Espressivo 4

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Espressivo Rivista di Arti Terapie, Musica e Cultura a cura del Centro Studi Musicoterapia Alto Vicentino 4 SPECIALE 8 MARZO 2016

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Rivista Arti Terapie, Musica e Cultura a cura del Centro Studi Musicoterapia Alto Vicentino

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EspressivoRivista di Arti Terapie, Musica e Cultura a cura del

Centro Studi Musicoterapia Alto Vicentino

4SPECIALE 8 MARZO

2016

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PERIODICO A CURA DEL CENTRO STUDI MUSICOTERAPIA ALTO VICENTINOEDITO DA ALMAR PRODUZIONI MUSICALIASSOCIAZIONE CULTURALE MUSICA MODERNA

DIRETTORE RESPONSABILERICCARDO BRAZZALE

COMITATO DI REDAZIONEGIORGIO DE BATTISTINIGIULIA FABRELLOEVA-MARIA GIESLERLUCIA LOVATOSTEFANO NAVONE

SEGRETERIA DI [email protected]

CENTRO STUDI MUSICOTERAPIA ALTO VICENTINOC/O ISTITUTO MUSICALE VENETO “CITTA’ DI THIENE”VIA CARLO DEL PRETE, 4336016 THIENE (VI)0445 364102 0445 826235FAX 0445 821916WWW.ISTITUTOMUSICALEVENETO.IT

REGISTRATA PRESSO IL TRIBUNALE DI VICENZA IN DATA 17.05.2013 N° REGISTRAZIONE 1287

ESPRESSIVO

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“La musica non è un’arte mauna categoria dello spiritoumano.”Nietzsche Friedrich

INDICEEditorialeCome le donne...di Emily Dickinson

Chiaroscuri femminili nel Jazz.di Carlotta Scalco

Nei giorni di silenzio c’è un senso di te.di Natashja Mazza

Il sapere che sente, il sentire che curadi Elisa Mazzella

La quadratura del pentagramma: riflessioni verso una rete filosofica della musica.di Amelia Mastrodonato

Convegni, Seminari e corsi di specializzazione.a cura di Evi-Maria Giesler

Bibliografia completa

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E D I T O R I A L El a r e d a z i o n e

Come le donne...“Come le donne

le foglie si scambiano

confidenze acute.

A volte sono cenni,

a volte sono illazioni portentose.

Foglie e donne nei due casi

raccomandano il segreto,

inviolabile patto di fiducia”.

Emily Dickinson

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[email protected]

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CHIAROSCURI FEMMINILI NEL JAZZDI CARLOTTA SCALCO, CHARLOTTE

“E’ brava, suona bene come un uomo”.

Così la critica tesseva le lodi di Rita Marcotulli all’inizio della sua carriera. La pianista e compositrice romana, antesignana contemporanea del panorama jazz italiano al femmi-nile, è stata una delle prime a superare la cortina di ferro di un ambiente maschilista per definizione. Affermazione critica che certamente ha lo scopo di valorizzare le indiscutibili doti artistiche della Marcotulli ma che, con un velato sarcasmo, fa affiorare uno degli aspetti chiaroscuri della figura femminile anche nell’ambito musicale ed in particolare nel jazz. Nella storia, in tutti i contesti culturali, l’archetipo femminile è sempre stato quel-lo di moglie e madre, preferibilmente casalinga. Una donna, quindi, ha storicamente avuto inferiori chance rispetto ad un uomo di esprimere la sua creatività e di formarsi in tal senso. Le donne nell’immaginario collettivo cantano e da una certa epoca in poi suo-nano il piano. Il canto infatti è un’espressione tipicamente femminile, primordiale, la nin-na-nanna, più istintivo che suonare uno strumento e non esige necessariamente uno studio alla base. Ed emergere da questo cliché soprattutto in uno scenario discriminato come quello afroamericano non dev’essere stato propriamente un “gioco da ragazzi”.

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Il jazz trae le sue origini proprio dal movimento musicale afro-americano a cui è molto somigliante soprattutto nelle prime fasi caratterizzate da una combinazione di elementi musicali tribali con influenze blues, armonie colte tipiche della musica europea, poliritmi sincopati del rag-time, e connotazioni malinconiche degli spiri-tuals. Questo blend ne fa il più importante fenomeno musicale del 1900 ponendo-si come punto d’incontro tra la musica nera e la musica bianca. Nasce ai tempi dell’apartheid americano, nei bordelli di New Orleans in Louisiana, nei bar di Saint Louis, nei teatri di Kansas City, in un crogiuolo etnico di bands tutte al maschile. Nel 1913 un giornale stampa per la prima volta la parola “jazz” consacrandone Buddy Bolden come padre fondatore e L’Original Dixieland Jass Band come in-ventori ufficiali. Solo 15 anni più tardi però, con l’emergere prepotente dello swing, calcano le scene le prime due cantanti commercialmente degne di nota. Mamie Smith e Bessie Smith. Ed è New York il palcoscenico più succulento del-l’era dello swing, come descrive Sarah Vaughan durante un’intervista “Musica straordinaria ovunque e contest fra tutti: orchestre,cantanti,solisti. Era una lotta senza quartiere”. In una New York nel periodo del proibizionismo americano infatti spuntano gli Speakeasy, come il Metropolitan, locali con bevande alcoliche servite illegalmente e nascono i primi programmi radiofonici che trasmettono proprio swing jazz. In questo substrato maschile spiccano due figure femminili che faran-no la storia del jazz di tutti i tempi Ella Fitzgerald e Billie Holiday. Entrambe aveva-no alle spalle un’adolescenza complicata, ma mentre la prima l’aveva metabolizza-ta grazie alla sua carica vitale, la seconda non riuscì mai a liberarsene rimanendo sempre in bilico tra il palcoscenico, il mondo degli stupefacenti ed il carcere, infon-dendo così nei suoi brani la sua inconfondibile vena dolorosa e sarcastica. La soli-tudine è un elemento cardine che accomuna queste spettacolari artiste con le al-tre donne del jazz come la grintosa Helen Humes, la precisa Maxime Sullivan, la prima vocalist bianca solista Helen Forrest, la spensierata Anita O’Day, l’abbaglian-te Dinah Washington, la versatile Carmen McRae, l’ipnotica Helen Merrill, la raffina-ta Sarah Vaughan, e la creatrice della prima girlband mulatta Etta James. Solitudi-ne fatta di un’infanzia vissuta all’epoca della segregazione razziale americana, un’adolescenza priva di contesti femminili valorizzanti, matrimoni sbagliati e conse-guente dipendenza da alcool e stupefacenti. Ancora ritorna il chiaroscuro, come un mantra. Talenti puri che affiorano dal caotico sottofondo androgino. Un secon-do elemento che accomuna queste donne è lo strumento che suonano, o appa-

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rentemente non suonano. Sono infatti tut-te e solo cantanti. Qualcosa è cominciato a cambiare dopo il be-bop, con il cool jazz prima e il free jazz poi. Termina gradual-mente l’egemonia cantabile e ballabile del-lo swing, fortemente maschile, e prende piede il moderno interplay che in qualche modo democratizza il jazz fino ai giorni no-stri e lo rende un tipo di musica raffinato.

In questi ultimi 30 anni sono nate scuole sempre più significative che unite alle muta-zioni storiche e sociali hanno creato occa-sioni preziose per la figura dell’artista fem-minile. Lo studio anche in questo caso di-venta l’unico modo per una donna per uscire dalla discriminazione di genere. Que-st’evoluzione ha permesso alla scena jazzi-stica di arricchirsi di molte notevoli artiste che si sono imposte non solo come can-tanti ma anche e soprattutto come musici-ste. La visione femminile del jazz, decisa-mente progressista, non dimentica però i modelli tradizionali. Come ad esempio in Scandinavia con la famosa cantante Rad-ka Toneff e la compositrice di colonne so-nore Sisdel Endresen. Anche la compositri-ce, pianista ed organista statunitense Car-la Bley, pioniera del free jazz americano al femminile è di origini scandinave. Appar-tengono al panorama jazz americano arti-ste del calibro di Marilyn Mazur, polistru-mentista premiata nel 1995 con il Jazzpar Prize, uno dei più importanti riconoscimen-

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ti jazz internazionali, Maria Schneider compositrice e musicista insignita del Gram-my Awards nel 2005 come “Best Large Jazz Ensemble Album” e la flautista jazz Ni-cole Mitchell prima donna a dirigere l’Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM). Insieme a loro spiccano la massima interprete della musica d’improvvisazione Cassandra Wilson, vincitrice di diversi Grammy, l’eclettica Espe-ranza Spalding considerata l’unica donna nel panorama jazz mondiale capace di domare il contrabbasso ed essere contemporaneamente una virtuosa cantante de-finita dal New Yorker come “colei che ha svecchiato l’ambiente jazz facendolo en-trare negli iPod dei ragazzini” e Melody Gargot, eccellente musicista che in seguito ad incidente che le ha lasciato danni irreparabili alla memoria, vista e udito, scopre gli effetti terapeutici della musica diventando forte sostenitrice della musicoterapia. Per non parlare delle famosissime Diana Krall e Rachelle Ferrell. Solo per citarne alcune.

La scena italiana jazz è ancora molto legata alla figura della cantante. Ma qualcosa negli ultimi anni si sta muovendo. Nel 2013 il Serravalle Jazz Festival prevede un palcoscenico esclusivamente femminile. Nel 2005 nasce il Festival Lucca Jazz Don-na che ha come obiettivo la valorizzazione della donna musicista, non solo come cantante, ma più verso compositrici, arrangiatrici e strumentiste che faticano ad imporsi in questo panorama non proprio avanguardista. Lo scenario jazz italiano si distingue in tutto il mondo anche attraverso donne di grande acume. Oltre alla già citata Rita Marcotulli celebre e celebrata in tutto il Vecchio Continente, anche la sassofonista e compositrice Ada Rovatti ora presente nella scena jazz newyorkese e citata dal Musica Jazz come “uno dei migliori talenti emergenti”, la cantante Tizia-na Ghiglioni definita la “First Lady” del jazz contemporaneo e presidente della com-missione artistica degli Italian music Awards nel 2009, la sassofonista Carla Marcia-no che con il suo modo di essere musicista oltrepassa le distinzioni di sesso pren-dendo come sua fonte d’ispirazione John Coltrane, la contrabbassista Silvia Bolo-gnesi, Patrizia Landi direttore artistico del Festival Lucca Jazz Donna, Roberta Gam-berini definita dal Golden Globe “vero successore di Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e Carmen McRae.

