ERALDO AFFINATI Legge I Quarantanove Racconti Di Ernest Hemingway

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PICCOLA BIBLIOTECA DEL ROMANZO 5 collana diretta da Corrado Donati e Massimo Rizzante

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PICCOLA BIBLIOTECA DEL ROMANZO

5

collana diretta daCorrado Donati e Massimo Rizzante

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Eraldo Affinati

legge

I quarantanove racconti

di Ernest Hemingway

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La prima edizione originale dei Quarantanoveracconti di Ernest Hemingway, comprensiva dellacommedia La quinta colonna, è The Fifth Columnand the First Forty-nine Stories, Scribner’s, New York1938. La prima edizione italiana è I quarantanoveracconti, traduzione di Giuseppe Trevisani,Einaudi, Torino 1947. Le citazioni sono tratte,nella medesima traduzione, da I quarantanove rac-conti, Oscar Mondadori, Milano 1966, tranne quel-la del racconto Un posto pulito, illuminato bene, incui ho utilizzato la versione di VincenzoMantovani, ripresa da Tutti i racconti (a cura diFernanda Pivano), Oscar Grandi ClassiciMondadori, Milano 1993.

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Ero arrivato a Ketchum, nell’Idaho, dopo una lun-ghissima traversata. Da Vancouver raggiunsi Seattle inautobus. Poi noleggiai una straordinaria Oldsmobile concambio automatico e puntai verso sud: di Portland, per-corsa nel flusso del traffico ininterrotto, rammento quasisoltanto il caffè bevuto all’angolo di un edificio perico-lante. La città di Eugene, coi suoi bar che assomigliava-no a installazioni d’arte contemporanea, teneva in vitail sogno degli anni Sessanta, come fosse una farfalla inbacheca, trafitta dall’ago.

Dopodiché sterzai verso l’interno: prima la foresta,poi i crateri nerastri di Three Sisters. Continuavo a gui-dare seguendo un impulso istintivo. I deserti dell’Oregonfecero ballare davanti a me i vecchi fantasmi dei primipionieri. Era estate. La temperatura raggiungeva punteinsostenibili: se uscivi dall’automobile protetta dall’ariacondizionata, potevi restarci secco. Dentro i McDonald’s,isolati avamposti nella sconfinata pianura, la gente ave-va uno sguardo allucinato. Ed io mi chiedevo: come si faa vivere qui? Appena valicato il confine dell’Idaho, nel-la Sun Valley finalmente la strada cominciò a salire el’aria si fece più fresca. Da Boise, città infuocata dove a

Il mondo di Nick

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luglio è quasi impossibile passeggiare sui marciapiedi, aStanley, sobborgo fra i monti, il clima cambia all’im-provviso: lassù il paesaggio ricorderebbe le Alpi se alcu-ne diligenze poste all’entrata del villaggio non rammen-tassero al turista il luogo in cui si trova.

Negli ultimi anni della sua esistenza avventurosaErnest Hemingway si trasferì in una casa da queste parti:la costruzione somigliava a una baita, con le valli circo-stanti, i picchi all’orizzonte. A Cuba era scoppiata larivoluzione e, sebbene lo scrittore vantasse buoni rapporticon Fidel Castro, possiamo comprendere le ragioni che lospinsero ad allontanarsi dalla villa di Finca Vigia. Ave-va bisogno di cominciare a capire come contrapporsi al-l’umiliante degrado psico-fisico che lo fiaccava: certo nonavrebbe potuto accettarlo senza compiere un atto divolizione. Stava scontando la senilità, cui tutti siamo de-stinati, con selvaggia determinazione: come un vecchio lupo,sentiva che l’ora fatale si avvicinava e intendeva ritirarsinell’antro scuro della foresta a compiere il rito estremo diguerra e pacificazione, insieme. Lasciatemi stare, sembra-va dicesse, voglio morire solo, lontano dal frastuono e dal-la celebrità che mi sono creato dando libero sfogo alla miaimmaginazione. Ma curiosi e giornalisti non lo lasciava-no in pace. D’inverno se ne andava a passeggiare lungo ilfiume indossando impermeabili sdruciti e antiquati ber-retti europei. Faceva l’appello dei mondi fantastici che erariuscito a far vivere nell’inchiostro: gli indiani del nuovocontinente e i patrioti di quello vecchio, i tori, le canne dapesca, le lotte per una società che fosse all’altezza dei no-stri sogni, Madrid, Milano, Venezia, un’idea di Parigi.

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La Sun Valley, anche grazie alla sua presenza, di-ventò presto una località turistica, un luogo alla moda,frequentato dai rampolli di famiglie benestanti, falsiartisti, cacciatori di celebrità, ma alla fine degli anniCinquanta doveva essere un posto sperduto di notevolefascino che le carovane dei cow-boys non avevano degnatodi uno sguardo, lanciate com’erano a tutta forza versol’agognato Oceano Pacifico. A Hemingway invece Ketchumfaceva venire in mente l’Italia dove era stato giovane,bello e forte: le bottiglie d’Asti, le battute di caccia nellalaguna, i contrafforti sulla Bainsizza.

«Sul finire di quell’estate abitavamo in un villaggiodove di là dal fiume e dalla pianura si vedevano i mon-ti»: comincia così Addio alle armi. Chi non ricordal’intrepido ufficiale americano nella fotografia che lo ri-trae sdraiato sul letto d’ospedale a Milano, con quellaleggendaria ferita al ginocchio che si procurò partecipan-do alla Grande Guerra? Insomma il ridente scenariomontano della Sun Valley rappresentava per Hemingwayla chiusura del cerchio. Gli faceva capire che tutto ritor-na. E, subito dopo, finisce.

Aveva appena composto Festa mobile, meraviglio-so canto d’addio a passo di danza, senza riuscire a trat-tenere l’amarezza. I medici lo costrinsero a ricoverarsialla Mayo Clinic di Rochester nel Minnesota dove fusottoposto a una serie di elettroshock in funzioneantidepressiva. Tornò a Ketchum affranto e deluso. Bur-bero, litigava per un nonnulla. Gli era presa l’ossessionedell’FBI: credeva di essere pedinato. Temeva di finire sullastrico. Il suo proverbiale entusiasmo si stava trasfor-

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mando in un singulto strozzato. Povero vecchio Papa! Icamici bianchi gli dicevano che soffriva di manie di perse-cuzione, senso di colpa. Tutte chiacchiere. Lui sapevaquale era il vero problema: infilava il foglio bianco nelrullo della macchina da scrivere e lo fissava sconsolatoper un tempo interminabile. Così non poteva durare.Senza le magie del vecchio cacciatore la vita non possede-va più alcun senso, i trofei conquistati con il talento e ladisciplina precipitavano a terra uno dietro l’altro.

Ed ecco le ore conclusive, ricostruite una per una neimanuali di mezzo mondo. Il 1 luglio del 1961 trascorseuna giornata serena. La sera canticchiò insieme a Mary,l’ultima moglie, un famoso motivo appreso nei suoi sog-giorni a Cortina: «Tutti mi chiamano bionda, ma bion-da io non sono: porto i capelli neri». Ancora una volta ilnostro Paese gli apparve il luogo di una possibile, tenta-ta felicità. La mattina dopo era domenica. Hemingwaysi alzò alle sette. Scese nel ripostiglio – la chiave in gene-re la teneva Mary, ma quel giorno, non si sa perché, cel’aveva lui – prese il fucile, lo caricò con due proiettili.Gesti e movimenti che conosceva bene: avevano sempreaccompagnato le ore più intense, quando il sole nasce inAfrica, oppure prima che venga buio, in certe macchie delnord-Italia. Tornò di sopra, puntò l’arma contro la testae fece fuoco. Trentatré anni prima suo padre era mortoallo stesso modo. C’erano stati tanti suicidi nella storiadella famiglia. Il funerale si svolse il 5 luglio. La tombafu posta sotto due pini, all’ombra, secondo il desiderio diErnest.

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Osservo la vecchia copia dei Quarantanove rac-conti, negli Oscar Mondadori: fracassato registra-tore di emozioni lontane. Squinternata, i foglipersi, nella traduzione di Giuseppe Trevisani, pre-senta in copertina il celebre fumetto a colori delpugile coi guantoni sulle spalle. Da ragazzo lessiun’infinità di volte le pagine di Hemingway. Oggicredo di non percepirlo più nei modi che mi era-no chiari allora. Da giovane sforbiciavo tutto ciòche non m’interessava. A una certa età non te lopuoi più permettere.

The Fifth Column and The First Forty-nine Storiesvenne stampato il 14 ottobre 1938 dall’editoreScribner’s di New York. A parte La quinta colon-na, una commedia che parve subito il classicocorpo estraneo dentro la struttura narrativa del-l’opera, sebbene non lo fosse sino in fondo, il li-bro si presentava come il frutto stratigrafico diprecedenti raccolte: Three Stories and Ten Poems(1923), in our time (1924), In Our Time (1925), MenWithout Women (1927) e Winner Take Nothing(1933), alle quali si aggiungevano quattro racconti

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usciti su riviste un paio d’anni prima ma posti inapertura del nuovo libro: Breve la vita felice di FrancisMacomber, La capitale del mondo, Le nevi delKilimanjaro e Vecchio al ponte.

