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Alexandre Kojève IL COLONIALISMO NELLA PROSPETTIVA EUROPEA Traduzione di Edoardo Camurri retrovie (7) Adelphiana www.adelphiana.it 20 aprile 2003

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Alexandre Kojève

IL COLONIALISMO NELLAPROSPETTIVA EUROPEA

Traduzione di Edoardo Camurri

retrovie(7)

Adelphianawww.adelphiana.it

20 aprile 2003

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Ho parlato di Marx e della sua critica al capitali-smo come della trasformazione democratica e pa-ci$ca, o se si vuole «fordiana», del capitalismo «clas-sico» perché secondo me il capitalismo vecchio sti-le non è ancora completamente e de$nitivamentesuperato come a prima vista potrebbe sembrare. Enon solo perché in Unione Sovietica, e nei cosid-detti paesi satellite, quel tipo di «capitalismo» con-tinua a sussistere con il nome di «socialismo» e inuna forma statale, ma soprattutto perché, purtrop-po, sopravvive anche nel mondo occidentale, doveoggi ha preso il nome di «colonialismo».

A dire il vero, parlando di capitalismo, Marx si ri-feriva soltanto all’Europa occidentale. Il che alla suaepoca era assolutamente legittimo. Ma meno legit-timo è che alcuni suoi emuli o critici mantenganoancora oggi la stessa prospettiva «mondiale» che a-vrebbe potuto avere un economista dell’età roma-na: salvo includere di solito, in questo orbis terrarum,anche gli Stati Uniti. Ma di fatto, e in particolare dopo la seconda guer-

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ra mondiale, il cosiddetto mondo occidentale non èpiù soltanto europeo o euroamericano. È anche –e forse soprattutto, almeno a lungo termine – asia-tico e africano. Ora, se si considera questo mondo nella sua totalità,ossia per quello che è in realtà, non è dif$cile vede-re che la de$nizione marxista di capitalismo vi si ap-plica molto bene, con tutte le conseguenze «logi-che», e quindi non soltanto reali ma anche necessa-rie, che ne discendono.Il fatto è che, oggi, i principali mezzi di produzioneindustriale appartengono esclusivamente a una mi-noranza euroamericana, che è la sola a trarre pro-$tto dal progresso tecnico, nella misura in cui annodopo anno accresce il suo reddito; mentre la mag-gioranza afroasiatica, pur senza impoverirsi in mo-do assoluto (il che, d’altronde, sarebbe material-mente impossibile), diviene relativamente semprepiù miserabile. E non si tratta del progressivo diva-rio che si produce tra mondi chiusi a ogni reciprocorapporto, tra due sistemi economici separati, poi-ché anzi gli scambi economici tra l’Euroamerica ela Afroasia sono così intensi che si può e si deveparlare di un unico sistema economico del mondooccidentale. Semplicemente, questo sistema è or-ganizzato in modo tale che soltanto una minoranzadiventa ogni anno sempre più ricca, mentre la mag-gioranza non riesce in nessun caso a elevarsi oltre ilminimo vitale assoluto.In altre parole, oggi in nessun paese altamente in-dustrializzato – con la sola eccezione dell’UnioneSovietica – esiste ormai un «proletariato» nel sen-