La mia personale visione è uno spaccato della situazione italiana. Cantante e unica rappresentante femminile di uno storico gruppo jazz, presente nella realtà locale da

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oltre 30 anni, osservo chiaramente come il panorama jazz vi-centino sia rimasto in disparte rispetto alla ventata di femmini-lità che ha contraddistinto negli ultimi anni la scena europea. L’arma vincente, per quanto mi riguarda, è stata ed è tutt’ora lo studio. Oltre alla nota e consolidata scuola musicale vicen-tina Thelonious anche altre realtà musicali hanno aperto le porte allo studio della musica jazz. Non a caso presso il Con-servatorio A. Pedrollo di Vicenza è stato da poco attivato il percorso didattico di Canto Jazz. Studiare mi ha permesso di raffinare la mia tecnica e mi ha fornito quell’apertura men-tale necessaria per superare senza polemiche i pregiudizi sessisti. La mia determinazione si nutre della forte passione che ho per questo genere multisfaccettato, sfacciato, anti-convenzionale e profondamente introspettivo e sono convin-ta che una donna riesca facilmente, per sua indole genetica, ad abbinare la competenza tecnica all’espressione artistica.

Il jazz è chiaroscuro, definizione che si concilia perfettamente con quella di Donna. Jazz e Donna continuano insieme que-sta opera creatrice in uno sviluppo artistico che raggiunge vette sempre più virtuose.

Per concludere ecco una barzelletta,da brava jazzista: “Due amici si incontrano e uno dice all’altro: “Ieri ho visto Dio”. “E com’era?” domanda l’altro. Risposta:“She was Black”.

Carlotta Scalco, Charlotte, cantante jazz

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NEI GIORNI DI SILENZIO C’È UN SENSO DI TE

DI NATASHJA MAZZA

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La sensibilità femminile nella relazione di cura

“…Cantava, suonava, parlava e intanto i miei occhi e le mie orecchie cercavano di non perdere o tralasciare nulla del significato di tutto quel mondo che, in quel momento più che in altri, mi stava completamente inglobando. Osservavo l’am-piezza dei suoi gesti e la loro frenesia, la risata farsi disforica e la sua voce sem-pre più acuta e squillante; pensavo: “oggi è un fiume in piena”; mi sembrava inesauribile. Seduta accanto a lei, vicino al pianoforte, sentivo l’esigenza di dar-le tutto lo spazio e il tempo di cui aveva bisogno per prendere confidenza non solo con la varietà di suoni che si trovava lì a sperimentare, ma, in particolar modo, con chi li stava producendo: Lei stessa. Era la Sua voce a risuonare, la Sua mano a produrre ritmi scomposti e irregolari, la forza del Suo braccio a pro-durre notevoli variazioni di intensità, l’oscillazione del Suo busto a seguire, istinti-vamente, una pulsazione da Lei creata:

era Lei in tutte le sue potenzialità ‘residue’ dopo il trauma.

Guardandomi e sorridendomi, mi chiamava ad interagire con lei e raggiunto l’apice dell’energia, dopo 25 minuti dall’inizio della seduta, la sua produzione si esauriva insieme alla mia in un silenzio denso, ovattato, appagante. In questo silenzio lunghissimo, mi sembrava che tutto pulsasse intorno a noi, l’aria era di-ventata calda e quasi appiccicosa, i suoi occhi si erano arrossati e il suo corpo si era rilassato sulla sedia;

mi aveva resa complice della sua emotività.

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A quel punto ho sentito di dovermi alzare, di fare due passi intorno agli strumen-ti, di spostarne qualcuno per poi rimetterlo nella posizione esatta in cui era, mi sono stiracchiata e Lei intanto mi guardava, allora mi sono riseduta; l’unico suo-no che ora si sentiva era il nostro respiro. Non c’era nessun pensiero che mi rim-bombasse in testa in quel momento, non c’era nulla che pensassi di dover fare,

eravamo l’una di fronte all’altra, non c’erano né la terapista e né la paziente, in quel momento avvertivo solo la densità della comprensione,

della fiducia reciproca e dell’alleanza tra noi due.

Nei minuti successivi percepivo che la carica emotiva si stesse ridimensionan-do e che l’aria intorno stesse ritornando impercepibile; Lei fece un sospiro qua-si di sollievo, le sorrisi e in quel momento le parole uscirono prima che potessi controllarle e Le chiesi:

“Come stai?”.

Nonostante Lei lo sapesse fin dal momento in cui, alle 10 in punto, era entrata nella stanza, con questa domanda l’avevo, inconsapevolmente, indotta ad an-dare a ricercare in maniera più mirata quali emozioni avessero fatto da substra-to e spinta al suo comportamento sonoro.

Alla mia domanda sgranò gli occhi, serrò le labbra, si prese del tempo.

Ad un certo punto si avvicinò al suo tablet e con mia sorpresa, non avendolo mai fatto prima, selezionò nella casella delle emozioni le seguenti:

ho paura, sono preoccupata, sono arrabbiata.

Stetti in silenzio e avvicinai la mia sedia alla sua. Mi guardava e mi confessava di star male. Nessuna parola da parte mia sarebbe servita, ero semplicemente lì con lei in quel momento a contenere e sostenere il suo macigno emotivo. Lei abbassò la testa e si guardò le mani tenute insieme l’una dentro l’altra, allora le cantai il suo nome. Con una lentezza carica di emozione alzò la testa e spalan-cò gli occhi, si avvicinò al suo tablet e scelse una canzone lasciandola andare fino all’ultima parola:

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‘A un passo dal possibile, a un passo da te.

Paura di decidere, paura di me, di tutto quello che non so, di tutto quello che non ho.

Eppure sentire nei fiori tra l’asfalto, nei cieli di cobalto c’è… Eppure sentire nei sogni in fondo a un pianto, nei giorni di silenzio c’è un senso di te.

C’è un senso di te.’

Ci guardiamo, mi sorride commossa e la accompagno fino alla sua stanza, in si-lenzio…”

Frammento dell’ VIII seduta. Novembre 9, 2015.

Nascita di un percorso

Una lunga riflessione si è aperta in me quando, accompagnata Sofia nella sua camera d’ospedale, mi sono ritrovata da sola in mezzo a quegli strumenti che, in un modo o nell’altro, erano diventati anche suoi. Consentendo me di accede-re alla sua parte più dolorosa permetteva anche a Se stessa di esprimere libera-mente ciò che più la scuoteva e la rendeva in quel momento così vera, sponta-nea, ma soprattutto presente a ciò che accadeva lì, con me. Tra significative in-terazioni sonore, proposte ritmiche, momenti di ascolto, lunghi attimi di silenzio e flussi di dialoghi di difettosa efficacia dal punto di vista strettamente sintattico e lessicale, ma ben espliciti spesso nel senso e in ciò che contenevano, veniva a costruirsi in Lei un processo di elaborazione ed integrazione di un nuovo sen-so di Sé, ma, in particolare, si ponevano le basi per un’ intesa che si sarebbe rivelata, alla fine del percorso, un fortissimo strumento terapeutico. L’alleanza venutasi a creare è stata il risultato della fiducia che Sofia ha riposto prima in me e, successivamente, nei nostri incontri; riuscire ad ottenere da parte sua un così alto livello di collaborazione e compartecipazione a ciò che le veniva propo-sto è stato un importantissimo risultato.

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Una donna e la sua fisicità

Sofia è una ragazza di circa trentacinque anni che in seguito ad un considere-vole danno cerebrale si ritrova oggi a dover non solo convivere con la menoma-zione che questo ha conseguito (emiparesi destra, afasia e aprassia), ma in particolare ad accettare un’immagine di Sé inevitabilmente cambiata.

Al momento della presa in carico l’area evidenziata come maggiormente defici-taria era quella della comunicazione verbale; Sofia presentava, infatti, un’impor-tante compromissione nella produzione del linguaggio mentre la comprensione e l’elaborazione dello stesso rimanevano conservate.

Pensare che di fronte a me avessi una Donna che potesse vivere e far suo tutto quello che le accadeva intorno, che era consapevole di ciò che le era succes-so, che ragionasse sul luogo in cui era, su cosa le dicevano le persone tutto il giorno, sugli odori e i rumori che sentiva, che vivesse il dolore del confronto tra una Sé prima ed una Sé dopo il trauma e, soprattutto che non potesse buttar fuori con le parole tutto quello che pensava, mi ha spinta ad avere, come moti-vazione primaria del percorso musicoterapico, l’esigenza di creare uno spazio ragionato appositamente per lei che facesse da ponte tra il suo vissuto interno e la realtà esterna. L’inizio del percorso di Musicoterapia è stato preceduto dal-la ricerca e dall’analisi di alcuni degli aspetti principali che riguardavano la sin-tomatologia manifesta di Sofia; a priori mi interrogavo sulle possibili dinamiche relazionali che si sarebbero venute a creare. Mi chiedevo in particolare se la dif-ferenza tra la mia età e la sua (poco più di 10 anni), avrebbe inciso sul percor-

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so e in che modo; riflettevo su quale implicazione, sia positiva che negativa, avrebbe avuto essere lì non solo come sua musicoterapista ma anche donna. Come è scontato che sia, buona parte di questi pensieri sono stati accantonati nel momento esatto in cui l’ho incontrata per la prima volta.

Era seduta, i suoi occhi e il suo viso erano luminosi e pieni di vitalità, la sua risa-ta estremamente contagiosa e la sua voce scoppiettante.

Con Sofia ho svolto 11 sedute; il percorso è stato ricco, molto complesso ed estremamente vero. Considero di dover tenere necessariamente conto che la mia componente femminile abbia dato un valore aggiuntivo al percorso svolto con lei.

“Come le donne

le foglie si scambiano

confidenze acute.

A volte sono cenni,

a volte sono illazioni portentose.

Foglie e donne nei due casi

raccomandano il segreto,

inviolabile patto di fiducia”.

Emily Dickinson

Essere donna ha significato condividere con lei, prima di tutto, uno stesso codi-ce comunicativo; non dovevo impegnarmi e sforzarmi nel cercare di concepire empaticamente come Sofia vivesse sentimenti quali la rabbia, la sofferenza, la commozione o il nervosismo; pur non avendo le sue stesse esperienze e pur conoscendola appena, riuscivo facilmente a sentire il suo stato d’animo risuona-re in me, coglievo il forte senso che avesse per Lei tutto ciò che, insieme a me,

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esperiva. Nessuna parola e nessun gesto venivano esposti ed esternati per pu-ra casualità; ero della convinzione che tutto ciò che faceva corrispondesse ad un mondo emotivo molto più denso e articolato di quanto sembrava.

Inizialmente guidata da alcune indicazioni che le davo e poi via via sempre più autonoma, Sofia aveva adottato come veicolo di comunicazione la scelta di al-cuni brani musicali. Tutto assumeva un grosso significato simbolico. Utilizzare la forma canzone era diventata una sua modalità di espressione, così come la scelta di specifici ritmi, melodie e tonalità. Attraverso una corrispondenza esat-ta delle mie risposte a ciò che mi proponeva, Lei diventava consapevole di tro-vare in me una comprensione profonda e, in questa sicurezza, trovava la spinta per continuare.

