di noi, non esiste una spiegazione logica, incontrovertibile al perché ci si ammala, ma esiste una rinnovata fiducia in se stessi e negli altri per apri-re il proprio animo e condividerlo per rimotivarsi a vivere.

F) – Lasciarsi amare

È un punto aggiunto. Dalla storia di Fiorella e Pietro emerge una componente reale ma assai complessa, il marito doveva rendersi più attento e accogliente verso la mo-glie con la sua instabilità caratteriale. Quante volte la malattia e le terapie tendono a modificare il carattere e rendere la persona iper sensibile e facilmente irritabile? Amarsi, mettersi in relazione e trovare la voglia di comunicare amore esige la capa-cità di lasciarsi amare, di saper andare incontro all’altra persona.

La malattia spesso fa diventare egoisti, o meglio egocentrici, tutto si vorrebbe per se

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stessi dalla persona che ci assiste.

La persona sana deve imparare ad adattarsi per andare incontro alla malata! Nel casso di Pietro non poteva più prendere grossi impegni, la sera era bene restasse con Fiorella, anche solo per farle compagnia, in casa da sola non voleva più restarci.

Così passare qualche giorno di vacanza all’estero o con amici, diventava problemati-co per le cure cui era sottoposta e i tanti effetti collaterali. La malattia modifica le abitudini di vita, mette la famiglia in una situazione diversa. A maggior ragione è ne-cessaria la condivisione di quello che si viene a ricevere.

La carica di Luciana Guardarsi al positivo Era vicina la Pasqua e nella solita visita per la benedizione alle famiglie ebbi non po-ca difficoltà a farmi aprire da una signora non anzianissima tra i settantacinque e gli ottant’anni, la quale voleva la certezza che fossi davvero il sacerdote e non qualche millantatore di passaggio.

Il primo incontro non aveva dato slancio, era solo una timida conoscenza, con l’impegno che sarei tornato subito dopo la Pasqua per riprendere il rapporto con Lu-ciana, così si chiamava, con almeno una visita mensile. Lei annuiva, ma era sfiducia-ta, forse altri avevano promesso e non mantenuto. Ci mettemmo d’accordo sui tre squilli di campanello intervallati da cinque secondi come segno di arrivo. Così andò e mi ripresentai una seconda volta, poi una terza e via di seguito.

Perché dico questo? Perché Luciana era soprattutto una donna bisognosa di comu-nicare la sua esperienza di vita e di sofferenza a qualcuno che l’ascoltasse e ne comprendesse il dramma e il coraggio. Che cosa era successo? Luciana viveva da so-la, non si era sposata e contava molto su una sorella residente al piano superiore del condominio ma che purtroppo era mancata all’improvviso l’anno prima, ora aveva il cognato, ma era un uomo già avanti negli anni e con i suoi acciacchi.

Guardandola si notava una deambulazione difficile e una schiena piuttosto piegata che ne rendeva complessa anche la postura su un’apposita poltrona da dove si muo-veva pochissimo. Pensavo a disturbi dell’età per qualche forma di osteoporosi, inve-ce no, Luciana aveva subito da piccola la poliomielite che l’aveva resa invalida, non al cento, ma con tante sofferenze soprattutto nei movimenti.

Nonostante questo, fin da piccola aveva frequentato le scuole, aveva imparato un mestiere ed era diventata sarta. Il suo lavoro, con la sua paziente cura nel maneggia-re l’ago e gli strumenti professionali, era così apprezzato che l’avevano fatta diven-tare responsabile di un laboratorio per la moda. Lavoro da lei svolto per parecchi anni fino alla pensione.

Perché diceva tutto questo? Semplicemente perché desiderava che qualcuno, il sa-cerdote in questo caso, raccogliesse la sua esperienza, la conservasse come un pre-zioso ricordo della sua vita che andava verso la conclusione. Non era però del tutto esatto, visto che le sue condizioni, a parte la fatica nel deambulare e in molti movi-

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menti, erano tutto sommato accettabili, quando iniziammo a conoscersi.

Il rapporto continuò con una frequenza mensile nella quale Luciana si apriva e rac-contava la sua vita con tanti particolari e sempre con la passione di chi vuole conse-gnare un dono a un’altra persona perché lo conservi e ne faccia buon uso.

Non solo ma aveva ripreso l’abitudine a leggere e s’informava con il bollettino par-rocchiale su tutte le nostre iniziative, domandava molto sul quartiere confrontando-lo con quando lei era giovane e poteva uscire e stabilire contatti con le persone.

Anzi quando qualcuno che conosceva passava a miglior vita subito ne faceva una specie di scheda biografica a riprova di un’ottima capacità di memorizzare i fatti e rielaborarli. Non aveva mai smesso di vivere e ora sentendosi stimolata e coinvolta nella nostra realtà esterna voleva ancora essere partecipe sia pure stando in casa.

Certo la sua vita non è stata facile, anche perché era sola, non aveva grandi aiuti se non la vicina sorella e qualche amica un po’ defilata perché le amicizie sono vere quando condividono, sostengono e si danno da fare per l’altra persona e non solo quando diventano delle pretese o sono interessate, e lì giocava il ruolo di responsa-bile del laboratorio di moda con qualche ragazza che voleva qualche spinta.

Aveva trovato persone che l’avevano ingannata e ora che da anni era praticamente inferma in casa, ripensava a tutti gli incontri, e chi aveva cercato di sfruttare e utiliz-zare per sé la situazione. Lei in ogni caso era ottimista, sentiva che poteva e doveva affrontare la vita perché diceva:

Sono stata educata in una famiglia cristiana, mia mamma ci teneva che noi ragazze andassimo a Messa tutte le domeniche e che non avessimo delle atte-se più grandi delle nostre capacità. Io poi non potevo giocare e fare sport o al-tre cose, la mia condizione è stata quella d’invalidità. Nonostante questo mia mamma voleva che mi impegnassi in casa, che non lasciassi tutto a mia sorella e che mi prendessi delle responsabilità fin da piccola.

Così a maggior ragione mio padre, molto autoritario, ma giusto e onesto. Mi ha insegnato a mettere il bene della famiglia prima di ogni altra cosa. Guai se la sera non si mangiava tutti insieme e ben vestiti, lui stesso non toglieva mai la giacca e voleva che quando eravamo a tavola non facessimo altro che ascol-tarci, metterci a confronto perché la famiglia ha bisogno di momenti dove si prova la sua unità. Ho imparato tanto al punto che ancora adesso sono ricono-scente per gli insegnamenti ricevuti.

Certo non ho potuto formarmi una famiglia, me ne dispiace, ma ho dato tanto a tutti e sono contenta di quello che sono, sono riuscita anche a farmi questa casetta, e qui mi sento tranquilla e sicura. Mi mancano un po’ i rapporti con gli altri. Ho solo mia nipote, la figlia di mia sorella che mi viene a trovare anche abbastanza di spesso, anzi m’invita a stare con la famiglia nelle grandi occa-sioni.

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Non posso che dirmi contenta, non mi lamento non solo farei peccato, ma sen-to che nonostante tutto il Signore mi abbia dato tanto coraggio.

Erano le sue parole con le quali sintetizzava la sua vita e li ripeteva spesso come a dirmi: guarda che ci credo, queste sono le mie convinzioni, non lo dico tanto per dir-lo.

Combattere contro la pigrizia Una delle componenti della situazione di Luciana era il combattimento quotidiano contro la pigrizia, che significa? Per lei fare anche solo un po’ di mestieri, o come si suol dire spicciare casa, era troppo importante, l’ordine, la pulizia e la regia della ca-sa erano cose prioritarie.

Ora in lei, anche per l’età e una grave osteoporosi che avanzava e la colpiva nella zona della colonna causandole dolori e difficoltà di movimento, non poteva realizza-re come avrebbe voluto la buona tenuta della sua abitazione, abbastanza grande e ben arredata. E allora? Chiese un aiuto, capiva che da sola non le era più possibile seguire i lavori più grossi e il rischio di farsi male con una caduta elevato. Da qui mandammo una signora italiana di lunga esperienza. Ebbene Luciana ridendo più volte mi faceva riflettere su un fatto:

I lavori esigono dei tempi, non si può cucire un vestito in un paio d’ore, si fa so-lo pasticci, non si risparmia tempo, si spreca. Così di questa donna, si dà da fa-re, ma è troppo veloce e lascia indietro lo sporco, anzi devo poi ripassare io dove lei ha lavorato e così il lavoro è doppio, specialmente sui vetri e sui mobili si vede ancora di più. In casa ci tengo a tenere tutto sotto controllo perché ci vivo e devo vivere in ambiente pulito, come piace a me non posso andare a compromessi, non ci riesco.

Interessante la sua riflessione, aveva capito che ogni lavoro esige un tempo preciso per essere eseguito come si deve e non si può assolverlo con disinvoltura e rapidità al punto che tutto sembra fatto quando non è vero. La vera pigrizia non significa non fare nulla o quasi, ma agire di scatto, non rendersi conto che prima della mano che lavora c’è la mente che pensa e determina come il lavoro vada eseguito. Era una le-zione di vita, Luciana simpaticamente trasmetteva a riprova del valore conferito alla casa.

La malattia e l’infermità non avevano fiaccato in lei l’ordine mentale e la sua buona formazione unendo la mente davvero pensante con il braccio per lei lento e difficol-toso, ma in grado di capire quanto altri facevano. Da questa considerazione, cam-biammo persona, forse quella presa era troppo impegnata con altri lavori e non ave-va il tempo sufficiente. Anche l’altra donna, stavolta una ragazza di colore, dovette imparare ad agire con maggior cura e attenzione non tanto al tempo, quanto alla qualità cui Luciana tanto desiderava.

È il segnale di come, nonostante lo stato di infermità e la malattia una persona, co-me Luciana, mantiene e combatte per la qualità della propria vita nella conservazio-

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ne della casa pulita e ordinata. Lasciarsi andare, lasciarsi prendere dallo sconforto per quello che non si possiede e non si ha con il proprio stato di salute fisica significa scoraggiarsi, perdere la propria identità di persone cui anche solo la casa in ordine significa cura per se stessi e rispetto per la propria storia e gli insegnamenti ricevuti e conservati per una vita intera. Questa istruzione va condotta verso quanti assisto-no e si prendono impegni con le persone anziane e ammalate, non basta fare, agire, organizzarsi, occorre comprendere quello che rappresenta la casa, i mobili, gli arredi per una persona che per tutto il giorno e la notte li guarda e li riguarda e pensa, fa mente locale continuamente su ciò che dietro questi oggetti esiste: la storia della propria vita e chi meglio di un anziano o malato in casa è in grado di condurre que-sta operazione mentale?

Lei in questa direzione era sicuramente esemplare, tutto ricordava qualcosa: dal centrino sul tavolino della sala fatto da ragazza con la guida della mamma al servizio di piatti e bicchieri avuto dai suoi datori di lavoro ad alcuni quadri da lei acquistati nei vari mercatini del centro di Roma zona Campo dei Fiori e i tanti ricordini di san-tuari, luoghi visitati quando era in condizioni fisiche un po’ migliori rispetto ad ades-so.

