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TESI DI DOTTORATO IN DIRITTO ED ECONOMIA XXIV CICLO ELEMENTI DI ECONOMIA E DIRITTO COGNITIVI Relatore Candidato Chiar.mo Prof. Roberto Pardolesi Dott. Luca Arnaudo brought to you by CORE View metadata, citation and similar papers at core.ac.uk provided by LUISSearch

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TESI DI DOTTORATO IN DIRITTO ED ECONOMIA XXIV CICLO

ELEMENTI DI ECONOMIA

E DIRITTO COGNITIVI

Relatore Candidato

Chiar.mo Prof. Roberto Pardolesi Dott. Luca Arnaudo

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Note di redazione del testo

Nella dissertazione qui di seguito presentata sono stati ripresi in maniera

marginale alcuni passaggi da precedenti scritti, dedicati, rispettivamente, alla

nozione di diritto cognitivo [v., nei riferimenti bibliografici al fondo del testo,

Arnaudo 2010], alle implicazioni di nuovi metodi di ricerca neuroscientifica

per l'analisi economica del diritto [Arnaudo 2011a], ai rapporti tra

evoluzionismo, metodo sperimentale e diritto [Arnaudo 2011b], alle

prospettive cognitive della disciplina antitrust [Arnaudo 2011c]. I temi e testi

citati, in ogni caso, sono stati oggetto di sostanziale rielaborazione all'interno

della presente tesi, che è pertanto da intendersi come un nuovo lavoro in sé

compiuto.

Salva l'ordinaria avvertenza circa l'esclusiva responsabilità dell'autore

per vizi e difetti dell’opera, gli eventuali meriti della stessa sono da ascriversi

anche alle amichevoli discussioni e condivisioni d'idee intercorse con

numerose persone, tra le quali piace qui segnalare in particolare il Dott.

Angelo Bianchi, il Prof. Robin Paul Malloy e il Prof. Jerome Blumenthal. Su

tutti, in ogni caso, merita i maggiori ringraziamenti il Prof. Roberto Pardolesi,

per aver sostenuto e indirizzato con benevola autorevolezza il progetto sin

dal suo avvio.

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Indice

1. Introduzione ............................................................................................. 4

2. Statuti epistemologici dell'economia: dalla storia alla matematica,

verso le scienze cognitive ....................................................................... 9

2.1. Nozioni di scienza, battaglie di metodo ......................................... 10

2.2. Da Vienna a Chicago (per finire a von Neumann)....................... 13

2.3. Economia positiva e previsioni ......................................................... 17

2.4. I modelli nell'economia del Novecento: iperboli e parabole ...... 20

§2.5. Valutazioni e valori nella ricerca economica: avvertenze .......... 23

3. Nozioni e funzioni della razionalità in economia ................................... 27

3.1. La nozione assiomatica di razionalità nella teoria neoclassica ... 28

3.1.1. Preferenze rivelate e fuga dalla psicologia .................................... 31

3.2. Scelte, aspettative razionali, giochi ................................................. 33

3.3. Contro le aspettative razionali: l'esperimento di Allais .................. 36

3.4. Herbert Simon e la razionalità limitata ............................................. 39

4. Le nuove economie del secondo Novecento ...................................... 45

4.1. L'economia sperimentale ................................................................. 46

4.2. L'economia comportamentale ........................................................ 50

4.2.1. Euristiche ed errori: prime classificazioni .......................................... 53

4.2.2. La teoria dei prospetti di Kahneman e Tversky .............................. 55

4.3. Sviluppi dell'economia comportamentale ..................................... 59

4.3.1. Effetto di dotazione, avversione al rischio, status quo .................. 61

4.4. Oltre l'economia comportamentale ............................................... 65

4.4.1. Architettura della cognizione, ragioni ed emozioni ...................... 67

5. Scienze cognitive: un'introduzione ........................................................ 72

5.1. Mente, cervello e neuroscienze cognitive ..................................... 76

5.1.1. Mappe cerebrali e correlazioni funzionali ...................................... 80

5.1.2. Tecniche di Imaging biomedico ...................................................... 83

5.2. Evoluzione e programmazione cognitiva ....................................... 87

5.4. Verso un approccio cognitivo alle scienze sociali ........................ 94

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6. Economia cognitiva ............................................................................... 96

6.1. Aprire la scatola nera: la nuova forma dell'economia ................. 98

6.1.1. Cognizioni, affezioni e interazioni cooperative ............................ 101

6.1.2. Predizioni e descrizioni ..................................................................... 103

6.1.3. Prospettive dell'economia cognitiva ............................................. 104

6.2. Evoluzione umana ed economia................................................... 104

7. Dall'economia al diritto: il ponte della Law and Economics ............... 110

7.1. Behavioral Law and Economics ..................................................... 113

7.2. Analisi comportamentale del diritto .............................................. 115

7.2.1. Il teorema di Coase tra dotazione e status quo .......................... 116

7.2.2. Il caso dell'Antitrust comportamentale ......................................... 118

7.2.3. Analisi economica e comportamentale del diritto: qualche

riflessione ............................................................................................ 122

8. Diritto cognitivo .................................................................................... 125

8.1. Esperimenti e diritto .......................................................................... 127

8.1.1. Àncore (e derive) dei giudici: primi esperimenti .......................... 130

8.1.2. Cornici di prezzo e tutela dei consumatori ................................... 133

8.2. Emozioni, paternalismo, leggi ......................................................... 139

8.3. Neuroscienze e diritto ...................................................................... 144

8.3.1. Il diritto delle ricerche neuroscientifiche ....................................... 146

8.3.2. Stati soggettivi e prove neuroscientifiche ..................................... 147

8.3.3. Neuroscienze e libero arbitrio ......................................................... 155

8.4. La cognizione del diritto .................................................................. 159

8.4.1. Apporti neuroscientifici al disegno della sanzione ...................... 160

8.4.2. Analisi d'impatto regolatorio e scienze cognitive: primi cenni .. 162

8.4.3. Evoluzione e diritto ........................................................................... 164

9. Conclusioni .......................................................................................... 170

Riferimenti bibliografici ............................................................................... 175

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1. Introduzione

Se si presta fede a uno dei suoi primi biografi, pare che il signore di

Münchausen si sia trovato un giorno a traversare a cavallo un pantano, ma,

avendone sottovalutato la profondità, vi stesse affondando completamente.

«E qui», ricorda il fantasioso nobiluomo, «sarei sicuramente morto, se con la

sola forza del mio braccio non mi fossi aggrappato al mio codino, e, tenendo

stretto il cavallo tra le gambe, non avessi tirato verso l'alto fino a venirne di

nuovo fuori» [Bürger 2010, p. 36].

Quando ci si aggiri tra i campi delle scienze sociali, e in particolare

nell'orto dell'economia, è tradizione assistere a prodezze simili a quella

appena riportata, compiute da celebrati cavalieri del pensiero presi a contare

su assunti teorici «tirati per i capelli», al fine di proseguire il percorso

attraverso le circostanti paludi del reale. Vero, ricorrere a tesi e assunti serve a

semplificare ciò che risulta complicato per poterlo avvicinare, e, quindi,

meglio renderlo in teoria [cfr., tra i molti, Polinsky 1997, pp. 1 ss.]: la

questione, però, è quanto e come la teoria descriva, oppure prescriva,

l'oggetto di volta in volta rilevante, e, quindi, quel che con la teoria stessa

s'intenda fare. Nel rinviare a successivi passaggi il tentativo di rendere

un'analisi più ravvicinata di tale questione, qui ci limitiamo intanto a

richiamare al proposito la distinzione di fondo esistente tra contenuti

descrittivi, prescrittivi e normativi, a seconda che una teoria sia volta alla

pura descrizione di un insieme di condotte, alla prescrizione di una condotta

da seguire per ottenere determinati risultati, oppure, ancora, a fornire il

modello di un agente ipotetico e del suo relativo agire [cfr. Grant, Van Zandt,

2008, p. 21 ss.]. Nel darci poi noi stessi alla teoria – una teoria, nel caso della

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presente tesi, dalle aspirazioni generali, dove, alla conclusione del discorso,

possano auspicabilmente trovare ricostruzione e riorganizzazione una serie di

elementi sin qui disposti in maniera composita nell’ambito di alcune scienze

sociali, economia e diritto in particolare – per tentare di semplificare una

vicenda in sé piuttosto complessa, azzardiamo l'ipotesi che l'evoluzione

recente del pensiero economico risulti particolarmente esemplare della

questione relativa a come i contenuti teorici siano definiti, e con quale intento

(descrittivo, prescrittivo, normativo) formulati. Di fatto, pochi periodi nella

storia della cultura hanno vissuto un fronteggiarsi più acuto di quello occorso

nel Novecento tra aspirazioni teoriche normative e prescrittive in tema di

modelli di razionalità decisionale, e, di conseguenza, degli agenti economici

parti delle interazioni sociali [cfr. Smith 2008, pp. 24 ss.].

Tale contesa assume una rilevanza fondamentale rispetto all'intero

complesso delle scienze sociali, in quanto, per effetto di quel processo

culturale di «imperialismo economico» [cfr. Lazear 2000, p. 99] avvenuto nel

secolo scorso, molte discipline – diritto compreso – hanno sempre più

impostato le proprie prassi operative sulla base dei modelli offerti dalla teoria

economica «ortodossa», dove con tale denominazione s'intende per

convenzione l'indirizzo di pensiero di volta in volta dominante nel mondo

accademico [cfr. Colander, Holt, Rosser 2004, pp. 485 ss.]. Uno studio delle

scienze sociali con minime aspirazioni di fondatezza, dunque, non può

prescindere da una considerazione quantomeno introduttiva dei modelli

elaborati e proposti dal pensiero economico, a loro volta da inquadrare in un

contesto epistemologico più ampio ma solitamente poco tematizzato, quando

non del tutto trascurato. Tenuto conto di una simile rimozione, nelle pagine

seguenti si tenterà (anche) un esercizio di «storia delle idee», necessariamente

d'impianto multidisciplinare [cfr. Horowitz 2005, p. XXVII], tracciando il

percorso seguito dall'economia per passare da un'originaria assunzione

assiomatica di principi di razionalità a una progressiva rilettura della stessa

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razionalità secondo un'ottica ormai comunemente nota come

«comportamentale». Rispetto al progetto appena dichiarato, del resto, piace

trovare conforto nell'autorevole avvertenza secondo cui «ogni ricerca nelle

scienze umane (…) dovrebbe implicare una cautela archeologica, cioè

regredire nel proprio percorso fino al punto in cui qualcosa è rimasto oscuro e

non tematizzato» [Agamben 2008, p. 8].

Al termine del percorso prospettato, il discorso si volgerà a

considerare le nuove prospettive di conoscenza e definizione della razionalità

umana da ultimo aperte dalle scienze cognitive. Sono, queste, un complesso

di studi interdisciplinari d'impostazione sperimentale, che, anche grazie a

ricerche d'indirizzo neuroscientifico, si sta dimostrando estremamente

promettente rispetto a una comprensione «dall'interno» delle ragioni del

comportamento. Sull’onda della svolta cognitivista, vissuta dalla psicologia

intorno agli anni sessanta del secolo scorso con un prepotente ritorno allo

studio della mente e dei suoi processi cognitivo-decisionali – di fatto in

reazione alla stagione «comportamentista» fino a quel momento perdurata,

durante la quale le attenzioni predominanti erano rimaste incentrate sullo

studio sperimentale, «dall’esterno», dei comportamenti e delle relative

modalità di condizionamento – l’intero complesso delle scienze sociali si è

infatti mostrato sempre più favorevole a un approccio consapevole della

complessità delle ragioni del comportamento umano di volta in volta

rilevante [cfr. McCubbins, Turner 2010, pp. 1 ss.].

La nuova frontiera della «economia cognitiva», così come delineatasi

in una serie di ricerche dell'ultimo decennio, ci porterà a sostenere la piena

legittimità di corrispondenti orizzonti anche per il diritto, tenuto conto di

quanto tale disciplina condivida con l'economia molti dei suoi oggetti

d'interesse, a partire dalle condotte di agenti (più o meno) razionali.

Nell'intento d'impiegare un passaggio tematico e culturale già ben

segnato per transitare il discorso – e le sue relative aspirazioni d'impronta

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cognitiva – dall'economia al diritto, si farà riferimento al complesso di studi

solitamente individuato con la definizione di «Law and Economics»,

concentrando l'analisi su alcune più recenti variazioni «comportamentali»

occorse a tali studi, anche attraverso la verifica critica di una serie di nozioni

di riferimento degli stessi.

Così guadagnato l'accesso al diritto, si tenterà quindi di delineare il

perimetro di un complesso di ricerche tali da individuare un inedito «diritto

cognitivo», in linea con quanto già considerato nella parte dedicata

all'economia cognitiva. Una serie di ipotesi e casi concreti saranno richiamati

per cercare d'illustrare le reali possibilità dell'impostazione qui sostenuta:

un'impostazione fondata sul ricorso a esperimenti e conoscenze provenienti

da una pluralità di discipline, tra le quali le neuroscienze cognitive giocano

un ruolo fondamentale, ma, come si vedrà, da calibrare con attenzione,

secondo presupposti di marca dichiaratamente evoluzionistica.

In conclusione, sulla base di quanto definito nel corso della ricerca, si

sosterrà dunque la necessità tanto per l'economia che per il diritto di

perseguire con convinzione il nuovo orientamento cognitivo, in vista di una

migliore, più accurata considerazione del comportamento umano, senza

doversi più aggrappare al «codino» di teorie assiomatiche puramente astratte,

come per l'economia, o, nel caso del diritto, limitarsi a ricognizioni

classificatorie di ordini che, ancorché tecnicamente complessi, continuano a

fondarsi su valutazioni sostanzialmente arbitrarie adottate da parte del

decisore di turno, sia esso giudice, legislatore o regolatore.

Ronald Coase, nel richiamare a sua volta Ernest Rutherford, ha

dedicato un'illuminante battuta al fatto che la scienza possa distinguersi tra il

«fare fisica» e il «collezionare francobolli», considerando cioè le attività di

ricerca a seconda del loro concentrarsi «sull'analisi o sull'operare un'attività di

classificazione» [Coase 1993, p. 254]. Salva l'importanza organizzativa delle

pratiche «filateliche», e al netto del pregiudizio espresso nella citazione a

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favore di scienze ritenute più «dure» di altre, si ritiene che proprio il

contributo delle scienze cognitive, e, nel suo complesso, una nuova attitudine

di ricerca orientata alla sperimentazione, possa finalmente consentire anche

alle scienze sociali di dedicarsi con sempre maggiore efficacia e trasparenza

all'analisi dei comportamenti umani, e, di conseguenza, a una loro migliore

gestione.

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2. Statuti epistemologici dell'economia: dalla storia alla matematica, verso le scienze cognitive

Secondo quanto rilevato da uno dei principali studiosi di filosofia

dell'economia, «l'economia è d'interesse filosofico sotto tre principali profili.

Solleva questioni di ordine morale in relazione a benessere, giustizia e libertà.

Solleva questioni fondamentali rispetto alla natura della razionalità. E solleva

questioni metodologiche o epistemologiche a proposito del carattere e della

possibilità della conoscenza dei fenomeni sociali» [Hausman 1998, p. 211].

Nel tralasciare, per il momento, il primo profilo, è precisamente al

secondo che occorre prestare attenzione nel tentativo di definire uno studio

del soggetto agente che sia d'interesse per l'economia, e, quindi, come

cercheremo di meglio definire in seguito, anche per il diritto. Per provvedere

in tal senso, tuttavia, occorre prima farsi largo attraverso l'ultima questione

ricordata nella citazione sopra riportata, ovvero la natura scientifica della

conoscenza dei fenomeni sociali. Si tratta, di fatto, di un sottoinsieme della

più generale problematica relativa alla stessa nozione di scienza, ma con

ulteriori, peculiari complicazioni al seguito. Nel tentativo di scioglierne

almeno alcune, si ritiene utile riprendere brevemente i termini principali del

dibattito contemporaneo in tema di filosofia della scienza: l'operazione

consentirà di selezionare una serie di nozioni significative rispetto al discorso

delle scienze sociali che qui s'intende intraprendere.

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2.1. Nozioni di scienza, battaglie di metodo

Se è vero che il dubbio riguardo «che cosa è mai scienza» attraversa la cultura

occidentale sin dai suoi esordi [cfr. Platone 2005, p. 41], per un lungo periodo

– dalla rivoluzione copernicana almeno, fino ai primi decenni del secolo

scorso – ha comunque retto una nozione della stessa piuttosto ben

determinata, e, almeno all'apparenza, solida.

Una nozione, in estrema sintesi, fondata sui due pilastri di «episteme»

e «metodo», dove col primo termine s'intende la disponibilità di dati certi, tali

da permettere una conoscenza della realtà assunta come entità indipendente

dall'osservatore, mentre col secondo ci si riferisce al complesso di procedure

adatte a trattare correttamente tali dati, in vista del raggiungimento di una

conoscenza intesa come spiegazione-dimostrazione [cfr. Pera 1991, p. 4]. Tale

edificio concettuale venne edificato a partire dai successi delle scienze

naturali ottenuti con il ricorso al metodo sperimentale e, più in generale, sulla

base di un nuovo approccio alla conoscenza di tipo ipotetico-deduttivo,

combinato al ricorso al linguaggio matematico e improntato a una visione

deterministico-meccanicistica della realtà, in cui la fisica newtoniana svolgeva

un ruolo assolutamente preponderante rispetto alla definizione di leggi

generali [v. Fornari 2002, pp. 3 ss.].

Nella lettura positivista impostasi a partire dall'Ottocento ed evolutasi

nel successivo neopositivismo – che, come vedremo, avrà notevole

importanza nell'affermazione del paradigma scientifico dell'economia

contemporanea – ulteriori sostegni dell'edificio così delineato sono stati

individuati (i) nel principio di unità delle scienze, ovvero nell'esistenza di un

unico metodo valido per tutte le diverse discipline (c.d. «monismo

metodologico»), e (ii) nell'assunto che la demarcazione tra conoscenza

scientifica e pseudoscientifica dovesse avvenire a partire dalle scienze

considerate dure, come la matematica e la fisica, sortite vincitrici in quella

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lotta per il maggior prestigio culturale tra le diverse conoscenze che, a ben

vedere, non ha mai cessato di animare le società degli uomini. Nel secolo

scorso, è storia nota, entrambi i pilastri dell'edificio scientifico sopra citato,

episteme e metodo, sono rovinosamente crollati sotto il peso della scoperta

indeterminatezza di dati fondamentali – basti pensare alla rivoluzione

occorsa, in fisica, con la teoria della relatività e l'introduzione del principio di

indeterminazione rispetto al ruolo dell'osservatore, o, in matematica, alla

formulazione del teorema d'incompletezza di Gödel – e della messa in

discussione della legittimità di un metodo unitario, fino alle più avanzate

offensive del c.d. anarchismo metodologico rispetto alla stessa possibilità di

un qualsiasi metodo [v. di nuovo Pera 1991, pp. 5 ss.].

Proprio l'opera di Gödel appena citata, nel suo stabilire l'impossibilità

di una dimostrazione completa della coerenza matematica e,

conseguentemente, decretare il fallimento dei tentativi di assiomatizzazione

meta-matematica particolarmente in voga nei primi due decenni del

Novecento, rappresenta uno snodo intellettuale fondamentale del secolo

scorso [cfr. Hodges 2006, pp. 127 ss.]. Uno snodo, va rimarcato, foriero di

conseguenze anche per le scienze sociali, quando queste, come si ragionerà

tra breve, verranno nel loro complesso «colonizzate» dall'approccio

modellistico e assiomatico di origine matematica.

A proposito di tali scienze, peraltro, è interessante notare come la

questione del metodo avesse in esse precorso i tormenti primo-novecenteschi

vissuti dai matematici: risale infatti al finire dell'Ottocento un celebre scontro

consumatosi sul tema, passato agli annali con la definizione di

«Methodenstreit». In breve, a fronteggiarsi si trovarono due impostazioni di

pensiero, individuate – perlomeno al momento del contrasto, ché una

contrapposizione in tal senso risultava ben più risalente, per molti versi

connaturata alla storia stessa delle scienze sociali [cfr. Fornari 2002, pp. X ss.]

– come «scuola storica tedesca» e «scuola austriaca», divise dalla diversa

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interpretazione offerta dei fenomeni sociali, e, più specificamente, economici,

sulla base di un'alternativa nei metodi di ricerca.

La prima scuola, con Gustav von Schmoller e Werner Sombart quali

principali esponenti, rigettava la praticabilità di approcci deduttivi alle

condotte umane, prediligendo un approccio empatico e narrativo alle stesse:

ciò sulla base dell'assunto che, nell'agire individuale e collettivo, non sia

possibile individuare nessi causali ben determinati, ma, al più, legami

pragmatici, dipendenti (anche) dal contesto socio-culturale proprio degli

eventi, con la conseguente necessità di mantenere un metodo d'indagine

pluralista per meglio cogliere la multidimensionalità dell'agire.

Dal canto suo, la scuola austriaca, rappresentata in maniera esemplare

da Carl Menger (e, poi, da Ludwig von Mises), procedeva in linea con la

corrente di pensiero economico definito «neoclassico» [l'invenzione della

fortunata etichetta è accreditabile a Veblen 1900, p. 261], in quanto fautrice di

una teoria del valore d'impianto squisitamente soggettivista, il

«marginalismo», unitamente a un metodo deduttivo-normativo denominato

«individualismo metodologico». Tale metodo, in particolare, era volto a

definire in maniera stringente il comportamento razionale degli agenti

rispetto a determinati obiettivi propri degli individui – ma, non per questo,

necessariamente individualisti, come la teoria prasseologica di von Mises in

particolare si sforzerà di distinguere [cfr. Di Nuoscio 2006, pp. 140 ss.] –,

riconoscendo di conseguenza scarsa rilevanza al contesto socio-culturale.

A posteriori, in una prospettiva di storia delle idee, si può

ragionevolmente affermare che tale scontro, tolte di mezzo le preoccupazioni

più schiettamente sociali avanzate dalla scuola storica tedesca rispetto ai

sistemi economici operanti in concreto, servì soprattutto a spianare la strada

all'introduzione nelle scienze sociali di un meccanicismo (dai suoi fautori

almeno ritenuto) tipico delle scienze naturali, in cui l'originario approccio

deduttivo-normativo della scuola austriaca finiva per essere assorbito e

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sviluppato, tradendone tuttavia gran parte della profondità metodologica a

vantaggio di un positivismo rigidamente orientato a fini predittivi dei

comportamenti umani.

Il passo successivo, lo si vedrà tra breve, sarà simile a quello operato

nelle scienze naturali, con un progressivo abbandono della «meccanica» –

meglio, della rappresentazione meccanica dell'economia – in favore di un

formalismo assiomatico dalle ispirazioni/aspirazioni matematiche. Si tratta di

un passo, come si diceva, in cui andranno perdute, o perlomeno messe da

parte, molte feconde prospettive indicate dalle scuola austriaca, e

segnatamente l'attenzione agli aspetti dinamici di apprendimento ed

evoluzione delle condotte microeconomiche; al riguardo, è da segnalare come

alcuni commentatori abbiano propriamente rintracciato in tale scuola, per il

tramite delle ricerche proseguite negli Stati Uniti da Friedrich Von Hayek,

alcuni fondamenti dell'approccio cognitivo all'economia [cfr. Egidi, Rizzello

2003, p. 4].

I riferimenti sopra accumulati, vale chiarirlo, rilevano qui non per

mero gusto antiquario, ma perché si ritiene che le principali questioni ancora

aperte nella discussione sullo stato epistemologico delle scienze sociali,

all'origine di tanti tormenti del pensiero economico contemporaneo (nonché,

pur se in misura minore, del diritto), trovino la loro origine proprio nello

scontro tra le citate interpretazioni. È dunque da tali elementi, o perlomeno

evitando di trascurarli, che s'intende proseguire.

2.2. Da Vienna a Chicago (per finire a von Neumann)

A partire dalla battaglia sul metodo sopra richiamata risulta tracciabile una

sorta di sottile «linea viennese» lungo l'intera storia della cultura del

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Novecento, con importanti conseguenze sull'impostazione del pensiero

economico in termini assiomatico-formalisti. Il deduttivismo normativo di

Menger, infatti, è stato rilevato e assorbito da quello logico, di marca

neopositivista, propugnato dal Circolo di Vienna e oggetto, poi, di un

fortunato trapianto negli Stati Uniti. L'attecchimento avverrà in modo

particolare a Chicago, alla cui università, non a caso, su un terreno già

preparato sin dai primi anni del Novecento dal magisterio in logica e filosofia

strumentalista di John Dewey [cfr. Alcaro 1997, pp. 30 ss.] dal 1935 al 1952

insegnerà uno dei principali esponenti del «Wiener Kreis», Rudolf Carnap.

Sempre presso tale università, nella facoltà di economia, il metodo logico-

deduttivo finirà per evolvere nello strumentalismo propugnato da Milton

Friedman, di cui si dirà tra breve, alla base di quella che verrà poi

comunemente indicata come «scuola di Chicago».

Per utilità discorsiva, e tenuto conto della rilevanza dell'argomento

rispetto a numerosi passaggi culturali avvenuti nel secolo scorso in tema di

diritto ed economia, vale intanto rilevare sin d'ora come la «Chicago School»

si sia contraddistinta per assunzioni teoretiche e metodologiche schiettamente

assiomatiche. In effetti, quella che di recente ha fatto parlare, con dichiarata

ammirazione, di un «marchio di fabbrica unico nel pensiero economico» [cfr.

Emmett 2010, p. 1], per almeno mezzo secolo ha esercitato una profonda

influenza intellettuale come principale referente di un'interpretazione molto

rigorosa dell'economia neoclassica. Rigorosa, e, per di più, capace di

«infiltrare» numerosi ambiti di ricerca, ulteriori rispetto all'economia, proprio

per mezzo di una teoria assiomatica del comportamento razionale applicata

alla generalità dei comportamenti [cfr. Foka-Kavalieraki, Hatzis, 2010, p. 6].

Nel tornare a considerare lo scenario concettuale viennese sin qui

introdotto, occorre ora inserire in esso pure il progressivo affermarsi della

logica della scoperta scientifica propugnata da Karl Popper, dichiarato

ammiratore dell'individualismo metodologico di stampo mengeriano.

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Popper, più in dettaglio, permutando l'originario neopositivismo del circolo

di Vienna in una nuova forma di razionalismo critico dai peculiari elementi

aprioristici, condizionerà in maniera rilevante l'ecologia culturale del pensiero

economico di area anglosassone nel dopoguerra [v. per tutti Hands 1985, pp.

83 ss.]. In assoluto il più importante attore nel trapianto oltreoceano della

nuova impostazione logico-formalista è, in ogni caso, lo scienziato (di origine

ungherese, ma assiduo frequentatore, nei suoi anni di formazione, del circolo

di Vienna) John von Neumann.

Matematico di linea hilbertiana e, dunque, assiomatica, sin dalla fine

degli anni venti von Neumann s'adopera per trasferire conoscenze e

impostazioni concettuali matematiche nella scienze sociali, dedicandosi in

particolare a un'elaborazione di schemi formali delle interazioni tra individui,

definiti sulla base di assunti di razionalità particolarmente rigorosi.

Conclusasi, come visto in precedenza, la lunga stagione del riduzionismo

meccanico inaugurata dalla fisica newtoniana, l'approccio di cui von

Neumann si fa strenuo sostenitore è dunque propriamente formale e

analitico, tipico di una modellistica matematica che, in quanto fondata sul

principio dell'analogia e la ricerca di descrizioni matematiche astratte, si

presta ottimamente ad applicazioni diverse, esportabili in contesti disciplinari

anche molto lontani dagli originari.

La formalizzazione, l'ottimizzazione e il controllo delle condotte sulla

base di modelli assiomatici divengono, insomma, i nuovi capisaldi del

discorso delle scienze sociali. Al riguardo, per quanto qui si possa solo

accennare a una questione tanto ampia, non va dimenticato il contesto storico

e culturale in cui il processo di assiomatizzazione è maturato: nello specifico,

è già stato acutamente segnalato come il dramma generazionale di una lunga

stagione d’instabilità, culminata in un conflitto vissuto come esplosione

incontrollata delle pulsioni più profonde di una natura umana, sia stato una

spinta fondamentale per i successivi studi nella direzione di un'auspicabile

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razionalizzazione dei comportamenti umani [cfr. Israel, Millàn Gasca 2008, p.

110].

Per altro verso, in una sorta di convergenza interattiva di cause, non

va dimenticato che il pensiero economico del tempo in cui inizia a operare

von Neumann si era appena lasciato alle spalle una lunga serie di tentativi,

fallimentari, di determinare una teoria efficace dell'equilibrio economico

generale. I complessi problemi di calcolo che tale teoria poneva avevano

richiamato l'attenzione dei migliori matematici dell'epoca, tutti sostenitori di

un'impostazione assiomatica, con la conseguenza che questa finì per avere la

meglio, nella trattazione dell'equilibrio economico generale, sull'impostazione

meccanicistica fino a quel momento avanzata dalla «scuola di Losanna» di

Leon Walras e Vilfredo Pareto [v. di nuovo Israel, Millàn Gasca 2008, p. 176].

Quando, proprio nella fase più cruenta della seconda guerra

mondiale, von Neumann perviene insieme a Oskar Morgenstern

all'elaborazione della teoria dei giochi – la prima edizione della loro Theory of

Games and Economic Behavior risale al 1944 – la grandiosa operazione di

assiomatizzazione della condotta umana in vista di risultati di equilibrio

generale può dirsi ormai saldamente stabilita. Al riguardo, peraltro, merita

sottolineare come ciò che interessava i due teorici «non era tanto il concetto di

equilibrio, quanto uno dei nodi concettuali della teoria dei giochi, e cioè il

processo di formazione delle decisioni e, più in generale, l'analisi del

comportamento razionale nei processi o fenomeni sociali. La teoria dei giochi

rappresentava una realizzazione concreta, efficace, dell'idea presentata nel

manifesto del Circolo di Vienna, ossia del fatto che l'unica visione oggettiva

del mondo è quella ottenuta con il metodo scientifico» [Israel, Millàn Gasca

2008, p. 188].

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2.3. Economia positiva e previsioni

In conseguenza delle vicende culturali qui sopra sommariamente richiamate

si può dire, con ragionevole convinzione, che il corso principale del pensiero

economico abbia imboccato, per un lungo tratto del Novecento, un orizzonte

filosofico d'impronta neopositivista di matrice viennese, incentrato su: (i) il

principio dell'unità della scienza; (ii) la superiorità del linguaggio matematico

nella formalizzazione degli studi anche di natura sociale; (iii) il metodo della

deduzione logica da postulati e assunzioni [v. Volpi 2010, p. 503].

L'interesse per il metodo della deduzione logica è significativo del

progressivo affermarsi di un approccio formalista in economia che, secondo

una recente lettura, sarebbe stato favorito in misura non irrilevante dai

rapporti difficoltosi, e insieme disinvolti, intrattenuti dal pensiero economico

con la filosofia della scienza, in particolare con gli studi di metodo [v. di

nuovo Volpi 2010, p. 504]. Per quanto, a parere di chi scrive, l'elemento in

assoluto più importante per la comprensione del pensiero economico

ortodosso del secolo scorso sia da rinvenirsi nel mutamento della «immagine

della conoscenza» avvenuto in economia – con ciò intendendosi il modo in

cui una disciplina percepisce e rappresenta se stessa e i propri fini [cfr. Giocoli

2005, pp. 179 ss.] – è probabile che pure il segnalato, persistente disinteresse

per le questioni di metodo e la loro discussione abbia avuto peso.

In effetti, anche senza dare troppa importanza alle ricorrenti battute

offerte da noti economisti al proposito – vedi Paul Samuelson, secondo cui

«quelli che possono fanno scienza, quelli che non possono chiacchierano della

sua metodologia» [Samuelson 1992, p. 240] – pare indubbio che, una volta

acquisita un’autonoma autorevolezza, e, infine, la supremazia nell'ambito

delle scienze sociali, l'economia si sia mostrata restia a interrogarsi sulla

propria struttura operativa, così come sulla legittimità tanto degli strumenti

impiegati che delle conclusioni per mezzo degli stessi raggiunte.

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Proprio il contributo che maggiormente incarna la supremazia

culturale dell'economia appena rimarcata, pur affermando sin dal titolo un

diretto riferimento alla questione del metodo, quando analizzato più da

presso svela piuttosto tratti schiettamente ideologici, e, in ogni caso, il caro

prezzo pagato per lo scambio effettuato dalla teoria economica neoclassica tra

potere predittivo e accuratezza descrittiva [cfr. Foka-Kavalieraki, Hatzis 2010,

p. 2]. Il riferimento è alla Metodologia dell'economia positiva di Milton Friedman.

Pubblicata nei primi anni cinquanta, l'opera ruota intorno alla tesi,

invero piuttosto sorprendente, secondo cui «generalmente, quanto è più

significativa la teoria tanto più le assunzioni sono irrealistiche» [Friedman

1953, p. 14]. Friedman, si noti, continua a muoversi nel contesto di un

ragionamento ipotetico-deduttivo, in linea con l'impostazione formalista

«viennese». Un cambiamento radicale, tuttavia, occorre con la torsione

strumentalista a cui l'impianto deduttivo del discorso viene ora sottoposto.

Più in dettaglio, Friedman sostiene che una teoria si deve occupare non di

spiegare la realtà, bensì di prevederla con il più alto grado di affidabilità

possibile. La significatività di una teoria, insomma, dipenderebbe dalla sua

potenza predittiva, indifferentemente dagli assunti di partenza, i quali

vengono così sottratti alla discussione di merito. In questo senso, «l'unica

rilevante prova della validità di un'ipotesi è il confronto delle sue previsioni

con l'esperienza. L'ipotesi è rigettata se le sue previsioni sono contraddette»

[Friedman 1953, p. 9].

Senza scendere nel dettaglio delle confutazioni possibili di una simile

tesi – la principale delle quali consistente nel rilevare un irrisolvibile

problema di correlazioni spurie alla base del discorso di Friedman [cfr. Guala

2006, pp. 86 ss.] –, a proposito della svolta strumentalista così occorsa nel

pensiero economico preme piuttosto sottolineare come essa abbia

rappresentato il presupposto concettuale, o quantomeno un poderoso

fiancheggiatore metodologico, per quello sviluppo di modelli

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comportamentali in ambito microeconomico che ha costituito, e ancora per

molti versi rappresenta, il più significativo esercizio dell'accademia

economica contemporanea. In effetti, è propriamente nella sua promessa di

alte capacità predittive, da un lato, e, dall'altro, nell'asserita inutilità di

discutere le assunzioni di partenza (posto che queste possono ben essere del

tutto «irrealistiche»), che la modellizzazione trova il principale sostegno alla

sua legittimità, fino a poter giungere alle vertiginose costruzioni di agenti e

condotte sulla base di prescrizioni presentate sotto forma di descrizioni «as

if», «come se», su cui tanta parte del pensiero economico ha edificato le

proprie fortune nel corso del secondo Novecento [cfr. in tal senso Egidi 2005a,

pp. 2 ss.].

Ora, non s'intende qui ricorrere all'argomento per cui le crisi

economiche ricorrenti – fino all'ultima in corso – avrebbero platealmente

sconfessato le pretese ideali e pratiche di predizione del pensiero economico

improntato alla modellizzazione [sul punto, anche per quanto riguarda la

sostenibilità della teoria dell'equilibrio economico generale, v. comunque

Kirman 2011, pp. 9 ss.]. A differenza di quanto propugnato da Friedman,

infatti, riteniamo che non sia logicamente corretto giudicare una teoria solo in

base ai suoi risultati predittivi. In questo senso, del resto, traiamo conforto da

un altro grande economista di Chicago, secondo il quale «una teoria non è

come un orario degli aerei o degli autobus, e noi non siamo interessati

semplicemente all’accuratezza delle sue previsioni. Una teoria serve come

base per pensare. Ci aiuta a capire che cosa accade permettendoci di

organizzare i nostri pensieri. Di fronte alla scelta tra una teoria che predice

bene, ma ci dà poca comprensione su come il sistema funziona, e una che ci

dà questa comprensione ma predice male, io sceglierei la seconda» [Coase

1994, p. 16].

Il riferimento alla necessità d'impiegare teorie che offrano un'autentica

comprensione – per molti versi inaspettatamente affine, viene da rilevare, a

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quel composito «verstehen» che rappresentava l'imperativo alla base del

pluralismo metodologico propugnato dalla scuola storica tedesca [cfr. Fornari

2002, p. XI] – e non si riducano, dunque, a fornire puri elementi normativi per

applicare tecniche di predizione, ci porta ad avvicinarci finalmente al tema

della natura della razionalità, tra le principali questioni di filosofia

dell'economia richiamate in apertura a questo capitolo.

Considerato che, allo stato attuale delle conoscenze, e, più ancora,

delle prassi operative nella ricerca scientifica, non è possibile discutere di

razionalità senza tenere conto di determinati modelli dominanti, appare

tuttavia necessario occuparsi della legittimità dei processi di modellizzazione

a tal fine impiegati, risalendone per quanto possibile il corso intellettuale. Al

termine della rassegna si potrà infine tentare, su più solide e dichiarate

fondamenta, di considerare la razionalità alla base della teoria economica

ortodossa.

2.4. I modelli nell'economia del Novecento: iperboli e parabole

Nonostante la diversa impressione ricavabile dal diffuso impiego nel

linguaggio corrente delle scienze sociali del termine «modello», l'introduzione

del concetto all'interno di tali scienze, e in modo particolare dell'economia,

costituisce un evento piuttosto recente nella storia delle idee.

Di fatto, è solo dagli anni trenta del Novecento, dopo essere entrata in

circolazione pochi decenni prima in fisica e logica matematica [cfr. Israel

2003], che la nozione di modello acquista una progressiva importanza,

saldandosi all'impostazione formalistica a base logico-deduttiva cui abbiamo

accennato nelle pagine precedenti. Secondo un'illuminante definizione fornita

da von Neumann, per modello deve intendersi «un costrutto matematico che,

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con l'aggiunta di certe interpretazioni verbali, descrive dei fenomeni

osservati. La giustificazione di un siffatto costrutto matematico è soltanto e

precisamente che funzioni – insomma descriva correttamente i fenomeni in

un'area ragionevolmente ampia. Inoltre, esso deve soddisfare certi criteri

estetici – cioè, in relazione con la quantità di descrizione che fornisce, deve

essere piuttosto semplice» [von Neumann 1955, p. 492]. Improntata a

un'omologia di forme e relazioni che pone necessariamente in secondo piano

la specificità dei fenomeni presi in esame, la nozione poggia sul presupposto

che i fenomeni sociali possano essere quantificati, e, poi, verificati rispetto al

modello prescelto. Un ruolo importante è stato giocato in proposito dalla

disponibilità di nuovi, potenti apparati statistici occorsa nella prima metà del

Novecento, e, insieme, dal contestuale affermarsi di ricerche di psicologia

sperimentale improntate a una rigida osservazione-misurazione dei

comportamenti.

In relazione a tali ricerche, il riferimento d'obbligo è al «Behaviorism»,

o «comportamentismo radicale», un movimento sviluppatosi negli studi di

psicologia nei primi decenni del Novecento e incentrato sulla teoria secondo

cui la psiche può essere studiata in modo scientifico solo attraverso le sue

manifestazioni esterne, ovvero il comportamento umano, con una recisa

negazione di ogni legittimità dell'analisi introspettiva rispetto a stati

soggettivi. Nel limitarci qui a richiamare i sommi capi di una componente

centrale dell’ecosistema culturale proprio delle scienze sociali – e più nello

specifico dell’economia d’impostazione neoclassica – nel secolo scorso [cfr.

Ross 2005, p. 40], ricordiamo come il comportamentismo radicale,

sviluppatosi principalmente per opera di studiosi statunitensi come John

Watson e Burrhus Skinner, abbia sostenuto l'inesistenza, o quantomeno

l'irrilevanza, di elementi biologico-evoluzionistici nella definizione del

comportamento umano, e contestualmente avanzato la tesi della

«programmabilità» di tale comportamento a mezzo di condizionamenti e

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rinforzi delle condotte [cfr. Dalli, Romani 2004, pp. 66 ss.]. In sostanza, tale

linea di pensiero si è rifatta all'antico assunto della psiche come una «tabula

rasa» per sostenere il ruolo assolutamente predominante dell'educazione

impartita nella formazione dell'individuo [v. Pinker 2002, pp. 5 ss.],

escludendo ogni riferimento analitico a elementi interni dell'agire umano,

primo fra tutti la nozione di mente: non è dunque un caso che, come si vedrà,

la nuova impostazione cognitiva prenderà a svilupparsi proprio in netta

contrapposizione con le tesi behavioriste più oltranziste, a partire da studi e

ricerche di psicologia [infra, §5.1.].

Per quanto riguarda, invece, l’anzidetta matrice statistica

dell’impostazione modellistica, punto di riferimento sono i lavori

econometrici licenziati sul finire degli anni trenta da uno studioso olandese,

Jan Tinbergen, relativi all'analisi delle situazioni macroeconomiche di alcuni

paesi a seguito della grande crisi del '29. Tale approccio troverà importanti

appoggi da parte dello «Statistical Research Group» e della «Cowles

Commission for Research in Economics», due enti universitari statunitensi

che, a partire dagli anni quaranta, eserciteranno una profonda influenza sulle

attività di ricerca economica, tra l'altro contribuendo in modo decisivo alla

definizione dell'identità quantitativa e modellistica di molti dei principali

esponenti della scuola di Chicago [cfr. van Dalen, Klamer 2009, pp. 773 ss.].

Nei termini più generali sufficienti al presente discorso, si può dire che

il passaggio, quantomai delicato e complesso, tra realtà e modelli, viene

aperto da tali studi attraverso una formalizzazione tanto delle grandezze

materiali di riferimento che dei comportamenti dei soggetti agenti, al fine di

rendere per mezzo di un sistema di correlazioni multiple – dunque,

necessariamente, su basi probabilistiche – i nessi di causalità alla base degli

eventi oggetto di studio dell'economia.

