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DOMENICA 3 GIUGNO 2007 D omenica La di Repubblica i luoghi Shangri-La, il mito diventato business FEDERICO RAMPINI la lettura Una griglia per cuocere all’inferno BILL BUFORD e CARLO PETRINI cultura PAOLO RUMIZ LONDRA « M a non è morto?», esclama il fattorino, mentre consegna il plico indirizzato a Paul McCartney. «No, John Lennon è morto, George Harrison è morto. Ma Paul è vivo e vegeto. E oggi è nostro ospite», risponde impassibile il portiere del piccolo e prezioso albergo di Tottenham. «Ti sbagli, Paul è morto prima di John. L’unico vivo è Ringo. Quello che da de- cenni si spaccia per lui è un sosia», insiste, mentre s’infila il casco, pronto a risalire sullo scooter. Incredibile, c’è ancora chi crede a quell’antica leggenda metro- politana. La misero in giro nel 1969, quando tutti si affannavano a trovare una spiegazione allo scioglimento dei Beatles. Dicevano che il vero Paul era morto il 9 novembre 1966, decapitato in un tru- ce incidente stradale. All’epoca ci fu anche un attore squattrinato, certo William Campbell, che dichiarò di essere stato contattato, a causa della sua somiglianza con Paul, per rimpiazzare il Beatle de- funto nel gruppo rock più famoso del mondo. La verità è assai più banale: quel giorno Paul, che era ancora fidanzato con l’attrice Ja- ne Asher, era a casa del suo blasonato amico Tara Browne, in trip li- sergico e con lo spinello in mano. Fu proprio Browne, allora ventu- nenne e presumibilmente sballato, a schiantarsi con la sua Lotus Elan contro un camion parcheggiato in una via del centro. Quan- do lesse la notizia sui giornali, Lennon scrisse di getto A day in the life, uno dei capolavori di Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band, l’al- bum dei Beatles pubblicato esattamente quarant’anni fa. Paul McCartney è vivo e vegeto, il 18 giugno compie sessanta- cinque anni e pubblica domani un nuovo album, Memory almost full, il ventunesimo dallo scioglimento dei Beatles, che non è ge- niale e grandioso come Sgt Pepper, ma suona tutt’altro che apo- crifo. Invecchiando, assomiglia più a Angela Lansbury che al paf- futo studentello che, a partire dal 1963, scatenò un’isteria che non ha uguali nella storia del pop. Non è un periodo felice della sua vi- ta. Il divorzio dalla seconda moglie Heather Mills e le dispute per l’affidamento della figlioletta Bea, di tre anni e mezzo, sono state le occupazioni principali degli ultimi mesi. Si è consolato dalla delu- sione di non aver trovato un’altra Linda, scegliendosi un amore me- no esigente, il mandolino, che si è messo a studiare con l’entusia- smo di un musicista al primo anno di conservatorio. Ci accoglie suonandoci una serenata napoletana. «Roma. Roma, la bella Roma», esclama in italiano. «Che ricordi! Quando suonam- mo con i Beatles al Teatro Adriano (27 giugno 1965), incontrammo Noel Coward nell’albergo dove gli organizzatori ci avevano siste- mato, a due passi dallo zoo. Ma il free concertche ho tenuto l’11 mag- gio 2003 al Colosseo mi ha dato emozioni anche più forti. Vedere quella marea di gente che riempiva i Fori Imperiali è stata la sensa- zione più inebriante che abbia mai provato su un palcoscenico». (segue nelle pagine successive) la memoria La libreria lunga diciotto miglia A.M. HOMES e ANTONIO MONDA il reportage GIUSEPPE VIDETTI spettacoli E.T. e Blade Runner, il doppio futuro IRENE BIGNARDI e SILVIA BIZIO Viaggio nella pattumiera d’Europa ATTILIO BOLZONI e ITALO CALVINO secolo da Mezzo Beatles Alla vigilia dell’uscita del suo nuovo album, “Memory Almost Full”, Paul McCartney racconta in esclusiva i ricordi e le emozioni di una vita “che gli ha dato tutto” Scipione l’Africano e il suo maestro FOTO DA THE COMPLETE BEATLES CHRONICLE Repubblica Nazionale

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DOMENICA 3GIUGNO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

i luoghi

Shangri-La, il mito diventato businessFEDERICO RAMPINI

la lettura

Una griglia per cuocere all’infernoBILL BUFORD e CARLO PETRINI

cultura

PAOLO RUMIZ

LONDRA

«Ma non è morto?», esclama il fattorino,mentre consegna il plico indirizzato aPaul McCartney. «No, John Lennon èmorto, George Harrison è morto. Ma

Paul è vivo e vegeto. E oggi è nostro ospite», risponde impassibile ilportiere del piccolo e prezioso albergo di Tottenham. «Ti sbagli,Paul è morto prima di John. L’unico vivo è Ringo. Quello che da de-cenni si spaccia per lui è un sosia», insiste, mentre s’infila il casco,pronto a risalire sullo scooter.

Incredibile, c’è ancora chi crede a quell’antica leggenda metro-politana. La misero in giro nel 1969, quando tutti si affannavano atrovare una spiegazione allo scioglimento dei Beatles. Dicevanoche il vero Paul era morto il 9 novembre 1966, decapitato in un tru-ce incidente stradale. All’epoca ci fu anche un attore squattrinato,certo William Campbell, che dichiarò di essere stato contattato, acausa della sua somiglianza con Paul, per rimpiazzare il Beatle de-funto nel gruppo rock più famoso del mondo. La verità è assai piùbanale: quel giorno Paul, che era ancora fidanzato con l’attrice Ja-ne Asher, era a casa del suo blasonato amico Tara Browne, in trip li-sergico e con lo spinello in mano. Fu proprio Browne, allora ventu-nenne e presumibilmente sballato, a schiantarsi con la sua LotusElan contro un camion parcheggiato in una via del centro. Quan-

do lesse la notizia sui giornali, Lennon scrisse di getto A day in thelife, uno dei capolavori di Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band, l’al-bum dei Beatles pubblicato esattamente quarant’anni fa.

Paul McCartney è vivo e vegeto, il 18 giugno compie sessanta-cinque anni e pubblica domani un nuovo album, Memory almostfull, il ventunesimo dallo scioglimento dei Beatles, che non è ge-niale e grandioso come Sgt Pepper, ma suona tutt’altro che apo-crifo. Invecchiando, assomiglia più a Angela Lansbury che al paf-futo studentello che, a partire dal 1963, scatenò un’isteria che nonha uguali nella storia del pop. Non è un periodo felice della sua vi-ta. Il divorzio dalla seconda moglie Heather Mills e le dispute perl’affidamento della figlioletta Bea, di tre anni e mezzo, sono state leoccupazioni principali degli ultimi mesi. Si è consolato dalla delu-sione di non aver trovato un’altra Linda, scegliendosi un amore me-no esigente, il mandolino, che si è messo a studiare con l’entusia-smo di un musicista al primo anno di conservatorio.