Pensiamo quanto mondo è lì presente, quanti ricordi si perdono nella rievocazione storica dei fatti personali della proprio vissuto, e chi meglio di una donna come lei sola, poteva trovarvi un po’ di sollievo, diremmo la rielaborazione delle esperienze passate motivava la sua attuale condizione alquanto pesante e delicata.

Ma non mancava il sorriso, anzi direi che la nota dominante della sua comunicazione era la volontà di riderci sopra di prendere tutto con senso di humor proprio come si vuol dire alla grande. Per questo era molto attaccata alla sua casa, con tutto ciò che rappresentava, e voleva tenere vivo il suo passato intriso di ricordi, di momenti tra-scorsi con i suoi cari e di tante speranze racchiuse come in uno scrigno nella propria abitazione.

Forse era la sua unica consolazione, ma le dava tanta energia, viveva anche per te-nere viva la memoria di quanti aveva incontrato e delle possibilità avute.

Non si scoraggiava anche quando passava giorni se non settimane proprio sola con la compagnia sicura della ragazza ASA inviata dal Comune due volte la settimana per la sua pulizia personale e per qualche bisogno immediato. Ma per il resto trascorre-va il tempo, i giorni e le stagioni, e sempre vivo era il passato, anzi potremmo dire che lo viveva come un eterno presente.

La volontà di essere se stessi Passavano i mesi e anche qualche anno e la sua salute andava peggiorando perché oltre alla schiena si faceva avanti una forma di anemia difficile da controllare al pun-to che dovette essere ricoverata con urgenza e sottoposta a terapia con trasfusioni e farmaci per cercare rimedio al suo stato di grande debolezza e di facile propensione a emorragia interna.

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Fu presa potremmo dire per i capelli ed ebbe un ricovero lungo e una diminuzione delle sua già ridotte capacità di movimento. Era ora più debole al punto che si do-vette procedere a una badante almeno in alcune ore della giornata considerata la ri-dotta capacità di autonomia, anche per prepararsi i pasti. E qui la nostra Luciana presentava di se stessa una rinnovata volontà di combattere contro ogni male anche se era ancora più debole fisicamente e praticamente si alzava pochissimo dal letto.

Voleva però ancora la sua indipendenza e una donna in casa significava cambiare vi-ta e non essere più lei quella che teneva la casa conservando tutte le sue preziose reliquie della vita trascorsa. Si rendeva conto di essere ammalata non solo con qual-che disturbo anemico, ma anche con qualcosa di ben più grave che aveva trascurato da tanto tempo.

Nel frattempo aveva proceduto alla vendita della nuda proprietà del suo apparta-mento, dato che non aveva eredi diretti e la nipote non ne aveva bisogno. Ora lei era in casa a titolo di usufruttuaria, si divertiva a ricordarlo e spesso diceva che il pa-drone aveva fatto un buon affare perché non aveva ancora molto tempo da vivere. Come passare questi momenti, che cosa pensava nelle lunghe ore in cui era sola e si sentiva come abbandonata, debole e allettata. Una domanda che già altre volte le avevo sottoposto, cioè “a che cosa pensi?”, arrivò una saggia risposta:

A che serve pensare alla fine della vita. Tanto arriva lo stesso e magari nel momento in cui meno ci penso, sì un po’ ho paura di quello che si può trovare nel mondo di là, ma tutte le persone che ho conosciuto, i miei familiari, mia so-rella che mi è stata tanto vicino per anni mi aspettano.

Non credo di trovarmi male con loro dopo aver passato una vita insieme, anzi riprenderemo i nostri rapporti interrotti. Sono serena, ripenso alla vita, quante volte ricordo le mie uscite, camminavo con difficoltà, ma andavo volentieri per la Città e mi sentivo bene quando potevo essere utile a qualcuno anche solo perché parlavo, ascoltavo, cercavo di essere sorridente come ho fatto per tutta la vita.

Così mi vorrei spegnere, sorridendo, non con la paura, non con il musone come ce l’avessi con qualcuno, magari con il Padre Eterno. La malattia mi rende stanca, mi mancano le forze, non riesco a fare quasi più nulla e capisco che il tempo sta arrivando. Non voglio pensarci, desidero solo essere qui con vicini tutti i miei ricordi che mi danno sicurezza, rendono questo tempo un dono, un’occasione per ringraziare.

Aveva parlato con molta calma, forse si era preparata, ma io un po’ insistente avevo aggiunto:

Non ti è mai venuto in mente che avresti potuto fare anche altre cose, non hai pensato davvero nonostante la tua malattia a una vita con qualche altra per-sona, o in coppia oppure in una forma di comunità anche per sostenersi e ave-re un aiuto continuo, se tornassi indietro rifaresti questo percorso?

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Lei ora rideva, il modo con cui avevo parlato era sulla battuta pur avendo espresso un concetto importante. Anche lei ora capiva il valore degli altri:

Sarebbe stato bello: una famiglia, dei figli, degli amici, magari anche una bella casa, una vacanza, viaggiare, e via dicendo. Questo l’ho sentito dire da molti, io però sono contenta di essere quello che sono e ho lottato per mantenermi libera e soddisfatta nonostante le tante difficoltà avute e qualche umiliazione subita.

Certo tornare indietro, troppo bello, ma impossibile, andare avanti con la testa che guarda indietro per darti la direzione: sii te stessa, ama quello che hai e accontentati per ciò che non c’è, così ho vissuto e così desidero concludere.

Non si poteva far altro che mantenere con lei l’amichevole e piacevole conservazio-ne ora allargata alla ragazza del Niger che l’aiutava, e anche ai suoi, una sorella con un bambino ammalato in Italia per le necessarie cure. Conoscere lei significò per questa famiglia un’opportunità perché venivano volentieri da lei, ne avevano capito l’estrema capacità di accogliere e la volontà di rendersi comunque utile a qualcuno anche solo tenendo aperta la propria casa per offrire alle persone che la frequenta-no tanta cordialità.

Le sue condizioni tuttavia non miglioravano e inesorabilmente ed ebbe un altro rico-vero dal quale non riuscì a tornare a casa. Purtroppo ebbe un crollo rapido ma pe-sante nel giro di un paio di settimane cessò di vivere.

In questo caso posso dire che sono mancato, purtroppo ero lontano dalla Parrocchia e non ho potuto essere presente alle sue esequie. Ne ricordai però la figura e la lun-ga amicizia con il cognato e altre persone che la conoscevano dicendo di aver perdu-to una persona solare, una testimone di come si può vivere con una pesante invali-dità e malattia senza mai perdere la propria identità e il coraggio di proclamare con la vita la bellezza e la gioia di vivere accettandoci per quello che siamo. La sua eredi-tà consegnata dalla trasmissione del suo vissuto ha una parola sola che fa da sintesi:

vivere è comunque bello ne vale la pena.

Per una riflessione Vorremmo sulla figura di Luciana dire poche cose, la sua vita parla, lei continua a vi-vere in coloro che sanno sorridere di fronte a tante difficoltà e non si perdono nel pessimismo del momento:

A) – La tenacia di crederci Quando si rimane colpiti da una grave malattia che fin da piccoli causa una tremen-da invalidità, tutto sembra finire, anzi c’è l’impressione di una specie di crollo del si-stema:

Come faccio, con chi vado, dove trovo le forze, gli aiuti, a chi mi rivolgo

Possono essere considerazioni anche logiche, anzi fin troppo razionali, ma la vita di una persona non è mai la somma di tanti addendi come volessimo fare

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un’espressione matematica.

Luciana ha creduto in se stessa, ha scelto per sé una vita impegnata, non ha temuto giudizi e pregiudizi di altri, si è buttata nella mischia a iniziare da piccola con le sue compagne. Non ha sminuito il valore del lavoro, anzi ci ha creduto fino al punto da ottenere brillanti risultati e stima da parte di tutti per le sue capacità e non ha mol-lato mai la cura per se stessa, per la propria casa e per le persone che le sono state accanto.

Credere nella vita come dono, offerta, possibilità di realizzarsi in tutte le proprie qualità e risorse, è un insegnamento che va ben oltre una malattia o uno stato di sa-lute malfermo e riducente le possibilità di condurre una vita diciamo normale.

Crederci significa impegnarsi, al di là di ogni altra considerazione. È in cammino solo chi ha una meta e affronta ogni ostacolo o imprevisto che la vita porta con sé. Lei è l’esempio della persona che non si arrende, continua a credere ed ad agire.

Come è vicina all’esempio di Paolo Apostolo, nonostante la ferita nel fianco, le dure discipline dei viaggi, le notti passate in bianco perché in mezzo a pericoli, trova il co-raggio di andare ovunque senza mai farsi né mantenere, né compiangere, crede, agisce, offre per amore del Signore. Lei ha creduto, si è impegnata, è restata se stessa e si è consegnata a Colui che le ha dato la forza per andare avanti;

B) – la volontà di aprirsi Uno vive quando trasmette il dono della vita stessa ad altri. Un tempo avrebbero detto che non muore mai chi genera figli e figlie che continuano la dinastia. La ge-nealogia, non era forse questa la prima preoccupazione di Abramo e come lui di tan-ti uomini di fede e di impegno civile?

Nella situazione di Luciana diciamo che non muore mai chi sa vivere andando oltre il proprio io individuale, chi vede gli altri come risorsa e cerca di costruire con loro un rapporto profondo, sincero, autentico.

Spesso cerchiamo qualcuno, e non è detto siano i familiari, con cui aprirci e confida-re oltre le gioie, le soddisfazioni, i disagi, le paure e i dubbi. Lei voleva qualcuno cui consegnare non solo la sua sofferenza e la sua malattia di una vita, ma la propria esi-stenza, non voleva spegnersi dimenticata, come se tutto quello che aveva fatto an-dasse semplicemente dimenticato.

Qui fu la sua attesa quando, paurosa e dubbiosa aprì la sua porta a un sacerdote da lei nemmeno conosciuto, che veniva per la prima volta dopo chissà quanti anni a da-re una benedizione alla sua casa.

Un incontro casuale, un’amicizia cercata e condotta per anni, all’insegna della condi-visione del proprio vissuto e dell’ascolto partecipe della vitalità della Comunità. Lì però notiamo il coraggio, la determinazione ad aprirsi a cercare la persona giusta per intavolare un rapporto diverso da quello di routine con i pochi parenti o di pura rice-zione delle cure mediche o di buona educazione di vicinato.

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Questo bisogno non crediamo sia solo di Luciana, dietro una persona ammalata non esiste solo una malattia da curare e sanare se possibile, c’è molto di più, esiste una persona con la sua storia, i suoi desideri, le sue paure e tanta volontà di trasmette-re ad altri il racconto della propria vita perché non vada perduto, perché non resti solo e dimenticato.