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so marxista del termine. Non esistono cioè strativeramente poveri della popolazione, che guada-gnano soltanto lo stretto necessario per la soprav-vivenza senza avere nulla di «superfluo». Nei paesiindustrializzati euroamericani tutti sono, chi piùchi meno, ricchi, e non poveri: tutti vivono nell’ab-bondanza, sebbene relativa, consumando più del-lo stretto necessario alla mera sopravvivenza. Tutta-via, basta considerare il mondo occidentale nel suocomplesso per scoprire immediatamente un gigan-tesco proletariato – proprio nel senso marxista deltermine. E visto che si tratta di un’unica e medesi-ma entità economica, di un unico e medesimo si-stema d’economia, è innegabile che all’interno diquesto sistema esista anche un «plusvalore» in sen-so marxista, di cui godono, nella sua totalità, solo ipaesi che dispongono effettivamente di tutti i mez-zi di produzione industriale.In termini economici non ha alcuna importanza ilmodo in cui il plusvalore viene prelevato dalla mag-gioranza e incamerato dalla minoranza. Ciò checonta invece è che questo plusvalore «colonialista»contribuisce anch’esso alla formazione del capitalenei paesi occidentali già industrializzati. Si puòquindi dire, se non con tranquillità almeno a ra-gione, che il sistema economico occidentale con-temporaneo è, nel suo insieme, capitalista in sensomarxista – proprio come il sistema sovietico.C’è però una differenza importante – dal punto divista sia politico-psicologico sia economico – tra unsistema in cui il plusvalore industriale viene sottrat-to al consumo delle masse lavoratrici interne al pae-

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se, e un altro in cui lo stesso plusvalore viene pre-levato in paesi stranieri. Tale differenza può essere$ssata terminologicamente de$nendo nel modo se-guente le nozioni di capitalismo, socialismo e co-lonialismo.Possiamo riservare la parola «capitalismo» al capita-lismo classico europeo del XIX secolo, cioè a quelsistema economico in cui il plusvalore è prelevatoall’interno del paese e investito da privati. Per «so-cialismo» si intenderà allora non uno qualunquedi quei sistemi più o meno immaginari che esisto-no soltanto sulla carta, ma l’economia reale dell’U-nione Sovietica contemporanea, cioè il sistema incui il plusvalore, come nel caso dei sistemi «capi-talisti» propriamente detti, è prelevato all’interno,ma viene poi investito dallo Stato, o meglio ancorada suoi funzionari. In$ne, la parola «colonialismo»designerà il sistema in cui il plusvalore è investitoprivatamente, come nel «capitalismo» classico, manon è più ricavato all’interno del paese bensì al-l’estero.Questa terminologia ci permette subito di consta-tare – e di affermare – che il capitalismo propria-mente detto non esiste più, mentre il colonialismomoderno è strettamente imparentato con questocapitalismo ormai estinto. E si può facilmente ca-pire perché i marxisti contemporanei prendano,nei confronti del colonialismo, una posizione deltutto analoga a quella che Marx aveva assunto neiconfronti del capitalismo classico.Da un lato i marxisti contemporanei si rendonoconto che il divario tra il reddito globale della mag-

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gioranza afroasiatica e quello della minoranza con-tinua ad aumentare. Dall’altro deducono che que-sto sistema è destinato prima o poi a crollare pro-prio a causa del progressivo aggravarsi del suo squi-librio interno. In$ne i marxisti moderni suppongo-no, più o meno tacitamente, come già faceva Marx,che sono e rimarranno i soli a fare tali considera-zioni e a trarne le conseguenze, mentre i colonia-listi di oggi saranno ciechi, se non stupidi, propriocome lo sono stati i capitalisti del tempo di Marx o,più in generale, dell’epoca prefordiana.Ebbene, se così fosse, le profezie dei neo-marxistisul futuro del colonialismo potrebbero avverarsi.Proprio per questa ragione ritengo pericolosissi-mo interpretare in modo sbagliato il fatto che leprevisioni di Marx sul capitalismo si siano rivelatefalse.Da questo incontestabile fatto storico non si puòche dedurre un’unica conseguenza valida. E cioèche, per evitare il crollo del colonialismo moderno,occorre che quest’ultimo subisca una trasformazio-ne radicale, analoga a quella subita dal vecchio ca-pitalismo a opera del fordismo.

