Donne Immigrate e Seconda Generazione Valencak Immigrate e... · Un’integrazione soddisfacente...

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1 Donne Immigrate e Seconda Generazione F. Valencak Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia IRCCS Burlo Garofolo – Trieste DONNE IMMIGRATE E SECONDE GENERAZIONI

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Donne Immigrate e Seconda Generazione F. Valencak

Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia IRCCS Burlo Garofolo – Trieste

DONNE IMMIGRATE E SECONDE GENERAZIONI

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INDICE

L’entità dell’immigrazione in Italia Pag. 03

Immigrati di “Seconda Generazione” Pag. 04

Immigrati- Una Ricerca ASSIRM Pag. 09

Immigrazione in Italia: un aspetto prevalentemente femminile Pag. 13

Immigrazione e parto Pag. 14

Disagio Psicologico e Immigrazione Pag. 16

Donne, Immigrazione e disagio Pag. 19

Identificazione delle inabilità psicologiche Pag 20

Bibliografia Pag. 21

Allegati:

SCL-90 – (Symptom Checklist - 90)

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L’entità dell’immigrazione in Italia

Il fenomeno dell’immigrazione verso il nostro paese ha assunto un carattere strutturale la cui

dimensione, nel corso degli anni 90’ si è raddoppiata.

Infatti in base alle stime della Caritas gli immigrati e legalmente soggiornati in Italia in quegli anni

erano 649.000 raggiungendo circa il valore di 1.600.000 nel 2001 e quasi 2.800.000 alla fine del

2004 .1

I dati Istat del 2008 dimostrano che nella Provincia di Trieste l’83% degli stranieri residenti

provengono da Paesi Europei.

Le percentuali di stranieri sono: Serbia 34,5% rispetto al totale, Croazia 9,2%, Albania 5,5%,

Bosnia Erzegovina 3,4%, Macedonia 2,0%, Romania 9,1%, Cina 5,4%, Slovenia 2,3%, Ucraina

2,3%, Moldavia 1,5%. Riguardo agli stranieri provenienti da altri continenti (Asia, Africa,

America) le percentuali oscillano tra il 9,4% e il 4%. (vedi allegato)

La composizione etnica presente in Italia è caratterizzata da multi razze considerando che in Italia

sono rappresentati tutti i continenti con la preponderanza di una o poche nazionalità .

L’Italia viene così a conoscere una nuova era, in quanto da primo paese europeo di emigrazione è

divenuta primo paese di immigrazione del bacino Mediterraneo.

Oggi non avvengono più migrazioni di persone singole bensì di soggetti coniugati ed interi nuclei

familiari

Questo tipo di trasformazione a livello sociale comporta anche la presenza sempre più massiccia di

minori stranieri, che all’inizio del 2005 risultavano essere circa 491.000.

Di questo universo fanno parte anche le giovani di seconda generazione, alle quali tocca il difficile

compito di rispettare le attese dei genitori da un lato e di non deludere la società italiana dall’altro.

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Immigrati di “Seconda Generazione”

Con il termine “seconda generazione” si identificano i figli di stranieri nati nel nostro paese o i

giovani immigrati che hanno compiuto in Italia almeno la formazione scolastica primaria.

Il termine "seconda generazione", di origine inglese (first generation e second generation) e

identificato all'inizio del Novecento nelle ricerche della cosiddetta Scuola Sociologica di Chicago, è

in certa qual misura contraddittorio qualora sottintenda il termine immigrato di cui esso sarebbe la

specificazione.

Immigrato di seconda generazione apparirebbe infatti qualifica non sensata (anche se dal punto di

vista giuridico possibile e anzi quotidianamente confermata), in quanto a rigore la qualifica di

immigrato competerebbe solamente a chi abbia personalmente compiuto l'esperienza della

migrazione.

L'espressione "seconde generazioni" trova maggiore chiarezza nel riferimento alla famiglia

(immigrata) più che al singolo individuo. Ecco che, nell'interna articolazione generazionale della

famiglia immigrata, il figlio viene a occupare il ruolo della seconda generazione, la prima essendo

quella dei padri e la terza, la quarta e così via quella degli ulteriori discendenti.

La seconda generazione si configura in Europa attraverso una forte incidenza dei figli degli stranieri

sulle nascite con un saldo positivo tra nascite e morti grazie ad una maggiore fecondità delle

famiglie immigrate rispetto a quelle autoctone.

E’ possibile distinguere:

- minori nati in Italia;

- minori ricongiunti;

- minori giunti soli (e presi in carico da progetti educativi realizzati in Italia);

- minori rifugiati («bambini della guerra»);

- minori arrivati per adozione internazionale;

- figli di coppie miste.

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Secondo la Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 1984 si considerano migranti della

seconda generazione i figli di immigrati:

- nati nel paese in cui sono immigrati i genitori;

- emigrati insieme ai genitori;

- minori che hanno raggiunto i genitori a seguito del ricongiungimento familiare o comunque

in un periodo successivo a quello d’immigrazione di uno o entrambe i genitori.

La stessa Raccomandazione sottolinea che il significato di seconda generazione deve essere ristretto

a quei figli che hanno sviluppato nel paese d’immigrazione una parte della scolarizzazione e

formazione professionale.

Ciò che sembra determinare la differenza tra la prima e la seconda generazione è l’aver vissuto

parte della socializzazione primaria e secondaria nel paese d’accoglienza.

Il modo in cui le seconde generazioni entrano a far parte della società è fondamentale per le

generazioni che da esse scaturiscono ma retroagisce anche su quella che l’ha preceduta.