Per la verità, sin dalla presentazione dei primi risultati scientifici

ottenuti con il nuovo approccio montò la polemica rispetto ai suoi

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presupposti di metodo, polemica culminata in un'accesa controversia tra

Keynes a Tinbergen. Il primo, in particolare, contestò al secondo la necessità

preliminare d'intendere le leggi causali nei casi preso di volta in volta in

esame dall'analisi economica, quindi che fosse fornita una lista completa di

tali cause, con la conseguenza che, nella migliore delle ipotesi, il nuovo

metodo non poteva servire né a produrre scoperte, né a formulare critiche,

bensì solo a «fornire precisione quantitativa a una cosa che, in termini

qualitativi, già conosciamo come risultato di un'analisi teoretica completa»

[Keynes 1939, p. 560].

La questione, riconducibile al classico problema logico della «verae

causae», non ebbe l'approfondimento che, molto probabilmente, meritava [cfr.

Jolink 2000, pp. 1 ss.]. Complice un'accademia economica sempre più

refrattaria a preoccupazioni di tipo logico e – secondo quanto rilevato nel

precedente capitolo – metodologico, essa venne infatti accantonata a fronte

del montante favore per la formalizzazione matematica dei comportamenti in

corso nello stesso periodo. Tutto ciò, nel complesso, gettò le solide basi per

quelle promesse di predittività che, come già visto, rappresenteranno il

principale credito dell'impostazione sostenuta da Friedman, e, di fatto,

dell'attitudine modellistica tuttora vigente.

§2.5. Valutazioni e valori nella ricerca economica: avvertenze

Con riferimento a tale attitudine, è stato di recente rilevato come la ricerca

economica, esauriti gli entusiasmi assiomatici degli anni sessanta e settanta,

sia venuta sempre più concentrandosi sulla simulazione delle condotte degli

agenti a scapito della loro previsione, e, più ancora, prescrizione. Secondo tale

lettura, in termini di storia delle idee, una simile mutazione cognitiva dei

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modelli sviluppati in economia evidenzierebbe una nuova consapevolezza

delle difficoltà logiche esistenti rispetto ai programmi originari di

modellizzazione introdotti nelle scienze sociali, con un'opportuna

ricalibratura rispetto al disegno di «mondi credibili» [cfr. Armatte 2006, p. 56].

Diversi, e significativi, sono gli elementi adducibili al riguardo, il

principale e più recente dei quali risulta essere il promettente sviluppo delle

c.d. «scienze sociali generative», studi incentrati su simulazioni ad agenti

complessi realizzate col ricorso alle nuove potenze di calcolo elettronico e che,

a differenza dei modelli semplici, «consentono non solo di generare macro-

effetti sociali, ma anche di osservare i processi di retroazione degli effetti così

generati sulle proprietà degli agenti» [cfr. Andrighetto et al. 2011, p. 367].

Ad ogni buon conto, anche ammesso che nella modellistica

contemporanea sia realmente maturato un passaggio dalla direttrice

prescrittiva a quella simulativa, non si può negare come, per un lungo corso

del pensiero economico novecentesco, si sia mantenuto un fraintendimento

del ruolo dei modelli che sotto molti profili perdura tuttora, facendosi di

questi un uso non metodologico, bensì normativo, quando non direttamente

prescrittivo rispetto all'indirizzo razionale delle condotte economiche [cfr. Di

Nuoscio 2006, p. 139]. E infatti, secondo quanto da altri già giustamente

rimarcato, nel linguaggio degli economisti la nozione di teoria non risulta di

solito sufficientemente specificata, divenendo, ancora ai giorni nostri,

intercambiabile con quella di modello [Guala 2006, p. 42]. Ma una teoria,

intesa come formulazione quanto più possibile sistematica dei principi di una

scienza, resta pur sempre il primo elemento fondante di ogni programma di

ricerca. In questo senso, tenuta a mente l'avvertenza di Coase sopra riportata,

viene da considerare che, se un modello può risultare di estrema utilità nella

comprensione della realtà, per raggiungere tale risultato esso presuppone

comunque una teoria che fornisca al modello stesso le direttive di

funzionamento.

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Quando, come spesso avviene, si concentra tutta l'attenzione sul

funzionamento interno del modello, si compie un salto logico inaccettabile –

un salto dalla dimensione della teoria a quella del teorema – e, insieme, si cela

la centralità delle scelte di vario tipo operate a priori da chi abbia disegnato il

modello. In sostanza, si vuole qui dire che un iniziale passaggio assiomatico,

consistente cioè nella selezione di determinate assunzioni di partenza, appare

ineliminabile nella definizione di un modello, e come tale andrebbe sempre

dichiarato sia in relazione al contenuto che alle diverse, possibili funzioni di

tali assunzioni [cfr. Mäki 2008, p. 547].

Il fraintendimento occorso dentro e fuori il pensiero economico

rispetto alla supposta neutralità assiologica della modellizzazione ha in effetti

causato, riteniamo, costi notevoli in termini di chiarezza concettuale, spesso

ingenerato false aspettative (in primo luogo rispetto alla già detta valenza

predittiva dei modelli), e, quel che è probabilmente peggio, indotto a

decisioni politiche senza che queste venissero intese e presentate come tali. Al

proposito, merita riandare alle considerazioni già espresse da Gunnar

Myrdal, premio Nobel per l'economia e instancabile tanto nel segnalare la

necessità di sciogliere l'illusione di una neutralità delle scienze sociali quanto

nel cercare di stabilire procedure di verifica condivise. Nello specifico,

secondo lo studioso svedese, «gli strumenti logici di cui disponiamo per

metterci al riparo dai preconcetti sono a grandi linee questi: assumere piena

consapevolezza delle valutazioni che di fatto intervengono ad orientare la

nostra ricerca tanto teoretica quanto pratica; analizzarle dettagliatamente

sotto il profilo della pertinenza, significanza e operatività nella società che è

oggetto di esame; trasformarle in altrettante premesse di valore specifiche per

la ricerca; e infine, determinare l'approccio e definire i concetti nei termini di

un insieme di premesse di valore che siano state esplicitamente dichiarate»

[Myrdal 1973, p. 4].

Alla luce di tali raccomandazioni – le quali, tra l'altro, trovano

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significativi echi anche nel pensiero di autorevoli economisti successivi,

interessati a rappresentare la rilevanza di elementi assiologici nelle condotte

che sfuggono per loro natura ad assiomatizzazioni rigorose, ma non per

questo devono essere esclusi dagli studi del comportamento umano [cfr.

almeno Sen 1988, pp. 11 ss.] – proveremo ora a dedicarci a una verifica dei

principali modelli di razionalità emersi nell'economia contemporanea, in vista

di una loro miglior concordanza con i comportamenti soggettivi aventi

rilevanza per l'economia e il diritto.

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3. Nozioni e funzioni della razionalità in economia

L'economia, si diceva con Hausman in apertura al primo capitolo, solleva

questioni fondamentali rispetto alla natura della razionalità.

In generale, tale tema pertiene alla «teoria delle decisioni» («Decision

Theory» nella predominante dizione anglosassone), crocevia di una vasta

serie di discipline, dalla statistica alla psicologia, dalla filosofia alla

cibernetica, fino a, per l’appunto, l'economia. Si tratta di un insieme di

ricerche che, nel concentrarsi sulle «condotte dirette a un determinato

obiettivo in presenza di opzioni diverse» [cfr. Hansson 2005, p. 6], risulta a

sua volta situabile in quell'ancora più ampio campo degli studi del

comportamento, stabilitosi nei primi decenni del Novecento con l'intento di

ricomprendere in una visione più unitaria l'insieme delle condotte umane [cfr.

Heukelom 2011, p. 4] e progressivamente evolutosi nel complesso delle

scienze cognitive, di cui si dirà più dettagliatamente in seguito [infra, §5.].

Tenere a mente tale progressione, lo si rileva sin d’ora, risulta

fondamentale nella comprensione dei più recenti sviluppi in tema di teorie

alternative alla razionalità economica standard, dal momento che si può ben

interpretare l'affiorare di correnti quale quella comportamentale, o, da ultimo,

neurocognitiva, come un tentativo più o meno consapevole/dichiarato di

attribuire la prevalenza a forze diverse, all'interno del campo di studi relativi

alla teoria della decisione, rispetto alle applicazioni di quest'ultima in

economia. Tanto premesso, cominciamo qui col dare conto delle principali

direttrici lungo le quali si è mossa la dottrina economica nel corso del

Novecento per definire le sue principali nozioni di razionalità.

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3.1. La nozione assiomatica di razionalità nella teoria neoclassica

Punto di partenza pressoché obbligato al proposito è la nota visione

dell'economia, formulata da Lionel Robbins, quale scienza che studia la

condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi

alternativi: tale definizione indirizza quindi alla considerazione del singolo

agente rispetto alle decisioni che questo adotti quanto a scopi, mezzi e usi di

volta in volta rilevanti [cfr. Egidi 2005b, p. 178].

In una prospettiva di storia delle idee, la centralità così riconosciuta

alla razionalità pratica del soggetto si pone in successione naturale

all'individualismo metodologico della scuola austriaca, cui abbiamo già avuto

modo di accennare. Simile progressione, peraltro, è avvenuta nel più generale

contesto della teoria dell'equilibrio economico generale, della quale il

marginalismo, con la sua idea originaria della massimizzazione dell'utilità

soggettiva sulla base di (alcune ben determinate) aspettative razionali,

costituisce al contempo il presupposto e un prodotto.

Il marginalismo è il presupposto dell'equilibrio generale in quanto

rappresenta il vertice ottocentesco dei prolungati sforzi, realizzati dal

pensiero economico, nello stabilire un sistema regolare di preferenze e una

coerenza dei criteri di scelta degli agenti. Ciò al fine di disporre di una

funzione ordinale continua di utilità e ovviare così, finalmente, al tormentato

problema della natura dell'utilità, che, dagli utilitaristi classici à la Bentham in

avanti, non aveva cessato di minare le pretese di ordine concettuale della

disciplina economica. Una disciplina, va aggiunto, sino a quel momento

perfettamente a suo agio nel considerare l'introspezione e l'attenzione agli

stati soggettivi come fonte legittima fonte informativa. Sotto tale profilo,

l'economia operava dunque in continuità rispetto la psicologia del tempo, con

la quale condivideva interessi e presupposti di ricerca senza remore di

mostrare per questo scarsa «scientificità» e abbisognare di ridefinirsi, a partire

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dall'opera di Vilfredo Pareto, come pura «scienza dell'azione logica» [cfr.

Bruni, Sugden 2007, p. 155].

Al tempo stesso, il marginalismo è un prodotto della teoria

dell'equilibrio generale in quanto il suo concentrarsi su determinati requisiti

di razionalità soggettiva, funzionali al modello assiomatico della condotta

dell'agente economico, è stato provocato dalla necessità di adeguarsi alle

condizioni (e complicazioni) logico-formali di tale equilibrio, così come poste

in evidenza dalle analisi sempre più raffinate dedicate alla materia. Analisi, si

rileva, svolte da matematici [cfr. Odifreddi 2000, pp. 122 ss.], dei quali von

Neumann rappresenta il miglior esempio, e le cui puntualizzazioni in tema di

necessaria eleganza di un modello [supra, §2.4.] paiono tradire una pulsione

interna a una nozione di «ordine per l'ordine» utile per comprendere le

fortune intellettuali della nozione di equilibrio generale, così come dei

processi di modellizzazione a questa conseguenti.

In effetti, l'evoluzione della microeconomia ortodossa che ha dominato

la seconda parte del secolo scorso, insieme alla serie di assiomi in materia di

scelta razionale che ne è alla base, può essere compresa solo nel contesto degli

sforzi intellettuali messi in campo al fine di poter pervenire, perlomeno in

astratto, a quell'equilibrio concorrenziale ritenuto la soluzione socialmente

ottimale dalla teoria dell'equilibrio generale. Sulla base degli sforzi appena

richiamati si è venuto definendo un corpo teorico rigido che ha preso il nome

di «teoria della scelta razionale» («Rational Choice Theory») e trovato una

formalizzazione stabile al volgere degli anni cinquanta del secolo scorso con

l'opera di Kenneth Arrow e Gerard Debreu: un'opera, va ricordato, incentrata

sul ricorso a complesse strumentazioni matematiche, fino all'uso di estensioni

di teoremi desunti dalla topologia [cfr. Odifreddi 2000, p. 125].

Al netto delle molte ulteriori considerazioni disponibili nella messe

sterminata di bibliografia esistente al riguardo, con riferimento alla base

tecnica-assiomatica della teoria della scelta razionale ci si adagia qui sulla

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lezione più diffusa per ricordare come tale teoria, caposaldo

dell'impostazione neoclassica, faccia corrispondere la perfetta razionalità

nella condotta di un agente economico (e, in particolare, della sottocategoria

dei consumatori) al rispetto di una serie ben determinata di assunti. Tali

assunti, a loro volta, operano in un contesto di informazione perfetta, ovvero

di conoscenze rispetto agli stati del mondo rilevanti per la decisione sempre

immediatamente e completamente accessibili, nonché – secondo quanto da

ultimo rimarcato criticamente – affidabili e corrette [cfr. Kirman 2011, p. 15].

Come è già stato sinteticamente rilevato, «il nucleo dell'economia

neoclassica è costituito dall'ipotesi che ogni comportamento umano rilevante

può essere spiegato in termini di massimizzazione di indici di preferenze per

dati vincoli ambientali, preferenze che sono stabili nel tempo e rispetto

all'ambiente nel quale l'agente interagisce» [Gilli 2005, p. 17]. Più in dettaglio

rispetto agli assiomi posti alla base della scelta razionale, l'elenco di

riferimento è il seguente:

(1) completezza (il consumatore, se posto di fronte alla scelta tra due

panieri di beni X e Y, sa sempre dire quale delle due preferisce, o se gli

sono indifferenti);

(2) transitività (date le quantità di tre beni X, Y e Z, se il consumatore

preferisce un'unità di X a un'unità di Y e un'unità di Y a un'unità di Z,

allora preferirà naturalmente anche un'unità di X a una di Z);

(3) non sazietà (il consumatore è sempre più soddisfatto se consuma

panieri che hanno la stessa quantità del bene X e una quantità via via

maggiore del bene Y);

(4) continuità (le curve di indifferenza, cioè gli insiemi dei panieri tra cui

il consumatore è indifferente, sono funzioni continue);

(5) convessità stretta (dato un paniere X', l'insieme dei panieri X preferiti a

X' è strettamente convesso).

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È importante sottolineare come alcuni di tali assiomi (su tutti quello di non

sazietà) disegnino una peculiare psicologia dell'agente razionale, o, meglio,

l'assetto psicologico di base che la teoria economica neoclassica assume in

maniera normativa-prescrittiva per i soggetti decisori in un contesto di

scambio [cfr. Wallace, Wolf 2000, pp. 306 ss.].

Per altro verso, gli assiomi sono funzionali a mantenere la coerenza

matematica della teoria, o, secondo la dizione più diffusa, la sua

«consistenza». Al proposito, in parallelo alla formalizzazione matematica

culminata nella teoria dei giochi, merita rilevare la crescente rilevanza

dell'elemento della consistenza, fino a prevalere sullo stesso originario

obiettivo marginalista della massimizzazione dell'utile soggettivo da parte

dell'agente [cfr. Giocoli 2005, pp. 181 ss.].

In questo senso, il corpo delle ipotesi normative in merito alle condotte

degli agenti risulta comprensibile nell'ottica di una migliore tenuta

dell'impianto formalistico della teoria, in un progressivo allontanamento da

basi di ricerca e verifiche empiriche da parte di un pensiero economico che,

così facendo, cercava di esorcizzare la questione di fondo ereditata

dall'utilitarismo classico. Tale questione, lo s'intende chiaramente, è quella

della natura soggettiva delle preferenze e la conseguente necessità di

considerare stati mentali interni all'agente, la quale viene ora eliminata per

concentrarsi su un sistema genuinamente a priori [cfr. Sugden 2001, p. 128].

3.1.1. Preferenze rivelate e fuga dalla psicologia

L'assioma delle preferenze rivelate, introdotto negli anni trenta da Paul

Samuelson, nell'assumere che le preferenze dei consumatori siano svelate dai

comportamenti d'acquisto risulta esemplare del tentativo operato dalla teoria

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microeconomica di ottenere l'interna consistenza di cui si è già detto. Al

contempo, nell'assestarsi con agio entro la già richiamata corrente del

comportamentismo radicale al tempo particolarmente in voga [supra, §2.4.], la

posizione di Samuelson s'inquadra nel tentativo di liberarsi dalle difficoltà

dell'introspezione con cui gli utilitaristi classici intendevano determinare le

utilità e preferenze degli agenti [cfr. Ross 2005, p. 100]: un tentativo

pienamente parte, insomma, di quella «fuga dalla psicologia» che ha segnato,

indelebilmente, il pensiero economico lungo tutta la prima metà del

Novecento.

Tale evoluzione della rappresentazione delle preferenze soggettive

s'insinua tra le due correnti di pensiero economico allora in corso di

emersione: da un lato, infatti, «alcuni economisti intesero la fuga dalla

psicologia come una condizione necessaria per rafforzare il contenuto

empirico dell'economica, di modo che essi privilegiarono il carattere

operazionale delle proprie teorie; dall'altro lato, alcuni perseguirono

l'obiettivo di ridurre la teoria del valore a una pura logica della scelta, di

modo che le si potesse fornire una rigorosa fondazione assiomatica» [Giocoli,

2005, p. 183].

Più nello specifico, l'assioma delle preferenze rivelate studia il

comportamento umano con un'impostazione dichiaratamente debitrice del

behaviorismo, ripreso da Samuelson in una maniera assai semplificata [cfr. di

nuovo Ross 2005, p. 100]. A ritroso, l'assioma fissa quindi i principi d'azione

che sarebbero alla base del comportamento, opportunamente diradati per

renderne possibile simulazione-rappresentazione matematica. In tal modo,

l'intervento di Samuelson appartiene alla prima corrente di pensiero sopra

citata, ancora incentrata su una considerazione delle forze che dirigono le

azioni degli agenti, ma anticipa e per molti versi introduce la seconda

corrente, dove l'attenzione si sposta sulle relazioni tra agenti e, per questo,

necessita di una formalizzazione sempre più rigorosa delle stesse preferenze.

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L'originaria teoria della scelta razionale a base marginalista, in effetti,

richiede soltanto la coerenza del criterio di scelta degli agenti, risultando

indifferente alle preferenze, ai gusti degli agenti/consumatori, le cui condotte

avvengono in un contesto statico, privo di rischio o incertezza. Il passo

successivo, nella teoria economica, è stato d'intervenire sulla razionalità delle

preferenze in sé, imponendo a queste ben determinate caratteristiche per

mantenerle operative anche rispetto a decisioni da prendere in stati

intertemporali di rischio o incertezza.

Al proposito, va considerato che, se «nella teoria dell'equilibrio

concorrenziale gli agenti scelgono piani di consumo e di produzione e le

preferenze sulle azioni coincidono con le preferenze sulle conseguenze delle

azioni, nella teoria delle decisioni le azioni sono lotterie o atti, le cui

conseguenze sono aleatorie, e nella teoria dei giochi le azioni sono strategie»

[Montesano 2005, p. 29]. La conseguenza è che le preferenze sulle azioni

dipendono non solo dalle preferenze del singolo agente sulle loro

conseguenze, ma anche dalla valutazione delle probabilità che queste si

presentino.

3.2. Scelte, aspettative razionali, giochi

La teoria delle decisioni a cui si riferisce la citazione appena riportata

corrisponde, nel suo nucleo originario, alla «Game Theory» presentata da von

Neumann e Morgenstern, e, nel suo rifondare la razionalità del soggetto su

base probabilistica, rappresenta un’autentica svolta nel pensiero economico

contemporaneo. Gli assiomi di razionalità propri della lezione marginalista

vengono mantenuti, salva l'aggiunta di alcuni ulteriori corollari necessari alla

consistenza della formalizzazione, ma, complessivamente, sono ricollegati a

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come gli agenti interpretino la probabilità di successo delle proprie azioni in

stati di natura futuri rispetto alle utilità attese («Expected Utility» sulla base

di «Rational Expectations», nella dizione originale), in linea con

l'impostazione bayesiana delle probabilità soggettive [cfr. Montesano 2005, p.

32]. Si tratta peraltro di utilità, è importante notare, che, dopo le ricordate

tensioni marginaliste verso l'elaborazione di funzioni di utilità ordinali,

tornano a essere esprimibili in senso numericamente cardinale.

L'operazione così compiuta, intellettualmente prodigiosa, corrisponde

in sostanza a una fondazione della razionalità sulla teoria della probabilità

soggettive, ponendosi nel solco degli studi che, perlomeno a partire dalla

soluzione offerta nel 1738 da Daniel Bernoulli al c.d. «paradosso di San

Pietroburgo»*, hanno tentato di rendere in qualche modo calcolabile

l’aleatorietà tipica delle decisioni da prendere in condizioni di rischio e

incertezza [v. Bernasconi 2005, pp. 97 ss.].

In estrema sintesi, la nozione di utilità attesa poggia su una funzione

di utilità che consente di comparare l’utilità di ciascuna delle alternative

decisionali poste di fronte all’agente economico rispetto alle loro diverse

probabilità [l’esemplificazione è ripresa da Egidi 2005b, p. 180]. Un risultato

del genere viene ottenuto, tuttavia, solo dopo aver stabilito rigorose

assunzioni in termini di quale sia il miglior risultato da perseguire nelle

condotte strategiche dei soggetti. Per meglio intendersi, l’impianto

* Tale paradosso, che prende il nome dalla sua esposizione da parte di Daniel

Bernoulli in una pubblicazione dell'Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, descrive un particolare gioco d'azzardo (scommessa testa o croce sul lancio di una moneta) basato su una variabile casuale con valore atteso infinito, cioè con una vincita media di valore infinito. Nonostante il fatto che, da un punto di vista matematico, una vincita tale da ripagare qualsiasi somma pagata per partecipare al gioco sia certa, la condotta comune sarà disposta a postare solo una minima somma, poiché le aspettative di vincita vengono proiettate non sull'infinito, bensì – come evidenziato dagli studi della decisione sviluppatisi nell'ambito delle scienze sociali, qui sopra in discorso – a seconda del peso soggettivamente attribuito alle probabilità.

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utilitaristico alla base della teoria dei giochi [su cui v. anche infra, §6.1.1.] si

regge su una raffigurazione estremamente prudente dei giocatori,

ottimizzante le condizioni di ciascuno nel senso di una massimizzazione di

indici di preferenze personali. Si tratta di preferenze, tra l'altro, stabili sia nel

tempo che rispetto all'ambiente in cui l'agente si trova a interagire [v. Gilli

2005, p. 17].

Ora, secondo quanto già autorevolmente rimarcato sin dalla prima

introduzione della teoria dei giochi, «il tipo di teoria approssimata di von

Neumann tende a condurre un giocatore ad agire con la massima cautela,

supponendo che il suo avversario sia perfettamente saggio» [sono parole di

Norbert Wiener, riprese da Israel, Millàn Gasca 2008, p. 110]: una pre-

supposizione che, trovandosi alla base della modellizzazione dell'agente

razionale, condiziona necessariamente gli esiti di tutte le sue condotte.

Si ripropone in tal modo, platealmente, la già anticipata questione del

contenuto descrittivo/prescrittivo/normativo (e relative, indebite commistioni)

di una teoria economica. Se, infatti, la teoria delle aspettative razionali è di

carattere squisitamente normativo, rappresentando nella maniera più alta il

compimento della tensione primo-novecentesca alla formalizzazione e

modellizzazione ricostruita nel capitolo precedente, l’accademia economica si

è però presto appropriata della stessa per impiegarla in senso prescrittivo.

Tale operazione, sostanzialmente eristica, è avvenuta nonostante le

avvertenze lasciate al proposito degli stessi padri fondatori della teoria dei

giochi in merito alla necessità che la conoscenza economica vertesse sulla

raccolta di dati e osservazioni dalla realtà.

Secondo un puntuale commento sul tema, von Neumann e

Morgenstern riuscirono infatti a formalizzare una serie di intuizioni

«plausibili» entro una teoria assiomatica della scelta in condizioni di rischio,

ma dichiararono espressamente che i loro contributi in tal senso andavano

intesi come uno stadio preliminare dello sviluppo scientifico dell'economia.

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Tuttavia, «ignorando la prudenza dei suoi padri fondatori, gran parte della

professione vedrà nel concetto di razionalità di von Neumann e Morgenstern

il solido strato di roccia su cui costruire l’elegante edificio della scienza

economica» [Motterlini, Guala 2005, p. 2].

In una prospettiva storica, l'opera di definitiva «sterilizzazione

formale» del pensiero economico, con un dichiarato disinteresse nei confronti

di verifiche empiriche di sorta, ha trovato il suo culmine nella proposta di

Friedman e Leonard Savage, espressa in un articolo congiunto del 1948, di

una curva dell’utilità attesa valida a livello aggregato: proposta formulata in

completa assenza di dati concreti, dando per assunto che le preferenze non

siano osservabili (o, il che è operativamente lo stesso, non sia necessario

farlo), sulla base di una poderosa formalizzazione delle condotte degli agenti,

nello specifico consumatori, «as if», cioè come se questi si comportassero nel

modo richiesto dalla teoria. Secondo quanto è già stato laconicamente

notato, rispetto al modo in cui veniva definita la nozione di utilità in quel

periodo l’articolo di Friedman e Savage costituiva un notevole passo in avanti:

«tuttavia questo passo avanti nascondeva un’impostazione generale

metodologicamente ed epistemologicamente insostenibile, che

sfortunatamente ebbe successo e rimase per lungo tempo un indiscusso

dogma per gran parte degli economisti» [Egidi 2005b, p. 181].

3.3. Contro le aspettative razionali: l'esperimento di Allais

A fronte dell'assestamento teorico sopra ricostruito, va detto, le reazioni non

si fecero attendere, concentrandosi nel rintracciare ed evidenziare i limiti del

nuovo approccio formalistico-assiomatico in termini di adeguatezza

descrittiva del comportamento umano.

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L'esperimento tentato dall’economista francese (e futuro premio

Nobel), Maurice Allais, con i partecipanti a un congresso internazionale

dedicato alla teoria delle aspettative razionali tenutosi a Parigi nel 1952,

rappresenta in tal senso una vicenda esemplare, significativa anche per i

destini dell'economia comportamentale. In un articolo pubblicato l'anno

successivo i fatti, Allais riprese i termini principali della vicenda facendoli

precedere da una premessa teoretica rispetto alla nozione di razionalità che, a

suo dire, dovrebbe informare il pensiero economico, e che vale qui

ripercorrere.

Secondo Allais, dunque, la razionalità può essere intesa, da un lato,

secondo un significato puramente astratto di consistenza interna, dall'altro

«in maniera sperimentale, a mezzo dell'osservazione delle azioni delle

persone». Ancora, ogni studio della razionalità in economia deve tenere conto

dei seguenti elementi di complessità: «(i) distinzione tra valori monetari e

psicologici; (ii) distorsione delle probabilità oggettive e apparenza delle

probabilità soggettive; (iii) aspettative matematiche di valori psicologici (cioè

la distribuzione di probabilità di valori psicologici); (iv) dispersione (varianza)

e proprietà generali della forma della distribuzione di probabilità dei valori

psicologici» [Allais 1953, p. 504].

Quanto all'esperimento di cui lo scritto dà conto, esso era consistito nel

richiedere a «persone considerate come perfettamente razionali» (tra cui

Morgenstern e Savage), di scegliere tra coppie successive di panieri diversi di

probabilità di guadagni economici, secondo lo schema seguente.

Caso (1). Scegli tra le situazioni:

(a) certezza di ricevere 100 milioni

(b) 10% di probabilità di vincere 500 milioni

89% di probabilità di vincere 100 milioni

1% di probabilità di non vincere nulla

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Caso (2). Scegli tra le situazioni:

(c) 11% di probabilità di vincere 100 milioni

89% di probabilità di non vincere nulla

(d) 10% di probabilità di vincere 500 milioni

90% di probabilità di non vincere nulla

In base alla teoria assiomatica sistematizzata da Savage, la scelta della

situazione (a) nel primo caso avrebbe dovuto imporre come conseguente la

scelta di (c) nel secondo. Dai risultati dell'esperimento condotto da Allais,

invece, risultava che la maggioranza delle persone avesse sì scelto (a) nel

primo caso, ma (d) nel secondo, con ciò contraddicendo irrimediabilmente le

assunzioni della teoria delle aspettative razionali [Allais 1953, p. 527].

Come già detto, l'esperimento appena riportato e la sua successiva

elaborazione rappresentano un momento importante delle resistenze opposte

all’affermarsi della teoria delle aspettative razionali e alla loro progressiva

«colonizzazione» del pensiero economico: importante, soprattutto, nel

richiamare la necessità di validazioni/falsificazioni empiriche della teoria,

aprendo con ciò la strada agli sviluppi sperimentali di cui si dirà a breve.

Tuttavia, come già avvenuto nel caso della precitata polemica

qualitativo/quantitativa tra Keynes e Timbergen, l'influenza di tali

considerazioni sul pensiero economico coevo risultò praticamente nulla, con

la conseguenza che bisognerà aspettare quasi altri tre decenni perché una

revisione della teoria della decisione in senso maggiormente rispettoso delle

probabilità soggettive venisse avviata.

In ogni caso, anche al netto delle pionieristiche critiche di Allais, le

progressive applicazioni del modello di razionalità perfetta ai contesti più

diversi facevano emergere con montante frequenza la questione della

sostenibilità di calcoli di utilità tanto complessi da parte dei soggetti agenti. Ci

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si cominciava insomma a domandare «se fosse legittimo assumere individui

tanto abili a effettuare processi decisionali estremamente complessi, a

risolvere i problemi loro connessi a mezzo di algoritmi sofisticati e altamente

costosi in termini di tempo, o se invece i modelli di comportamento razionale

non dovessero piuttosto essere solo interpretati in senso normativo, come

tecniche di aiuto alla presa di decisioni e adatti all'uso di esperti, non di

comuni decisori» [Egidi 2005a, p. 1]. Per trovare la risposta più efficace alla

domanda appena posta, e, insieme, comprendere gli sviluppi successivi del

pensiero economico secondo la direttrice comportamentale (poi, come si

vedrà, cognitiva), è quindi alle elaborazioni di colui che è stato con ogni

probabilità il più importante scienziato sociale del secondo Novecento che

occorre guardare.

3.4. Herbert Simon e la razionalità limitata

Herbert Simon parte da un contesto diverso rispetto alla teoria

microeconomica neoclassica, e, sotto il profilo metodologico, l'impostazione

assiomatica sin qui considerata, sostenendo nondimeno con grande

convinzione l'approccio modellistico. In estrema sintesi, il poliedrico

professore della Carnegie Mellon University – economista insignito del

premio Nobel, sociologo, psicologo, tra i padri fondatori dell'intelligenza

artificiale – ridisegna l'architettura cognitiva del soggetto agente in una

prospettiva (non rigidamente comportamentista, al modo della teoria di

Samuelson in materia di preferenze rivelate, bensì) comportamentale,

soffermandosi su come funzionano nella pratica i processi decisionali.

Simon, si noti, non rifiuta la prospettiva della definizione di un

«idealtipo» [su tale categoria weberiana, e i suoi rapporti con la nozione

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corrente di modello, v. utilmente Di Nuoscio 2006, p. 50] da impiegarsi per

teorizzazioni ad ampio spettro; ritiene, però, che tale definizione debba

fondarsi su solide basi analitiche e sperimentali, tenuto conto di come le

decisioni vengano adottate nella realtà dai diversi soggetti, che, tra l'altro,

presentano caratteristiche decisionali distinte anche a seconda dei contesti

operativi in cui rilevano.

La nozione di «razionalità limitata» («Bounded Rationality»),

introdotta per la prima volta sul finire degli anni cinquanta, esemplifica nella

maniera migliore il contrapporsi della nuova impostazione alla «razionalità

olimpica» – la definizione è dello stesso Simon – fino a quel momento

dominante. Essa, inoltre, rappresenta un tentativo pionieristico nel ristabilire

un rapporto cooperativo tra economia e psicologia, in controtendenza rispetto

alla sterilizzazione degli stati interni dell'agente avvenuta con il processo di

formalizzazione matematica analizzato nelle pagine precedenti [cfr.

Gigerenzer, Selten 2001, p. 1].

Secondo Simon, dunque, le limitazioni proprie della razionalità

umana provengono, rispettivamente, dalle informazioni, dal tempo a

disposizione e dalle capacità analitiche soggettive; sulla base dell'elaborazione

di tali fattori limitanti, l'agente sviluppa processi cognitivi e simbolici,

processi che Simon ha cercato di codificare in un ininterrotto e

sostanzialmente omogeneo lavoro di ricerca, costellato di una lunga serie di

scritti con cui ha inteso presentare e sostenere le proprie tesi. Tenuto conto

della frequente trattazione dei medesimi aspetti teorici, e, insieme, della non

comune chiarezza esplicativa dell'autore, si ritiene opportuno prendere qui in

esame uno di questi contributi, in quanto particolarmente significativo

[Simon 1972, pp. 161 ss.], provvedendo poi di seguito ad arricchire il discorso

con altri riferimenti di contorno.

In primo luogo, secondo Simon, converrebbe parlare di razionalità al

plurale, tenendo conto dei vari e diversi fattori sia soggettivi che ambientali di

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volta in volta rilevanti. Di fatto, a differenza di quanto fino a quel momento

avvenuto nel pensiero economico ortodosso, Simon si premura di distinguere

una «razionalità degli individui» da una «razionalità delle organizzazioni»,

sottolineando come, nel secondo caso, siano ricorrenti possibili conflitti

d'interesse tra obiettivi diversi.

Con riferimento alla razionalità delle organizzazioni, e in modo ancor

più specifico alla teoria dell'impresa, Simon propone una serie di modifiche di

rilievo alle assunzioni di fondo, introducendo fattori di rischio e incertezza

ora nella funzione della domanda, ora nella funzione dei costi, ora in

entrambe le funzioni, ciò che cambia completamente le loro modalità di

calcolo e relative difficoltà. Soprattutto, viene sottolineato come nella realtà

l'attore – impresa o individuo che sia – disponga sempre di informazioni

incomplete, sia a proposito delle alternative decisionali disponibili che delle

loro conseguenze. Infine, la razionalità può venire limitata «assumendo

complessità nella funzione di costo o altre limitazioni ambientali così elevate

da impedire all'attore di calcolare la miglior procedura d'azione» [Simon

1972, p. 164].

Tale precisazione, nell’attirare l'attenzione sui costi gestionali delle

operazioni cognitive, aprirà la strada a tutte le successive elaborazioni

dell'economia comportamentale in tema di strategie «euristiche» – termine

derivato dal greco con un richiamo principale al significato di «scoperta di

una soluzione per un problema» – messe in atto da parte dei soggetti agenti,

di cui si dirà meglio a breve. A conferma della fertilità dell'ipotesi di Simon, e,

per altro verso, del suo già accennato interesse per la modellizzazione, si

possono citare ora le sue riflessioni circa le strategie decisionali impiegate nel

gioco degli scacchi.

L'adozione degli scacchi come una sorta di specchio riflettente alcune

proprietà dei processi decisionali impiegati nel mondo reale era già stata

proposta da von Neumann e Morgenstern nel loro lavoro congiunto in

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materia di teoria dei giochi, ma con conclusioni ben diverse da quelle

avanzate da Simon. Quest'ultimo, infatti, lungi dal ritenere gli scacchi un

gioco «triviale» in ragione della possibilità teorica di definire un albero di

tutte le giocate possibili, sottolinea il fatto che, sia sulla base di esperimenti

controllati che di osservazioni dal vero, i giocatori si concentrano

regolarmente su un numero molto minore di strategie rispetto a quello

possibili a ogni mossa.

Più precisamente, «i giocatori di scacchi non considerano ogni

possibile strategia e selezionano la migliore, ma generano ed esaminano un

numero relativamente piccolo, compiendo la loro scelta appena ne trovino

una che essi considerino soddisfacente» [Simon 1972, p. 166]. La generazione

e l'esame di alternative spesso avviene sulla base di processi dettati dalla

consuetudine, nella ripetizione di procedure decisionali che potrebbero anche

portare a risultati sub-ottimali, ma non per questo vengono abbandonate,

poiché dipendenti da credenze o abitudini profondamente radicate nella

«programmazione cognitiva» del soggetto.

Le considerazioni tattiche di corto raggio appena richiamate, così

come le possibili limitazioni cognitive esistenti su base personale, sarebbero le

stesse che si verificano nel complesso dei processi decisionali: quando gli

agenti decidono, insomma, non sono in grado di considerazione tutte le

alternative possibili, oppure per ragioni di tempo ed energie da impiegare

non vogliono farlo, ricadendo così sotto il rasoio operativo di quelle che la

letteratura psicologica definisce livelli di aspirazione («Aspiration Levels»), o

soglie di sub-ottimalità decisionale.

Per tale rasoio, peraltro, passa anche la più importante nozione

introdotta da Simon nella nuova teoria della decisione incentrata sulla

soluzione di problemi («Problem Solving»). La nozione è quella di

«Satisficing», un termine di origine scozzese ripreso in onore alla tradizione

filosofica derivata da David Hume e impiegato – in contrapposizione

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all'ottimizzazione tipica della teoria della razionalità perfetta – per riferirsi a

procedure con cui l'esistenza di alternative decisionali soddisfacenti è resa

possibile da meccanismi dinamici di aggiustamento dei livelli di aspirazione

alla realtà, sia sulla base delle informazioni disponibili relativamente

all'ambiente che tenuto conto delle risorse di tempo allocabili per tali

operazioni [cfr. Simon 1972, pp. 168 ss.].

A fronte degli elementi raccolti nelle righe precedenti, emergono

evidenti numerosi profili di novità del discorso simoniano in materia di teoria

della decisione. Qui interessa, soprattutto, attirare l'attenzione sul rilievo

prima sconosciuto che acquisiscono, da un lato, gli elementi di

spazio/ambiente decisionale e tempo, dall'altro i limiti delle soluzioni

raggiungibili dagli agenti, i quali possono ben adottare decisioni sub-ottimali

(solo «abbastanza buone», insomma), o, addirittura, fortemente divergenti

rispetto alla massimizzazione prescritta dalla teoria standard della razionalità

perfetta.

Tale revisione metodologica porta a dedicare un'attenzione inedita agli

aspetti cognitivi dei processi decisionali, in netta controtendenza rispetto alle

precedenti posizioni del pensiero economico ortodosso che, invece, una volta

assiomatizzata la capacità d'agire del soggetto, riteneva di non doversi più

preoccupare delle concrete capacità d'intendere e di volere dello stesso. Al

proposito, in dottrina è stata proposta una revisione terminologica al fine di

evidenziare, più che i limiti della razionalità, le qualità del nuovo approccio

alla stessa, sostituendo dunque l'aggettivazione «bounded» con «intelligent»

[cfr. Castellani 2009, p. 25].

Con la diversa aggettivazione si vuole intendere, in sostanza, che

l'approccio sviluppato a partire da Simon non si contrappone tanto a

un'impostazione razionale assunta per completa («unbounded»), quale

sarebbe la teoria della scelta razionale, ma, piuttosto, che le limitazioni fanno

parte tanto degli elementi di contesto, ambientali delle decisioni, che delle

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dotazioni cognitive dei soggetti agenti. É propriamente a partire dalla

consapevole assunzione di simili aspetti dell'architettura cognitiva del

soggetto e del suo ambiente di riferimento, ottenuta in primi luogo con uno

sforzo descrittivo della realtà osservabile, che si può tracciare il percorso del

nuovo approccio comportamentale nell'economia del secondo Novecento, e,

insieme, misurarne la progressiva distanza dall'impostazione assiomatica di

tipo normativo-prescrittivo.

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4. Le nuove economie del secondo Novecento

La nozione di razionalità proposta da Simon, analizzata nel capitolo

precedente, s'incentra sia sull'aspetto procedurale delle decisioni soggettive,

sia sulla «ecologia decisionale», ovvero l'ambiente in cui tali deliberazioni

maturano.

Il programma di «ricerca e soddisfazione» così avviato prevede,

difatti, (1) un punto di riferimento, fissato dagli stessi agenti in base al

meccanismo dei livelli di aspirazione sopra citati, per un inquadramento

soggettivamente corretto dei problemi da risolvere, e (2) la considerazione di

un contesto dinamico in cui le scelte avvengono nella realtà [cfr. Castellani

2009, p. 76]. Sulla puntuale considerazione di queste caratteristiche salienti,

come si è già avuto modo di rimarcare, si fonda l'impostazione tipica di

quella nuova linea di ricerca affermatasi con il nome di «economia

comportamentale»: una linea, va chiarito, che non rigetta di per sé pratiche di

modellizzazione dell'agire razionale, ma si premura di raffinarle al fine di

ridurre lo scarto tra realtà osservabile e tipi ideali.

Prima di prendere in considerazione le montanti fortune

dell'economia comportamentale occorre, nondimeno, dare conto di una sua

precondizione metodologica e operativa, sviluppatasi in parallelo alla

revisione dell'impianto teorico generale della microeconomia di stampo

neoclassico, ma, a suo modo, indipendente. Il riferimento è al ricorso da parte

della ricerca economica a esperimenti controllati per ottenere dati

direttamente correlati alle condotte degli individui, ciò che ha portato a

parlare di una nuova disciplina, denominata «economia sperimentale».

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4.1. L'economia sperimentale

Nel corso della sua storia culturale l'economia ha sempre fatto riferimento a

dati empirici per validare/falsificare le proprie teorie: tali dati, tuttavia, nella

loro stragrande maggioranza non sono stati prodotti direttamente, bensì

ricavati da fonti diverse.