Ci accoglie suonandoci una serenata napoletana. «Roma. Roma,la bella Roma», esclama in italiano. «Che ricordi! Quando suonam-mo con i Beatles al Teatro Adriano (27 giugno 1965), incontrammoNoel Coward nell’albergo dove gli organizzatori ci avevano siste-mato, a due passi dallo zoo. Ma il free concertche ho tenuto l’11 mag-gio 2003 al Colosseo mi ha dato emozioni anche più forti. Vederequella marea di gente che riempiva i Fori Imperiali è stata la sensa-zione più inebriante che abbia mai provato su un palcoscenico».

(segue nelle pagine successive)

la memoria

La libreria lunga diciotto migliaA.M. HOMES e ANTONIO MONDA

il reportage

GIUSEPPE VIDETTI

spettacoli

E.T. e Blade Runner, il doppio futuroIRENE BIGNARDI e SILVIA BIZIO

Viaggio nella pattumiera d’EuropaATTILIO BOLZONI e ITALO CALVINO

secoloda

Mezzo

Beatles

Alla vigilia dell’uscitadel suo nuovo album,

“Memory Almost Full”,Paul McCartney

racconta in esclusivai ricordi e le emozioni

di una vita“che gli ha dato tutto”

Scipione l’Africano e il suo maestro

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la copertinaBeatles per sempre

Cinquant’anni fa Paul McCartney incontravaJohn Lennon e avviava un sodalizioche avrebbe modificato la storia della musicaOggi pubblica il suo nuovo album, “MemoryAlmost Full”, e in questa intervista esclusivaspiega perché non è ancora tempo di bilanci

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

“Che voglia e che pauradi cambiare ancora”

preferisce pensarlo al femminile, co-me grande madre universale, un’im-magine che fa tremare i teologi. Io hosolo il sentore che il mondo è meravi-glioso e che l’universo è un posto in-credibile, e questo mi rende ottimistasull’aldilà. Mi aiuta a superare qual-siasi paura».

Nel 1998, quando Linda morì dicancro del seno, Paul perse la bussola.Poche settimane prima aveva convo-cato una conferenza stampa a Londraper la pubblicazione dell’album Fle-ming pie. Proprio quel giorno lei si ag-gravò. C’erano giornalisti arrivati dal-l’Australia e dalla Nuova Zelanda,stremati dal viaggio, che bivaccavanonell’auditorio. Attesero ore, Paul nonarrivò. Alla fine quel posto era ridottoa un dormitorio pubblico. Due anni fa,al Bristol di Parigi, lo aspettarono unagiornata intera, nella hall popolata damiliardari sauditi e dalle loro inacces-sibili consorti. Quando apparve, dissea tutti: «Ho sette minuti, spero basti-no». Bisbetico, intrattabile, oppurereso fragile dal dolore e dall’avanzaredegli anni?

Oggi è in buona, tutto merito delmandolino. «Paura d’invecchiare?Oddio, a chi piace? Quando sono so-prappensiero, continuo a immagi-narmi come un bel ragazzo di venti-cinque anni. Poi mi guardo allo spec-chio, e vedo un’altra realtà. Ma non mifanno paura le rughe, è inevitabile, undestino che ci accomuna. E, franca-mente, non è tutto negativo, ora guar-do la vita con un occhio più rilassato.Da ragazzo ero ossessionato dalla miaapparenza, soprattutto quando sape-vo che c’erano in giro fotografi. Mipreoccupavo dei capelli, del comple-to che indossavo. Ma il fatto che iocontinui a immaginarmi l’eterno ra-gazzo del 1965 è dovuto al fatto chequando si parla di Paul McCartney igiornali continuano a usare vecchiefoto di repertorio. Eppure non sonoancora un rottame. Per questo ringra-zio l’Uomo Vogue per avermi dedicatoun servizio fotografico nuovo di zeccanel numero di luglio. E poi diamine,un sacco di donne, ragazze anche, so-stengono che gli uomini invecchian-do diventano più sexy. Io sono d’ac-cordo con loro».

Cinquant’anni fa, d’estate, in cimaai suoi pensieri c’erano altre priorità.Il rock’n’roll aveva appena conquista-to l’Inghilterra e Paul sognava il suoposto al sole. Entrare a far parte di unadelle band di Liverpool sarebbe giàstata un’ebbrezza sufficiente a placa-re l’ambizione di un adolescente diprovincia. Quando in autunno tornò ascuola, la sua vita era già avviata versoil cambiamento totale. «Ho un ricordovivido dell’anno 1957. Avevo quindicianni, il mio amico del cuore si chia-mava Ivan, frequentavamo la stessaclasse, ma lui era anche molto legato aun altro gruppo di ragazzi della sua zo-na, e non faceva che parlarmi “di uncerto John che aveva diciassette annie aveva una band...”. Era il 6 di luglio,la scuola era finita. Insistette per por-tarmi a una fiera organizzata dallaparrocchia. Ascoltai John cantare, poiIvan me lo presentò. Fu una giornataparticolare per me. E il destino volleche diventasse memorabile. Il desti-no? O cos’altro? Ricordo come fosseora il momento in cui scivolai dietro ilpalco e feci ascoltare a John Lennonquella canzone, Twenty flight rock,che Eddie Cochran aveva pubblicatoproprio quell’anno. Mi accompagnaicon la chitarra, cercando in tutti i mo-di di fare buona impressione. A quan-to pare funzionò, due settimane piùtardi mi chiese se volevo far parte deiQuarry Men. Ero eccitatissimo, felice.Non sa quante volte, in questi cin-quant’anni, ho pensato: se non ci fos-se stato Ivan Vaughan non sarei anda-to a quella festa, e se non ci fossi anda-to non avrei mai incontrato John, e senon avessi incontrato John non ci sa-rebbero stati i Beatles, e così via. La no-stra vita è tutta frutto di coincidenze epiccoli incidenti di percorso». La voce

(segue dalla copertina)