Un’integrazione soddisfacente dei figli può risultare determinante nel bilancio di un’intera esistenza

e garantisce ai genitori immigrati non più giovani i benefici di una mediazione con le istituzioni

della società di accoglienza.

Il passaggio dalla prima alla seconda generazione di immigrati presenta sempre elementi oggettivi

di discontinuità di natura cognitiva, comportamentale, sociale.

Un primo elemento di discontinuità consiste nel diverso sistema di aspettative che nella

maggioranza dei casi distingue i figli degli immigrati dai loro genitori.

Le seconde generazioni formate sui banchi di scuola e davanti ai televisori europei hanno interessi,

stili di vita e desideri di consumo uguali a quelli dei coetanei e difficilmente accetteranno le

modalità di integrazione subalterna sperimentate dai genitori.

I lavori duri, faticosi, ripetitivi, spesso socialmente poco apprezzati, attraverso i quali i genitori sono

riusciti a conquistarsi un reddito e un ruolo nel paese straniero, non vengono accettati dai giovani

anzi tendono ad essere rifiutati.

Da questa differenza possono svilupparsi opportunità (di mobilità sociale) ma anche disagi

(frustrazione).

Una seconda discontinuità riguarda quella specifica ricerca di identità che deve necessariamente

essere affrontata dai figli degli immigrati.

Il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta è un periodo molto delicato per tutti i giovani e risulta

ancora più difficile per le seconde generazioni immigrate.

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In questo momento della vita in cui viene consolidata l’identità e i valori individuali, si oscilla tra il

desiderio di essere uguale e il desiderio di essere diverso, di vicinanza e di allontanamento, di

mimesi familiare e di emancipazione individuale.

Per le seconde generazioni il dilemma è amplificato dal trapasso culturale cui sono soggette:

entrambi questi desideri assumono una molteplicità di significati a seconda che si manifestino in

famiglia, a scuola, per la strada.

In effetti, non esiste per loro soltanto la sindrome del voler «essere eguali e diversi», ma altresì la

difficile scoperta, man mano che si cresce, che un’identità autoevidente e naturale per sé risulta

invece tutta da costruire e negoziare dentro un contesto che la percepisce come diversa e critica.

Da queste difficoltà possono svilupparsi delle crisi a livello individuale (di identità), familiare

(conflitti familiari), sociale e culturale (reinterpretazione della cultura di origine).

Il sistema scolastico ha il compito di fornire ai figli degli immigrati le competenze adeguate per

inserirsi nella società e per questo è di fondamentale importanza che la scuola si premunisca degli

strumenti utili a questo scopo (mediazioni pedagogiche, prospettive interculturali, spazi di aiuto per

la lingua ecc..).

L’integrazione delle seconde generazioni rappresenta così una sfida per la coesione e un fattore di

trasformazione delle società accoglienti.

A differenza delle prime generazioni di cui solitamente si prospettava un rientro nel paese di origine

in un futuro non lontano, per quanto riguarda le seconde generazioni la situazione è diversa in

quanto c’è una permanenza nella nuova società che si trova a dover affrontare un cambiamento nel

sistema sociale all’interno del quale sono sempre più numerose le minoranze etniche che

comportano una serie di conseguenze tra cui discriminazioni.

I fenomeni che si possono sviluppare nelle seconde generazioni sono: - il rovesciamento dei ruoli

per cui i figli, conoscendo meglio la lingua, assumono precocemente responsabilità adulte fino a

diventare in un certo senso “i genitori dei loro genitori “dovendo gestire la comunicazione tra

genitori e società ospitante; - come conseguenza del punto precedente vi è la perdita precoce di

autorevolezza e capacità educativa dei genitori; - la tendenza dei figli a superare i padri per quanto

riguarda le opportunità lavorative proprio per le maggiori conoscenze; - la resistenza nei confronti

dei modelli culturali del paese di origine che spesso conduce a conflitti familiari.

In Italia la seconda generazione viene maggiormente identificata nella scuola, nella formazione

professionale e nel mercato giovanile del lavoro.

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A volte questi giovani non vengono riconosciuti né dal paese in cui nascono e/o crescono perché

hanno un nome straniero o perché i genitori parlano male la lingua del nuovo Paese o perché ci

sono una serie di stereotipi negativi legati alla loro etnia, né dal paese d’origine dei genitori perché

comunque stando in Italia hanno cambiato modi di pensare, parlare, comportarsi.

Tutto questo può produrre un forte disagio che può portare molteplici scelte tra cui l’isolamento, la

ghettizzazione, vergognandosi e spesso rinnegando le proprie origini, assimilando un certo modo di

essere solo per essere accettato e infine la ricerca di una nuova identità cercando di creare un

equilibrio tra le proprie origini e il nuovo contesto sociale.

L’ultima scelta rappresenta la grande sfida ossia la possibilità di poter integrare il meglio di

ciascuna delle due culture valorizzandole entrambe. In questo modo vengono mantenute le proprie

tradizioni e dall’altra parte si assimilano tutti gli aspetti necessari per vivere all’interno della nuova

società.

Tutto questo è un percorso molto difficile e il giovane si trova spesso a dover gestire gli scontri

con i genitori da un lato e dall’altro con alcuni stereotipi negativi che caratterizza alcuni settori della

società e che non gli permette ad esempio di trovare un lavoro.

Si evidenzia, come già detto precedentemente, che nel caso di madri e figli arrivati insieme i

giovani acquisiscono competenze culturali e linguistiche più rapidamente rispetto ai genitori e

questo rischia di creare un ribaltamento dei ruoli all’interno della famiglia.