In generale, si possono distinguere dati derivati da: (1) ricerche

storico/statistiche (si parla allora, nella terminologia anglosassone, di «Field

Data»); (2) questionari («Survey Data»), dunque con una partecipazione più

attiva del ricercatore nell'attività di composizione del database di riferimento;

(3) esperimenti controllati («Laboratory Data»). In quest'ultimo caso rilevano

attività che vedono il ricercatore non più nella veste di un puro collettore di

dati preesistenti, o, come nel caso dei questionari, di risposte provocate ma

pur sempre mediate dalla scrittura, bensì quale operatore di veri e propri

laboratori sociali dove vengono testate le assunzioni teoriche di determinati

modelli comportamentali, mettendole a confronto con i dati prodotti

sperimentalmente [cfr. Rossi 2000, pp. 149 ss.].

A seguito della svolta assiomatica rappresentata dalla teoria delle

aspettative razionali, l'economia ortodossa ha per lungo tempo opposto una

fiera resistenza al ricorso a esperimenti di tale natura. Si tratta di una

resistenza, nondimeno, risultata sin dagli esordi fragile, come dimostrato dal

precitato esperimento di Allais [supra, §3.3.]. Al tempo stesso, anche tra i

primi e più brillanti sviluppatori della teoria dei giochi venne chiaramente

avvertita la necessità di condurre esperimenti per verificare le intuizioni e

assunzioni alla base della teoria [cfr. Roth 1988, pp. 974 ss.]. Una tradizione

sperimentale, del resto, può essere tracciata ancora più a ritroso nel tempo, se

solo si pensa che la teoria dell'utilità soggettiva rappresenta pur sempre un

nuovo tentativo di risolvere il già noto paradosso pietroburghese emerso da

un esperimento attinente a scommesse e relative aspettative (ir)razionali.

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Nel lasciare da parte più accurate ricostruzioni in termini di storia

della scienza e delle idee al proposito, si può riassuntivamente considerare

come attraverso una complessa evoluzione, al contempo culturale e

accademica, negli ultimi decenni la dottrina economica abbia finito per

riconoscere una rilevanza sempre maggiore all'economia sperimentale, fino

ad assumerla quale elemento portante di quella «nuova ortodossia» che,

secondo un numero sempre più ampio di voci, sarebbe attualmente in corso

di formazione intorno all'economia comportamentale [v. in tal senso Davis

2008, p. 350].

Rispetto alla definizione delle principali linee di ricerca sperimentali, i

contributi di maggior rilievo sono senz’altro ascrivibili a Vernon Smith,

autore, nei primi anni ottanta el Novecento, di una sorta di vero e proprio

manifesto dell'economia sperimentale [Smith 1982, pp. 923 ss.], e, prima

ancora, antesignano nell'uso di esperimenti di laboratorio per testare ipotesi

di tipo sia microeconomico che macroeconomico. Smith, più precisamente, fu

il primo a dedicarsi a provare la resistenza sperimentale di modelli

d'istituzioni basate sull'interazione cooperativa tra soggetti, con rilevanti

implicazioni in relazione alla teoria dell'equilibrio economico generale [cfr.

Smith 2008, pp. 189 ss.].

Secondo quanto è già stato acutamente rilevato, al di là della

discutibilità di determinate assunzioni sperimentali – valga per tutti il ricorso

all'improbabile meccanismo dell'asta doppia nel caso dei primi esperimenti in

materia di raggiungimento di prezzi d'equilibrio concorrenziale –, la

centralità del contributo di Smith risiede «nella concezione di considerare

l'economia sperimentale come microsistema controllato, dove potere

artificialmente studiare le relazioni di causa ed effetto tra variabili

economiche, come per esempio l'effetto di un cambiamento istituzionale nei

mercati, nei disegni delle aste, nei meccanismi di incentivo nelle

organizzazioni e nelle strutture complesse, nelle procedure regolamentative

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concernenti i monopoli» [Bernasconi 2005, p. 111]. In sostanza, con il nuovo

corso dell'economia sperimentale avviene un'inversione metodologica di

assoluto rilievo nel pensiero economico contemporaneo. Abbandonate le

pretese normativo-prescrittive tipiche della linea neoclassica ed espresse nella

maniera più icastica dal contributo «metodologico positivo» di Friedman,

vengono infatti prese in diretta considerazione le condotte così come

osservabili e misurabili attraverso esperimenti appositamente predisposti. Ciò

ha portato alla formazione di un corpo di studi sperimentali sempre più vasto

e composito, con un corrispondente fiorire di laboratori di economia

sperimentale in tutto il mondo.

Come si vedrà più avanti, tale direzione di studi risulta caratterizzata

da un incrocio di ricerche ed esperimenti di notevole interesse anche per il

diritto. I significativi progressi maturati dall'economia sperimentale, in ogni

caso, non devono far dimenticare come ancora molto lavoro resti da svolgere

per giungere a una maggior robustezza epistemologica della disciplina. Al

proposito, le difficoltà maggiori continuano a risiedere nella perdurante

mancanza di standard operativi condivisi, dal disegno degli esperimenti alle

modalità di controllo e validazione degli esperimenti [sul punto v. Samuelson

2005, pp. 79 ss.].

In effetti, a differenza di quanto avviene per discipline come la fisica o

la biologia, dove da tempo sono applicate linee guida ufficiali relative alla

conduzione degli esperimenti, protocolli del genere non risultano esistenti

per l'economia sperimentale; le riviste specializzate, dal canto loro, non

richiedono particolari attestazioni metodologiche da parte degli autori

pubblicati, sebbene non siano mancati in dottrina sforzi riorganizzativi della

materia in una prospettiva normativa [per una trattazione utile anche agli

studi giuridici cfr. Croson 2002, pp. 921 ss.]. A fronte di tali carenze è naturale

che si perpetuino le discussioni intorno ad alcune questioni di metodo. Tra le

principali, merita qui menzionare (i) la selezione dei soggetti testati (di solito,

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per ovvie ragioni di praticità, studenti universitari, i quali possono non

costituire un campione particolarmente rappresentativo rispetto a

determinate condotte); (ii) l'impatto dell'ambiente di laboratorio sulle

condotte osservate; (iii) le conseguenze sulle medesime condotte del

pagamento di una determinata somma per la partecipazione all'esperimento

[cfr. Posner 1998, pp. 1570 ss.].

Molte delle critiche sopra citate, va detto, appaiono fondate. Pure,

tenuto conto del fatto che il processo della ricerca risulta per sua natura

continuo e perfettibile, non si vede perché, in linea con quanto già avvenuto

rispetto ai più stabiliti campi di ricerca sperimentale, non si possa riconoscere

anche all'economia sperimentale un «diritto al progresso», da un lato

prendendo atto dei risultati già raggiunti dalla stessa senza pregiudiziali di

sorta, dall'altro lavorando con serietà per raggiungere standard di ricerca

sempre più elevati e condivisi. A quest'ultimo proposito, conforta considerare

come le ricerche in campo psicologico già dispongano di più definite linee

guida, spesso adottate da associazioni nazionali, che possono rappresentare

utili modelli di riferimento per ricerche sperimentali condotte da altre scienze

sociali.

Al contempo, sotto un profilo più strettamente giuridico di tutela dei

soggetti coinvolti, va pure segnalata la necessità di meglio tenere in

considerazione i regolamenti già esistenti – ma assai poco noti, soprattutto al

di fuori degli Stati Uniti – relativi alla protezione della salute dei partecipanti

agli esperimenti [cfr. U.S. Department of Health & Human Services, 1974]. Sul

tema del diritto degli esperimenti, torneremo, in ogni caso, anche più avanti

[infra, §8.3.1.].

Salve le limitazioni e avvertenze appena riportate, la mole di dati e

informazioni ormai esistenti su condotte individuali e relative interazioni si

erge a testimoniare quanto profondamente l'economia sperimentale abbia

indotto a ripensare la teoria microeconomica standard e i suoi modelli di

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agenti razionali. Tale ripensamento è stato condotto, in modo particolare,

dall'economia comportamentale, la quale può ora essere finalmente presa con

maggior cognizione in esame.

4.2. L'economia comportamentale

Secondo quanto già osservato per l'economia sperimentale, anche nel caso

dell'attitudine comportamentale delle ricerche economiche è possibile

rintracciare precedenti piuttosto risalenti, ben prima della serie di studi a cui

tradizionalmente si ascrive lo stabilimento del nuovo corso qui in discorso.

In effetti, il termine «Behavioral Economics» è in uso sin dagli anni

cinquanta del Novecento, quando già risultano in attività una serie di

ricercatori dichiaratamente scettici rispetto alla struttura assiomatica in tema

di razionalità del comportamento umano che andavano assumendo gli studi

economici, e interessati a introdurre negli stessi un approccio sperimentale.

Tra tali ricercatori, oltre al già menzionato Allais, merita menzionare pure

George Katona, uno psicologo di origine ungherese che molto contribuirà a

introdurre nel contesto accademico statunitense una maggiore sensibilità

verso ricerche orientate allo studio degli stati soggettivi degli agenti, in linea

con la svolta cognitiva della psicologia che sarebbe di lì a poco maturata [cfr.

Angner, Loewenstein 2007, pp. 1 e 23].

Ad ogni buon conto, l'impiego dell'etichetta «economia

comportamentale» viene d'ordinario riservato a un corso di studi e ricerche

avviatosi solo nei primi anni settanta, agevolmente riconducibile a pochi, ben

individuati ricercatori: si tratta di due psicologi di origine israeliana, Amos

Tversky e Daniel Kahneman, cui si affianca molto presto un economista

statunitense, Richard Thaler. Su tutti, in ogni caso, s'allunga l'ombra di

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Herbert Simon, poiché è propriamente nel contesto della teorizzazione di

un'intelligenza limitata del soggetto agente che i più noti e importanti studi

comportamentali si sono venuti definendo.

Si è detto, in precedenza, della centralità nel pensiero di Simon della

questione dell'inquadramento soggettivo che gli agenti operano quando

chiamati ad attività di risoluzione di problemi, e, insieme, della necessità di

calare tali attività in contesti dinamici di scelta. La ricerca economica ha preso

ad analizzare le implicazioni psicologiche di tali elementi teorici distintivi con

il ricorso esteso e sistematico sia a questionari che a esperimenti controllati,

nel perseguimento di una somma la più ampia possibile di Survey e

Laboratory Data. Ne è emersa una teoria della decisione profondamente

diversa da quella neoclassica, e che è riuscita a poco a poco a farsi largo nella

teoria ortodossa dell'agente economico, pur senza mai intendere sostituirsi

alla stessa.

Ancora una volta, la voce di Simon risulta la più idonea

nell'inquadrare la questione in discorso. Si tratta, nello specifico, di parole

tratte da un intervento di ricostruzione della materia licenziato proprio

mentre la stessa stava intraprendendo la sua ascesa «accademica», e

rappresentanti una sorta di benedizione intellettuale di cui non possono

essere sottovalutate le esternalità positive sugli sviluppi maturati

successivamente [v. in tal senso Heukelom 2011, pp. 1 ss.]. Secondo Simon,

dunque, «l'economia comportamentale s'interessa della validità empirica

delle assunzioni neoclassiche rispetto al comportamento umano, e, quando le

stesse risultano invalide, della scoperta delle leggi empiriche che descrivano il

comportamento nella maniera più corretta e accurata possibile». Quali

obiettivi successivi in ordine di priorità vengono quindi segnalate (i) la messa

in evidenza delle implicazioni operative – anche in termini di politiche

pubbliche – delle differenze empiricamente riscontrate tra condotte effettive e

modelli teorici assiomatici; (ii) la raccolta di dati empirici relativamente a

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forma e contenuto della funzione di utilità «o di qualsivoglia costrutto la

sostituirà nell'ambito di una teoria comportamentale empiricamente valida»,

in vista di un miglioramento delle capacità predittive rispetto al

comportamento umano [Simon 1987, p. 221].

Tale fissazione di priorità e obiettivi definisce limpidamente le

principali linee di ricerca dell'economia comportamentale: quel che pare più

importante, tuttavia, è l'inquadramento che la ricostruzione compie delle

stesse linee rispetto alla tradizione neoclassica, la quale, anziché venire

rigettata nel suo complesso, risulta adottata come scenario di riferimento in

vista di suoi possibili miglioramenti, e, solo in presenza di comprovate

inefficienze operative, da mettere di volta in volta in discussione.

Per quanto sia Simon ad aver introdotto l'argomento, è ora all'opera di

altri ricercatori che occorre fare riferimento per meglio comprendere la (pur

accidentata) continuità dell'economia comportamentale con l'impostazione

neoclassica, insieme alle relazioni alle volte complicate con il quadro

cognitivo d'impronta simoniana, tipicamente incentrato sui limiti della

razionalità rispetto a soggetto e ambiente. Al proposito, secondo un recente

commento sarebbe possibile distinguere tra una fase per così dire classica

dell'economia comportamentale, rappresentata dai lavori pionieristici di

Simon, e un nuovo programma di ricerca comportamentale, «inteso nel senso

di muovere oltre le critiche originarie di Simon all'economia neoclassica,

concentrandosi sulle distorsioni sistematiche di Kahneman e Tversky più che

sui limiti casuali delle attività di decisione razionale di Simon» [Heukelom

2011, p. 18].

In effetti, quando si prendono in esame più da presso i lavori realizzati

congiuntamente da Tversky e Kahneman, risulta evidente come gli stessi

intendano far emergere l'esistenza di errori comportamentali rispetto a una

determinata idea di razionalità, più ancora che stabilirne una nuova: un

lavoro, insomma, avviato come completamento e correzione, più che

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demolizione, fino a quando il passaggio a una nuova costruzione non è

risultato sostanzialmente obbligato.

4.2.1. Euristiche ed errori: prime classificazioni

Intorno alla metà degli anni settanta Tversky e Kahneman hanno fatto il

punto di una serie di ricerche fino a quel momento condotte in tema di errori

e soluzioni cognitive ricorrenti nel comportamento reale di soggetti chiamati

a decidere in condizioni d'incertezza, condensando i risultati in un articolo

che viene solitamente considerato l'avvio ufficiale dell'economia

comportamentale [Tversky, Kahneman 1974, pp. 1124 ss.].

Tale scritto si concentra su tre «Heuristics», tre euristiche – o, secondo

un’interpretazione ormai entrata nel linguaggio comune, «scorciatoie» – di

cui è stato riscontrato un impiego diffuso e sistematico nel corso di una serie

di esperimenti controllati. Si tratta, nello specifico, delle euristiche della

rappresentatività («Representativeness»), della disponibilità di scenari

(«Availability of instances or scenarios»), di ancoraggio («Adjustement from

an anchor»). Nel loro articolo, peraltro, Tversky e Kahneman registrano pure

una lunga serie di illusioni di validità, errori d'immaginazione, correlazioni

illusorie, errori nella valutazione di eventi congiunti o disgiunti, distribuzioni

soggettive di probabilità distorte dalle distribuzioni iniziali delle grandezze

rilevanti.

In breve, quanto alle euristiche, gli agenti decidono le questioni di

probabilità, alla base delle proprie condotte, adottando delle strategie

decisionali che possono poggiare su percezioni distorte, secondo una casistica

piuttosto ricorrente, così come registrata dalla psicologia, e, poi dall'economia

comportamentale. Di fatto, le persone si rappresentano l'eventualità che

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qualcosa accada sulla base di come vengono loro esposte le informazioni di

riferimento, oppure di come possano reperirle, sia all'esterno che all'interno

di se stesse. Strategie del genere, va notato, trovano una giustificazione nei

costi di ricerca ed elaborazione informativa che consentono di risparmiare,

rendendo le attività decisionali rutinarie meno gravose per il sistema

cognitivo degli agenti. Al contempo, le euristiche citate possono comportare

insensibilità anche gravi rispetto a probabilità di riuscita già sperimentate,

distorsioni nella percezione di esempi numerici e relative dimensioni,

incomprensioni di regressioni.

Rispetto a tale impressionante serie di divergenze dalle assunzioni di

perfetta razionalità proprie del pensiero economico ortodosso, gli autori

dell'articolo si premurano di rilevare come le ricerche dedicate operino

(ancora) nel contesto delle analisi della percezione soggettiva delle

probabilità, analisi che – viene messo ben in chiaro nel testo – non risultano

necessariamente incompatibili con l'approccio standard dell'economia

neoclassica in tema di decisioni in condizioni d'incertezza. Quel che emerge

sperimentalmente, nondimeno, è una deviazione sistematica da tale

approccio che, da un lato, non trova spiegazione in elementi motivazionali di

sorta, quali ad esempio potrebbero essere dinamiche esogene di penalità o

ricompense, dall'altro non è una caratteristica propria di soggetti

cognitivamente ingenui, e, dunque, ritenuti portati a commettere più errori

rispetto a un agente esperto.

In ideale continuità (ancorché non dichiarata) con l'imboscata a suo

tempo tesa da Allais ai padri spirituali della teoria delle aspettative razionali,

infatti, gli autori dello studio hanno rilevato come «molti dei gravi errori di

giudizio riportati in precedenza sono occorsi nonostante i soggetti fossero

incoraggiati a essere accurati e venissero ricompensati per ogni risposta

corretta». Per altro verso, anche i giudizi dei soggetti esperti in calcoli di

probabilità e statistica «sono passibili di fallacie del genere quando posti di

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fronte a problemi più intricati e meno trasparenti» [Tversky, Kahneman 1974,

p. 1130].

A proposito di quest'ultimo aspetto, e a titolo esemplificativo del

nuovo approccio sperimentale tipico dell'economia comportamentale, va ora

preso in esame un altro contributo, sempre risalente agli anni settanta, con cui

il processo di affrancamento dallo scenario della razionalità olimpica di marca

neoclassica subisce un ulteriore passo avanti, fino alle soglie di un abbandono

di alcune sue fondamentali categorie concettuali.

4.2.2. La teoria dei prospetti di Kahneman e Tversky

Tale contributo, con ogni probabilità il più noto del duo di ricercatori

israeliani, fonda quella che da allora viene definita «Prospect Theory»: una

«teoria dei prospetti» che, nel vertere su come il singolo agente si

rappresenti/prospetti una determinata situazione in concreto, segna un

distacco profondo dalla previgente teoria delle aspettative razionali.

Da un punto di vista contenutistico, l'articolo verte sulla

considerazione descrittiva dei risultati empirici ottenuti sottoponendo un

gruppo di studenti universitari di diversi paesi a una serie di questionari ed

esperimenti, esplicitamente in linea con la strategia sperimentale di Allais, al

fine di accertare se il principio alla base della teoria dell'utilità attesa – ovvero

che le utilità dei risultati delle decisioni sono considerate in base alle

rispettive probabilità pre-ordinabili – sia rispettato o meno nella realtà

[Kahneman, Tversky 1979, pp. 263 ss.]. Si riporta qui di seguito, a titolo

d'esempio della strategia operativa adottata nell'articolo, il primo degli

esperimenti presentati. In esso viene chiesto ai soggetti partecipanti di

scegliere, in successione, tra le decisioni consentite rispetto a panieri diversi di

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probabilità di guadagni economici (nel linguaggio del testo, «prospetti» o

«scommesse»).

Problema (1). Scegli tra:

(a) 2,500 dollari con una probabilità di vincita del 33%

2,400 dollari con una probabilità di vincita del 66%

0 dollari con una probabilità di vincita del 1%

(b) 2,400 dollari con certezza di vincita

Problema (2). Scegli tra:

(c) 2,500 dollari con una probabilità di vincita del 33%

0 dollari con una probabilità di vincita del 67%

(d) 2,400 dollari con una probabilità di vincita del 34%

0 dollari con una probabilità di vincita del 66%

I dati riportati nell'articolo mostrano che praticamente la stessa percentuale

dei soggetti sperimentali ha scelto l'opzione (b) nel primo problema (82%) e

(c) nel secondo (83%). Ora, tali scelte risultano in grave contrasto con i

principi della teoria delle aspettative razionali. Assunto infatti, in linea con

quest'ultima, che u(0)=0, la prima preferenza implica che:

u(2,400) > .33u(2,500) + .66u(2,400) ovvero .34u(2,400) > .33u(2,500)

La seconda preferenza, dal canto suo, implica esattamente la disuguaglianza

inversa: il confronto tra le stesse, così come emerse dall'esperimento,

evidenzia pertanto una contraddizione interna nelle successive strategie di

scelta adottate dai soggetti interpellati. Gli autori dell'esperimento annotano

pure come il problema (2) sia ottenuto dal problema (1) tramite l'eliminazione

di una percentuale del 66% di vincita di 2,400 dollari da entrambi i prospetti

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offerti. Osservano, quindi, come questo cambiamento produca una riduzione

nella desiderabilità del prospetto quando alteri il carattere dello stesso da un

guadagno sicuro a un guadagno probabile, maggiore rispetto a quando sia il

prospetto originale che quello ridotto risultino incerti [Kahneman, Tversky

1979, p. 266]. I soggetti sperimentali dimostrano, insomma, di preferire una

vincita certa rispetto a una vincita incerta di valore superiore, ma preferiscono

pure una vincita incerta con poche probabilità rispetto a una perdita certa

dello stesso valore, con ciò dimostrando di dipendere fortemente nelle

decisioni dal modo in cui vengono presentate loro le possibilità di scelta, fino

al punto di adottare decisioni incoerenti tra loro.

A partire dalla mole raccolta di risultati del genere, Kahneman e

Tversky elaborano dunque la loro teoria dei prospetti, rilevando come le

persone sottostimino i risultati che sono soltanto probabili, in confronto a

risultati che sono invece sicuri. «Questa tendenza, denominata effetto di

certezza, contribuisce all'avversione al rischio nelle scelte che riguardino

guadagni sicuri e alla propensione al rischio nelle scelte che riguardino

perdite sicure. In aggiunta, le persone generalmente non danno importanza ai

componenti condivisi da tutti i prospetti in esame. Questa tendenza,

denominata effetto d'isolamento, porta a preferenze contraddittorie quando la

stessa scelta sia presentata in forme diverse» [Kahneman, Tversky 1979, p.

263].

Per tale motivo, la teoria proposta in alternativa a quella delle

aspettative razionali viene a prevedere che il valore sia assegnato alle

variazioni di ricchezza o benessere piuttosto che agli assetti finali di guadagni

o perdite, in linea con i principi di fondo della psicologia della percezione,

secondo i quali un soggetto tende a valutare le variazioni più che le

grandezze assolute. Al fine di realizzare compiutamente questo passaggio

concettuale, l'articolo propone l'adozione di pesi decisionali («Decision

Weights»). Più nello specifico, si tratta di pesi «inferiti dalle scelte tra

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prospetti in un modo molto simile a quello in cui le probabilità soggettive

sono inferite dalle preferenze nell'approccio di Ramsey-Savage. Tuttavia, i

pesi decisionali non sono probabilità: non obbediscono agli assiomi della

probabilità e non dovrebbero essere interpretati come misura o grado di

credenza» [Kahneman, Tversky 1979, p. 280].

L'introduzione dei pesi decisionali sorregge la costruzione di una

nuova funzione decisionale. In sostanza, a mezzo di una funzione di

ponderazione delle decisioni (p) le probabilità assegnate dai soggetti agenti

agli eventi possibili sono trasformate in pesi decisionali, mentre un'ulteriore

funzione di valore (v) sostituisce la funzione di utilità tipica della teoria della

scelta razionale. Combinate insieme, le nuove funzioni (p) e (v) permettono di

rappresentare le anomalie decisionali riscontrate sperimentalmente

nell'articolo [sul punto, per maggiori dettagli, v. Innocenti 2009, pp. 35 ss.].

La proposta così formulata si mostra, a una prima lettura, incentrata

su di una pura descrizione dei processi psicologici che determinano le

decisioni soggettive priva di aspirazioni di tipo prescrittivo o normativo.

Pure, nel suo avanzare una nuova funzione decisionale, essa diverge

profondamente dalla via aperta da von Neumann e proseguita da Savage

nella direzione di una teoria quantitativa dell'utilità soggettiva, per puntare a

un'impostazione incentrata sulla percezione direttamente soggettiva

dell'utilità, secondo un'analisi qualitativa di tipo psicologico.

Si tratta di un passaggio fondamentale nel nuovo pensiero economico,

e, anche se questo tarderà alcuni anni nel recepirlo appieno, segna un punto

di svolta nella questione della razionalità dell'agente così come sin qui

configurata. Ancora, secondo quanto si vedrà qui di seguito, è proprio sulla

base della teoria dei prospetti che vengono edificati i successivi piani

concettuali della nuova economia comportamentale.

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4.3. Sviluppi dell'economia comportamentale

Nel 1981 Tversky e Kahneman pubblicano un altro articolo congiunto in cui

provvedono a specificare alcuni contenuti del nuovo approccio

comportamentale all'agire razionale, rimasti sottotraccia nei loro precedenti

contributi. In particolare, viene evidenziata la rilevanza degli effetti di

incorniciamento («Framing») delle decisioni, le quali sarebbero cioè

fortemente condizionate dal modo in cui i prospetti – relativi alle più diverse

opzioni, dagli investimenti finanziari alle c.d. «scelte tragiche» in tema di

salvataggi di vite umane – vengono presentati.

L'articolo, sotto il profilo contenutistico, poco aggiunge agli elementi

costitutivi della teoria dei prospetti, limitandosi a esplicitarne alcuni

fondamenti di psicologia della percezione rimasti nascosti nei precedenti

contributi. La sua importanza rispetto agli sviluppi successivi dell'economia

comportamentale, tuttavia, risiede in una considerazione che gli autori

inseriscono al fondo del testo, e che serve loro a segnare per la prima volta

una distanza dalla cornice della «Bounded Rationality» entro cui, fino a quel

momento, non c'era ragione espressa per non ricondurre anche i loro

contributi. Scrivono dunque i due studiosi che le osservazioni sperimentali

accumulate nell'articolo «non implicano che le inversioni di preferenze o gli

errori di scelta o giudizio siano necessariamente irrazionali», posto che la

prassi di operare nell'ambito della cornice più facilmente disponibile può

essere giustificata considerando gli sforzi mentali richiesti per esplorare

cornici alternative ed evitare contraddizioni potenziali, in linea con quanto

già considerato da Herbert Simon e la sua teoria della razionalità limitata. E

tuttavia, essi propongono che i dettagli dei fenomeni descritti nell’articolo

«siano meglio spiegabili con la teoria del prospetti e con un'analisi dell'effetto

di incorniciamento che richiami specificamente la nozione dei costi di

pensiero» [Tversky, Kahneman 1981, p. 458].

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A partire da questo momento, si può dire che nel corso dell'economia

comportamentale prendano a formarsi due correnti distinte, ancorché sinora

poco evidenziate nelle loro divergenze [in proposito v. comunque Vranas

2000, pp. 179 ss.]. Da un lato, infatti, Tversky, Kahneman e i loro successivi

collaboratori proseguono nell'esame di quelli che vengono considerati errori

di scelta o di giudizio, i già noti «Cognitive Bias», in un contesto pur sempre

definibile di scelta razionale in senso normativo-prescrittivo. Dall'altro lato, si

è venuto stabilendo un filone di ricerca, rappresentato dalla «scuola tedesca»

riconducibile a Gerd Gigerenzer, che aspira piuttosto a valorizzare l'originaria

impostazione della razionalità limitata e delle euristiche positive offerta da

Simon.

Tale scuola, sviluppatasi a partire dal gruppo costituito presso il Max

Planck-Institut di Berlino dedicato allo studio di «Adaptive Behaviour and

Cognition» (e perciò, con un'ennesima concessione alla debolezza tipica degli

accademici per gli acronimi accattivanti, denominato «ABC Group»), sostiene

che le strategie decisionali degli agenti non andrebbero tanto rappresentate in

termini di errore rispetto a una razionalità normativa, quanto, piuttosto, di

economicità mentale volta a risparmiare energie e capacità cognitive, dove

per queste ultime – secondo una terminologia di massima che tornerà utile

nel seguito del discorso – occorre intendere i mezzi e gli strumenti con cui

l'uomo raccoglie, analizza e rielabora le informazioni necessarie alla

determinazione del proprio comportamento nell'ambiente. Le euristiche,

dunque, rappresenterebbero modalità cognitive del tutto legittime, e, per di

più, da intendersi in una prospettiva evoluzionistica, ovvero in quanto

adattamenti all'ambiente decisionale in cui l'agente si trova a operare [cfr.

Gigerenzer, Selten 2001, pp. 1 ss.]. In questo senso, come è già stato da altri

segnalato, la nuova scuola «allarga ed estende il programma simoniano con

l'obiettivo soprattutto di individuare quelle euristiche che sembrano, da una

parte soddisfare i requisiti di razionalità limitata, cioè la limitazione delle

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capacità cognitive, e dall'altra quelli di razionalità ecologica, cioè l'adattabilità

ambientale delle inferenze» [Viale 2005, p. 241].

Nel concordare con la considerazione secondo cui, nonostante lo

scarto maturato rispetto all'impostazione proseguita da Kahneman e i suoi

collaboratori, anche il filone di ricerca perseguito dall’ABC Group rimanga

legato a congetture di tipo psicologico, e, più in generale, a un'impostazione

di tipo deduttivo sulla base di «alcuni principi assegnati in modo a priori

all'attività inferenziale umana come la frugalità, la velocità e la semplicità» [di

nuovo Viale 2005, p. 241], si ritiene comunque significativa, e degna di essere

tenuta in debito conto, l'attenzione all'incidenza degli adattamenti ambientali

sulla definizione dei comportamenti e, a monte, sulle capacità cognitivo-

razionali dell'uomo. Si tratta, infatti, di un'apertura a una dimensione

evoluzionistica per lungo tempo irrisolta – o, per meglio dire, rimossa – nel

contesto della «Decision Theory» del secondo Novecento, e che come si vedrà

presenta profili di estremo interesse per le ricerche delle scienze sociali.

4.3.1. Effetto di dotazione, avversione al rischio, status quo

Nel rinviare a ulteriori note in relazione alle implicazioni evoluzionistiche dei

temi appena richiamati rispetto al nuovo pensiero economico e giuridico

[infra, §§6.2 e 8.4.1.], ai fini del miglior inquadramento generale dell'economia

comportamentale occorre considerare ancora una serie di ricerche in materia

di (1) scelta del consumatore, e, più in generale, (2) avversione al rischio dei

soggetti agenti.

In entrambi i casi, è soprattutto ai lavori di Richard Thaler che occorre

fare riferimento. Questi, infatti, sin dai primi anni ottanta si è dedicato a

rilevare ed evidenziare i più sistematici e sensibili errori di previsione in cui

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incorre la teoria del consumatore standard. Sotto questo profilo, come è stato

giustamente rilevato, «allo stesso modo di Tversky e Kahneman, Thaler è

interessato alle anomalie soprattutto come un mezzo per un fine, il fine

essendo lo sviluppo di una teoria descrittiva della scelta del consumatore

empiricamente adeguata» [Angner, Loewenstein 2007, p. 33]. Agli aspetti

descrittivi, peraltro, l'economista statunitense ha fatto più recente seguire

considerazioni di tipo prescrittivo particolarmente rilevanti, dalle quali ha

preso avvio una discussione, quella sul c.d. «paternalismo giuridico»,

piuttosto controversa, sulla quale torneremo [infra, §8.2.].

Quanto allo studio della scelta del consumatore, Thaler l'ha impostato

sperimentando «un ibrido di psicologia cognitiva e microeconomia» [Thaler

1985, p. 199]. Nel contributo appena citato, che fa il punto di precedenti scritti

sul medesimo tema e fissa le direzioni di ricerca di molti altri studi successivi,

la funzione di valore propria della teoria dei prospetti viene adottata per

sviluppare una codifica di guadagni e perdite combinate: una sorta di

contabilità mentale («Mental Accounting»), che i consumatori terrebbero in

conto nel momento decisionale. La valutazione degli atti d'acquisto

successivamente compiuti, dal canto suo, viene effettuata facendo ricorso al

nuovo concetto di «utilità negoziale» («Transaction Utility»), volto a rendere

conto delle percezioni psicologiche del consumatore rispetto ai negozi di

acquisto stipulati a valle della contabilità mentale prima realizzata: il

sentimento, insomma, di «aver fatto un affare».

Tra le varie teorie proposte nel corso degli anni dal professore della

Chicago University – molte e diverse, ma pur sempre riconducibili al campo

di studi della teoria della decisione, come confermano le sue più recenti

proposte in materia di «Choice Architecture» [cfr. Thaler, Sunstein, Baltz 2010,

pp. 1 ss.] – quella della contabilità mentale si distingue per il suo chiarire una

serie d'interessanti anomalie delle condotte, rispetto alla teoria della

razionalità standard, sotto il profilo della predisposizione al rischio. Al

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proposito, rilevano le questioni dell'effetto di dotazione («Endowment

Effect»), dell'avversione al rischio («Loss Aversion») e dell'errore dello status

quo («Status Quo Bias»), alle quali Thaler ha dedicato un importante articolo

insieme ad altri rinomati due ricercatori di economia sperimentale [cfr.

Kahneman, Knetsch, Thaler 1991, pp. 193 ss.].

Nel primo caso, l'anomalia rispetto alla teoria standard della scelta

razionale verte sulla discrepanza che esiste tra la valutazione che viene data

di un bene a seconda che lo si possieda oppure no. Dalle numerose verifiche

sperimentali ormai accumulate risulta infatti che le persone tendano a

valutare maggiormente un bene di cui già sono in possesso, di cui cioè sono

«dotate». Secondo la teoria della dotazione sviluppata originariamente da

Thaler, ciò dipenderebbe da un'incapacità di considerare correttamente sia il

«costo opportunità» - secondo la classica espressione della teoria del

consumatore – del bene posseduto, sia i costi vivi da affrontare per acquistare

un nuovo bene, posto che nel primo caso l'agente percepisce un mancato

guadagno, nel secondo caso una perdita secca.

L'effetto appena segnalato si ricollega a quello che è stato definito

errore dello status quo, ovvero la preferenza psicologica dei soggetti a

rimanere nella condizione in cui si trovano, poiché percepiscono gli svantaggi

dell'abbandonarla maggiori rispetto ai vantaggi della nuova situazione in cui

si troveranno. Sia l'effetto di dotazione che l'errore di status quo, ad ogni

modo, sono spiegabili facendo ricorso a una più generale teoria

dell'avversione al rischio, tenendo cioè conto delle preferenze manifestate in

concreto dai soggetti decisori nel preferire di evitare perdite rispetto

all'acquisire guadagni, in linea con le euristiche e gli effetti di incorniciamento

originariamente rilevati da Tversky e Kahneman.

Alla luce di tali elementi, le conclusioni della ricerca sono nette nel

richiamare l'attenzione sull'opportunità di una profonda revisione della teoria

della scelta razionale. Per ricorrere alle considerazioni degli stessi autori del

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contributo sin qui considerato, «l'importante nozione di un ordine di

preferenze stabili dev'essere abbandonata a favore di un ordine di preferenze

dipendente dal corrente livello di riferimento. Una versione rivista della

teoria delle preferenze dovrebbe assegnare un ruolo di rilievo alla teoria dello

status quo, abbandonando alcune assunzioni standard in tema di stabilità,

simmetria e reversibilità che sono risultate false» [Kahneman, Knetsch, Thaler

1991, p. 205].

Oltre a quanto sin qui rimarcato rispetto ai maggiori contributi

dell'economia comportamentale in tema di teoria dell'avversione al rischio,

resta ancora da citare almeno un apporto significativo, sempre accreditabile a

Thaler, rispetto a un'altra, ricorrente questione irrisolta da parte della teoria

della razionalità standard, quella dei costi affondati («Sunk Costs»). In breve,

secondo il pensiero economico ortodosso i costi relativi a scelte già compiute

e irreversibili, non recuperabili al momento in cui una decisione viene

adottata – per l'appunto i costi affondati – non dovrebbero condizionare in

alcun modo le scelte successive adottate dagli agenti razionali. Tale attitudine,

tuttavia, non è riscontrabile nella pratica, dove, invece, si assiste d'ordinario a

valutazioni che, rispetto a un investimento o un progetto d'impresa, oltre a

costi e benefici marginali considerano pure le risorse già impegnate e non più

recuperabili, secondo una contabilità mentale assai lontana da quelle che

aspettative perfettamente razionali richiederebbero [per una recente

considerazione della questione, con alcune applicazioni pratiche, cfr. Wang,

Yang 2010, pp. 133 ss.].

Vedremo, nel prosieguo del discorso, come la considerazione delle

reazioni soggettive rispetto ai costi affondati sia suscettibile d'interessanti

sviluppi in ambito giuridico [infra, §7.2.2.].

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4.4. Oltre l'economia comportamentale

Nelle pagine precedenti abbiamo tentato di offrire un quadro sintetico del

nuovo pensiero economico emerso nell'ultimo quarto del secolo scorso. In

una prospettiva di storia delle idee, il seguire l'affermarsi delle correnti di

ricerca sperimentale, e, soprattutto, comportamentale, fino al punto attuale di

maggior fortuna, quando cioè tali correnti stanno determinando un

cambiamento di paradigma nel pensiero economico ortodosso, definisce un

percorso intellettuale di grande interesse, ma che qui non risulta

evidentemente perseguibile in dettaglio.

Nel rinviare agli studi dedicati al riguardo [v. per tutti Heukelom 2011,

pp. 1 ss.], vale tuttavia segnalare almeno come, una volta acquisita una

propria indiscussa legittimità sotto il profilo metodologico e contenutistico, la

stessa economia comportamentale abbia visto mutare profondamente molti

dei propri presupposti teorici. Ciò è avvenuto, nello specifico, grazie

all'apporto di nuove conoscenze provenienti da discipline ulteriori rispetto a

quella psicologia sperimentale a suo tempo reintrodotta nel pensiero

economico contemporaneo dalle ricerche di Tversky e Kahneman, e, quindi,

sviluppatasi in maniera sempre più autonoma anche rispetto ai suoi padri

fondatori.

Il pensiero economico maturato nel corso degli ultimi decenni, lo si è

visto, ha preso progressivamente le distanze dalla «metodologia

dell'economia positiva» per adottare piuttosto un'impostazione descrittiva del

comportamento riscontrato in concreto nei soggetti agenti; come già visto

[supra, §4.1.], tale concreto è corrisposto in maniera pressoché esclusiva a

esperimenti controllati.

Pur segnando importanti avanzamenti rispetto alle astrazioni

assiomatizzanti fino a quel momento in voga, la nuova impostazione di

ricerca ha mantenuto nondimeno una continuità di fondo con quella proposta

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a suo tempo da Samuelson nel contesto della teoria delle preferenze rilevate.

L'economia comportamentale di Tversky e Kahneman, infatti, ha sempre

proceduto lungo un cammino a ritroso che, dall'osservazione, giunge a un set

di assunzioni preventive circa la razionalità del decisore (ancorché senza le

rigidità e ingenuità comportamentiste della teoria neoclassica), impiegando

poi i risultati sperimentali per tentare di spiegare le deviazioni dalla

razionalità standard.

Di fatto, come è stato rilevato al proposito, l'ipotesi delle preferenze

rivelate non nega che vi possano essere violazioni anche sistematiche dalla

teoria convenzionale, ma si tratta di violazioni che «dipendono da errori di

giudizio i quali, una volta fornite le opportunità, gli incentivi e i dati di

ritorno del caso, i soggetti decisori possono imparare a correggere». Quel che

più conta, si accetta che teorie con più solide fondamenta di tipo psicologico,

come l'economia comportamentale, possano spiegare le regolarità degli

errori, «ma questo non pone in discussione la validità della teoria della scelta

razionale, perché tale teoria astrae dai fattori causali che le teorie a base

psicologica stanno spiegando» [Bruni, Sugden 2007, p. 164].

Una verifica del percorso di ricerca seguito più di recente dai fondatori

dell'economia comportamentale, e in particolare da Kahneman – Tversky è

prematuramente scomparso a metà degli anni novanta – consente di

comprendere meglio, da un lato, il mantenimento della teoria della scelta

razionale come riferimento di fondo, e, dall'altro, il progressivo ampliarsi

degli orizzonti disciplinari occorso all'economia comportamentale, fino a

raggiungere conclusioni teoriche che, come si vedrà, hanno propriamente

indotto a introdurre nuove definizioni della stessa disciplina, tra cui quella di

«economia cognitiva».

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4.4.1. Architettura della cognizione, ragioni ed emozioni

Quanto ai contributi di Kahneman e dei suoi nuovi collaboratori, essi hanno

trovato una formulazione prestigiosamente sintetica nel discorso tenuto in

occasione del conferimento del premio Nobel nel 2002 (pubblicato, con

qualche modifica, in un successivo articolo), dove il professore della Princeton

University ha sostenuto con vigore un approccio di tipo psicologico

all'interpretazione delle condotte economiche, forte della convinzione che «le

teorie psicologiche sul pensiero intuitivo non possono ottenere l'eleganza e

precisione dei modelli formali normativi di aspettative e scelta, ma questo è

solo un altro modo di dire che i modelli di razionalità sono psicologicamente

irrealistici» [Kahneman 2003, p. 1449].

A tale fine, tra i diversi temi trattati nel testo rileva soprattutto quello

de «l'architettura della cognizione» che sarebbe propria dell'uomo. Secondo

Kahneman, le condotte individuali dipenderebbero da una sorta di sistema

operativo binario, composto da (1) una modalità intuitiva, in cui i giudizi e le

decisioni sono adottate automaticamente e rapidamente, e (2) una modalità

controllata, deliberata e più lenta. Si tratta, in sostanza, di una più raffinata

riproposizione della comune distinzione tra intuizione e ragionamento (a sua

volta reminiscenze, viene da aggiungere, della poetica immagine platonica

del carro dell’animo umano trainato da due cavalli alati di diversa indole):

con il che, viene da aggiungere, sembra confermata per l'ennesima volta la

saggia considerazione secondo cui «la scienza non è altro che comune buon

senso altamente elaborato» [Myrdal 1973, p. 12]. Riguardo l'elaborazione

proposta da Kahneman, essa risulta incentrata sull'attenzione sperimentale a

una serie ben definita di aspetti psicologici, dalla pregiudizialità per l'attività

deliberativa dei meccanismi percettivi – con una peculiare attenzione ai

fenomeni della visione, in continuità con la lezione della psicologia della

«Gestalt» – alla questione dell'accessibilità dei dati rilevanti: un'accessibilità

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condizionata da una pluralità di fattori sia individuali che ambientali, dalla

memoria alla variabile presenza di sollecitazioni informative [cfr. Kahneman

2003, pp. 1450 ss.].