Lascia il mandolino a ripo-so sul divano, e riflette sultitolo del nuovo disco:Memoria in esaurimento.«Non vuol mica dire chePaul McCartney è arrivato

al capolinea. È solo una frase che holetto un giorno sul mio cellulare so-vraccarico di sms, e mi è sembrato untitolo carino, in sintonia con questitempi in cui abbiamo troppo di tutto.Ma c’è poco da fare, è così che abbia-mo scelto di vivere. Mi fa incazzare lagente che dice: “Non ho tempo perquesta cosa o quest’altra”. Mi viene darispondergli: “Sì che hai tempo, ne haiquanto ne vuoi, basta solo che ti orga-nizzi”. Ed è quel che faccio io. Anchequando la memoria è in esaurimento,lascio sempre un po’ di spazio per lavita vera, camminare per strada, an-nusare l’aria, ammirare la natura. Noncerco, in questo modo, di trovare lagiusta ispirazione per scrivere nuovecanzoni, grazie a Dio quelle vengononaturalmente (in questo ho una fortu-na sfacciata), lo faccio per sentirmi vi-vo, per godermi l’essenza della vita. Ionon vado pazzo per i computer, e mivengono i brividi quando sento dire:“Sai, ieri ero al pc e ho fatto una mera-vigliosa passeggiata in una foresta…virtuale”. No, guardi, io preferisco unbosco spelacchiato, purché sia vero.Ho bisogno di annusarla la natura, io.E poi, vogliamo parlare del sesso vir-tuale? Non è roba per quelli della miagenerazione. Eppure un amico dellamia età l’altro giorno se n’è uscito: “SaiPaul, l’ho fatto in cam, non è poi cosìmale”. “Sei fuori di testa?”, gli ho det-to. “Muoviti! Esci di casa e trovati unadonna”».

Mezzo secolo di canzoni, la militan-za nel gruppo numero una della storiadel pop, la comproprietà del reperto-rio più prestigioso e redditizio dell’ul-timo secolo di musica, un patrimoniodi mille milioni di euro (che questo di-vorzio rischia d’intaccare per il dieciper cento); molti al posto suo si sareb-bero blindati da decenni in una pri-gione dorata, a godersi i diritti d’auto-re: quelli di Yesterday per mantenerelo yacht, quelli di Michelle per la villaal mare, quelli di Let it be per sostene-re le ambizioni della figlia stilista (Stel-la McCartney), quelli di I want to holdyour hand per la piccolina, e così via.«Che idea! Non ho mai pensato dismettere, mai. Ci sono stati, è vero,momenti di grande pressione nellamia vita, ma la musica non c’entra, lamusica non mi ha mai causato stress.Ora sto affrontando un divorzio, è unostrazio; quando i Beatles si separaro-no, fu una tragedia. Ma anche in que-sti frangenti, la musica rimane unabuona compagna, una fonte di salvez-za. Le dicevo prima che le canzoni mivengono naturalmente, come bisognifisiologici. Intendevo dire che non c’èstato mai un momento in cui ho sten-tato a trovare l’ispirazione, in cui hopensato: chissà se domani riuscirò ascrivere un’altra strofa o un altro ritor-nello? Le canzoni, al contrario, mi siaffollano in testa, più ne scrivo, più mene vengono».

Ma sessantacinque anni è pur sem-pre un’età in cui un uomo avrebbe di-ritto alla pensione, l’epoca dei bilanci,delle riflessioni. In The end of the end,nell’ultimo disco, Paul fa ipotesi sul-l’aldilà. «Non mi considero una perso-na molto religiosa. Non ho un credo,ma riesco a percepire chiaramente laspinta verso una qualche forma di spi-ritualità insita negli esseri umani, il bi-sogno di credere che l’universo sia unposto più grande di quello che sem-bra, che ci sia una vita oltre la morte.Ma non so cosa sia né posso immagi-nare a cosa possa assomigliare Dio. Loraffiguriamo come un vecchio signo-re con la barba, perché abbiamo biso-gno di crederlo equo e rassicurante,generoso e protettivo. Ma questo, perla verità, è poco razionale. Qualcuno

Ringo StarrAll’epoca in cui stavaper uscire “Let it be”,Paul aveva già pronto

il suo primo discoda solista e si arrabbiòmolto quando chiesi

di posticiparloAlzò la voce, era fuori

di sé, aveva persoil controllo

L’INCONTROPaul McCartney

incontra John Lennon

e si unisce alla sua

band, i Quarry Man

È il 6 luglio,

giornata storica

per la musica

IL DEBUTTOI Beatles suonano

il loro primo concerto

serale al Cavern

di Liverpool. È il 21

marzo. Dall’agosto

dello stesso anno,

la band suonerà tutti

i mercoledì sera fino

al 1963 per un totale

di 292 esibizioni. Il

locale sarà chiamato

“la casa dei Beatles”

LINDAIl 12 marzo Paul

sposa Linda Louise

Eastman. Sarà

il grande amore

della sua vita. I due

avranno quattro figli,

Heather, Mary, Stella

e James. Non si

separano mai se

non per i nove giorni

in cui Paul finisce

in prigione in Giappone

per possesso

di marijuana. Linda

muore di cancro

il 17 aprile 1998

‘‘

GIUSEPPE VIDETTI

1961

1957

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‘‘John LennonMi chiamò

e mi disse che stavaper pubblicare

un album da solistae aveva deciso

di lasciare il gruppoMi parve strano,

perché per una voltaera Paul a dirlo

e non io

George HarrisonTutti e due eravamo appassionati

di chitarre. Mia madre me ne compròuna, ma Paul, all'inizio, aveva solo

una tromba e ci suonava di continuo“When the saints go marching in”Poi capì che se suonava la trombanon poteva cantare e fece cambio

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 3GIUGNO 2007

si spezza, Paul accarezza il mandoli-no, il pensiero va a John, alla magiache insieme hanno generato.

A Ivan, nato anche lui il 18 giugnodel 1942, Lennon e McCartney sonostati riconoscenti per tutta la vita. Do-po la laurea, Vaughan trovò impiegocome maestro. Fu sua moglie Jan, in-segnante di lingue, che aiutò i Beatlesa comporre il testo francese di Michel-le. Quando morì di Parkinson, nel1994, Paul fu sconvolto. Iniziò a scri-vere poesie. «Non lo facevo da quandoero bambino», dice. Ivan era parte at-tiva della comunità floreale dei Bea-tles anche quando il quartetto comin-ciò a scrivere Sgt Pepper. Che uscì esat-tamente dieci anni dopo il primo in-contro di Paul con John. «Avrei biso-gno di tre anni per raccontare quelloche accadde dal ‘57 al ‘67. Tutto cam-biò di colpo, diventammo molto fa-mosi in quei dieci anni, prima moltoconosciuti, poi straordinariamentepopolari, infine universalmente noti.Non solo le nostre vite, ma anche lenostre menti cominciarono a espan-dersi in territori sconosciuti. Poco do-po, incontrai Linda, e iniziò un nuovoperiodo. Così Paul McCartney comin-ciò ad avere a che fare con moglie e fi-gli. Famiglia, come dite voi italiani.Che bella parola! Suona calda, gene-rosa. Con la nuova band, i Wings, fudifficile all’inizio. Era gratificante ave-re l’opportunità di continuare a farmusica, ma era mortificante vivere al-l’ombra dei Beatles, un gruppo leg-gendario e talmente famoso da sco-raggiare qualsiasi paragone. Mi fa pia-cere che oggi ci sia una riscoperta deiWings e una rinascita del rock. Qual-cuno va predicando che questo è unperiodo morto per la musica. Io nonsono d’accordo. Ci sono giovani grup-pi come Kaiser Chiefs e Snow Patrolche sanno il fatto loro. Lo sperimenta-lismo dei Radiohead ha prodotto frut-ti magnifici. I computer non sono an-cora riusciti a metterci fuori uso. Il pe-ricolo, di questi tempi, è che affidan-doci anima e corpo alla tecnologia, fi-nisce che diventiamo schiavi dellemacchine. Mi pare che oggi ci sia unareazione dei giovani nei confronti del-la tecnologia, preferiscono la chitarraelettrica ai sintetizzatori».