Proprio in virtù di tale abilità, i figli spesso devono rivestire il ruolo di traduttore e di interprete fino

a diventare i rappresentanti della famiglia nei confronto degli esterni, ossia di delegati ai rapporti

della famiglia con la società italiana.

Le seconde generazioni si trovano in questo modo ad essere più spesso problematiche perché si

trovano a dover trovare una sintonia tra le due culture.

La componente femminile è quella che risente più negativamente nel trovarsi tra due gestioni dei

ruoli familiari, due modi di considerare le differenze di genere.

Queste ragazze non crescono nelle stesse condizioni di svantaggio delle madri, studiano, aspirano a

lavori remunerativi e stabili per sposarsi e costruire una famiglia.

Durante l’adolescenza le ragazze immigrate si trovano ad affrontare le difficoltà di inserimento

nella società ospitante dovuta alla doppia appartenenza, i conflitti genitori-figli per la definizione

della propria identità, la difficoltà di vedersi crescere diversi dai genitori e più simili ai coetanei

italiani.

Spesso le ragazze si trovano in conflitto con le famiglie che da un lato le hanno dato la possibilità di

crescere fino ad una certa età come le coetanee italiane e dall’altra introducono una serie di limiti

una volta raggiunta l’adolescenza.

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Questi limiti non essendo sempre compresi dalle ragazze producono sofferenza e spesso reazioni

come fuga da casa, tentati suicidi, rapporti sessuali e gravidanze precoci, coinvolgimenti in relazioni

maltrattanti.

In questo modo si crea un’ambivalenza tra il senso di colpa e il senso di tradimento rivolto ai

genitori e questo può produrre un malessere psichico.

La seconda generazione si trova quindi a cavallo tra due culture, due leggi, due tradizioni e due

aspettative di ruolo di genere femminile e possono assumere una importante funzione di

emancipazione.

La donna immigrata ha un ruolo di mediatrice tra due culture, quella di origine e quella acquisita ed

è quindi di fondamentale importanza garantirle tutti i diritti primari dell’essere umano.

Tra questi è rilevante il diritto alla salute e alla procreazione libera e responsabile e quindi ad una

sessualità non finalizzata alla procreazione (contraccezione).

Immigrati – Una Ricerca ASSIRM (Associazione tra Istituti di Ricerche di mercato,

Sondaggi di opinione e Ricerca Sociale)

Mario Abis, Consigliere Assirm, ha sviluppato una ricerca per Assirm, tra agosto ed ottobre 2003,

che teneva in considerazione i seguenti parametri:

• Interviste personali condotte sulla base di un questionario strutturato.

• 819 casi. • Condizione di intervista: immigrato extracomunitario, con permesso di soggiorno o richiesta di permesso, non proveniente da Paesi con tasso di sviluppo economico paragonabile all’Italia (es. Usa, Canada, Svizzera, ecc.). • Campione nazionale (punti campione in 26 province) ragionato per quote di zona di residenza, ampiezza centro, area geografica di provenienza (almeno 30% da Paesi centro-est europei), religione (50% musulmani), sesso (almeno 20% donne). • Durata intervista: 30 minuti. • Lingua intervista: italiano (è stata fornita agli intervistatori una traduzione integrale del questionario in inglese e francese, in modo da agevolare la comprensione di frasi o termini complicati). • Luoghi di reperimento: abitazioni, luoghi di lavoro, parchi, luoghi di aggregazione, Internet point, centri telefonici internazionali, supermercati, segnalazioni di altri intervistati, centri culturali.

I risultati della ricerca indicano che qualunque processo di integrazione, indipendentemente

dall’area di provenienza e il paese di arrivo, implica per chi emigra una costante e impegnativa

dialettica tra due posizioni potenzialmente contraddittorie e cioè:

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• il desiderio/bisogno di assimilazione, intesa sia come adesione omogeneizzante (rendersi simili

a...) ai comportamenti e agli atteggiamenti della società «ospitante»; sia, più profondamente, come

condivisione e introiezione dei valori e dei modelli sociali operanti ed attivi nel paese di «arrivo»,

con cui attenuare se non eliminare quella diversità che alimenta la diffidenza dei «locali» e genera

e giustifica la marginalizzazione (se non l’emarginazione) degli immigrati;

• il bisogno di manifestare un proprio orgoglio etnico, con cui garantire e salvaguardare la propria

integrità identitaria, la continuità e la coerenza della propria appartenenza culturale, come antidoto

alla alienazione del sé causata dal drammatico confronto attuato sempre in condizioni di estrema

debolezza con modelli e valori profondamente «altri» rispetto a quelli della propria cultura di

origine.

Il disagio originato in tutte le comunità esaminate da questa irriducibile dialettica tra ricerca del

mimetismo e rivendicazione della propria originaria «identità» sembra avvertito con particolare

forza da quei soggetti e in quelle comunità in cui più radicata e radicale risulta essere la distanza dai

valori fondanti della società e della cultura occidentale, come sviluppa Carlo Santucci, Consigliere

Assirm, e cioè:

• la centralità dell’individuo (al di là del suo sesso e della sua età), da cui consegue sia la

piena legittimità della ricerca di appagamento dei propri sogni/bisogni (cultura del desiderio

e del piacere, vista tra l’altro come origine e conseguenza della «religione della merce» che

caratterizza tutta la società occidentale), sia la sua autonomia dal «gruppo»

• la sua piena libertà di scelta (sia sul piano etico sia su quello comportamentale);

• la laicizzazione della società e, quindi, il progressivo e sempre più profondo, irreversibile

«affrancamento» dai dettami della religione.