Non possiamo dimenticare che la malattia di una certa gravità mette direttamente ciascuno di fronte alla finitezza del vivere. Non si tratta di lasciare cadere il tutto di-cendo semplicemente ti ascolteremo un’altra volta, o come spesso avviene ripeten-do già quello che il malato sta per pronunciare per l’ennesima volta

Questi atteggiamenti sono il segnale dell’incomunicabilità che spesso si instaura tra il sofferente bisognoso di ascolto e chi lo cura spesso senza il coinvolgimento perso-nale nella situazione. Ciò si chiama disinteressarsi dell’ammalato, fermarsi alla sola dimensione esterna del corpo, di colui che vive l’esperienza della fragilità fisica e avverte più che mai la necessità di aprirsi a un dialogo dove può confidarsi, mettersi a confronto con un’altra persona senza sentirsi ammalato ossia diverso. La malattia va combattuta dando sempre il massimo di dignità alla persona che soffre e lancia il messaggio della solidarietà da condividere insieme con altri;

C) – La luce radiosa del sorriso Possiamo essere attaccati da malattie anche molto gravi e perfino inguaribili, prova-re delusioni perché non si trovano medici di coscienza e professionalità adeguata, e possiamo finire con delle invalidità impreviste, ma tutto questo non deve mai spe-gnere la voglia di sorridere, il desiderio di comunicare col sorriso e la pace per vince-re ogni dolore con l’amore per la vita.

E qui Luciana dà una lezione, ci illumina davvero il cammino. Non ha la rabbia di chi non ne può più e si continua a ripetere:

Perché proprio a me, che ho fatto di male?

La fiducia rinnovata nel dono straordinario della vita va ben oltre i confini del tempo, il vissuto diventa ambito dove trasformare il dolore nell’ottimismo di sapersi pro-porre agli altri con l’ardore di stare con loro e la volontà di legami forti e tenaci nel tempo.

Come si arriva a questo? Ci si prepara a vivere la malattia in pienezza. Se mai si sor-ride, se non si è ottimisti ma lamentosi, acidi con gli altri e poco comunicativi, è diffi-cile trovare la risorsa dell’ottimismo e della serenità.

Essere sani è invito a guardare la vita con lo sguardo del ringraziamento al Creatore per averci dotato la straordinaria capacità di capire, ringraziare e condividere.

Sorridere è per Tobi, quando capì di aver avuto un Angelo inviato da Dio per aiutar-lo, è prorompere in un canto di gioia e ringraziamento.

La malattia non è impedimento a realizzare, è impedimento a fare, ma anche stimo-lo a cercare legami d’amore in altre direzioni per sorridere alla vita intesa comun-

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que come straordinario dono che non va tenuto per sé.

Luciana si era educata, anche quando la malattia la stava portando alla fine e sorri-deva, anzi invitava al sorriso le due ragazze africane con il bambino piccolo così af-fettuoso con la nonna acquisita, e tenero nel comprendere l’affetto e la tenerezza trasmessa da un’ammalata grave, ma sempre in grado di offrire ottimismo.

La scelta di Mara Facciamoci una domanda: come bisogna assistere le persone ammalate e anziane in-ferme? Quante risposte sono possibili, quante scelte si possono operare e quante si-tuazioni anche assai diverse vengono a crearsi. Ebbene l’esperienza di Mara è illumi-nante al riguardo.

Mara poco più che cinquantenne viveva sola con la madre vedova di ottant’anni, tutto sommato in buone condizioni fisiche. Mara non si era sposata, aveva avuto qualche occasione, ma non si era decisa, così come non si era mai premurata di an-dare a vivere per proprio conto. Restava con la madre Bianca e l’aiutava nella con-duzione della casa e nelle vicende della sua salute. Era la prima a seguirla in tutto quelle che faceva, soprattutto per le varie cure ed esami. Diciamo che viveva presso-ché in funzione della madre. Anche quando era fuori per qualche riunione o altro subito passate le ore 22.30, doveva avvisare la madre, altrimenti va in agitazione.

Il posto della madre era considerevole e quasi bloccante altre scelte. Ora la madre invecchiando ebbe qualche acciacco soprattutto per la respirazione affannosa e qualche guaio con i piedi sempre piuttosto gonfi. Mara si prodigava in tutti i modi per lei era la custode in ogni momento della giornata salvo quando andava a lavora-re in un negozio non lontano da casa così più facilmente poteva essere di ritorno nelle prime ore del pomeriggio. Certo Mara aveva deciso di stare con lei, di non farsi aiutare, perché così la mamma se la voleva godere fino in fondo. Ne auspicava la guarigione per star un po’ meglio, ma comprendeva che il male ha un corso ben pre-ciso e colpisce quando la stessa età anagrafica avanza. Da lì il progredire di piccole forme ischemiche che lentamente portarono Bianca a essere impacciata nei movi-menti fino a richiedere l’assistenza della figlia in modo più continuo.

L’impegno ora diventava esigente e i tempi per gli altri di Mara si facevano più ri-stretti, era là alle riunioni o in qualche momento conviviale con il pensiero sempre rivolto alla salute della madre. Ci accorgemmo dai suoi discorsi, il suo orizzonte era-no le cure cui era sottoposta la madre, un conto è parlarne qualche volta e un conto è parlarne sempre e spesso in modo univoco. Si era creato un rapporto intenso e protettivo, ma anche una forma di dipendenza tra Bianca e la figlia Mara. Non solo ma aveva preso anche l’abitudine di telefonare alla madre durante le varie ore della giornata per sapere anche solo come va e che cosa stava facendo.

Un monitoraggio che diventava pesante sul piano della conduzione personale delle sue giornate, da qui stati di ansia, paura per quello che poteva accadere alla madre e mancanza di valutazione reale dei fatti. Di questo infatti si tratta, quanto Mara stava

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facendo verso la madre era necessario, o vi erano componenti emotive e di altro ge-nere che la portavano ad assumere atteggiamenti a dir poco iperprotettivi?

Essere malati o vivere nella malattia È giusto ora concentrarci su Bianca, era davvero così gravemente colpita da vari at-tacchi che la rendevano insufficiente e dipendente totalmente o quasi dalla figlia? Parlando con lei si notava la donna di tempra forte, molto decisa, anche durante la sua vecchiaia era abituata a prendere decisioni, a saper come mettere in ordine la casa piuttosto che come affrontare le situazioni esterne. Ci si accorgeva, anche per-ché la signora parlava parecchio, del rapporto che si era venuto a creare tra lei e la figlia. Una vera dipendenza, Bianca aveva capito dentro di sé che per legare la figlia, per averla sempre vicino doveva essere ammalata, dichiarare il suo bisogno di assi-stenza e di tutela di Mara.

Mara si prodigava con mille attenzioni per non farle mancare niente, di fatto però ne era succube. Certo qualche disturbo era evidente, come la deambulazione un po’ difficoltosa piuttosto che dei dolori reumatici che le davano fastidio alle ossa spe-cialmente alla colonna, ma è quasi normalità per ogni anziano. Non solo ma Bianca aveva ben chiaro che la figlia non essendosi sposata e non avendo casa propria ri-maneva ospite in casa sua e quindi in un certo senso era lei quella che doveva dirige-re la situazione.

Mara infatti, e questo lo diceva, non poteva spostare un mobile, cambiare una tenda o semplicemente fare la spesa di alimentari senza l’assenso della madre. Che dire? Malattia o condizione per essere serviti e assistiti pur conservando la capacità di comando?

Una situazione nella quale emergeva come la malattia era una realtà nella vita di queste persone, ma la paura di aggravarsi, il timore della trascuratezza e la mancan-za di obiettività facevano sì che ogni desiderio di Bianca trovasse il pieno appoggio di Mara sino al punto di preoccuparsi se la mamma non mangiava tutto il cibo, se non era in quel giorno particolarmente vispa e serena. Perché?

Temeva per la sua salute o aveva sviluppato un rapporto di dipendenza tale da su-scitare per ogni minima cosa un senso di colpa, come se avesse mancato in qualche adempimento. Ricordiamo un episodio alquanto buffo ma significativo.

Mara era presente come volontaria in parrocchia, quando telefonando alla madre viene a sapere che non sta bene e subito corre a casa dove sua madre le dice che non se la sentiva quel pomeriggio domenicale (ore 17.30) di restare da sola perché andava in crisi di panico.

Notiamo che ogni tanto qualche parente veniva a trovarla e stava con lei per qual-che tempo, ma in quel pomeriggio era in panico perché non vedeva la figlia allonta-natasi un’ora prima.

Ella stava sequestrando Mara che non era capace di distaccarsi e di valutare la real-tà dei fatti e difendere la sua libertà e la sua autonomia pur continuando ad avere

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per la madre il massimo rispetto e a fornirle le cure necessarie.

Mara aveva una specie di magnetizzazione verso Bianca e ogni volta che ne parlava sembrava immaginare le sue più gravi malattie e le più pesanti forme di invalidità.

Passava il tempo e le condizioni di Bianca si facevano più precarie da qui il colpevo-lizzarsi della figlia come se ne avesse delle responsabilità per non aver cercato spe-cialisti più competenti e cure differenti. Era una sua fissazione, ne parlava con tutti, avrebbe voluto per la madre un trattamento speciale in modo da prevenire e supe-rare quei fatti legati al sistema nervoso che la rendevano debole e soggetta a crisi con attacchi frequenti.

Potremmo chiederci: chi è veramente la persona ammalata, quella che ha una pato-logia o chi l’assiste e per questa malattia diventa fragile e dipendente? Ciò significa essere talmente legati da diventare vittima. Mara non voleva trovare una soluzione e quando ne parlava, diceva:

Mia madre lo so bene che ci gioca con le mie paure e a volte mi chiama ma non ha niente di grave. Siamo molto unite perché prima di tutto non ho altre persone che mi vogliono bene e mi cercano, ma ho solo rapporti dovuti ad altri interessi e mai di amicizia vera. Mia madre poi mi ha sempre dato consigli, mi ha guidato nelle scelte. È vero che ancora oggi a più di cinquant’anni non ho una mia casa e non posso disporre come vorrei delle nostre cose. È vero però che per voler il bene di mia mamma devo lasciare che faccia, che si muova come a lei piace. Ha qualche problema di salute e io temo che possa aggravar-si anche per trascuratezza per mancanza di adeguate cure da parte mia così la metto al primo posto.

Il discorso filava via liscio, Mara non poteva avere un suo spazio di libertà anche per il fatto che non avrebbe lasciato la madre a nessun’altra persona perché forse non si fidava.

Ma alla base voleva essere lei in prima persona a seguirla passo a passo per venire incontro alle sue necessità anche quelle più piccole e semplici: un dolce piuttosto che un oggetto che potesse renderla contenta. Nella sua mente era stagliata la figu-ra della madre e tutto era subordinato a lei. Si può chiamare assistenza o semplice-mente sottomissione?

Personalmente affrontai l’argomento prima che Bianca si aggravasse. Le avevo chie-sto di darci una mano ad allestire il banco di beneficenza il sabato pomeriggio. Lei mi disse che il pomeriggio di sabato doveva fare il bagno alla mamma e prepararla per la festa.