Se esistesse un Trofeo del Fraintendimento,Hemingway l’avrebbe vinto da un pezzo. C’è for-se un altro autore così letto, famoso e altrettantosconosciuto? Nel 1956 regalò 1000 dollari a EzraPound, il quale non se la passava granché beneessendo ricoverato nel manicomio criminale diSaint Elisabeth, alla periferia di Washington. Tan-to tempo prima, nello studio di rue Notre-Dame-des-Champs, a Parigi, Ernest lo aveva allenatoalla boxe, ottenendo scarsi risultati: «Non riusciimai a insegnargli a portare un gancio sinistro e afargli accorciare il destro ci avrei pensato in av-venire» leggiamo in Festa mobile. Con Francis ScottFitzgerald non fu altrettanto tenero: in quellostesso libro lo mise in ridicolo svelando il pateti-co timore che il vecchio amico avrebbe mostratonei confronti della propria virilità e che neppureuna breve visita al Louvre, per controllare le mi-sure delle statue antiche, a parere dell’implacabi-le diarista, contribuì a dissipare.

Episodi come questo, ancora oggi, caratteriz-zano la sua immagine: evidenziando l’uomo, neoffuscano la pagina. Un vero peccato perché sia-mo di fronte a una prosa di qualità pregiata: unodei migliori esempi di lirismo oggettivo del ven-tesimo secolo. E anche nell’Ottocento, se doves-

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simo andare con la mente a opere di tale nitore,dovremmo citare i vertici: I racconti di Belkin e Ladonna di picche di Puškin, il Tolstoj dei pezzi brevi,Heinrich von Kleist. Non sembrino paragoni az-zardati: nel sangue della short story, lo sapevaVladimir Nabokov, scorre più di qualche gocciarussa. Comunque il vecchio Maestro sarebbe statofelice se, invece di stroncarlo, gli avessero dettoche era riuscito a realizzare con la penna lo sco-po che Paul Cézanne, da lui tanto stimato, rag-giunse sulla tela. Così come per il grande autoredella Montagne Sainte-Victoire dipingere equivale arappresentare, lavorando sulla «petite sensation»che l’impressione visiva deposita sulla retina del-l’occhio, il farsi della coscienza in atto, lo scritto-re americano ritaglia, attraverso lo spettacoloanimato delle sue passioni esclusive, le figure inmovimento del pensiero, il delinearsi dei caratte-ri, i materiali che formano l’identità di un uomo.Quanto al resto, glorie, ideali, rinnovamenti, pos-sibili vie di fuga, non si era mai fatto illusioni.Neppure da giovane.

A ventiquattro anni dichiarò a se stesso: sonoadulto. Conosco il mondo. Ve lo dico io cosa c’èdietro i sentimenti: una fila di vermi. E scrisse Sunel Michigan che Gertrude Stein ebbe l’impronti-tudine di considerare scandaloso, quindiimpubblicabile. L’amore ingenuo di Liz, came-riera presso la signora Smith, nei confronti di Jim,fabbro appena giunto a Hortons Bay dal Canada,

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finisce nel modo peggiore. L’uomo forza da ubria-co la volontà della donna che pure lo aveva inco-raggiato e si addormenta sfinito sul corpo di lei.

Il ghigno trionfante di Hemingway c’è già tut-to. Ciò che resta nel suo primo vero racconto, piùche lo scacco, è il vitalismo. Intendiamoci: nonl’esibizione narcisistica dell’ipertrofico io. Piut-tosto l’energia incapace di requie. L’insoddisfa-zione per ciò che la vita ci offre. La protesta con-tro la fine della gioventù. La coda spezzata dellalucertola.

Lo stile secco e imperturbabile si lascia dietrocome una schiuma le descrizioni paesaggistichedi Sherwood Anderson, il quale aveva firmato lanota editoriale di In Our Time, oltre che, va da sé,i gargarismi verbali di Gertrude Stein, equivocaprotettrice del giovane talento. Il lettore si mettedalla parte di chi scrive: mastica amaro ma capi-sce che la verità, se non sta lì, nell’infatuazionedi Liz, punita con il randello da un qualche giudi-ce isterico, dobbiamo cercarla altrove, forse in ciòche nascerà dalle sue lacrime. Hemingway conti-nua a dirigere la letteratura contemporanea an-che da morto: pigi un tasto e senti un suono. Sunel Michigan oggi è Annie Proulx. Ma in fondo an-che Alice Munro, narratrice tanto più complessae sofisticata, è lecito ipotizzarlo, custodisce que-ste due pagine in un suo scrigno segreto.

Colpisce, nella preistoria del racconto hemin-gwaiano, l’economia dei mezzi espressivi. L’esilità

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tematica dei primi brani non potrebbe esseremaggiore. Fuori stagione è ambientato a Cortina,dopo la Grande Guerra. Una giovane coppia disposi americana, che non va per niente d’accor-do, si accompagna a Peduzzi, alcolizzato dimarsala, rudere umano. La ragazza torna indie-tro prima ancora di arrivare sul greto. La guidaha dimenticato il piombo per l’esca. A domaniallora, ammesso che l’appuntamento venga ri-spettato.

Tutto qui. Non c’è altro. Eppure siamo difronte a una plausibile risposta al cosiddetto ro-manzo internazionale di Henry James. Difficiletrovare due scrittori così diversi. Da una parteuno scienziato dell’animo. Dall’altra un teppi-sta. Là grovigli coscienziali incarnati in splendi-di ritratti di signora; qui giovanotti insofferentie ribelli non sanno neanche loro contro cosa. Segli esiliati di Hemingway non vedono scalfitaoltreoceano la loro tempra, ciò non ci autorizzaa rubricarli nella tradizione che James s’era mes-so alle spalle. Il principio d’omissione, espressocon esemplare chiarezza in Morte nel pomeriggio(1932), secondo cui in letteratura, assai più del-le parole stampate, è importante scoprire quelleche restano celate, emerge allo stato puro: s’in-dovinano, non si vedono in modo esplicito, lecrepe della coppia, l’insofferenza del protagoni-sta per il furbo sensale, la triste infingardagginedi Peduzzi.

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Lo scrittore conquista immediatamente unplasticismo tutto suo. Non si fa risucchiare dalgorgo dell’inconscio: lo domina tecnicamente.Come scrisse Silvio D’Arzo, assai più che un sem-plice interprete, «fare una breve fiammata è lacosa più facile al mondo: l’importante (e il diffi-cile) è non lasciare nessunissima traccia di zolfo.E in lui», alludeva proprio a Hemingway, «questatraccia ben raramente riuscirete a trovarla». È unamaestria del meccanismo quella che Ernest rap-presenta. Ciò accade quando l’esperienza si facarne viva.

«L’importante è quel che non si vede. Se unoscrittore omette qualcosa perché è all’oscuro, al-lora le lacune si noteranno». In questa frase, pre-sente anche nella celebre intervista concessa aGeorge Plimpton che in italiano s’intitola Il prin-cipio dell’iceberg, riecheggia una battuta di LevTolstoj raccolta da Maksim Gor’kij, il quale ave-va letto all’autore di Guerra e pace una scena deiBassifondi chiedendone il giudizio. L’interpellatofu tutt’altro che tenero: «Salta sempre come ungallo su tutto. E per giunta cerca di nascondere lecrepe e le finzioni coi colori. Rammenti quel chediceva Andersen: “La doratura se ne andrà e re-sterà la pelle di porco”».

Alla radice di un simile atteggiamento trovia-mo, ancora una volta, Émile Zola con le taschedella giacca gonfie dei fogli di appunti presi alleHalles: uno dei fondatori del romanzo moderno

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se il naturalismo è, come è, la sua matrice.Hemingway capisce subito, in un colpo solo, duecose fondamentali: l’esperienza va consideratanecessaria ma da sola non basta; così come lapadronanza dello strumento resta obbligatoriaeppure non è tutto. Il giovane scrittore accetta illimite, mantiene la posizione, sulla pagina e nellavita: questa sarà sempre la sua carta. La stessache, nel momento in cui gli consente di vincere,lo condanna alla sconfitta.

Conclude il terzetto di Three Stories and TenPoems l’unico racconto scampato all’incredibileperdita dei manoscritti subita dalla prima moglieHadley alla Gare de Lyon: Il mio vecchio. È la de-gustazione di una mestizia. Joe osserva il padrefantino. Lo segue negli ippodromi di San Siro,Mirafiori, Saint Cloud. Lo vede perdere peso peressere sempre più leggero e competitivo. Ne scru-ta con sconcerto certi loschi traffici. Assiste alli-bito alla sua morte una piovosa domenica al Prixdu Marat di Auteuil. Negli istanti successivi allarovinosa caduta, Joe sente alcuni individui spar-lare di lui ma George, l’amico del padre, gli con-siglia di non badare alle loro frasi.