Spesso la grande libertà di cui godono gli italiani risulta fortemente in conflittualità con molte delle

regole, delle consuetudini e con i valori delle società da cui provengono gli immigrati.

Prevedibilmente, sono soprattutto i soggetti provenienti da paesi musulmani a vivere con disagio la

quotidiana e diffusa «sconfessione» o violazione di molti loro principi etico-religiosi, e la difficoltà

di arginare, anche nelle loro stesse famiglie, il pericoloso diffondersi di una visione del mondo che

assume come centrali le istanze individuali (i propri desideri) e non quelle del gruppo e che relega

definitivamente la religione (e i suoi precetti, le sue regole) nella sfera riservata e insindacabile del

privato.

Infatti i risultati della ricerca dimostrano che :

• il 71% del campione è d’accordo con l’affermazione «Gli italiani pensano solo a fare i soldi»;

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• colpisce molto e sempre negativamente il disinteresse dei figli per i propri genitori anziani e la

diffusa tendenza al loro «abbandono» (sia pure attenuato dalla delega del loro accudimento a

personale immigrato);

• viene disapprovata l’eccessiva libertà dei costumi sessuali e la sostanziale inosservanza del

vincolo di fedeltà tra coniugi;

• il 78% del campione è d’accordo con l’affermazione «Le donne italiane sono troppo libere e

indipendenti».

Proprio la figura femminile è lo schermo su cui più nitidamente si proietta il conflitto tra valori e

modelli culturali «locali» (italiani, occidentali) e quelli della cultura di provenienza: la assoluta e

irreversibile equivalenza tra uomo e donna sul piano morale, sessuale, professionale, su quello del

diritto e delle regole, ovvia e indiscutibile almeno in termini di principio nelle società occidentali,

contraddice alcuni presupposti sia sociali sia morali e religiosi di molte delle culture a cui

appartengono gli immigrati nel nostro Paese; ciò nella misura in cui viene proposto alle donne

immigrate una visione di sé che mina le istituzioni e regole della cultura di origine.

Non a caso molte delle donne intervistate nella ricerca vivono l’integrazione come un’occasione di

emancipazione sociale, come possibilità di affrancamento da uno stato di marginalità-soggezione,

nonché come possibilità di una libera autoaffermazione come soggetto «economico».

E’ proprio in quelle comunità in cui la donna sconta nel paese d’origine una posizione di

svantaggio / penalità sul piano dell’affermazione personale (ad esempio le donne marocchine e

albanesi) viene di fatto ad assumere una volta in occidente un ruolo chiave nel processo di

integrazione, come motore di avviamento e alimentazione di questo processo.

La donna dunque sembra più propensa dell’uomo a concepire l’esperienza migratoria come una

opportunità (e non solo come un sacrificio) da cogliere anche attraverso una maggiore esposizione

allo scambio simbolico con il nuovo ambiente, alle relazioni interpersonali, all’assimilazione dei

modelli e valori sociali nonché dei comportamenti e degli stili di vita (anche attraverso i media).

Le donne si dimostrano molto più aperte rispetto agli uomini verso i nuovi modelli e che spesso

porta in molti uomini il timore di perdere il controllo della situazione e il suo ruolo nei confronti

della donna e della famiglia.

Questo si evidenzia nei risultati della ricerca che dimostrano che il 53% degli uomini immigrati

esprimono un desiderio di tornare nel Paese di origine mentre solo il 34% degli intervistati non

pensano di farlo.

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Nonostante ciò esistono altri fattori che portano questi uomini a rimanere nel paese in cui si sono

trasferiti tra cui:

• la presumibile resistenza delle donne a tornare ad assumere un ruolo che ne mortifichi la nuova,

vitalizzante consapevolezza di sé;

• l’esplicito rifiuto dei figli nati e/o cresciuti in occidente, in società cioè di cui hanno vissuto con

modalità e intensità per lo più sconosciute o impraticabili per i loro genitori, i “piaceri” e le

potenzialità;

• il desiderio dei genitori di offrire ai figli il loro pieno e definitivo inserimento nella società

occidentale.

• la perdurante precarietà economica e politica del sistema sociale di molti dei paesi di provenienza;

• la difficoltà di un ritorno che, per essere possibile e auspicabile, non deve assumere il carattere di

una sconfitta e quindi deve avvenire solo nei casi in cui l’emigrato è riuscito a migliorare nella

nuova Società la qualità della vita ma in quel caso questo finirà per legarlo ancora di più

all’occidente.

In ogni caso, il ritorno espone spesso e soprattutto le donne e i giovani alla dolorosa consapevolezza

di essere diventati diversi rispetto alla propria società/cultura di origine: differenze psicologiche,

valoriali e comportamentali che portano questi soggetti a non riuscire più ad integrasi nel Paese di

origine in quanto hanno vissuto la libertà e il benessere nei paesi occidentali.

E’ importante a questo punto valutare le differenze esistenti tra nuclei familiari/etnici radicali e

tradizionalisti e nuclei che puntano ad un’integrazione nel rispetto legittimo della tradizione

d’origine.

Mentre gli immigrati di prima generazione giungevano in Italia con l’unico scopo della

sopravvivenza e di mantenere le proprie tradizioni vincolate al passato storico, i migranti di seconda

generazione maturano aspettative sia da parte della famiglia che dalla società nella quale vivono,

modi di vita, competenze e valori simili a quelli della popolazione autoctona, presentando tuttavia

specificità e problematiche.