Il modo in cui si vive in relazione al proprio corpo è, per la donna, un nodo di estrema rilevanza. È un rapporto intimo e personale. Con Sofia questa proble-matica era spesso presente; emergeva di frequente la sua insofferenza nel non riuscire più a gestire la propria fisicità come avrebbe voluto o come le era possi-bile alcuni mesi prima; trovava spesso il suo corpo ingombrante e non suo. Le lasciavo del tempo e dello spazio per consentirle di trovare una postura como-da che la facesse sentire a suo agio, la aspettavo, ascoltavo i suoni che i suoi movimenti producevano e decidevo intanto di riservarle quel tempo senza che questo diventasse materiale da analizzare. A nessuna donna piace essere stu-diata e scrutata quando si trova in contrasto con il proprio corpo; per questo motivo, perché comprendevo a pieno tutto quello che provava in quei momenti, io per conto mio trovavo qualcosa da fare. La mia attenzione era sempre river-sa su di lei nel caso le servisse un aiuto o inciampasse, ma intanto avevo uno strumento da sistemare, qualcosa da prendere. C’era sempre nella stanza una sedia messa fuori posto che mi tornasse utile e mi servisse da elemento di di-strazione. Poiché il rapporto con il proprio corpo diveniva il tema centrale di molte sedute, frequenti erano i momenti che Lei dedicava per criticare i suoi ca-pelli, a parer suo eccessivamente corti per via dei diversi interventi che ha do-vuto subire, o per sfoggiare un nuovo colore di smalto. Non interrompevo mai questi momenti, ma lasciavo che si esaurissero da soli; consideravo l’esigenza di Sofia di parlare di Sé parte integrante del processo terapeutico; in quegli

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istanti il sentirsi pienamente Donna e parlare di ciò che era comune solo a me e lei credo le facesse recuperare un forte contatto con una parte di Sé, quella più femminile, che spesso veniva accantonata perché sovrastata da altre pro-blematiche considerate più urgenti.

L’enfasi delle emozioni

“Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di la-sciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarsi dentro, e annaspare

per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne”.

Natalia Ginzburg, Discorso sulle donne, 1993.

Natalia Ginzburg, nel suo discorso alle donne, non poteva trovare parole più esatte per descrivere il modo in cui una donna vive le emozioni che prova. Par-lando di temperamento femminile la Ginzburg fa riflettere su quanta enfasi la donna sia portata a dare a quello che affronta nella realtà. Sentimenti quali il dolore, la rabbia, la tristezza, la rassegnazione, ma anche la gioia, la serenità, la soddisfazione, sono vissuti nel pieno della loro forza. La donna penetra nel

sentimento, lo fa in mille pezzettini e lo analizza, lo porta con sé in qualsia-si cosa faccia, non se ne distacca facilmente, non lo lascia a casa, non lo accantona nemmeno per un attimo, se lo porta ad-dosso, nei suoi movimen-ti, nelle sue parole, nel tono della sua voce. La donna diventa il senti-mento che prova. Il dolo-

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re la immobilizza, la serenità e la soddisfazione la fanno invece sbocciare, po-trebbe fare dei suoi sentimenti storie infinite e ricordarle tutte alla perfezione.

Le sedute con Sofia erano cariche delle sue emozioni; era tendenzialmente por-tata ad enfatizzare la gioia e la sorpresa piuttosto che la tristezza. La soddisfa-zione che provava nel vedere qualcosa di compiuto in ciò che faceva la rende-va serena. L’euforia di cui spesso, a inizio seduta, era pervasa, andava sceman-do nella pacatezza. Sedute l’una di fronte all’altra, entro una sorta di motherese e di compartecipazione degli stati affettivi, le emozioni portate in seduta da So-fia trovavano riflesso in proposte vocali reciproche. Si venivano ad instaurare così movimenti di rispecchiamento in cui era molto difficile distinguere, se non per diversità di timbro, dove finisse la mia voce e iniziasse la sua; riecheggiava-no lì, dunque, dinamiche proprie della sinergia che si crea nel denso scambio di interazioni tra la madre e la propria bambina nel primo anno di vita. La bambi-na, infatti, sarà tanto più spinta al processo di individualizzazione quanto più fu-sionale sarà l’identificazione primaria con la madre.

La paura, la rabbia e la preoccupazione sono quelle emozioni che Sofia ha te-nuto silenti a lungo; le sfiorava spesso, ma nel momento in cui si rendeva conto di avvicinarsi troppo fino a poterle prendere se ne distanziava immediatamente perché di quel pozzo profondo Lei aveva timore. Solo quando il percorso si sta-va per concludere decise di lasciarle uscire e allora presero corpo.

Come gli occhi pieni di lacrime di una bambina che, persa in un enorme super-mercato, cerca il viso della madre o il suono della sua voce, così ugualmente gli occhi di Sofia si riempivano e sembravano smarriti nel caos delle emozioni che provava. Mentre le sue mani si accartocciavano l’una nell’altra, i suoi gran-di occhi azzurri mi guardavano; Lei non cercava una risposta; condivideva con me enormi segreti, potevo solo contenerla, ascoltarla e prolungare il nostro tem-po rimanendo lì.

La mia indole femminile, in momenti come questi, mi istigava a chiederle molto di più, ad andare molto più a fondo alla sua storia di Donna al di fuori del conte-sto ospedaliero; dovevo frenare necessariamente l’istinto di volerle dare qualco-sa in più per farle capire quanto le fossi solidale.

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Questo senso di solidarietà, anche se non esplicitato in azioni o parole, dava significato ai silenzi e alle attese.

Se hai ancora paura ridammi la mano

“…io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadia-mo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano…”

Alba de Cèspedes in TutteStorie, 1997.

Risposta al Discorso sulle donne di Natalia Ginzburg.

La Forza è l’ultimo accenno che di questa donna non posso fare a meno che riportare.

Sofia era in quel momento la sua fisicità, le sue preoccupazioni, ma anche e so-prattutto la determinazione e la forza con cui ha condotto l’intero percorso; ave-va paura, questo è vero, ma non si è rassegnata mai neanche per un istante; non ha mai voluto interrompere un incontro o opporsi a qualche mia proposta. Rideva, rideva tantissimo e a crepapelle, era spiritosa e ironica, ballava senza nessun freno, cantava senza timidezza e, in certi frangenti, è capitato che fossi io tra le due a sentirmi maggiormente inibita; il vederla in piedi, alta il doppio di me, camminare al mio fianco lungo il corridoio con spalle larghe il doppio delle mie, testa alta, padrona di quell’ambiente che le era diventato familiare e sicura e pronta per il nostro incontro, creava in me una dicotomia di sentimenti. Se da un lato ero fiera di questa donna e del suo coraggio, dall’altro la mia bambina interiore veniva richiamata. Non solo Sofia si trovava ad inciampare in emozioni o sentimenti di carattere propriamente transferale, ma lo stesso capitava a me in quanto parte attiva nella relazione terapeutica.

Sofia era un fiume in piena; utilizzava spesso il tempo che aveva a disposizio-ne per ricreare e assemblare suoni provenienti dall’esterno e gli dava una for-ma. Portando in seduta un piccolo frammento melodico di una canzone che

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giorni prima aveva sentito magari in chiesa o in altri contesti creava una conti-nuità tra la sua vita al di fuori dell’ospedale e quella dentro.

La condivisione dell’allegria, il voler rendere gli altri partecipi di ciò che stava vivendo, il voler usare la sua voce per comunicare, il suo essere estroversa, energica e fiduciosa, il suo lasciarsi accompagnare nel percorso, il permettere agli altri di accedere alla sua parte più sensibile e così lasciarsi contenere, il permettersi di abbassare tutte le difese: tutti questi sono i punti di forza.

Considerando che dopo qualche mese dalla fine del trattamento mi ritrovo spes-so a pensare a Lei e a chiedermi se stia realmente bene o se continui a difen-dersi, sono convinta nel credere che al di là della metodologia musicoterapica adottata come modello di lavoro, si sia venuto a creare un legame relazionale fortemente motivato dal senso di unione affettiva e dalla complicità che emerge-vano e diventavano ben percepibili quando la mia sensibilità e la sua si veniva-no ad incontrare in quel luogo, in quel giorno e in quell’ora.

In tutto questo

C’è un Senso di Te

BIBLIOGRAFIA

Pur non avendo citato nello specifico nessun testo o autore, diversi sono i richia-mi teorici su cui il mio pensiero si basa:

Cotugno A., Due in una. Dalla relazione madre-figlia alla relazione terapeutica donna-donna, Boocklet, Milano, 1999.

De Cèspedes A., N°6/7 in TutteStorie, dicembre 1992.

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Ginzburg N., Discorso sulle donne, 1993.

Stern D., Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri Editore, Tori-no, 1987.

Stern D., Le interazioni madre-bambino nello sviluppo e nella clinica, Cortina Raffaello, 1998.

Winnicott D.W., Tra gioco e realtà, Armando Ed., 1990

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IL SAPERE CHE SENTE, IL SENTIRE CHE CURA ELDA MAZZOCCHI SCARZELLA DONNA, MADRE, EDUCATRICE

DI ELISA MAZZELLA

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Premessa

Ripercorrendo i molteplici spunti che accompagnano la riflessione sul tema della specificità del femminile nelle relazioni di cura con particola-re riguardo per l’aspetto pedagogico-educativo e nel tentativo di illu-strarne, qui, alcuni punti salienti, trovo di particolare interesse illustrare la storia e l’opera di Elda Scarzella. Recuperare e valorizzare l’intuizio-ne e l'operato di questa donna, scomparsa nel maggio 2005, educa-trice per vocazione, che ha dedicato l'intera vita alle madri in difficoltà e ai loro figli, permette non solo di vivificare i tratti più attuali del suo progetto educativo, quali la dolcezza nell'incontrare la sofferenza, la fiducia sconfinata riposta nelle maternità e il coraggio di avanzare una proposta esigente e assumersene fino in fondo l'impegno, ma anche di cogliere profondamente la specificità del contributo che una donna può dare ad una professione di relazione e cura come quella educati-va. L’articolo fa, in gran parte, riferimento all’autobiografia che la signo-ra Scarzella ha scritto nel 1998 e alle testimonianze di alcune delle sue collaboratrici, alle quali, in questi mesi, ho potuto somministrare interviste semi-strutturate. Attraverso queste voci emerge un modello di educatrice capace di leggere i tempi, di rispondere ai bisogni pro-fondi dell'essere madre, di individuare e attuare forme di attenzione adeguate alle ragazze e alle donne in difficoltà e di tradurre la sua esperienza emotiva e affettiva in metodo educativo.

Elda Mazzocchi Scarzella: «Percorso d’Amore»Elda Mazzocchi nacque a Milano il 14 dicembre del 1904 da una fami-glia della borghesia cittadina. A sedici anni sposò, giovanissima, l’inge-gnere Enzo Scarzella, con il quale, per ragioni di lavoro, si trasferì in Sardegna a Domusnovas, un tempo in provincia di Cagliari, e dal qua-le ebbe due figli. A Domusnovas, zona arretrata e povera, Elda si oc-cupò dell'assistenza alle famiglie bisognose e in particolar modo con-centrò la sua attenzione verso le donne e i bambini: nel 1923 realizzò la prima casa del bambino per i figli dei minatori, istituì la mensa per le

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donne incinte e pionieristicamente anticipò l'assistenza domiciliare al-le gestanti e alle puerpere con particolare riguardo verso i soggetti più deboli ed emarginati.