Il mio vecchio assomiglia a una frustata: il figlioscopre che il genitore era un imbroglione. Tantianni dopo, questo magnifico racconto sembra tor-nare, trasfigurato e risolto, nell’ultima parte di Nel-l’esercito del faraone di Tobias Wolff, il cui protago-nista, reduce dal Vietnam, osserva l’uomo che gli

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ha dato la vita senza illudersi di poterlo cambiare:«Lo lasciai procedere a ruota libera. Anzi, lo inco-raggiavo. Non avevo più bisogno di credergli».

Sul molo di Smirne, uscito quale introduzione aIn Our Time, si configura come una scheggia degliarticoli inviati al «Toronto Star». In particolarequelli dal fronte greco-turco. Ci sono immaginidestinate a restare per sempre nell’animo delloscrittore: le donne che partoriscono nella stivadelle navi, i muli con le zampe rotte scaraventatinell’acqua. Per trovare la voce dell’ufficiale stra-volto dai civili in fuga pare che Hemingway siispirasse a un soldato di ventura, colonnelloCharles Sweeny, realmente conosciuto. Il raccon-to, insieme al corsivo numero tre, dedicato almedesimo evento bellico, è un anticipo di Addioalle armi. Siamo già dentro il ritmo incalzante delreferto biografico, nella complessità interiore deiconsuntivi spirituali. Il caos della ritirata, il sensodi tracollo che gli italiani avvertirono, la confu-sione dei comandi militari, la furia esecutiva deicarabinieri che fucilavano all’istante chiunqueavesse l’aspetto di un disertore, la fretta negliocchi dei fuggitivi, la paura dei soldati, la vergo-gna dei comandanti, la tragedia delle popolazio-ni: tutto ciò viene rievocato in quel libro grazie arapidi tocchi, con descrizioni che paiono incor-porate nei dialoghi.

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L’avventura bellica non fu per Hemingway unacorsa pazza fra le rovine della storia. Se parago-niamo La speranza di André Malraux a Per chi suo-na la campana, libri scritti a caldo sulla guerra ci-vile spagnola, troveremo due soluzioni opposte especulari allo stesso problema espressivo. Nelloscrittore francese il presente giornalistico brucial’azione nella cronaca, non conserva niente die-tro di sé ma neppure lascia presagire un futuro: èuna fiaccola nel buio. In Heminway il reportage èun’istruttoria psichica necessaria all’accensionenarrativa: la sua Spagna, rispetto a quella diMalraux, sembra eterna, immutabile, fuori dal tem-po: una pietra scolpita nella roccia.

Tornando a Addio alle armi, è stato un ameri-cano a dirci cosa fu la nostra rotta. I connotati diquella visione, come dimostra Sul molo di Smirne,si formarono in lui nel 1922 fra Adrianopoli e lastrada di Karagaç. La sensazione dell’abbandonodesolato gli suggerisce sempre la medesima mos-sa: una frantumazione che la scrittura s’incaricadi ricomporre. La prosa di Hemingway è ortope-dica. Come Joe guardava il padre da dietro unvetro appannato, così i carri carichi di masseriziedei profughi greci assomigliano a frammenti diun documentario in bianco e nero. Nel tagliopercettivo scelto dallo scrittore c’erano sì leMademoiselles d’Avignon, ma soprattutto il ricordolancinante delle lacrime trattenute da bambino.Ecco perché l’invenzione di Nick Adams rappre-

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senta la conquista del suo mondo.Da questo ragazzo con gli occhi aperti e il cuo-

re sveglio, cugino di Tom Sawyer e di HuckleberryFinn non meno che di Lord Jim e Henry Fleming,Hemingway non si sarebbe più staccato malgra-do sembrasse liquidarlo già nella precoce senilitàspirituale di Jake Barnes in Fiesta. Al contrario,subito ritrovò il suo selvaticume nella pace sepa-rata di Frederic Henry, nelle cocenti umiliazionie nella ferma volontà di riscatto di FrancisMacomber, perfino in certi estremi sconforti deidue Harry: lo splendido cacciatore africano e ilmesto contrabbandiere fra Key West e Cuba. Manmano che gli anni passavano continuò a coltivar-ne la memoria: da Philip Rawlings, improbabilespia all’hotel Florida di Madrid, a Robert Jordan,il cui amore con Maria dentro il sacco a pelo, tan-to bistrattato dai critici, altro non era che un omag-gio a Nick; da Buck Lanham, incompreso colon-nello mimetizzato nelle botti di quercia usate nelVeneto come appostamenti per i cacciatori in at-tesa del passaggio dei germani reali, a Santiago,indomito pescatore, le mani insanguinate nellatensione dell’esca, fino all’ultima grandescazzottatura di Thomas Hudson, che neppure ilmercurocromo riuscirà a lenire.

Erano tutti modi per dirci addio prima dellavera partenza.

L’opera di Ernest Hemingway poggia su Nick:formidabile groviglio di alter-ego, il cui esordio è

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in Campo indiano, dove il ragazzo accompagna ilpadre medico e lo zio George nell’accampamento.Una donna da due giorni non ce la fa a sgravare.Sarà necessario praticarle un rudimentale cesareo.Il marito della partoriente, disteso in cuccetta, nonsopportando le urla, si taglia la gola con il pugnale.

Un tempo neppure riuscivo a seguire questasemplice trama. La davo per scontata. Trascuravogli adulti bianchi, come se la loro sapienza fosseposticcia. Gli indiani m’incutevano soggezione.Nick, lui sì, m’affascinava, anche se non capivobene perché. Durante il cesareo distoglie gli occhima vede il suicida prima che George lo trascinivia. È un semplice spettatore. Solo questo intui-vo. Come nel Dottore e sua moglie. Un paio di indianistanno per mettersi a segare un tronco per il medi-co, proprietario della tenuta. Uno di loro, DickBoulton, un mezzosangue, dice che si tratta di le-gno rubato. Nasce un diverbio al termine del qua-le la moglie del dottore, invece di difendere il ma-rito, lo invita a considerare le ragioni dell’avversa-rio. L’uomo si irrita ancora di più e se ne va sbat-tendo la porta. Poco dopo invita il figlio, che si eralimitato ad assistere alla scena, a seguirlo nel bo-sco per osservare gli scoiattoli.

Perché Nick resta alla ringhiera? Dipende dalsuo essere scrittore. Anche quando diventa pro-tagonista dell’evento, in La fine di qualcosa, nonpartecipa all’azione: lascia che siano gli altri afarlo. Marjorie, la fidanzata indiana, vedendolo

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silenzioso, gli chiede spiegazioni. Lo straordinarioragazzo, durante la sosta della pesca nella baia, dicesoltanto: «Non è più divertente». La ragazza trat-tiene ogni reazione inconsulta. Monta sulla barcae toglie il disturbo. La bella figura la fa lei, non lui.

In Colline come elefanti bianchi, ambientato inSpagna, al tavolo di un bar vicino alla stazioneferroviaria, accade la medesima cosa. L’uomovorrebbe convincere la sua compagna ad aborti-re. Lei gli impartisce una lezione indimenticabi-le. Si alza in piedi e cammina verso i binari. «Lon-tano, oltre il fiume, c’erano delle montagne. L’om-bra di una nuvola passava sul campo di grano etra gli alberi si vedeva il fiume».

La tipica apertura paesaggistica di Hemingway.«Potremmo avere tutto questo», afferma la don-na. L’uomo, quasi interdetto, replica: certo chepossiamo. «Il mondo è nostro».

Lei lo mette al muro: «No, non lo è. E quandote l’hanno portato via, non riesci a riaverlo maipiù». Questa sarebbe la misoginia che EdmundWilson rimproverava a Hemingway? Quello chelo studioso chiamava così, altro non era che pu-dore, timidezza, fragilità.

La fine di qualcosa, composto nel 1924, possie-de ancora oggi una notevole potenza evocativaper l’ambiente lacustre nel quale avviene l’addio,nei pressi di una segheria abbandonata, con evi-dente allusione poetica a una trascorsa alacritàproduttiva spezzata allo stesso modo dell’amore

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fra i due protagonisti. È un racconto da mettereinsieme a Dieci indiani, scritto due anni dopo, incui Nick apprende dal genitore che la sua fidan-zata, Prudence Mitchell, sta con Frank: «Erano...erano» bisbiglia imbarazzato.

«Erano cosa?»«Erano felici?» vuole sapere il figlio.«Direi di sì» risponde il padre uscendo dalla

porta della cucina.Chissà quanto tempo resta fuori. Hemingway

lascia a noi ogni supposizione al riguardo. Quan-do l’uomo torna indietro, Nick ha ancora gli oc-chi nel piatto.

Lasciare, essere lasciati. La palestra dell’ado-lescenza. Se leggo Richard Ford, non posso farea meno di pensare ai due racconti appena citati.E naturalmente, facendo questo nome, do perscontato quello di Raymond Carver, i cui fallitihanno perduto ogni possibilità di riscatto che nonsia quella, stilistica, di chi li ha creati.

Ho riflettuto sulla seguente equivalenza:Hemingway sta a Tolstoj come Carver sta aČechov. I due scrittori americani hanno compo-sto i loro racconti nel rimbombo di una gigante-sca risacca proveniente dallo Stretto di Bering. Èproprio vero, come scrisse Ugo Foscolo, che i mortisopravvivono in chi li ricorda. La letteratura nerappresenta una dimostrazione.