Ciò detto, chiediamoci come stanno le cose, da que-sto punto di vista, nel mondo occidentale.La situazione è piuttosto singolare e in certo sensoinquietante. Nel vecchio capitalismo la «contrad-dizione» constatata da Marx è stata superata nellapratica, in modo attivo ed ef$cace, grazie al fordi-smo. E solo successivamente, a cose fatte, gli intel-lettuali borghesi hanno elaborato la teoria scien-

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ti$ca del fordismo, il cosiddetto pieno impiego. An-che gli Stati hanno adattato solo in un secondo mo-mento le loro politiche $nanziarie, sociali, e cosìvia, alle esigenze del nuovo sistema economico, or-mai già realizzato nei fatti da imprenditori comeHenry Ford. Nel colonialismo contemporaneo la situazione è incerto modo capovolta. Sulla questione esistono mol-te eccellenti ricerche, opera soprattutto di espertidelle Nazioni Unite, oltre a dichiarazioni di uomi-ni politici e programmi di governo, come il PuntoIV del celebre discorso del presidente Truman (cheha rapidamente eclissato tutti gli altri «punti»). Maa questo riguardo gli esperti di economia si man-tengono cauti, se non scettici, e si comportano co-me se tutta la faccenda non li riguardasse affatto,sostenendo si tratti di una questione squisitamen-te politica.Certo, è un problema politico. E forse è il proble-ma politico del XX secolo. Ma se fosse soltanto que-sto, io non avrei la competenza per parlarne. Mipermetto di farlo perché sono profondamente con-vinto che sia un problema anche e soprattutto eco-nomico. In poche parole: i clienti poveri sono catti-vi clienti; e se la maggioranza dei clienti di una dit-ta è composta da clienti poveri, cioè cattivi, la dittastessa diventa cattiva o, per lo meno, poco solida.Questo è ancora più vero se la ditta, per non falli-re, deve aumentare ogni anno il suo volume d’af-fari. E nessuno si stupirebbe se, versando in tali con-dizioni, un bel giorno dichiarasse fallimento.

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Non è quindi del tutto inutile chiedersi, $n d’ora,come riadattare e ricostruire il colonialismo classi-co in uno stile più moderno, che potremmo de-$nire «fordiano».In teoria tre sono i metodi di modernizzazione pen-sabili, e tutti e tre sono già stati proposti.In primo luogo, si potrebbe agire sui cosiddetti termsof trade – molto semplicemente, si potrebbero pa-gare più cari i prodotti esportati dai paesi sottosvi-luppati, cioè essenzialmente le materie prime. Sitratterebbe di stabilizzare i prezzi mondiali di que-sti prodotti, mantenendoli a un livello che consen-ta ai paesi esportatori non solo di vivere e di viveresicuri, ma di alzare continuamente il loro livello divita, come già accade nei paesi industrializzati cheimportano i prodotti in questione. In altri termini,il colonialismo moderno potrebbe fare quel che hafatto il vecchio capitalismo: rendersi conto che èvantaggioso, non soltanto dal punto di vista politicoma anche per l’economia stessa, pagare per il lavo-ro il massimo anziché il minimo possibile.Questo era il senso e l’obiettivo dei famosi commodityagreements, di cui si è tanto parlato per anni e in va-rie lingue. E che, alla $ne, sono stati accettati, al-meno in linea di principio, da tutti i paesi. Tutti,eccetto uno, che era contrario proprio per ragionidi principio. Ma dato che si trattava degli Stati U-niti, tanto è bastato. E, almeno per il momento, diquesti accordi non si parla più.In secondo luogo, si potrebbe procedere anche in ma-niera diretta, continuando a prelevare il plusvalo-re dalle materie prime e dagli altri prodotti «colo-

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niali» per poi investirne il ricavato non nei paesiimportatori e altamente industrializzati, ma in queipaesi sottosviluppati dai quali il plusvalore era sta-to prelevato. Allo scopo ci si potrebbe avvalere del-l’intermediazione di un organismo internazionalespecializzato – il SUNFED, come viene attualmentechiamato, ma qualsiasi altra sigla andrebbe bene lostesso. Anche del SUNFED si è parlato per anni, e an-cora oggi se ne discute, almeno alle Nazioni Unite.1