Tornata a Milano nel 1934, prestò assistenza ai perseguitati politici e agli ebrei, nel periodo della persecuzione razziale. Al termine del se-condo conflitto mondiale le Autorità le affidarono l'incarico di coordina-re, alla Stazione Centrale di Milano, l'accoglienza di coloro che rientra-vano in patria dopo la liberazione dai campi di sterminio e dei reduci di guerra, che, spesso, erano accompagnati da giovani compagne in-cinte o con bambini molto piccoli. Terminata l’immediata emergenza, determinata dal notevole flusso di rientro dei reduci, Elda maturò la convinzione di poter offrire un diverso e più significativo contributo alla società rimanendo al di fuori dall’organizzazione rigorosa e schemati-ca delle istituzioni a tal compito preposte; rifiutò, quindi, l’offerta di en-trare nella Croce Rossa e anche la gestione della caserma Cadorna, che sarebbe diventata il principale centro di smistamento dei reduci. Nonostante Elda fosse consapevole di possedere delle ottime capaci-tà organizzative, era al contempo convinta che tali mansioni non rap-presentassero pienamente la sua anima educativa, poiché non le per-mettevano di valorizzare profondamente i risvolti umani insiti in tale compito e porre adeguatamente l'attenzione sui bisogni affettivi delle persone accolte. Il suo desiderio principale era, come già aveva fatto in Sardegna, di occuparsi dell’assistenza alle madri, alle vedove e alle donne che vivevano situazioni di difficoltà. Nacque, così, l’Ufficio Assi-stenza Rimpatriati, formato da un corpo di volontarie che garantivano il quotidiano funzionamento del servizio. Si rivolgevano all’Ufficio don-ne in stato di gravidanza o con figli a carico ma anche intere famiglie in situazione di bisogno. L’aspetto che contraddistingueva questo ser-vizio rispetto ai centri di smistamento era il clima sereno e familiare che le persone accolte potevano respirare. Elda ricorda che il lavoro era stremante, non tanto per la fatica fisica ma piuttosto a causa del dolore continuo provocato dall'ascolto e dalla condivisione delle enor-mi sofferenze altrui. In questo contesto Elda incontrò una giovane don-

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Scarzella, 1998

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na di nome Margot, incinta, già madre e vedova, che la colpì profon-damente. L’ascolto della storia di Margot e il suo desiderio di vivere con dignità l’essere donna e madre, fecero nascere in Elda la volontà di realizzare un luogo di accoglienza per tutte le donne, sole e non, che non potevano trascorrere con serenità la gravidanza e che deside-ravano vivere la maternità in un ambiente intimo e famigliare: «l’incon-tro con Margot, la sua precisa contestazione delle strutture provincia-le per la maternità trovava risposta in quelle baracche. Avremmo realiz-zato cose con porta aperta. Non più camerate, ma la cameretta singo-la nella quale il bimbo avrebbe vissuto con la sua mamma, come in una casa. Non più divise. Non più differenziate tra donne sposate e non sposate, straniere e italiane, solventi e non solventi. Non più zone accessibili e zone vietate. Non più chi dà ordini e chi li riceve».

Elda mise, così, a frutto l’esperienza vissuta in Sardegna e nell’ottobre del 1945 inaugurò Il Villaggio della Madre e del Fanciullo a Milano presso Palazzo Sormani. La struttura non era divisa in camerate e stanze numerate, come normalmente accadeva in istituti di accoglien-za per donne madri, ma ogni ospite aveva una propria stanza privata e personale. Il Villaggio era caratterizzato da un clima famigliare e da un rapporto di collaborazione tra le donne ospiti, che si occupavano della gestione della struttura in base alle capacità e alle attitudini che ciascuna possedeva. Scopo e prerogativa del Villaggio era dare l’op-portunità a ciascuna donna di vivere una gravidanza serena e di sentir-si accolta e ascoltata in qualsiasi momento o situazione. Elda, infatti, era profondamente convinta che ogni donna avesse in sé le risorse per accudire autonomamente il proprio bambino e che, grazie a un progetto educativo specifico, avrebbe potuto assumersi la responsabi-lità della cura di se stessa e del proprio figlio. Le ospiti potevano vive-re all’interno del Villaggio per tutto il tempo che desideravano, almeno fino a quando non sarebbero state in grado di occuparsi adeguata-mente di se stesse e del bambino anche al di fuori della struttura. Obiettivo del progetto della Scarzella era anche quello di sostenere queste giovani donne nel riallacciare i rapporti, quando possibile, con

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Scarzella, 1998, p. 92

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la famiglia di origine, che nella maggior parte dei casi ripudia-va le figlie, poiché nu-bili e madri illegitti-me. Erano molti gli sforzi di Elda per ren-dere e mantenere l’ambiente del Villag-gio il più possibile ac-cogliente e famiglia-re: ad esempio si se-deva sempre al tavo-lo dell’ultima donna arrivata, per parlare con lei, ascoltare la sua storia e, gradual-mente, instaurare una relazione di fiducia. Convinta che l’ascolto dei vissuti di queste donne e la presenza continua fossero gli elementi chiave per creare un clima intimo in cui le donne si sentivano profondamente accolte, pochi mesi dopo l’apertura Elda decise di trasferirsi al Villaggio. La sua vicinanza costante offriva conforto, sostegno ed entusiasmo a tut-te le ospiti.

Accanto all’incessante attività svolta al Villaggio, Elda, nel maggio del 1947, fondò anche l’Ente Ausiliario del Tribunale per i Minorenni, di cui divenne vicepresidente. Ella espresse il desiderio di poter svolgere questo incarico presso l’Osservatorio del Villaggio, non solo per conti-nuare a essere vicina alle sue ospiti, ma anche perché profondamente convinta che il suo lavoro con le madri e l’assistenza al Tribunale fos-sero due strutture strettamente legate tra loro. Le numerose visite che fece ai minorenni in carcere e alle loro famiglie, le permisero di stilare delle relazioni in cui veniva messa in luce la storia di questi giovani e in

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Scarzella, 1950, 1998

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particolar modo la loro infanzia; Elda riscontrava che, spesso, la man-canza di una stabilità affettiva nei primi anni di vita del bambino fosse all’origine dei comportamenti devianti sviluppati poi in età adolescen-ziale.

In seguito ad alcune difficoltà finanziarie e alla decisione del comune di destinare i locali di Palazzo Sormani alla Biblioteca comunale, nel 1957 il Villaggio venne spostato nell'attuale sede in via Goya nel quar-tiere QT8, progettata dall’architetto Alberto Scarzella Mazzocchi, figlio della fondatrice. Nella nuova struttura l’Osservatorio continuava a es-sere il punto di riferimento per il sostegno psicologico alle donne che si rivolgevano al Villaggio; erano altresì attivi la biblioteca, il nido, avvia-to grazie all’esperienza e alla competenza di Elinor Goldschmied, il consultorio pediatrico e ostetrico e anche un servizio di consulenza legale. Il cuore di tutta la struttura erano, però, i focolari, piccole case che, proprio come a Palazzo Sormani, avrebbero dovuto creare un ambiente intimo e di cura. Il clima famigliare voluto dalla Scarzella si rese ancor più evidente nella scelta di inserire all’interno di ogni focola-re una “capo-focolare” «precisa, costantemente a disposizione, notte e giorno, al fianco delle mamme. Non per controllare, ma per dar loro quella mano attenta, sensibile, scrupolosa, cui si potessero appoggia-re e che potesse guidarle nell’esperienza della maternità e nella vita». Il ruolo svolto dall’educatrice all’interno di ogni casa era quello mater-no, anche in sostituzione del rapporto che, frequentemente, veniva meno con la famiglia di origine e in particolar modo con la madre. La presenza di una figura di riferimento con queste caratteristiche era fon-damentale, considerata la giovane età delle ospiti e il conseguente al-to rischio di parti prematuri. Nella nuova sede, rispondendo alle richie-ste delle ospiti che non volevano più partorire in ospedale, in un conte-sto freddo e soprattutto giudicante rispetto alla loro condizione di ma-dri nubili, Elda decise di realizzare anche la Casa del Parto. Il Villaggio, infatti, era stato fino a quel momento un luogo dove le madri poteva-no vivere la loro maternità ma non la nascita dei loro figli, che normal-mente avveniva in ospedale. Dare la possibilità a queste ragazze di

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Goldschmied – Jackson, 2007

Scarzella, 1998, p. 188

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partorire in un ambiente a loro famigliare, sereno e accogliente, parti-va dalla convinzione che la condizione di isolamento e di pregiudizio da queste vissuta negli ospedali non giovasse alla loro salute. Le don-ne alla Casa del Parto potevano contare sulla presenza di persone co-nosciute e di cui si fidavano: al parto, oltre all’ostetrica che aveva già incontrato la donna durante la gravidanza, assisteva anche l’educatri-ce del focolare di appartenenza, che l’aveva accolta e seguita nel suo percorso di crescita personale e di madre. Secondo la Scarzella era importante che le giovani madri potessero trascorrere la loro gravidan-za all’interno del Villaggio il più a lungo possibile: questo periodo era necessario per stabilire un contatto e uno scambio continuo tra don-na e ostetrica, consentendo una preparazione al parto serena e natu-rale. In contrasto con la medicalizzazione della nascita che prese av-vio tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e con la convin-zione che l’unico garante del benessere per la donna e il bambino fos-se il sapere medico-scientifico, per Elda e la sua équipe l’amare, il co-noscere profondamente la donna e l’assistenza continua erano gli strumenti fondamentali per assicurare il benessere psico-fisico della nuova coppia madre-bambino. In un certo senso, come affermano le stesse ostetriche della Casa del Parto, era come tornare alle origini, quando i parti avvenivano in casa, con l’aiuto della levatrice che cono-sceva la gestante, la sua famiglia e godeva di fiducia e stima da parte dell’intera comunità. In questo approccio importante e peculiare era la collaborazione tra ostetriche ed educatrici, attraverso l’integrazione dei saperi e un proficuo scambio e confronto: «Meno visite, meno pa-role, meno indicazioni. Dovevamo imparare a stare e togliere tutto il superfluo. Le mani visitavano sempre meno e massaggiavano sempre di più, sostenevano, porgevano acqua e asciugavano la fronte. E nei travagli, nei parti, nei puerperi, i sensi e l’intuito prendevano sempre più spazio accanto al nostro sapere». Elda Scarzella, insieme alla sua collaboratrice Connie Nonfjall, partecipò a numerosi congressi nazio-nali e internazionali, dove non solo presentò l’esperienza innovativa della Casa del Parto ma trovò anche conferma esterna di quanto avesse già essa stessa riscontrato, vale a dire dell’importanza del-l’ambiente e della presenza di persone affettivamente vicine alla parto-riente, aspetti cardine del suo progetto. Per tali ragioni e incoraggiata

Morello, 2011; Intervista a Lidia Magistrati, 22 luglio 2015

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dalle positive esperienze con le ospiti del Villaggio, alla fine degli anni Ottanta la Nonfjall si interessò per estendere questo progetto a tutte le donne che desideravano vivere la gravidanza, il parto e il puerperio secondo un nuovo approccio, distante dall’intervento offerto in ospe-dale. La Casa del Parto venne ufficialmente aperta a tutte le donne nel 1990.