Una simile lettura delle modalità cognitive umane, nell'evidenziarne

limiti e influenzabilità, oltre a rinnovare per l'ennesima volta le intuizioni di

Simon a proposito di euristiche e difetti cognitivi comporta la plateale

reintroduzione nella teoria economica di ciò che ha costituito un vero e

proprio spauracchio per gli economisti interessati alla formalizzazione della

propria disciplina, ovvero l’emotività degli agenti. A scanso di equivoci sul

punto, vale riportare le stesse parole di Kahneman, secondo cui «l’utilità non

può essere separata dall’emozione, e l’emozione è provocata dai

cambiamenti» [Kahneman 2003, p. 1457].

La centralità dell'aspetto emotivo nelle decisioni – su cui torneremo in

seguito [infra, §8.2.] – ricollega direttamente il lavoro di Kahneman a una

linea di ricerca della neuropsicologia ormai ben definita, perlomeno dai primi

anni settanta del Novecento, e incentrata sulle attività cognitivo-decisionali

individuali. In breve, nel fare riferimento alle ricostruzioni generali della

materia ormai disponibili [v. per tutti Camerer, Loewenstein, Prelec 2005, pp.

15 ss.], si rileva come tali attività sarebbero composte da una somma di (1)

processi controllati, cioè attivati dal soggetto in maniera deliberata e cosciente

nei suoi vari passaggi, e (2) processi automatici, ovvero avviati senza

deliberazione e in maniera inaccessibile alla coscienza.

Si tratta di processi che, seppur profondamente diversi, possono essere

operati in parallelo, con commistioni tra razionalità e intuizione

particolarmente complesse, tenuto conto dell'intervento nel processo di

sistemi specializzati, all'interno del cervello, per svolgere determinate

funzioni. Al fine di meglio comprendere e districare tali commistioni, i

neuropsicologi hanno proceduto a un’ulteriore suddivisione, per cui i

processi controllati e automatici possono essere a loro volta ripartiti in (a)

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cognitivi e (b) affettivi. In questo senso, mentre i processi cognitivi possono

ricondursi alla nozione comune di ragione, ai processi affettivi vanno

collegati non solo stati emozionali, come gioia o rabbia, ma anche stati

pulsionali, come ad esempio fame o desiderio sessuale. Ciò, da un lato,

amplia notevolmente le variabili da tenere in conto nella decodifica delle

attività cognitivo-decisionali, dall’altro consente una più approfondita

comprensione della loro complessità.

Sempre in relazione alla rilevanza dei processi affettivi nelle modalità

decisionali degli agenti, numerosi esperimenti clinici effettuati al riguardo

hanno dimostrato come, spesso, le persone reagiscano in termini affettivi a

eventi, esseri animati o inanimati, senza necessariamente essere in grado di

spiegarne la ragione e/o di recuperare un ricordo da cui tali reazioni possano

dipendere. In pratica, è come se il sistema cognitivo ricorresse a «etichette

affettive» («Affective Tags»), le quali si attivano senza sforzo, in maniera

automatica, ogni volta ci si trovi di fronte alle entità cui sono state assegnate.

Una conseguenza di ciò, avente notevole importanza nel contesto

dell'economia comportamentale più recente, è che tali etichette possono

essere manipolate da terzi con una pluralità di accorgimenti e strategie: si

pensi al ricorso, nella pubblicità, a rinforzi psicologici del messaggio (es.

associazioni di immagini particolarmente piacevoli a un prodotto) volti prima

a costituire l'etichetta affettiva, e, poi, ad attivarla ogni qual volta serva a fini

commerciali [cfr. Camerer, Loewenstein, Prelec 2005, p. 26].

Tenuta a mente questa schematica ripartizione tra i diversi processi cui

ricorre (o da cui dipende) un individuo al momento di adottare una

decisione, occorre considerare come, quantomeno nel caso dei processi

automatici, l'introspezione risulti poco efficace nel loro rilevamento. Il

soggetto, che in teoria dovrebbe agire in maniera perfettamente razionale, in

effetti non solo può non comportarsi secondo la razionalità che da lui ci si

attende, ma nemmeno sa perché lo fa: non ne ha coscienza, poiché non

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dispone dei mezzi cognitivi adeguati a comprendere il proprio medesimo

comportamento.

Quando le ricerche e conoscenze sopra riassunte siano prese in

considerazione in una prospettiva metodologica, rileva la loro provenienza da

una branca specifica della psicologia, la neurospicologia, dedicata

specificamente a relazionare processi cognitivi e attività del sistema nervoso

centrale. Ora, questa specializzazione determina uno scarto fondamentale

della base informativa di riferimento rispetto a quella tipica della Behavioral

Economics sviluppata da Tversky e Kahneman, i quali sono rimasti fedeli a

un'impostazione per l'appunto di psicologia comportamentale, dedita alle

sperimentazioni rispetto alle condotte osservabili, ma lontana dall'accedere

alle modalità interne di funzionamento dell'apparato cognitivo-decisionale.

Su questa differenza di fondo, riteniamo, va propriamente misurato il

più recente allargarsi di una distanza ulteriore tra le ricerche della nuova

economia comportamentale e il pensiero economico standard. Si tratta di una

distanza dovuta al sempre più ampio ricorso da parte dei ricercatori ai

risultati neuroscientifici provenienti da quel complesso campo di studi riunito

sotto l'insegna di «scienze cognitive», di cui anche la citata neurospicologia fa

parte. Al riguardo, secondo molti commentatori l'impiego delle migliori

conoscenze, metodologie e strumenti di ricerca provenienti da queste nuove

discipline promette di determinare un'autentica rivoluzione del più generale

complesso delle scienze sociali, economia e diritto in testa, la cui portata è

ancora in gran parte da intendere nella sua ampiezza [cfr. McCubbins, Turner

2010, pp. 1 ss.].

Quanto all'economia, va considerato come si stia rapidamente

consumando una significativa evoluzione dall'economia comportamentale a

una «economia cognitiva», interessata, più che a ripercorrere il già noto

percorso induttivo a ritroso perché l'osservazione delle condotte riveli le

preferenze, ad «analizzare i processi mentali che danno origine alle

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preferenze, e, sulla base di questa analisi, ricostruire come si determinano le

decisioni» [Innocenti 2009, p. 10]. In una prospettiva di storia delle idee, rileva

inoltre l'elemento sintetico di un'ampia gamma di ricerche proprio

dell'economia cognitiva a partire da quel filone «psicologico» del pensiero

economico, che, come già visto, venne relegato ai margini delle ricerche

accademiche dall'avvento del pensiero neoclassico [supra, §3.1.1.]. Tutto ciò

nella prospettiva, evoluzionisticamente orientata, di una rifondazione di tipo

microeconomico «solidamente radicata in un approccio cognitivo all'azione

umana» [Egidi, Rizzello 2003, p. 2].

Rispetto al diritto, gli orizzonti cognitivi si stanno appena delineando,

ma, come si cercherà di dimostrare nel prosieguo [infra, §8.], si mostrano

molto promettenti. Peraltro, è propriamente da un diritto cognitivamente

rifondato – incentrato cioè su una conoscenza robusta del comportamento

umano, e non più prescrittivamente orientato a un «comando e controllo»

sulla base di puri presupposti ideologici – che ci si può attendere un'azione

autenticamente progressista di coordinamento e gestione sociale. Torneremo,

in ogni caso, su tale fondamentale aspetto nelle conclusioni [infra, §9.]

Tenuto conto di tali prospettive, si tenterà ora d'inquadrare una serie

di elementi delle scienze cognitive di maggior utilità per il discorso delle

scienze sociali in generale, e della presente dissertazione in particolare. In

ragione della vastità e complessità della materia, la premessa d'obbligo è che

le pagine seguenti non possono, né intendono, avere pretese di completezza,

ma si propongono solo quale minima introduzione rispetto a un complesso di

nozioni e tecniche operative la cui conoscenza appare ormai imprescindibile

nella cultura contemporanea.

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5. Scienze cognitive: un'introduzione

Sotto la definizione «scienze cognitive» viene ricompreso un insieme

altamente interdisciplinare di ricerche e conoscenze relative alle capacità di

cognizione e annesse modalità operative di un sistema intelligente.

Il riferimento è in primo luogo all'intelligenza dell'essere umano:

un'intelligenza che le scienze cognitive propendono a intendere

funzionalmente, cioè in termini di «procedure mentali operanti su

rappresentazioni mentali al fine di produrre pensiero e azione» [Thagard

2005, p. 5], o, secondo un'altra più sintetica lettura, «come un processore di

informazioni» [Friedenberg, Silverman 2006, p. 3]. In secondo luogo, le

scienze cognitive s'interessano di quella che viene definita «intelligenza

artificiale», ovvero l'abilità di macchine calcolatrici di svolgere funzioni e

ragionamenti propri dell'uomo [cfr. Russell, Norvig 2005, pp. 5 ss.].

Le conoscenze coinvolte in tale impresa provengono da discipline

diverse – psicologia, neuroscienze, linguistica, logica, antropologia, fino

all'informatica e la cibernetica –, ma ruotano intorno a un nucleo piuttosto

compatto di assunzioni concettuali (e filosofiche), definitosi nella prima metà

del Novecento. Punto di partenza e riferimento ineliminabile in proposito è il

lavoro sulla computabilità realizzato negli anni trenta del secolo scorso dal

matematico inglese Alan Turing, lavoro all'origine della «macchina ideale»

che ne porta il nome*.

* Nei suoi minimi termini, la macchina di Turing corrisponde a un modello astratto

di macchina in grado di eseguire i compiti riportati per mezzo di simboli su di un nastro infinito e suddiviso in caselle, letto da un apposito strumento di riconoscimento («Scanner»). Secondo il disegno originario di Turing, i simboli sono

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In breve, Turing intendeva affrontare uno dei problemi fondamentali

della matematica evidenziati da Hilbert, il c.d. problema della decisione, o

«Entscheidungsproblem», decidere cioè la dimostrabilità di qualsiasi

proposizione matematica venisse proposta [cfr. Odifreddi 2000, p. 145]. L'idea

alla base della macchina ideale proposta a tale fine, tuttavia, è risultata

suscettibile di applicazioni universali, perché funzionante per tutti i processi

espressi in forma di algoritmo, ovvero con una serie finita di istruzioni

appropriate. Di fatto, le macchine di Turing costituiscono il fulcro della

moderna teoria della computabilità, alla base sia dell'ingegneria informatica

che delle ricerche relative all'intelligenza artificiale.

A conferma della straordinaria interdisciplinarietà tipica delle scienze

cognitive, proprio le ricerche da ultimo citate si sono combinate in maniera

profonda agli studi dell'intelligenza umana: gli sviluppi in materia di studio

operazionale del sistema cognitivo, e, da ultimo, nel campo delle

neuroscienze, rappresentano un caso tipico di tale convergenza cognitiva

[infra, §5.1.2.]. Ora, l'elaborazione di teorie sulla mente – senza dubbio una

delle più avvincenti imprese intellettuali a cui da sempre si sia dedicato

l'uomo – ha tradizionalmente incontrato le sue principali difficoltà

nell'impossibilità di studiare gli apparati e processi cognitivi dal vivo [cfr.

Friedenberg, Silverman 2006, p. 1]. Sono stati tali limiti ad aver indotto le

scienze sociali a concentrare per lungo tempo l'attenzione sugli effetti

osservabili, ovvero i comportamenti, più che sulle loro cause, risolutamente

nascoste dietro il velo della mente.

soltanto due – uno spazio vuoto, una barra trasversale – e quattro le operazioni fondamentali: «muovere a destra», «muovere a sinistra», «cancellare la barra», «aggiungere la barra». La potenza concettuale di una simile macchina s'incentra sulla caratteristica che la scrittura delle informazioni atte a definirla costituisce «una tavola di comportamento di dimensioni finite», con una sostanziale corrispondenza, perlomeno da un punto di vista astratto, tra questa e la macchina stessa [cfr. Hodges 2006, p. 135].

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Nel contrapporsi all’impostazione comportamentista – incentrata,

come già anticipato [supra, §2.4.], su una negazione di fondo dell'esistenza o

quantomeno rilevanza di stati della mente rispetto alle condotte osservabili – i

nuovi studi del comportamento umano, in linea con la direttrice cognitivista

affermatasi nella psicologia a partire dagli anni sessanta, si sono così orientati

verso una considerazione delle attività mentali di tipo operazionale [previa,

peraltro, un opportuno stemperamento delle rigidità tipiche delle posizioni

espresse dal primo cognitivismo: cfr. Neisser 1981]. Il cambiamento è

avvenuto sulla base delle nuove conoscenze in corso di elaborazione da parte

di pionieri dell'intelligenza artificiale come Turing o Herbert Simon (qui

accreditato soprattutto per i suoi contributi in tema di «Problem Solving»). La

soluzione generalmente condivisa dagli studiosi è stata, insomma, d'intendere

gli stati mentali come stati funzionali, individuandoli in base al loro «ruolo

causale nell'economia complessiva della vita mentale di un agente», fino ad

assimilarli, per l'appunto, agli stati di una macchina di Turing [Paternoster

2010, p. 45].

Nel ragionare in termini di proprietà dell'attività mentale, una simile

lettura consente di procedere (non a prescrizioni assiomatiche di partenza,

come nel caso della teoria delle aspettative razionali elaborata dal pensiero

economico neoclassico, bensì) a descrizioni formali delle procedure che

vengono seguite nella realizzazione di una determinata condotta. Procedure,

si noti, scomponibili in passi elementari e che, nella loro versione più diffusa,

operano su rappresentazioni mentali regolate da una determinata sintassi

cognitiva. Dal richiamo appena effettuato alla sintassi si comprende anche la

rilevanza degli apporti forniti dalla linguistica alle scienze cognitive, in

particolare per quanto riguarda le connessioni che sono state perseguite tra

intelligenza umana e artificiale sotto il profilo delle rispettive capacità

operative in maniera iterativa [v. Russell, Norvig 2005, p. 24]. Al riguardo,

centrale è risultato il ruolo giocato dalla linguistica generativa, elaborata da

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Noam Chomsky e focalizzata sullo studio e l'individuazione delle regole

capaci di generare in forma ricorsiva espressioni ben formate, regole

componenti quella che è stata suggestivamente definita una «grammatica

universale».

Le ricerche di linguistica generativa, tra l’altro, hanno pure svolto

un'importante funzione di rafforzamento, nel contesto delle scienze cognitive,

di un'impostazione teorica volta a rintracciare, e, quindi, sostenere, l'esistenza

di predisposizioni cognitive comuni alla specie umana, così come emerse nel

corso dell'evoluzione. In effetti, quando sulla base di studi dedicati allo

sviluppo delle capacità linguistiche nei bambini viene sostenuto che non si

tratta d'intendere il linguaggio in termini di apprendimento, bensì di

generazione e crescita, la discussione in materia s’accende di un lume

tipicamente evoluzionistico, sotto il quale le proprietà dell'attività mentale

risultano connotate in senso universale [cfr. Pinker 2002, pp. 35 ss.].

Torneremo, nel seguito del discorso, sulla questione di tali capacità e

predisposizioni [infra, §8.4.1.].

Ora, nel caso il lettore stia sentendo montare dentro di sé qualche

perplessità a proposito dell'apparente eccentricità delle nozioni sin qui

esposte rispetto all'argomento della dissertazione, riteniamo opportuno

richiamare l'attenzione sul fatto che stati, rappresentazioni e capacità mentali

siano precisamente tra le principali e più risalenti preoccupazioni sia del

pensiero economico che di quello giuridico, in una prospettiva tanto teorica

quanto pratica; con specifico riferimento al diritto, basta pensare al rovello

teorico tipico delle dottrine penalistica e civilistica nel definire la nozione di

responsabilità del soggetto, così come all'importanza pratica degli

accertamenti giudiziali delle capacità d'intendere e volere [infra, §8.3.2.]. Sulla

questione, del resto, si ritiene conclusivo richiamare una recente osservazione

d'icastica semplicità, secondo la quale «come gli esseri umani interagiscano è

il nucleo della ricerca nelle scienze sociali, e l'interazione, a sua volta, si basa

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sulla natura della mente umana, sicché pare naturale che chi cerchi il modo di

migliorare le scienze sociali si rivolga alla scienze cognitive – le scienze della

mente umana» [McCubbins, Turner 2010, p. 1].

A conferma di quanto appena condiviso, le ricerche più avanzate

dell'economia comportamentale hanno in effetti preso da qualche tempo a

ricorrere alle scienze cognitive per cercare di raffinare la considerazione delle

modalità deliberative interne dell'agente razionale. Prima di dedicarsi alla

verifica di tali studi, però, occorre considerare l'evoluzione maturata nelle

scienze cognitive a seguito degli apporti provenienti da alcune delle

discipline interessate a tentare una connessione più profonda tra modelli

formali di funzionamento dell'intelligenza e teorie della mente, sulla base di

una ripresa dell'idea di macchina elaborata da Turing. Il riferimento è alle

neuroscienze e alla loro più recente specializzazione cognitiva.

5.1. Mente, cervello e neuroscienze cognitive

Si è detto, in precedenza, della perdurante impresa umana di costruire teorie

della mente. Non è certo nostra intenzione ripercorrerne qui la storia

plurimillenaria, tuttavia occorre perlomeno ricordare quanta intelligenza sia

stata consumata sino ai giorni nostri a proposito del dualismo mente-corpo, e,

insieme, rimarcare il sostanziale scarto avvenuto rispetto a tale controversia

con la progressiva affermazione delle neuroscienze, nei termini qui di seguito

riassunti.

In breve, per «neuroscienze» s’intende un complesso di studi e

conoscenze relative al sistema nervoso. Ripartite in un ampio numero di

specializzazioni, le principali ricerche attengono più propriamente a struttura,

funzione, sviluppo, genetica, immunologia, biochimica, fisiologia, patologia e

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farmacologia del sistema nervoso. In una prospettiva d'incrocio

interdisciplinare, tale esteso spettro di ricerca è stato riunito sotto la

definizione di neuroscienze in tempi recenti, corrispondenti ai primi anni

settanta del Novecento [cfr. Bear, Connors, Paradiso 2007, p. 4].

Le «neuroscienze cognitive», dal canto loro, spostano il fuoco della

ricerca sui processi cognitivi, poggiando a tal fine sul complesso di

conoscenze neuroscientifiche accumulate sotto il profilo chimico-fisico per

avanzare nella conoscenza delle basi biologiche di espressioni mentali e

comportamentali degli esseri viventi: in primo luogo l’uomo, ma pure, più in

generale, gli animali (spesso anche in ragione di opportunità di ricerca, a valle

cioè delle sperimentazioni che li vedono coinvolti). In questo senso, si può

dire che le neuroscienze in generale, e quelle cognitive entro il loro più

specifico ambito di competenza, corrispondono a una sorta di «biologia della

coscienza e della conoscenza», dove il sistema nervoso viene studiato in vista

di correlare attività cognitive a evidenze fisiologiche [v. Paternoster 2010, pp.

5 ss.].

Si tratta di un approccio che nel corso degli ultimi tre decenni ha

ottenuto risultati straordinari nell'avanzamento delle conoscenze relative al

funzionamento del sistema nervoso, e, insieme, comportato la sostituzione

dell'annosa querela cartesiana del rapporto mente-materia con una diversa,

quella del rapporto mente-cervello*. Questione altrettanto delicata, ma, forse,

* Un chiarimento terminologico preliminare risulta al proposito opportuno.

L'espressione «cervello», infatti, nell'uso comune viene impropriamente usata per riferirsi al sistema nervoso centrale nel suo complesso, più correttamente individuato nella somma di «encefalo» e midollo spinale. Il termine «cervello», nella letteratura scientifica, individua in effetti una porzione soltanto dell'encefalo (in particolare il telencefalo e il diencefalo), ancorché quella deputata alle funzioni più complesse di tutto il sistema nervoso. La questione terminologica si complica ulteriormente, peraltro, in testi tradotti dall’inglese, dove il termine «Brain», corrispondente di «encefalo», viene spesso reso con «cervello», più correttamente corrispondente invece a «Forebrain» o «Cerebrum». Nel prosieguo della trattazione si cercherà di rispettare le distinzioni appena esposte.

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con migliori prospettive di soluzione, a partire dall'inversione del proverbiale

«cogito ergo sum» realizzata in base alla considerazione – a metà tra il

neurofisiologico e l'esistenzialista – secondo cui «noi siamo, e quindi

pensiamo; e pensiamo solo nella misura in cui siamo, dal momento che il

pensare è causato dalle strutture e dalle attività dell'essere» [così Damasio

1995, p. 337].

Con riferimento al sistema nervoso, i primi studi condotti con metodo

medico-scientifico risalgono al XVII secolo, mentre è nella seconda metà

dell'Ottocento che, attraverso ricerche di fisiologia sperimentale, avvengono

le scoperte fondative del disegno attualmente accettato del sistema nervoso

centrale [v. Bear, Connors, Paradiso 2007, pp. 6 ss.]. Le nuove conoscenze al

riguardo si sono concentrate in primo luogo sulla composizione cellulare

dell'encefalo attraverso la definizione della cellula fondamentale del tessuto

nervoso, il neurone, nonché delle modalità di connessione tra neuroni diversi

per mezzo di sinapsi. Sono, queste, delle giunture altamente specializzate, le

quali permettono la trasmissione degli impulsi nervosi sulla base di una

complessa serie di reazioni chimico-elettriche. Dalle modalità di circolazione

degli impulsi, e, soprattutto, dalla loro organizzazione funzionale, dipende la

costruzione di reti neurali, ovvero gruppi di neuroni che svolgono una

determinata funzione fisiologica.

Il tema delle reti neurali ci porta a passare, nei termini minimamente

introduttivi qui impiegati, dalla fisiologia all'anatomia del sistema nervoso.

Praticamente di pari passo con la conoscenza cellulare di questo, infatti,

hanno proceduto le scoperte relative alla sua anatomia generale, a partire

dalla ripartizione anatomica del cervello – più precisamente del telencefalo –

in due emisferi e sei lobi, seguite dall'individuazione di strati evolutivamente

diversi del sistema nervoso. Da tale stratificazione emerge, tra l'altro,

l'esistenza di componenti «più antiche» dell'encefalo, quali l'ippocampo e

l'amigdala, alle quali si è sovrapposta nel corso dell'evoluzione la corteccia

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cerebrale. Quest'ultima corrisponde alla parte superficiale del cervello, e, nel

costituire la componente di più recente formazione filogenetica, è anche

quella che maggiormente differenza il cervello dell'uomo rispetto a quello del

resto dei mammiferi.

Nella corteccia si concentrano i neuroni e relative reti, e, di

conseguenza, le funzioni cognitive superiori quali la memoria, l'attenzione

visiva, le capacità linguistiche. Dal canto loro, le pulsioni e sensazioni più

direttamente legate a istinti primari, quali quello di sopravvivenza o

riproduzione, sono riconducibili alle parti più antiche del sistema nervoso, tra

cui le già richiamate amigdala e ippocampo [cfr. Bear Connors, Paradiso, pp.

195 ss.]. Da tali componenti dipendono principalmente le emozioni e quelle

selezioni di risposta delle quali, come già visto [supra, §4.4.1.], gli organismi

possono non avere coscienza, pur operando a tal fine in maniera altamente

coordinata con le componenti cerebrali deputate alle funzioni cognitive

superiori localizzate nella corteccia cerebrale [cfr. Damasio 1995, pp. 188 ss.].

Le nuove conoscenze fisiologiche e anatomiche hanno consentito ai

ricercatori di definire sempre meglio le modalità organizzative e operative del

cervello, con risultati di grande significato quanto a correlazione tra aree

cerebrali e attività funzionali. Sin dalla seconda metà dell'Ottocento, infatti,

sono stati progressivamente individuati centri cognitivi deputati a specifiche

funzioni, come il linguaggio, la memoria, l'apprendimento, il controllo

motorio di parti del corpo o di sensazioni come piacere o dolore.

A causa dei limiti delle tecnologie a disposizione, gli studi hanno

mantenuto per lungo tempo un’impostazione sottrattiva, è a dire basata sulla

considerazione delle lesioni (anche indotte, con il ricorso al c.d. «metodo

ablativo sperimentale») di aree specifiche dell’encefalo, dal cui mancato o

minor funzionamento venivano inferite le competenze operative delle stesse;

l'avvio degli studi in materia, del resto, viene tradizionalmente ricondotto a

un celeberrimo caso di lesione cerebrale occorsa nel 1848 a un soggetto, tale

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Phineas Gage, il quale, sopravvissuto a un incidente di lavoro che aveva

determinato la violenta mutilazione di alcune parti della corteccia cerebrale,

nel seguito della sua vita avrebbe dimostrato significative peculiarità

comportamentali [per una ricostruzione aggiornata e critica del caso,

nell'ampia letteratura a disposizione, v. Macmillan 2008, pp. 828 ss.].

Nonostante le evidenti limitazioni operative proprie di un tale modo

di procedere, gli studiosi sono riusciti a determinare rapidamente

l'organizzazione delle diverse attività cerebrali. Già a inizio Novecento, in

effetti, risultavano distinte e numerate cinquanta zone diverse, sulla base

delle peculiari caratteristiche funzionali di ciascuna, denominate «aree di

Brodmann» dal nome del neurologo tedesco che per primo ne propose la

ripartizione [cfr. Berti, Bottini, Neppi-Mòdona 2007, pp. 27 ss.].

5.1.1. Mappe cerebrali e correlazioni funzionali

Come si vedrà, la disponibilità di una mappatura delle aree corticali, e, più in

generale, cerebrali, in base alle rispettive caratteristiche funzionali, gioca un

ruolo importante nelle ricerche condotte dall'economia cognitiva, oltre ad

avere significative prospettive di applicazione anche per quelle del diritto

cognitivo [infra, §8.3.2.]. Al fine di comprendere meglio lo stato attuale di tali

studi, e individuare loro plausibili indirizzi nel prossimo futuro, è opportuno

considerare pur brevemente come, secondo quanto già anticipato, le

neuroscienze abbiano acquisito un'accezione cognitiva attraverso l'incrocio

con le conoscenze provenienti da altre discipline, combinandosi in particolare

con l'idea della macchina di Turing.

Ciò è avvenuto a seguito di ricerche, effettuate intorno agli anni

quaranta del secolo scorso, incentrate sull’approfondimento

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dell'organizzazione funzionale delle attività cerebrali nel tentativo di

giungere a una loro resa a mezzo di modelli matematici. In questo senso, le

reti neurali – cioè le reti di cellule lungo le quali corrono i segnali

elettrofisiologici del sistema nervoso – possono anche essere interpretate nei

termini di una macchina di Turing, operante sulla base di unità binarie

secondo un segnale «acceso/spento» [cfr. Innocenti 2009, p. 39]: un altro

modo, insomma, per dire «spazio vuoto/barra trasversale», che ha aperto a

un'interpretazione funzionale-connessionista delle attività cognitive

estremamente feconda, a partire dalle possibilità d'interpretare il

funzionamento del sistema nervoso (ed elaborare i dati così ricavati) secondo

schemi condivisi con la scienza dell'informazione.

L'adozione di modelli operativi del sistema nervoso incentrati su

processi combinatori di unità elementari interconnesse, dove le informazioni

sono codificate in forma di segnali elettrici, rappresenta in effetti in maniera

eclatante la convergenza di ricerche e conoscenze tra intelligenza umana e

artificiale di cui si diceva in precedenza. Nel più specifico ambito giuridico,

vale segnalare come tale impostazione sia propriamente alla base di alcune

ricerche attualmente in corso in tema di giuscibernetica e informatica

giuridica, volte a verificare la replicabilità del ragionamento giuridico a

mezzo di elaboratori appositamente programmati [cfr. Romeo 2006, pp. 234

ss.]. Ricerche, viene qui da aggiungere, di cui sarà senz'altro interessante

verificare in futuro le possibili convergenze con le scienze sociali generative di

cui già si è fatta menzione in precedenza [supra, §2.5.].

Nel seguire la direzione così segnata sotto il profilo teorico-

modellistico e, insieme, grazie alla crescente disponibilità di conoscenze

relative al funzionamento del sistema nervoso ottenuta a mezzo delle

innovazioni tecniche di cui si dirà tra breve, i neuroscienziati cognitivi sono

pervenuti a conclusioni significative circa l'organizzazione variabile delle

diverse attività cognitive. Ciò è avvenuto sulla base di una considerazione del

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sistema nervoso in termini di «macchina dinamica», prospettando cioè

l'esistenza di reti neuronali che non solo si ripartiscono i compiti, ma,

all'occorrenza, possono scambiarseli mutando la propria struttura in base a

nuovi bisogni, e, soprattutto, nuove informazioni. Importante, in tal senso, è

stata la scoperta di una duratura plasticità del cervello, ovvero la capacità

dello stesso di modificarsi rispetto a stimoli esterni: capacità che, pur con

efficacia diversa, si mantiene nel corso dell'esistenza dell'uomo [v. Maffei

2011, pp. 73 ss.].

La teoria neuroscientifica ha pertanto sempre più diluito

l'impostazione rigida della localizzazione delle diverse funzioni neuronali e

conseguenti processi cognitivi in specifiche aree, per adottare una visione di

tipo sistemico, volta a considerare il cervello come uno strumento di

elaborazione e ricategorizzazione di stimoli diversi, sulla base di relazioni

complesse tra strutture cerebrali diverse. In linea con quanto già visto a

proposito di modalità intuitive e controllate [supra, §4.4.1.], i processi

cognitivi «si svolgono in più aree cerebrali con una dinamica specifica che si

caratterizza per attivazioni e inibizioni neuronali. La logica conseguenza di

questa osservazione è che per avere un riscontro coerente dei correlati

neuronali dei processi cognitivi sia necessaria una tecnica che permetta di

studiare l’intero cervello mentre lavora» [Berti, Bottini, Neppi-Mòdona 2007,

p. 57].

Alla luce di tale nuova impostazione, le aree di Brodmann sopra

richiamate sono da intendersi non (più) come elementi topografici rigidi,

bensì componenti di una mappa dinamica, in gran parte ancora da disegnare,

nella prospettiva di comprendere «dall'interno» anche quei processi cognitivi

diversi (emozionali, razionali) che la psicologia sperimentale è giunta a

individuare «dall'esterno». Si tratta di una precisazione, questa, che andrà

tenuta ben presente quando si tratterà delle sperimentazioni da ultimo in

corso nell'ambito della c.d. neuroeconomia e delle applicazioni forensi di

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alcune tecnologie mutuate dalle neuroscienze cognitive, per evitare nella

maniera più netta possibili derive «frenologiche» al riguardo [infra, §§6.1. e

8.3.2.].

Da ultimo, la mappatura dinamica del sistema nervoso centrale e i

conseguenti avanzamenti in materia di correlazioni tra attività cognitive ed

aree cerebrali hanno ottenuto grande stimolo dalla disponibilità di una serie

di nuovi dispositivi tecnologici deputati alla visualizzazione e

rappresentazione delle attività cerebrali, che passiamo qui di seguito

brevemente in rassegna.

5.1.2. Tecniche di Imaging biomedico

I dispositivi impiegati nelle ricerche neuroscientifiche, cui solitamente ci si

riferisce con il termine di «Imaging biomedico», si possono distinguere sulla

base di alcune tecnologie principali, tutte comunque volte a tracciare le

attività cerebrali nella prospettiva di uno «studio oggettivo delle funzioni

mentali» [Maffei 2011, p. 29]. In sostanza, queste tecniche consentono

d'individuare e monitorare le aree del sistema neurale che si attivano –

singolarmente, ovvero in composizioni più o meno complesse – durante lo

svolgimento di determinate attività [cfr. Jones et al. 2009, p. 4].

La prima, e più risalente, tecnologia impiegata a tali fini corrisponde

alla elettroencefalografia («Electroencephalography», o, secondo la più

comune abbreviazione, «EEG»), basata sulla misurazione elettrica delle

attività neuronali rispetto a specifici eventi di stimolo, a mezzo di elettrodi

applicati al cuoio capelluto del soggetto osservato. Di tale tecnica esistono

numerose varianti, alcune delle quali, come si vedrà, hanno da ultimo trovato

significative – e controverse – applicazioni anche in ambito forense [infra,

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§8.3.2.]. La qualità di tale tecnologia in velocità di registrazione delle reazioni

– nell’ordine di poche decine di millisecondi rispetto a quelli effettivamente

impiegati dalle trasmissioni sinaptiche neuronali, mai superiori a cento –

viene però persa in termini risoluzione e profondità spaziale rispetto alla

massa cerebrale. Per ovviare a tali limiti sono state sviluppate due più nuove

tecnologie, la tomografia a emissione di positroni («Positron Emission

Tomography», o «PET») e la risonanza magnetica funzionale («Functional

Magnetic Resonance Imaging», o «fMRI»).

La PET consente di visualizzare il flusso ematico nell’encefalo, e, con

ciò, di stimare quali siano le aree cerebrali da ritenere più rilevanti per lo

svolgimento di determinate attività. In sostanza, tale tecnologia si basa

sull’assunzione che un aumento di attività neuronale comporti un maggior

dispendio di ossigeno nelle aree interessate, le quali richiedono pertanto una

corrispondente maggior irrorazione sanguigna e diventano visivamente

distinguibili. I dispositivi PET, dunque, localizzano ed evidenziano specifiche

attività segnalate dall’aumento di tale flusso, distinguendo di conseguenza tra

le aree «mute» e quelle attive del sistema cerebrale rispetto a un determinato

stimolo (es. la richiesta al soggetto testato di svolgere una determinata

attività, oppure «pensare» qualcosa). Dal canto suo, la fMRI traccia il flusso

ematico nel sistema cerebrale secondo le proprietà magnetiche registrabili

nell’ossigenazione del sangue. Le anzidette limitazioni operative della EEG

sono qui rovesciate, poiché, nel caso di PET e fMRI, a un'eccellente capacità di

localizzazione degli incrementi di attività neuronali corrisponde un’abilità

temporale ancora insoddisfacente, nell’ordine – allo stato attuale della

tecnologia di riferimento – di alcuni secondi.

Con specifico riferimento alla fMRI, tenuto conto della centralità che

ha ormai assunto sia nelle sperimentazioni dell'economia cognitiva, sia, da

ultimo, a fini probatori in ambito forense, merita provvedere qualche

informazione supplementare. Tale tecnica, in effetti, offre immagini

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«funzionali», e non anatomiche, del sistema cerebrale: ciò significa che tali

immagini non sono l'esito di una fotografia, bensì vengono costituite in

maniera statistica. In sostanza, da una pluralità di registrazioni effettuate in

successione viene realizzata una sintesi visiva facendo ricorso a particolari

elementi di volume («Voxel») rappresentanti valori d'intensità di segnale o di

colore in uno spazio tridimensionale.

La colorazione degli Scanning cerebrali ottenuti con fMRI, dunque, è

convenzionale, e dipende da una scelta dell'operatore. Secondo quanto è già

stato meglio chiarito da altri, «la fMRI non registra colori nel cervello. Le

immagini fMRI impiegano colori (…) per rappresentare i risultati di un test

statistico», pur esistendo particolari convenzioni secondo cui la maggior

luminosità del colore indica un'attività cerebrale particolarmente intensa. La

conclusione è che «nessuna immagine cerebrale fMRI ha un significato

automatico e autoevidente», richiedendo sempre un'opportuna, e informata,

attività interpretativa al riguardo [Jones et al. 2009, pp. 9-10].

In ambito giuridico, come si vedrà, sono già state formulate legittime

preoccupazioni circa la necessità d'impiegare in maniera trasparente le

immagini derivanti da Scanning cerebrale. Torneremo sull'argomento [infra,

§8.3.1.]. Più in generale, piuttosto ricorrenti risultano le obiezioni alle ricerche

neurocognitive incentrate sui rischi di eccessiva semplificazione – ai limiti,

viene paventato, di un pericoloso neo-scientismo dai toni lombrosiani – che il

ricorso disinvolto alle tecniche sopra citate comporterebbe [in proposito v. per

tutti Legrenzi, Umiltà 2009, pp. 30 ss.]. Nel concordare con tali obiezioni per

la parte in cui invitano a un impiego rigoroso degli strumenti messi a

disposizione dalla tecnica, non si può nondimeno tacere come, spesso, le

critiche siano eccessivamente severe rispetto ai limiti operativi esistenti

nell'impiego dei dispositivi citati.

Al riguardo, infatti, va tenuto conto dello sviluppo in corso di nuovi,

promettenti dispositivi e relative tecniche: è il caso della stimolazione

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magnetica transcraniale («Transcranial Magnetic Stimulation», «TMS»), che,

nell’applicare campi magnetici pulsati e mirati a determinate aree cerebrali,

ne inibisce temporaneamente le attività, consentendo così modalità di ricerca

ablative non più invasive. Altra innovativa tecnica di Imaging è quella di

diffusione tensoriale («Diffusion Tensor Imaging», o «DTI»), basata sulla

visualizzazione dei flussi d’acqua attraverso gli assoni neurali mielinizzati del

sistema nervoso centrale, dalla quale si ottengono proiezioni di attività

neurali esistenti tra una regione all’altra dell’encefalo.

Sempre in tema di sviluppi tecnologici vanno poi ricordate le più

recenti ricerche di «optogenetica», per molti versi la nuova frontiera delle

tecniche di Imaging. Tale innovativa tecnica, al momento non ancora testata

sull'uomo, prevede l'inserimento di traccianti ottici mirati all'interno della

massa cerebrale e il successivo innesco del loro potenziale d'azione, ciò che

consente di tracciare le attività di singoli neuroni all'interno di circuiti neurali

perfettamente intatti. I tempi di rilevamento, nell'ordine di millisecondi,

inoltre, sono finalmente idonei a comprendere le modalità di elaborazione e

trasformazione delle informazioni tra neuroni in tempo reale [su tale ultima

tecnica v. Zhang et al. 2010, pp. 439 ss.].

Tanto considerato rispetto ai nuovi dispositivi in corso di definizione,

va pure ricordato che i ricercatori ricorrono da tempo a numerose e ingegnose

combinazioni delle diverse tecniche di neuroimmagine già esistenti,

ottenendo così uno spettro informativo sempre più ampio e composito in

relazione alle attività cognitive oggetto di studio. Soprattutto, si ritiene, le

critiche sopra richiamate non tengono conto dell’ordinario e diffuso impiego

di una serie assai maggiore di metodi sperimentali e strumenti di ricerca

rispetto al solo Imaging biomedico. Al proposito, si possono ricordare lo

«Eye-Tracking», che dal tracciamento dei movimenti dell’occhio rispetto a un

dato stimolo visivo inferisce le operazioni cognitive sottostanti, o, ancora, le

registrazioni di un'ampia serie di reazioni fisiologiche (dilatazione della

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pupilla, sudorazione palmare, conduttanza epidermica, risposte ormonali),

tutte volte a rilevare le reazioni involontarie dei soggetti sottoposti a

osservazione.

5.2. Evoluzione e programmazione cognitiva

Al termine della rassegna di alcune delle più aggiornate strumentazioni

impiegate dalle scienze cognitive, e, nello specifico, dalle neuroscienze, resta

da rilevare un tratto teorico finora per così dire presupposto, ma meritevole di

essere qui esplicitato per la sua rilevanza rispetto ad alcune, innovative

ricerche in corso in ambito economico e giuridico: il riferimento è alla base

evoluzionistica delle scienze cognitive, così come emerge più nello specifico

dagli studi di biologia comportamentale, a loro volta solitamente distinti nelle

discipline della biologia e psicologia evoluzionistiche.

In breve, e fatta salva l'impostazione funzionalista sopra richiamata, il

disegno del sistema nervoso adottato dalle scienze cognitive tiene conto della

coesistenza di componenti biologiche definitesi in tempi diversi, secondo un

processo evolutivo che ha interessato la specie umana nel suo complesso. Un

processo, merita ricordare, di straordinaria complessità e durata, anche solo

tenuto conto delle esorbitanti dimensioni temporali evidenziate da stime

recenti, le quali indicano l'orizzonte evolutivo dell'essere umano nei termini

di 250.000 generazioni susseguitesi lungo un periodo di 5 milioni di anni [cfr.

Robinson, Kurzban, Jones 2007, p. 1643].

In dichiarato contrasto con l'impostazione comportamentista radicale,

sulla base di osservazioni relative al fatto che gli animali appartenenti a specie

diverse – tra cui l'uomo – presentano una serie di predisposizioni

comportamentali, e, al tempo stesso, sono più inclini ad apprendere alcuni

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comportamenti piuttosto di altri, varie ricerche di marca evoluzionistica si

sono dedicare allo studio di «funzioni cognitive» che si sarebbero sviluppate e

stabilizzate come un prodotto dell'evoluzione [cfr. Jones, Goldsmith 2005, pp.

51 ss.].

Distanti tanto dalle rigidità culturali del comportamentismo radicale,

quanto dal determinismo che pure ha caratterizzato una parte del pensiero

evoluzionistico nel corso del Novecento, queste ricerche hanno inteso aprire il

processo evolutivo a interazioni di vario tipo, introducendo l'importante

principio secondo cui il comportamento umano va inteso come un fenomeno

complesso di combinazione tra elementi culturali e biologici. In questo senso,

«tutto il comportamento umano riflette l’intersezione di geni, ambiente, storia

dello sviluppo, e dei processi evoluzionistici che hanno plasmato il cervello a

funzionare nel modo in cui funziona. Ciò significa che l’organismo umano

non è determinato né geneticamente né dall’ambiente, quanto, piuttosto, che

possiede potenziali multipli che emergono attraverso le successive interazioni

di geni ed ambienti» [Jones, Goldsmith 2005, p. 55]

Si tratta di un'impostazione che è stata rapidamente fatta propria dalle

scienze cognitive, le quali, lontane dal riduzionismo genetico che viene spesso

loro attribuito con una certa superficialità, «in realtà non negano affatto

l'importanza dei fattori culturali, educativi ed ambientali che sono all'opera

nel modellare e rendere unica la storia individuale di ciascuno», limitandosi

semplicemente a rilevare che «il ruolo dei fattori epigenetici è comunque

vincolato dalla struttura biologica con cui interagisce» [Bianchi 2010, p. 297].