Non ha fatto simpatia, né ai figli néal pubblico, che Paul, a quattro annidalla morte di Linda, si sia risposatocon Heather Mills. «La solitudine gio-ca brutti scherzi», dice. Ma oggi che èdi nuovo un uomo libero, il pensierocorre alla donna con cui ha vissutotrent’anni. Gratitude, nel nuovo disco,è dedicata a lei. «A Linda devo essere ri-conoscente per essermi stata accantofino alla morte, senza di lei non sareisopravvissuto artisticamente alla se-parazione dei Beatles. Ma Gratitude èuna canzone che ho scritto pensandoa tutto quel che di buono ho avuto dal-la provvidenza, e in cima alla piramideci sono lei, i miei figli, poi i Beatles, gliamici, Dio. Sono un privilegiato che aun certo punto ha sentito il bisogno didire grazie. L’altro giorno qualcuno miha chiesto se ho dei rimpianti. Non mihanno preso sul serio quando ho ri-sposto: “Ho il rimpianto di non saperpattinare”. Lei sa pattinare sul ghiac-cio? No? E non le dispiace? A me di-spiace. Io rimpiango solo di non saperfare piccole cose, le grandi le ho avutetutte a portata di mano».

Paure? «Qualcuna. Sono in un pe-riodo di cambiamento, che a sessan-tacinque anni è pur sempre un ri-schio. Sto divorziando, e mi chiedo seavrò ancora diritto a un briciolo di fe-licità. Lei è sposato? No? Beato lei chenon vive nell’incubo che dopo il di-vorzio forse non ci sarà nessun’altra.Ma mi fa più paura la stupidità dei po-litici, perché adesso ho la certezza chese ne infischiano della gente». Ripren-de il mandolino, improvvisa un’altraserenata. Ci accompagna verso l’usci-ta col sussiego di un posteggiatore na-vigato. Il portiere lo guarda compia-ciuto. Che follia pensare che sia un so-sia.

LO SCIOGLIMENTOIl 31 dicembre

i Beatles si separano

ufficialmente quando

Paul avvia

un procedimento

giudiziario

per sciogliere

la società

e un curatore

fallimentare viene

incaricato di gestire

i loro affari

SECONDE NOZZEL’11 giugno Paul

sposa l’ex modella

Heather Mills

dalla quale avrà

un’altra figlia,

Beatrice. I due

divorziano, dopo

una feroce battaglia

legale per la divisione

del patrimonio

dell’ex Beatle,

il 29 luglio 2006

CAVALIEREGià dal 1965

membro dell’Ordine

dell’Impero britannico

per meriti musicali

insieme ai Beatles,

l’11 marzo Paul

McCartney viene

insignito dalla regina

con il titolo

di cavaliere

Memory Almost FullPaul McCartney

2007

IL NUOVO CD

Si intitola Memory Almost Full,è il ventunesimo album

pubblicato da Paul McCartney

dopo lo scioglimento dei Beatles

e il primo non distribuito

dalla Emi, che da sempre

ha l’esclusiva del catalogo

Parlophone e Apple. Dal 5 giugno

il cd sarà anche reperibile

in diecimila negozi Starbucks

di ventinove paesi. La Hear

Music, l’etichetta che ha prodotto

l’ultimo lavoro di Sir Paul,

è di proprietà della multinazionale

del caffè, sempre più interessata

alla musica

RamPaul e Linda

McCartney 1971

Please please meThe Beatles

1963

3

4

5

1970

4

1997

2002

5

The Beatles(White Album)

The Beatles 1968

Sgt. Pepper’sLonely Hearts Club Band

The Beatles 1967

Band on the RunPaul McCartney

& Wings 1973

Repubblica Nazionale

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si allunga e si allarga, sale, scende, si rial-za fino a una quarantina di metri e den-tro di sé ha crateri fumanti come i vulca-ni, fosse nere, crepacci. Le sue nebbie sispingono fino a Glina e a Popesti Leor-deni, paesi sventurati scivolati in unadelle pattumiere più gigantesche d’Eu-ropa.

Un recinto verde segna un confineche non c’è più. I camion sollevano nu-vole di polvere e poi vengono ingoiatinella sacca. Ai cancelli fanno la guardiagli zingari. Assoldati per sorvegliare emalmenare chi si inoltra fra le creste deirifiuti a raccattare ferro, plastica, vetro,scarpe sfondate, rimasugli di cibo. È ilpopolo che sopravvive con gli scarti de-gli altri. Sono puntini neri quegli uomi-ni e quelle donne e quei bambini che va-gano per Ochiul Boului. Si muovonolentamente, gli occhi che cercano, lemani che frugano, sprofondano nelmarcio fino alle ginocchia, riaffioranodalla loro miserabile caccia sempre conqualcosa che li farà resistere ancora ungiorno.

Siamo su uno dei precipizi dove vole-vano trasportare la «munnezza» di Na-poli, nascondere qui quello schifo che sidistende fra Portici e il Vesuvio, qui do-ve fanno sparire tutto, ogni specie di ri-fiuto. Quello di Bucarest e quell’altroche viene da lontano, quello stipato suivecchi autocarri che sbuffano sulle ram-pe dopo il tramonto, dei container chesbarcano al porto di Costanza, dei vago-

ni che partono dalla Bulgaria, dei carichifantasma che giungono da Istanbul. Epure dall’Italia. Scambi. Traffici. Mafie.