L’evoluzione del percorso di integrazione sociale, economica e culturale è volto sempre più verso la

ricerca della stabilità che si esprime attraverso una crescente certezza occupazionale ed un aumento

dei ricongiungimenti familiari.

Il più importante indicatore della tendenza alla stabilizzazione dei cittadini stranieri in Italia è

sicuramente l’aumento della presenza dei minori di origine straniera, che all'inizio del 2006

risultano essere 585.496, pari al 21,9% della popolazione straniera nel suo complesso.

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A questo dato va aggiunto quello della presenza di alunni stranieri nelle scuole, come risulta

dall’indagine MIUR, relativa all’anno scolastico 2005 – 2006, che segnala circa 430.000 studenti di

nazionalità straniera.

Occorre inoltre considerare che il tasso di natalità degli immigrati rappresenta circa il doppio del

dato medio della popolazione italiana: i nuovi nati stranieri sul territorio italiano nel 2005 sono circa

51.971, pari al 9.4% del totale dei nati in Italia.

Tra le criticità emerse dalla ricerca “Seconde generazioni e località” , commissionata dal

Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, se ne possono in sintesi rappresentare le principali:

• disagi nei processi di costruzione identitaria;

• fallimenti scolastici;

• marginalità, anche occupazionale;

• difficoltà di accesso, in condizioni di uguaglianza rispetto ai cittadini autoctoni, alle

opportunità di mobilità socioeconomica;

• il carico derivante dal dovere di contribuire con il proprio lavoro all’attività economica della

famiglia;

• atteggiamenti di discriminazione su base etnica da parte della popolazione autoctona e tra

gruppi diversi di origine immigrata;

• assenza di spazi personali, determinati da peggiori condizioni abitative, in cui trovare rifugio

e autonomia.

A fronte di tali criticità emergono tuttavia anche elementi positivi e linee di tendenza unificanti

nelle esperienze dei giovani di seconda generazione, che devono essere prese in considerazione.

I soggetti di seconda generazione mostrano una condizione di maggiore radicamento nella società

italiana al confronto con altre tipologie di stranieri immigrati; guardano al futuro con un bagaglio di

aspirazioni analoghe a quelle dei loro coetanei autoctoni, anche se spesso si indirizzano più

pragmaticamente verso il conseguimento ravvicinato nel tempo di condizioni di sicurezza

economica.

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Immigrazione in Italia: un aspetto prevalentemente femminile.

La migrazione femminile in Italia è stata a lungo tempo una migrazione invisibile, cui non si

riconosceva una dimensione specifica né veniva data voce se non in rari studi sull’argomento.

Verso la fine degli anni Ottanta si comincia a scrivere delle donne, e a riconoscere un valore alla

dimensione di genere nell’analisi del fenomeno migratorio e dei disagi, anche interiori, ad esso

legati.

Oggi, sulla base di dati statistici l'immigrazione in Italia, in particolare nelle grandi città, sta

assumendo sempre più una connotazione al femminile.

All’interno di questo quadro troviamo sia badanti, collaboratrici domestiche, mogli gregarie e

donne sfruttate, sia donne arrivate in autonomia decine di anni fa nel nostro Paese e divenute oggi

cittadine italiane.

La maggior parte di queste donne proviene da paesi del sud del mondo, dove ha una vita durissima,

costellata di violenze contro qualsiasi diritto umano: povertà, fame, malattie, carico di lavoro

eccessivo, tirannie, repressioni e guerre. Per moltissime di loro a tutto ciò si aggiunge anche la

violenza delle mutilazioni sessuali.

La maggior parte delle ragazze immigrate si trova da un lato la cultura di origine che considera la

mutilazione genitale indispensabile perché la donna sia considerata rispettosa e adeguata al

matrimonio e dall’altro la nostra Società che considera questa pratica una violenza che lede

l’integrità della persona e per questo motivo spesso le ragazze si trovano ad avere problemi sessuali

e relazionali.

In questi casi è di fondamentale importanza che l’operatore sanitario assuma un atteggiamento

accogliente, non giudicante della cultura e del mondo di provenienza della ragazza .

Queste ragazze hanno bisogno di essere ascoltate e sostenute offrendo uno spazio di parola dove

potersi confrontare sia con donne che hanno avuto la loro stessa esperienza sia con professionisti

socio-sanitari.

I motivi che inducono le donne a migrare sono di vario tipo: guerra, problemi economici,

sentimentali o lavorativi.

La migrazione comporta per le donne non solo il confronto con altri valori ed altre norme

comportamentali ma anche la ridefinizione del proprio ruolo. Esso si trasforma in quanto la donna

diventa lavoratrice e a volte assume la funzione di capofamiglia. Nei casi in cui, invece, raggiunge

il marito nel nuovo Paese ospitante, rimane spesso casalinga mantenendo il suo ruolo subordinato

rispetto al marito e dedito alla famiglia ed alla casa.

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Il viaggio verso il nuovo Paese rappresenta un passaggio che comporta la fine di un sistema di

relazioni, affetti, abitudini e un nuovo inizio.

Immigrazione e parto

La femminilizzazione dei flussi migratori ha causato l’arrivo di donne giovani e fertili con

problematiche connesse alla salute sessuale e riproduttiva. Queste donne si trovano ad affrontare

disagi psichici di vario tipo tra cui condizioni svantaggiate della gravidanza, elevato tasso di

interruzione di gravidanze, scarso allattamento e problemi nel puerperio.