Dopo la fine del rapporto sentimentale com-pare Bill, amico di Nick anche nel successivo

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Tre giorni di vento. I due ragazzi, per affogare l’ama-rezza, si ubriacano con il whisky parlando di pe-sca e baseball, Walpole e Chesterton. Il padre diBill fa il pittore. A un certo punto si sente unosparo. Secondo l’arte della sottrazione cuiHemingway aderì, il vecchio dovrebbe essersisuicidato ma sulla pagina questo esito non risultaperfettamente congruo. Il dialogato sembra unosso spolpato. È l’amicizia dei sedici, diciassetteanni, fatta di niente, ma finalmente priva di orpellilirici. L’adolescenza poetica e nostalgica allaGrand Meaulnes descritta da Alain Fournier subi-sce qui un colpo di scure.

Si susseguono frattanto i famosi diciotto cor-sivi di in our time, utilizzati fra un capitolo e l’al-tro di In Our Time e quindi trasferiti nella raccoltadei quarantanove racconti: frammenti bellici, epi-sodi ispirati alla corrida, oppure alla cronaca nera,tesi a creare una risonanza emotiva dentro il li-bro senza apparente logica connettiva. Gridi didolore. Frammenti visivi. Attraverso le brevi pro-se percepiamo il caos del mondo in cui l’indivi-duo si sente gettato, infanzia e violenza attorci-gliate, il passato che sfugge per sempre. Sono leepifanie dello scrittore americano. Le sueintermittenze del cuore.

Due corsivi li ritroviamo quali racconti auto-nomi: Una storia molto breve (un’altra rottura dicoppia) e Il rivoluzionario (il ritratto di un comu-nista magiaro). Amo pensare che la terribile de-

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lusione rievocata nel primo brano (lei fa all’amo-re con un maggiore degli arditi e lui si prende loscolo in taxi da una commessa del Loop) sia en-trata, in modo subliminale, nella sensibilità este-tica americana al punto da lasciare il segno nelfilm di Terrence Malinck La sottile linea rossa. Miriferisco alla scena in cui un ranger, in missionenell’isola di Guadalcanal, si apparta nella sgan-gherata pista aeronautica della base militare perleggere la lettera della sua donna in cui apprendedi essere rimasto solo.

Episodi simili non devono farci pensare a unsemplice realismo. Hemingway costruisce formeconoscitive: il Reduce, l’Indiano, la Donna, ilBambino, l’Arena, il Fucile, Cortina, Venezia,Parigi. Non osserva il mondo attraverso questemaschere; le considera seconde pelli, indossan-dole una sull’altra come strati sovrapponibili. Ilsuo atlante italiano è legatissimo al sentimentodella Prima Guerra Mondiale.

Padova coi rondoni, Pordenone triste, Bassanoazzurra, Schio piovosa, la convalescenza dallaferita al ginocchio trascorsa a Milano. Quest’ul-tima città, in particolare, rifulge come una no-stalgica gemma nel racconto In un altro Paese (laselvaggina esposta nelle vetrine dei negozi vici-no alla Scala col vento che gonfia la coda dellevolpi), prima del ritratto agrodolce di Che ti dicela patria? (Italy 1927 era il titolo iniziale: itinera-rio di viaggio ligure, emiliano-romagnolo in Ford

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coupé con l’indimenticabile osteria di La Speziadove le prostitute fanno anche le cameriere), con-dizionato dall’atmosfera plumbea, non più festo-sa, che lo scrittore aveva respirato fra gli Appen-nini e il mare osservando la nascita del fascismo.

Non appena torna con la memoria alla giovi-nezza veneta, Hemingway diventa indelebile. Il ru-more dei bachi da seta che, in Spiegazione di me stes-so, impedisce al protagonista di dormire (signortenente, dia retta a me, gli suggerisce in inglese ilsuo attendente: si sposi), è entrato a far parte diuna misteriosa colonna sonora novecentesca, pre-sente nei mondi interiori di numerose generazioni.

Ognuno dei Quarantanove racconti fa scricchio-lare la letteratura americana, segnalando il pas-saggio dello scrittore sulla sua lunga trave. I ca-daveri ancora in terra dopo l’assalto visti da Nickin Qualcosa che mai proverete ci fanno capire l’im-portanza di Ambrose Bierce e Stephen Crane.Perfino quando, in Soltanto una domanda (l’incli-nazione omosessuale di un maggiore in trincea,un episodio di fatto rievocato da Sam Pechinpahnel film La croce di ferro senza peraltro dichiarareil debito), si addentra nell’analisi psicologica cuicon ogni evidenza appare inadatto, Hemingwayottiene sempre una resa espressiva che altri scrit-tori, venuti prima e dopo di lui, hanno inutilmen-te cercato, senza mai trovare.

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The Battler, Il lottatore, fu composto nel 1925.Nick viene buttato giù dal treno merci fraKalkaska e Mancelona, nel Michigan. In una ra-dura di bosco incontra Ad Francis, dal volto sfi-gurato, senza un orecchio, che afferma di esserematto e sembra prenderlo in simpatia: gli offreda mangiare (uova fritte in padella con fette dipancetta) ma quando il ragazzo si rifiuta di dar-gli il coltello vorrebbe picchiarlo. Per fortunaarriva il negro Bugs che abbatte il gigante e rac-conta a Nick la sua vera storia: campione dipugilato, si sposò con una ragazza che ancoragli manda dei soldi. Bugs protegge Ad da se stes-so in primo luogo.

Qui Ernest Hemingway batte John Steinbecksul suo stesso terreno. Lo anticipa di dodici anniperché Uomini e topi è del 1937. Il lottatore asso-miglia a una specie di mostro ma lo scrittore siferma un attimo prima di trasformarlo nella ma-rionetta novecentesca, fra T. S. Eliot e TodBrowing. In particolare l’autore di Waste Landsuscitò in Hemingway una passione devastatriceil cui documento ufficiale continua ad essere Ilsignor Elliot e signora, pubblicato in origine qualeMr. Smith: feroce satira contro quella che lui, sba-gliando, considerava una poesia cerebrale.

Dopo tanti anni ho ritrovato Il ritorno del solda-to. Senza rendermene conto, avevo continuato ascandagliarlo nelle opere di altri narratori. BeppeFenoglio introiettò Harold Krebs nel suo Ettore.

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S’identificò pure nel rapporto irrisolto tra il figlioe la madre. Nella simpatia che lega Harold aHelen sembra invece di risentire la medesimacongenialità fra Gregor Samsa e sua sorella, nellaMetamorfosi. In fondo Krebs e Samsa non sonopoi così distanti: solo nove anni dopo il capola-voro di Kafka, Hemingway ci fa capire che persentirsi estranei a se stessi e agli altri non è ne-cessario trasformarsi in insetti. Basta essere statiin guerra. Oppure, in senso lato, aver litigato dav-vero con qualcuno.

Tracce di questo percorso di autochiarificazioneriguardano anche il rapporto coniugale: in Gatto sottola pioggia il protagonista non sa come fronteggiarel’insofferenza della moglie che, in un albergo dellariviera, desidera a tutti i costi portarsi in cameraun gatto che ha visto subire l’acquazzone. Montisotto la neve richiama la medesima questione: Nicke George stavolta sono in Svizzera a sciare. Du-rante la discesa sentono di essere felici. Appenaentrano in un rifugio a bere vino cominciano i pro-blemi: la cameriera che li serve è in avanzato statodi gravidanza, il che spinge la controfigura delloscrittore a riflettere su quello che dovrà affrontarequando tornerà negli Stati Uniti dove anche suamoglie sta per avere un bambino.

I testi di cui abbiamo parlato finora ci hannofatto conoscere Nick, ma è solo nell’ultima nar-razione di In Our Time che scopriamo la vera ra-gione del suo starsene sempre in attesa.

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Sto parlando del Gran fiume dei due cuori.Questo dittico narrativo è la carta d’identità

spirituale del giovane Hemingway. L’attacco ri-prende quello di The Battler. Siamo nuovamentenella regione dei Laghi, fra Canada e Usa, il peri-metro di acqua, ghiacci e bufere in cui si formò laprima scintilla della letteratura americana che die-de fuoco all’ultimo dei Mohicani. Il regno dei cac-ciatori di pellicce e degli indiani, quando eranoancora selvaggi, poco prima che l’alcol inaridissein modo irreversibile le loro fonti.

Appena scende dal treno, Nick attraversa ilbosco incendiato della città di Seney, pianta latenda, mangia dal suo scatolame, dorme, si sve-glia, arriva sul fiume e pesca le trote. Non gli ac-cade niente altro, in apparenza. Non ci sono per-sonaggi. Mancano vere azioni tematiche.

Si sta come davanti a un quadro di Mondrian.Presumiamo che Nick, al pari di Harold Krebs,torni dalla Grande Guerra: vuole dimenticare ciòche ha visto o inciderselo meglio sulla pelle conun marchio a fuoco. Per questo si allontana dagliuomini. Nel fogliame bruciato del Michigan cisono i cadaveri di Fossalta: l’occhio del ragazzone conserva il ricordo. Le cavallette annerite usatecome esche assomigliano a schegge provenientidall’Europa. Ma quel che più conta è la manierain cui lo scrittore evoca i movimenti del giovaneprotagonista: la precisione del dettaglio ci fa sen-tire il silenzio intorno a lui.