La relazione-interazione appena presentata, lo si sarà già inteso, rappresenta

una significativa revisione della nota contrapposizione «natura-cultura»

(«Nature-Nurture» nel lessico anglosassone). Al proposito, rileviamo almeno

di passaggio come dalle più recenti ricerche nel campo della biologia

molecolare – in particolare quelle relative alla plasticità fenotipica – stiano

giungendo elementi estremamente importanti per ridefinire in termini

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d'interazione causale la trasmissione intergenerazionale dei tratti propri di un

organismo, e, così, sciogliere definitivamente la citata contrapposizione [cfr.

Fox Keller 2010, pp. 77 ss.].

Nel tenere a mente le considerazioni sinora svolte, passiamo qui di

seguito in ricognizione alcune nozioni, sviluppate da biologia e psicologia

evoluzionistiche, le quali torneranno utili nelle parti in cui ci dedicheremo a

questioni più propriamente appartenenti agli ambiti economico e giuridico

[infra, §§ 6.2. e 8.4.1.]. I nuovi studi d'impostazione evoluzionistica

sostengono, dunque, che il sistema nervoso disponga di programmi cognitivi

emersi nel corso dell'evoluzione della specie. Più nello specifico, lungi dal

nascere come una tabula rasa predisposta alla scrittura di educazione e

cultura, l'uomo presenterebbe una dotazione cognitiva di base; questa verrà

attivata, e aggiornata, in via esperienziale, dunque presenterà variazioni nel

suo funzionamento a seconda degli individui, ma pur sempre mantenendo

una serie di tratti e cognizioni comuni all'intera specie. Un simile sistema

cognitivo si sarebbe formato in risposta a determinati stimoli e bisogni: più

nello specifico, molte attività e modalità di ragionamento sarebbero da

ritenersi specificamente programmate nel perseguimento di obiettivi di

«Fitness». Riguardo tale termine, oggetto di frequenti e appassionate

discussioni tra i biologi [cfr. Ariev, Lewontin 2004, pp. 347 ss.], ai fini della

presente discussione è sufficiente dire che con esso viene individuata una

«idoneità biologica» consistente nella capacità di contribuire alle generazioni

future attraverso strategie di sopravvivenza e riproduzione.

Le strategie di sopravvivenza, peraltro, non andrebbero

esclusivamente intese come connotate egoisticamente, posto che anche le

condotte cooperative possono risultare assai efficienti in termini di

raggiungimento di obiettivi di Fitness. Di fatto, gli antropologi hanno da

tempo coniato la definizione di «ultrasocialità» proprio per indicare la

straordinaria pluralità di modalità e fattispecie in cui gli esseri umani

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interagiscono tra loro [cfr. Robinson, Kurzban, Jones 2007, p. 1646]. Al

proposito, rivestono distintiva importanza i casi di «altruismo reciproco»,

evidenziati come ricorrenti in una pluralità di specie animali – e per questo

spesso indicati, nella terminologia anglosassone, con il termine «Grooming»,

che richiama le cure fisiche prestate da un primate a un altro primate – come

una strategia di sopravvivenza di lungo periodo. Tale strategia è ben

riconoscibile anche nei comportamenti umani, dove, tra l'altro, non risulta

necessariamente connessa alla presenza di strette relazioni genetiche, es.

relazioni familiari [per un inquadramento aggiornato del tema dell'altruismo

in biologia cfr. Fletcher, Doebeli 2009, pp. 13 ss.].

L'idea di base dell'altruismo reciproco, è già stato acutamente

osservato, si mostra «connessa con la strategia della reciprocità della teoria

dei giochi, in base alla quale le parti iniziano con scambi cooperativi, e poi

agiscono comportandosi con gli altri come gli altri si sono comportati nei loro

confronti. Una predisposizione verso comportamenti cooperativi, in modo

selettivo verso gli altri, usualmente genera un miglior successo riproduttivo

rispetto al permanente egoismo. Quando l’altruismo reciproco diviene

condizione sociale comporta una corsa agli armamenti evoluzionistici, tra

l’inganno e la scoperta dell’inganno» [Jones, Goldsmith 2005, p. 62].

Nel contesto della presente rassegna di nozioni proprie della biologia

evoluzionistica aventi possibile interesse per le scienze sociali, merita ancora

dare conto di come, da ultimo, autorevoli commentatori abbiano proposto di

mutuare anche dalle ricerche relative al funzionamento dei neuroni-specchio*

* I neuroni-specchio sono una specifica classe di neuroni, originariamente scoperti

nel sistema cerebrale delle scimmie grazie alle nuove tecniche di Imaging biomedico, i quali si attivano in reazione all'osservazione di un determinato comportamento motorio posto in essere da un soggetto terzo e portano alla replica del medesimo comportamento. L'esistenza e attivazione di un sistema-specchio del genere nel sistema cognitivo risulta di straordinario interesse per le potenzialità esplicative che offre di una pluralità di comportamenti riscontrati nelle specie animali, tra cui l'uomo, a partire dall'educazione per imitazione [per

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elementi di conforto all'esistenza della predisposizione alla socialità tipica

della specie umana, nell'ambito di una più generale revisione delle meta-

rappresentazioni con cui l'essere umano interagisce con i suoi simili [cfr. Viale

2011, p. 235 ss.]. Si tratta di una tesi senz'altro affascinante, ma che, tenuto

conto dell'ampiezza del suo slancio – capace di muovere con una sola mossa

tra specie diverse (dai primati all'uomo), e, più ancora, specializzazioni

operative del sistema cognitivo ben distinte (dalle condotte reattivo-motorie a

quelle sociali) – ci limitiamo qui a riportare soltanto, senza necessariamente

condividere.

Nel tornare a considerare più in generale i programmi cognitivo-

comportamentali che sarebbero propri della specie umana, va considerato

come, sebbene gli uomini li impieghino di continuo, non abbiano contezza di

tali programmi, i quali vengono avviati e applicati in maniera inconscia. La

circostanza ha indotto alcuni ricercatori a ritenere il tema particolarmente

meritevole di studio, in tal senso procedendo a una sorta di avanzamento sul

piano biologico delle ricerche già tentate da parte della psicologia

sperimentale in tema di procedimenti automatici [supra, §4.4.1.].

Nell'ambito dell'operazione di «Reverse Engineering» proposta al fine

di comprendere meglio origini e funzioni dei comportamenti [cfr. Tooby,

Cosmides 2005, p. 25], e in linea con quanto già accennato a proposito

dell'evoluzione del sistema cognitivo nel rispondere a stimoli ambientali, è

stata sostenuta la tesi che tale sistema operi a mezzo di programmi

specializzati nel risolvere particolari problemi presentatisi all'uomo, e, quindi,

radicatisi nel corso dell'evoluzione rispetto a determinati contenuti. In

sostanza, «gli psicologi evoluzionistici si figurano una mente piena di

programmi dalle applicazioni specifiche e ricche di contenuto, specializzati

nella risoluzione di problemi ancestrali» [Tooby, Cosmides 2005, pp. 41 ss.],

una più puntuale introduzione all'argomento, tra i testi già citati, v. Berti, Bottini, Neppi-Mòdona 2007, pp. 161 ss.].

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con ciò scavando un'ulteriore distanza rispetto alla razionalità «astratta» per

lungo tempo adottata come riferimento dal pensiero economico [supra, §3.1.].

L'osservazione è significativa, in quanto induce a ulteriori riflessioni

quanto agli effetti del corso evolutivo, e più ancora della sua durata, sulla

dotazione cognitiva propria dell'uomo e il suo funzionamento. In sostanza, è

possibile che alcuni almeno dei componenti di tale dotazione costituiscano

una sorta di «cervello dell'età della pietra», ancora installato e funzionante

nell'uomo contemporaneo [cfr. Nairne, Pandeirada 2008, pp. 239 ss.]. Le

ricerche di neuroscienze e fisiologia cerebrale offrono conferme al proposito:

secondo quanto già accennato, risultano effettivamente una serie di

componenti del sistema cerebrale di più risalente definizione evolutiva, le

quali continuano a essere deputate alla gestione di stati cognitivo-emozionali

primari, quali paura o desiderio sessuale [supra, §4.4.1.].

Al tempo stesso, nel proseguire su tale linea di considerazioni, nello

studio della razionalità e modalità di condotta degli agenti andrebbero messi

in conto scollamenti temporali significativi tra gli adattamenti avvenuti a

livello fisiologico e gli ambienti in cui i tratti comportamentali così conseguiti

continuano a operare. Da codesto scollamento discenderebbe quella che, con

una fortunata immagine, è stata definita «Time-Shifted Rationality», o

«razionalità temporalmente differita» [Jones 2001, pp. 1141 ss.], suscettibile di

meglio illuminare condotte altrimenti destinate, ai sensi dei criteri

interpretativi standard, a rimanere qualificate in termini di generica

irrazionalità.

Un'ultima considerazione riguardo le dotazioni cognitive sin qui

richiamate. Secondo quanto già accennato in relazione alla linguistica

generativa, tali dotazioni sono da intendersi comuni alla specie umana nel

suo complesso: si tratta, dunque, di «programmi operativi» universali,

operanti sulla base di modelli computazionali innati suscettibili di trovare

applicazioni anche in ambiti diversi dal linguaggio, ciò che – nel seguire una

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direzione d’immediata rilevanza per il pensiero economico e giuridico – ha

fatto suggestivamente ipotizzare (anche) l’esistenza di una vera e propria

«grammatica morale universale» [per ulteriori riferimenti in proposito cfr. da

ultimo Terracina 2011, pp. 232 ss.]. Significativamente, ben prima che il

perimetro delle scienze cognitive prendesse forma e studi combinati venissero

avviati, una serie di ricerche di antropologia si è concentrata

sull'individuazione di «universali umani», ovvero «tratti di cultura, società,

linguaggio, comportamento e mente che, per quanto sia stato possibile

esaminarne le tracce, sono stati ritrovati in tutte le popolazioni conosciute

all'etnografia e alla storia» [Brown 2004, p. 47]. L'elenco di tali tratti è

particolarmente dettagliato e composito [cfr. Pinker 2002, pp. 435 ss.], ma, in

specie per la parte relativa a «comportamento e mente», significativamente

convergente sull'idea dei programmi cognitivo-comportamentali propria

della biologia e psicologia evoluzionistiche sopra richiamate.

Il tema così introdotto, lo si sarà intuito, è quello dell'esistenza di una

comune «natura umana». Tema, è appena il caso di rilevarlo, all'origine di

un'altra delle più longeve e dibattute imprese di conoscenza a cui si sia

dedicato l'uomo, insieme a quelle già menzionate riguardo a cosa sia scienza e

quali i rapporti tra mente e corpo. Con ogni evidenza, esula dai fini del

presente discorso una trattazione in proposito, ma certo non si può negare il

rilievo della questione di una natura umana ai fini di una migliore definizione

delle scienze sociali: una natura che, proprio alla luce delle teorie e

conoscenze in corso di elaborazione da parte delle scienze cognitive, sta

trovando riletture di significativo interesse tanto per l'economia che per il

diritto.

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5.4. Verso un approccio cognitivo alle scienze sociali

Al termine della sommaria rassegna, effettuata nel presente capitolo, delle

scienze cognitive e di alcuni loro più propri elementi di ricerca, si ritiene di

poter finalmente passare a considerare quanto le scienze sociali – l'economia e

il diritto in particolare – abbiano da guadagnare dall'adozione di un'attitudine

di tipo cognitivo. Nelle pagine seguenti, dunque, si tenterà di definire meglio

simile attitudine, tenuto conto della strada in tal senso aperta e finora

percorsa dal pensiero economico. In effetti, è propriamente a partire da

questo punto che anche una considerazione cognitiva del diritto appare

finalmente matura.

Al proposito, a scanso di equivoci e a costo di ripetere quanto già

espresso nell’introduzione, risulta opportuno chiarire come la presente

dissertazione intenda mantenere un taglio eminentemente teorico,

d'inquadramento e sintesi degli studi che possano condurre a una definizione

in termini compiutamente cognitivi di economia e diritto. Se, quindi,

questioni pratiche saranno pur prese in considerazione, ciò avverrà secondo

una strategia esemplare, nell'intento di offrire «rinforzi discorsivi» alle tesi

generali, non certo con la pretesa di fornire uno scenario completo al

riguardo, tanto più a fronte delle tumultuose (e, spesso, difficili da seguire in

maniera ordinata) correnti di ricerca in corso di sviluppo attraverso i più

disparati esperimenti.

Tale avvertenza si mostra tanto più necessaria, viene da aggiungere,

rispetto alla corsa all’uso di dispositivi di ricerca neuroscientifica scatenatasi

nell’ambito forense e delle pratiche commerciali: una corsa che, se da un lato

svela un genuino entusiasmo verso le novità della materia, dall'altro rischia di

appiattire la ricchezza di contributi ottenibili dalle scienze cognitive su una

dimensione limitata a mere applicazioni di tipo meccanicistico. Per parte

nostra, confidiamo di riuscire a dimostrare, nel prosieguo della dissertazione,

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l'utilità di una revisione più generalmente culturale di economia e diritto,

entro la quale le scienze cognitive siano parte fondamentale del discorso: ciò

per i vantaggi che, si ritiene, se ne potrebbero trarre nel definire meglio non

solo una serie pur importante di elementi concreti, ma anche questioni

d'identità disciplinare rimaste fino ad ora eluse o irrisolte.

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6. Economia cognitiva

Nelle pagine precedenti siamo partiti da una considerazione

dell'impostazione relativamente tradizionale propria della teoria economica

comportamentale, in particolare rispetto a osservazione delle preferenze dei

soggetti agenti attraverso esperimenti psicologici controllati, per procedere

poi a una breve ricostruzione delle nuove conoscenze raggiunte in materia di

sistema nervoso e relative attività sotto il profilo neurocognitivo. Tale

ricostruzione ci consente di dare adesso conto della svolta più di recente

avvenuta nell'economia comportamentale, una svolta maturata sulla base

dell'impiego sistematico di conoscenze e strumenti di ricerca provenienti

dalla neuroscienze cognitive, alla quale è tra l’altro corrisposta una battaglia

terminologica che, si ritiene, non può venir limitata a una mera questione di

etichetta. Vale per questo richiamarla brevemente in via preliminare, a scanso

di futuri equivoci.

Al proposito, da alcuni anni ormai risulta in corso una

contrapposizione terminologica tra le due sponde dell'Oceano Atlantico. Se,

infatti, negli Stati Uniti risulta solidamente radicata l'espressione «Behavioral

Economics», in Europa sempre più spesso si parla di «Cognitive Economics»

per riferirsi a un'area di ricerca ampia, ricomprendente l'economia

comportamentale e, insieme, i suoi ultimi sviluppi neurocognitivi [cfr.

Innocenti 2009, pp. 7 ss.]. Tali sviluppi, nel contesto di ricerca nordamericano

da cui hanno preso avvio, pur se riconosciuti parte a pieno titolo

dell'economia comportamentale, vengono a loro volta individuati con il

termine di «Neuroeconomics» per segnalarne in maniera netta la principale

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derivazione da ricerche neuroscientifiche. Nello specifico, la

«neuroeconomia» sarebbe quella «particolare branca dell’economia

comportamentale che si prefigge di utilizzare dati neurali per creare un

approccio matematicamente e neuralmente sistematico ai microfondamenti

dell’economia» [Camerer 2008, p. 125].

Nel concordare con la rilevanza della natura delle conoscenze

impiegate nelle attività di ricerca, nonché con l'attenzione ai conseguenti

aspetti di sistematizzazione, si ritiene nondimeno che il ricorso al suffisso

«neuro» sia suscettibile di distorcere la considerazione generale della nuova

disciplina, inducendo/indulgendo proprio a quel neo-scientismo che alcuni

critici, come già ricordato, hanno di recente paventato [supra, §5.2.2.]. Se,

dunque, in una prospettiva di legittima propaganda intellettuale l'etichetta ha

senz'altro avuto la sua efficacia, valutata in un orizzonte di ricerca di più

lungo termine essa potrebbe risultare fuorviante. Del resto, conforta in tal

senso quanto a suo tempo espresso da Eric Wanner, presidente della Russell

Sage Foundation, ente tra i principali sostenitori dell’economia

comportamentale, secondo cui la stessa sarebbe stata «chiamata col nome

sbagliato – avrebbe dovuto chiamarsi economia cognitiva. Non siamo stati

abbastanza coraggiosi» [v. Angner, Loewenstein 2007, p. 2].

Tenuto conto degli elementi appena riuniti, ai fini della presente

trattazione si ritiene preferibile, pertanto, adottare la definizione di economia

cognitiva per definire la specializzazione della teoria economica che si

prefigge di utilizzare modalità di studio e conoscenze provenienti dalle

scienze cognitive – dalla psicologia sperimentale alle neuroscienze cognitive –

al fine di offrire un'interpretazione cognitivamente fondata delle condotte

soggettive.

Dell'economia cognitiva, di conseguenza, fanno parte sia l'economia

comportamentale che la neuroeconomia. La prima definizione risulta

utilmente applicabile, in una prospettiva storica, ai contributi di ricerca

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riconducibili a Tversky, Kahneman e Thaler, e dei quali le ricerche di Simon

rappresentano a loro volta il presupposto fondamentale. Gli studi di

neuroeconomia, dal canto loro, quando ricondotti all'economia cognitiva

appaiono meglio inseriti in un più solido quadro culturale di riferimento, e

suscettibili di una considerazione maggiormente sistematica.

6.1. Aprire la scatola nera: la nuova forma dell'economia

Punto di partenza per ogni trattazione dell'argomento è un ponderoso

articolo pubblicato nel 2005 da tre studiosi statunitensi, il quale rappresenta

un vero e proprio manifesto delle nuove linee di ricerca stabilitesi in ambito

economico.

Nel testo Come la neuroeconomia può dare forma all'economia, gli

economisti Colin Camerer, George Loewenstein e Drazen Prelec hanno

provveduto a una puntuale ricognizione dello stato dell'arte dell'economia

comportamentale alla luce delle neuroscienze cognitive, soffermandosi sulla

questione dei processi controllati/automatici, cognitivi/affettivi e relativi

incroci. Gli autori hanno, quindi, allineato una lunga serie di critiche

all'impostazione teorica tradizionale in tema di razionalità dei soggetti agenti,

forti della nuova, inedita possibilità offerta dalle tecniche di Imaging

biomedico di giungere a una «misurazione diretta dei pensieri e dei

sentimenti, aprendo la scatola nera che è al centro di qualunque interazione e

sistema di tipo economico – la mente umana» [Camerer, Loewenstein, Prelec

2005, p. 53].

Al netto di alcune iperboli senz'altro degne di maggior cautela, diversi

sono i passaggi di novità nel testo appena richiamato: tra questi, si segnalano

quelli riguardanti la rilevanza e sensibilità dell'elemento informativo non solo

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nella condotta economica osservabile, ma pure nei processi cognitivi

presupposti, a partire dalla considerazione secondo cui, in linea con il

discorso della costituzione di etichette affettive richiamato in precedenza, e,

più in generale, con le tesi funzionaliste-procedurali proprie delle scienze

cognitive, «nell'uomo il sistema affettivo e il sistema cognitivo rispondono a

informazioni differenti, e in modo differente alle stesse informazioni»

[Camerer, Loewenstein, Prelec 2005, p. 30].

Natura delle informazioni e rilevanza operativa di sistemi cognitivi

dedicati a compiti specifici comportano che si possano verificare conflitti di

gestione, con conseguenti (ma non per questo meno sorprendenti) inefficienze

nella scelta delle condotte. Secondo una serie di risultati sperimentali riportati

dall'articolo, accade ad esempio che il pensiero deliberativo, nel bloccare

l'accesso alle reazioni emotive, peggiori la qualità delle decisioni adottate

dagli agenti, oppure si verifichi esattamente l'opposto, cioè che la prevalenza

delle emozioni influenzi e distorca la percezione dei rischi rispetto alla

propria condotta nel soggetto agente [Camerer, Loewenstein, Prelec 2005, p.

29].

La questione delle distorsioni percettivo-cognitive e conseguenti

inefficienze decisionali, ovvero delle deviazioni comportamentali rispetto al

modello di agente razionale standard dovute a specifiche attività cerebrali

riconducibili ai diversi tipi di processi mentali visti in precedenza

(ragione/intuizione, cognizione/affetti), ricorre lungo l'intero articolo,

emergendo di volta in volta per profili d'interesse differenti.

In generale, lo studio si sofferma sulla questione dell'accessibilità

cognitiva – originariamente segnalata da Kahneman [supra, §4.4.1.], ma senza

far ricorso a evidenze neuroscientifiche – per rimarcare come le persone non

abbiano accesso introspettivo alle fonti dei propri giudizi sul comportamento

tenuto, e, di solito, tendano ad attribuire in maniera eccessiva a processi

controllati sia giudizi che comportamenti. I soggetti, in pratica, ritengono di

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dirigere razionalmente le proprie azioni più di quanto ciò avvenga nella

realtà. Tuttavia, «quando si tratti di pregiudizi discriminatori, dal momento

che le persone non hanno accesso ai processi che li producono, non sono in

grado di correggerli, e questo anche quando le stesse persone siano motivate

ad adottare giudizi e decisioni imparziali» [Camerer, Loewenstein, Prelec

2005, p. 38].

Significativi difetti di comprensione delle «ragioni interne» delle

proprie condotte sono stati rilevati, in modo specifico, nei casi in cui i soggetti

adottino condotte legate al denaro. Una serie di evidenze sperimentali induce

gli autori dell'articolo a ritenere che venga sistematicamente fraintesa la

natura strumentale di utilità del denaro, così come invece presupposta dalla

teoria economica standard. Infatti, gli agenti provano piacere – indicato, in

una serie di prove di Imaging biomedico a mezzo di fMRI, dall'attivazione di

uno specifico circuito neurale, quello dopaminergico della gratificazione,

situato nel sistema mesolimbico dell'encefalo – dal puro possesso di denaro,

ciò che induce, da un lato, a modificare un'ampia serie di assunzioni

comportamentali standard, dalla determinazione dei prezzi delle attività (c.d.

«Asset Pricing») all'impiego di mezzi di pagamento diversi [cfr. Camerer,

Loewenstein, Prelec 2005, pp. 35 ss.], e, dall'altro, pare offrire una conferma di

tipo neuroscientifico alla già nota tesi dell'effetto di dotazione [supra, §4.3.1.].

Più in generale, la rilevanza dell'inaccessibilità per il soggetto decisore

ai propri stati mentali – osservabili però, quantomeno in termini di

correlazioni neurali, a mezzo delle nuove tecniche neurocognitive – si

apprezza in maniera eclatante nei contesti d'interazione strategica. In tali

contesti, ambito d'elezione sia dell'economia che del diritto, le assunzioni di

base della teoria dei giochi vengono messe alla prova dei nuovi dati

neuroscientifici a disposizione, con risultati estremamente interessanti. In

effetti, secondo quanto rilevato da Camerer e colleghi, assunzioni teoriche

standard come quelle circa la disponibilità da parte degli agenti di credenze

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accurate su ciò che gli altri soggetti faranno in casi di comportamento iterato

possono essere utilmente incrociate con un'ampia serie di nuove conoscenze,

a partire da quelle in tema di aree cerebrali attivate rispetto a determinate

reazioni. Da tali incroci – e relative visualizzazioni – s'inferisce quindi la

prevalenza di reazioni automatiche/affettive rispetto a reazioni

controllate/cognitive in un'ampia serie di casi.

6.1.1. Cognizioni, affezioni e interazioni cooperative

Come noto, la teoria dei giochi ricorre quale strumento privilegiato di analisi

e modellizzazione delle condotte a una serie di giochi, il più usato dei quali è

con ogni probabilità il c.d. «Ultimatum Game». Tale gioco prevede due fasi

successive coinvolgenti una coppia di giocatori: nella prima fase un giocatore

prestabilito (l'offerente) propone al secondo (il ricevente) di ripartire una

determinata somma secondo una proporzione decisa unilateralmente

dall'offerente, mentre nella seconda il ricevente può accettare o rifiutare la

proposta di ripartizione, sapendo che, in caso di rifiuto, nessuno dei giocatori

riceve nulla.

Sulla base di precedenti esperimenti condotti visualizzando tramite

fMRI l'attività cerebrale di soggetti impegnati nell'Ultimatum Game, e, poi,

confrontando l'attività cerebrale di soggetti posti rispettivamente di fronte a

offerte ritenute palesemente squilibrate (1-2 dollari su 10) e altre ritenute più

equilibrate (4-5 dollari su 10), Camerer e colleghi riportano la verifica

dell'attivazione di regioni cerebrali ben distinte a seconda delle decisioni

adottate nelle strategie di gioco. Nello specifico, le offerte «inique» hanno

attivato in modo differenziale le regioni della corteccia prefrontale dorso-

laterale, il giro del cingolo anteriore e un'area della corteccia denominata

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insula [cfr. Camerer, Loewenstein, Prelec 2005, p. 48 ss.].

Tenuto conto che, sulla base di conoscenze neuroscientifiche ormai

saldamente stabilite, (i) la corteccia prefrontale dorso-laterale è un'area

deputata ad attività di pianificazione, (ii) il giro del cingolo anteriore è

un'area con compiti di sintesi, dedicata cioè a risolvere gli eventuali conflitti

decisionali in presenza di afferenze da regioni diverse, e (iii) l'insula si attiva

in presenza di emozioni negative, come indignazione e dolore, i ricercatori

hanno concluso che, a fronte di un'offerta iniqua, il cervello del soggetto

ricevente cerca di risolvere il conflitto insorto tra la propensione ad accettare

il denaro per il valore di gratificazione stimato dall'area deputata alla

pianificazione e l'emozione negativa elaborata dall'insula.

Al proposito, merita segnalare come un successivo esperimento,

realizzato impiegando la tecnica della stimolazione magnetica trans-craniale

per «neutralizzare» temporaneamente le funzioni della corteccia prefrontale-

dorso-laterale, abbia accertato una predisposizione estremamente più alta nei

soggetti così ablati ad accettare offerte inique in un'interazione da Ultimatum

Game, con ciò confermando le conclusioni sopra riportate [Knoch et al. 2006,

p. 829]. Per altro verso, le ricerche appena richiamate appaiono in linea con

studi sperimentali più tradizionali, condotti a mezzo di giocate di ultimatum

game, volti a evidenziare l'esistenza di norme sociali di cooperazione operanti

a livello inconscio negli individui [cfr. Fehr, Fischbacher 2004, pp. 63 ss.]. Si

tratta di studi che andranno opportunamente tenuti a mente quando, nel

prosieguo del discorso, ci si occuperà di una serie di ricerche d'impianto

neuroscientifico dedicate alla natura del diritto in sé [infra, §8.4.].

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6.1.2. Predizioni e descrizioni

Uno degli aspetti certamente più significativi, e, viene da aggiungere,

controversi, di esperimenti quali quelli appena richiamati, risiede nella

circostanza che la forte correlazione registrata tra livelli di attività di

determinate aree cerebrali e comportamenti dei soggetti sotto osservazione

permette di prevedere con notevole attendibilità se il giocatore respingerà

oppure no l'offerta. Ciò, si badi, avviene in un tempo precedente a quello in

cui il giocatore manifesta la propria decisione all'esterno, il che ha fatto

parlare della possibilità di conoscere le decisioni prima del decisore stesso

[cfr. Camerer, Loewenstein, Prelec 2005, pp. 46 ss.].

Con riserva di tornare sull'argomento, va aggiunto che gli effetti

interpretativi in senso cognitivo-neuronale, e, in qualche misura, predittivi,

non riguardano i soli contesti d'interazione, ma pure le condotte individuali,

come visto nel caso della percezione dei rischi da parte di un singolo soggetto

agente. In questo senso, e in una prospettiva di teoria delle decisioni, importa

sottolineare come l'economia cognitiva, nel correlare determinate condotte a

specifiche attività cerebrali osservabili tramite tecniche di Imaging biomedico,

abbia realizzato uno straordinario avanzamento «descrittivo» rispetto agli

esperimenti realizzati sul tema dagli economisti comportamentali. Quando,

poi, ci si soffermi sulla questione della prevedibilità neuronale di determinate

condotte, non si può non considerare lo scarto definitivamente avvenuto, da

un lato, rispetto alla fase classica dell'economia comportamentale con le sue

aspirazioni allo sviluppo di una teoria descrittiva della scelta empiricamente

adeguata, ma pur sempre limitata a osservazioni dall'esterno, e soprattutto,

dall'altro, rispetto all'economia normativa di stampo neoclassico con le sue

velleità predittive «à la» Friedman, realizzate a costo di costringere l'agente

nel letto di Procuste della perfetta razionalità assiomatica.

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6.1.3. Prospettive dell'economia cognitiva

Pur in presenza dei significativi limiti ancora esistenti rispetto alla

conoscibilità delle attività del sistema nervoso nella sua dinamicità

complessiva, e nel tenere debitamente conto della necessità di verificare con la

massima cura e scrupolo scientifico le conclusioni proposte dai ricercatori in

termini di correlazioni tra attività cerebrali e condotte, a fronte di quanto

sopra rilevato appare evidente come la teoria economica abbia di fronte a sé

formidabili prospettive di sviluppo. A conferma di quanto appena

considerato, è sufficiente considerare l'insieme delle ricerche incentrate

sull'utilizzo di dispositivi e conoscenze mutuate dalle neuroscienze cognitive

nella comprensione delle condotte e relative interazioni: tali ricerche, in

effetti, nel corso dell'ultimo quinquennio sono aumentate in maniera

esponenziale imboccando una pluralità di direzioni, dai comportamenti di

acquisto dei consumatori alle interazioni fiduciarie tra soggetti [per una

prima rassegna, piuttosto aggiornata, v. Innocenti 2009, pp. 52 ss.].

Resta, infine, da dare conto di un ulteriore orizzonte cognitivo in corso

di verifica da parte della teoria economica, definitosi a partire da quel novero

di recenti studi di biologia e psicologia evoluzionistiche cui abbiamo già

avuto modo di accennare in precedenza, e che, come vedremo, si stanno da

ultimo combinando con una serie di ricerche da un lato particolarmente

innovative rispetto al pensiero economico ortodosso, dall'altro riconducibili a

teorie filosofiche di lungo corso.

6.2. Evoluzione umana ed economia

Nel contesto di un’indagine che, come la presente, intenda occuparsi di

nozioni quali quelle di agenti, razionalità e interazioni sociali aventi rilevanza

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economica e/o giuridica, il riferimento a conoscenze di matrice

evoluzionistica costituisce, più ancora che un'opportunità di analisi, una

necessità tematica.

Di fatto, la nuova prospettiva cognitiva di studio delle scienze sociali

trova nelle ricerche di biologia e psicologia evoluzionistica una forza

propulsiva centrale, che qui di seguito cercheremo di dettagliare meglio per

quanto riguarda l'economia. Forse perché caratterizzato, perlomeno a partire

dalla lezione di Thorstein Veblen a inizio Novecento, da un'impostazione

evoluzionistica latente [cfr. Hodgson 2008, pp. 399 ss.], il pensiero economico

si è dimostrato assai disponibile a prendere in esame tali conoscenze nella

prospettiva di individuare nuove linee di ricerca.

Una serie di studi dichiaratamente influenzati dalla psicologia

evoluzionistica, in effetti, sta alzando la posta del gioco intellettuale a suo

tempo avviato dall'economia comportamentale: quantomeno a detta dei loro

sostenitori, le ricerche al riguardo consentirebbero infatti di elaborare una

«teoria degli errori» ulteriormente raffinata grazie a un'osservazione del

comportamento umano secondo il modello «etologico» tipico della biologia

[cfr. Friedman 2004, p. 18], alla quale si andrebbero da ultimo aggiungendo

ricerche d'impianto neuroscientifico. L'obiettivo, del resto, non è tanto

evidenziare le deviazioni da parte dell'agente rispetto agli assunti della teoria

economica standard, quanto individuare una miglior eziologia dei

comportamenti di questo, tenuto conto sia di determinati tratti della natura

umana determinatasi nel corso dell'evoluzione che della specificità di alcuni

obiettivi comportamentali [supra, §5.3.].

Tra le tesi avanzate al riguardo, in ragione delle sue ampie prospettive

esplicative tanto per l'economia che per il diritto si segnala in particolare

quella relativa all'esistenza di una nozione inconscia di «giusto prezzo»

sedimentatasi nel corso dell'evoluzione. In breve, tale nozione sarebbe alla

base di molti comportamenti osservabili nella realtà contemporanea, quando

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gli agenti si troverebbero mossi da un «sentimento interno» che induce a

considerare come prezzo corretto di un bene quello pagato di solito. I casi

citati vanno dalle isolate reazioni di un avventore al ristorante dinanzi a un

conto particolarmente salato, fino a decisioni di politica economica in

relazione alla fissazione di prezzi per beni ad alta rilevanza sociale, quali ad

esempio determinate prestazioni sanitarie [cfr. Friedman 2004, pp. 18 ss.].

Secondo quanto rilevato da chi ha per primo introdotto tale tesi, «dal

punto di vista della razionalità economica, una simile assunzione non ha

senso. La maggior parte delle persone, infatti, non ha un'idea chiara di cosa

determini i prezzi di ciò che acquista, dal momento che non hanno alcun

modo di sapere se il prezzo di ieri fosse equo, o giusto, o giustificato rispetto

ai costi, oppure se il più alto prezzo pagato oggi manchi uno dei criteri

appena citati» [v. Friedman 2004, pp. 21]. E tuttavia, il fatto che gli agenti

economici provino un tale sentimento – molto simile, si rileva per inciso, a

quello già evidenziato dalla dottrina scolastica di Tommaso d'Aquino in

materia di «communis aestimatio» dei salari – richiede una spiegazione

plausibile, che l'approccio evoluzionistico ritiene di poter fornire.

Tale sentimento, dunque, troverebbe le sue origini in un contesto di

società primordiale basata sulla caccia, dove la stabilità delle condizioni

transattive giocava un ruolo fondamentale nelle strategie di sopravvivenza.

Nella prospettiva dell'acquirente di un bene funzionale alla propria

sussistenza, «essere emozionalmente programmati per risultare infastiditi da

ogni aumento del prezzo usuale» sarebbe stata parte di un'efficace

«Commitment Strategy» in grado di beneficiare tutti i suoi adottanti,

semplificando gli scambi commerciali in un contesto particolarmente ostile

alla specie umana [cfr. Friedman 2004, pp. 21 ss.]. Una volta combinata con la

«razionalità temporalmente differita» richiamata in precedenza [supra, §5.3.],

la latenza di una simile programmazione emozionale spiegherebbe, in effetti,

molte condotte economiche contemporanee.

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L'impressionistica ricognizione appena tentata di una delle tesi

relative a nozioni di «Fairness» primordiali ancora operanti nelle interazioni

sociali, porta chiaramente a registrare come tesi del genere siano esposte ai

limiti propri delle spiegazioni di tipo «post-hoc», le quali, secondo una felice

espressione polemica riferita a una similare tendenza riscontrata nella

biologia adattamentista, finiscono per produrre al più un'ampia gamma di

«Just-So Stories» [cfr. Nairne, Pandeirada 2008, p. 239]. Storielle, insomma,

irrimediabilmente infalsificabili, e, come tali, di nessuna utilità per sostenere

un robusto avanzamento della conoscenza, secondo i canoni di ricerca più

condivisi.

Nel concordare con simili avvertenze, pare comunque il caso di

rilevare la suggestione di studi del genere, capaci di tentare sintesi potenti di

conoscenze fino ad ora rimaste sconnesse e separate, e che, perciò, non pare

ragionevole dismettere a priori. Essi, infatti, presentano un'utilità ideale di

ricerca da non trascurare, offrendo ampio sostegno a una «immaginazione

teoretica» che da sempre rappresenta il primo motore della ricerca, e

inquadrandosi, più in generale, nel contesto di quei «programmi di ricerca

metafisici» che, se pur non risultano empiricamente controllabili,

rappresentano comunque degli schemi di riferimento necessari al progressivo

sviluppo di nuove teorie [sul punto v. utilmente Di Nuoscio 2006, p. 98]. Del

resto, le stesse scienze dure, fisica in testa, hanno tradizionalmente fatto

ampio ricorso a «Gedankenexperimente», ovvero esperimenti mentali volti a

rendere possibili – perlomeno nell'immaginazione – studi irrealizzabili in

pratica. Non si vede perché, dunque, non si possa riconoscere una

corrispondente liberalità d'immaginazione anche alle ricerche delle scienze

sociali.

Un simile processo di ricerca, viene da rilevare, si mostra pure in linea

con una nobile tradizione di pensiero economico, che, perlomeno dalla Teoria

dei sentimenti morali di Adam Smith in avanti, risulta incentrata sulla

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considerazione degli istinti dell'uomo come origine, e, poi, forza principale

del comportamento economico. In proposito, studi eterodossi di economia

istituzionale hanno già opportunamente segnalato il ruolo giocato nelle

condotte economiche dai «sentimenti», secondo la terminologia originaria del

grande scozzese, richiamando per di più la lettura in termini adattivi –

dunque, di fatto, evoluzionistici «ante litteram» – sottostante gli stessi [cfr.

Arruñada 2008, p. 83]. Per altro verso, una ricerca economica improntata a

maggior sensibilità circa i profili evoluzionistici del comportamento può da

ultimo trovare supporto nella disponibilità di tecniche quali quelle di Imaging

biomedico, che, almeno in prospettiva, offrono sempre maggiori possibilità di

approfondimenti sperimentali lungo direttrici finora inedite, sia rispetto a

strutture cerebrali che apparati cognitivi dell'uomo [supra, §5.2.2.].

Recenti esperimenti di economia cognitiva sono già richiamabili in tal

senso. Gli esiti di una serie di studi condotti con osservazioni magnetiche

funzionali delle attività cerebrali di soggetti impegnati in giocate di

Ultimatum Game mostrano infatti significative affinità con ipotesi quale

quella del giusto prezzo, posto che i ricercatori hanno riscontrato nei giocatori

aspettative stabili di «equità» nella ripartizione delle somme in gioco [cfr.

Tabibnia et al. 2008, pp. 339 ss]. Tali aspettative, pur se almeno in parte

influenzabili dai contesti socio-culturali in cui le interazioni di gioco si

svolgono, risultano essere inconsce e universalmente condivise, in linea con le

posizioni della biologia comportamentale già espresse in precedenza [supra,

§5.2.].

Anche altri esperimenti, condotti a mezzo di più tradizionali

osservazioni comportamentali, hanno indotto i ricercatori a sostenere

l'esistenza di norme sociali operanti in maniera inconscia negli individui, tra

le quali, di nuovo, la Fairness svolgerebbe un ruolo preponderante [cfr. Fehr,

Fischbacher 2004, pp. 63 ss.]. Tali esperimenti, più nello specifico, hanno

riscontrato una predisposizione comportamentale a punire condotte ritenute

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contrarie a norme sociali condivise, secondo meccanismi riconducibili al già

noto caso dell'altruismo reciproco e conseguenti strategie di punizione del

soggetto irrispettoso dell'equilibrio cooperativo [v. di nuovo supra, §5.2.].

Vedremo infine, in una successiva sezione dedicata alle ricerche

d'impronta evoluzionistica dedicate al diritto, come studi recenti stiano

tentando i limiti del discorso tradizionalmente riservato al tema della

giustizia, incentrato su nozioni puramente filosofiche, sulla base di ricerche

neuroscientifiche volte a evidenziare predisposizioni cognitive comuni in tal

senso [infra, §8.4.1.].

Al termine della sommaria ricognizione qui tentata delle avventure

dello spirito vissute dal pensiero economico nel corso del secondo Novecento,

e, più ancora, del tumultuoso decennio appena trascorso, dopo aver così

tracciato una carta auspicabilmente verosimile del territorio intellettuale

appena traversato risulta finalmente possibile tentare un passaggio a quello,

confinante ma ben distinto, del diritto. Ponte prescelto per traversare il

fossato disciplinare sarà il complesso di studi sinteticamente individuato con

le etichette di «Law and Economics», o, secondo una definizione più orientata

a un uso normativo dell'economia, «analisi economica del diritto» [cfr. Renda

2011, p. 101], alla cui considerazione – insieme ad alcune variazioni sul tema

di tipo comportamentale – ci si dedicherà nelle pagine seguenti.

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7. Dall'economia al diritto: il ponte della Law and Economics

Sotto la definizione di Law and Economics viene ricompreso un complesso di

studi affermatosi nel contesto accademico statunitense a partire dai primi

anni sessanta del Novecento, e, quindi, progressivamente diffusosi a livello

internazionale, in ideale continuità con il realismo giuridico tipico della

tradizione di «Common Law». Tali studi si accostano alla fenomenologia del

diritto secondo una visione pragmatica, per non dire strumentale, posto che la

legge viene presa in considerazione «in funzione della definizione dei prezzi

relativi che condizionano le scelte compiute da decisori razionali, siano essi

individui, gruppi, imprese, governi» [Renda 2011, p. 97].

In una più ampia prospettiva di storia del diritto, il movimento della

Law and Economics va ricondotto al progressivo abbandono delle rigidità

interpretative del dato normativo che, sull'onda del formalismo di scuola

positivista, hanno fortemente condizionato la dottrina giuridica nella prima

metà del secolo scorso. Simile evoluzione culturale, si badi, non ha significato

il venir meno delle pretese di obiettività e scientificità del diritto tipicamente

avanzate dal positivismo – pretese che, perlomeno secondo alcuni

commentatori eterodossi, proprio nel movimento di Law and Economics

avrebbero anzi trovato un potente referente in ambito nordamericano [cfr.