In terzo luogo, si potrebbe procedere ancora in ma-niera diretta, in un quadro non più internazionalema nazionale. In altre parole, un dato paese alta-mente industrializzato potrebbe continuare a pre-levare con una mano (diciamo la destra) il plusva-lore colonialista, come fanno oggi tutti gli altripaesi industrializzati. Ma con l’altra mano (cioè lasinistra) potrebbe investire il prodotto del plusva-lore prelevato – o addirittura di più – in paesi sot-tosviluppati di sua scelta. Quindi, se questo paeseinvestisse effettivamente la totalità del plusvaloreprelevato (o anche di più), non si potrebbe più par-lare di colonialismo nel senso proprio, cioè eco-nomico, del termine. In un caso come questo, in-fatti, nessuno prenderebbe più niente a nessuno,anzi, si darebbe addirittura qualcosa a qualcuno. Ese il paese in questione distribuisse molto più diquanto ha prelevato, lo si potrebbe persino de$ni-re «anticolonialista».

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1. Il sunfed (Special United Nations Fund for EconomicDevelopment) nacque nel 1952 per fornire contributi abasso interesse in alternativa ai prestiti della Banca Mon-diale; fu successivamente affossato dal disinteresse dei pae-si industrializzati [N.d.T.].

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Il terzo metodo anticolonialista, per quanto ne so, èstato applicato su larga scala soltanto da due paesi:Francia e Gran Bretagna. Riguardo alla Francia,anche calcolando alto a piacere il plusvalore colo-nialista che preleva, e includendo il sovrapprezzopagato per le merci francesi, i dazi agevolati, e co-sì via, si potrà tuttavia constatare che, nel dopo-guerra, la Francia ha investito nelle sue colonie edex colonie una somma da cinque a sei volte mag-giore di quella che preleva come plusvalore nel-l’insieme dei suoi territori d’oltremare. E, pur co-noscendo meno bene le cifre corrispondenti rela-tive alla Gran Bretagna, so però che si tratta di unordine di grandezza analogo. Per riassumere breve-mente la situazione nel mondo occidentale, si puòquindi dire:– primo: la cittadella inespugnabile del coloniali-smo «di principio» ha sede a Washington;– secondo : tutti i paesi altamente industrializzatisono di fatto colonialisti, tranne Francia e RegnoUnito.

È superfluo speci$care che quanto ho appena det-to va preso cum grano salis. O meglio: era un gioco.I $loso$ chiamano questo genere di gioco «ironiasocratica» (che qui è più o meno riuscita). In altreparole, il mio gioco ha un fondamento serio e u-n’intenzione in certo modo «pedagogica».Serio mi sembra il fatto che il vero problema delnostro mondo e dei nostri tempi non è il coloniali-smo politico, ma quello economico, perché, grossomodo, nel mondo occidentale contemporaneo il

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problema del colonialismo politico non esiste pra-ticamente più. Pochissimi sono ormai i paesi sotto-posti a un vero regime coloniale. E se a causa di ciòqua o là sussiste o sorge ancora qualche dif$coltàlocale, non sarà certo per questo che l’Occidentein quanto tale, alla $ne, crollerà. Si può quindi af-fermare che il colonialismo politico non è più un«problema mondiale». E invece lo è, secondo me,il colonialismo economico, la cui eliminazione o tra-sformazione è una questione di vita o di morte peril mondo occidentale.Non solo. Di serio, nel mio gioco, c’è anche il fat-to che è assolutamente possibile praticare il colo-nialismo senza possedere colonie vere e proprie.Oggi infatti tutti i paesi industrializzati – più o me-no inconsapevolmente – sono in realtà colonialisti.E lo sono in quanto sono gli unici a trarre pro$tto,anno dopo anno, dal continuo progresso tecnico,mentre i paesi arretrati rimangono poveri come pri-ma, diventando relativamente più poveri proprio acausa di tale progresso. Di serio in$ne, almeno secondo me, c’è il fattoche questo problema non verrà mai veramente ri-solto $nché gli economisti continueranno a disin-teressarsene. Il colonialismo moderno ha urgentebisogno di un nuovo Ford collettivo, così come ilvecchio capitalismo ha avuto bisogno dei vari Fordche, nel momento critico, sono nati spontaneamen-te un po’dappertutto. Penso agli imprenditori checominciarono a produrre per un potere d’acquistodi massa da loro stessi creato, aumentando di pro-pria iniziativa i salari per ragioni puramente econo-