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Nei nostri anni Steven Heighton, descrivendoin The Shadow Boxer, la storia di una lungainiziazione alla vita nei medesimi luoghi del Granfiume dei due cuori, secondo il vecchio modello deipadri – foresta, pugnale e fucile – drammatica-mente sovrapposto alle nuove regole che il mon-do moderno ci impone – dialettica, politica, ipo-crisia – ha ritrovato la felicità narrativa del Mae-stro. Ha battuto sulla spalla del morto. Lo stessogesto compiuto da James Dickey quando in Ocea-no bianco raccontò l’incredibile peripezia del mi-tragliere Muldrow, precipitato in territorio giap-ponese durante uno degli ultimi bombardamentidella seconda guerra mondiale, teso a sopravvi-vere nella sua lunga fuga verso la desolata isoladi Hokkaido.

L’interiorità, feticcio novecentesco, scaturiscein Hemingway da una secrezione del gesto. Nick,nel suo strepitoso ultimatum di giovinezza,schermato dalla terza persona, non è meno in-tenso del monologo di Molly. Con una differenzaessenziale: lo scrittore americano non si potevapermettere l’effetto di simulazione joyciano. Perlui sarebbe stato inutile, oltreché irrealizzabile,riprodurre artificialmente, con un prodigiostilistico e una sconfinata sapienza, il gorgopsichico, in quanto, a ragione o torto, s’era con-vinto di non poter imparare niente di più rispettoa quello che si sarebbe potuto immaginare. Sem-mai Nick si accorge di dover restar legato alla

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realtà per dimostrare a se stesso di esserne de-gno: si contenta di molto meno. Quando usciràdal bosco diventerà adulto.

L’invitto è un grande racconto corale. Ci sonotre scene-stazioni incorporate l’una dentro l’altra:la visita di Manuel Garcìa, vecchio torero appenadimesso dall’ospedale, nell’ufficio di don MiguelRetana a Madrid, impresario di corride; l’incontrocon Zurito, il re dei picadores, in un caffè di Puertadel Sol; la corrida vera e propria con il suo esitotragico. La progressione del testo non potrebbeessere più incisiva: il cinismo di Retana appenascalfito dal ricordo della trascorsa gloria di Manuel;la compassione di Zurito che prima invita l’amicoa tagliarsi la coleta e chiuderla in via definitiva conl’arena, poi accetta di offrirgli i suoi servigi; l’edu-cazione elegante e composta della giovane pro-messa Hernandez; la danza di Fuentes, meravi-glioso banderillero intorno al toro furente; la vocespenta del vice-cronista di El Heraldo, il qualedetta privo di passione la sua cronaca senza im-maginare ciò che accadrà di lì a poco; la caricacieca e rabbiosa del toro ferito; la sfida estrema, ase stesso e al mondo, del protagonista, restituitasulla pagina attraverso il clamore dell’evidenzaassoluta, non meno che nel dettaglio rivelatore: ilfodero della spada che s’affloscia appena Manuell’afferra deciso a uccidere l’animale.

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I caratteri dei personaggi restano impressi comeemblemi nella mente del lettore. Hemingway siguarda bene dal metaforizzare la condizione deltorero come invece farà, otto anni dopo, MichelLeiris nel suo celebre saggio (Della letteratura con-siderata come una tauromachia) compreso in Età del-l’uomo. Miguel è soltanto uno che, facendo il pro-prio mestiere, muore. Non allude ad altri che a sestesso. Entriamo insieme a lui nella galleria deisolitari, professionisti della finitudine a cui nes-suno può sottrarsi, che tutti, in quest’ottica, sia-mo invitati ad accettare con la sagace lungimi-ranza dello stoico, privi, per quanto possibile, dellasua superbia intellettuale. Bruciati dal fuoco diquesta consapevolezza. Tanti anni dopo, nel 1956,anche John Ford mostrerà la sua ustione nell’ulti-ma scena dei Sentieri selvaggi, quando EthanEdwars, dopo aver riconsegnato la nipotina, s’in-cammina da solo verso il deserto.

Con Gli uccisori, uno dei più famosi fra i quaran-tanove racconti, la fisionomia del personaggiochiave di Hemingway si scopre nella sua nuditàspirituale. La storia è ambientata a Summit, dalleparti di Chicago. All’Henry bar entrano Al e Max,due strane figure con la bombetta, i vestiti attil-lati e un fucile a canne mozze. Al banco serveGeorge. In cucina lavora Sam, detto il negro. NickAdam resta seduto al tavolo. La tensione dellebattute fra i clienti e George, a proposito dei piattiche ci sono e non ci sono, è memorabile nella sua

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inquietudine ironica. Sarebbe vano aggiungere al-tre notazioni alle migliaia che sono state fatte e sifaranno nelle facoltà letterarie del pianeta sullaprecisione chirurgica del dialogo capace di attrarreperfino Alberto Moravia, che non amavaHemingway e tuttavia tradusse questo racconto.Al si limita a giocare con quelli che si trasforma-no di lì a poco nei suoi ostaggi. Max parla troppo.Il locale era stato un saloon. I due fanno sul se-rio: dopo aver legato Nick e Sam in cucina e avermesso nella bocca di ognuno un asciugamano,dichiarano la loro intenzione: uccidere lo svede-se Ole Andreson. Aspettano che arrivi a cenare.Ma lui non viene. Al e Max tolgono il disturbo.Scompaiono così come sono venuti. Attori di unvaudeville.

Questa prima parte, da sola, potrebbe essereutilizzata come un grande faro d’orientamento sumolta letteratura americana contemporanea. Sen-za The Killers, Cormac McCarthy, che si è bruciatole dita anche nel fuoco di William Faulkner, sareb-be uno scrittore diverso rispetto a quello che è di-ventato. Sam Shepard e Barry Gifford, suoi figlispirituali, lo ipotizzo in un mio diagramma fanta-stico, avrebbero avuto un’altra vita artistica.

Provate a farvi riassumere questo racconto dachi magari lo ha letto tanti anni fa: forse si ferme-rà alle pagine finora ricordate dimenticando il re-sto. Che però è decisivo. Appena gli uccisori esco-no, Sam, Nick e George si chiedono se non sia il

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caso di avvertire Ole Andreson. Il negro non vuo-le immischiarsi. Nick, incoraggiato da George, sisente di dover andare dallo svedese. Il sopranno-me mi fa pensare a Joseph Conrad: Vittoria, il ro-manzo al quale alludo, narra la storia di AxelHeyst, svedese anch’egli perseguitato da loschifiguri, senza aver fatto nulla, se non essere statose stesso. Intendo forse dire che Hemigway abbiacommemorato nelle sue pagine questo immorta-le personaggio? Quale importanza può avere, infondo, stabilire se lo volesse o no?

Pensione Hirsch. Fuori dalla tavola calda diHenry, in fondo ai binari del tram: la terza casaall’angolo. Lì sta Ole Andreson. Sdraiato sul let-to, vestito di tutto punto, grande e grosso. Un expeso massimo. Come dice la signora Bell, che haaperto la porta a Nick, è rimasto tutto il giornochiuso in stanza. Quando il ragazzo gli confidache sono venuti a ucciderlo, lo svedese ringraziadi essere stato avvertito ma, fissando il muro, di-chiara: «Ormai non c’è più niente da fare. Sonosulla lista nera». Questo accenno rappresenta lamassima apertura che Hemingway si è sentito dipotersi permettere sullo stesso tema, per luiinnominabile, che consentì a Franz Kafka di scri-vere addirittura Il processo.

Nel 1927, lo stesso anno degli Uccisori, lo scrit-tore compone Una gara a inseguimento, dove la scenasi ripete: stavolta disteso sul letto, in un albergodi Kansas City, c’è William Campbell, organizza-

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tore di una compagnia di varietà, drogato persodi fronte al signor Turner, capocomico, che loosserva come farebbe il contadino con un maialenel truogolo. In quello sguardo lucido s’identifi-ca il narratore, pronto a fissare il personaggio solouna frazione di secondo in più del necessario, pocooltre la descrizione, là dove la realtà si piega sot-to la fiamma come un metallo che s’arroventa.

Il capolavoro di Men Without Women resta l’in-dimenticabile Fifty Grand, conosciuto in Italiacome Cinquanta bigliettoni. C’è questo JackBrennan, indomito irlandese, welter naturale qua-si in disarmo, taccagno innamorato di sua mo-glie come un ragazzino, che accetta di scommet-tere contro se stesso nel match con JimmyWalcott, giovane boemo. Ma quando viene col-pito sotto la cintura sta per andare tutto a mon-te perché, se accusasse, come gli spettatori gligridano di fare da bordo ring, vincerebbe lui ri-nunciando a un mucchio di soldi. Jack inveceva avanti. E subito restituisce il pugno proibito:il match è perso per squalifica, i venticinquemiladollari sono in banca, il gusto di vedere il suoavversario a terra assicurato.