Il Villaggio incontrò diverse difficoltà economiche tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, aggravate anche dalle tensioni e dai di-saccordi nati tra alcuni collaboratori; ciononostante la struttura riuscì sempre a risollevarsi, grazie anche al sostegno di privati. Anche la co-operazione tra il Villaggio e la Casa del Parto verso la fine degli anni Novanta si incrinò, in particolar modo quando nel 1999 la Scarzella lasciò la direzione della struttura per diventare solo presidente onora-rio, carica che mantenne fino alla sua morte nel 2005. La nuova dire-zione del Villaggio, infatti, non approvava pienamente l’attività della Ca-sa, che nel frattempo aveva cambiato il nome in Casa Maternità “La Via Lattea”, ed era particolarmente preoccupata per la sicurezza dei parti e le possibili conseguenze in caso di incidenti. Valutata la situa-zione e consapevoli che un clima conflittuale non avrebbe giovato, tut-ti i professionisti della Casa Maternità decisero, quindi, di staccarsi dal Villaggio nel 2001, per riaprire in nuova sede nel 2003.

Il Villaggio è presente ancora oggi nella stessa sede di via Goya e pro-segue la sua attività di assistenza alla maternità e all’infanzia. Anche la Casa Maternità “La Via Lattea” continua il suo operato, ponendo at-tenzione a ogni fase del processo, dalla gravidanza al primo anno del bambino e offrendo servizi specifici per ciascun periodo, con la carat-teristica, unica in Italia, di avere un’équipe integrata composta da oste-triche ed educatrici. Nonostante i cambiamenti intervenuti a livello eu-ropeo, la nostra cultura è ancora quasi esclusivamente interessata e disponibile al parto in ospedale e le iniziative attente al parto non medi-calizzato, che promuovono il benessere psico-fisico della coppia mamma-bambino, sono sostenute prevalentemente da ostetriche libe-re professioniste e associazioni, che trovano attualmente scarso ap-poggio da parte del sistema sanitario nazionale. L’Italia promuove an-

Intervista a Connie Nonfjall, 15 settembre 2015

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cora troppo poco l’informazione sul parto a domicilio o in case mater-nità, in cui viene rispettato l’aspetto più personale e intimo della nasci-ta come evento naturale della vita dell’uomo. Ancora oggi, nonostan-te le vicissitudini della storia della Casa Maternità, rimane notevole, sia nelle scelte che nella progettualità, il peso dell’eredità lasciata da Elda Mazzocchi Scarzella, che sin dall’inizio della sua attività assistenziale verso la madre e il bambino, seppe cogliere come fondamentale la competenza naturale ed innata che ogni donna ha nei confronti della maternità.

Radici vive per un approccio femminile alla cura

«Capivo e sentivo prepotente in me il rammarico di tutte le donne che non potevano vivere la loro maternità, ed ero intenerita dal desiderio di mia figlia di partorire all’Asilo Evangelico a Milano per avermi accan-to a sé». Le parole che Elda Scarzella scrisse nella sua autobiografia Scarzella, 1998, p. 85

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riassumono gli aspetti salienti della sua storia e del suo impegno edu-cativo da cui è possibile trarre alcuni spunti di riflessione in merito al tema che, in questa sede, si intende esplorare.

Fin dalle prime esperienze vissute in Sardegna e in seguito messe a frutto nel capoluogo lombardo Elda, in ogni decisione, progetto e in-tervento, fu sempre indirizzata e sostenuta dalla sua profonda sensibi-lità femminile, dal saper sentire la sofferenza dell’altro e in particolar modo quella di giovani madri come lei che si trovavano in una condi-zione d’isolamento, deprivazione e miseria. Esemplificativo al riguardo il commento che scrisse quando, a 17 anni, mentre era in attesa del suo primo figlio, vide per la prima volta, all’ospedale di Cagliari, la Ruo-ta, cioè la struttura in cui venivano abbandonati i bambini indesiderati o di cui i genitori non si potevano occupare: «Mi pareva di non poter-mi più staccare dalla ruota, come attanagliata dal pensiero di tutti quei bambini, del passato ma anche del presente e del futuro, nati a un destino senza amore».

La sensibilità e la naturale vocazione educativa che la contraddistin-guevano, portarono Elda a individuare l’assistenza e la cura come scelta di vita e a impegnarsi per offrire una risposta adeguata alle emergenze educative del suo tempo. Ella, però, non si pose in conti-nuità con le istituzioni e gli interventi già presenti sul territorio ma per-corse una via diversa, che attingeva dal suo sentire, dalla sua espe-rienza emotiva e affettiva. Infatti, non si limitò a creare strutture di assi-stenza ma le connotò di un’impronta spiccatamente femminile, che dava respiro alla dimensione dell’accoglienza, della presenza e del-l’ascolto. Tali aspetti, come si è visto, furono tradotti in atto non solo nella cura dedicata agli spazi e all’organizzazione del Villaggio, che do-vevano trasmettere un senso di serenità e famigliarità, ma soprattutto nel modo di vivere di Elda, punto di riferimento e sostegno costante per tutte le donne e i bambini del Villaggio. Si tratta di una capacità di presenza in grado di attingere alla verità della propria esistenza, traen-done competenze per lo più incodificate e non visibili ma non per que-sto meno incisive e determinanti nell’intervento educativo. Anche sul piano dell’elaborazione culturale, infatti, le donne hanno sempre mo-

Scarzella, 1998, p. 32

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strato, più degli uomini, la preferenza per un sapere non separabile dalla condizione personale, una spiccata propensione a tenere uniti il sapere e il fare.

L’esperienza di madre, l’empatia e la dolcezza provate di fronte alla sofferenza diventarono per Elda anche metodo educativo: erano le co-ordinate che avrebbero dovuto indirizzare ogni intervento con le ragaz-ze, come ben si rileva dal ruolo materno che viene assegnato alle edu-catrici dei focolari. L’aver cura materno costituisce, infatti, quel princi-pio d’ordine vitale da cui prende avvio e forma l’intero processo edu-cativo. La profonda relazione che si ravvisa tra cura materna ed edu-cazione stimola possibilità evolutive esistenziali-essenziali, configuran-dosi come prima fondamentale iniziazione che, dalla cura della vita al-l’origine, diviene esperienza paradigmatica per imparare a interpretare la propria esistenza con cura, cioè applicandosi all’esplorazione e alla realizzazione del proprio essere. Come afferma Mortari, infatti, «nella prima questione il concetto di cura indica la direzione di senso dell’agi-re formativo, nella seconda l’aver cura diventa quel modo di essere da promuovere nel soggetto educativo».

L’impronta specificamente femminile che la Scarzella conferì al suo progetto è, a mio avviso, particolarmente evidente nel nuovo e pionie-ristico approccio che, attraverso l’esperienza della Casa del Parto aperta a tutte le donne, diede alla nascita e che, tuttora, riveste carat-tere di grande attualità. Dalle interviste alle ostetriche e alle educatrici che operarono alla Casa del Parto emerge un tratto ricorrente: la ne-cessità di dedicare più spazio e risorse al periodo del puerperio. Tale urgenza, già sentita negli anni Sessanta e Settanta, oggi si impone con maggior forza, a causa dei rapidi e significativi cambiamenti che hanno investito la famiglia. Un tempo, la scarsa assistenza nel post-partum veniva, in parte, colmata dalla presenza, quando c’era, di una rete famigliare che si proponeva come sostegno alla donna e al bam-bino, almeno nelle cure materiali e nella presenza affettiva. Oggi, inve-ce, le rapide dimissioni dall’ospedale e il vuoto istituzionale nei mesi successivi al parto, unitamente a relazioni famigliari talvolta più fram-mentate, abbandonano spesso la donna in un vissuto di solitudine e

Mecenero, 2004, p. 145; Pulcini, 2003

Mortari, 2013, p. 17

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difficoltà che, come i casi di cronaca testimoniano, può talvolta sfocia-re in depressione post-partum. Per tali ragioni, tutte le operatrici inter-vistate sono concordi nell’affermare l’importanza di valorizzare e diffon-dere il modello di cura proposto dalla Scarzella, che sosteneva con forza la necessità di un’assistenza continua alla maternità. Nel concre-tizzare tale esigenza, oltre alla messa in campo di competenze specifi-che, era indispensabile il saper stare accanto alla donna, nella consa-pevolezza che «il principale strumento degli operatori è il proprio esser-ci, prima delle cose che si sanno e si fanno», rimanendo così dentro l’esperienza, attraversandola, cogliendone tutte le sfumature, le fragili-tà, le risorse, i diversi livelli e piani di lettura che in essa si intrecciano.

L’opera di Elda Scarzella ricostruita attraverso le sue memorie e le te-stimonianze delle sue collaboratrici, permette, quindi, di guardare ol-tre gli aspetti storico-istituzionali e di fornire interessanti spunti anche all’attuale riflessione pedagogica sui temi della nascita e della materni-tà. Non possiamo che rallegrarci che il parto avvenga oggi negli ospe-dali, in condizioni asettiche, con il supporto di sofisticati strumenti dia-gnostici e la possibilità di usufruire della terapia intensiva neonatale e di interventi chirurgici immediati. Allo stesso tempo, però, non possia-mo non riscontrare che si è persa la presenza solidale e affettuosa del gruppo delle donne della famiglia allargata e anche delle amiche che seguivano sia il parto che la nuova madre, comprendendone e soste-nendone la naturale instabilità emotiva dei primi tempi. Il parto medica-lizzato non ha ancora trovato il modo di organizzare una nuova forma di assistenza affettiva e psicologica, rispetto alla cui mancanza i nume-rosi forum di self help in internet costituiscono solo una soluzione pal-liativa. La nascita si presenta oggi come un insieme di rituali di separa-zione (ricovero) ed è rappresentata dalla standardizzazione (cartella clinica) e dalla neutralizzazione della volontà e dell’emotività della don-na. In questi ultimi anni si sta gradualmente creando maggiore spazio per la de-medicalizzazione della gravidanza e viene, in particolar modo, sottolineata l’importanza della continuità dell’assistenza ostetri-ca ed educativa, che non dovrebbe essere limitata al momento della nascita ma accompagnare anche la gestazione, il puerperio e l’allatta-mento.