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miche, senza aspettare che fosse lo Stato a creare ilpotere d’acquisto per ragioni sociali o politiche.Tutto questo mi sembra essere la legge del mondocontemporaneo. Per dirlo in greco: questo è il no-mos della terra occidentale. Di recente, in uno degli articoli più brillanti cheabbia mai letto,1 ho appreso che il «nomos antico hauna triplice radice: quella dell’appropriazione, quel-la della divisione e quella del pascolo, cioè del con-sumo». Radici sicuramente assai profonde e salde.Tuttavia i Greci antichi non sapevano che il nomosmoderno ha anche una quarta radice, forse quellacentrale: la radice del dono. Questa radice della leg-ge economica e socio-politica del mondo occiden-tale moderno è sfuggita all’acume dei Greci anti-chi: forse perché erano un piccolo popolo schiavi-sta e non una grande potenza cristiana| Qui sas! –Chissà! Una cosa, tuttavia, per me è certa: non stoassolutamente facendo una critica alle affermazio-ni di Carl Schmitt nell’articolo citato.È evidente, infatti, che la sua divisione implica il miodono. Quando ormai tutto è stato preso, è possibiledividere o spartire solo se alcuni danno ciò che altririceveranno per consumarlo. Volevo solo attirare l’at-tenzione sul fatto che, dal punto di vista termino-logico, talvolta il verbo dare suona meglio del ver-bo prendere – soprattutto quando le due parole si-

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1. Kojève si riferisce a Carl Schmitt, Nehmen/Teilen/Weiden.Ein Versuch, die Grundfragen jeder Sozial – und Wirtschafts-ordnung von NOMOS her richtig zu stellen, in «Gemeinschaftund Politik. Zeitschrift für soziale und politische Gestal-tung», I, 3, 1953, pp. 18-27 [N.d.T.].

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gni$cano la stessa cosa. Per esempio, preferiamo di-re che paghiamo le tasse piuttosto che dire che civengono prese; a meno di non pensare che siano in-giusti$cate, quindi ingiuste.Ora, le parole hanno forse più importanza di quan-to normalmente non si creda. Dopotutto è grazieal linguaggio che l’uomo si differenzia dall’animale.Ed è proprio dal punto di vista del linguaggio che lecose nel nostro mondo occidentale non vanno peril meglio.Il vecchio capitalismo appropriatore, che dava allemasse lavoratrici nazionali il meno possibile, in U-nione Sovietica è stato ribattezzato «socialismo»(dopo essere stato nazionalizzato, d’altronde). In-vece al moderno capitalismo datore, che dà alle mas-se lavoratrici il più possibile, non è ancora stato tro-vato un nome. Almeno non in quanto datore. Per-ché in quanto appropriatore, anche se soltanto fuo-ri dai suoi con$ni, viene chiamato «colonialismo».Chi, oggi, non conosce questo termine| Mentre ilrecentissimo colonialismo datore, quello che dà aipaesi sottosviluppati molto più di quanto ne riceva,è ancora anonimo. Certo, è appena nato, ma l’usan-za del cristianesimo moderno di battezzare le per-sone alla nascita e non sul letto di morte, mi sembrabuona e sensata.Comunque sia, con o senza nome, il nomos del mon-do occidentale moderno è secondo me esattamen-te quello che ho chiamato, con un termine provvi-sorio e poco soddisfacente, «colonialismo datore».E visto che questo colonialismo è la legge, tutti i pae-si altamente industrializzati dovranno prima o poi

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conformarvisi, a costo della loro sopravvivenza. So-prattutto quei paesi che, non possedendo coloniea cui dare qualcosa, si voteranno al colonialismoappropriatore nella sua forma più pura, e di solitocon la coscienza perfettamente a posto.