È vero, dissi, ma è necessario vedere un attimo oltre. Non è che non vuoi bene a mamma se resti un pomeriggio ad aiutare altri nei vari lavori in parrocchia. La rigidità non è per caso segno di mancanza di comprensione del bene tuo e di quello di tua mamma. So che vuoi stare un po’ con i nostri collaboratori e lavorare per sentirti utile alla Comunità. E allora che cambia se la mamma fa il

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bagno alle 18 piuttosto che alle 16? Ecco questa rigidità ti porta anche ansietà perché poi resti sempre tesa e vivi male la tua encomiabile dedizione alla mamma, direi esemplare perché è raro che un’anziana riceva cure e affetto come tu hai nei confronti di mamma. Pensaci su, non si tratta di trascurare, ma nemmeno di sottomettersi in tutto senza uno tuo spazio nel quale ritrovar-ti e ricaricarti. Non è un venire meno a un dovere, ma un servizio alla persona che inizia da te.

Mara aveva raccolto, tanto è vero che in altri momenti mi ripeteva che non bisogna assistere i genitori per dovere, ma con amore e che per amare è necessario anche ri-cevere affetto, attenzione e fiducia da altri. Era passato un messaggio, forse con una certa asprezza, ma la chiarezza nel parlare è segno di rispetto e volontà di favorire la crescita di una persona.

Come andò avanti il rapporto tra Bianca e Mara è facile da raccontare, la madre sempre più in difficoltà per i movimenti divenne praticamente inferma e questa vol-ta Mara, anche per non perdere il posto di lavoro, accettò l’assistenza di una badan-te in alcune ore del giorno. Il suo percorso proseguì e concluse la vita terrena a circa novant’anni ovviamente in casa e con accanto la figlia Mara consapevole dell’inarrestabilità del decadimento fisico con l’accettazione della conclusione della vita di mamma.

Si è poi impegnata di più con gli altri e per le attività dove svolgeva già il volontaria-to? Dire di sì sarebbe troppo, diremmo un quasi sì perché viveva ancorata al ricordo della mamma degli ultimi mesi passati vicino al suo capezzale vegliandola anche di notte per paura che mancasse senza la sua presenza, la sua stretta di mano.

Non solo ma a volte mi diceva che si sarebbe potuto fare qualcosa di più se l’avessero ricoverata nella tal struttura specializzata per il sistema nervoso o se l’avesse fatta visitare dallo specialista dove era stata la vicina. Ragionamenti che la-sciavano ancora pensare al legame mai interrotto con mamma, sempre viva dentro di lei e sempre in grado di dare disposizioni anche dopo il suo decesso.

Prima che fisicamente le persone che assistiamo fanno parte del nostro io interiore, la loro immagine resta come scolpita sulla roccia della nostra anima e continua a di-ventare motivo di ragionamenti, in questo caso generando sensi di colpa eccessivi maturati nei lunghi anni nei quali non si è distinto tra la malattia e il sentirsi amma-lati.

Per una riflessione Assistere una persona malata è opera definita servizio al Signore. Ci ricorda che sa-remo giudicati sull’amore dato al fratello o sorella più bisognosa riconoscendo la presenza stessa di Gesù (Mt.25,40). Sono fuori discussione: dedizione, spirito di ser-vizio, volontà di consolare chi soffre o si sente solo a causa della malattia o dell’infermità propria dell’età senile.

Sicuramente nella vicenda di Mara e della madre Bianca c’è un’esemplare presa in

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carico della persona al punto che la figlia rinuncia a una propria scelta e dei progetti di vita per seguire e stare accanto alla madre malata.

Questa lettura permette di riscoprire la volontà e la determinazione al passaggio da un dovere di assistenza a una scelta di condivisione con la persona ammalata. Il pas-saggio dal dovere di parentela alla volontà di offrire non è scontata. Qui vorremmo ricordare ciò che una moglie diceva al marito rimasto infortunato in un incidente per una caduta durante un’escursione. Di fronte alla diagnosi di un lungo periodo di ri-poso, la prima parola a conforto fu:

Ecco mi hai rovinato il viaggio che avevamo programmato da tanto tempo per l’anniversario di matrimonio. Ma devi sempre metterci del tuo. Già non hai mai voglia di andare insieme a vedere qualcosa di nuovo e vai anche a farti male e poi ti devo anche tenere in casa tutto il giorno per almeno due o tre mesi, no questo è davvero troppo, come facciamo adesso ad andare avanti?

Questo per indicare una considerazione sulla non immediatezza nell’accettare, con-dividere e sostenere con spirito di servizio e umanità la persona affetta da malattia o grave infortunio.

Nella storia tra Mara e Bianca abbiamo notato la piena accettazione, con il limite dell’annullamento dell’altra persona a servizio della madre, malata, inferma e poi in-camminata verso la conclusione della vita terrena. Ne possiamo raccogliere tre ri-flessioni:

A) Il senso di adattamento a un imprevisto Nessuno prevede di ammalarsi e ancor meno in un preciso momento, luogo o per un’attività. L’adattamento è una qualità umana richiesta e motivata a farsi prossimo verso chiunque abbia necessità di un aiuto.

Certamente al primo posto ci sono i parenti, ma poi anche i vicini, gli amici, i colleghi di ufficio. La principale scelta resta l’organizzare la propria giornata, le proprie attivi-tà, e l’assistenza alla persona sofferente e bisognosa di assistenza.

Basti pensare al dono della presenza, che non risolve tutto, ma è necessaria per sol-levare e dare conforto e sicurezza ad una persona ammalata. Mara era molto pre-sente dalla madre, che mi confidava di aver ricevuto un dono straordinario: una fi-glia attenta, sensibile e pronta al sacrificio. Quale miglior risorsa!

Certamente encomiabile il comportamento di Mara, anche se occorre tenere pre-sente le responsabilità personali e sociali di ciascuno nell’assistenza a chi soffre.

Mettere insieme tutto è complesso è necessario lo spirito del dono e non della ras-segnazione e del pessimistico tirare avanti, tanto peggio di così. Il lasciarsi prendere dalla malattia, dalla sfiducia e dal proprio nascosto egoismo.

Siamo un po’ tutti egoisti, pensiamo ai nostri affari senza scorgere il bisogno dell’altra persona che ha bisogno di partecipazione alla sua precaria condizione. Po-tremmo dire che la malattia è davvero paideia che riapre scenari del proprio passato

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quale purificazione, autoesame e ripresa di un cammino con animo rinnovato.

Ci si educa anche assistendo,guardare la persona inferma spesso è motivo per supe-rare l’egoistico pensare solo con la propria mentalità, troppo a volte opportunista. Si valuta la buona salute con un senso di onnipotenza, e si dimentica la possibilità di cadere ammalati e perdere la propria vitalità. Tutto si vince se si vuole vincere, se ci si mette nella situazione di leggere la malattia come un’occasione per esprimere un servizio di fronte a una situazione imprevista;

B) – La dimensione del donare e ricevere

Uno degli argomenti che avevamo affrontato con Mara era proprio questo, lei per-sona credente, praticante e sensibile alla Comunità aveva necessità di ricevere per poter dare non solo un servizio ma anche calore, partecipazione e gentilezza alla madre.

Questo passaggio è assai prezioso. Spesso si assiste una persona ammalata e ci si esaurisce non solo fisicamente e psicologicamente, ma anche nella capacità di con-trollarsi. Basta una contrarietà, un disappunto e subito si scatta in modo disordinato con parole o gesti che arrivano a ferire il malato o altre persone. Qualcuno si giustifi-ca dicendo di essere troppo stanco o di aver perduto la propria tranquillità. Tutto vero, ma la vera reazione non è l’impegno spinto fino all’inverosimile, quanto una ri-carica che avviene, almeno stando a Bianca, in tre maniere.

La parte spirituale per un credente è primaria, il Signore, l’abbiamo analizzato so-prattutto nell’esperienza di San Paolo dà forza, il suo Spirito guida il nostro cammino e ci purifica interiormente da ogni resistenza al bene. Come a dire che fin quando siamo uniti al Signore scopriamo che è lui la guida, il Maestro, capace di liberare dentro ciascuno le migliori energie per vincere ogni male con il Bene della sua pre-senza.

Questa ricarica è alla base di tanta dedizione attingendo dalla sorgente dell’Amore eterno la volontà di trasmettere amore e pace verso chi ne ha più bisogno. Non di-mentichiamo la ricarica della propria dimensione sociale. Non è possibile chiudersi in casa e guardare solo alla persona sofferente, è vero a volte sembra necessario per tanti motivi sanitari e infermieristici.

Per ricaricarsi occorre aprire l’animo agli amici, mantenere un buon livello di socia-lizzazione con qualche momento distensivo e fraterno perché ciascuno ha bisogno di uscire da sé per ritrovarsi.

È la giusta dose di carica proveniente dall’ambiente circostante che dà una spinta ad agire con maggiore energia. Nel caso di Mara, aveva delle amiche con cui spesso pranzava la domenica, riuscendo a giustificarsi con la madre perché era in compa-gnia sicura.

Lei voleva passare qualche momento fuori, forse per parlare della salute della ma-dre, ma anche per entrare nei discorsi delle amiche e andare oltre la malattia.

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Esiste però anche un’altra forma di ricarica: il volontariato, magari ridotto a pochi momenti, ma utilissimo per distaccare la propria mente dalla malattia incombente in famiglia.

Non è detto che essere volontari significhi fare tante cose o dedicarsi ad altri amma-lati o anziani. No, il volontariato è prima di tutto aprire il proprio animo, la propria mente per comprendere i bisogni di altri, in modo gratuito e generoso senza altro fine se non servire. Certamente non si può pensare solo a dare la propria presenza senza un momento per ricaricare se stessi altrimenti la malattia fa diventare amma-lati senza accorgersene, ci si illude di essere indispensabili per rendere un servizio al-la persona sofferente;

C) – la capacità di comprendere È una qualità che si affina con il tempo, ma fa parte del vissuto di ciascuno di noi. Comprendere non significa arrendersi così subito di fronte alle esigenze di chi le espone. Pensiamo quanto la comprensione vada di pari passo con l’educazione nella crescita di un bambino. Ebbene di fronte a una persona ammalata o anziana e in-ferma la comprensione inizia dalla condivisione del suo stato, la volontà diretta di entrare in relazione con chi vive la malattia.

Qui gioca molto la finezza nell’ascoltare e favorire la comunicazione mettendo il massimo di attenzione alla dinamica del malato, le speranze che ripone nella medi-cina e la sua collaborazione per guarire. Chi sa ascoltare entra davvero in relazione con il sofferente il quale attende inconsciamente solo qualcuno (e non è detto siano sempre i parenti) che ascolti senza giudicare, senza semplificare e senza interrompe-re la sua voglia di proporsi anche se talvolta con monotonia.

Scatta la comprensione, si va oltre l’ascolto e si cerca di intervenire sul bisogno di essere anche guidati magari in piena sintonia con chi lo cura. Non solo ma compren-dere è anche capire quanto uno non dice e s’intuisce.