Valcarenghi, 2011

Augelli, 2010, p.17

Jedlowski, 2008

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La recente riflessione pedagogica ha posto a tema come la medicaliz-zazione del parto e la progressiva oggettivazione del corpo della don-na abbiano gettato le basi dell’opposizione dicotomica fra garanzie di sicurezza fisica da un lato e sfera affettiva e spirituale dall’altro. Nei luo-ghi della cura l’uso sempre più pervasivo e raffinato della tecnologia, se non accompagnato da competenze emotive, può limitare la capaci-tà di lasciarsi interrogare dalla biografia dei pazienti e dei loro vissuti. È necessario dunque potenziare le risorse cognitive, affettive e relaziona-li che consentono agli operatori di comprendere e rielaborare la dimen-sione emotiva nell’agire quotidiano. Tali riflessioni hanno consentito a ginecologi e ostetriche di porsi in atteggiamento critico su tradizionali strutture, manovre e luoghi del parto, sollecitando una rivoluzione cul-turale dell’assistenza alla nascita, attraverso concetti di umanizzazio-ne non più percepiti come alternativi a un modo scientificamente cor-retto di seguire la maternità. In tale direzione sono state avviate, dap-prima all’estero e in seguito anche in Italia, nuove esperienze, aventi lo scopo di umanizzare i luoghi della nascita: ricordiamo, ad esempio, l’idea della casa in ospedale e delle case maternità e la filosofia del parto attivo e del parto dolce di Leboyer, tutte esperienze in cui vengo-no privilegiati gli aspetti emotivi, garantendo a contempo la massima sicurezza possibile. In tale prospettiva, come già avveniva alla Casa del Parto e accade oggi nella Casa Maternità “La Via Lattea”, è basila-re promuovere in ambito perinatale la collaborazione tra più professio-nisti, che, oltre alla competenza tecnica e alle conoscenze, possano garantire, attraverso un atteggiamento costante di osservazione, em-patia e ascolto attivo, un intervento globale e abilitante.L’aver ripercorso, seppur brevemente, la storia, l’esperienza e l’opera di Elda Scarzella ha permesso di conoscere una figura di donna edu-catrice del nostro tempo; fondando il Villaggio e la Casa del Parto, es-sa realizzò un centro importante di riferimento culturale, pedagogico e psicologico, che ancora oggi, nonostante i cambiamenti intercorsi, prosegue il suo cammino ricco di iniziative e di nuove intuizioni. Il suo immenso valore fu, inoltre, l’aver dato impulso, anni dopo Maria Mon-tessori, alla crescita di una nuova scuola di pensiero sull’infanzia e sui suoi diritti, a tal punto pregnante da costituire tuttora un modello og-

Iori - Bruzzone – Musi, 2007

Leboyer, 1974; Odent, 1982; Schmid 2010

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getto di studi in Europa e negli Stati Uniti. Riflettendo sulla storia di El-da nella sua interezza e sul valore complessivo della sua opera riten-go anche di poter affermare che esso dovrebbe condurre gli educato-ri e i pedagogisti, insieme a tutti i professionisti della relazione e della cura a interrogarsi sull’importanza di dar voce, integrandoli nelle pro-prie competenze, ai tratti essenziali della specificità femminile. Da sem-pre le donne sono, per vocazione, maggiormente in contatto con il flusso vitale, interiore ed esteriore e particolarmente interessate ad ascoltare i propri e gli altrui sentimenti, mostrandosi esperte nell’arte della narrazione reciproca. Tuttavia il mondo femminile ha scontato il divieto di esprimere liberamente i moti della propria vita emotiva, pena il vedersi etichettate come irrazionali, fragili, dominate dalle intempe-ranze del corpo: conseguentemente i saperi a essa collegati sono sta-ti accantonati come scarsamente significativi, deboli e solo in minima parte utili. In realtà, come l’esperienza di Elda dimostra, «esiste un sa-pere del sentire che è costitutivo dell’esperienza umana delle cose e che rappresenta una risorsa inesauribile e probabilmente la vera e pro-pria chiave di volta delle relazioni di cura» nonché di quelle educative. È una distorsione cartesiana ritenere che sussista un pensare depura-to dalle emozioni e che i sentimenti siano solo aspetti irrazionali del-l’anima. Pur avendo natura libera e fantastica i sentimenti non sono irrazionali: proprio perché radicati entro precise convinzioni costituisco-no, in realtà, parti intelligenti della vita della mente. Rimanendo entro una logica dualistica si arriva necessariamente a privare l’individuo del suo fondamentale diritto all’unità e all’unicità armoniosa delle proprie manifestazioni mentali, emozionali e spirituali; si rischia così di promuo-vere, spesso incentivati dal sostrato pseudo-culturale imperante, at-teggiamenti ab-erranti che separano l’essere umano da se stesso, rin-chiudendolo nell’orizzonte ristretto delle singole parti e impedendogli di dischiudersi alla dimensione ben più ampia del tutto, che ne costi-tuisce l’intima struttura e l’autentica destinazione. Così, se si esclude la cognizione si cade nel sentimentalismo e se si estromette l’affettivi-tà si rischia di cadere in una razionalizzazione autoreferenziale e insen-sibile. Recuperando e dando valore al sapere delle emozioni, compe-tenza specificamente femminile, ritengo sia possibile avviare interventi e riflessioni che non rimangano ripiegati in se stessi, ma che, basando-

Bruzzone, 2007, p. 32

Iori, 2003, 2006; Nussbaum, 2004; Iori – Bruzzone – Musi, 2007; Mortari, 2013

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si su una profonda connessione tra parola ed esperienza e partendo dall’ascolto della vita che si esprime nel corpo, diventino sempre più capaci di accogliere pienamente la sofferenza dell’altro e di offrire un valore più compiuto all’agire, all’apprendere e all’educare. Quella paro-la che sa cogliere, in punta di piedi, l’essenza degli eventi nel loro ac-cadere, ma che, allo stesso tempo, sa trattenersi e lasciare il pensiero in sospeso, svelerà così, un giorno, il senso pieno dell’umano.

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Capita a volte di trovarsi coinvolti nei classici giri di presentazione, duran-te il primo incontro di un seminario, di un corso, o semplicemente duran-te una serata con persone appena conosciute. Capita dunque di dover raccontare chi sei, che lavoro svolgi e cosa hai studiato. In questi momen-ti ho imparato a nutrire un divertito imbarazzo nello svelare che, ebbene sì, sono una filosofa per titolo, per passione e, perché no, per missione. Seguono a questa dichiarazione un misto di reazioni che potrei definire sicuramente eterogenee: l'ironia post capitalistica che vede la categoria

LA QUADRATURA DEL PENTAGRAMMA:RIFLESSIONI VERSO UNA REALE FILOSOFIA DELLA MUSICADI AMELIA MASTRODONATO

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come futura utente di cucine popolari, la riesumazione dei sempreverdi Socrate e Platone, il dubbio di trovarsi di fronte ad un borioso e noioso erudito con pochi de-cimi per occhio ed infine l'innocente e spontanea indecisione su quale sia in effetti l'oggetto di tanto elucubrare e, soprattutto, che utilità abbia davvero un filosofo con il suo... filosofare.

Quando alla mia mente ha cominciato ad affacciarsi l'idea che la musica potesse effettivamente favorire una relazione terapeutica empatica non mediata dalle sovra-strutture linguistico-sociali per condurre il paziente all'elaborazione partecipe dei vis-suti emotivi personali, non ho potuto fare a meno di chiedermene il perché. Tra un testo di Kant ed un'antologia sui giusnaturalisti, la domanda che più di ogni altra occupava ed occupa il mio pensare è come sia possibile che ogni popolo cono-sciuto, da quando riusciamo a ricordare e secondo ciò che fino al nostro presente è giunto (in realtà non più di una minima parte del grande patrimonio dell'umanità), abbia avvertito e senta tuttora l'esigenza di esprimersi in musica. Con quale moven-te l'umanità abbia tramandato forme antiche ed abbia ricercato nuovi canoni di de-clinazione del suono ed inseguendo quali benefici. Quale sia, infine, l'universale par-titura di quella che per l'uomo è una vera e propria ossessione: l'arte di Euterpe.

Sin dai primordi del pensiero le menti più fervide si sono scontrate con uno degli ossimori cognitivi più ostici, il parlare di qualcosa che non usa le parole, ma che, come le parole, giunge al nostro orecchio e sembra dirci qualcosa, qualcosa che difficilmente siamo in grado di riferire con dovizia di particolari. Proprio per questo sibillino carattere della musica, che sfugge ai millenni di convenzione intersoggetti-va del linguaggio verbale per palesarsi familiare e diretta alla nostra mente, risulta difficile tracciare un percorso teoretico organico del pensiero attorno al fenomeno musicale, in cui ravvedere sentieri condivisi e speculazioni approfondite, come sot-tolineato anche dal professor Giovanni Piana, uno dei maggiori esperti italiani di filo-sofia della musica [Piana, 2007].

Riflettiamo insieme su quanto appena detto: se al “Come stai?” di un nostro cono-scente, rispondessimo “Sono un po' triste oggi”, potremmo essere ragionevolmen-te certi di esserci spiegati; sicuramente ci verrebbero alla mente molti altri dettagli da raccontare per meglio chiarire le sfumature della malinconia che ci avvolge, ma

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restano sufficienti quelle cinque parole per condurre l'interlocutore alla sua sottocar-tella categoriale “tristezza: azioni da fare in caso di tristezza altrui”.

Poniamo il caso ora di assistere al viaggio in auto di quattro amici diretti verso un tranquillo sabato sera, quando all'improvviso alla radio comincia la “Sinfonia per un addio” dei Rondò Veneziano: gli sguardi si incrociano e si scoprono profondamen-te differenti nell'esperienza di questo fenomeno sonoro. Sarà davvero improbabile che anche solo per due di loro quel brano significhi lo stesso insieme di immagini e sensazioni: a qualcuno ricorderà un vecchio programma tv in seconda serata, qual-cun altro chiederà annoiato di cambiare stazione radio, qualcuno invece si sforzerà di ricordare l'autore, mentre il guidatore sarà pervaso da brividi ed intensa attivazio-ne emotiva perché quella composizione è il primo pezzo di musica che lui ricorda di aver sentito, ancora nel ventre materno. Quali possibilità avrà di illustrare ai suoi compagni la cascata di reazioni che lo coinvolge? Potranno stavolta cinque parole essere bastevoli? La verità è che non c'è manuale che riesca a mettere d'accordo più di due esseri umani attorno ad una sola esperienza musicale, come non c'è ri-cetta per un compositore che possa aiutarlo a comporre il brano perfetto per dipin-gere una marina: qualche indicazione di massima proveniente dai suoni della natu-ra, un po' di esperienza personale ed un buon guizzo di fantasia, ma nessuna for-mula infallibile.

Ma allora cosa appartiene al reame semantico della parola musica, tale da renderla così inafferrabile e non imbrigliabile dal pensiero logico-razionale? E perché l'uomo avverte la necessità di crearla, conservarla, condividerla, diffonderla nei suoi giorni?