Ora, se questa è la legge, è arrivato il momento dichiedersi: nel quadro del nuovo «colonialismo da-tore» occidentale, in che ammontare, in che modo,e a chi andranno le donazioni| Non voglio conclu-dere la mia conferenza senza abbozzare una rispo-sta sommaria a queste tre domande, che mi sem-brano fondamentali.Innanzitutto: quanto si deve dare|È una questione dif$cile, delicata, e non posso di-re nulla di preciso in proposito. Posso solo ricor-dare che gli esperti delle Nazioni Unite stimano chetutto il problema dei paesi occidentali sottosvilup-pati si potrebbe risolvere se i paesi occidentali al-tamente industrializzati investissero nei paesi arre-trati il tre per cento circa del loro reddito nazio-nale. Non so dire se questa stima sia esatta. So peròche dopo la guerra la Francia investe nei paesi sot-tosviluppati più o meno questa percentuale – sen-za peraltro andare in rovina.Il caso francese è interessante perché non ha nien-te a che vedere con i calcoli teorici degli esperti del-l’ONU. Il tre per cento francese è un dato empiri-co; è il risultato di un adattamento in certo modoautomatico di un’economia evoluta alle necessitàdelle economie arretrate a essa strettamente con-nesse. Se è lecito estrapolare l’esperienza francese,

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allora si potrebbe ipotizzare che la realizzazione del«colonialismo datore» in tutto il mondo occiden-tale richiederebbe una cifra intorno ai dieci mi-liardi di dollari all’anno. Che per i paesi evoluti sa-rebbe certo un peso, anzi un peso gravoso, ma co-munque, come mostra l’esperienza francese, nonun peso insostenibile.Secondo: come si deve dare|Non ho né tempo né voglia di riparlare dei commo-dity agreements. Vorrei soltanto dire che almeno suun punto do ragione ai nostri amici americani: ecioè che questi famosi accordi non bastano, da so-li, a risolvere l’intero problema dei paesi sottosvi-luppati. Sarebbero necessarie anche elargizioni di-rette. Resta soltanto da stabilire che cosa dare diret-tamente a questi paesi.Alla domanda oggi di fatto si danno due rispostedifferenti, se si vuole contrarie. Le elargizioni di-rette degli americani consistono $nora quasi esclu-sivamente in beni di consumo – e quindi non di ti-po cocacolico, come talvolta viene per$damente in-sinuato. Invece le elargizioni dirette francesi e bri-tanniche consistono unicamente in investimenti sulposto (i beni di consumo esportati nei paesi in que-stione non solo non sono gratuiti, ma anzi general-mente sono venduti a un prezzo addirittura superio-re a quello che hanno sul mercato mondiale).È dif$cile dire quale dei due metodi sia da prefe-rirsi. Da un lato è molto più facile, psicologicamen-te e politicamente, regalare beni di consumo in ec-cedenza piuttosto che investire, specie là dove gli in-vestimenti potrebbero tradursi in una produzione

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concorrenziale rispetto a quella nazionale. E forseè meglio dare qualcosa piuttosto che niente. Mad’altro lato non bisogna dimenticare che l’indu-strializzazione dei paesi sottosviluppati è diventataoggi una sorta di mito mondiale, e che $nora que-sto mito si è realizzato in grande soltanto fuori delmondo occidentale. Penso alla Cina, che forse dal-la lontana Europa si vede molto male, ma che adesempio dall’India si scorge con una certa chiarez-za.Terzo: a chi si deve dare|Per molte ragioni mi sembra che, da un lato, il me-todo dell’aiuto internazionale sia lungi dall’essere ilmigliore possibile, mentre dall’altro un’azione re-gionale vada preferita a tentativi su scala nazionale.