Ad esempio Bianca aveva tanto bisogno di sentirsi partecipe ancora della vita ester-na. Andare a trovarla voleva dire trasmettere tante informazioni sulle persone che conosceva e sulle iniziative del quartiere piuttosto che della Città. Era un modo per coinvolgerla, andare oltre la sua malattia, oltre i suoi discorsi magari anche triti e ri-triti sui medicinali piuttosto che sulle cure ultime cui era sottoposta.

Qui Mara aveva una comprensione elevata verso la madre, disponibile a tutte le ore, ma anche ad accondiscendere a tante richieste che chiameremmo piccoli capricci, segnali del bisogno di essere amati.

Il malato mette alla prova, vuole verificare se davvero chi assiste è mosso dallo spiri-to della comprensione oppure ancora pensa troppo a se stesso. È una prospettiva alquanto delicata, ma la comprensione va di pari passo con la fiducia e l’empatia che si viene a stabilire tenendo conto dei cambiamenti di umore e reazione del sofferen-te soprattutto quando si accorge di dover dipendere da altri e non vuole essere di peso o di ostacolo.

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Questa è la comunicazione di ritorno il feed-back, per capire il bisogno di chi assiste nella volontà di trovare un po’ di sana riconoscenza e affetto da parte di chi soffre. Come si ricorda nel tempo il sorriso, lo sguardo affettuoso carico del sentimento della gratitudine di un malato verso la persona o le persone che gli sono accanto con maggiore attenzione.

Ciascuno ha necessità di sentirsi accolto e riconosciuto nella sua dedizione verso chi soffre e come abbiamo ricordato tante volte nessuno è così povero o malato o soffe-rente da non poter offrire un sorriso e da non poter esprimere anche solo con dei gesti il grazie riconoscente a chi gli sta accanto per servirlo.

Testimonianze La lunga attesa Ero lì con le mie figlie davanti al capo radiologo che mi disse: «è un tumore al pol-mone e sembra a piccole cellule, ma bisogna attendere la broncoscopia per sapere con certezza di cosa si tratta». Eppure non avevo mai fumato in vita mia!Le mie figlie non dissero niente ed io nemmeno, ognuno aveva timore di angosciare l’altro, ma per me era la fine di una lunga attesa.

Tutto era cominciato quando a 18 anni morì a 47 mio padre tra atroci dolori.

Dicevano che assomigliavo a lui e quindi sin da allora pensavo che avrei ereditato la sua malattia e quindi anch’io sarei morto giovane. Forse anche per questo mi ero sposato giovane e subito abbiamo voluto i figli.

Poi passarono molti anni, il male di mio padre lo ereditò mio fratello,ma per fortuna ora sono disponibili le cure, poi morì di tumore mia madre e si ammalò anche l’altro fratello dello stesso male. Io pensai che presto avrei saputo anch’io il mio destino.

Così a 73 anni, dopo un lungo periodo di tosse continua, su insistenza di mia moglie, andai dal medico. Mi fece fare una radiografia ai polmoni. Risultò una macchia so-spetta. Poi gli esami del sangue rilevarono la positività dei marchi tumorali.

Le mie figlie s’impegnarono a trovare il luogo di cura più adatto ed io lasciai fare. Mi rivoltarono come un calzino. La diagnosi non confermò la prima impressione del ra-diologo, si trattava di una forma meno micidiale anche se cronica, progressiva e ino-perabile.

Oggi sono nel quarto anno di cure, non vi racconto i miei alti e bassi, le cure geneti-che che mi hanno dato due anni di vita, la prima serie di chemio, che mi ha creato non pochi problemi soprattutto alle gambe,l’ultima chemio che sta contendo la be-stia e mi sta dando condizioni di vita accettabili, anche se non mi permette di fare previsioni sul futuro, ma vi vorrei raccontare la storia dell’animo mio.

Il fatto di pensare di avere la prospettiva d’una vita breve mi ha fatto tenere sempre presente il tema della morte e dell’oltretomba, ma poi la buona salute, il lavoro e la fede m’impedivano di angosciarmi.

Poi verso i 50 anni ebbi due sogni che mi fecero sognare la mia morte come una bel-

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la esperienza. Di certo ai sogni non bisogna credere molto, ma fui poi sorpreso quando ascoltai il racconto di padre Abee' De Robert fucilato e miracolato da padre Pio e quando lessi alcuni libri sui risvegli di gente caduta in coma. Scoprii una grande affinità con i miei sogni e cominciai a pensare che fossero un messaggio da trasmet-tere a mia cognata che, dopo il risveglio di un tumore che sembrava guarito, doveva, con grande suo timore, essere operata di nuovo.

Poi ebbi tante occasioni per cercare di accendere la speranza a persone cadute nella disperazione per una grave malattia, e li raccontai anche a loro.

(Da Luciano)

Malato e malattia L’uomo è per natura un essere in relazione, con se stesso e con gli altri; per il cristia-no la fede gli conferma e consacra questa sua tipicità: creato a immagine di Dio, questi è relazione al proprio interno, Padre e Figlio e Spirito Santo e con l’esterno in quanto creatore. Per storia e cultura si propende a sostenere che il corpo sia la parte più debole, più soggetta alla malattia, alla precarietà della salute specie col passare degli anni. La conclusione che se ne può dedurre è quella di considerare la salute il bene per eccellenza a motivo del fatto che il corpo è essenzialmente un raffinatissi-mo “mezzo”di comunicazione – comunione. Per grazia la mia storia personale e fa-miliare ha convissuto con la presenza della malattia, prima “indirettamente”, papà e una sorella disabile e nell’ultimo quinquennio per la presenza di un carcinoma che per un errore del chirurgo nel primo intervento, ne ha comportato altri cinque; in verità la mia corporeità era già stata visitata da due tumori benigni con qualche la-scito soprattutto col secondo. Posso considerarmi un esperto? Certamente no, tut-tavia anche se recentemente il mio stato ha richiamato su di me una speciale pros-simità di numerose persone, con in prima linea la famiglia, sul versante soggettivo mi ha fatto più attento alle persone che avvicino nei luoghi ospedalieri frequentati con la conclusione che di persone e famiglie toccate dalla malattia sono molte con conseguenti sofferenze.

La prima considerazione che traggo è che la malattia ha umanizzato ulteriormente la mia testimonianza nei vari posti della vita frequentati, tutto senza accampare meriti o potenzialità che non posseggo; tutto ciò mi fa affermare che non si può augurare a nessuno, forsanche una persona poco di buono, di ammalarsi e di stare poco bene. Alla dimensione umana, ne ha tratto vantaggio la mia fede che mi aiuta tutti i giorni a ringraziare cielo e terra per il dono della vita e di tutti quei valori che ne permetto-no la qualità, compresa la bellezza, i suoi sapori e i suoi colori. Ogni attimo, con tanti limiti s’intende, cerco di viverlo nella sua irripetibilità e a compensazione dei giorni di coma e di ospedale vissuti durante i ricoveri.

Spunti finali. La malattia non è un bene e neanche un valore nonostante quanto so-stenuto in precedenza; migliorare è possibile specie quando si è in presenza dell’amore. Questa convinzione antica è stata viepiù confermata nell’ultimo lustro: dove c’è amore, li vi è la speranza, la forza di combattere la buona battaglia della

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guarigione. L’amore è la prima medicina necessaria per superare la malattia e i suoi effetti; il miglior medico da augurarsi è quello che accanto a una buona professiona-lità, sappia amare le persone curate; a me è capitato che in due mesi di ricovero ospedaliero non ho mai visto al mio capezzale il primario che mi aveva operato la prima volta.

Medici, farmaci chemioterapia, radio terapia, integratori sono elementi del mio re-cente vocabolario acquisito sul campo, accanto a tanti volti e storie, compreso qual-che lacrima quando si nota che la guarigione latita e la sofferenza appare pesante, senza per questo intristirmi più di tanto: tutto nella vita può cambiare con un sorriso o una tenerezza. Tutto questo meriterebbe tempo per dire in continuazione grazie, tempo che però passa inesorabilmente; la fede mi porta credere che ci penserà il buon Dio a rendere amore a quanti mi amano e mi curano di cuore.

(Da Gianantonio)

7 Verso un vademecum della malattia

Lo spirito benedettino Dopo aver presentato una riflessione sulla malattia e l’ammalato a partire dalla Bib-bia e da alcune situazioni raccolte dalla storia di diverse persone incontrate, vor-remmo ora arrivare a delineare un piccolo vademecum per la cura e l’assistenza.

Prima però ci sembra utile per favorire la nostra riflessione riportare il capitolo XXXVI della Regola di San Benedetto, documento di vitale importanza non solo per la fede, ma anche per la stessa storia civile. Il monachesimo per secoli è stato principio di civiltà e guida per l’unità religiosa e sociale dei Paesi Europei. Ebbene riguardo ai fratelli infermi si recita:

Soprattutto e a preferenza di ogni altra cosa si abbia cura degli infermi, in mo-do da servire ad essi veramente come a Cristo, poiché Egli disse Fui infermo e mi visitaste, e quel che avete fatto a uno di questi miei piccolini l’avete fatto a me. Ma anche gli infermi devono considerare che si serve loro in onore di Dio, e con le loro esigenze non opprimano i fratelli che li assistono. In ogni modo però si devono sopportare con pazienza, perché con essi c’è da meritare di più. Sia perciò somma cura dell’abate, che in nessun modo vengano trascurati.

Questi fratelli infermi abbiano una cella loro destinata ed un servente timorato di Dio, caritatevole e sollecito. Abbiano comodità di bagni, quando occorre. Ma ai sani particolarmente ai giovani siano concessi meno sovente. Anche l’uso della carne, venga permesso agli ammalati e a quelli molto deboli; però una volta ristabiliti, tutti, com’è uso, si astengano dalla carne.

E molto interessante rileggervi tre indicazioni che abbiamo già raccolto e che San Benedetto uomo saggio e attento ai segni del suo tempo sa mettere in evidenza:

1 – Assistere gli ammalati È prima di tutto una scelta etica che esige una dirittura spirituale, come ricordano le

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frasi già riportate del vangelo di Matteo. Fare qualsiasi cosa a favore di chi soffre è come averla donata a Gesù in persona.

Questo deve caratterizzare lo stile, il metodo di lavoro, non l’obbligo, nemmeno un generico darsi da fare, ma saper incarnare verso chi soffre l’amore di Cristo e l’amore per Cristo stesso riconosciuto di questi fratelli infermi che ne sono le vere e proprie carni viventi.

E non dimentichiamo che la malattia a quel tempo era molto insidiosa, arrivava a colpire con epidemie e pandemie intere popolazioni causando mortalità elevate e una vita media attorno ai quarant’anni a indicazione che gli ammalati erano la nor-malità nella stessa conduzione del monastero;

2 – Sviluppare la virtù della pazienza Potremmo anche aggiungere di adattarsi alle loro necessità e situazioni. Benedetto prevede per gli ammalati delle celle più grandi, bagni comodi e quindi acqua il più possibile a disposizione. Che significa?