Riguardo all’interruzione volontaria di gravidanza spesso essa è collegata a una situazione sociale

precaria, di prostituzione o sfruttamento.

Per le donne immigrate affrontare la gravidanza e il parto in un paese diverso dal proprio può creare

delle difficoltà. La migrazione comporta la rottura del supporto culturale e psicologico e di

conseguenza per le donne risulta difficile diventare madre lontano dalle loro madri e dal gruppo

culturale dove vengono trasmessi i modi di fare con il bambino, di curarlo e pensarlo: “si può

essere madri qui soltanto se si ricorda cosa vuol dire essere madri laggiù” (Moro 2002).

Diventare madre nella migrazione significa vivere un evento fondamentale della propria vita in una

situazione di frattura rispetto alla propria origine, alla famiglia di origine, ai valori e alle tradizioni.

“L’isolamento culturale e affettivo, la medicalizzazione dei processi legati alla nascita e i

mutamenti di carattere socio-economico comportano spesso problematiche di disagio, di precarietà

ambientale ed emotiva che, nel percorso della gravidanza, parto e puerperio si sommano a quelle

che normalmente ogni madre incontra, moltiplicandosi fino ad avere, in alcune situazioni, una

valenza traumatica” (Moro 2005:26).

In ogni Società l’evento della nascita, come il periodo della gravidanza, ha una forte connotazione

culturale e sociale.

Questo momento è identificato da un certo grado di rischio attorno a cui ruotano credenze e pratiche

profondamente radicate nella cultura da cui traggono origine. La dimensione del rischio in ogni

civiltà coinvolge la nascita e la morte, dimensioni che nel parto si incontrano.

All’interno di questa dimensione ci sono spesso rituali ben codificati che si iscrivono nei riti di

passaggio.

L’impatto di una donna immigrata con il moderno sistema di nascita può essere drammatico.

Studiare la nascita nelle sue fasi (ad esempio il tempo dell’attesa) significa analizzare il rapporto

che il gruppo culturale ha con la vita e la morte (Ranisio 1996).

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Il parto è un rito di passaggio che assume forme diverse in ogni cultura.

In particolare esso è un momento di crisi traumatica (Jordan 1983) in cui si concentra un enorme

carico di senso: “la donna affronta la morte e partecipa al potere creatore della divinità

scompigliando l’ordine sociale” (Balsamo 1997).

Vi è la ricorrenza nelle culture più diverse di metafore che richiamano la natura ed i suoi ritmi per

spiegare, raccontare, narrare eventi legati alla fertilità e alla riproduzione e che spesso identificano

la fertilità della donna con quella della terra-madre e di conseguenza l’atto sessuale con l’azione di

lavorare la terra.

Il corpo è al centro dell’evento della nascita e racchiude in sé il segreto della natività rivelandosi

denso di significati.

La nascita rappresenta uno dei passaggi chiave del ciclo di vita e il rischio che ne comporta viene

affrontato attraverso rituali che vengono utilizzati come strumenti culturali per attraversare ed

agevolare un passaggio da uno status ad un altro della vita, in questo caso la nascita.

Esistono rituali per la gravidanza, per il parto e infine i riti per la nascita che hanno lo scopo di

reintegrare la donna nel gruppo sociale di appartenenza, dopo averle conferito un nuovo status

sociale (di madre) in particolare quando si tratta del primo nato e, in molte culture, di un figlio

maschio.

Nel paese di origine la maternità e il parto sono eventi che coinvolgono tutta la famiglia allargata e

le donne della comunità. Il parto è un momento di comunicazione tra donne in cui l'uomo viene

parzialmente escluso.

Nel paese straniero, in cui predomina la medicalizzazione, la maternità e il parto sono vissuti in

solitudine per cui spesso il senso di inadeguatezza, insito nell'essere straniere, è potenziato dal

"vissuto malato" del partorire e nascere in solitudine senza la famiglia allargata.

“Il periodo perinatale porta con sé una regressione e un’emotività specifica. L’esilio non fa che

potenziare la trasparenza che si manifesta in entrambi i genitori, anche se in modo differente, a

livello psichico e culturale” (Moro 2005:97).

Il modello del parto “ospedalizzato” e dove viene dato un valore primario alla sicurezza attraverso

la tecnologizzazione, spesso contrasta con i modelli culturali delle donne immigrate.

In ospedale le difficoltà di comprensione linguistiche e culturali da parte degli operatori dei reparti

ostetrici portano, inoltre, all'interruzione precocissima, se non addirittura al non stabilirsi,

dell'allattamento materno.

Sia nel caso in cui il personale medico sia propenso all’ascolto e alla messa in discussione di alcuni

elementi del proprio “sistema di credenze”, sia nel caso in cui l’atteggiamento del personale sia

meno flessibile, ciò che avviene nell’ospedale è un incontro fra modelli culturali diversi.

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Gravidanze ravvicinate, nascite pretermine, basso peso alla nascita, ricorso all'interruzione

volontaria di gravidanza e a pratiche di contraccezione non conosciute e non capite rappresentano

alcuni degli aspetti più drammatici.

La patologia della povertà (malnutrizione, malattie respiratorie, parassitosi, tubercolosi) e la

patologia di sradicamento (cambiamento dei ritmi, del clima, dell'alimentazione, sentimento di

tradimento al gruppo di appartenenza e conseguente facilità all'insorgenza di malattie

psicosomatiche) sono alcune delle patologie e delle problematiche che si trovano ad affrontare, da

una parte, le donne immigrate in Italia e, dall'altra, gli operatori sanitari sia del settore pubblico che

del "privato-sociale".