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E questo già da un punto di vista prettamente eco-nomico. Infatti ancora oggi esistono regioni econo-miche «naturali» nettamente circoscritte, e inseri-te nella realtà attuale indipendentemente da ognipolitica. Ma, dal punto di vista del nuovo «colonia-lismo datore», queste antiche regioni economichenon sono affatto equivalenti.Prendiamo per cominciare una regione al di fuoridel mondo occidentale. Penso all’Impero mongo-lo che, creato in passato da Gengis Khan, si è rico-stituito in tempi recenti nei suoi aspetti economicie politici. Là duecento milioni di russi altamenteindustrializzati coabitano con settecento milioni diasiatici tecnicamente arretrati. Ciò signi$ca che o-gni russo deve portarsi sulle spalle tre uomini sot-tosviluppati e mezzo. Un peso gravoso, molto gra-voso, ma forse non insostenibile: a condizione chei russi continuino a tollerare, grazie all’ausilio di u-na polizia adeguata, un ascetismo dei consumi chein qualche modo tollerano (senza riuscire ad abi-tuarcisi, pare) da una quarantina d’anni.Consideriamo poi la zona della sterlina. Qui la si-tuazione è ancora più sconfortante. Sono infatti cir-ca dieci gli asiatici sottosviluppati che ogni inglesedovrebbe portarsi sulle spalle. Un peso davvero in-sopportabile, nonostante la famosa austerity britan-nica, che però è decisamente meno «ascetica» delsocialismo russo, e si fonda su basi etico-religiose enon poliziesche. Sembra quindi che in questa regio-ne economica il futuro «colonialismo datore» nonsarà soltanto inglese, ma anglosassone, ossia angloa-mericano.

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Se poi alla regione economica nord e sudamerica-na aggiungiamo le regioni indiane, indonesiane eindocinesi, almeno parzialmente, gli americani rag-giungono un peso pro capite che, da un punto di vi-sta strettamente aritmetico, supera quello che i ci-nesi hanno imposto ai russi. Ma dato che ancoraper molto tempo il reddito nazionale americanosarà notevolmente più alto di quello russo, gli StatiUniti, praticando il «colonialismo datore», potran-no ottenere risultati di gran lunga superiori a quel-li sovietici senza rinunciare all’american way of life,uno stile di vita austero nonostante le apparenze,una via di mezzo tra il socialismo ascetico e il benes-sere autentico.E in$ne – last but not least – la regione economicaeuropea. Che, come quella mongolica, ha una lun-ga, lunghissima storia: un tempo si chiamava infat-ti Imperium romanum, e dal punto di vista economi-co si è rivelata sorprendentemente vivace e resisten-te. Sì, gli storici hanno persino appurato che que-sta regione si sarebbe conservata o ristabilita nono-stante le invasioni barbariche, se le conquiste ara-be non avessero trasformato il Mediterraneo, datrait d’union economico che era, in frontiera tra duemondi separati, al punto che questo mare, uniconel suo genere, per secoli non è più servito al traf-$co commerciale, ma si è trasformato in teatro digiochi bellici.Nel frattempo, però, gli uomini sono diventati piùseri, più adulti. E non è lontano il momento in cuirinunceranno a tutti i loro giochi per dedicarsi to-talmente ad azioni e transazioni serie. Si può quin-

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di affermare in piena tranquillità che la situazioneeconomica della regione mediterranea si è $n daora ristabilita. E si deve aggiungere allora che, dalpunto di vista del «colonialismo datore», questa re-gione è benedetta da Dio. Infatti, se ogni abitantedei paesi industrializzati situati nel Nord del Medi-terraneo provvedesse ad appena mezzo abitantedei paesi arretrati del Sud e dell’Est, la regione nelsuo insieme otterrebbe risultati più soddisfacenti diquelli che si conseguirebbero in qualunque altraparte del mondo. Ora, metà uomo – sottosviluppa-to, fra l’altro – a testa per ogni europeo non si puòconsiderare un peso: al massimo un’utile e indi-spensabile zavorra che stabilizza la rotta assicuran-do il confort e la sicurezza dei viaggiatori, i qualipossono anche ignorarne o dimenticarne l’esisten-za, purché altri veglino sulla medesima.