Il tanfo è spinto da un vento caldo al dilà del recinto. Si spande verso una cam-pagna rinsecchita, trafitta da piloni del-l’alta tensione e scheletri in cemento ar-mato. Caserme diroccate, capannonideserti. È la ferrovia che taglia in due lastrada che sbuca a Popesti Leordeni.L’ultima casa prima della discarica èquella di Niculina Anghel. È nata cin-quantasette anni fa in questa casa e nonse n’è mai andata. Dal suo balcone vedequello che stanno facendo ancora nellavalle, un centinaio di metri più giù. Leruspe risalgono il fianco della collinache è sempre più sottile, sta quasi per ro-tolare nel solco dove una volta scorrevail fiume Dambovita. «E poi il fiume si al-largava fino a formare un laghetto, c’e-rano le trote e le carpe, e attorno c’eranole mucche e i bambini giocavano lag-giù», ricorda Niculina.

È diventata ogni giorno più grande ladiscarica di Ochiul Boului. «Prima o poiinghiottirà anche la mia casa», dice. Mo-stra un foglio, la petizione firmata dallametà dei dodicimila abitanti di PopestiLeordeni. Si sono rivoltati contro quelletamaio che si muove come se fosseuna cosa viva, che manda fuori i suoi fe-tori, che sta conquistando anche gli ul-timi metri rimasti ai giardini, ai cortili,alle stradine poderali. «È tutto inutile:noi siamo piccoli e i padroni della spaz-

ululavano anche le sirene. Un’apocalis-se.

È sporca l’aria. È sporca la terra. Èsporca l’acqua. «Noi la facciamo bollireprima di lavarci o cucinare», dice Mano-le Marin, “primar” di Glina, il sindaco diquell’altro paese che è finito in questatragica periferia romena dove fino aqualche anno fa c’erano sedici fabbri-che e oggi c’è solo quella spaccatura neicampi con le sue sporgenze infette.Un’altra curva ed ecco Glina, altri sette-mila appestati da Ochiul Boului. I casta-gni selvatici bruciati. L’erba gialla, ma-lata. Una lunga via dritta e poi tante tra-verse tutte uguali. Strada Ingusta, stradaVeli, strada Revolutey, strada Rozeloy.Se Popesti Leordeni è costruita qualchemetro più in alto, Glina è ancora piùsciagurata. Sta sotto, schiacciata e soffo-cata. È rassegnato il sindaco Marin: «Cihanno tolto la vita giorno dopo giorno eanno dopo anno, ci hanno ucciso lenta-mente in una camera a gas». E spiega co-me l’immondizia della capitale ha rag-giunto le porte del suo paese.

Era il 1976 quando Nicolae Ceausescudecise di mettere il pattume di tutta lasua Bucarest proprio là, a sud est, inquella campagna che avanza per tre-centocinquanta chilometri fino al maredi Costanza. Arrivarono subito i bulldo-zer. Nel 1978 cominciarono a scaricare.Sparì il fiume. Sparì il lago. Sparirono lemucche. Una voragine e una montagna,un’altra voragine e un’altra montagna.

zatura sono grossi, troppo grossi pernoi», sussurra Niculina. Per legge la di-scarica dovrebbe chiudere nel 2012. Mascavano, scavano sempre in fondo allavalle.

Oltre la ferrovia c’è un “magazinmixt”, uno spaccio. Mirella e suo maritoValentin vendono frutta, birra, giornali,pane, gelati. Sono accerchiati dalla fec-cia, ci vivono dentro. Pagano anche lorola gabella, la tassa sui rifiuti. Poco menodi diciotto lei, l’equivalente di cinque osei euro al mese. Un sacco al giorno chesi portano via in un bidone e quasi ventimilioni di tonnellate che lasciano sull’u-scio della loro casa. Mirella e Valentinraccontano cosa è accaduto l’altro annonell’ultima settimana di maggio, dopola grande alluvione che ha sommerso leregioni più a nord. Mirella non se lo di-menticherà più: «Trascinati dall’acquasono annegati migliaia di cavalli, di ca-ni, di maiali. Li hanno portati tutti qui,ogni notte li infilavano di nascosto aOchiul Boului». E Valentin ha scavalca-to il recinto per scoprire la fine che face-vano: «Li ho visti sotterrare, uno sopral’altro». Le lasciavano lì carcasse, le la-sciavano imputridire nel ventre della di-scarica. Sono cambiati anche gli odori inquelle notti. Le zaffate arrivavano fino aidue paesi, un puzzo aspro. Per scaccia-re mosche e zanzare fecero venire le au-tobotti e cominciarono a rovesciare di-sinfettanti con le pompe. La discaricaera illuminata da potenti fari, ogni tanto

BUCAREST

S cavano ancora sulla collina.C’è un altro buco, il più gran-de. Fra qualche mese, in bili-co sulla sua cima resteranno

solo la basilica di pietra bianca e il pic-colo cimitero. Li dovranno pregare tan-to i loro santi Mihail e Gavril quelli cheabitano nella valle dove gli alberi di ficonon fanno più fichi e i ciliegi non dannopiù ciliegie, dove gli orti sono morti e gliuomini dannati.

Sentono il suo fiato. Ci camminanosopra a quelle alture che sembrano dicartapesta. In certi giorni prendono an-che forme di animali. Di un leone, unserpente, un muso di cane. Si arrampi-cano sui resti di quattro o cinque o seimilioni di loro simili. I vapori stordisco-no, i colori si mescolano. Al sole diven-tano un grigio che acceca. Ogni tantopassa un treno che scompare dietro lacurva. È dietro la curva che c’è il mondoalla fine del mondo. È a dieci chilometrida Bucarest che c’è la discarica più spa-ventosa della Romania.

Il nome gliel’ha dato la valle: OchiulBoului, occhio di bue. Fino a una trenti-na di anni fa c’era un lago e c’era un pa-scolo, poi Ceausescu ha portato la spaz-zatura della capitale e Ochiul Boului èstato sepolto per sempre. Per centodi-ciannove ettari è una gobba fradicia che

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

CLAES OLDENBURGMozzicone di sigaretta

Gesso colorato

JOHN CHAMBERLAINEtruscan Romance

Acciaio cromato dipinto, 1984

il reportageEmergenza rifiuti

Nella pattumiera d’Europa

Si chiama Ochiul Boului, occhio di bue, è la più grandediscarica della Romania, quella dove qualcuno volevastivare l’immondizia di Napoli. Un “mondo alla finedel mondo”, un regno dantesco abitato dal popolodei riciclatori che avvelena tutto quello che c’è intornoE, anche, un business controllato da mani italiane

ATTILIO BOLZONI

ANDY WARHOLBig Torn Campbell’s Soup Can ( Pepper Pot)