È la prefigurazione di ciò che Hemingway pen-sa della vita: una messinscena dove risulta im-possibile uscire senza danni. Ci si sporca le mani:questo sì. Meglio compromettersi che sperare di

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restar puri. I nemici ti fanno sentire vivo. L’unicapossibilità è quella di salvare la faccia, se non al-tro di fronte a noi stessi.

Alcune scene sono quanto di meglio possia-mo trovare nell’opera di questo scrittore: il riti-ro nel New Jersey, alla fattoria di Hogan, doveJack patisce come un cane la solitudine e gli ri-sulta insopportabile la strafottenza di SoldierBartlett, sparring-partner, finché non decide dimandarlo via; l’improvvisa comparsa, nei giorniprecedenti l’incontro, di John Collins, suo im-presario, accompagnato da due compari, il qua-le, con incredibile faccia tosta, gli propone l’im-broglio. E come dimenticare l’arrivo al MadisonSquare Garden sotto la pioggia? Sembra di sen-tire il frastuono del pubblico. Martin Scorsesese ne dev’essere ricordato nella lunga, indimen-ticabile carrellata che accompagna l’entrata sulring di Jack La Motta, alias Robert De Niro, inToro scatenato. La descrizione del match è unapasta ritmica. Letto in originale, Fifty Grand ri-corda un pezzo di jazz. Tutto il racconto si reg-ge sulla figura dell’allenatore, Jerry Doyle, chenarra o ricorda l’evento. Il tono è suo. L’amici-zia con Jack, sottile, indicibile, segreta, tra lecose più belle dei Quarantanove racconti.

Per ritrovare un risultato così intenso dovre-mo avere la pazienza di attendere. Un canarino indono, al paragone, rappresenta solo un eserciziodi penna in cui traspare la prima crisi coniugale

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fra Ernest e Hadley; Storia banale un sempliceomaggio a Manuel Garcìa Maera, torero uccisodopo una cornata. Idillio alpino è una storia goti-ca. Nick e John, impegnati a sciare in Svizzera,vedono un contadino seppellire sua moglie. Sichiama Olz. Davanti al tavolo di una birreria delpaese un prete rivela ai due giovani che l’uomo,dopo il lutto, pose il cadavere sulla catasta di le-gna e agganciò la lanterna alla sua bocca.

L’ossessione funebre è presente in molti luo-ghi dei Quarantanove racconti. Basti pensare a Unastoria naturale dei defunti, sorta di galleria dell’or-rore, dove compare una delle immagini più fortifra tutte quelle create dallo scrittore: il soldatocon la testa rotta che continua a vivere e incutetimore nei compagni. Il tenente di artiglieriavorrebbe ucciderlo. L’ufficiale medico non èd’accordo. Mentre i due discutono, il ferito esalal’ultimo respiro. Sembra uno dei diciotto corsi-vi: lancinante e diverso rispetto agli altri ricordicompresi nel testo.

Oggi è venerdì invece assomiglia a un apologo:composto in forma drammatica, riproduce il dia-logo fra tre soldati romani e un vinaio ebreo lanotte della Crocefissione. I soldati, fra un bic-chiere e l’altro, dicono che l’uomo era un tipo ingamba. La sua banda lo ha lasciato. E la ragazzaanche. Solo le vecchie donne gli sono rimasteaccanto. Pur con tutti i suoi limiti, lo sguardodal basso di questo racconto ha toccato per sem-

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pre Norman Mailer, hemingwaiano di ferro, chenel Vangelo secondo il Figlio lo ha implicitamentecelebrato.

Dopo la tempesta è il primo racconto di WinnerTake Nothing, paratattico e già gonfio, come tal-volta sono i brani della nuova raccolta. Si senteAvere e non avere lontano un miglio. Harry Morgan,protagonista del romanzo, sembra già qui. Unmarinaio che rischia di morire pur di raggiungerelo scrigno di una nave finita dentro il banco disabbie mobili con quattrocentocinquanta passeg-geri a bordo. Potente si rivela il momento in cui ilprotagonista prende il largo nell’acqua bianca,trasparente, ripulita dalla bufera. Le scene ti re-stano dentro per sempre. Il pennone che affiora.Il tentativo di sfondare il vetro degli oblò con lachiave inglese. La donna affogata che fluttua comeun fantasma. Il sangue dal naso dell’uomo. Il pesodel rampone.

L’impresa del recupero va in fumo. Alla fine siprendono tutto i greci. Persino gli uccelli ricava-no più dell’uomo cui lo scrittore rivolge la suaattenzione. È l’annuncio di Santiago con la spinadi pesce divorata dagli squali. Un tassello impor-tante nel mosaico, ma niente a che vedere conUn posto pulito, illuminato bene che, nell’introdu-zione alle First Forty-nine Stories, l’autore presentòcome uno dei suoi risultati meglio riusciti invi-tando i lettori a tenerlo in debito conto. E così èavvenuto senza peraltro togliere a queste pagine

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l’aura misteriosa nella quale sono ancora oggiavvolte.

Madrid. Il vecchio beve da solo al bar, vorreb-be qualche bicchiere in più ma è venuta l’ora dichiudere, quindi non può far altro che lasciaremezza peseta sul tavolo avviandosi a casa sottolo sguardo dei due camerieri. Uno dei quali, dopoaver spento la luce elettrica, riflette dentro di sé.Ne viene fuori una delle più singolari preghieredella letteratura novecentesca, tra nichilismo efede. Citiamo dalla traduzione di VincenzoMantovani:

Di cosa aveva paura? Non era né paura né timore. Era unniente che conosceva troppo bene. Era tutto un niente, e an-che un uomo era niente. Era soltanto questo, e tutto quelloche ci voleva era la luce, e un certo ordine e una certa pulizia.Alcuni ci vivevano e non lo avvertivano mai, ma lui sapeva cheera tutto nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostroche sei nel nada, nada sia il nome tuo il regno tuo nada sia latua volontà nada in nada come in nada. Dacci questo nada ilnostro nada quotidiano e nadaci il nostro nada come noinadiamo i nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dalnada; pues nada. Ave niente pieno di niente, niente sia con te.

Colpisce l’uscita dal naturalismo realizzata inquesta celebre pagina: quel cameriere non po-trebbe mai pensare il Nada così: ma resta vero,tutt’altro che simbolico. Lo scrittore, in un me-morabile «a tu per tu» in grado di farlo usciredalla rappresentazione, raggiunge il vicolo cie-co, il muro chiuso che tanti artisti del suo tem-

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po hanno cercato di evocare con esiti non sem-pre persuasivi. Abbandonare, anche solo per unistante, la scena realistica impone, lo sappiamo,dazi abbastanza alti: si rischiano l’incomu-nicabilità, il furore razionalistico, la tracotanzaideologica – soltanto Samuel Beckett riuscì apraticare, consumandoli anche per gli artisti chesarebbero venuti dopo di lui, quegli angusti spa-zi espressivi. Molto più difficile risulta il compi-to di chi, come Hemingway, voglia farci sentireil vuoto senza rinunciare ai costumi del mondo.In questo brano i limiti tra sconforto e fede, fi-ducia e disperazione, speranza e nichilismo, sonodeboli tralicci sospesi sulla palude. Il vecchioubriaco, ultimando la china, sembra mostrare achi lo guarda ciò che resta di un uomo che abbiaacquisito la sua tragica consapevolezza: il con-tegno. Non la semplice regola di condotta, mauna forma dell’anima.

Un posto pulito, illuminato bene fa il paio con Laluce del mondo. Il titolo sembrerebbe alludere allasperanza contrapposta al nada del precedente rac-conto: non è così. Due ragazzi, Tom e Nick (chenarra senza dichiararsi), diciannove e diciassett’an-ni, si trovano in una sperduta località nel Michigan.Pelli conciate, legno e segatura. Anche qui il barsta per chiudere. E loro se ne vanno prima di en-trare. Capitano nel locale della stazione dove cisono cinque puttane, sei uomini bianchi e quattroindiani. È questa la tipica contabilità antropolo-

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gica hemingwaiana: introiettata da Hollywood èpassata anche in Europa. Gli indiani non parlano,le puttane sono obese: si chiamano Hazel e Ethel,zitte davanti al bicchiere, Frances Wilson, Alice eOssigenata, assai più loquaci. Le ultime due co-minciano a discutere in modo sempre più anima-to. La ragione del diverbio è Steve Ketchel, expugile: entrambe se ne contendono la memoria el’affetto. Il litigio, sotto gli occhi dei ragazzi, di-venta a poco a poco straordinario. Un capolavorodella sprezzatura. E quindi del montaggio. La co-munità di derelitti che ne emerge diffonde il pro-fumo evangelico delle beatitudini.

«Lasciami ai miei ricordi» dice Alice, grossacome tre donne nello sguardo a bocca aperta diNick, dopo essere stata offesa a morte da Ossi-genata che non vuole crederle. «Ai miei veri, ma-gnifici ricordi» si premura di aggiungere. Qualierano i ricordi a cui Alice mai e poi mai avrebbesaputo rinunciare? Steve Ketchel, tanto tempoprima, le aveva detto, parole sue, «che era unabella fica».