Hackney 2006, pp. 88 ss.] – ma ne ha quantomeno indirizzato il corso secondo

nuove prospettive, con ogni evidenza condizionate dall'emergenza

dell'economia quale disciplina di riferimento nel contesto delle scienze sociali

[supra, §2.3.].

L'analisi economica del diritto ha così segnato un'importante svolta in

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termini di apertura del pensiero giuridico a un approccio multidisciplinare

fino a quel momento sostanzialmente inedito [cfr. Padoa-Schioppa 2007, pp.

646 ss.]. Per altro verso, si ritiene, essa ha rappresentato lungo una

significativa stagione culturale la risposta operativa più convincente alle

richieste di riorganizzazione teoretica che il pensiero giuridico si è trovato a

fronteggiare. Nella seconda metà del Novecento, esaurite le spinte concettuali

(ancorché contrapposte) di positivismo e idealismo, ancora traumatizzato

dalla dimostrata incapacità della tecnica giuridica di gestire le componenti e

tensioni più oscure della natura umana così come emerse in maniera

dirompente nel dramma del conflitto mondiale, il pensiero giuridico ha infatti

ritenuto di trovare un’importante lezione di rigore e ordine nella teoria

economica.

Almeno in origine, il ricorso del diritto all'analisi economica è dunque

avvenuto con un riferimento preminente al pensiero economico neoclassico, il

conseguente ricorso condizionante ad alcuni concetti di riferimento – su tutti,

l'efficienza in senso paretiano di ottimalità allocativa, ancorché rivista alla

luce del criterio di compensazione di Kaldor-Hicks – e, più in generale,

l'impiego di un modello di agente razionale rigidamente formalizzato [in

proposito v. per tutti Malloy 2000, pp. 37 ss.]. Esemplare risulta al proposito il

resoconto di tale modello offerto da uno dei suoi principali sostenitori nel

contesto dell'analisi economica del diritto: «qualsiasi comportamento umano

può essere inteso come un coinvolgimento di partecipanti che massimizzano

la propria utilità sulla base di un set stabile di preferenze e accumulano una

quantità ottimale di informazioni e altri input in una varietà di mercati»

[Becker 1976, p. 14]. Ad ogni modo, trascorsi gli assolutismi tipici delle fasi di

affermazione di un nuovo paradigma, e, soprattutto, mutato il più generale

contesto culturale di riferimento, i riferimenti al pensiero economico

nell'ambito degli studi di Law and Economics sono corrisposti sempre più a

una generale disponibilità a «razionalizzare» l'approccio al diritto nel suo

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concreto svolgersi – la «Law in action» cara al Common Law [cfr. Pound 1951,

pp. 87 ss.] – più che a sposare in maniera unica e indissolubile una specifica

teoria.

Dopo, insomma, che il «massimalismo applicativo» di studiosi come

Becker ha aperto all'impiego di strumentazioni economiche di marca

neoclassica anche nello studio di relazioni e condotte tradizionalmente

ritenute estranee all'ambito economico, molta parte della Law and Economics

successiva ha cercato di prendere le distanze dagli eccessi ideologici

ascrivibili a un'operazione del genere [cfr. già Alvi 1989, pp. 169 ss.],

concentrandosi piuttosto nell'offrire uno strumentario teorico utile

all'interprete dei fenomeni giuridici, senza per questo imporre

un'interpretazione tecnica necessariamente esclusiva.

Al netto, dunque, delle scuole e correnti che risultano individuabili

nell'ambito del composito orizzonte di ricerca tipico di tali studi [su cui v.

utilmente Parisi 2004, pp. 259 ss.], in una prospettiva più generale si può

concordare con la considerazione secondo cui l'analisi economica del diritto

«non si risolva in un movimento di pensiero, accomunato da una trama

concettuale in qualche misura condivisa da quanti vi confluiscono e che,

piuttosto, essa esprima una valenza metodologica, suscettibile – con le

limitazioni del caso – di essere piegata agli impieghi più lontani e disparati».

Un'analisi «a disposizione di chiunque se ne voglia servire, perché richiede

soltanto di avvicinarsi al problema giuridico con la mentalità – e gli strumenti

– dell'economista, offrendo in cambio un promettente bagaglio di opportunità

ricognitive» [Pardolesi 1987, p. 312].

Nella duttilità concettuale e versatilità applicativa che tale prospettiva

metodologica apre paiono risiedere le ragioni, da un lato, dell'ormai stabilita

rilevanza degli studi di Law and Economics nella cassetta degli attrezzi

interpretativi a disposizione del giurista contemporaneo, e, dall'altro, della

disponibilità degli stessi studi ad adottare le nuove elaborazioni del pensiero

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economico, svincolandosi dalla già nota rigidità di modelli troppo spesso fini

a se stessi. Del resto, secondo quanto già rimarcato con indubbio buon senso

proprio da uno dei più diffusi manuali di analisi economica del diritto, «a che

serve un modello, magari elegante ma basato su assunti che negano

spudoratamente i tratti salienti della realtà in cui si dibatte la prassi giuridica?

Certo, i modelli mirano alla riduzione della complessità. Ben vengano, allora,

purché la riduzione non si volga al riduzionismo, non metta capo a

stravolgimenti talmente forzati da chiudersi con dimostrazioni ineccepibili di

quanto si sapeva da sempre» [Cooter et al. 2006, p. 15].

A proposito di quanto sin qui detto, va rilevato come, nel contesto

della più recente Law and Economics, i riferimenti all'economia

comportamentale abbiano ormai assunto una posizione centrale, tale da

segnare quello che è stato di recente definito un vero e proprio «cambio di

paradigma» [cfr. Veetil 2011, pp. 199 ss.]. Tenuto conto della rassegna

compiuta rispetto allo sviluppo dell'economia comportamentale, conviene

dunque dedicare qualche ulteriore attenzione alla questione del suo

stabilimento nell'analisi economica del diritto.

7.1. Behavioral Law and Economics

Nel momento in cui l'economia comportamentale è venuta conquistando una

posizione culturale (e accademica) preminente, anche negli studi di Law and

Economics si è assistito a progressivi tentativi di adottare l'etichetta

comportamentale [primi a tagliare il traguardo sono risultati Jolls, Sunstein,

Thaler 1998, pp. 1471 ss.].

Gli esiti, per la verità, non sempre risultano convincenti. Da un lato,

infatti, sono state riscontrate varie incoerenze in numerosi contributi dedicati

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alla materia, perlopiù dovute a scarsi approfondimenti sperimentali [cfr.

Hayden, Ellis 2007, pp. 647 ss.]. Dall'altro lato, troppo spesso a dichiarazioni

d'intenti particolarmente roboanti in tema di revisione degli assunti di

razionalità delle condotte economiche non sono seguite proposte meglio

definite: tutto ciò ha finito così per mantenere credito a quella sensazione di

genericità manifestata, sin dagli esordi delle nuove proposte, dai più

autorevoli sostenitori del previgente approccio (neo)classico alla Law and

Economics [cfr. Posner 1998, pp. 1551 ss.].

A fronte di tale controverso scenario, chi scrive ritiene in effetti che

non si tratti tanto di «rimuovere l'assunto di razionalità dalla Law and

Economics» [cfr. Korobkin, Ulen 2000, pp. 1051 ss.], quanto, piuttosto, tendere

a una considerazione sempre più accurata e condivisa dei comportamenti e

degli agenti, abbandonando – questo sì – ogni nozione di razionalità

puramente astratta e preconcetta. Ciò va fatto in accordo con le migliori

conoscenze disponibili al riguardo, secondo quell'ottica interdisciplinare da

cui l'economia, come già visto, sta traendo importanti stimoli di ricerca, e con

un'attenzione specifica alla base sperimentale degli studi [cfr. Croson 2009,

pp. 25 ss.]. Del resto, la lezione di Herbert Simon rintracciata nelle pagine

precedenti [supra, §3.4.] dovrebbe costituire un'acquisizione ormai

irrinunciabile per le scienze sociali contemporanee, ed è una lezione che

proprio sull'esistenza (non di una mancanza di razionalità, bensì) di una

pluralità di razionalità ha efficacemente insistito.

Nell'operazione di approfondimento sperimentale appena auspicata

torna utile lo studio di ricerche già effettuate in ambito economico, ma

rilevanti in maniera più o meno diretta anche per il diritto, e che proprio nella

«terra di mezzo» di una Law and Economics connotata sperimentalmente

hanno meglio attecchito. Un intervento di qualche anno fa provvedeva a una

pratica distinzione tra ricerche del genere, ripartendole nelle seguenti

categorie: (i) scelta individuale («Individual Decision Making»); (ii) beni

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pubblici e coordinamento collettivo («Collective Action and Coordination

Problems»); (iii) contrattazione («Bargaining»); (iv) aste («Auctions»); (v)

organizzazione industriale («Industrial Organization»); (vi) assetti dei mercati

e asimmetrie informative («Experimental Asset Markets and Asymmetric

Information») [McAdams 2000, pp. 541 ss.].

Va da sé, non per tutte le categorie citate esistono, ancora oggi,

ricerche ben definite e conseguenti elaborazioni, né, tenuto opportunamente

conto degli anzidetti persistenti limiti quanto a robustezza delle evidenze

sperimentali raccolte, le ancora più dettagliate classificazioni offerte di recente

in proposito [cfr. Reeves, Stucke 2011, pp. 1529 ss.] vogliono dire che risultati

effettivamente robusti siano stati raggiunti. Tuttavia, appare evidente come

gli studi giuridici – in particolare quelli riconducibili al diritto dell'economia,

in ragione dell'immediata vicinanza dei propri oggetti d'interesse a molte

delle ricerche sopra richiamate – possano fare proficuo ricorso alle

conoscenze rese così disponibili; per altro verso, è in via di formazione un

insieme sempre più rilevante di esperimenti appositamente dedicati a temi e

questioni proprie del diritto. Prima di prendere meglio in esame alcuni

almeno di tali esperimenti [infra, §8.1.], occorre però spendere qualche

considerazione a proposito dell'impatto sin qui avuto sul pensiero giuridico

dalle teorizzazioni di marca comportamentale, per meglio intendere quali

possano esserne gli effetti e le prospettive.

7.2. Analisi comportamentale del diritto

A tale fine, presenta notevole interesse un recente contributo dottrinale che

parte dall'analisi economica del diritto e lo studio dell'economia

comportamentale per giungere a teorizzare un'inedita «analisi

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comportamentale del diritto» [Tor 2008, pp. 237 ss.]. Non che proposte del

genere non fossero già stati avanzate [per un saggio pionieristico in materia v.

Bellantuono 2001, pp. 1 ss]: la rilevanza del nuovo contributo, nondimeno,

risiede nella chiara tensione verso definizioni proprie di una rinnovata teoria

generale del diritto, aperta a un coordinamento paritario con il discorso

economico.

In sostanza, l’articolo in discorso sostiene la necessità d'infrangere

l'isolamento disciplinare tipico del diritto per traghettarvi al suo interno le

conoscenze di tipo comportamentale, alle quali gli interpreti dovrebbero

saper ricorrere in maniera autonoma, secondo un'impostazione

genuinamente sperimentale. Quel che viene proposto, dunque, è un impiego

sistematico delle principali nozioni comportamentali – a partire dalle

euristiche di matrice psicologica evidenziate da Kahneman e Tversky –

direttamente da parte dei giuristi, al fine di meglio interpretare le condotte di

volta in volta rilevanti nel caso di specie, e, di conseguenza, giungere a

decisioni più fondate. Il testo richiamato offre un esempio applicativo

interessante a una teoria particolarmente cara alla Law and Economics

tradizionale, esempio qui di seguito riportato per meglio esplicitare gli

argomenti in discorso. Sempre nella prospettiva di saggiare la tenuta della

nuova analisi comportamentale del diritto, inoltre, verrà preso brevemente in

esame un corso di studi concentratisi sulla rilettura in chiave

comportamentale della disciplina «Antitrust».

7.2.1. Il teorema di Coase tra dotazione e status quo

Tra i più celebri capisaldi dell'analisi economica del diritto rientra un

enunciato, elaborato dall'economista statunitense Ronald Coase sul finire

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degli anni cinquanta del Novecento, relativo alla raggiungibilità attraverso

interazioni mercantili di risultati di efficienza superiore rispetto a quelli

ottenibili con l'intervento dello Stato o di altre regolamentazioni. In estrema

sintesi, il teorema di Coase stabilisce che, se i costi di negoziazione e

transazione sono nulli, la contrattazione tra agenti economici porterà a

soluzioni efficienti da un punto di vista sociale (in termini di efficienza

paretiana) anche in presenza di esternalità, e – quel che qui più interessa – a

prescindere da chi detenga inizialmente i diritti legali.

L'irrealtà di alcune almeno delle premesse appena citate, e

segnatamente quella dell'assenza di costi di transazione, risulta evidente: lo

stesso Coase, del resto, aveva ben chiara la natura eminentemente teoretica

della sua proposta, con la quale intendeva soprattutto evidenziare la

circostanza che uno scambio avviene solo quando arrechi beneficio a

entrambe le parti [cfr. Stephen 1988, p. 27]. Al riguardo, vale ricordare come i

primi casi di esperimenti condotti da economisti interessati ad approfondire

questioni di Law and Economics siano stati volti proprio a verificare il

teorema di Coase, dal momento che solo «in laboratorio» era possibile la

ricorrenza delle precondizioni richieste dallo stesso per operare; i risultati di

tali esperimenti, peraltro, hanno accertato effetti del tutto imprevisti dalla

teoria, in modo particolare circa la predisposizione delle parti coinvolte nella

contrattazione a condividere le utilità derivanti dalla stessa [cfr. Hoffman,

Spitzer 1982, pp. 73 ss.].

Ora, anche tralasciata la citata circostanza che, nella realtà, transazioni

prive di costi non esistono, la questione di maggior momento in un'ottica

comportamentale diviene l'iniziale assegnazione («Entitlement», secondo la

terminologia anglosassone) dei diritti, e il saggio di analisi comportamentale

del diritto sopra richiamato propone al riguardo una revisione critica di un

certo interesse [Tor 2008, pp. 266 ss.]. Esso, infatti, fa riferimento a due

specifiche predisposizioni comportamentali, l'effetto di dotazione e l'errore

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dello status quo, per contestare la sostenibilità dell'assunto alla base del

teorema di Coase.

Come si ricorderà [supra, §4.3.1.], l'effetto di dotazione evidenzia la

discrepanza tra la valutazione economica che di un bene viene data a seconda

che un soggetto lo possieda oppure no, mentre l'errore dello status quo

segnala la preferenza psicologica a rimanere nella condizione in cui ci si trova

a causa di una percezione sistematicamente distorta di vantaggi e svantaggi

nella variazione della propria posizione economica. A seguito dell'insorgenza

di queste specifiche comportamentali sarebbe propriamente la dotazione

iniziale dei diritti legali a condizionare, e in maniera rilevante, l'efficienza

della transazione. Al proposito, «la volontà di chiedere un prezzo più alto

mostrata da determinati titolari dell'assegnazione dei diritti (che avrebbero

attribuito un prezzo più basso all'assegnazione se non l'avessero posseduta)

può impedire uno scambio efficiente con altre parti aventi un'iniziale volontà

di pagare un prezzo più alto» [Tor 2008, p. 266]. In conseguenza di ciò,

prosegue l'autore del saggio, la portata del teorema di Coase andrebbe

seriamente rivista, o quantomeno riconsiderato il suo prevalente impiego

nella definizione di diritti di proprietà: un errore nell'attribuzione iniziale dei

diritti legali, infatti, condurrebbe a un'allocazione finale del loro possesso

potenzialmente inefficiente, anche tenuta ferma l'assenza di costi transattivi

assunta dal teorema.

7.2.2. Il caso dell'Antitrust comportamentale

Secondo quanto accennato in precedenza [supra, §7.1.], il diritto dell'economia

e la sua casistica rappresentano dei candidati ideali per un'applicazione in

concreto delle ricerche, anche d'indirizzo sperimentale, dell'economia

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comportamentale, con un impiego in tal senso dell'analisi economica del

diritto quale tramite culturale storicamente ben radicato.

L'Antitrust, nello specifico, ha sempre costituito uno degli argomenti

prediletti per esercitazioni di Law and Economics, rappresentando la più

risalente (e, con ogni probabilità, intrigante) intersezione esistente tra

pensiero economico e giuridico [cfr. Blair, Kasermar 2009, p. 1]. Non stupisce,

dunque, che, anche quando ci si muova nel nuovo scenario comportamentale,

tale disciplina abbia più di altre catturato l'attenzione dei ricercatori. Al

contempo, viene da aggiungere, nessun'altra specialità del diritto

dell'economia è stata condizionata in maniera altrettanto profonda da

«convenzioni economiche» in merito alla razionalità che indirizzerebbe le

condotte degli agenti: imprese, nello specifico, aventi necessariamente per

obiettivo di «massimizzare i propri profitti» [cfr. Blair, Kaserman 2009, p. 10].

Con ogni evidenza, tutto ciò rende l'Antitrust un campo di battaglia culturale

e accademica ideale per le nuove teorie intenzionate a sostituirsi al precedente

paradigma.

A proposito delle analisi e interpretazioni dedicate all'Antitrust, rileva

una serie di studi realizzati nell'ultimo decennio e animati dall'ambiziosa

aspirazione di ridefinire in chiave comportamentale l'intera disciplina: alcuni

recenti contributi offrono utili ricognizioni degli argomenti adottati a tale fine,

provvedendo panoramiche di casi diversi – da fattispecie d’intesa alle

modalità di controllo preventivo di operazioni di concentrazione – e ad essi

dunque rimandiamo per ragioni di economicità discorsiva [cfr. Reeves, Stucke

2011, pp. 1541 ss.].

L'argomento principale di tutti i contributi del genere, ad ogni buon

conto, risiede comunque in una contestazione sempre più radicale

dell'assunto di razionalità «olimpica» dell'agente, così come stabilito dalla

teoria teoria neoclassica, e, quindi, presupposto da molte interpretazioni – in

primo luogo giudiziali, nel caso dell'ordinamento statunitense, ovvero

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prevalentemente amministrative in ordinamenti come quello dell'Unione

Europea e dei suoi Stati membri – consolidatesi nel corso del tempo rispetto a

una serie di fattispecie Antitrust.

Intorno a tale questione, senza troppa meraviglia, si sono replicate le

vivaci contrapposizioni teoriche già vissute nell'originario campo

dell'economia, con un fiorire di scritti al riguardo, che, quando rimangono su

un piano d'introduzione generale, non sembrano però aver aggiunto elementi

di significativa novità al discorso [cfr. Bennett et al. 2010, pp. 111]. Quanto,

invece, alle singole fattispecie, merita segnalare uno studio con cui è stata

proposta un'interessante lettura alternativa delle condotte predatorie, e che,

dunque, costituisce un buon esempio per tentare più da presso l'utilità di una

lettura «Behavioral» dell'Antitrust.

Come noto, la fattispecie dei prezzi predatori ricorre (in maniera

pressoché identica nei principali ordinamenti dotati di una disciplina

Antitrust) quando un’impresa detentrice di una posizione dominante sul

mercato rilevante ponga in essere una strategia di vendita fissando i prezzi

dei propri prodotti al di sotto di determinate soglie di costo, nel deliberato

intento di escludere dal mercato i concorrenti più deboli e incapaci di

sostenere una prolungata «guerra dei prezzi».

Ai fini della presente trattazione, qui basta ricordare come, in

particolare nell'ordinamento statunitense, la fattispecie di «Predatory Pricing»

sia da tempo praticamente inapplicata in quanto alcune delle condizioni

richieste dalla giurisprudenza dominante per il riconoscimento della

violazione – ai sensi dell'assunto di razionalità economica standard dei

soggetti agenti mutuato dalla teoria neoclassica – rendono la prova della

stessa praticamente impossibile. La più stringente di tali condizioni riguarda

la prova della recuperabilità («Recoupment») delle perdite economiche in cui

l'impresa sia incorsa per sostenere la guerra dei prezzi intrapresa ai danni

della concorrenza. In caso contrario, la condotta di tale impresa sarebbe infatti

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da intendersi irrazionale, perché incompatibile con l'assunto di

massimizzazione dei propri interessi [cfr. Blair, Kaserman 2009, pp. 145 ss.].

A fronte di tale rigidità interpretativa, è stata proposta una lettura

completamente diversa delle attività di imprese coinvolte in pratiche di prezzi

predatori, lettura incentrata sulla ricorrenza di alcuni degli ormai ben noti

errori interpretativi delle proprie condotte da parte dell'agente messi in

evidenza dall'economia comportamentale [Tor 2003, pp. 52 ss.]. Nello

specifico, rileverebbero le euristiche della rappresentatività e della

disponibilità di scenario [supra, §4.2.1.], per cui l'impresa predatrice – o

meglio, il soggetto che all'interno di questa assuma la decisione di adottare

prezzi predatori – ben potrebbe aver intrapreso strategie in perdita a causa di

un’erronea prospettazione dei relativi rischi.

Interessante, inoltre, è la considerazione secondo cui, una volta

intrapresa la strategia predatoria, questa potrebbe essere mantenuta per una

sorta d'inerzia della decisione iniziale, dovuta a una percezione dei «Sunk

Costs» [supra, §4.3.1.] divergente rispetto alle prescrizioni della teoria

standard. Infatti, a differenza dell'ipotetico attore razionale della teoria

standard, «il quale ignora i costi affondati e si disinteressa del passato, gli

amministratori d'impresa del mondo reale sono assai più propensi a

mantenere una decisione una volta presa, anche nonostante le sue fioche

prospettive di successo», spesso mostrando una tendenza a puntare al rialzo

quando messi di fronte a perdite» [Tor 2003, p. 55]. Un’applicazione lampante,

a ben vedere, di alcuni capisaldi dell’economia comportamentale, recepita

anche in trattazioni più recenti [cfr. Reeves, Stucke 2011, pp. 1551 ss.].

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7.2.3. Analisi economica e comportamentale del diritto: qualche riflessione

La pur breve rassegna appena conclusa di applicazioni ipotetiche di un

approccio «Behavioral» ad alcuni temi cari alla Law and Economics induce a

ritenere come vi siano spazi ampi, e interessanti, per una più diretta

introduzione di nozioni comportamentali nella prassi giuridica. Il citato caso

dei prezzi predatori, nell'ambito della disciplina Antitrust, appare

effettivamente significativo dei «revirements» anche profondi che simile

introduzione potrebbe determinare, mutando interpretazioni radicate e le

conseguenti, consolidate applicazioni.

Una «analisi comportamentale del diritto», inoltre, si mostra portatrice

di un contributo significativo allo scioglimento di una serie di rigidità

concettuali che l'analisi economica del diritto, in ragione di come si sono

sviluppati i suoi studi e stabilite le interpretazioni più canoniche, si porta

dietro, secondo quanto si è già avuto modo di verificare nel caso specifico del

teorema di Coase.

Al riguardo, chi scrive ritiene che ogni allargamento delle conoscenze

impiegate per la considerazione degli elementi comportamentali di volta in

volta rilevanti vada senz'altro sostenuto, in quanto rappresenti un

avanzamento verso pratiche giuridiche meno dogmatiche e – secondo

l'accezione dinamica di aggiustamento dei livelli di aspirazione alla realtà

introdotta da Simon – più «soddisfacenti», in linea del resto con il processo

gnoseologico già vissuto dal pensiero economico contemporaneo [supra, §4.].

E tuttavia, nessuna delle due tesi in discorso pare rendere appieno

l'avanzamento appena auspicato. Già l'aggettivazione prescelta, infatti, offre

una visione limitatrice quanto a struttura, azione e funzione del diritto,

circoscrivendo allo studio del comportamento osservabile – in aderenza

pedissequa a quanto avvenuto nel filone principale dell'economia

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comportamentale – la ben più ampia multidimensionalità conoscitiva a cui il

pensiero giuridico deve mirare [infra, §9.].

In ogni caso, è propriamente sotto il profilo contenutistico che le

analisi di stampo «Behavioral», in specie quando applicate all'analisi

economica del diritto, mostrano le loro parzialità maggiori. Tali analisi, infatti,

risultano incentrate sugli studi di una ricerca economica che, come sopra

evidenziato, pur avendo consentito di avanzare nella direzione di una più

robusta capacità descrittiva delle condotte, continua a manifestare

significative unilateralità di vedute sotto il profilo delle conoscenze da

impiegare al riguardo, così come delle interpretazioni delle stesse. Si pensi,

per richiamare un caso già indicato e che tornerà nel prosieguo del discorso,

alla considerazione sostanzialmente negativa delle euristiche offerta dal

pensiero comportamentale classico, a suo modo (ancora) aspirante a una

logica normativa di razionalità perfetta [supra, §4.3.]. Tutto ciò, peraltro, viene

ritenuto anche senza prendere in considerazione l'obiezione ancor più

generale circa il fatto che l'analisi viene sempre comunque condotta a partire

da un solo, ben determinato modello economico, quello di mercato, senza

però che tale specializzazione venga mai esplicitata nei termini a tal fine

impiegati [per una suggestiva revisione della Law and Economics in termini

di «Law and Market Economy», cfr. Malloy 2000, pp. 2 ss.].

In sintesi, e con riserva di tornare sull'argomento, sulla base delle

valutazioni sin qui accumulate si ritiene dunque che, per proseguire sul

cammino dei guadagni di capacità comprensiva delle condotte ottenuti

dall'analisi economica del diritto, le analisi comportamentali vadano

aggiornate in chiave cognitiva, tenendo cioè conto delle numerose linee di

ricerca ormai esistenti oltre a quelle dell'economia comportamentale

standard, in primo luogo quelle di marca evoluzionistica e neuroscientifica

che abbiamo già avuto modo di delineare in precedenza [supra, §6.].

Ancora una notazione va dedicata, infine, alla neutralità e rilevanza

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normativa contemporaneamente sostenute quale peculiarità della nuova

analisi comportamentale del diritto [cfr. Tor 2008, p. 314]. Al proposito, chi

scrive ritiene che una simile pretesa sia insostenibile. Un comportamento,

infatti, di per sé è muto, e, allo stesso modo di una norma giuridica, parla solo

quando interrogato da un interprete, il quale per sua natura e cultura risulta

essere portatore di determinati valori, indipendentemente dal fatto che ne sia

o meno consapevole [cfr. Sacco 2007, pp. 205 ss.]. In questa prospettiva, e in

aderenza alle autorevoli avvertenze già riportate rispetto alla necessità di

mantenere sempre la consapevolezza delle valutazioni che orientano teorie e

pratiche [supra, §2.5.], si ritiene che un'analisi interpretativa – sia essa

comportamentale, economica o di qualsiasi altro tipo – non possa mai

risultare neutrale. Proprio chi ha proposto la nuova analisi comportamentale

del diritto, peraltro, non può far altro che adombrare l'esistenza di «altri

approcci legali di tipo normativo» [Tor 2008, p. 314] per definire un qualche

indirizzo operativo al fare giuridico soggetto a tale analisi, con il che la

questione dell'effettiva autonomia normativa della stessa rimane irrisolta.

Nel lasciare alla filosofia del diritto maggiori rovelli e più

approfondite discussioni al proposito, ma convinti di aver rappresentato a

sufficienza – quantomeno ai fini della presente dissertazione – tanto i meriti

quanto i limiti conoscitivi degli studi comportamentali qui sopra richiamati,

nel tenerli debitamente a mente riteniamo di poter ora dedicarci, finalmente, a

tentare di tracciare una nozione di diritto improntata in senso compiutamente

cognitivo, nel solco già segnato dagli sviluppi del più recente pensiero

economico.

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8. Diritto cognitivo

Nei capitoli precedenti abbiamo tentato di ripercorrere il cammino che ha

condotto il pensiero economico degli ultimi decenni ad allontanarsi

progressivamente delle ristrettezze concettuali dell'impostazione assiomatica

previgente per rilassare, con l'economia comportamentale, una serie di

assunti, fino a giungere a una vera e propria ridefinizione del proprio statuto

epistemologico in senso cognitivo.

Secondo quanto sopra considerato, tale processo è avvenuto con il

concentrare gli studi sui comportamenti reali degli agenti, e, quindi, nel fare

ricorso a un novero di nuove conoscenze che, da ultimo, stanno consentendo

una verifica «dall'interno» degli stati soggettivi connessi all'assunzione dei

comportamenti. La nozione di «economia cognitiva», ormai entrata in uso

corrente nel lessico degli studiosi, intende propriamente indicare l'inedita

potenza conoscitiva raggiunta da un pensiero economico orientato allo studio

dei comportamenti degli attori economici attraverso la combinazione di

nozioni tratte da una pluralità di discipline appartenenti alle scienze

cognitive, sulla base di un più generale approccio di tipo sperimentale alla

ricerca [supra, §6.].

Per altro verso, grazie all'esperienza dell'analisi economica il diritto ha

vissuto una felice forzatura delle proprie impostazioni disciplinari più

tradizionali, prendendo così progressivamente contezza dell'importanza di

un approccio meno dogmatico alla considerazione delle condotte aventi

rilevanza giuridica. In linea con quanto avvenuto per l'economia, pare

dunque giunto finalmente il tempo che anche il diritto si avvii a connotarsi in

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maniera autenticamente cognitiva: di fatto, ciò che più accomuna le due

discipline nel contesto delle scienze sociali è proprio il riferimento a una

teoria (e conseguenti modelli) dell'agente, alla luce delle sue capacità

cognitive. In questo senso, come è già stato da altri rilevato, «il diritto è il

punto di arrivo e di partenza di processi cognitivi. Si può concepire il diritto

come un insieme di informazioni; gli studi giuridici ruotano, in fondo,

intorno alle modalità con cui gli esseri umani elaborano, condividono,

utilizzano queste informazioni» [Caterina 2008, p. 1], di modo che il ricorso

alle migliori conoscenze disponibili per comprendere tali attività –

conoscenze che, come già visto, sono insieme la base e l'obiettivo delle scienze

cognitive – risulta un'autentica precondizione operativa.

Un ripensamento del diritto di tale portata rappresenta una

responsabilità speciale in primo luogo dei teorici, e, quindi, dei pratici del

diritto, chiamati entrambi a misurarsi con cambiamenti anche radicali delle

proprie abitudini di pensiero rispetto al diritto in teoria e alla legge in azione.

In questo senso, riteniamo che l'impostazione terminologica iniziale svolga un

ruolo importante d'indirizzo concettuale, in linea con quanto del resto già

considerato a proposito della controversia definitoria vissuta in ambito

economico, dove la competizione tra le espressioni «economia cognitiva» e

«neuroeconomia» è ancora in corso [supra, §6.].

In maniera similare alla posizione a suo tempo espressa, dunque,

consideriamo qui necessario prendere esplicita posizione rispetto a una

definizione del diritto orientata, per l'appunto, in senso cognitivo.

L'espressione «neurodiritto», che pure risulta ormai adottata in maniera

diffusa [cfr. Picozza 2011a, pp. 1 ss.], pare infatti comportare rischi di

appiattimento su di una dimensione eccessivamente tecnicistica delle scienze

– e, in particolare, neuroscienze – cognitive, inducendo a collegare le nuove

ricerche al mero impiego di strumentazioni di Imaging biomedico per uno

studio del sistema cerebrale utile alle scienze sociali [in proposito v. pure

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Pietrini, Pellegrini 2010, pp. 841 ss.].

Salva la straordinaria ricchezza di prospettive che le nuove tecniche

offrono, continuiamo a pensare che queste costituiscano una parte soltanto

delle linee di ricerca, e vadano più compiutamente combinate con altre

modalità di ricerca (si pensi a quelle della psicologia sperimentale d'impronta

comportamentale), così come con nozioni di diverso tipo, a seconda dei casi

che il diritto si trovi a considerare in teoria e pratica.

A valle della ricognizione sin qui effettuata, e tenute ferme le

indicazioni nominali appena riportate, ci avviamo ora sulla strada del diritto

cognitivo, a partire dalla considerazione della necessità di una solida

introduzione di studi sperimentali nella scienza giuridica, in linea con il

processo di apertura conoscitiva già osservato nell'economia [supra, §4.1.].

8.1. Esperimenti e diritto

Tenuto conto che negli ordinamenti contemporanei – tipicamente quelli di

«Civil Law», ma, in maniera crescente, anche quelli di Common Law – le

condotte giuridicamente rilevanti vengono disciplinate attraverso lo

strumento normativo, o, comunque, risultano soggette a complessi corpi di

«Black-Letter Law», risulta difficile non concordare con la laconica

considerazione secondo cui il diritto, soprattutto per come si esprime nei

codici, «è uno degli esempi più brillanti di trattato scientifico precausale di

cui disponiamo in tema di teoria del comportamento. (…) Tutto vi è previsto e

incasellato, ma non vi è nulla che nasca da una sperimentazione empirica»

[l'affermazione è di uno psicologo, Felice Perussia, citato da Bona 2010, p. 87].

La vicenda della codificazione giuridica costituisce uno snodo

fondamentale nella storia culturale dell'Occidente, e, quel che maggiormente

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importa per quella relazione funzionale tra sfera assiologica e pratica che

rappresenta la direttrice più profonda del diritto, ha avuto conseguenze

operative di straordinaria portata nel suo veicolare una rappresentazione

«mitologica» dell'ordinamento dove la legge si concreta «più in un atto di

volontà che di conoscenza» [così Grossi 2001, p. 5]. Al riguardo, messa per il

momento da parte la considerazione per cui l'approccio cognitivo qui

proposto presenta slanci propositivi e – riteniamo – felicemente revisionistici

rispetto alla visione intimamente autoritaria della legge appena richiamata,

viene da puntualizzare come, a valle del momento statutorio, perlomeno in

quello giurisdizionale gli ordinamenti giuridici siano in realtà da sempre usi

agli esperimenti; li hanno, però, svolti in una maniera piuttosto distante da

quanto ogni opportuno criterio epistemologico raccomanderebbe.

Tali esperimenti, infatti, da sempre sono stati realizzati nella pratica

del diritto, in primo luogo attraverso un'attività giudiziaria a proposito della

quale si può ben parlare d'impiego sistematico delle parti in causa come

cavie. Per altro verso, non sembra azzardato considerare come ogni attività di

tipo normativo-regolamentare rappresenti un esperimento sociale, condotto

su scala più o meno vasta a seconda dei casi e sulla base di assunti ideologici,

prima ancora che assiologici, circa il modo in cui gli uomini destinatari delle

disposizioni dovrebbero comportarsi: assunti, viene da rimarcare,

generalmente adottati senza considerare conoscenze recuperabili da altre

discipline o ambiti di ricerca in relazione al tema rilevante. Neppure, a fronte

di tale situazione, consta che a valle delle sperimentazioni così effettuate si sia

mai provveduto a esplicitare chiaramente i modelli di comportamento così

definiti. Il risultato, invero sconfortante, è che d'ordinario si ricomincia ogni

volta da capo, senza stabilire scientemente modelli operativi di sorta.

Vi possono essere, è vero, disposizioni particolari o corpi normativi

circoscritti suscettibili di fornire, a una lettura in trasparenza, indicazioni circa

il prototipo di soggetto agente che l'ordinamento giuridico tiene in conto: si

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pensi, ad esempio, alla disciplina della capacità di agire rinvenibile nelle

diverse legislazioni civili o penali, oppure a dichiarazioni di diritti da cui

siano inferibili il modello di essere umano tenuto in conto dall'ordinamento

giuridico. Quanto ne risulta, nondimeno, è pur sempre un quadro

frammentario e non coordinato, in una perdurante assenza di standard

chiaramente condivisi.

In questo senso, trovano piena conferma le preoccupazioni di

autorevoli commentatori, secondo i quali, dal momento che i modelli

comportamentali sin qui adottati dagli ordinamenti giuridici «sono raramente

espliciti, non coordinati a livello nazionale o locale, apparentemente

disconnessi nei vari ambiti del diritto relativi a quei comportamenti, e, fino ad

ora, non soggetti ad alcuna rigorosa indagine, sarebbe impossibile per noi

concludere che il diritto abbia un modello comportamentale evidente, singolo

e specifico. In realtà, noi pensiamo che sia vero il contrario: i modelli

comportamentali esistenti sono molteplici nel numero, ridondanti nel genere,

poco chiari nella forma e incoerenti nei contenuti» [Jones, Goldsmith 2005, p.

417]. Se questo è, nel diritto, lo stato dell'arte rispetto a definizione di modelli

e impiego di conoscenze al riguardo, non è comunque detto che avanzamenti

in tal senso siano da escludersi, a partire dall’introduzione di studi

empiricamente orientati.

Tentativi di studi empirici del diritto possono rintracciarsi già all'inizio

del Novecento, in specie per opera di studiosi nordamericani riconducibili al

movimento del realismo giuridico. Simili tentativi, tuttavia, erano volti a

sciogliere il diritto dalle sue rigidità pandettistiche con il ricorso a studi quasi

esclusivamente di taglio sociologico [cfr. Friedman, Macaulay 1977, pp. 2 ss.],

senza contemplare la presa in carico di comportamenti in una prospettiva

autenticamente sperimentale, con ciò intendendo ricerche effettuate

attraverso esami di «laboratorio sociale», in maniera simile a quanto già visto

nel caso dell'economia.

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Per le stesse ragioni appena esposte, non si ritiene di dover

considerare particolarmente rappresentative dell'attitudine sperimentale

d'interesse per la presente dissertazione quelle ricerche di tipo statistico-

quantitativo dedicate in maniera primaria ad analisi di sistema (es. in termini

di casi decisi in un determinato ordinamento), che pure possono vantare una

certa tradizione anche prima dell'affermarsi, avvenuto negli ultimi anni, del

movimento più noto come «Empirical Legal Studies» [su cui cfr. Chambliss

2008, pp. 17 ss.]. Ciò non toglie, evidentemente, l'utilità quantomeno

complementare di studi del genere, peraltro riconducibili al nuovo corso, da

qualche tempo individuabile nelle scienze computazionali, caratterizzato da

una capacità e volontà di gestione sempre più ampia di dati e informazioni di

tipo quantitativo [cfr. Cioffi-Revilla 2010, pp. 259 ss.].

Negli ultimi anni, peraltro, hanno preso avvio e si sono delineati

alcuni filoni di studio genuinamente sperimentale del diritto, tra i quali spicca

in primo luogo quello della verifica delle modalità decisionali riscontrabili

nell'operato dei giudici. Vero è che, ancora una volta, quale presupposto di

ricerca vanno ritenute una serie di studi già condotti dall'accademia

economica, in primo luogo quelli in materia di euristiche ed errori di

«soggetti esperti» [su cui v. utilmente Rachlinski, Guthrie 2004, pp. 6 ss.]. e

tuttavia il disegno sperimentale appositamente approntato per l'ambito

giuridico – segnatamente, come già detto, quello giudiziale – consente di

guardare con fiducia al solido definirsi di un autonomo ambito di ricerca.

8.1.1. Àncore (e derive) dei giudici: primi esperimenti

Gli esperimenti sin qui effettuati in materia di comportamenti giudiziali

hanno riscontrato il ricorso sistematico a scorciatoie ed errori cognitivi –

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ovvero le euristiche e i difetti cognitivi già visti nello studio dell'economia

comportamentale [supra, §4.2.] – per così dire ordinari, rinvenibili cioè nella

generalità del consorzio umano, senza una particolare emergenza di strategie

decisionali (sperabilmente più accurate) tipiche della pratica giuridica. Tali

risultati sono emersi dall'effettuazione di test disegnati appositamente per

verificare le modalità decisionali a cui i giudici facciano ricorso nella

decisione di un caso concreto [v. Kysar 2007, pp. 187 ss.].

Al proposito vale segnalare in primo luogo un esperimento, piuttosto

recente e senz’altro tra i più significativi sino ad ora apprestati, realizzato

negli Stati Uniti con il coinvolgimento diretto di un ampio numero di giudici

nella prospettiva di evitare i limiti cognitivi – già noti dalla verifica degli studi

di economia sperimentale – derivanti dal ricorso a soggetti privi di

competenze specifiche e appartenenza istituzionale [cfr. Rachlinski, Guthrie,

Wistrich 2007, pp. 167 ss.]. Più in dettaglio, i soggetti testati sono risultati

essere 113 giudici operanti presso le «Bankrupcy Courts» – che

nell'ordinamento giudiziario statunitense costituiscono, va ricordato, una

giurisdizione speciale – presenti nei diversi distretti giudiziari; si tratta di un

numero elevato in sé e rappresentativo rispetto al totale dei giudici

fallimentari in attività (36%).

I risultati raggiunti dallo studio mostrano la ricorrenza di determinate

euristiche decisionali nella condotta dei giudici, con un'incidenza significativa

sull'esito delle controversie. L'esperimento, più nello specifico, è consistito nel

chiedere alla totalità dei partecipanti di decidere un prospettato caso di

ristrutturazione del debito («Restructured Loan») con lo stabilire un tasso

d'interesse appropriato al rischio di fallimento del soggetto debitore, fatto

salvo il tasso minimo prestabilito per casi del genere dalla Corte Suprema e

pari al 4,5%. A una metà soltanto dei giudici, quindi, è stato fatto presente

come le parti nel contratto originario avessero previsto un tasso

estremamente più elevato, pari al 21%, ancorché tale pattuizione non avesse

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alcun effetto giuridico rispetto alla decisione da adottare. Un'informazione

«irrilevante», dunque, ma che ha comportato un tasso d'interesse stabilito dai

soggetti a conoscenza della stessa sensibilmente più elevato rispetto al gruppo

di controllo costituito dagli altri giudici (7,13% v. 6,33% in media).

Quello che l'esperimento ha evidenziato, di fatto, è l'emergenza di un

effetto di ancoraggio, in linea con le indicazioni della teoria economica

comportamentale [supra, §4.2.1.]: il modo in cui viene prospettato un caso, e,

soprattutto, la presentazione di determinate informazioni, risulta in effetti

significativamente condizionante le facoltà decisionali del giudice. La

conclusione assume rilevanza anche rispetto alla ricorrente tesi della

specializzazione dei giudici quale garanzia di miglior accuratezza decisionale:

tesi che, come gli autori dello studio hanno fatto notare, quantomeno nel caso

dei giudici fallimentari non risulta sperimentalmente confermata. Al

proposito, merita rilevare come anche un altro studio condotto dai medesimi

autori in relazione alle decisioni (e conseguenti difetti cognitivi) adottate da

giudici amministrativi abbia prodotto risultati in linea con le conclusioni

appena esposte [cfr. Guthrie, Rachlinski, Wistrich 2009, pp. 1477 ss.].