L’ospedale, con l’aumento continuo dell’utenza straniera, si trova a doversi ridefinire. Un elemento

rilevante riguarda l’introduzione della figura della mediatrice culturale che in base alla propria

appartenenza ad un gruppo culturale diverso e ad una specifica preparazione di carattere teorico-

pratico svolge: - attività di traduzione linguistica;- attività di mediazione culturale ; -promuove fra i

membri del proprio gruppo culturale la conoscenza dei servizi e delle opportunità offerte dalle

istituzioni.

Altri aspetti che possono essere affrontati nell’ambito ospedaliero sono:

• La prevenzione e il riconoscimento di fenomeni di violenza familiare

• Il conflitto intergenerazionale e il ruolo mediatore delle donne di seconda generazione

• Gravidanza: rituali e usanze di sostegno radicati nella tradizione

Gli strumenti che possono essere utilizzati per offrire un sostegno alle donne immigrate

comprendono colloqui individuali e gruppi di donne immigrate che possano favorire un senso di

solidarietà e sostegno reciproco oltre a ricevere informazioni di carattere socio-sanitario.

Disagio Psicologico da Immigrazione

Le disabilità psicologiche da immigrazione/integrazione sono state esaminate in modo particolare

negli States (USA), UK, Germania. Da queste analisi sono emersi studi statistici che focalizzano la

diversità della risposta psicologica in base al gruppo etnico d’appartenenza, al ceto sociale, alle

modalità di trasferimento nel nuovo Paese, dal grado di condivisione della scelta d’allontanarsi dalla

propria realtà e dal mondo di origine.

I viaggi degli immigrati in una nuova terra sono stati tra i tentativi più interessanti e nobili

dell'uomo.

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E 'stupefacente il coraggio di fuggire l'oppressione, di lasciarsi alle spalle tutto ciò che è familiare, e

al caso l'ostilità di una cultura completamente aliena al fine di trovare la libertà, opportunità e una

vita migliore.

Gli immigrati si spostano in un paese nuovo per la migliore delle motivazioni: il desiderio di

migliorare la loro vita, la voglia di lasciare i paesi i cui governi non poteva sopportare, e la volontà

di lavorare per un altro paese dove le persone possono vivere in libertà e dignità.

Gli immigrati si trovano spesso ad affrontare difficoltà ad adattarsi alla loro nuova casa in un nuovo

paese per molte ragioni, tra cui affrontare il trauma vissuto nel loro paese nativo, superando barriere

culturali e linguistiche, e incontrando la discriminazione. Questo può portare a problemi psicologici

e comportamentali gravi e di lunga durata, tra cui depressione, ansia, disturbo da stress post-

traumatico e in casi estremi anche rischio di suicidio. In particolare nei paesi dove la popolazione è

costituita da diversi gruppi etnici, come l’Australia, la frequenza del suicidio che si osserva in tali

gruppi è simile a quella delle popolazioni dei paesi d’origine, almeno negli immigrati di prima o

seconda generazione.

Questo dimostra come la cultura del paese d’origine continui ad influenzare i migranti, influendo

sulle modalità di vivere la famiglia, le relazioni interpersonali, le credenze e i valori. Nelle

successive generazioni si assiste a un ridimensionamento delle differenze nella frequenza del

suicidio tra la popolazione autoctona e quella immigrata

L’etnopsichiatria, campo della psichiatria che si occupa di trattare la relazione tra cultura e psiche,

sviluppa il concetto di “trauma migratorio”. Il trauma viene definito come un evento che produce un

corto circuito psichico o fisico, perché la mente ed il corpo vengono sopraffatti dall’intensità degli

stimoli creando disturbi al funzionamento dell’Io mentale e dell’Io corporeo. (Chinosi 2001)

“La migrazione è come una ferita, che introduce una frattura nella realtà temporale, una

discontinuità a partire dalla quale il prima ed il dopo assumeranno un valore nuovo, e questo

processo non può essere mai indifferente a colui che lo abita” .(Beneduce 1998:33)

L’esperienza della migrazione non può essere circoscritta al momento della separazione dal paese

natio e dell’impatto con il paese ospitante, poiché spesso la percezione traumatica di quanto

avvenuto si ha dopo un periodo di calma apparente.

Il cosiddetto trauma migratorio sarebbe inoltre trasmesso di generazione in generazione, attraverso

gli stessi meccanismi di trasmissione dell’identità etnica .

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“ I figli di questi immigrati che sono arrivati dalle regioni del mondo che furono un tempo colonie,

non diversamente da quelli che giungono dal Meridione d’Italia nelle città del nord (…)non

ricordano, ma sanno quale fu l’accoglienza riservata (…) ai propri padri: l’ostilità, la diffidenza, il

razzismo o la benevolenza paternalistica con i quali essi sono stati accolti sono diventati il terreno

fertile per quelli che al clinico appaiono oggi, negli immigrati impropriamente definiti di “seconda

generazione”, nient’altro che “disturbi” caratteriali, “disordini” di condotta o “ideazioni

paranoiche”. Quella memoria di frustrazione e di dolore non ha potuto sempre innalzarsi sino a

diventare consapevolezza storica di quanto è avvenuto, non si è fatta coscienza critica: è rimasta

esclusa, e si è come incarnata in essi, nella loro incerta arroganza, nella loro sofferenza urlata.