I primi tentativi di includere la riflessione sul fenomeno musicale all'interno di un si-stema organico di interpretazione del reale sono rappresentati dalle cosmogonie, teorizzazioni sull'origine del cosmo, racchiuse in tradizioni orali millenarie e nelle più antiche pagine mai scritte. Il profondo lavoro filologico ed etnografico di Marius Schneider sulla musica nelle comogonie [Schneider, 2009] ci ha consentito di os-servare da una particolare prospettiva il problema musicale e di attribuire solide ed ancestrali radici alle forme di misticismo popolare, racchiuso in riti senza parole. Se-condo i racconti dei Veda (il preminente testo sacro dell’Induismo) ancora oggi il bindu, vibrazione creatrice pronunciata da Brahman (originariamente “forza magi-ca, parola sacra, inno”), risuona accompagnando il primo suono dell'OṂ, “mantra

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che pronuncia l'universo e fa risuonare l'Immanifesta e Indicibile sorgente che lo genera e lo sostiene” [Magno, 2009, p. 44] ed infondendo la vita nel cosmo.

Dunque in India, così come nel Mali dei Dogon, la musica è intesa come suono generatore ed ordinatore del reale, precedente alla materia stessa, che permea la realtà vivificandola: conseguentemente anche la musica “umana” presso queste popolazioni racchiude un di-retto contatto con il suono originario, contribuendo a scandire le fasi della vita dell'uomo, con precise corrispondenze simboliche e strutture comunicative dialogiche, degne di una lingua madre.

Le conclusioni a cui perviene il testo di Schneider sono illuminanti: la sostituzione del mon-do religioso magico con quello liturgico (cioè quello dei moderni monoteismi) ha comporta-to la cessazione della mimesi naturalistica della musica, ed un suo sviluppo in senso artisti-co descrittivo, in cui si ravvede l'ultimo barlume dell'imitazione del suono creatore rilucere nell'espressione del sentimento e della volontà creatrice umana. Egli inoltre sottolinea co-me si sia diffusa la consapevolezza che bellezza ed equilibrio nella musica nascano solo quando essa diviene arte, considerando invece come oscene tutte quelle sue modalità esu-beranti di uso rituale; tuttavia si continua a cantare di ventre, con voce archetipica che, quando presente, domina tutte le composizioni musicali, rendendo l'uomo risonatore uni-versale, albero parlante.

Qualche millennio dopo e qualche migliaio di chilometri ad ovest della penisola indiana, un filosofo con un cordofono appena progettato tra le mani provava l'efficacia della sua teoria musicale: Pitagora è colui al quale dobbiamo la spiegazione dei principi degli intervalli ed una enorme anticipazione su quelli che sarebbero stati i risultati della fisica acustica sugli armonici e sulla loro influenza nell'ambito della composizione musicale. Partendo da una meravigliosa e filosoficamente evocativa definizione atomista del ritmo - ρυϑμòς come for-ma di una traiettoria in movimento [Migliaccio, 2009], ed accostandola alla riflessione del linguista Benveniste che associa il termine greco, di chiara origine fisica, alla “forma nell'atti-

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mo in cui è assunta da ciò che si muove” [Benveniste, 1951], otteniamo un concet-to di tempo musicale permeato di un dinamismo organizzato, su cui lavorerà il filo-sofo di Samo, per elaborare un'interpretazione matematica delle attestazioni senso-riali. Nascono gli studi sull'armonia, come delicati equilibri geometrico-aritmetici tra le strutture intervallari, che accordano le tensioni psicologiche e motivazionali del-l'uomo, accompagnandolo verso nuovi stati d’animo. La matematica, con le sue epimore (esatte proporzioni tra le lunghezze del monocordo ad ogni suono) ed il suo circolo delle quinte, e la psicagogica in relazione qualitativa verso la definizione del fenomeno musicale. Il sistema pitagorico si è dimostrato essere un'eccellente modalità di ricerca dei fondamenti musicali, arricchita da un'inclinazione decisamen-te sperimentale, la quale ha conferito un contributo inestimabile per la teoria musi-cale, e per gli stessi musicisti.

La matematica è da sempre stata fedele ancella della musica, capace di svelare i rapporti della sua grammatica e di costruire leggere fortezze armoniche, dando vo-ce comprensibile e riproducibile alle leggi fisiche che regolano le vibrazioni sonore; tuttavia solo con i dialoghi platonici, ciò che comincia come studio dei soli principi musicali, evolve in indagine sulle origini e sui moventi della musica, come descritto nel Timeo [Platone, 1966, XVI, 47-48]:

“E l'armonia, che ha movimenti affini ai giri dell'anima, che sono in noi, a che con intelletto si giovi delle Muse non smebra utile, come si crede ora, a stolti piaceri, ma essa è stata data dalle Muse per comporre e rendere consono a se stesso il gi-ro dell'anima che fosse divenuto discorde in noi: e così il ritmo[...]”

Musica che curi I “giri discordi” dell'anima, non vi ricorda qualcosa? Secondo Plato-ne la musica è quel dono delle Muse (il termine stesso μουσικη significa “relativo al-le Muse”), che, tramite la μìμεσις o imitazione delle emozioni umane e della proso-dia, aiuti l’uomo ad affrontare le proprie problematiche psicologiche: una delle anti-che radici della musicoterapia.

Ma la storia del pensiero medievale e rinascimentale dimostra un ritorno all’aritmeti-ca come strumento di lettura dell’arte sonora. Ripreso da Boezio nel V secolo d.C con il suo De Institutione Arithmetica [Boezio, 502] e da Leibniz nel XVIII secolo con la sua lettera a Christian Goldbach [Leibniz, 1738-1742], in cui affermava che “Mu-sica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi” (la musica

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è l'esercizio della matematica, in cui il pensiero è all'oscuro della stessa sua azione del contare), l'uso della matematica nell'interpretazione della musica è sintomatico della ricerca di un principio di oggettività che supporti indagini valide ed inquadrabi-li in un sistema filosofico più ampio e solido [Gozza, 1989].

Quella che potremmo considerare quasi una corsa all’analisi aritmetica delle arti si acquieta nel diciottesimo secolo, con il fiorire dell’illuminismo e del suo scapigliato discendente romantico, epoche in cui, assieme all’atomizzazione della conoscenza ed alla conquista da parte delle differenti scienze di statuto di indipendenza dalla filosofia, si inizia a delineare una riflessione profonda sul significato della musica, sul suo essere linguaggio, sulla sua capacità di rimandare ad altro. Scrive Rousseau:

“In effetti, l’arte del musicista non consiste nel dipingere immediatamente gli ogget-ti come si può soltanto per un piccolissimo numero di cose, ma nel mettere l’ani-mo in una disposizione simile a quella in cui li metterebbe la loro presenza” [Rous-seau 1751, p. 162]

Notevole la modernità della teoria di uno stato disposizionale immaginativo a cui l’uomo viene condotto dalla musica, la quale quindi non sembra essere un linguag-gio referenziale come quello verbale, bensì una mimesi del corredo suggestivo emo-tivo e mnestico dell’uomo, un discorso che pone l’ascoltatore in un determinato stato di attivazione, tramite l’utilizzo di un sistema armonico e ritmico plasmato pro-prio dal vocabolario culturale ed emozionale di una popolazione o di un gruppo so-ciale.

Dalla musica come langage du coeur [Rousseau, 1758], a quella come scrigno del mistero e dell’indicibile, dipinto di notturni e sonate figli di quello Sturm und Drang [Eggebrecht, 1987] languido nel melanconico piacere del dibattersi sentimentale, ma vibrante nell’impulso creativo. Una filosofia della musica che per la prima volta dalla formulazione delle cosmogonie torna a conferire all'arte sonora il ruolo metafi-sico di principio, parafrasando Leibniz da noi precedentemente citato:

“Musica est exercitium metaphysices occultum nescientis se philosophari animi. La musica è l'esercizio occulto della metafisica da parte dell'animo che filosofa senza saperlo” [Piana, 1997, p. 59]

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In questa frase, tradotta da Giovanni Piana, è sintetizzato il pensiero filosofico di Schopen-hauer: la musica, differentemente da ogni altra arte, riproduce la vita stessa della Volontà, forza generatrice, nel mondo fenomenico, riflettendo con i propri parametri le caratteristi-che del reale. Come infatti le linee di basso rispecchiano la materia, nella sua accezione ge-rarchicamente inferiore, la melodia racconta secondo Schopenhauer la storia della volontà illuminata dalla riflessione, che si dipana negli atti umani: una sorta di racconto epico del continuo movimento creatore [Schopenhauer, 1819].

Ma il XIX secolo non accoglie senza riserve la nuova metafisica nel suo porre un'arte uma-na sotto una luce così preminente, ma allo stesso tempo criptica; fondante, ma allo stesso tempo indefinita: sono questi i decenni d'oro della musicologia, in cui furono riconosciute e catalogate le forme musicali, stabiliti i parametri di riferimento, chiariti i canoni della tonalità, ma soprattutto rivalutata la funzione stessa della musica e gerarchizzate le sue modalità di esistenza. I musicologi mal tolleravano di veder analizzata la materia dei loro studi da pensa-tori non adeguatamente edotti sulla teoria musicale, e perciò iniziarono ad occuparsi di filo-sofia per supportare le proprie ricerche tecniche e per ridefinire le categorie da utilizzare per riferirsi alla musica: il punto di partenza di questa corrente è da ricercare nella rigida opposi-zione alla musica intesa come espressione di sentimenti, mentre gli strumenti utilizzati afferi-scono alla storia della teoria musicale ed alla teoria musicale stessa.

Nella scia di questo positivismo musicologico si colloca “Vom Musikalisch Schönen” di Eduard Hanslick [Hanslick, 1854] musicologo viennese noto al tempo principalmente per i suoi articoli da critico musicale, ma responsabile con questo trattato di una vera e propria rivoluzione nella filosofia della musica. Nel suo pensiero si transita dal numero come fonda-mento della musica, alla forma come costituente del prodotto creativo musicale, il quale non avrà funzione mimetica o referenziale nei confronti del bagaglio emotivo umano, bensì piena indipendenza ed autonomia rispetto a qualsiasi contenuto gli si voglia assegnare. Per la prima volta nella storia del pensiero viene selezionato un determinato tipo di arte del suo-no, tuttora definito musica “assoluta”: tale genere esclude completamente la musica canta-ta, poiché “illumina il disegno della poesia” [Hanslick, 1854, trad it., p.52], associandosi dunque e venendo condizionata dal linguaggio verbale, mentre si limita solo a considerare pura la musica strumentale di ispirazione classica. Tale gerarchia viene ulteriormente inaspri-ta da Peter Kivy, il quale nella sua filosofia elegge a solo oggetto di indagine la musica asso-luta composta dopo il XVII secolo, ed eseguibile quindi all'interno di strutture adeguate al-l'ascolto musicale [Kivy, 2007], escludendo dunque non soltanto le composizioni dotate di testo, ma anche tutta la produzione precedente alla tradizione concertistica, assieme a

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quella di stampo per così dire popolare. Il formalismo di Han-slick si configura come tentativo di liberare la musica dall'inge-renza dei sistemi filosofici od estetici, facendone un esempio unico di lingua non referenziale, che esaurisca il proprio signifi-cato in se stessa: secondo lo studioso infatti, ogni sensazione esperita grazie all'ascolto di una composizione, sarebbe un ele-mentare accidente, dovuto ad una erronea e non razionale con-duzione della percezione, una sorta di grande “svista” per “vi-sionari dell'estetica” [Hanslick, 1854, trad it., p.96].