Per quanto riguarda esperimenti tentati in un contesto di Civil Law, e

più direttamente in relazione all’ordinamento italiano, allo stato la ricerca di

riferimento è senz’altro quella condotta con il coinvolgimento di 120

professionisti legali (giudici, avvocati, praticanti) in relazione alle modalità di

liquidazione degli assegni di mantenimento per il coniuge e i figli in caso di

separazione [cfr. Bona, Bazzanella 2008, utilmente riassunti da Bona 2010, pp.

167 ss.].

In linea con quanto già emerso nel precitato esperimento statunitense,

nella concreta definizione di una decisione avente rilevanza giuridica i

giudicanti incorrerebbero regolarmente in pesanti effetti di ancoraggio. In un

primo caso, relativo alla liquidazione dell’assegno di mantenimento del

coniuge, l’obiettivo degli sperimentatori di «dimostrare che il ragionamento

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condotto dai giudici può essere sviato sia dal sesso del richiedente, sia dai

dati numerici che compaiono nel quesito» [Bona 2010, p. 168] è stato

senz’altro raggiunto, con la registrazione di differenze significative –

nell’ordine medio di alcune centinaia di euro – a seconda delle diverse

informazioni fornite. Nel secondo caso, relativo alla liquidazione dell’assegno

di mantenimento dei figli, l’esperimento ha confermato che i giudici tendono

mediamente a liquidare importi maggiori a fronte di richieste di partenza più

alte, in sostanza facendosi influenzare dall’entità della domanda. Le

conclusioni al riguardo hanno così tanto evidenziato una ricorrenza di errori

tipici, quanto richiamato l’attenzione sull’insufficienza di diritto positivo,

elaborazioni giurisprudenziali e dottrinali esistenti nell’indirizzare in una

maniera auspicabilmente uniforme e sufficientemente prevedibile i soggetti

decisori [Bona 2010, p. 171].

8.1.2. Cornici di prezzo e tutela dei consumatori

Nel lasciare il contesto giurisdizionale, proprio degli esperimenti appena

citati, per passare a considerare ricerche promettenti rispetto a prospettive più

dichiaratamente statutorie, riteniamo che un esempio efficace sia costituito

dall'impatto degli studi sperimentali in materia di comportamento dei

consumatori sulla relativa normativa di tutela.

Come noto, nei più diversi ordinamenti è cresciuto intorno a tale

tutela un dispositivo di leggi e regolamenti particolarmente rilevante; con

riferimento all'Unione Europea, il riferimento d'obbligo è alla «direttiva

2005/29/CE» (in Italia recepita dal «decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 146»),

un dispositivo che pare (tra l’altro) offrire significativa conferma della sopra

lamentata mancanza di fondamenti empirici all'azione normativa, dal

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momento che, a sostegno delle proprie disposizioni, non richiama in alcun

modo basi sperimentali di sorta (una deficienza, viene da aggiungere ancora,

sostanzialmente replicata anche in sede applicativa da parte degli agenti

competenti, siano essi giudici o autorità specializzate).

A conferma di quanto, da un lato, la tutela dei consumatori

rappresenti un veicolo privilegiato della dimensione dispositivo-

regolamentare del diritto in tutti gli ordinamenti e, dall'altro, possa rilevare la

considerazione di opportuni «presupposti empirici controllati» della

normativa, va nondimeno ricordato il recente caso statunitense del «Dodd-

Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act» (Pub. L. No. 111-203,

H.R. 4173, c.d. «Dodd-Frank Act»). Tale complesso corpo normativo,

approvato nel luglio 2010, introduce una specifica disciplina a tutela dei

consumatori di prodotti finanziari (cfr. il titolo X, denominato «Consumer

Financial Protection Act», o «CFPA»), la quale prevede significative

disposizioni relative a garanzie per gli acquirenti sulla base di loro supposte

debolezze nella cognizione delle condizioni contrattuali. Tale elemento, si

ritiene, segnala un marcato avvicinamento all'impostazione consumeristica

europea, oltre a un ulteriore rafforzamento della dimensione statutaria del

diritto in un contesto tipicamente di Common Law. Se poi, anche nel caso

statunitense appena citato, non è stato fatto esplicito riferimento a fondamenti

empirici di sorta per sostenere la definizione delle nuove misure, rilevanti

prospettive sperimentali si delineano quantomeno nell'applicazione in

concreto delle disposizioni, tenuto conto degli studi e ricerche che il «Bureau

of Consumer Financial Protection», appositamente istituito per l'applicazione

delle nuove disposizioni, viene espressamente chiamato a condurre [v.

Hackett, Bishop 2010, pp. 2 ss.].

In generale, il comportamento dei consumatori costituisce da tempo

un privilegiato ambito di ricerca dell'economia comportamentale [supra,

§4.3.1.], e cospicua è la mole di osservazioni raccolte. Quel che è ancora più

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interessante, i test sperimentali promettono di essere particolarmente

affidabili al riguardo. Infatti, a differenza di quanto avviene per una pluralità

di condotte riconducibili a determinate tipologie di soggetti (es. giudici o

imprenditori), che, quando poste in essere da soggetti non qualificati per

essere testate possono risultare poco attendibili, nel caso degli esperimenti

condotti relativamente al comportamento dei consumatori tali limiti non

sussistono. Nel contesto delle attuali società di mercato, in effetti, qualsiasi

soggetto è un consumatore [cfr. Dalli, Romani 2004, p. 7], e, come tale, può

essere impiegato in maniera perfettamente rappresentativa nello svolgimento

di test relativi a condotte di consumo. Un recente studio commissionato dallo

«Office of Fair Trading» («OFT»), autorità deputata alla tutela dei

consumatori e della concorrenza nel Regno Unito, offre un ottimo esempio di

quanto si viene dicendo e, per la qualità con cui è stato disegnato e condotto,

si candida a divenire un modello di riferimento nel suo genere.

Lo studio si è concentrato sull'impatto delle modalità di presentazione

dei prezzi rispetto alle decisioni di consumo degli individui, con questo

rappresentando un perfetto esempio di applicazione della teoria dei prospetti

e degli effetti di incorniciamento elaborate dall'economia comportamentale

[supra, §4.2.2.]. Realizzata con il coinvolgimento di 166 soggetti (studenti

universitari pagati allo scopo), la ricerca è consistita di ben 4,895 osservazioni

di decisioni di acquisto operate attraverso un software appositamente

predisposto e successivamente rielaborate, in maniera sia quantitativa che

qualitativa, dagli estensori dello studio [OFT 2010, pp. 36 ss.].

Più in particolare, l'ingegnoso disegno dell'esperimento ha consentito

di isolare gli effetti di cinque diverse cornici di prezzo («Price Frames») sulle

condotte e, quindi, confrontarne gli esiti in termini di pregiudizio economico

ai consumatori, rispetto alle condotte collegate a un modello in chiaro di

prezzi per unità di beni acquistabili («Baseline Treatment»). Al riguardo, va

segnalato come per beni, nel tentativo d'individuare un'entità il più possibile

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neutrale per evitare il «rumore» di preferenze individuali poco controllabili,

siano stati adottati dei colori presentati in vendita a rotazione. Ancora,

nell'esperimento sono stati tenuti in conto sia i costi di ricerca e confronto dei

prezzi («Search Costs»), che i possibili processi di apprendimento dovuti alla

ripetizione delle decisioni di consumo [OFT 2010, pp. 36 ss.].

Nel rinviare per maggiori dettagli alla corposa pubblicazione

realizzata a valle dell'esperimento (comprensiva, tra l'altro, di ampio

materiale di contorno, utile per realizzare ulteriori test del genere secondo

standard condivisi), qui è sufficiente ricordare come le cornici di prezzo

studiate siano state le seguenti: (1) offerte a tempo limitato («Time-Limited

Offers»); (2) prezzi-esca («Baiting»); (3) prezzi complessi («Complex Pricing»);

(4) cornice di vendita («Sales Frame»); (5) prezzi progressivi («Drip Pricing»).

Alcuni chiarimenti terminologici ed esempi sono in materia opportuni.

Nel caso delle offerte a tempo limitato, il prezzo è stato comunicato ai

soggetti esaminati con l'avvertenza della sua validità limitatamente a un

determinato periodo («1 euro solo per oggi»). I prezzi-esca, dal canto loro,

veicolano il messaggio di una quantità limitata di prodotti disponibili («1

euro fino a esaurimento scorte»), mentre i prezzi complessi corrispondono a

quelli di acquisti multipli di prodotti in offerta («3 per 2»). quanto alla cornice

di vendita, essa consiste nella comunicazione di una variazione di prezzo

(«ieri era 2 euro, oggi 1 euro»). Con riguardo ai prezzi progressivi, infine, il

prezzo di un bene viene percepito dal consumatore per scaglioni, a partire da

un ammontare relativamente basso e la successiva aggiunta di voci di costo: è

il caso, tipicamente, dell'acquisto on-line di biglietti aerei, dove al prezzo di

partenza vanno sommati una serie più o meno ampia di voci di costo ulteriori

(tasse aeroportuali, franchigie per bagagli, tariffe per pagamento con carte di

credito, ecc.).

Secondo gli esiti dell'esperimento, il Drip Pricing appena citato

rappresenta di gran lunga la cornice di prezzo più pregiudizievole per i

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consumatori. Questi, una volta selezionata l'offerta di base risultano infatti

poco propensi a disfarsi del bene «messo nel cestino», e ciò anche a fronte di

un aumentare sensibile dei costi. In questo caso, rilevano gli autori dello

studio, si verifica una chiara ricorrenza degli effetti di dotazione e avversione

al rischio tipicamente individuati dall'economia comportamentale [cfr. OFT

2010, pp. 9 e 78].

Sempre sotto il profilo dell'analisi qualitativa dei comportamenti

d'acquisto, i medesimi (pregiudizievoli) effetti comportamentali sono stati

riscontrati in presenza di prezzi-esca. Qui, i soggetti sono indotti ad

acquistare nel primo negozio in cui si trovano, anziché procedere a un

confronto con altre possibilità più convenienti, perché percepiscono in termini

di perdita immediata l'eventualità di acquistare lo stesso bene a un prezzo più

alto nel caso in cui quello offerto alle condizioni pubblicizzate vada esaurito

[cfr. OFT 2010, pp. 10 e 79].

Rispetto alle altre cornici prese in esame, infine, lo studio ha

evidenziato l'emergenza di fallimenti cognitivi («Cognitive Failure») nei

soggetti testati, dovuti all'incapacità di processare in maniera adeguata le

informazioni di prezzo fornite. Nel caso delle offerte a tempo limitato, il

consumatore viene indotto a ritenere che il prezzo aumenterà allo scadere del

termine, ciò che determina comportamenti di acquisto privi di confronto con

altre offerte, di nuovo a vantaggio del primo negozio incontrato. Si tratta di

un'interpretazione errata che, tra l'altro, non viene rivista dal soggetto

neppure in presenza di comportamenti ripetuti: secondo le conclusioni dello

studio, «i consumatori semplicemente non comprendono il reale meccanismo

a causa di credenze ingenue, confusione e ricerca informativa troppo

ristretta» [OFT 2010, p. 79].

Lo studio qui sopra preso in considerazione risulta estremamente

significativo, si ritiene, in quanto costituisce una solida dimostrazione

sperimentale dell'inconsistenza di assunti fondamentali della teoria

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economica standard e, in particolare, della scelta razionale.

I consumatori, in effetti, lungi dall'essere puri «Price Takers»

indifferenti rispetto ai prezzi dei beni, risultano fortemente condizionati dalla

loro presentazione, e, per di più, manifestano un sensibile variare delle

preferenze nel tempo, ciò che, di nuovo, nel contraddire le tesi della teoria

standard conferma la fondatezza di molte delle analisi comportamentali

elaborate dal pensiero economico più recente.

Quando la questione venga inquadrata in una prospettiva giuridica, le

conclusioni riportate risultano foriere di conseguenze applicative rilevanti

nell’ambito della regolamentazione delle pratiche commerciali ingannevoli, e,

in prospettiva, in tutti i settori in cui rilevi con maggior immediatezza la

considerazione di comportamenti «cognitivamente a rischio», per esempio

perché in presenza di forti asimmetrie informative. Al proposito, si rileva di

passaggio come l'esperimento rivesta interesse anche nella prospettiva della

disciplina Antitrust, considerata la centralità delle condotte di prezzo adottate

dalle imprese rispetto a oggetto ed effetti di un gran numero di fattispecie.

Con specifico riferimento al diritto dei consumatori, merita ricordare

come in dottrina sia già stata sollevata la questione della necessaria

distinzione tra i casi in cui una pratica commerciale sia semplicemente idonea

a influenzare le decisioni dei consumatori e quelli in cui li tragga

effettivamente in inganno, concludendo che una decisione al riguardo «non

può passare attraverso le tradizionali teorie normative della razionalità

(giacché, anche in condizioni ideali, i processi reali di presa di decisione non

si conformano ad esse)» [Caterina 2010, p. 228].

Ora, si ritiene che esperimenti come quello sopra riportato rispondano

in maniera convincente a tale legittima preoccupazione, poiché, quando

opportunamente tenuti in conto, consentono di poggiare le disposizioni

relative alla tutela dei consumatori su più solide basi cognitive. Lo studio

citato, va detto, quanto a suggerimenti di politica normativa risulta assai

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misurato, limitandosi ad auspicare che meccanismi di autoregolazione

provvedano ad ovviare alle conseguenze negative delle pratiche commerciali

più insidiose, senza spingersi a proporre l’adozione di più puntuali

disposizioni vincolanti. Nello specifico, «se i consumatori sono disturbati da

determinati cornici di prezzo, c'è spazio per i poteri di autonoma correzione

del mercato. Le imprese potrebbero guadagnarsi una miglior reputazione non

ricorrendo a tali pratiche» [OFT 2010, p.93].

Salvo l'auspicio che ciò avvenga, quando si ragioni in una prospettiva

normativa appare nondimeno chiara la possibilità di adottare apposite

disposizioni al fine di meglio proteggere i consumatori nei casi

sperimentalmente accertati come più gravi. Si è visto, del resto, come tanto in

ambito comunitario quanto nell'ordinamento statunitense normative del

genere siano di frequente e significativa presenza: nella loro introduzione,

dunque, non si tratta che di procedere a un opportuno utilizzo degli studi già

disponibili. Per altro verso, dal punto di vista delle autorità chiamate

all'applicazione di tali disposizioni, risulta chiara l'importanza di ricerche

sperimentali del genere nel modulare la decisione rispetto ai casi di volta in

volta trattati.

8.2. Emozioni, paternalismo, leggi

L'esperimento in materia di Price Framing qui sopra esaminato ha creato

ampio spazio per riflessioni quanto a prospettive sperimentali in ambito

giuridico. Al tempo stesso, alcune almeno delle conclusioni qualitative

raggiunte nello studio offrono il destro per ragionare di una serie di elementi

che, ancora una volta, sembrano essere rimasti poco tematizzati, e,

soprattutto, dipendenti da un'impostazione concettuale discutibile. Il

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riferimento è all'interpretazione di alcuni effetti comportamentali rispetto a

determinate cornici di prezzo in termini di «fallimenti cognitivi», dove tali

fallimenti sono intesi come pure inefficienze, nella strategia operativa del

consumatore, sotto il profilo delle capacità di calcolo.

Nonostante l'opportuna predisposizione di verifiche delle sensazioni

dei soggetti sottoposti a test [cfr. OFT 2010, pp. 81 ss.], inoltre, la ricerca non si

è mostrata particolarmente interessata all'aspetto emotivo sottostante alle

decisioni da parte degli agenti. In questo senso, essa risulta in linea con la

tendenza propria della Behavioral Law and Economics – e, secondo quanto

già accennato [supra, §4.3.], dell'economia comportamentale più in generale –

a registrare una presenza di euristiche decisionali ed errori cognitivi

«pervasiva ma potenzialmente correggibile» [cfr. Abrams, Keren 2010, p.

2019].

I fenomeni citati, insomma, vengono rappresentati esclusivamente in

termini negativi, e non come indici di modalità decisionali alternative a cui il

soggetto ricorra – consapevolmente o meno – nel momento formativo della

propria condotta, anche tenuto conto dell'ambiente in cui si trovi ad agire.

Intese nel secondo modo, le condotte citate aprono invece nuovi scenari

cognitivi, dove è propriamente la presenza contestuale di processi cognitivi e

affettivi [supra, §4.4.1.] elaborati in maniera aggregata dalle diverse

componenti del sistema nervoso [supra, §5.2.1.] a determinare il risultato

finale, visibile, della condotta. Una maggiore considerazione degli aspetti

emotivi rispetto alle strategie decisionali è però riscontrabile in una corrente

di studi che, negli ultimi anni, sta emergendo nelle principali scuole di diritto

del Nord America, dove viene solitamente individuata con la denominazione

di «Law and Psychology», se connotata più sperimentalmente, ovvero «Law

and Emotions» quando caratterizzata da prevalenti interessi filosofici [cfr.

Abrams, Keren 2010, pp. 2003 ss.].

Al netto degli ennesimi binomi offerti da tali studi – una sorta di

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ripetuto segnale nominale, viene da annotare, di un'incompletezza

sostanziale propria del diritto nel gestire in maniera compiuta le condotte

degli agenti –, il loro interesse ai fini della presente dissertazione risiede

nell'aprire il pensiero giuridico a sensibilità cognitive finora inedite e in linea

con le elaborazioni in tal senso già riscontrabili nel pensiero economico più

recente, particolarmente attento alla considerazione degli aspetti emozionali

degli agenti [supra, §4.4.1.]. Nel caso delle ricerche più propriamente

riconducibili alla Law and Psychology, si può in effetti ritenere che le

pressioni culturali esercitate sul perimetro concettuale del diritto siano molto

simili a quelle originariamente impiegate da Tversky e Kahneman per

modificare l'impostazione di pensiero dell'economia: abbiamo visto, nei

capitoli precedenti, quanto l'operazione sia stata fortunata. Più nello specifico,

gli studi di Law and Psychology proseguono lungo la strada indicata

dall’economia comportamentale nell’evidenziare l’esistenza di peculiari

strategie deliberative, registrando la ricorrenza di una serie di «Emotional

Bias» e «Affective Heuristics» che, al di là degli effetti concreti (non

necessariamente negativi), assumono sicuro interesse sotto il profilo di una

più compiuta analisi delle capacità di agire dell’agente in ambito giuridico [v.

Blumenthal 2007, pp. 27 ss.].

In tale ambito, va rilevato, la psicologia del soggetto ha

tradizionalmente trovato una considerazione privilegiata da parte di

psichiatria e psicologia forense: si tratta di discipline, tuttavia, che per loro

natura mostrano una connotazione casistica incentrata sulla dimensione

processuale dell'analisi dei comportamenti, ciò che non consente un

trasferimento delle conoscenze così accumulate sul piano della definizione

normativa delle condotte, in vista cioè di definizioni imperative dalla validità

generale. Applicazioni del genere, al contrario, sono propriamente quelle

perseguite dalle ricerche di Law and Psychology con possibili applicazioni ad

ampio raggio, dal diritto di famiglia a quello dei contratti [cfr. Abrams, Keren

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2010, pp. 2034 ss.]. Da qualche tempo, in effetti, ricorrono studi in tema di

predisposizione da parte dell’ordinamento di apposite disposizioni vincolanti

– tipicamente «Default Rules» rispetto a contratti tra privati, con possibili

declinazioni in termini di «Cooling-off Periods», ovvero termini di recesso

garantiti – quando sia robustamente provata la ricorrenza di determinati stati

emozionali e la manipolabilità degli stessi [v. Camerer et al. 2003, pp. 1238

ss.].

La tutela dei consumatori rappresenta, con ogni evidenza, il candidato

ideale per interventi del genere, posto che in essa le scelte di politica

legislativa e regolazione finiscono per intervenire sul perimetro della capacità

di agire dei soggetti e relative libertà contrattuali: conviene, dunque, che tali

scelte poggino su basi conoscitive quantomai ampie, senz'altro comprensive

anche di quelle derivabili dall'analisi degli stati emozionali dei soggetti. Una

simile strategia legislativa si mostra del resto utilmente speculare, in chiave

difensiva, rispetto alle pratiche di vendita commerciale incentrate sullo

sfruttamento delle debolezze cognitive ed emozionali dei consumatori [cfr.

Dalli, Romani 2004]. In questa prospettiva, per quanto al momento non siano

ancora disponibili più concreti dati di analisi, il nuovo orizzonte

consumeristico statunitense delineato dal precitato CPFA costituisce un

elemento di assoluto interesse per la sua apertura a verifiche sperimentali

delle condotte rilevanti, di cui sarà bene seguire la concretizzazione. Ancora

una volta, poi, lo studio dell’OFT sopra riportato va inteso come un

precedente importante nello svolgimento di esperimenti di controllo,

ancorché privo di immediate ricadute regolamentari.

Nell’ambito del discorso sin qui condotto a proposito dell’adozione di

determinate disposizioni che, sulla base delle migliori conoscenze degli stati

cognitivi, tutelino i consumatori, si coglie pure l’occasione per una breve

considerazione della questione del c.d. «paternalismo giuridico».

Ora, si ritiene che la discussione sul tema – ormai annosa e di volta in

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volta caratterizzata dall’effimera prevalenza di aggettivazioni a effetto,

l’ultima e più nota delle quali indirizza a un «paternalismo libertario» [v.

Sunstein, Thaler 2009] – non abbia prodotto risultati di particolare merito, e,

soprattutto, non sia stata in grado di trascendere alcune caratteristiche

proprie dell’ambiente di Common Law in cui è originata. In breve, la

questione verte sulla legittimità d’azione di un decisore pubblico che adotti

regole giuridiche in grado di indirizzare i soggetti verso determinate

decisioni, così proteggendoli dalle personali predisposizioni (es. in ragione di

euristiche ed errori cognitivi standard) a cadere in fallo [v. da ultimo Maniaci

2011, pp. 133 ss.].

Al riguardo, merita per prima cosa tenere a mente che «un approccio

consapevole dei limiti cognitivi umani non può condurre, coerentemente, a

riporre una fiducia cieca nella capacità di un decisore pubblico paternalista di

governare la complessità del reale. La razionalità olimpica non manca solo al

privato cittadino che deve decidere per sé, ma anche al politico, al giudice, al

medico che vogliono decidere al suo posto» [Caterina 2008, p. 4], col il che

trova ulteriore conforto la tesi che maggiori sperimentazioni possano

senz’altro aiutare il decisore di turno nell’adozione di una migliore

regolazione. Per altro verso, occorre sempre mantenere ben chiaro il

riferimento a principi e disposizioni costituzionali che, perlomeno nel nostro

ordinamento, illuminano anche con relativa puntualità le scelte di tipo

normativo.

E infatti, la carta costituzionale, nel delineare il contesto democratico

della supervisione e disposizione delle condotte soggettive da parte degli

agenti istituzionali di volta in volta competenti, rappresenta l'orizzonte

operativo più proprio del diritto [cfr. di nuovo Maniaci 2011, p. 135] senza che

sia necessario rimandare a un «paternalismo» di fondo per giustificare

l’adozione di determinate disposizioni di tutela. Allo Stato legislatore,

insomma, si chiede che sia costituzionalmente orientato rispetto alla miglior

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tutela dei suoi cittadini, e non paternamente accondiscendente verso

debolezze di sudditi: il che, va da sé, non vuol certo dire che lo stesso

legislatore non debba fare ricorso alle migliori conoscenze disponibili circa le

modalità cognitive e decisionali dei destinatari delle proprie disposizioni.

8.3. Neuroscienze e diritto

La sezione precedente, al netto delle ultime considerazioni in tema di

paternalismo giuridico, nel suo puntare il faro sugli stati interni dei soggetti

induce ora ad avanzare ulteriormente il discorso giuridico, sulla falsariga di

quanto già verificato nello sviluppo di un’economia cognitiva, nella direzione

delle opportunità (e relative nuove difficoltà) emergenti dal campo delle

neuroscienze cognitive. Al proposito, del resto, e a scanso di ogni residua

timidezza, si può citare la fiduciosa osservazione di un commentatore

secondo cui «la questione non è se le neuroscienze cognitive cambieranno il

diritto, ma se debbano cambiarlo adesso» [Moreno 2009, p. 734].

Tale affermazione, nel suo presupporre che l’impatto delle recenti

acquisizioni neurocognitive (e più specificamente neuroscientifiche) sul

diritto sia solo una questione di tempi più o meno brevi di assimilazione,

rappresenta con buona approssimazione il tenore del dibattito attualmente in

corso nella comunità scientifica internazionale. Si tratta di un dibattito che,

per quanto assai recente, risulta saldamente stabilito a livello accademico,

anche grazie a rilevanti programmi di ricerca appositamente dedicati.

Negli Stati Uniti, senz'altro il paese dove la ricerca in materia è più

avanzata, si distingue in tal senso – all'insegna di un ennesimo binomio,

quello di «Law and Neuroscience» – un ambizioso progetto interdisciplinare

sostenuto da una fondazione privata [v. MacArthur Foundation 2012]. Il

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terreno, peraltro, era già stato preparato da similari, per quanto minori,

iniziative precedenti, e più in generale dalla sensibilità per temi a cavallo tra il

diritto e la biologia coltivata sin dagli anni settanta del Novecento da enti e

istituti di ricerca [cfr. Jones, Goldsmith 2005, p. 409]. Per quanto riguarda

l'Italia, conforta rilevare come l’attenzione al tema sia elevata [per una

rassegna generale v. Picozza 2011a] e anche nella pratica siano già registrabili

casi significativi di applicazione di conoscenze provenienti dalle neuroscienze

cognitive [infra, §8.3.2.].

Ancora una volta, in ogni caso, la localizzazione oltreoceano delle

maggiori esperienze di ricerca ha avuto una significativa importanza

nell’impostazione della discussione. Se, infatti, si passano in rassegna i

principali lavori di ricerca, l’impronta della mentalità giurisprudenziale di

Common Law appare evidente, posto che gli sforzi degli studiosi si sono

concentrati in primo luogo sugli sviluppi e i rischi attesi dall’introduzione

nelle dinamiche processuali di area nordamericana delle tecnologie

biometriche sviluppate nell’ambito delle neuroscienze, segnatamente rispetto

agli accertamenti probatori della capacità d'intendere e volere degli imputati

in procedimenti penali.

Salva la rassegna e le considerazioni che tra breve faremo seguire sul

tema, si può comunque segnalare come in alcuni recenti contributi si possano

riscontrare sia ricostruzioni teoriche che individuazioni di prospettive

applicative più ampie, e meglio definite, rispetto al passato. In tale processo

di selezione degli orizzonti di ricerca in materia di rapporti tra diritto e

neuroscienze è stata proposta, tra l'altro, una tripartizione delle ricerche che si

ritiene utile per meglio definire e indirizzare i termini del discorso. La

distinzione, nello specifico, viene fatta intercorrere tra: (1) applicazioni del

diritto alle neuroscienze; (2) studi relativi a cognizione e comportamento

soggettivo d'interesse per il diritto; (3) studi relativi al «diritto in sé» [cfr.

Goodenough, Tucker 2010, p. 67].

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Vediamo di considerare più da presso le linee tematiche appena

riportate, mantenendone l'ordine di esposizione.

8.3.1. Il diritto delle ricerche neuroscientifiche

Le ricerche neuroscientifiche, come del resto ogni altro tipo d'indagine

scientifica coinvolgente esseri viventi, necessitano di una regolamentazione

puntuale e accurata, in primo luogo per quanto riguarda il consenso

volontario e informato da parte dei soggetti nel sottoporsi a sperimentazioni e

test. In questo senso, viene da aggiungere, più che un autonomo ambito di

studio il diritto delle ricerche neuroscientifiche rappresenta un necessario

preambolo operativo, con molte parti in comune ad altre specialità della

scienza in vista della doverosa tutela di vari diritti dei soggetti coinvolti negli

esperimenti [supra, §4.1.].

Con riferimento alle indagini neuroscientifiche, peraltro, va rilevato

come esse risultino profondamente invasive rispetto alle attività cognitive

individuali. Un caso esemplare è rappresentato dalle recenti ricerche

ricorrenti alla stimolazione magnetica transcraniale, dove determinate attività

cerebrali vengono temporaneamente disattivate a mezzo di campi magnetici

pulsati su alcune aree del cervello; avvertenze similari valgono anche per

l'impiego di tecniche ormai standard come EEG, PET, fMRI, o possibili ibridi

[supra, §5.2.2.].

Al proposito, merita rilevare come, alla luce dei fondamentali principi

di tutela della libertà e salute individuale – nel caso dell'ordinamento italiano

sostenuti dagli articoli 13 e 32 della Costituzione – la rilevanza della questione

sia indubbia, ma, in linea con quanto già accennato, non contenga profili di

particolare novità rispetto alla situazione corrente per le sperimentazioni

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medico-farmacologiche e i relativi obblighi di consenso informato. Neppure,

viene da aggiungere, s'intravedono peculiarità di sorta rispetto alla disciplina

della protezione dei dati personali, per la quale si continuerà a fare

riferimento alla disciplina settoriale in vigore nelle diverse giurisdizioni.

Pare pertanto ragionevole concludere che, fatta salva l'ordinaria

necessità di approntare le migliori garanzie giuridiche rilevanti in materia di

tutela dei diritti individuali nel corso delle sperimentazioni, la questione dei

possibili rapporti tra diritto e neuroscienze cognitive non connoti in termini

particolarmente innovativi il discorso teorico a esso collegabile: medesime

conclusioni, del resto, sono state già da tempo raggiunte dalla dottrina

nordamericana [cfr. Goodenough, Tucker 2010, pp. 67 ss., e bibliografia ivi

riportata].

Ben diversa risulta, invece, la rilevanza della seconda e terza linea di

ricerca, dal momento che precisamente lungo queste, si ritiene, scorre il

nuovo corso cognitivo del pensiero giuridico.

8.3.2. Stati soggettivi e prove neuroscientifiche

Il discorso relativo agli studi neuroscientifici in tema di cognizione e condotta

soggettiva d'interesse per il diritto presenta immediate connessioni con la

trattazione sopra effettuata degli aspetti comportamentali sollevati dalla

Behavioral Economics, e, poi, sviluppati nelle più recenti ricerche

dell'economia cognitiva [supra, §6.].

Si tratta di una questione che riveste un'importanza fondamentale

lungo tutto l'arco teorico e pratico del diritto, dal versante civile a quello

penale. In ogni questione sottoposta all'attenzione del sistema giuridico,

infatti, quanto rileva per una corretta interpretazione e decisione del caso di

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specie sono pur sempre l'accertamento delle capacità giuridiche e di agire dei

soggetti di volta in volta rilevanti [sulla questione cfr. da ultimo Picozza

2011b, pp. 103 ss.], e, quindi, la considerazione di determinati stati soggettivi

rispetto alle condotte in oggetto [infra, §8.3.3.].

Con specifico riferimento al diritto civile, prospettive applicative di

tecniche e nozioni neurocognitive s'intravedono in primo luogo in tema di

modalità probatorie delle condotte aventi conseguenze giuridicamente

rilevanti sotto il profilo della responsabilità civile extracontrattuale, sia tale

responsabilità apprezzata in termini di «Torts», secondo i modelli di Common

Law, ovvero nella prospettiva aquiliana propria del Civil Law continentale.

Rispetto al primo caso è da segnalarsi un recente contributo dottrinale di

scuola nordamericana, volto a sostenere con convinzione l'utilità delle nuove

tecniche di Imaging biomedico – quando opportunamente impiegate e

conosciute – per l'apprezzamento di stati mentali dell'agente che siano

rilevanti rispetto a quei profili di «Intent» e «Negligence», tipicamente

oggetto delle più fiere controversie probatorie nelle aule di tribunale [v.

Eggen, Laury 2011, pp. 62 ss.]. Salva l'utilità ricostruttiva di numerosi profili

processuali tipici dell'ordinamento statunitense propria del contributo

appena citato, in particolare per quanto riguarda gli standard probatori

vigenti e la (auspicata) compatibilità con gli stessi dei referti prodotti a mezzo

di fMRI e tecnologie similari, non risultano tuttavia casi giurisprudenziali già

deducibili in discorso: non si può, dunque, che restare in attesa di poter

verificare profili di maggior concretezza al riguardo.

A fianco dell'ambito della responsabilità extracontrattuale appena

accennato va considerato poi come anche l'accertamento e prova di vizi nella

volontà di atti negoziali – ad esempio per quanto riguarda la determinazione

della natura dell'errore – ben si prestino all'introduzione di un approccio

cognitivo; quanto già annotato in materia di esperimenti relativi a

comportamenti dei consumatori [supra, §8.1.2.] torna qui di conforto,

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segnalando ampie prospettive rispetto alla predisposizione di opportune

tutele e garanzie che, vale ripeterlo, lungi dal manifestare istanze

paternalistiche da parte del legislatore di turno, connettano le dinamiche

contrattuali al rispetto di valori di fondo costituzionalmente orientati, e,

insieme, a una migliore conoscenza delle modalità cognitivo-decisionali degli

agenti.

Tanto considerato sul piano teorico, rispetto ai rapporti nella pratica

già intercorrenti tra diritto civile e nozioni derivabili dalle neuroscienze

cognitive va preso atto di come, allo stato, la giurisprudenza civile risulti

(ancora) sostanzialmente limitata all'accertamento di danni cerebrali, a mezzo

di tecniche di Imaging biomedico, occorsi alla parte lesa [per quanto riguarda

l'ordinamento italiano v. al riguardo Bianchi, Pezzuolo 2009, pp. 261 ss.]. Si

tratta di casi che, nel concentrarsi sul soggetto passivo dell'illecito civile,

mostrano senz'altro l'utilità pratica dei nuovi dispositivi tecnologici

tipicamente impiegati dalle ricerche delle neuroscienze cognitive, ma non

sollevano la questione delle possibili correlazioni tra capacità cognitive e

responsabilità personale nel soggetto attivo, ovvero l'orizzonte sicuramente di

maggior complessità e interesse per quanto riguarda i rapporti tra diritto e

scienze cognitive.

Ciò è esattamente quanto avviene, invece, sul versante penale, dove, a

una serie sempre più ampia di casi decisi (anche) sulla base di evidenze

neuroscientifiche relative al soggetto indagato o imputato, si accompagna una

produzione dottrinale crescente, spesso preoccupata di segnalare i rischi che

un'adozione troppo affrettata di tecniche e cognizioni neuroscientifiche

comporta sui delicati equilibri giuridico-sociali propri delle nozioni di

responsabilità individuale e sanzione [cfr. Erickson 2010, pp. 76 ss.].

Tenuto conto della rilevanza dell'argomento, così come degli sviluppi

dottrinali e applicativi costantemente in corso al proposito, anche nella

prospettiva di un impiego di tali elementi nell'ambito sopra richiamato della

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responsabilità civile rispetto al soggetto agente si ritiene utile svolgere

un'analisi più ravvicinata di alcuni casi tratti dal diritto penale.

Si è già più volte fatto cenno, in precedenza, a quanto il contesto di

Common Law in cui hanno preso avvio e si sono maggiormente stabilite le

ricerche relative a rapporti tra diritto e neuroscienze cognitive abbia

determinato una coloritura «judiciary oriented» ai contributi in materia. Mai

come in relazione ai rapporti tra tecniche e conoscenze neuroscientifiche con

il diritto penale tale coloritura risulta più intensa, considerata l'importanza

nel processo della prova degli stati cognitivi e decisionali dei soggetti dedotti

in giudizio e, più in generale, dell'impatto di tale prova sul convincimento dei

giudici o dei componenti di giuria chiamati a decidere il caso.

Al proposito, vale ricordare come l’impiego di risultati da esami clinici

o il ricorso a perizie psichiatriche – ciò che più in generale, insomma, rientra

nel novero degli accertamenti tecnici – sia da tempo pratica ampiamente

diffusa nei tribunali di tutto il mondo e, nel recepire di volta in volta le

progressive innovazioni provenienti dalle diverse specialità mediche rilevanti,

abbia contribuito in maniera significativa a migliorare i termini

d'affermazione della verità processuale. Si potrebbe dunque pensare di poter

agevolmente ricondurre gli accertamenti ottenibili dalle varie EEG, PET, fMRI

e simili in tale alveo probatorio, secondo una prospettiva «incrementale»

priva di particolari problemi. Tuttavia, come l’esperienza storica più in

generale insegna, l’introduzione di nuove tecniche può portare a mutamenti

cognitivi anche di grande portata, mutamenti che è importante indirizzare

correttamente sin dal loro principio per evitare pericolose distorsioni

concettuali o applicazioni scorrette. Pare questo, propriamente, il caso delle

neuroscienze cognitive e dei loro avanzamenti tecnologici.

A dimostrazione di quanto appena rilevato, si può richiamare

l'impatto che, secondo alcuni qualificati commentatori, le evidenze di tipo

neuropsicologico prodotte in qualità di «amici curiae» da numerose

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associazioni mediche avrebbe avuto sul convincimento dei giudici della Corte

Suprema degli Stati Uniti nell'adozione di una sentenza particolarmente

significativa. Con la sentenza in questione, relativa al caso «Roper v.

Simmons», è stata infatti esclusa l’applicabilità della pena di morte ai minori

di anni diciotto [v. Supreme Court of the United States 2005]. Al proposito, le

evidenze neuroscientifiche prodotte sarebbero state concordi nel dimostrare

una serie di peculiarità di carattere cerebrale riscontrabili nei minorenni, con

la possibilità d'inferire correlazioni tra le stesse e condotte devianti, tali da

indurre i giudici della Corte Suprema a rivedere le previgenti disposizioni

sanzionatorie [cfr. Mobbs et al. 2007, p. 698].

Per altro verso, merita attenzione un procedimento penale svoltosi in

India, di fronte al Tribunale di Pune nello stato del Maharashtra e conclusosi

con una condanna per omicidio decisa sulla base di una serie di accertamenti,

tra cui un esame dell'imputata a mezzo di una tecnica di «Brain

Fingerprinting» denominata «Brain Electrical Oscillations Signature», o

«BEOS Test». In sintesi, si tratta di una variazione del già noto EEG, tecnica a

cui l'imputata è stata sottoposta per registrarne le reazioni cerebrali di tipo

elettrico rispetto alla lettura del resoconto dell’omicidio in fase

d'interrogatorio [cfr. Court of Pune 2008, pp. 56 ss.]. La decisione citata ha

sollevato non poche perplessità in termini di affidabilità probatoria [cfr.

Moreno 2009, p. 723]. Al proposito, salva l'ovvia necessità di ricorrere alle

migliori tecniche disponibili in sede di accertamento probatorio, viene

nondimeno da considerare come nelle corti statunitensi, da diversi anni

ormai, sia sempre più frequente la produzione di immagini di «Brain

Scanning» quale elemento di prova rispetto alla capacità di agire di un

individuo [v. Goodenough, Tucker 2010, pp. 70 ss.], con parallelo fiorire di

un'industria appositamente dedicata allo sviluppo e messa in commercio di

strumentazioni di «Forensic Brain Imaging». La sentenza indiana, dunque,

non si mostra in tal senso più sorprendente o eterodossa di tanto, posto che la

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152

sua particolarità sembra piuttosto essere risieduta nella tecnica di «impronte

digitali cerebrali» adottata [sul tema, più in generale, v. utilmente Capraro

2011, pp.260 ss.].

Riguardo l'indirizzo giurisprudenziale appena delineato,

caratterizzato da un fiducioso ricorso a nozioni e tecniche neuroscientifico per

l'accertamento probatorio della capacità d'intendere e volere, merita segnalare

come, in Italia, un giudice per le indagini preliminari abbia recentemente

fondato la propria ordinanza di applicazione di misure di sicurezza

provvisorie sulle evidenze di una serie di accertamenti tecnici rispetto a

struttura e funzionalità cerebrale dell'imputata [cfr. Tribunale di Como 2011].

La pronuncia resa al riguardo – che, anche sulla base delle evidenze di tipo

neuroscientifico prodotte dal collegio difensivo, ha ravvisato un vizio parziale

della capacità di intendere e di volere dell'imputata – è da richiamarsi non

solo per la novità che segna in materia, ma pure per le considerazioni che

svolge, sotto il profilo analitico, in relazione al tema in discorso.

Quanto agli aspetti più propriamente tecnici del caso, basti qui dire

che tra i diversi accertamenti compiuti dai periti del collegio difensivo è

rientrato un esame ad alta risoluzione della struttura cerebrale dell'indagata

per mezzo di una tecnica denominata «Voxel-Based Morphometry»,

impiegata al fine di analizzare la morfologia dei lobi frontali della corteccia

cerebrale. Sulla base di una cospicua letteratura scientifica già esistente, la

sentenza ha rilevato come tali lobi siano «deputati, tra le altre cose, al

controllo del comportamento e all’inibizione degli impulsi, al giudizio critico,

al senso morale, alla discriminazione tra bene e male» [Tribunale di Como

2011], così esplicitamente sposando l'argomento della correlazione funzionale

tra componenti cerebrali e comportamento che abbiamo già avvicinato in

precedenza [supra, §5.2.1.].

La rassegna giurisprudenziale sopra composta, al netto del contenuto

e degli esiti delle singole pronunce, pone con schietta evidenza il problema

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dell’effettiva validità di elementi di prova neuroscientifici e, insieme, di come

vada disciplinato il loro impiego.

Quanto alla prima questione, pare indubbio che la novità delle risorse

tecnologiche in materia di Imaging biomedico possa determinare

fraintendimenti, fino a consentire manipolazioni intenzionali dei risultati con

dirette ripercussioni sull’esito dei giudizi. Perlomeno nel peculiare contesto

forense degli Stati Uniti, dove la colpevolezza degli imputati nei

procedimento penali che giungono «on Trial» viene sempre decisa da una

giuria, è stato in effetti comprovato il notevole quanto controverso impatto di

evidenze di tipo neuroscientifico sui giurati: un impatto dipendente dalla

«aura» di scientificità che tali evidenze, e più in generale l'impiego delle

neuroscienze in ambito giuridico, avrebbero agli occhi dei profani [cfr.