Negata dalla storia (…)essa può risorgere dunque come sintomo”(Beneduce 1998:53-54).

La trasmissione dell’identità culturale e la sua riproduzione possono essere ostacolate dal mancato

funzionamento della famiglia come cerniera, o dal mancato riconoscimento o valorizzazione della

cultura e dei valori caratteristici di un gruppo da parte del nuovo contesto sociale.

Tra gli effetti della migrazione, il sentimento più diffuso è la nostalgia attraverso cui il migrante

oppone il nuovo contesto sociale con l’ostinazione dei propri ricordi. La nostalgia esprime

un’insofferenza, un’inquietudine all’interno di una società in cui il migrante non si sente a proprio

agio. Il rischio è quello di rimanere incastrato nei ricordi non riuscendo di conseguenza a costruire

quella familiarità ricercata nel nuovo Paese.

Dopo una fase di trauma, nostalgia, spaesamento il soggetto migrante inizia il processo di

integrazione che gli permette il controllo delle angosce attraverso una nuova progettualità sul

futuro. Compare un sentimento di identità rimodellato (Grinberg e Grinberg), di identità ricostruita

(Corin) che riesce a tenere insieme passato, presente e futuro.

La condizione stessa di migrante può divenire un rischio per la salute in quanto spesso si associa a

situazioni penalizzanti legate all’irregolarità giuridica, alle cattive condizioni abitative o di lavoro ,

alla nostalgia per i cari lontani e tutte le difficoltà legate all’integrazione in una nuova Società.

Gli effetti dell'immigrazione sulla psicologia ed il benessere sociale sono particolarmente profondi

per alcune popolazioni, tra cui bambini, donne, persone con disabilità, e quelli con limitate risorse

finanziarie.

Molti immigrati sono spesso costretti a sviluppare attività poco qualificati, anche se hanno la

formazione e l'istruzione per lavori professionali. Non possono sostenere il loro precedente status

economico e sociale, che può portare a stress psicologico.

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L’immigrazione stessa rappresenta un forte rischio di disagio psichico a causa dello sradicamento

sociale e delle difficoltà di integrazione.

Donne, immigrazione e disagio

La particolare posizione delle donne nella migrazione, il continuo conflitto fra due o più sistemi di

riferimento, l’obbligato ripensamento alla propria identità femminile in tutti gli aspetti in cui si può

articolare, determinano una condizione di fragilità e rischio di esposizione alla “malattia”.

La ridefinizione del proprio ruolo all’interno della nuova società include anche ogni possibile

interpretazione delle scelte e dei comportamenti legati alla propria salute sessuale e riproduttiva.

In particolare con l’arrivo dei figli il progetto migratorio si modifica e con esso le condizioni di

inserimento e l’impostazione del rapporto con il Paese di origine. I nuovi arrivati introiteranno una

cultura estranea a quella materna mettendo in crisi le certezze e i saperi tradizionali.

La violenza verso le donne è sicuramente un problema centrale che riguarda tutti i paesi dove le

donne sono maltrattate, mutilate o massacrate dagli uomini che più contano nella loro vita.

La violenza risulta la prima causa di morte e invalidità permanente per le donne fra i 16 e 44 anni

(prima del cancro, incidenti stradali e guerre); essa viene accettata in silenzio o per motivi culturali

o per vergogna.

Una prospettiva di lavoro è rappresentata dalla necessità di sensibilizzare sul tema della violenza di

genere ed educare al rispetto e alle relazioni in particolare verso le seconde generazioni.

Per le donne straniere si aggiungono altri disagi collegati alla diversità dei sistemi di cura nel paese

ospite, alla difficoltà di relazione e di comunicazione linguistica e, in molti casi a situazioni sociali

di marginalità sociale, isolamento, mancanza di informazioni, lavori pesanti, condizioni di

sfruttamento che influenzano negativamente la salute.

In particolare, per le donne immigrate affrontare la gravidanza e il parto in un paese diverso dal

proprio può creare delle difficoltà.

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Identificazione delle inabilità psicologiche

Al fine d’identificare le possibili disabilità psicologiche correlate con la tematica di immigrazione

ed integrazione nell’area Friuli Venezia Giulia, potrebbe essere utile istruire una procedura

applicativa articolata sui seguenti punti e cioè:

1. Applicazione della Symptom Checklist-90 per intervistare le donne immigrate;

2. Interviste delle donne appartenenti alle maggiori comunità locali (serbe, croate, albanesi,

ecc.) come riportato nell’allegato;

3. Identificazione delle sintomatologie presenti;

4. Definizione degli approcci terapeutici applicativi.

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Bibliografia AA.VV. Dizionario delle diversità, Roma

Balsamo F., da una sponda all’altra del Mediterraneo. Donne immigrate e maternità, l’Harmattan

Italia, Torino, 1997.

Beneduce R., Frontiere dell’identità e della memoria, Franco Angeli, Milano, 1995.

Caritas-Migrantes, Dossier statistico Immigrazione 2005, XV Rapporto

Chinosi L., Sguardi di mamma. Modalità di crescita dell’infanzia straniera, Franco Angeli, Milano,

2002

Grinberg L. e Grinberg R., Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio, Franco Angeli, Milano, 1990.

Moro M.R., Genitori in esilio, Cortina, Milano, 1994-2001

Ranisio G., Venire al mondo: credenze, pratiche e rituali del parto, Roma, Meltemi, 1996.

Jordan B., Sistemi natali ed etno-ostetricia: frammenti di una ricerca transculturale, in Oakley 1985