«Disse proprio così: sei una bella fica, Alice».In questa scena del racconto che più di tutti

gli altri amava, lo scrittore sembra essersi scava-to la buca. Come se ci avesse detto: quando mo-rirò, amici miei, abbiate la gentilezza, se non lapietà, se non la misericordia, di seppellirmi ideal-mente qui, insieme a lei.

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Monumenti laconici allo spettacolo sempre nuo-vo dell’umanità colta in flagrante nel suo impossi-bile sogno di rinnovamento sono Dio vi conservi al-legri, miei signori e Metamorfosi marina. Nel primo unadolescente, che sembra la controfigura di Nick,in un meccanico tentativo di liberazione dal desi-derio sessuale, tenta di castrarsi e viene ricoveratonell’ospedale dove lavora il chirurgo al quale inge-nuamente si era rivolto. Nel secondo, ambientatoin un caffè parigino, una ragazza confessa alfidanzato di averlo tradito con un’altra donna.Anche questi sono racconti dalle simmetrie nasco-ste: l’automutilazione avviene il giorno di Natalee il medico, il dottor Fischer, è ebreo. Il cameriereche, senza aver compreso l’accaduto, cerca di con-solare l’uomo ancora stupefatto dalla rivelazionericevuta, compendia l’atteggiamento anti-ideolo-gico dello scrittore. L’allusione che serpeggia sem-bra essere questa: non puoi controllare né domi-nare l’energia della vita, i cui «casi» compongonodiagrammi a volte bizzarri a volte comici nei con-fronti dei quali forse sarebbe preferibile assumerelo stesso rispetto riservato agli eventi naturali.

Il luogo del giudizio in Hemingway s’identifi-ca nello stile secco, privo di sbavature e ristagni,teso a comprimere e ridurre l’enfasi, cancellaregli aloni, nascondere le crepe, fino al punto discoprire gli ingranaggi – battute, dialoghi, mae-stria degli a capo, tempistica descrittiva – senzaattribuire ad essi un valore estetico aggiuntivo:

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solo il vizio di un lettore modernista potrebbecadere in questo equivoco.

Scorrono sotto la speciale lente ottica diHemingway episodi tematici così cronachistici dafar rifulgere al pari di brillanti preziosi gli stru-menti usati per illustrarli. I personaggi si muovo-no come animaletti sotto il vetrino del microsco-pio. In La madre di uno di quelli Paco e il suo ma-nager sembrano entrambi cocciutamente rinchiusinel loro piccolo mondo: l’uno, rifiutando di daredegna sepoltura a sua madre, l’altro che continuaa rinfacciarglielo. La protagonista di Una lettricescrive chiede al medico se potrà continuare ad ave-re rapporti col marito ammalato di sifilide. E poisi lascia andare in un monologo interiore che perlo scrittore diventa una prova di voce da utilizza-re in opere future.

Omaggio alla Svizzera offre l’esempio di unastruttura più eccentrica. Diviso in tre partisinottiche, è ambientato in altrettanti caffè di sta-zioni elvetiche: Montreaux, Vevey e Territet. Ilnucleo tematico si ripete: un signore americano,prima Wheeler, poi Johnson, quindi Harris, sedu-to al tavolo, rivolge audaci avances alla camerie-ra che viene a chiedere l’ordinazione. Lei rifiutail corteggiamento e l’azione dell’uomo continuain diversi modi: uno prosegue il viaggio, l’altroparla coi facchini offrendo loro da bere, il terzoscambia quattro chiacchiere con un socio dellaNational Geographic. In particolare il signor

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Johnson, dichiarando di essere scrittore, attira lanostra attenzione. Chiede ai facchini di ordinareil miglior champagne disponibile. Il più anziano,dopo una rapida occhiata al menu, sceglie loSportsman. Tutti brindano alla salute del signorJohnson il quale rivela agli occasionali compagniche sua moglie sta per chiedere il divorzio. Na-scono commenti sui costi necessari e sulla fre-quenza delle rotture matrimoniali in Svizzera enegli Stati Uniti. Hemingway conferma tutta lasua capacità di far crescere il racconto in modointerno sollecitando interpretazioni soltanto al-luse, mai esplicite, se non alla fine quandoJohnson dichiara che parlare in pubblico dellapropria condizione, lungi dall’avergli dato sollie-vo, lo ha semmai disgustato di se stesso.

Con Un giorno di attesa sembra di tornare aiprimordi del racconto hemingwaiano. Solo che quiNick, ormai adulto, fa la parte del genitore.Schatz, nove anni, a letto con l’influenza, crededi dover morire. Lo pensa perché ha confuso iltermometro americano con quello europeo. Hasentito dire che la sua temperatura segna centodue.In Francia i compagni gli avevano detto che conquarantaquattro non si vive. Quando scopre l’er-rore, ridiventa bambino. Prima era stato un vec-chio stoico: senza piangere, con grande dignità,si stava preparando a morire. Tutto il pomeriggionon aveva fatto altro che fissare i piedi del letto,prestando scarsa attenzione alle favole che il padre

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gli leggeva per distrarlo. Hemingway non si di-mentica mai di chiudere il cerchio.

Anche Vino del Wyoming torna a frugare nelvecchio carniere. Il protagonista frequenta la casadei Fontan. Mangia e beve con loro, mezzi fran-cesi. Sotto gli occhi del lettore si susseguonodisquisizioni su pollo, vino, caccia e birra. La ten-sione serpeggia nell’aria fino a esplodere. L’in-diana che ha sposato il giovane di casa scompa-re. La solitudine del Grande Nord c’è tutta. Cosìcome i frantumi della civiltà indiana e la sfibrataenergia dei coloni che si accasciano in terra, si-mili a vecchie mosche malate. Emozioni di gio-ventù che altri scrittori oggi, rievocando in stilecriptodocumentario la vita dei coloni nelle praterieamericane, riportano alla luce come repertiarcheologici: Jonathan Raban in Bad Land valeper tutti.

Resta caratteristico in Hemingway un gestoestetico specifico: porre se stesso, quale osserva-tore, dentro un gruppo costretto, per qualche ra-gione, in cattività. Anche questo appartiene allascito di Nick che lo aveva appreso dal granderomanzo ottocentesco europeo, aggiungendovimolto di suo quanto a introversione, selvatichezzaed entusiasmo al limite dell’ingenuità.

Accade anche in Il giocatore, la monaca e la radio,ispirato a una degenza di Ernest al St VincentHospital di Billings dopo l’incidente automobili-stico con Dos Passos nel 1930. Frazer, scrittore

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ferito a una gamba, nodo tematico ricorrente eossessivo in Heminway, non fa che bere. Fra unbrindisi e l’altro, considera il campionario umanodavanti a lui. Suor Cecilia e Cayetano, giocatored’azzardo messicano, sembrano offrirgli due mo-delli umani alternativi. I pazienti ascoltano la ra-dio di Seattle. Da lontano si vedono i montiDawson, fantasmi di Jack London.

In Padri e figli il tema del tempo è esplicito:questo racconto conclude la raccolta anche se nonè stato scritto per ultimo. Ma si capisce perché loscrittore volle metterlo in coda. È una specie dicongedo. Nick, ormai adulto, guida l’auto accan-to al figlio e con la mente rievoca le avventure dicaccia di quando aveva la sua età. Dal lontanopassato emerge l’amico Bill e sua sorella Trade: ilprimo amore. Ma soprattutto nella memoria sistaglia il padre che un giorno Nick addiritturavagheggiò di uccidere col fucile avuto in regaloproprio da lui. Il distacco dal genitore nel mo-mento di massima vicinanza col figlio dodicenneviene siglato quando l’adulto e il bambino pren-dono in esame la possibilità di visitare la tombadel nonno. «Dovremo andarci» disse Nick. «Ca-pisco che dovremo proprio andarci». Sono que-ste le righe finali dei Quarantanove racconti.

In Guerre americane di Daniel Buckman, sem-brano far risentire la loro voce: è, ancora una vol-ta, la vecchia questione dei padri e dei figli che sicercano senza riuscire a trovarsi. Danny avrebbe

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bisogno di un ragazzo da proteggere e Jack qual-cuno a cui appoggiarsi: entrambi vorrebbero fug-gire in un altrove fantastico, in un paesaggio menotorbido di quello in cui sono stati costretti a vi-vere. Ma nel finale esplosivo questo disperatoreciproco desiderio non verrà soddisfatto perchénessuno, secondo Daniel Buckman, che s’appel-la a Giobbe in epigrafe, può trovare requie fuorida se stesso: «Non ce ne andiamo mai da niente».

«Mai!» urla il vecchio al giovane.

Nel momento in cui terminò Padri e figli,Hemingway non aveva ancora scritto il primo deicapolavori coi quali volle aprire la raccolta: Brevela vita felice di Francis Macomber. Questa memora-bile novella venne composta a Key West nellaprimavera del 1936. Il titolo, antifrastico quan-t’altri mai, era The Happy Ending. Fu pubblicatosu «Cosmopolitan» nel settembre di quell’anno.È la storia di un vigliacco che, durante un safariafricano, tenta di redimersi agli occhi della mo-glie conquistata dal coraggio della guida. Tre parti,presente-passato-presente, amalgamate senzaoccultare le sagome che restano comunque in ri-lievo, quali scansioni, modanature.