Pittura su tela, 1962

ROBERT RAUSCHENBERGCardbird III (Turkey)

offset collage di vari materiali,1971

EMILY PILLOTONHuman Nest. Nido per bambini

Bamboo e stracci colorati

ENRICA BORGHIAnello in plastica riciclata

2000

JURGHEN HANSSCHULT Trash People

Guerrieri di latta

riciclata

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 3GIUGNO 2007

gnore dei rifiuti di Bucarest fa sorveglia-re la sua grande discarica da una bandadi rom. «Buttate fuori l’italiano di mer-da», ordina Victor appena entriamo nelsuo regno. I ficcanaso non gli piacciono.Ma non ce l’ha con gli italiani. Anzi: conloro ha sempre fatto tanto business. Èl’immondizia che li tiene insieme. Ognifila di camion che si infila oltre il recintoè una palata di soldi per Victor Dom-brovshi e suoi soci. Quelli di minoranzaerano fino a qualche mese fa due fratel-li di Rieti, Sergio e Giuseppe Pileri, im-prenditori di successo a Bucarest. Han-no interessi nel lotto, negli ippodromi,nel campo immobiliare, in aziendeinformatiche. Sono anche gli editori diPiazza Italia, «periodico di informazio-ne europea degli italiani in Romania». Ilsocio di maggioranza dell’“Sc EcorecSa”, che ha come patrimonio l’abisso diOchiul Boului, è un siciliano molto no-to. Per i magistrati di Palermo è Massi-mo Ciancimino, il figlio di don Vito, il fa-migerato sindaco mafioso degli anniSettanta.

La spazzatura non ha frontiere. Comeil denaro. Il 21 ottobre di due anni fa Vic-tor Dombrovshi ha ceduto per 9 milionie 375 mila euro l’82 per cento della sua“Sc Ecorec Sa” ad “Agenda 21”, una so-cietà controllata dalla “Sirco spa” che asua volta è controllata dal giovane Cian-cimino attraverso i suoi avvocati presta-nome. Nella compravendita ha fatto daconsulente un vecchio amico dei sicilia-

ni, l’ingegnere Romano Tronci. È un co-noscitore profondo di quelli che primadella caduta del Muro erano «i paesi del-l’Est», ha buone conoscenze a Milanodove è rimasto invischiato in una codadi Tangentopoli, ha fatto qualche colpoanche in Sicilia. I boss di Corleone lochiamavano «il comunista» perché cu-rava alcuni appalti per le coop rosse. Ap-palti di rifiuti. A Palermo attraccava ilsuo panfilo ai moli della Cala, poi scen-deva in città e si sedeva intorno al «tavo-lino» dove c’era la spartizione fra i ma-fiosi e i califfi della Regione. Tre per cen-to agli uni e tre per cento agli altri. L’in-gegnere è finito sotto processo per la di-scarica di Bellolampo. I rifiuti, sempre irifiuti.

È un «giro» quello dell’immondizia.Italia, Romania, Milano, Palermo, Ro-ma, Napoli, i soliti nomi, i soliti indiriz-zi. Un incastro di sigle, azioni cedute oacquistate per confondere, scatole ci-nesi, teste di legno che si registrano allecamere di commercio e firmano con-tratti milionari. Siamo andati a cercarligli uffici delle società che fanno capoall’“Agenda 21” di Massimo Ciancimi-no. Da Ochiul Boului al km zero di Bu-carest, il cuore della capitale. C’è la “ScEcorec Sa”, c’è la “Salub”, ci sono la “ScEcologica Mures” e la “Sc Ecologica Bai-coli”. Sono tutte nate per riciclare spaz-zatura, le abbiamo trovate tutte nel Sec-tor 2, in Strada Tunari numero 49. È unapalazzina color corallo a meno di un chi-

lometro dal centro, un isolato primadella grande caserma dell’Igp, l’Ispetto-rato generale della polizia romena. InStrada Tunari 49 ci sono anche la reda-zione del periodico Piazza Italia e lestanze dell’Agenzia Obiettivo Lavoro,che è sempre dei fratelli Pileri. È piccoloil mondo alla fine del mondo. Si cono-scono tutti. La spazzatura è una collache non li fa staccare mai.

Per tornare a Ochiul Boului si oltre-passa ancora la ferrovia. Niculina è sem-pre là sul suo balcone a guardare le ru-spe che svuotano la collina. Al Comunedi Popesti Leordeni è appena arrivato ilsindaco. «A me non importa chi sono ipadroni di queste discariche né mi im-porta da dove vengono i soldi», sbottaGrigor Trache, il “primar” che non si la-menta come il suo collega di Glina dellapeste portata a Ochiul Boului. È di reli-gione cattolica Grigor, sulla sua scriva-nia bacia una grande Madonna di Lour-des in legno. Gli chiediamo di VictorDombrovshi. «Un grande imprendito-re», dice. Gli chiediamo anche dei suoisoci. È infastidito, risentito: «Voi in Italiaprima chiudete in carcere le persone epoi fate le indagini, da noi non vanno co-sì le cose...».

Sono i corvi appostati sui rami che an-nunciano la lunga fila di camion che sista avvicinando alla discarica più gran-de della Romania. Gli zingari aprono icancelli. I corvi si avventano sull’ultimocarico di Ochiul Boului.

Così è cresciuto il più grande deposito dirifiuti urbani della Romania. Hannoaperto varchi in ogni suo lato. Nel 1981.Nel 1987. Nel 1994. Nel 2001 e nel 2004.Peggio del dittatore sono riusciti a faresolo quelli che la discarica l’hanno com-prata dopo. L’hanno riempita. E ognivolta che avevano finito di riempirla, co-minciavano di nuovo a fare buchi. Sca-vano, scavano sempre nello sfacelo diOchiul Boului.

È la spazzatura l’affare formidabilenella Romania di questi ultimi anni.Forse ancora più della droga. Più dellatratta delle ragazze. Le società di smalti-mento di rifiuti sono almeno quante icasinò e le sale da gioco, sessantaquat-tro contate ufficialmente fino al 2005, inrealtà più di settanta e solo nel distrettodi Bucarest. Sono nelle mani di russi eisraeliani, gruppi indipendenti. Le so-cietà “ecologiche” hanno invece tutti fi-nanziatori italiani e sono quasi tutte le-gate una all’altra. Anche quella più gran-de. Anche Ochiul Boului. È il tesoro diBucarest. La “via balcanica” dei rifiutipassa fra Glina e Popesti Leordeni.