Chi è ammalato è al centro della vita comunitaria e deve raccogliere il meglio anche delle strutture che dispone il monastero perché ne ha maggior necessità, il desiderio è dargli il massimo di spazi utili perché possa raggiungere la guarigione e rientrare nella normale vita comunitaria.

Da qui l’attenzione si fa cultura rivolta alla persona, capacità di prevedere in ogni struttura costruita e in costruzione degli spazi riservati, dei luoghi adatti dove mette-re le persone inferme senza tante difficoltà e con il massimo di rispetto della loro condizione. Non vanno per nulla discriminati e quanti hanno sentimenti assurdi di invidia per questi loro privilegi è bene se ne vergognino. Questo è il messaggio, un richiamo assai forte specie per quel tempo nel quale non esistevano ancora struttu-re ospedaliere idonee per curare in modo scientificamente corretto quanti versava-no in condizioni precarie di salute. Benedetto propone, senza averlo ancora elabora-to uno spazio qualificato per seguire nel modo appropriato quanti sono infermi con l’intervento di un fratello infermiere;

4 – Applicare l’epikeia Terminologia canonico-giuridica che significa essere fedeli allo spirito di una norma, di una regola senza però eseguirla alla lettera. È il senso di un rinnovato umanesimo che la Regola di Benedetto contiene e promuove.

Gli ammalati sono esentati dai digiuni, possono consumare carni e avere un orario modulato sulle loro possibilità senza il mattutino notturno per le preghiere e le tante ore di Oratorio per la salmodia corale. L’attenzione alla persona è al primo posto più che l’osservanza scrupolosa e poco caritatevole della Regola. Quante volte anche nei racconti presentati abbiamo costruito la cultura del rispetto nel dialogo attento alla persona ammalata più che il corpo da curare come se fosse qualcosa di meccanico da sistemare come la scienza oggi permette.

Il valore insostituibile della persona costituisce la base per una rinnovata cultura del

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dare, del mettersi in relazione con chi vive l’esperienza della sofferenza interpretan-done i bisogni e cercando di motivarlo nella lotta contro la malattia e farlo parteci-pare alla vita di una comunità, di una famiglia, di una coppia, del mondo che lo cir-conda.

Non è un peso, non costituisce un ostacolo, ma è un dono, un’occasione per svolge-re la carità e il servizio con amore e dedizione operosa. Questo è anche il messaggio della Regola benedettina, assai attuale per la sua capacità di inserire nella Comunità la persona che soffre e va non solo curata e seguita, ma resa partecipe attivamente del cammino stesso insieme con gli altri, fratelli e sorelle per una rinnovata presa in carico della sua condizione personale. Non dimentichiamo, chiunque può essere tra gli ammalati.

La Regola benedettina detta, dà indicazioni al riguardo ispirate dal Vangelo e vissute nella Comunità, è una Regola maestra, non scritta su inchiostro, ma presente nell’animo di ogni persona: dare sempre con spirito aperto e generoso, immettere il meglio di sé perché altri ritrovino pace e sicurezza.

Il senso della famiglia e l’unità nella coppia avvengono proprio mentre le difficoltà e le problematiche anche relative alla salute rendono pesante la quotidianità. Non è la gravità della malattia in sé e nemmeno la lunghezza della terapia, il tempo che ri-chiede per essere adeguatamente curati. L’etica è invece sul come si vive tutto que-sto ossia: trasmettere partecipazione e fiducia.

Consigli per affrontare il percorso di vita Vorremmo da quanto abbiamo scritto e dalle riflessioni ricavate sia nei racconti bi-blici come nelle storie vissute dalle persone, estrarre il vademecum sotto forma di consigli, di indicazioni, di suggerimenti per vivere con la malattia la propria vita sen-za diventare i malati che subiscono la malattia e non pensano a vivere. Abbiamo elaborato dodici consigli con lo spirito di volerli condividere:

1 – Combattere la malattia senza sminuire la persona È principio cardine per il nostro cammino. Il primo che l’ha insegnato è Ezechia. Ave-va capito che la sua malattia portava alla morte e non voleva rassegnarsi a conclude-re la propria vita, senza aver ancora una possibilità. Così deve essere per tutti, com-battere contro la malattia significa ritrovare la motivazione a vivere, ad affrontarne il percorso con slancio e rinnovato impegno. Essere lì nella condizione di malati vuole dire prima di tutto sentirsi messi fuori dal circuito delle relazioni sociali ed esisten-ziali, si rende necessario un salto di qualità.

Non cadere nella condizione in cui disfattismo, pessimismo, avvilimento spengono questa carica per la vita e con la vita. La malattia è uno sgradito ospite, va combattu-ta non ammainando subito la bandiera bianca dell’arrendevolezza e della mancanza di carica per affrontare le situazioni.

Pensandoci bene un esempio al positivo è Gabriella, nonostante i sintomi sempre più acuti della sua malattia faceva di tutto per apparire capace di assolvere ogni si-

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tuazione e in grado di sperare in un futuro ancora a sua dimensione. Nel consigliare il nostro paziente lettore diciamo con vigore:

Mai darsi per vinti, e cercare di essere vincitori su se stessi.

La malattia inizia quando ci si sente ammalati ovvero esclusi dalle relazioni con altri e inidonei ad affrontare le varie stagioni della vita.

2 – Realizzare fiducia in chi cura e assiste È una parte non facile, non sono poche le persone nella linea di Fiorella, piuttosto che ammettere di essere ammalate e avere bisogno del medico lasciano che la ma-lattia inesorabilmente faccia il suo corso naturale.

Certo pensare a esami su esami, cartelle cliniche, visite, consulti e magari anche ri-coveri ed interventi non è il meglio. Nonostante tutto questo, è necessaria una rin-novata volontà di combattere anche contro la sfiducia alimentata a volta dai passa parola verso il tale medico piuttosto o la struttura di cura. Non arrendersi di fronte ad apparenti difficoltà. Il medico è la lunga mano della medicina di Dio, è colui che ne incarna l’aiuto per la guarigione dei corpi. Non nutrire sfiducia non significa porla tutta in loro, ma sono il necessario mezzo, la giusta via per recuperare salute e spe-ranza.

Se pensiamo a Luciana, anche lei aveva poca fiducia dei dottori al punto che mini-mizzava i suoi disturbi, ma poi di fronte a una fine vicina ha capito l’importanza delle cure e delle medicine seguendo un percorso adatto per la sua patologia. Il medico è colui con il quale è necessario mettersi a confronto senza eccessivi trionfalismi e senza disfattismi.

E coloro che assistono? Forse è più semplice, ma la fiducia avviene quando si com-prende il bene, l’attenzione che si riceve da quanti si prodigano verso un ammalato. E lì scatta l’empatia la fiducia, il sapersi accolti anche in questa condizione da qual-cuno che ti fa sentire importante, unico per trasmettere affetto e partecipazione.

È il caso di Giovanni, scoraggiato, deluso, si sentiva anche in colpa per la sua malat-tia. Ascoltarlo con animo sereno e lasciargli spazio per confidarsi, aprirsi gli ha dato slancio, ha capito che poteva contare su qualcuno per portare il peso della sua cro-ce, consegnare qualcosa del suo dolore.

Fino a che punto la medicina della motivazione a vivere perché qualcuno crede an-cora nelle possibilità di un ammalato anche se grave, danno vigore e slancio al mala-to stesso come un farmaco non chimico ma di affetto e amore?

Una domanda la cui risposta è detta nella situazione della donna che soffriva di emorragie, come avverte la presenza di Gesù, subito si fa avanti per toccare la fran-gia del mantello.

Il segno che tutti devono farsi avanti motivati dal desiderio di guarire e dalla parte-cipazione alle vicende dei propri cari. Il gesto di trasmettere fiducia, permette alla persona ammalata di voler ritrovare salute facendo di tutto per collaborare per la

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propria guarigione;

3 – Volersi pensare attivi nonostante la malattia È la risorsa più immediata, la patologia compromette talvolta l’utilizzo appieno del proprio corpo, e fa sentire abbattuti, stanchi e spossati, ma il messaggio è quello di pensare alla vita, alle risorse che può ancora offrire e rileggere la malattia come un evento in cui si può continuare a essere se stessi, per lottare, affermarsi e restare fedeli alle proprie responsabilità.

Vorremmo qui ricordare una signora già in pensione di elevata sensibilità verso i più piccoli, attenta a tutti, piena di energie nell’animare il gioco e lo studio dei bambini, oltre che buona maestra per il canto e la musica. Ogni tanto soffriva di problemi alla gola, piccole cose! Ebbene un giorno arriva notizia di una sua indisposizione, seguita da un suo ricovero ospedaliero. Quando personalmente mi accingevo a visitarla, do-po tre o quattro giorni giunge la comunicazione del suo parroco per l’unzione degli infermi per lo stato ormai inarrestabile della malattia. Ma quale? La signora Marika era affetta da una forma tumorale molto probabilmente alle vie respiratorie, da qui le piccole crisi. Nessuno ha mai saputo l’entità reale del suo stato di salute. Diremmo che fino all’ultimo giorno ha lavorato con passione, tenacia e volontà di programma-re per il prossimo mese, per l’anno che viene tutte le sue attività. Mai si è lamentata o ha parlato di malattia e terapie, ecco perché l’improvvisa accelerazione della fine è stata davvero inaspettata e sorprendente.

Il segnale di come vivere, pensare alla vita, lottare per ciò in cui si crede nonostante la malattia, va oltre i dolori e gli altri sintomi. Si dirà: è una scelta personale, non lo si può imporre. Certamente, ma è una scelta di elevata qualità, il continuare a essere se stessi con i propri impegni. Il lavoro piuttosto che il volontariato, la famiglia, le re-lazioni con amici e conoscenti facilitano la motivazione a vivere accettando anche la fatica e il peso di essere ammalati.

Qui si nota la differenza tra il malato che vive nella malattia e non se ne distacca e Marika che va oltre, si ritrova capace di agire e realizzare quanto in cui crede e ha fi-nora costruito. Non è forse anche questa signora simile all’Apostolo di cui abbiamo presentato la figura nel suo slancio verso gli altri?

Aveva una ferita aperta del fianco, notti insonni e percosse ricevute, ma mai si è fat-to compiangere, ha cercato compassione, si è offerto tutto, spinto dall’amore per Cristo e dal desiderio del bene verso quanti gli erano affidati.

In questa scelta ha grossa importanza oltre che il carattere della persona, il contor-no sociale. Continuare ad allargare i discorsi attorno a tutto quello che concerne la malattia e le cure e magari farne confronti con altri malati è davvero operazione bloccante ogni altra apertura.

Invece riuscire a guardare la persona malata con l’occhio di chi rivede in lei la stessa persona che fino a poco tempo prima si dava da fare in mille attività equivale a darle fiducia, a restituire vitalità e coraggio.