Subito apprendiamo l’evento: Francis Macom-ber, di fronte al leone, è scappato. La moglie,Margaret, detta affettuosamente Margot, e RobertWilson, la guida inglese, l’hanno visto. Ma per

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farci comprendere come sono andate veramentele cose, l’autore si affida a un flash-back mentreil terzetto sta riprendendo la via della caccia, sta-volta alla ricerca dei bufali. Il felino s’eraaccasciato nella boscaglia, colpito da Macomber.Già dalla sera precedente il ruggito del leone ave-va scosso l’uomo. La carica dell’animale morenteera stata fatale. Margot aveva baciato sulla boc-ca Wilson e la sera era andata a fargli visita nellasua tenda. Quando Macomber arriva davanti albufalo si comporta benissimo: ma nel momentoin cui trova il suo riscatto, Margot, che lo avevaseguito, gli spara alla nuca.

Perché Hemingway è così crudele?Tutto comincia con Moby Dick. Bisogna paga-

re un prezzo a Ismaele che si è salvato. Mi piacecredere che i grandi scrittori americani partanoda questo formidabile complesso di colpa. Forseperfino la grazia sventurata dei personaggi diFrancis Scott Fitzgerald ha qualcosa a che vede-re con Achab e compagni. Ezra Pound era con-vinto che tutti i morti un giorno sarebbero risorti.Malcolm Lowry, un altro dantista come lui, si eraidentificato in Ismaele. Era stato Joseph Conrada farglielo credere. Ma Conrad, rispetto a Melville,è già una specie di western. Di certo la storia tra-gica di Francis Macomber non può prescindereda Lord Jim.

In Conrad splende come un sole al tramontol’apocalisse romantica dell’uomo antico, insieme

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al precoce disincanto per la sua fine (le cuipropaggini arrivano a illuminare le pagine diRaymond Chandler). In Hemingway, implaca-bilmente inferiore rispetto a lui – secondo la qua-lità che l’epoca in cui visse gli permise – ritrovi lasmorfia dell’individuo moderno: con le lance or-mai definitivamente spezzate. A risalire la china(e, nonostante tutto, riconquistare il sorriso) cipenseranno gli ebrei: Singer, Malamud, Bellow,Philip Roth.

Quasi superfluo aggiungere che dentro il leo-ne morente accasciato nella boscaglia pronto adazzannare Francis Macomber e, ancor più, nel bu-falo inferocito, c’era il toro da combattimento diMorte nel pomeriggio: l’esplosione dell’energia puradove sarebbe incongruo voler distinguere fra vitae morte. Tuttavia la morsa del racconto è unica:raramente Hemingway darà alle sue pagine unachiusura altrettanto ferma e definitiva. Se ne senteil proficuo riverbero nei due racconti coevi: Lacapitale del mondo e Le nevi del Kilimanjaro.

È la gioielleria dello scrittore. Grazie al pri-mo, pubblicato su «Esquire» nel 1936 con il ti-tolo The Horus of the Bull, entriamo nella vitadel giovane Paco, apprendista cameriere allaPensione Luarca di Madrid. Questo ragazzodell’Estremadura, appassionato di toreri – ce nesono tanti che alloggiano nell’albergo – muore acausa di un gioco. Lui e il suo amico Enrique fin-gono di fare la corrida: una sedia e due coltelli

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sono il toro. Una mossa distratta e le lame pe-netrano nella carne. Inutile sarà la corsa all’ospe-dale sempre aperto nella Carrera San Jerònimo.

«La vita gli usciva dal corpo come esce l’ac-qua sporca di una vasca quando si leva il tappo».

Hemingway passa da un personaggio all’altroquasi avesse una telecamera mobile sulle spalle:le sorelle di Paco, i toreri, i preti, i baristi. Madridviene colta nell’ultimo fervore anarco-sindacali-sta prima della Guerra Civile. La scansione delleparti è perfetta.

Tu pensi: questo è uno scrittore in stato di grazia.Per capire come invece si sentiva lui, biso-

gna leggere Le nevi del Kilimanjaro, uscito anch’es-so su «Esquire» lo stesso anno del precedente.Un altro colpo al cuore. Si torna in Africa, traantilopi e falchi. Harry è immobilizzato nellaradura con la gamba in cancrena. Accudito dal-la moglie Elena, aspetta sotto la tenda l’aereodi Compton, il cacciatore bianco che dovrebbevenire a prenderlo. Intanto traccia il bilancio deisuoi fallimenti di scrittore. Le tappe della rifles-sione si snodano in cinque monologhi, interioried esteriori: libri mancati, errori compiuti, pec-cati di omissione.

Facciamo conto di buttare giù la rete e quinditirarla su per vedere cosa abbiamo pescato. Nomidi luoghi. Tracia, Parigi, Pasubio, Pertica, Asolone,Sette Comuni, Arsiero. Volti di persone. Ricordidi guerra. Quella volta a Costantinopoli che ave-

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va quasi ammazzato un artigliere inglese con unpugno per prendergli la donna. L’ufficiale degliarditi che era rimasto impigliato nei reticolati. Cisono cose che non si potranno mai scrivere. Leiene, sentendo l’odore della gamba putrefatta,s’avvicinano all’accampamento e gli avvoltoi gi-rano sempre più basso. Marcisce anche l’amore,insieme al resto.

Signori: è della rovina di un uomo che stiamoparlando. Della nostra rovina.

«Aveva amato troppo, chiesto troppo, e oraaveva consumato tutto».

E così, quando finalmente la morte si presen-ta, ha un alito cattivo. Prima che Elena scopranella iena uggiolante la cruda verità, Harry sognache Compton arrivi davvero e lo conduca lassù,sulle nevi eterne del Kilimanjaro, dove s’avven-turò il leopardo citato nell’epigrafe la cui carcas-sa rinsecchita e congelata a quelle altezze nessu-no era riuscito a spiegare.

Come nell’ultimo racconto, Vecchio al ponte, in-centrato sulla figura di un contadino di San Carlosche osserva la colonna di profughi durante laGuerra Civile di Spagna e non sa pensare ad altroche alle sue bestie abbandonate, così anche nelleNevi del Kilimanjaro Hemingway ha prefigurato lasua morte senza fare concessioni a se stesso. Nonappena si accorse che lo scrittore si era staccatodall’uomo, al pari dell’adesivo sull’album, estras-se il fucile e fece fuoco.

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Quando giunsi nel cimitero di Ketchum, sullo sfondodei monti Sawtooth, erano le dieci di mattina. Tretagliaerba portoricani stavano strigliando il manto. Nonchiesi a nessuno dove fosse il tumulo. Me ne andai in girofra le croci sapendo che prima o poi la tomba sarebbeapparsa sotto i miei occhi. La vidi subito, infatti, alcentro del camposanto: sparsi sul marmo c’erano diversifiori, un paio di monete e qualche bigliettino. ErnestMiller Hemingway (July 21, 1899-July 2, 1961). Ac-canto, la moglie: Mary Welsh Hemingway (April 5,1908-November 27, 1986). In quel momento mi ricor-dai di Nick Adams, il ragazzo con lo zaino sulle spal-le, protagonista dei Quarantanove racconti.

Hemingway aveva rincorso nell’Idaho il Nick del-l’adolescenza, campeggiatore e tramp esistenziale, quel-lo che scende dal treno ancora in movimento e s’inoltranel bosco alla ricerca della selvaggina, già sapendo, den-tro se stesso, di essere scrittore senza aver ancora compo-sto nulla che lo potesse lasciar presumere. Il vecchio eratornato qui, nell’Idaho, dove oggi alcune gentili signoredi un’associazione culturale proiettano in un capannonefilm e documentari che lo commemorano, e forse non ave-va più ritrovato Nick, ma solo tronchi bruciati, legnimarci, visioni, incubi e pietre. Sentendosi messo sotto scac-co da un avversario invincibile, scese in cantina e caricò ilfucile.

Alzai gli occhi verso la statale numero 75: le auto-mobili procedevano con regolare scansione verso TwinFalls. Io restai lì, fermo, imbambolato. Mi sembravaimpossibile essere riuscito a toccare il sepolcro dello scrit-

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tore che più di ogni altro amai da ragazzo. Il quindicennedentro di me, pronto a identificarsi con Nick, prese permano l’uomo adulto che ero diventato, quasi volesse far-gli provare qualche figura di boxe davanti allo specchio.Idealmente acconsentii. Furono queste le mie preghieresulla tomba di Ernest Hemingway.

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Nella stessa collana

1Jean-Michel Gardair

legge«Il fu Mattia Pascal» di Luigi Pirandello

2Massimo Rizzante

legge«Tutti i nomi» di José Saramago

3François Ricard

legge«Lo scherzo» di Milan Kundera

4Mauro Martini

legge«Il dottor Živago» di Boris Pasternak

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Finito di stampare nel mese di marzo 2005presso la tipografia Metauro di Fossombrone (Pesaro)

Printed in Italy

2005 Metauro Edizioni s.r.l., Pesaro