Chi è che comanda nella pattumieraromena? Chi è il padrone di Ochiul Bou-lui? «Il signor Victor», rispondono al te-lefono. La società è la “Sc Ecorec Sa” e ilsuo direttore generale si chiama proprioVictor, Victor Dombrovshi. Il direttoredella produzione è suo figlio. Il direttoredel personale è suo nipote. Tutto in fa-miglia. Quello che si presenta come il si-

Ci sono due paesi,Papesti Leordenie Glina, nella valledove gli alberi di ficonon fanno più fichie i ciliegi non dannopiù ciliegie, dovegli orti sono secchie gli uomini dannatiNelle loro casesi sente il fiatodel letamaio, comese fosse una cosa viva

I bastioni infetti di Leoniacittà che rinasce ogni giorno

ANONIMOCestino per rifiuti

Carta riciclata

di poster

pubblicitari

VICINO BUCARESTDue immagini

della discarica

di Ochiul Boului,

a dieci chilometri

da Bucarest

1976l’annodi aperturadella discarica

119gli ettaridi terra copertidi rifiuti

9mlngli euro pagatiper averneil controllo

ITALO CALVINO

La città di Leonia rifà se stessa tutti i gior-ni: ogni mattina la popolazione si ri-sveglia tra lenzuola fresche, si lava con

saponette appena sgusciate dall’involucro,indossa vestaglie nuove fiammanti, estraedal più perfezionato frigorifero barattoli dilatta ancora intonsi, ascoltando le ultime fi-lastrocche dall’ultimo modello d’apparec-chio.

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchidi plastica, i resti della Leonia d’ieri aspetta-no il carro dello spazzaturaio. Non solo tubidi dentifricio schiacciati, lampadine fulmi-nate, giornali, contenitori, materiali d’im-ballaggio, ma anche scaldabagni, enciclope-die, pianoforti, servizi di porcellana: più chedalle cose che ogni giorno vengono fabbrica-te vendute comprate, l’opulenza di Leonia simisura dalle cose che ogni giorno vengonobuttate via per far posto alle nuove. Tanto checi si chiede se la vera passione di Leonia siadavvero come dicono il godere delle cosenuove e diverse, o non piuttosto l’espellere,l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricor-rente impurità. Certo è che gli spazzaturai so-no accolti come angeli, e il loro compito di ri-muovere i resti dell’esistenza di ieri è circon-dato d’un rispetto silenzioso, come un ritoche ispira devozione, o forse solo perché unavolta buttata via la roba nessuno vuole piùaverci da pensare.

Dove portino ogni giorno il loro carico glispazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dellecittà, certo; ma ogni anno la città s’espande,e gli immondezzai devono arretrare e le cata-ste s’innalzano, si stratificano, si dispieganosu un perimetro più vasto. Aggiungi che piùl’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovimateriali, più la spazzatura migliora la suasostanza, resiste al tempo, alle intemperie, afermentazioni e combustioni. È una fortezzadi rimasugli indistruttibili che circonda Leo-nia, la sovrasta da ogni lato come un acroco-ro di montagne. [...]

Il pattume di Leonia a poco a poco invade-rebbe il mondo, se sullo sterminato immon-dezzaio non stessero premendo, al di là del-l’estremo crinale, immondezzai d’altre città,che anch’esse respingono lontano da sémontagne di rifiuti. Forse il mondo intero, ol-tre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri dispazzatura, ognuno con al centro una me-tropoli in eruzione ininterrotta. I confini trale città estranee e nemiche sono bastioni in-fetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si pun-tellano a vicenda, si sovrastano, si mescola-no. [...]

Tratto da “Le città invisibili” © 1993 by Palomar Srl e Arnoldo Mondadori

Editore Spa, Milano© 2002 by The Estate of Italo Calvino

e Arnoldo Mondadori Editore Spa, Milano

MICHELANGELOPISTOLETTO

Venere di stracci

Cemento, mica

e stracci, 1967

ARTE TRASHIn queste immagini,

oggetti d’arte

confezionati

con immondizia

o ispirati al tema

dei rifiuti

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Repubblica Nazionale

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la memoriaRemainder di lusso

Festeggia ottant’anni di vita un’istituzione di New Yorkche si trova tra la Dodicesima e la Broadway. Un posto in cuidue milioni e mezzo di volumi usati sono distribuiti su quattropiani secondo un ordine anarchico ma sublime. Nacquequando il suo fondatore decise di vendere la sua bibliotecaprivata. Oggi è il simbolo dell’anti-corporate. E funziona

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

tato dall’intellighenzia newyorkese cheama organizzare in questo luogo incon-tri, reading e presentazioni nelle quali siribadisce che la cultura ha bisogno pro-prio di questa energia disordinata, e ri-fiuta l’approccio lussuoso e asettico del-le grandi catene librarie, più simili a su-permarket che a centri di cultura. Strandè l’antitesi orgogliosa e romantica delconcetto di “corporate”: è uno degli ulti-mi posti in America, e forse anche nelmondo, in cui un libro ha un valore primache un prezzo. Ma è anche il luogo cheesalta la capacità imprenditoriale del sin-golo, che rifiuta il concetto di agglomera-to industriale e riesce ad affermarsi gra-zie alla propria abnegazione e alla forzadella propria idea. Da questo punto di vi-sta rappresenta la quintessenza dellospirito americano.

Questa mescolanza di pragmatismo eromanticismo è visibile sin dal pianterre-no: molti dei volumi hanno l’etichettaStrand Price, che indica il prezzo ribassa-to che solo la libreria è in grado di offrire,e spiega meglio di ogni altra cosa perchéStrand è il paradiso per il lettore ma l’in-ferno per lo scrittore: se il primo riesce atrovare di tutto a prezzo stracciato, il se-condo deve affrontare la realtà delle reseinvendute dei propri testi, o dei libri in-viati ai recensori, che cominciano ad ap-parire sui banconi negli stessi giorni incui vengono pubblicati.

In questi giorni di celebrazione vieneesposta in vetrina, accanto alla Reming-ton 10 utilizzata per tenere i conti all’e-poca dell’apertura, la storia della libreria,che venne fondata da Ben Bass sullaQuarta Avenue, nell’isolato opposto ri-spetto a quello attuale. Bass investì nelprogetto seicento dollari, cifra che rap-

ANTONIO MONDA

Strand, diciotto miglia di libri

‘‘La Strandè una macchina

del tempo,un transporter,

un allucinogenoe un intossicatore...

Semplicementeè tutto qui

ADAM GOPNIKscrittore

Ben Bass apre la Strand

sulla Quarta Avenue

1927La libreria si sposta

nell’ex cinema sulla Broadway

1956

NEW YORK

Per il newyorkese doc è la libre-ria per antonomasia. Più col-ta, più autentica, più appas-sionante di qualunque Bar-

nes & Noble o Borders, e più grande, piùricca e più varia di una qualunque libre-ria indipendente. All’angolo tra la Dodi-cesima e la Broadway dove è situato l’in-gresso principale, la Strand Bookstoreesibisce con orgoglio un’insegna in cui siannuncia che il visitatore ha a disposizio-ne diciotto miglia di libri, che in termininumerici equivale a un totale di due mi-lioni e cinquecentomila volumi. Neiquattro piani della sede storica non esisteargomento che non abbia un proprio set-tore, o almeno uno scaffale, ma la collo-cazione dei generi principali riflette inmaniera sintomatica lo spirito laico, libe-ral ed edonista della città: al terzo pianosono esposti i libri rari, al secondo i volu-mi d’arte (insieme a quelli di spettacolo,design e architettura), al pianterreno lanarrativa e l’umorismo, e nell’interrato lareligione e la scienza. I testi di cucina, si-gnificativamente, attraversano trasver-salmente tutti i piani.