Abrams, Keren 2010, p. 2025].

Al proposito, uno studio, condotto su cinquantaquattro scansioni

fMRI prodotte in altrettanti giudizi quali elementi di prova relativi a tratti

della personalità e attitudini soggettive, ha riportato come, in almeno la metà

dei casi, i dati fossero talmente confusi e privi delle necessarie accortezze

analitiche da rendere la loro produzione del tutto priva di una qualsiasi utilità

probatoria [Vul et al. 2009, pp. 274 ss.]. Secondo la vivida immagine di un

commentatore, saremmo qui in presenza di un «effetto albero di natale», per

cui «i giurati sono abbagliati dalle “belle lucette” presenti nelle immagini

ottenute con fMRI e non prestano sufficiente attenzione all'interpretazione

degli esperti» [cfr. Feigenson 2006, p. 246].

Ora, secondo quanto già menzionato, un’immagine biomedica di tipo

funzionale dipende in maniera significativa dai dati e relative statistiche

impiegate per la sua realizzazione, così come dalle modalità di

evidenziazione visiva adottate, le quali, in particolare nel caso delle fMRI,

possono essere anche assai diverse tra loro [supra, §5.2.2.]. Senza voler

mancare di rispetto a giudici e giurie, dunque, è lecito ipotizzare che la scarsa

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conoscenza e sensibilità rispetto a simili problematiche possa avere

effettivamente contribuito a valutazioni errate in una serie di casi già decisi.

Per altro verso, pare a chi scrive che la questione non rappresenti altro

che una più aggiornata riproposizione delle classiche questioni

dell'accuratezza probatoria e della fondatezza del convincimento decisionale,

di cui già si è vista la fragilità anche attraverso esperimenti esenti dal ricorso a

parafernalia neuroscientifiche [supra, §8.1.1.]. Peraltro, in relazione alle

specifiche modalità di produzione e presentazione di fMRI, perlomeno in

ambito statunitense esistono già da tempo apposite raccomandazioni adottate

da importanti società scientifiche [cfr. Society of Nuclear Medicine Brain

Imaging Council 1996, pp. 1256 ss.], dunque non si tratta che di seguirle col

dovuto scrupolo.

Più in generale, una risposta convincente ai timori appena richiamati

può poi rinvenirsi nelle motivazioni della sentenza italiana sopra riportata. La

pronuncia, in effetti, in linea con la lezione costituzionale netta nel rigettare

determinismi di sorta [infra, §8.3.3.] opportunamente rimarca come, a mezzo

del ricorso alle tecniche e conoscenze messe a disposizione dalle neuroscienze

cognitive, non si tratti di «introdurre una “rivoluzione copernicana” in tema

di accertamento, valutazione e diagnosi delle patologie mentali, né tanto

meno di introdurre criteri deterministici da cui inferire automaticamente che

ad una certa alterazione morfologica del cervello conseguono certi

comportamenti e non altri, bensì di far tesoro delle condivise acquisizioni in

tema di morfologia cerebrale e di assetto genetico, alla ricerca di possibili

correlazioni tra le anomalie di certe aree sensibili del cervello ed il rischio, ad

esempio, di sviluppare comportamenti aggressivi o di discontrollo

dell’impulsività» [Tribunale di Como 2011].

Nel condividere tali considerazioni, aggiungiamo solo alcune note a

margine della questione probatoria in ambito penale sin qui evidenziata,

rilevando come essa trovi il suo immediato indirizzo in previsioni normative

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già allo stato esistenti, senza che ciò comporti particolari difficoltà di sorta.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, dove, come visto, la questione è

particolarmente in auge, ci limitiamo a rimandare allo studio della

giurisprudenza (v. per tutti il caso «Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals

Inc.») e delle disposizioni federali (in primo luogo la «Federal Rule of

Evidence no. 702») sviluppate in materia di verifica della validità

dell’informazione scientifica contenuta nella prova da parte del giudice

competente [cfr. Katskee 2008, pp. 871 ss.]. Con riferimento, invece,

all’ordinamento italiano, i vigenti articoli 220 e 224 bis c.p.p. in materia di

perizie e accertamenti medici paiono sufficientemente rigorosi, e, insieme,

flessibili nel consentire un opportuno ricorso e conseguente valutazione di

evidenze probatorie anche di tipo neurocognitivo. Lasciamo, in ogni caso, alle

migliori competenze processual-penalistiche ulteriori riflessioni e

considerazioni in proposito [v. per esempio i saggi contenuti in Bianchi,

Gulotta, Sartori 2009].

Prima di lasciare definitivamente il piano giudiziario-processuale, su

cui ci siamo mossi nelle ultime pagine, riteniamo opportuno prendere ancora

in considerazione una questione che, ancorché tipicamente connotata in

maniera processual-penalistica, riguarda ogni condotta giuridicamente

rilevante. Il riferimento è alle implicazioni delle neuroscienze cognitive

rispetto alla responsabilità soggettiva: una riedizione, insomma, del classico

tema del libero arbitrio, soggetta però a nuove tensioni concettuali e culturali.

8.3.3. Neuroscienze e libero arbitrio

Sempre più numerosi sono i contributi dottrinali dedicati a verificare, e

tentare di sciogliere, le sfide delle neuroscienze alle nozioni di libero arbitrio e

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responsabilità, consapevoli del fatto che tali scienze «rappresentano oggi il

passaggio fondamentale per la comprensione di diversi aspetti del

comportamento umano. Ma rappresentano anche il luogo in cui pensiero

filosofico e pensiero scientifico si incontrano e aggiornano la loro riflessione

sul rapporto tra mente e corpo» [Cuzzocrea 2011, p. 43].

La stragrande maggioranza di tali trattazioni solleva la questione della

responsabilità individuale rispetto a condotte criminose in presenza di lesioni

cerebrali accertate, alle quali sarebbero riconducibili le medesime condotte.

Esistono, in effetti, casi clinici piuttosto impressionanti nell'evidenziare

possibili correlazioni tra determinate condotte antisociali e una serie di

peculiarità anatomiche cerebrali, ma si tratta di una casistica che non pare

ancora aver trovato una definizione sistematica univoca [cfr. Craig et al. 2009,

pp. 946 ss.]. Di nuovo, l’ambito culturale di elaborazione di tali sforzi teorici fa

poi sì che gli stessi risultino orientati in maniera preminente rispetto a istituti

propri della tradizione di Common Law, come esemplificato dalla ricorrente

attenzione verso una delimitazione della «mens rea», ovvero lo stato mentale

di colpevolezza richiesto dagli ordinamenti di matrice anglosassone per

l’attribuzione al soggetto agente di un atto. Ne consegue che, in trattazioni del

genere, viene solitamente persa la ricchezza concettuale sviluppata dalle

scuole penalistiche continentali, in particolare la italiana e tedesca, in materia

di coscienza e volontà (la «suitas» di cui all’art. 42, comma 1, c.p.),

colpevolezza e nessi psichici [in proposito v. meglio Terracina 2011, pp. 206

ss.].

In una prospettiva unitaria rispetto ai diversi sistemi giuridici, si

ritengono condivisibili le posizioni teoriche volte a meglio circoscrivere

l’impatto delle novità neuroscientifiche sulle modalità operative del diritto. In

effetti, nella pratica forense una pluralità di principi e istituti giuridici ha

sinora ben operato anche senza alcuna considerazione di vere o presunte basi

neuronali della condotta criminale, ed è tanto auspicabile quanto presumibile

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che i medesimi principi e istituti potranno assimilare le nuove conoscenze

neuroscientifiche: «nuovi dettagli, nuove fonti di evidenze probatorie, ma

nulla rispetto a cui la legge sia fondamentalmente impreparata» [cfr. Greene,

Cohen 2004, p. 1775].

Nel caso sopra richiamato delle correlazioni tra lesioni cerebrali e

condotte viene da rilevare come la controversia in corso paia derivare dalla

tacita aspirazione di molti ricercatori a un'univocità deterministica che il

diritto non contempla, né può accettare. Con riferimento all’ordinamento

italiano, vale in tal senso ricordare la direzione operativa stabilita dalla

Costituzione, la quale, nel respingere ogni determinismo di tipo biologico

(quindi anche di matrice neuroscientifica) e sociologico, da un lato resta

ancorata a un chiaro principio di responsabilità individuale, dall'altro esclude

«che la responsabilità costituisca un dato aprioristico indifferenziato, presente

cioè in modo eguale in tutti i soggetti come per i classici, ma un problema

concreto da esaminarsi in rapporto alle singole individualità, data anche la

tendenza rieducativa della pena» [Mantovani 1992, p. 572]. Messa ancora in

altro modo, non andrebbero mai dimenticate le dinamiche proprie della

funzione giurisdicente rispetto al caso concreto, così come già ora esplicitabili

nel miglior accertamento possibile della verità giudiziaria e la conseguente

adozione dei dispositivi più opportuni. Dal momento che ogni attività

giudiziaria «è un sapere-potere, cioè una combinazione di conoscenza

(veritas) e di decisione (auctoritas)» [Ferrajoli 1997, p. 18], l’evoluzione della

conoscenza necessariamente influenzerà la decisione, ma non ne potrà mai

escludere la sua funzione sintetica.

Una miglior interpretazione dei meccanismi neurocognitivi coinvolti

nelle condotte soggettive, dunque, non significa affatto escludere

responsabilità conseguenti in capo all'agente. In questo senso, la controversia

appare per molti versi una replica di quella già vissuta rispetto

all'introduzione negli accertamenti forensi di test ed analisi di tipo biologico,

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da ultimo rivampata per la disponibilità di esami di genetica molecolare

particolarmente dettagliati [cfr. Codognotto, Sartori 2010, pp. 269 ss.].

Accertamenti, va rimarcato, che sono utili a fornire nuovi elementi nell'ambito

di una più composita valutazione della condotta e alla luce di una nozione di

infermità complessa [cfr. Cuzzocrea 2011, pp. 67 ss.], ma non certo ad

appiattire tale valutazione su automatismi decisionali di sorta.

A fronte del continuo presentarsi di nuove tecniche di accertamento e

conoscenze appare dunque opportuno rivedere la nozione di responsabilità

dell’agente secondo modalità cognitive multifattoriali: modalità, cioè, che

tengano conto di una pluralità di elementi e, nei momenti decisionali aventi

rilevanza giuridica, trovino una sintesi compiuta. Con specifico riguardo ai

rapporti tra diritto e neuroscienze, non si tratta pertanto di «dare la colpa al

cervello» [Erickson 2010, pp. 27 ss.], bensì di predisporre criteri di definizione

della responsabilità opportunamente modulati rispetto alle migliori

conoscenze scientifiche, conoscenze provenienti da una pluralità di ambiti ai

quali il pensiero e la prassi giuridica sono sempre stati tenuti a fare

riferimento.

In proposito, vale richiamare come nella sezione dedicata all'economia

cognitiva [supra, §6.1.2.] abbiamo riportato gli esiti di un esperimento dal

quale risulterebbe la possibilità, sulla base di uno studio delle attività

cerebrali in corso, di conoscere quale decisione il soggetto adotterà prima che

questo la manifesti in una condotta esteriore: l'argomento torna qui utile. In

un caso del genere, infatti, riteniamo che non si possa in alcun modo

escludere una considerazione della responsabilità del soggetto «nella sua

interezza» rispetto alle azioni che compierà. Quanto noi osserviamo a mezzo

di fMRI, infatti, è l'attività di elaborazione di informazioni, stimoli e

cognizioni, a cui risulta propriamente deputato il sistema cerebrale, quale

precondizione di un comportamento successivo esteriormente apprezzabile.

Per il manifestarsi di tale comportamento, nondimeno, sono necessarie anche

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altre precondizioni, dipendenti tanto dal soggetto quanto dall'ambiente in cui

si trova. In questo senso, viene da annotare che, quando si parla di «mente», il

riferimento dovrebbe essere non un individuo, bensì un'interazione che

coinvolge elementi sia interni che esterni allo stesso, secondo una prospettiva

olistica che sempre più appare rilevante anche nelle ricerche scientifiche [v.

Sarà 2005, pp. 398 ss.].

Per restare, in ogni caso, centrati sulla responsabilità individuale,

riteniamo che quanto sin qui esposto consenta d'inquadrare le nuove

questioni introdotte dalle neuroscienze cognitive in una più confortevole

prospettiva di riferimento, allargando la quale passiamo ora a considerare la

terza delle linee di ricerca individuate negli studi di «Law and Neuroscience»

[supra, §8.3.].

8.4. La cognizione del diritto

Tale linea di ricerca attiene all'analisi, secondo tecniche e nozioni

neuroscientifiche, del «diritto in sé» [cfr. Goodenough, Tucker 2010, p. 75].

Così come allo stato solitamente impostata, la questione ruota intorno

alla generale possibilità di studiare principi, concetti e istituti giuridici –

perlomeno alcuni di questi – grazie alle nuove tecniche di Imaging biomedico,

al fine di comprenderne meglio il funzionamento in base alla cognizione che

degli stessi mostrano i soggetti analizzati. Cercheremo di mostrare, nelle

pagine seguenti, quanto simili ricerche siano promettenti per la disciplina del

diritto, risultando intimamente connesse – secondo un’inedita prospettiva di

tipo biologico ed evoluzionistico – a questioni di carattere più propriamente

etico e filosofico che, seppure non si hanno i mezzi per perseguire in questa

sede, risiedono all’origine stessa del discorso giuridico.

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8.4.1. Apporti neuroscientifici al disegno della sanzione

Quando si passi a considerare studi più specifici, rileva la concentrazione

pressoché esclusiva delle ricerche al momento esistenti sui «meccanismi

cerebrali» che sarebbero preposti agli aspetti sanzionatori del diritto, e, in

genere, deputati a «intuizioni punitive» [cfr. Jones, Kurzban 2010, pp. 1633

ss.], a nuova conferma di come il diritto penale, in quanto più eclatantemente

connesso alla questione della responsabilità individuale, rimanga di gran

lunga preminente nelle attenzioni degli studiosi (salva naturalmente

l’eventuale estensibilità dei risultati di ricerca ottenuti allo studio di sanzioni

operanti in ambiti diversi, dal civile all’amministrativo).

Tra tali ricerche ha suscitato molto interesse uno studio – condotto a

mezzo di scansioni cerebrali fMRI di soggetti richiesti di giudicare una serie

di delitti presentati loro come commessi da un ipotetico imputato – a esito del

quale i suoi autori ritengono di aver individuato correlati neuronali alle

attività di giudizio punitivo di soggetti terzi [cfr. Buckholtz et al. 2008, pp. 930

ss.]. Il medesimo studio, tra l'altro, ha evidenziato l'attivazione di aree

cerebrali corrispondenti a quelle operanti in caso di interazioni bilaterali di

tipo economico, già evidenziate da studi incentrati sull'Ultimatum Game

[supra, §6.1.1.]. Le conclusioni tratte al proposito hanno prospettato l'esistenza

di apparati cerebrali e attività cognitive appositamente deputate a formulare

«giudizi sociali», condivise da pensiero economico e giuridico [cfr. Buckholtz

et al. 2008, p. 936].

La considerazione di dotazioni cognitive del genere ha quindi indotto

i ricercatori a riflettere sulla possibile esistenza, e, poi, la natura e il

funzionamento di norme sociali definite in maniera biologico-neurologica,

norme che il diritto avrebbe finito per incorporare (non necessariamente in

maniera consapevole, e tantomeno dichiarata) nel corso della sua storia,

dotandole di forme statutarie. La questione, in ultima analisi, attiene al

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sentimento di giustizia come esempio di «universale umano» [supra, §5.2.]

rinvenibile alla base degli ordinamenti giuridici, con prospettive di studio, e,

quindi, argomentazione, estremamente innovative: di fatto, le ricerche in

proposito rappresentano l'ultima frontiera di una riconsiderazione del diritto

sulla base delle nuove conoscenze neuroscientifiche.

Torneremo a breve sull'argomento [infra, §8.4.1.]. Intanto però, preso

atto di tale composito scenario, riteniamo di dover segnalare come l'impiego

di tecniche e conoscenze neuroscientifiche sia suscettibile di produrre

rilevanti effetti, sin da subito, rispetto a una miglior definizione del diritto

sotto il profilo statutorio. Con riferimento al tema della sanzione sopra

richiamato, viene da considerare come studi mirati a ottenere «risposte

cerebrali» da soggetti sottoposti ad appositi test, rispetto a determinate

combinazioni di condotte e punizione, potrebbero portare a profondi

avanzamenti conoscitivi in termini di effettività della pena.

Tali studi, infatti, nel segnalare l'attivazione di determinate aree

cerebrali – con la conseguente possibilità d'inferire, in base alle migliori

conoscenze in materia, il coinvolgimento di particolari processi cognitivi ed

emotivi – consentirebbero di evidenziare la maggiore o minore efficacia della

prospettazione di particolari sanzioni rispetto alla commissione di

determinati illeciti, orientando, di conseguenza, le scelte legislative. Scenari

del genere, va da sé, sollevano delicati interrogativi rispetto ai rischi di un

controllo e indirizzo sociale particolarmente pervasivi, alimentando di

conseguenza preoccupazioni di marca «biopolitica» – dove, in linea con la

lezione ormai classica offerta da Michel Foucault, le categorie del biologico e

del politico vengono prese in considerazione rispetto al controllo che del

corpo, e attraverso il corpo, viene fatto del soggetto da parte di un potere

inteso in maniera ampia e composita [in proposito v. per tutti Agamben 2005].

Simili preoccupazioni sono senz'altro legittime: al tempo stesso, nel lasciare a

riflessioni più schiettamente filosofiche l’approfondimento della questione,

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riteniamo che tali preoccupazioni si riferiscano a rischi i quali, con le debite

precauzioni e alla luce degli opportuni principi d'indirizzo, andranno

necessariamente assunti.

Quando, infatti, ci si disponga in una prospettiva liberale e

progressista rispetto al tema delle relazioni tra diritto e neuroscienze, si può

sostenere con altrettanta legittimità che ricerche in tal senso indirizzate

consentano di meglio misurare le disposizioni giuridiche al fine di evitare, per

quanto riguarda i profili sanzionatori in discorso, eccessi di pena e di

controllo sociale, dunque per migliorare lo stato corrente di un diritto

statutario spesso viziato da ultradeterrenza. Il tutto, conviene ricordarlo

ancora una volta, all'insegna dei principi fondamentali degli ordinamenti

democratici, i quali trovano nell’orizzonte costituzionale la loro

imprescindibile cognizione di riferimento, la base più solida da cui muovere

per quella «umanizzazione del diritto penale» [cfr. Terracina 2011, pp. 215 ss.]

intesa come uno dei più auspicabili orizzonti dei rapporti tra diritto e

neuroscienze.

8.4.2. Analisi d'impatto regolatorio e scienze cognitive: primi cenni

Una volta oltrepassate le ipotesi di studio più strettamente concentrate sugli

aspetti sanzionatori del diritto, tenuto conto delle potenzialità di

miglioramento generale del disegno delle leggi proprie delle nuove ricerche

neuroscientifiche rilevano le inedite possibilità di sviluppo che si aprono per

attività regolatorie cognitivamente orientate.

Prospettive del genere, lo si ricorderà, sono già balenate nell'ambito

della tutela dei consumatori, alla luce di recenti studi sperimentali [supra, §

8.1.2.], ma è evidente come gli ambiti di applicazione possano risultare ben

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più ampi, fino a segnare una revisione generale delle modalità standard con

cui le regole giuridiche vengano disegnate.

Al proposito, merita segnalare il recente avvio in dottrina di

interessanti riflessioni sulla possibilità di «importare» nell'ambito dell'analisi

d'impatto della regolazione (la c.d. «AIR») le nuove conoscenze dell'economia

comportamentale, e, con una mossa concettuale ormai obbligata, quelle

ricavabili dalle ricerche delle scienze cognitive (neuroscienze comprese). Il

discorso, evidentemente, potrebbe farsi molto ampio in materia: ai fini della

presente trattazione, basti ricordare come l’AIR sia una tecnica di analisi

economica «ex ante» della regolazione, incentrata su valutazioni dei rapporti

costi-benefici, da verificarsi secondo passaggi procedurali più o meno

formalizzati, rispetto agli effetti delle diverse opzioni dispositive tra le quali il

regolatore di turno è chiamato a scegliere.

Ora, a fronte delle differenze anche significative esistenti tra le

tecniche di AIR attualmente impiegate nei principali ordinamenti, e, più in

generale, delle perplessità correnti rispetto alla loro concreta efficacia [cfr.

Renda 2011, pp. 17 ss.], l'introduzione di conoscenze mutuate dalle scienze

cognitive appare suscettibile di segnare una vera e propria svolta operativa in

ambito amministrativo, nella prospettiva dunque di un’apertura anche del

diritto pubblico alle nuovo indirizzo cognitivo. Secondo quanto è già stato

sottolineato, infatti, «le informazioni derivanti dalle scienze cognitive possono

e devono contribuire al miglioramento della qualità della regolazione, vale a

dire alla definizione di regole residuali, necessarie ed adeguate alle esigenze

che intendono soddisfare anche perché attente alle risposte e alle reazioni dei

destinatari condizionate dal contesto (fatto di storie personali, relazioni,

emozioni) e da errori cognitivi» [Rangone 2011, p. 17].

Lo stato assolutamente embrionale delle riflessioni al proposito non

consentono di addurre riferimenti più concreti: il meno che si può dire, in

ogni caso, è che sarà oltremodo interessante verificare nel prossimo futuro se

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e quanto spazio sarà dato a una ricostruzione cognitivamente robusta dei

processi decisionali dei soggetti di diritto rilevanti per le attività di

regolazione, a partire dagli sviluppi che in tal senso si stanno delineando nel

contesto dell'analisi d'impatto della regolazione.

8.4.3. Evoluzione e diritto

Salva la casistica dispositiva percorsa nei paragrafi precedenti, con

riferimento allo studio neurocognitivo «del diritto in sé», indirizzato in

generale all'individuazione e verifica di norme sociali predeterminate nel

sistema cognitivo umano, e, di conseguenza, influenzanti le condotte, si

ritiene che ricerche d'impianto puramente neuroscientifico non possano

ritenersi sufficienti, né tanto meno auspicabili.

Di fatto, l'interesse prevalente verso dispositivi neuroscientifici pare

aver spesso fatto dimenticare come la caratteristica più significativa delle

scienze cognitive sia il loro combinare conoscenze e ricerche di tipo diverso

per procedere a una considerazione molteplice delle funzioni e relative

modalità operative di un sistema intelligente. Si pensi, per fare un esempio a

questo proposito, all'importanza delle ricerche d'impostazione simulativa, i

cui orizzonti beneficiano di un continuo allargamento da parte dello

straordinario progresso in corso nei campi dell'informatica e dell'intelligenza

artificiale: ricerche che, non a caso, hanno da ultimo iniziato a essere prese in

considerazione anche da parte di studiosi delle scienze sociali interessati alla

simulazione di dinamiche interattive tra soggetti [cfr. Andrighetto et al. 2011,

pp. 367 ss.].

Nella prospettiva, più volte richiamata, di un pensiero e una prassi

giuridica intenzionati ad assumere un impianto autenticamente cognitivo per

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meglio avvicinarsi al comportamento umano, consideriamo pertanto

necessario improntare gli studi secondo prospettive più composite, facendo

ricorso a una pluralità di mezzi, modalità e ipotesi di ricerca, dove le ricerche

d’impianto neuroscientifico sono soltanto uno dei componenti rilevanti.

Al riguardo, si ritiene che possano assumere ampio interesse gli studi

relativi all'esistenza di norme sociali condivise, e conforta in tal senso rilevare

come una forte tensione alla conoscenza delle «strutture affondate» nei

fenomeni giuridici sia presente anche in scienze ben più tradizionali di quelle

cognitive. Nell'ambito degli studi di antropologia giuridica, ad esempio, è già

stato ipotizzato «che frazioni significative del diritto dei paesi culti constino

di norme criptotipiche (praticate, ma non consapevoli): e queste norme ignote

giocheranno un ruolo nell'interpretazione, determinando derive del diritto

applicato rispetto alla lettera della norma scritta» [Sacco 2007, p. 24]. Viene

così da considerare come il diritto, nel suo assumere per primario oggetto di

studio e gestione il comportamento umano, insista (anche) su componenti

biologiche che necessitano di essere accostate a partire da conoscenze di

natura corrispondente. Alla luce di quanto già considerato su un piano

generale in materia di biologia evoluzionistica [supra, §5.2.], e tenuto conto

delle più particolari note dedicate alle nozioni di giusto prezzo ed equità

emerse nel recente pensiero economico [supra, §6.2.], conviene ora far

presente come la tesi di un rapporto proficuo tra diritto e biologia trovi

sostegno in un complesso di studi in corso di fecondo sviluppo.

Significativi contributi dottrinali, in effetti, sono già disponibili per

ottenere un inquadramento teorico della somma di vantaggi derivanti per la

pratica giuridica da modellizzazioni dei soggetti di diritto consapevoli della

biologia evoluzionistica. I medesimi contributi, al contempo, offrono

interessanti casi di applicazioni concrete, perlopiù incentrate sulla rilevanza

di attitudini biologiche alla commissione di determinati crimini [cfr. Jones,

Goldsmith 2005, pp. 431 ss.]. Tra i più recenti contributi apparsi in materia,

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peraltro, si riscontra un interesse crescente anche per questioni di tipo

civilistico, e appare in tal senso meritevole di segnalazione l'ipotesi secondo

cui il principio dell'altruismo reciproco [supra, §5.2.] sarebbe alla base dei

rapporti contrattuali, in quanto «predecessore biologico» degli stessi [cfr.

Fruehwald 2011, pp. 87 ss.].

Allo stesso modo degli istituti contrattuali e relativi apparati di

«Enforcement» previsti dagli ordinamenti giuridici, l'altruismo reciproco

costituisce infatti un meccanismo sviluppato dalla specie umana nel gestire

una vasta serie di interazioni sociali, un meccanismo che «riduce i costi di

sopravvivenza e aiuta la sopravvivenza dei geni allocando risorse scarse e

creandone di addizionali a mezzo della cooperazione. Al tempo stesso limita

la concorrenza dannosa (ferite e morte) creando un modo di allocare risorse

senza litigare per esse» [Fruehwald 2011, p. 97]. La teoria così proposta offre

una cornice concettuale suggestiva per inquadrare un'ampia serie di istituti

giuridici attinenti al diritto dei contratti. Il testo citato richiama

espressamente, ad esempio, la buona fede richiesta nell'esecuzione dei

contratti come precipitato giuridico di un altruismo reciproco vantaggioso per

i contraenti, nel perseguimento dei loro personali interessi [cfr. Fruehwald

2011, p. 109].

Nel mantenere la cornice dell'esistenza di predisposizioni cognitive a

comportamenti cooperativi, così come definitesi nel corso dell'evoluzione,

viene da rilevare come in essa anche altri istituti giuridici possano trovare una

spiegazione efficace. Pensiamo, per esempio, all'equità, i riferimenti alla quale

ricorrono nei più diversi ordinamenti, dalla Civil Law alla Common Law, dal

diritto canonico a quello islamico. Di fatto, nel suo richiamare gli operatori

del diritto – in specie i giudici – a un'interpretazione che tenga conto di

strutture di condotta e valutazione condivise, ancorché mai espresse

statutoriamente in maniera rigorosa perché concentrate nelle precitate

«norme criptotipiche», l'equità riecheggia evidentemente la questione delle

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norme sociali di Fairness, così come evidenziate da alcune ricerche

economiche [supra, §6.2.]. Al contempo, col riportare il discorso sul piano

degli «universali umani» già richiamati nella sezione dedicata alla biologia

comportamentale [supra, §5.2.], rispetto allo studio neurocognitivo del diritto

in sé qui in esame la medesima tesi consente di fare riferimento a una serie di

contributi di recente dedicati alla questione delle «intuizioni di giustizia»

esistenti nella specie umana, così come prima già brevemente introdotti.

Anche a conferma della ripetuta convinzione secondo cui studi e

tecniche di origine neuroscientifica siano solo uno degli elementi da prendere

in considerazione per avanzare nella conoscenza di ciò che può ben definirsi

la «natura umana» presupposta dal diritto, si richiama un saggio incentrato

sulla combinazione di ricerche provenienti da discipline diverse e svolte con

modalità distinte, alla luce di una più generale e dichiarata impostazione

evoluzionistica. Gli autori dello studio, infatti, hanno verificato una

convergenza di dati ottenuti con osservazioni diverse (psicologiche,

comportamentali e neuroscientifiche, relative a esseri umani, adulti e

bambini, nonché animali, in particolare primati) rispetto all'esistenza di

nozioni condivise di giustizia [cfr. Robinson, Kurzban, Jones 2007, pp. 1654

ss.].

La ricerca è partita da un esperimento mirato, volto a registrare le

decisioni fornite da una serie di soggetti alla soluzione di un'ampia serie di

scenari (ventiquattro) in cui fosse coinvolta una vittima e un aggressore. Le

statistiche relative alle risposte così ottenute hanno presentato una

percentuale di accordo sulle decisioni adottate estremamente elevata (95%),

dal quale i ricercatori hanno desunto una netta condivisione di sentimenti di

giustizia [cfr. Robinson, Kurzban, Jones 2007, p. 1637]. La tesi, in sintesi, è che

«intuizioni condivise di giustizia contribuiscono all'abilità di un individuo o

un gruppo di punire, ciò che a sua volta fornisce un vantaggio evolutivo

complessivo. In altre parole, esiste un vantaggio evolutivo nel comprendere lo

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stato di vittima e nel contestuale applicare una punizione nei confronti di chi

ha posto in essere una condotta lesiva» [cfr. Robinson, Kurzban, Jones 2007, p.

1651].

Al netto dell'impostazione, ancora una volta, tipicamente penalistica,

appare evidente l'interesse per ricerche del genere in una prospettiva di

definizione su nuove basi cognitive dei comportamenti aventi rilevanza per il

diritto, prospettive che al momento si possono appena intravedere. Di nuovo,

come già rilevato in sede di rassegna delle ricerche di economia

dichiaratamente influenzate dalla biologia evoluzionistica, si tratta di tesi da

prendere in esame con cautela, ma non per questo rigettandole a priori.

Nel richiamare tutte le considerazioni già svolte in proposito, piace

rilevare di passaggio come il pensiero giuridico non si discosti da quello

economico quando intravede una connessione profonda tra effettività della

legge rispetto alla considerazione del comportamento e conformità a

dotazioni cognitive. Secondo quanto rimarcato da un noto giurista

nordamericano che, in linea con le tesi dei sentimenti di Adam Smith [supra,

§6.2.], ha impiegato una terminologia incentrata su pulsioni morali

predeterminate nella specie umana, «il diritto non può chiedere miglior

giustificazione dei più profondi istinti dell'uomo» [Holmes 1897, p. 477].

I recenti studi in materia di sentimenti di giustizia condivisi, così come

le riflessioni filosofiche in corso di sviluppo circa l’esistenza di una vera e

propria «grammatica morale universale» [supra, §5.2.] paiono trovare qui un

autorevole auspicio, e, al contempo, fornire interessante supporto di tipo sia

sperimentale che teoretico per raffinare meglio il ricorrente discorso intorno

agli istinti e la natura umana. In conclusione, secondo quanto ammesso dagli

autori degli studi da ultimo citati, al momento attuale non è dato sapere se

spiegazioni di tipo evolutivo quali quelle citate siano corrette: «a differenza

delle ossa, i comportamenti non fossilizzano, e si può solo testare

l'accuratezza delle assunzioni evoluzionistiche sul comportamento

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triangolando le informazioni disponibili» [cfr. Robinson, Kurzban, Jones 2007,

p. 1651].

Al solito, occorre procedere seminando lungo il percorso opportune

avvertenze di metodo e fini; la semplice circostanza, nondimeno, che una

triangolazione quale quella appena citata sia stata tentata, e, più in generale,

stia diventando patrimonio comune delle ricerche in ambito giuridico, vale a

segnare un distacco significativo rispetto a una tradizione di pensiero

giuridico chiusa in un sistema autoreferenziale, incapace di rapportarsi allo

studio dei comportamenti, e, quindi, alla loro disciplina, in una maniera

diversa da una pura prescrittività ideologicamente diretta. Ora che questo

sistema è stato forzato, non si può che essere felici delle nuove opportunità di

ricerca in proposito, cominciando col prendere atto di quelle già in corso.

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9. Conclusioni

Nel corso dei capitoli precedenti abbiamo cercato di delineare un percorso,

praticabile da scienze sociali come l'economia e il diritto, per passare da una

considerazione del comportamento umano eccessivamente astratta e priva di

concretezza situazionale a un'impostazione cognitiva, alimentata da

conoscenze provenienti da discipline diverse, ottenuta anche con il ricorso a

esperimenti mirati. A tale fine, dopo aver delineato un quadro concettuale e

culturale di partenza caratterizzato da tendenze all'assiomatizzazione del

comportamento di agenti razionali, abbiamo preso spunto dai nuovi indirizzi

conoscitivi manifestatisi per mezzo degli studi di economia comportamentale,

cui è seguita, nelle ricerche dell'ultimo decennio, una fondamentale svolta

nella direzione delle scienze cognitive.

In questa prospettiva, le ricerche in corso entro il più specifico ambito

delle neuroscienze risultano centrali nel nuovo discorso economico, e, quando

opportunamente combinate a differenti modalità di ricerca e verifiche,

appaiono idonee a fornire conoscenze di significativa novità e importanza

rispetto agli stati soggettivi. Dal momento che tali stati sono alla base dei

comportamenti degli individui, una loro migliore comprensione potrebbe

effettivamente consentire di formulare migliori descrizioni delle condotte, e,

su questa base, finalmente procedere all'elaborazione di teorie di tipo

normativo che non si limitino ad aggiungere pretese di generalità ad

assunzioni in fin dei conti prescrittive, ma, anche alla luce della varie volte

richiamata impostazione evoluzionistica generale, si reggano su più fondate

analisi descrittive della struttura dei comportamenti umani.

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In apertura alla presente dissertazione, come forse si ricorderà,

abbiamo fatto un breve riferimento all'interesse filosofico dell'economia per il

suo sollevare «questioni di ordine morale in relazione a benessere, giustizia e

libertà» [supra, §2.]. Sulla base di quanto sin qui svolto, e nella prospettiva di

una significativa combinazione d'interessi con il diritto, riteniamo di poter ora

meglio svolgere alcune considerazioni anche a tale riguardo.

Di fatto, le questioni citate vengono a riproporsi continue e immutate

nel corso della storia dell'uomo poiché la scarsità di risorse da destinare a usi

alternativi – alla base, come noto, della nozione strumentale impostasi

nell'economia contemporanea – implica necessariamente una considerazione

della distribuzione di tali risorse. Si tratta di una considerazione alla quale

l'economia, per la natura strumentale appena richiamata, non può fornire

prescrizioni di tipo assiologico, dedicandosi invece ad analizzare, e, quando

possibile, calcolare, le interrelazioni tra le diverse grandezze ed elementi

rilevanti, così fornendo indicazioni di ausilio tecnico per l'adozione di scelte

squisitamente politiche, attinenti cioè a una dimensione più ampia, complessa

e non strumentale, delle relazioni sociali, all'interno della quale propriamente

vanno apprezzate le istanze di giustizia, libertà e benessere sopra richiamate.

Rispetto a tali relazioni anche il diritto risulta essere funzionale, ma in una

maniera diversa rispetto a quella dell'economia: esso, infatti, opera secondo

modalità dichiaratamente prescrittive, facendosi tramite operativo nella

società delle scelte appena richiamate, ed è in questa prospettiva che va vista

la sua apertura a una dimensione cognitiva finora inedita.

Secondo quanto si è cercato di circostanziare nelle pagine precedenti,

dunque, il diritto dovrebbe acquisire una nuova cognizione dei

comportamenti soggettivi e delle interazioni sociali attraverso un impianto di

conoscenze multidisciplinari, quando possibile a base sperimentale. In tal

modo, tra l'altro, esso si libererebbe dalle strettoie di un'impostazione di

ricerca finora incentrata su binomi disciplinari che – oltre ad aver già

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significativamente offerto il destro per ragionare di un discutibile mercato di

«”Law-and” Scholarship» [cfr. Ellickson 1997, pp. 157 ss.] – per loro natura

non possono cogliere appieno la complessità di agenti e comportamenti

rilevanti. Tale apertura cognitiva è necessaria in quanto la comprensione di

agenti e comportamenti risulta precondizione ai due momenti fondamentali

dell'agire giuridico: la definizione generale di disposizioni, prescrizioni per

l'appunto, e l'applicazione concreta delle stesse.

In una prospettiva di teoria del diritto, si ritiene che quanto sin qui

rilevato risulti pure particolarmente utile nel delineare un'uscita dalla crisi in

cui, a detta di autorevoli commentatori, il pensiero giuridico da tempo

verserebbe, nel perdurare di un vero e proprio «nichilismo giuridico» [cfr. Irti

2005, pp. 8 ss.]. Una responsabilità non indifferente per la crisi d'identità che

starebbe attraversando il diritto viene di solito attribuita al più generale

contesto culturale in cui tale crisi è maturata: in breve, un'età del disincanto,

celebrata da un pensiero postmoderno per lungo tempo dominante nel

sostenere «strategie radicalmente antifondazionali», dove sono cessati

riferimenti di valore idonei a sostenere le pretese di organizzazione sociale

del diritto [cfr. Fruehwald 2011, p. 44].

Per parte nostra, anche ammesse le responsabilità culturali del

postmodernismo in tal senso, riteniamo che il tramonto ormai evidente e

conclamato di tale pensiero non significhi necessariamente un recupero nella

salute dei malati di nichilismo. Conveniamo in effetti con chi ha già

considerato, ben prima dell'emergere della controversia nell'ambito

accademico italiano, che «ciò che produce nichilismo è precisamente la

continuazione di una forma di credenza una volta che questa abbia perso la

sua vitalità. Nichilismo è la volontaria continuazione di una credenza anche

dopo che questa non possa più pretendere rispetto o ispirare impegno»

[Schlag 1998, p. 142]. In questo senso, ciò che è annichilito non è il diritto in

sé, né tanto meno la sua funzione, bensì un modo di pensare il diritto, uno

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stile, attitudini ormai insostenibili nella loro sterile parzialità conoscitiva, e,

insieme, «noiosa» incapacità immaginativa [cfr. di nuovo Schlag 1998, p. 141],

le quali hanno consentito il piegarsi degli strumenti giuridici a fini di

opportunismo di governo o vuota ideologia.

Tale visione ha spesso condotto tanto il legislatore quanto gli operatori

del diritto a disconosce la necessità di una conoscenza compiuta dell'essere

umano quale precondizione per radicare la prescrittività del diritto in

qualcosa di duraturo e condivisibile, perché naturalmente comune: insieme

alla normatività dell'economia, infatti, l'ordine del diritto trova la sua ragione

di fondo nell'accordo con la dimensione fondamentale delle relazioni sociali.

Nelle parole di uno storico del diritto, particolarmente attento a rilevare le

rigidità della mitologia giuridica dominante, ciò che ha determinato la crisi

corrente del diritto qui richiamata sarebbe propriamente «la perdita del suo

carattere òntico, del diritto come fisiologia della società» [Grossi 2001, p. 6].

L'approccio cognitivo qui proposto, riteniamo, aspira propriamente a

recuperare tali fondamentali profili, rimasti per lungo tempo pregiudicati.

Nel corso della dissertazione abbiamo tentato di dare conto di una

serie di studi d'impronta evoluzionistica che già stanno interessando sia

l'economia che il diritto (vale rimarcare, del resto, come gran parte delle

ricerche delle scienze cognitive richiamate nel testo, a partire da quelle

neuroscientifiche, siano conoscenze afferenti alla biologia, con significative

convergenze su prassi sperimentali interessate, ancorché in maniera non

esclusiva, all'analisi di aspetti fisiologici del comportamento). Si è trattato, ce

ne rendiamo conto, di un tentativo parziale e con ogni probabilità ingenuo da

parte nostra, ma abbiamo deciso di correre tale rischio per segnalare come le

scienze sociali già dispongano di passaggi aperti verso una «conoscenza della

vita», e più ancora, quando adottata con convinzione una simile direzione, di

possibilità cognitive fino ad ora completamente inedite. In tal senso, dunque,

confidiamo nella benevolenza del lettore, anche facendoci riparo con

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l'autorevole considerazione secondo cui «noi dovremmo sentire l'ambizione

di conoscere ciò che è reale non solo redigendo l'inventario dell'esistente, ma

definendo in più che cosa avrebbe potuto esistere, cosa potrebbe esistere e

cosa potrebbe venire in essere» [Sacco 2007, p. 45].

Quest'ambizione ci ha condotti, nell'ultima parte dello scritto, alle

soglie di un discorso sulla natura umana e il ruolo che, rispetto alla stessa,

svolgono norme sociali universali, norme generate e definite nel corso

dell'evoluzione che ricerche di nuova immaginazione stanno appena

cominciando a esaminare. Un simile processo di ricerca, del resto, avviene in

una sorta di combinazione virtuosa con studi e riflessioni che hanno

attraversato l'intera storia culturale della specie umana, alimentando il senso

di discipline nobilmente strumentali come l'economia e il diritto. Si tratta di

un discorso dinanzi alla cui portata, ora, ci arrestiamo, nella speranza di aver

perlomeno tracciato fino ai suoi pressi una via di qualche utilità.

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195

La presente tesi di dottorato è stata

stampata in sette copie, di cui tre

depositate presso gli uffici dell’Università

Luiss Guido Carli di Roma. Il testo è stato

composto in caratteri Palatino Lynotipe e

Century Gothic. Ogni copia reca la firma

autografa di autore e relatore della tesi.

Roma, diciassettegennaioduemiladodici.

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