Tanto più ci si sorprende, allora, leggendo sui gior-nali che il «colonialismo datore» nella regione delMediterraneo si dispone a cercare lontano i suoimezzi $nanziari. I mezzi, in realtà, si potrebbero tro-vare molto più vicino, dato che le somme di cui sitratta – e si parla – sono così relativamente basseda essere davvero su scala europea. Sebbene, ri-spetto alle grandi potenze contemporanee, si puòa buon diritto parlare di «piccola Europa». Questostupore è tanto più naturale in quanto nella «pic-cola Europa» ci sono almeno due o tre paesi tenu-ti a prendere atto che la loro curva di crescita, a dirpoco impetuosa, è un dato inquietante dal puntodi vista economico. Per questo quegli stessi paesi

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cercano di fermare il proprio sviluppo con misureadeguate – incrementano l’importazione, abbassa-no i dazi doganali, e così via. Tutto ciò è senza dub-bio molto ragionevole, per non dire saggio, ma for-se non va dimenticato che la conseguenza concretadi queste misure è far vivere un po’ meglio soltan-to coloro che vivono già «come Dio in Francia». Imembri veramente poveri della regione mediter-ranea non ne traggono alcun vantaggio. Se non sipratica il «colonialismo datore», i clienti meridio-nali e orientali del Mediterraneo resteranno clien-ti poveri. Il che signi$ca cattivi clienti, quindi pe-ricolosi per il buon andamento delle cose.

Mi devo fermare qui. Ho già parlato troppo a lun-go. E mi accorgo con costernazione di non avereneanche cominciato la conferenza vera e propria.Quello su cui vi ho intrattenuto $nora non era chel’introduzione a quanto avevo intenzione di dire.Devo quindi riassumere il più possibile la mia con-ferenza, che ho intitolato Il colonialismo nella prospet-tiva europea. Dovevo dirvi almeno che aspetto ha ilcolonialismo, quando lo si consideri da questa pro-spettiva. Bene, che aspetto ha, o meglio, che aspet-to dovrebbe avere, secondo me, il colonialismo|La mia risposta si articola in tre punti:– primo: dovrebbe aver l’aspetto di un colonialismonon appropriatore ma datore (o, se preferite, distri-butore), e sarebbe opportuno trovargli un nomeadeguato;– secondo: non si dovrebbero regalare prodotti $ni-ti, ma investire sul posto;

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– terzo: in quanto «capitalismo datore» speci$ca-mente europeo dovrebbe coprire tutta la regionemediterranea, che nel corso della sua lunga storiaha dato prova di grande vitalità economica, e nonespandersi oltre, tenendo conto del fatto che oggila fascia costiera è incomparabilmente più profon-da che al tempo dei romani.

Questo può bastare per circoscrivere il tema dellamia conferenza. Quanto a svilupparlo, ahimè, nonne ho più il tempo. Me ne rammarico e vi prego discusarmi, tanto più che $nora non ho fatto altroche snocciolare verità lapalissiane. Le verità lapa-lissiane sono sempre un po’ deludenti per il pub-blico, ma io confesso di avere un debole per loro.Proprio perché sono verità. Mentre l’inedito, a me-no che non sia geniale, presto o tardi si rivela sem-plicemente falso. E mai avrei voluto correre il ri-schio di venire a Düsseldorf – per gentile invito delClub renano, che ringrazio sinceramente – a direqualcosa che potesse sembrare opinabile.

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© 2003 nina ivanoff

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