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Sentirsi ammalati porta quasi sempre a una differente osservazione da parte degli altri. Pensiamo a Fiorella, era bloccata dal fatto che Pietro potesse rilevare solo la malattia col suo disagio per essere fragile e non più in grado di svolgere come prima tutti i vari servizi domestici e professionali.

La rinnovata carica di fiducia del marito nei suoi confronti le ha permesso di riap-propriarsi della sua personalità, anzi di liberare una determinazione a chiarire le sue posizioni che hanno di fatto sbalordito il marito.

Non chiudersi nel guscio del proprio stato, ma veder sempre più in là, per affrontare la malattia come una prova. Ci si sente chiamati a dare, a immettere energie nuove con ragionamenti su stessi e la propria esistenza.

Ci sia illuminante ancora il nostro Ezechia, posto di fronte alla imminente conclusio-ne della propria esistenza piange, capisce la sua debolezza nonostante tutte le pos-sibilità tipiche di un re. E allora che cosa fa? Comprende ciò che ha davvero significa-to e si rende dono e servizio per gli altri e da lì il suo impegno a custodire il popolo affidatogli dal Signore, educarlo secondo la Legge per dare esempio di coerenza mo-rale.

L’esperienza del dolore l’ha reso essenziale, diremmo capace di rilanciarsi senza sbavature solo con ciò che è essenziale per una elevata qualità di vita.

4 – La malattia, autoesame e verifica del vissuto È la ripresa di quanto detto a proposito già di Ezechia che possiamo allargare alla storia di Giovanni. Come lui quante persone purtroppo, per gravi malattie passano giorni, settimane se non mesi in una stanza di ospedale o casa di cura dove lucida-mente ripensano ai propri trascorsi con domande e riflessioni. Restare fermi per lungo tempo è occasione per una profonda e aperta riflessione su di sé, sul proprio agire, su quanti per complessi motivi hanno delle valutazioni verso la persona.

Come si comprende la necessità di un supporto, un supplemento di umanità attorno a chi vive il tempo della sofferenza perché divenga tempo propizio per la revisione di se stessi.

Diremmo con termine evangelico: tempo opportuno di Conversione. Più che mai la funzione di un assistente spirituale o di altre figure attente al bene della persona fanno da tramite positivo verso coloro che vivono il tempo del dolore non isolandoli, facendoli sentire coinvolti nella loro totalità.

Abbiamo a più riprese preso spunto dalla Bibbia interpretando la malattia come pai-deia, educazione a una vita dove emerge la vera identità profonda di ciascuno: non siamo solo un corpo materiale, siamo unità tra ciò che appare e va curato con la medicina scientifica e ciò che realmente emerge da questa esperienza e va seguito con la medicina della vita interiore.

Luciana, non voleva spegnersi senza aver consegnato a qualcuno di cui aveva fiducia, la storia della sua esistenza perché fosse sempre viva nella mente e nei ricordi di al-

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tri. è il senso della memoria che non va mai perduta. Non diciamo forse che i nostri morti vivono sempre dentro di noi e che una persona è davvero morta non quando finisce al camposanto, ma quando di quella persona scompare completamente il ri-cordo della sua esperienza di vita?

5 – Il corpo e la scoperta dello spirito È la continuazione di quanto affermato al punto precedente. Vorremmo riportare un fatto. Avevo conosciuto una signora anziana, sola, senza figli aveva due nipoti che si prendevano cura di lei ma erano anche loro anziani e la signora Margherita superava di cento anni di età. Quello che colpiva erano due modalità della sua quotidianità: la preghiera e la sobrietà.

Ogni volta che si andava a farle visita teneva in mano la corona del Rosario, sgranava e pregava per tutte le intenzioni proprie e di altri e la sua giornata era una continua preghiera, un’elevazione della propria mente e dei propri pensieri verso Dio e la Madonna di cui era assai devota.

La sua abitazione e il suo modo di vivere erano nell’estrema semplicità senza molti oggetti comuni che a lei poco importavano, a iniziare dal televisore. Che significa tutto questo? Il tempo è un dono, essere sobri ed essenziali significa scoprire che in questo tempo ciò che conta è la nostra personale volontà di dare, di costruire non solo all’esterno ma dentro di noi una sicurezza: non siamo solo un corpo destinato a perire, siamo immagine di Dio, figli del Padre chiamati a una qualità di vita ben oltre le cose materiali.

La scoperta della dimensione spirituale di ogni persona può anche avvenire durante una malattia, anche spesso per chi è a contatto con ammalati. Essi dicono tra sé:

Che cosa resta di me se non riuscirò a uscire dai miei malanni, sento che le for-ze svaniscono, ma dentro mi sento anche chiamato da qualcuno più grande che mi dà fiducia.

È la dirittura etica dell’appartenenza al Creatore. Quanto più svaniscono i sogni co-struiti sulla nostra efficiente capacità di tutto fare e risolvere, quasi si fosse inattac-cabili al male, tanto più si comprende il vero, l’autentico. Non rimaniamo chiusi nei nostri schemi e non illudiamoci con i progressi medici che allungano la vita e ne mi-gliorano la qualità fisica e sociale, ma lasciano sempre di fronte alla vera apparte-nenza: essere figli di Dio chiamati a condividere una vita oltre questa vita.

La malattia permette di comprendere questa struggente realtà personale. Più risco-priamo dentro di noi l’interiorità, l’unicità della nostra vita e più viviamo un rinnova-to rapporto con noi stessi senza esaltare il corpo di carne e senza cadere in uno spiri-tualismo completamente avulso dalla corporeità.

6– Vivere la malattia senza paura Se ci facciamo una domanda a bruciapelo:

Hai timore di ammalarti, non hai paura di prenderti una malattia considerata

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l’età, il tipo di vita e tanti piccoli o grandi pericoli in cui vivi?

Una risposta non facile, anzi molto complessa perché rispondere istintivamente che non ci si pensa nemmeno è una parziale verità. La malattia è alla portata di tutti se non altro perché si incontrano spesso persone malate, magari anche all’interno della propria famiglia. Nessuno può affermare con sicurezza di non ammalarsi o potersi ammalare anche se si ha una perfetta salute.

L’apparente inattaccabilità ai malanni è propria di chi conduce una vita molto agiata e non manca di mezzi per prevenire ogni genere di malattia dovuta a trascuratezza o mancanza di cure.

Il corpo è debole e in progressivo anche se lento decadimento. Fin già da giovani a un certo punto ci si accorge di non poter correre e rendere nello sport come pochi anni prima quando si aveva venti o venticinque anni. E così anche sul lavoro e nel di-sbrigo di attività anche intellettuali.

Tutti siamo in un cammino di decadimento, proprio per questo va rinnovata nell’animo la motivazione a vivere accettando le varie stagioni che il ciclo naturale riserva. Non è possibile, o quanto meno, è imprudente pretendere dal proprio corpo ciò che solo qualche tempo prima poteva dare o rifare errori nella conduzione del proprio vissuto.

La motivazione a vivere è quella che ci rende capaci di accettarci per quello che sia-mo e non per quello che vorremmo essere. Pensiamo alla testimonianza di Gabriella, quando si è accorta di essere stata colpita dalla sclerosi multipla non si è arresa, ha voluto con alti e bassi caratteriali, cercare di realizzare se stessa con le sue reali po-tenzialità.

Non arrendersi, avvertire la motivazione che spinge ad amare, apprezzare, valorizza-re la vita per quello che offre, consapevoli che siamo in cammino.

Per chi crede nella redenzione operata a Cristo sulla croce assumendo su di sé il pec-cato del mondo, le sofferenze inflitte dai peccatori condannandolo ad una morte in-giusta vale quanto scrive San Giovanni Paolo II in Salvifici Doloris:

Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo hanno davanti agli occhi il mistero pasquale della Croce e della risurrezione, nel quale Cristo discende, in una prima fase, sino agli ultimi confini della debolezza e dell'impotenza uma-na: egli, infatti, muore inchiodato sulla Croce. Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua elevazione, confermata con la forza della risurre-zione, ciò significa che le debolezze di tutte le sofferenze umane possono esse-re permeate dalla stessa potenza di Dio, quale si è manifestata nella Croce di Cristo. In questa concezione soffrire significa diventare particolarmente suscet-tibili, particolarmente aperti all'opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all'umanità in Cristo. In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell'uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua

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potenza. Con ciò si può anche spiegare la raccomandazione della prima Lette-ra di Pietro:

«Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome »(75)

Dietro a quello che possiamo umanamente dire “assurdità” del dolore, c’è un disegno d’amore, una prospettiva talmente grande che la stessa mente fatica a comprendere. E’ il disegno di Dio, nessuno deve sentirsi isolato, abbandona-to, dimenticato perché Gesù è maestro di vita proprio nel saper offrire la sua sofferenza per liberarci dal peccato.

Ciò significa imparare a vivere e apprezzare la vita nonostante le sofferenze, nonostante le debolezze perché criterio “giudicante” non divenga l’efficienza e la bellezza di un corpo che è solo illusione, ma la fortezza e la solidità interiore. La risorsa dello spirito rende la vita un’offerta d’amore utile per costruire la ci-viltà dell’amore, il Regno di Dio in mezzo agli uomini.

7 – Non colpevolizzarsi e colpevolizzare per il male Pensiamo a Tobi, poteva sentirsi forse in colpa perché, dormendo in estate sotto il muretto di casa, non si era coperto il viso e aveva avuto sugli occhi gli escrementi degli uccelli che gli procurarono la cecità? Questa era sicuramente la lettura e la di-chiarazione della moglie, ma a che serve cercare un colpevole per la malattia e ma-gari trovarlo in se stessi o in qualche azione?

Non è grande consolazione, semmai è motivo di lamentazione e sfiducia nelle pro-prie possibilità. Peggio ancora trovare chi rinfaccia alla persona ammalata il fatto che aveva mangiato cibi inadatti, consumato troppo alcool o fumato eccessivamen-te.

Quando poi non diventa addirittura una cantilena quasi che non si accetti la situa-zione fino al punto da far sentire in grave disagio chi già vive la malattia. E che dire di quanti subiscono incidenti, spesso anche a causa di errori e imprudenze proprie e al-trui?

Occorre un’opera di revisione dei propri comportamenti, del modo di agire così da far sentire la persona ammalata accettata e valorizzata con la possibilità di guarire e ristabilirsi. Pensiamo anche a Giovanni, mai gli abbiamo detto di aver sbagliato a far-si in quel modo. Lui stesso se n’era pentito, ora però la vita andava vissuta e biso-gnava saper chiudere una pagina per aprirne un’altra.

Nessuno ha il diritto di formulare giudizi di questo genere, anche perché dentro cia-scuno esiste l’istinto di sopravvivenza, la volontà e la tenacia per combattere contro le malattie. Se qualcuno si rende conto di sbagliare in alcuni casi ha possibilità di cor-reggersi e in altri ha l’illusoria convinzione di poter farla franca, perché: tanto si ammalano gli altri, io no.