Tuttavia è nell'ultimo capitolo del suo testo che il granitico for-malismo cede alle lusinghe delle allegorie e di quell'ineffabile che anche Jankelevitch un secolo dopo individuava nascosto nella musica [Jankelevitch, 1983]: parla infatti della bellezza mu-

sicale come di un arabesco fluido e vivo, tra picchi di intensità e curve placide e sottili, oppure come di un caleidoscopio sonoro, “che si presenta al nostro orecchio come immediata emanazione di uno spirito creatore” [Ivi, p. 62]. Proprio tali meta-fore decostruiscono l'agognata indipendenza dell'arte musicale e la intrecciano con un per-vasivo e multisensoriale risveglio percettivo, che richiama sommessamente un indicibile ma-trice spirituale, celata dietro il fluire delle note. Questa inspiegabile e sinuosa percezione ha dunque abbassato le difese teoriche del filosofo, rimandando oltre la forma, nel fascino mi-sterioso del non detto, il profondo senso musicale.

Questa evanescente sovrabbondanza semantica emersa nel testo di Hanslick è divenuta stimolo per lo sviluppo di una variazione su tema formalista ad opera di Peter Kivy, moder-no erede del filosofo austriaco: nel suo formalismo arricchito [Kivy, 2007] alla totale man-canza per la musica assoluta di un significato che rimandi ad un reame non sonoro, egli as-socia un ristretto vocabolario di effettive rispondenze tra forme musicali ed emozioni. Kivy passa definisce il formalismo come:

“concezione per cui la musica assoluta non ha contenuto né rappresentazionale, né se-mantico […] La sua forma è senz'altro importante; ma lo sono anche gli elementi di quella forma. Secondo il formalismo siamo interessati, musicalmente, a tutte le proprietà sensibili dell'opera musicale: la forma è solo una di queste proprietà, sebbene forse la più importan-te.” [Ivi, p. 83]

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Tuttavia, pur ammettendo che l’opera musicale non suggerisca alcun significato extramusi-cale, e sia quindi analizzabile obiettivamente ed esaustivamente solo nelle sue componenti sintattiche e grammaticali, si trova a riflettere sulla capacità della musica di suscitare emo-zioni.

“la musica assoluta, sebbene sia una forma artistica pura, astratta formale, non è un fred-do formalismo. Essa ha un calore umano, perché le emozioni umane sono una parte per-cettiva della sua struttura.” [Ivi, p. 111]

Ispirandosi allo studio condotto da Hartshorne [Ivi, p. 42] sulle le proprietà rappresentazio-nali emotive dei colori, giunge alla conclusione che le sostanze non senzienti, come appun-to i colori e gli accordi, abbiano la capacità di stimolare nel soggetto dell'esperienza una determinata percezione, in una sorta di vocabolario di corrispondenze: l’accordo maggiore è associato alla serenità, l’accordo minore alla tristezza, l’accordo diminuito alla tensione, la ripetizione di moduli è connessa ad una sensazione di benessere ed abituazione, l’inclu-sione di variazioni alla sorpresa.

Con una tale semplicistica enunciazione non sono considerati alcuni fattori fondamentali: in primo luogo la variabilità di risposte emotive ad una stessa esperienza sonora, ed in secon-do luogo la totale assenza di univocità del materiale musicale: pensiamo per un attimo al-l’atonalità delle composizioni per gamelan in Indonesia, alle vocalizzazioni del teatro No, al-la musica rituale dei Venda, alla mazurka dei paesi austriaci. Se dovessimo pur considerare valide le teorie del formalismo di Kivy, deno-minato arricchito proprio per l’inclusione di tale glossario accordo-emozione, queste costituirebbero non una teoria della musica, ma una teoria di una particolare musica, la musica strumentale da concerto, ascoltata da un particolare gruppo di fruitori.

Come abbiamo potuto riscontrare dalla car-rellata di filosofie della musica esposta in questo breve articolo, spesso l’atteggiamen-to teorico principale è la ricerca di uno sta-tus di oggettività per una manifestazione umana che di replicabile e misurabile ha davvero ben poco. La musica nasce e si svi-

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luppa tuttora come medium di comunicazione emotivo-sociale [Mithen, 2007], grazie al quale il compositore suggestiona l’immaginazione del singolo ascoltatore in maniera stretta-mente personale, non riproducibile e soprattutto non riducibile a semplici equivalenze tra risposta e forma musicale. La fruizione musicale si dipana in un tempo di vita che appare dilatato e si intreccia con il presente, assumendo ogni volta forme diverse: riflettiamo su quante volte lo stesso brano ci ponga in una disposizione differente, a seconda dello stato in cui versa la nostra mente. Come poter rendere oggettiva questa esperienza?

Grazie all'insegnamento dei quattro amici incontrati prima, abbiamo imparato che nessuno di noi reagisce all'ascolto di un brano musicale nell'identica modalità di qualcun altro, e quante volte, pur affermando con forza che “No, questo brano è oggettivamente orren-do!”, ci siamo mestamente resi conto che per centinaia di migliaia di altre persone ciò che aveva guadagnato per noi il titolo di Oggettiva Inascoltabilità dell'anno 2015/2016 è la can-zone favorita di sempre. Possiamo con certezza affermare che tale composizione sia in Fa maggiore, che abbia una determinata pulsazione, che sia composta da un numero di stro-fe e ritornelli, ma quando si giunge a discutere sulle emozioni elicitate e sul giudizio com-plessivo, nel quale un coinvolgimento è determinante, le nostre pretese di oggettività crolla-no.

Il dubbio che sorge attorno alla pretesa scientista scaturisce da un’osservazione tanto ba-nale quanto illuminante, che troviamo ben esposta nel testo di Alan Wallace Contemplative Science:

“the only instrument humanity has ever had for directly observing the mind is the mind itself” [Wallace, 2007, p.51]

Come possiamo provare che un altro essere umano abbia coscienza? E come invece sta-bilire il carattere qualitativo delle sue sensazioni, percezioni, elaborazioni, memorie? Sempli-ce: non possiamo. Ci fidiamo della sua parola sia quando ci confessa di amarci, che quan-do esprime preferenza per un brano musicale. Detto questo: può la nostra conoscenza sul-l’esigenza musicale garantire una valenza oggettiva? Senza ombra di dubbio molti degli strumenti, utilizzati nell’indagine neuropsicologica e fisico-acustica associata ai fenomeni musicali, producono dei risultati replicabili e misurabili, entrambi garanti di oggettività per la scienza contemporanea, ma quanto questi dati scientifici descrivono e ci consentono di valutare l’esperienza musicale nella sua interezza? Riflessioni di tale natura ci precedono di secoli: nel suo Essai historique et philosophique sur le gout del 1736, Francois Cartaud de

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la Villate vaticinava: “una scienza i cui principi variano secondo i capricci del gusto non può essere stabilita sulle regole immutabili delle proporzioni” [Maniates, 1969, p. 119]

Ed ecco che nelle nostre peregrinazioni teoriche si affaccia un concetto relativamente nuo-vo nell’indagine epistemologica, che dobbiamo sicuramente all’apporto della fenomenolo-gia nella filosofia della scienza del XX secolo: l’intersoggettività, intesa come umana condivi-sione di stati prettamente soggettivi, come appunto l’esigenza e l’esperienza musicale.

Se esiste una sfumatura poetica dell’intersoggettività, essa risiede nella comunicazione che tale realtà richiede, per la costruzione di una conoscenza psicologica, antropologica, sociale di natura olistica, in cui l’intero non è definibile dalla somma delle parti: l’interpreta-zione dei dati diagnostici, come delle rilevazioni strumentali, deve avvenire utilizzando un occhio che comprenda l’intero scenario, non solo l’insieme dei suoi punti. Concretizzando: al fine di analizzare la musica e comprendere il motivo per cui alberghi in ogni esistenza, oc-corre sicuramente raccogliere dati sulle attivazioni delle aree cerebrali, sulla modificazione dei parametri vitali, sulle corrispondenze tra forme musicali e reazioni emotive, ma maggior-mente esiste la necessità di leggere questi dati ben sapendo che siamo qualcosa in più ri-spetto ai 100 miliardi circa di neuroni del nostro cervello. Siamo coscienze, percettori, che filtrano gli input esterni rispondendo in maniera assolutamente individuale, proprio come i quattro amici verso un sabato sera qualunque.

Lo scopo della filosofia dovrebbe proprio essere quello di raccogliere i contributi di tutte le discipline impegnate sul medesimo problema, tracciando linee a matita per individuare i punti di contatto, le possibili nuove domande, le ripercussioni etiche, le incongruenze.

“Così a questo serve essere filosofi”, penso mentre nel cerchio delle presentazioni sta pro-prio per arrivare il mio turno, “ed ora come faccio a spiegarlo? Meglio scrivere un articolo.”.

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09 gennaio 2016 I disturbi di personalità. Stile cognitivo e meccanismi di difesaa cura di Annesa Farinello

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13 febbraio 2016Il gioco: occasione di crescita e sperimentazione del bambino. Gli intrecci tra il gioco e lo sviluppo del bambino in età prescolare. Il ruolo dell’adulto nel gioco con il bambino.a cura di Stefanella Michielin e Giorgio De Battistini

13 febbraio 2016 Musicoterapia e Alzheimera cura di Giovanni Vizzano

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Informazioni: http://www.bamt.org/DB/events/symbolic-play-in-music-therapy-working-with-themes.html

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Lecco Musicoterapia e deficit visivo. Risorse, problematiche e prospettive di integrazione

3 – 6 luglio 2014

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20 febbraio 2016 La relazione. Quando la comunicazione non è fatta di parolea cura di Roberta Pagliara

27 febbraio 2016 Trance, estasi...e Musicoterapia?a cura di Giangiuseppe Bonardi

12 marzo 2016 Le tecniche di studio e le neuroscienze. Capire come funziona la mente per imparare ad imparare.a cura di Silvia Poli

19 marzo 2016 Corrispondenze tra musica e pittura. Parallelismi tra le arti nelle avanguardie storichea cura di Alberto La Rocca

2 aprile 2016 Daniel Stern: la sintonizzazione e la prospettiva relazionale.a cura di Stefano Navone

16 aprile 2016 Mindfulnessa cura di Arianna Bigarella

21 maggio 2016 Introduzione alla Musicoterapia. a cura di Lucia Lovato e Giorgio De Battistini

PER INFORMAZIONIWWW.ISTITUTOMUSICALEVENETO.IT

7 MAGGIO 2016 CONVEGNO DI MUSICOTERAPIAIl suono che sente, il sentire che curaorganizzato dal Centro Studi Musicoterapia Alto Vicentino

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BIBLIOGRAFIACOMPLETA

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