Ora in questo scenario è necessario saper vedere il bene della persona. Al primo po-

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sto c’è la serenità e la tranquillità dell’animo perché non si può affrontare una grave malattia, una sofferenza se si è inquieti, agitati o tempestati da dubbi e critiche con-tinue. Così si finisce per colpevolizzarsi e basta. La causa conta per capire la patolo-gia, non per squalificare l’ammalato. Fondamentale è l’aiuto dei familiari e di chi as-siste nel trasmettere la volontà di superare l’autocondanna sterile e inutile.

8 – Non perdere il senso della positività Quando non si sta bene nel corpo e nella propria psiche, tutto appare al negativo. È un po’ come mettere una lente blu per vedere tutto azzurro anche dove c’è il bian-co. Così la malattia fa disprezzare quanto c’è attorno anche se funziona.

Gabriella, inizialmente aveva sfiducia in tutti a iniziare dalle strutture sanitarie della sua zona e voleva incontrare altri medici della Città. Un senso di sfiducia ma anche di negatività perché non si accetta di essere ammalati e si tende a vedersi al negati-vo con niente che va bene.

Ne consegue tanta scontentezza anche con le persone di casa, per il cibo, il lavoro, la presenza di una persona piuttosto che di un’altra.

Il corpo è spesso colpito pesantemente, ma non siamo solo carne e ossa e quindi è il momento di allargare l’orizzonte della vita e apprezzare quanto di positivo c’è attor-no.

Ricordo il disagio di un anziano in casa di riposo, non andava bene nulla, era insoddi-sfatto dell’ambiente e degli altri ospiti. Unica soluzione fu farlo rendere conto della realtà. Da solo in casa chi l’avrebbe seguito passo a passo con il cibo adatto, le cure a tutte le ore del giorno, come prescritto dal medico, la fisioterapia ogni mattina, il cambio vestiti programmato, il bagno assistito e l’attenzione di alcuni volontari che quasi ogni giorno gli leggevano il giornale e lo facevano parlare sugli argomenti fatti conoscere?

Era chiaramente uno sfogo, non aveva ancora elaborato la casa di riposo e il suo precario stato di salute. Ecco non trasformiamo la malattia in una sorte di male che va a ricadere genericamente su tutto.

Vedere al positivo è recuperare dentro di sé qualche risorsa per affrontare la vita col desiderio di crescere e impegnarsi ad andare avanti anche con la malattia.

9 - La relativizzazione del tempo Il ritmo della giornata di ciascuno è a dir poco vorticoso. Si gira e si corre per seguire tante scadenze, sembra non se ne possa fare a meno. Ebbene quando ci si trova im-provvisamente infermi per malattia o infortunio, c’è un radicale cambiamento.

Il tempo sembra non passare mai, le scadenze più non esistono e ci si trova in un’altra dimensione esistenziale: la relativizzazione.

Anzi proprio da infermi si ha modo di riappropriarsi del vissuto, di rivedere i tratti dei propri comportamenti e capirne maggiormente le finalità. Essere malati equivale ad avvertire l’essenzialità di ciò che passa perché non ci si disperda recuperando il

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significato del vivere;.

10 – La caduta dell’illusoria salute perfetta Alle sicurezze oggi diffuse sul piano dei servizi e dei ritrovati tecnologici si aggiunge quello di un corpo inattaccabile, sempre efficiente, dove anche il peso degli anni che passano sembra non scalfire la resa corporea. Ebbene quando un dolore, una cadu-ta, un malessere colpiscono questo illusorio stato, allora si deve: accettare e guarda-re nella debolezza accettare di essere valutati da altri.

Allora tutte le sicurezze cadono e si entra in crisi d’identità con mancanza di motiva-zioni. Emerge l’io interiore, lo stimolo a dare significato e valore alla vita oltre il pro-prio corpo. È il cammino di fede, la consapevolezza di essere creature, figli di Dio, chiamati a un incontro ultimo con Lui.

11 – Assecondare o guidare ad accettarsi? Per Mara è giusto assecondare, essere disponibili, dare ascolto e non far mancare cure e attenzioni a Bianca, ma è bene trovare anche un equilibrio, un punto di rife-rimento certo: il bene di tutti. Ora è proprio su questa realtà che siamo messi in cri-si, la malattia sconvolge i piani di vita di una famiglia, crea tante tensioni, muove molte risorse, anche sul piano economico, per venire incontro a tutte le esigenze di chi sta male.

Questo indica la necessità di ricercare un equilibrio tra quello che bisogna fare e su-bito (pensiamo alle cure mediche immediate) e ciò che è spesso frutto solo del disa-gio e della mancanza di affetto.

Spesso vi sono persone sofferenti che non hanno necessità immediate se non qual-cuno che stia loro vicino per ascoltarli, per condividere un po’ di tempo nel tenerli per mano, nel guardarli con il sorriso.

Bianca era assai esigente ma la figlia, assai remissiva, non doveva divenire succube ma prestare un servizio senza rimanere ammalati a propria volta.

Significativa è anche la rielaborazione del lutto di Mara, la figura incombente della madre era ovunque, di notte perfino le pareva che la chiamasse per darle l’acqua e lei esitasse pensando alle reazioni della madre oramai defunta da tempo.

È necessario un distacco non solo emotivo e psicologico, ma reale e alternativo; una persona deve poter vivere con la malattia, affrontandola, mettendosi a servizio, ma deve vivere la sua vita, nutrire i propri interessi e trovare spazi per la propria ricarica fisica e morale altrimenti non si sa più chi sia il vero ammalato.

In questo lo splendido insegnamento della Regola benedettina, che mette i malati al centro, assicura ogni comodità, ma nel frattempo sani vivono la propria vita, non devono uniformarsi ai malati che hanno un’altra regola di vita modulata secondo le loro necessità primarie.

12 – La verità ci farà liberi È quanto dice il Vangelo, ma non è solo una bella frase di circostanza per terminare

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il nostro testo. Costituisce il programma non solo terapeutico, ma etico e umana-mente sostenibile con una persona ammalata.

Dire tante storie, fare voli pindarici per non dire la verità, per non affermare la reale consistenza di una malattia, per non favorire la presa di coscienza del malato e do-mandarne la collaborazione è devastante.

Tutto va misurato sulla persona, il soggetto è al primo posto, ma è bene utilizzare la progressiva ma chiara linea di una comunicazione sciolta, garbata, ma efficace.

Oggi non è più possibile mentire per il “bene” della persona, o minimizzare per evi-tare spaventi e depressioni, perché i mezzi di comunicazione mettono le informazio-ni mediche e terapeutiche alla facile portata di tutti e rende inutile mistificare la rea-le portata di una malattia.

Il buon Ezechia si era girato dalla parte del muro per non farsi vedere a piangere, di-sperato. Gabriella faceva lo stesso durante il pellegrinaggio a Lourdes e non sappia-mo Giovanni quanto abbia pianto amaramente per il suo male.

La verità libera dalle illusioni, anche se dispiace e fa reagire con il pianto e la tristez-za, dà però slancio e motivazioni a lottare, a cercare il bene possibile in qualsiasi si-tuazione.

E qui è importante la mediazione medica, familiare, amichevole e sociale. Il malato non va lasciato a se stesso. Ciascuno deve trasmettere la spinta a curarsi e a lottare perché il male si possa controllare e vincere,questo non è sempre possibile, anzi si va incontro a volte al percorso che conduce verso il termine della vita, e allora che fare?

Semplicemente stare accanto con il calore di una presenza, la comunicazione non verbale di uno sguardo, la mano tesa che non si ritrae e il conforto di una parola continua di fiducia.

Certo se siamo in un contesto di fede è qui il momento che la verità ci liberi per dav-vero nell’incontro con le sofferenze di Cristo attraverso il sacramento dell’Unzione, sacramento per la vita non per la morte, perché si viva in modo dignitoso e fiducioso il momento della conclusione del tempo terreno.

Qui entra anche in gioco la sensibilità di ogni persona, la malattia rende ciascuno at-tentissimo a ogni particolare. Restando immobili si ha un orizzonte di sguardi e di movimenti molto limitato e si pone la massima attenzione a ogni piccolo segno a chi è in uno stato grave.

Occorre tatto e finezza di movimenti per diventare capaci di accompagnare chi sof-fre e per prevenirne le richieste. L’assistenza deve fare del servizio un dono che rica-rica chi soffre soprattutto se un corpo va spegnendosi non manchi l’amore.

Non bisogna colpevolizzare, far pesare le proprie fatiche e mettere il malato in con-dizioni di doversi difendere da chi non lo sa amare e si limita alla cura della malattia.

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8 Conclusione

A questo punto speriamo di non aver rattristato, ma contribuito a una riflessione su un argomento davvero di grande portata, questo è un piccolo e modesto contributo raccolto dalla mia esperienza di vita e ringrazio le persone incontrate per il dono del-la loro testimonianza.

Infine vorrei aggiungere un particolare esperienziale: nel momento in cui mi accin-gevo a chiudere il testo un incidente in bicicletta mi ha aperto la prospettiva della sofferenza. È vero, si fatica ad accettarsi infortunati e ricoverati quando pochi istanti prima ci si sentiva in perfetta forma. Varcare il confine tra salute e infermità è non solo facile, ma anche imprevedibile. Vivere l’esperienza della dipendenza sanitaria ed assistenziale permette di scoprirsi realmente quello che siamo: deboli nel corpo, ma forti nello spirito, motivati a riprendere il cammino della vita aumentando il sen-so dell’umile accettazione della propria fragilità.

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9 La collana Itinerari d’amore

È una collana su amore, sessualità e amicizia, che si mostra insolita se non altro per-ché scritta da un sacerdote, don Paolo Gessaga, che non vuole fare del catechismo ma aiutare a comprenderne significati e conseguenze delle scelte di vita in un mo-mento in cui sembra predominare la precarietà.

L’idea è partita dall’imponente documentazione che don Paolo aveva raccolto nella sua attività in un centro di consulenza familiare e dalla sua pastorale parrocchiale e caritativa.

Ogni libro affronta un aspetto della comunicazione soprattutto tra le coppie e con i figli partendo dalla riflessione su casi concreti, cerca di illuminarli con la luce della fede che attraverso il dono di sé stessi aiuta a superate le difficoltà.

Nella collana sono già stati pubblicati:

Scoprirsi e farsi scoprire Cammini personali e di coppia. Vivere il distacco. Testimonianza di vita di coppia Dalle coppie alla coppia. Racconti biblici di vita in coppia Corpo: volontà di donarsi o piacere di consumarsi. La sessualità anche fuori della

vita di coppia Educare, educarsi, essere educati La compagnia della solitudine Rivivere il distacco Vivere il vangelo in famiglia, spiritualità del padre nostro

10 L’autore

Don Paolo Gessaga è sacerdote paolino, con diverse esperienze pastorali di ascolto e consulenza sulla famiglia e di parrocchia. Ha poco più di cinquant'anni, di origine va-resina e con studi sulla morale familiare. Attualmente parroco a Legnano e autore di altre pubblicazioni sempre sul tema della comunicazione a partire dal vissuto di per-sone e famiglie da lui incontrate nel ministero.

Per informazioni scrivere a: [email protected]