Per coloro che vivono a Manhattan,ma anche per chi viene da turista o la fre-quenta per lavoro, Strand è molto più diuna libreria: è un centro di vita culturalee nello stesso tempo un’icona della vitanewyorkese, che celebra sfacciatamentela propria realtà immutabile nel cuore diuna metropoli che ha fatto del continuorinnovamento la propria principale ca-ratteristica. E anche in questi giorni, incui si festeggia l’ottantesimo anniversa-rio con una festa alla quale interverrannoscrittori, intellettuali e star del cinema, sipresenta orgogliosa della propria polve-rosità e del proprio disordine.

L’esterno del locale è circondato dauna serie di banchi nei quali sono messiin vendita libri usati a un dollaro, e l’in-terno costringe il visitatore a un percorsolabirintico, che smentisce ogni strategiadi mercato, e segue invece accostamentiarditi: l’opera omnia di Melville è propo-sta insieme a Maus di Art Spiegelman,Cent’anni di solitudineinsieme a una co-pia autografata di King of the World, il li-bro scritto da David Remnick su Moham-mad Ali. E ancora: i romanzi di MartinAmis sullo stesso bancone dei libri suChuck Close, quelli di Ian McEwan insie-me ai testi sull’Actors Studio e a un librointrovabile in cui Lee Strasberg parla del-la necessità artistica del “Metodo”. TheLeopardcioè Il Gattopardo(è uno dei po-chissimi testi italiani esibiti nella zonaprivilegiata vicino all’ingresso), è accan-to al libro fotografico di Bert Stern su Ma-rilyn Monroe, e nel bancone di frontecampeggiano i racconti di Isaac Singer ela “trilogia della pianura” di Cormac Mc-Carthy.

Il disordine tende a scomparire manmano che ci si avvicina agli scaffali, maciò non impensierisce affatto il visitatore,divertito dall’idea di trovarsi in una spe-cie di caotico mercato del libro frequen-

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 3GIUGNO 2007

presentava tutti i suoi risparmi, ed iniziòmettendo in vendita la propria collezio-ne di libri. Il nome lo scelse in onore dellacelebre casa editrice inglese, e decise diaprire la sede originaria sulla cosiddetta“Book Row”, la strada che congiunge tut-tora Union Square ad Astor Place. All’e-poca dell’apertura in quei pochi isolatic’erano ben quarantotto librerie, che of-frivano le più importanti novità editoria-li provenienti dall’Europa e i libri deiprincipali autori americani, ma oggiStrand è l’unica ad essere sopravvissuta.

Sin dagli inizi, Bass impostò il lavoro inuna chiave familiare, e chiamò il figlioFred a lavorare dietro il bancone origina-le quando quest’ultimo aveva solo tredi-ci anni. Fred cominciò a gestire in primapersona la libreria nel 1956, e ancora og-gi siede ogni giorno accanto alla cassa,supervisiona gli acquisti e le vendite, or-ganizza gli eventi più importanti, dirigeuno staff di duecento persone e la secon-da libreria aperta a Southstreet Seaport,più piccola nelle dimensioni, ma identi-ca nello spirito. È stato Fred che ha deci-so di spostarsi nella sede attuale e, sin da-gli anni Sessanta, grazie alla sua prodi-giosa memoria e alla vastissima cono-scenza bibliografica ha conquistato lastima e l’affetto di personaggi diversissi-mi quali Saul Bellow, Allen Ginsberg, Jac-queline Kennedy, Jorge Luis Borges, Ri-chard Avedon, Andy Warhol e Kurt Von-negut.

La prima consacrazione ufficiale av-venne nel 1970, quando il premio Pulit-zer George F. Will scrisse, in un pezzo in-titolato Hail to thee, Old Strand (cioè Avea te, vecchia Strand): «Le otto miglia chesono degne di essere salvate in questacittà sono all’angolo della Dodicesima eBroadway, e sono gli scaffali pieni di libridella Strand». A distanza di trentasetteanni, le miglia sono diventate diciotto edi clienti abituali della libreria non sonomeno prestigiosi: Fred Bass cita con sod-disfazione Jules Feiffer, Umberto Eco,Chuck Palahniuk, Salman Rushdie, Ste-ven Spielberg, David Mamet e, novitàdell’ultimo decennio, star del cinema co-me Julia Roberts, Tom Cruise, UmaThurman, Johnny Depp, e della musicacome Bono, Bjork e persino MichaelJackson.

Lo scorso anno è stata venduta percentomila dollari una raccolta di tutte leopere di Shakespeare datata 1632, e Basssi dichiara alquanto sorpreso di non avertrovato ancora un acquirente disposto aspendere quarantamila dollari per unacopia illustrata dell’Ulisseautografata daJoyce e da Matisse. Ma sul piano del sem-plice commercio la novità più significati-va è quella denominata Books by the foot,un servizio di vendita di libri al metroquadro con funzione decorativa, chepossono essere ordinati via Internet a se-conda dell’altezza degli scaffali. L’idea dioffrire la consulenza di un decoratore diinterni è di Nancy Bass Wyden, figlia diFred e prossima erede della libreria, chedefinisce il progetto un segno dei tempi eribadisce con un sorriso orgoglioso l’in-scindibilità dell’anima romantica daquella pragmatica.

Alla bella età di ottant’anni, la Strand non è soltanto un’istituzionedella vita culturale newyorchese, è anche una destinazione inter-nazionale, una celeberrima libreria indipendente che la famiglia

Bass possiede e gestisce dal 1927. La Strand è e rimane la libreria per ec-cellenza, un luogo leggendario, un ricettacolo di tesori nascosti. Lo slo-gan del negozio (18 miles of books, diciotto miglia di libri) la dice già lun-ga. Scrittori, editori, bibliotecari e collezionisti di libri si aggirano attra-verso i cinquemila metri quadri di caos organizzato e odore di polvere,inchiostro e libri antichi, alla caccia di quell’unico volume indispensabi-le che non sai neanche qual è fino a quando la tua mano non ci capita so-pra per caso. Quando l’elettronica ha preso il sopravvento nel campodell’acquisto di libri e delle ricerche bibliotecarie, e sono scomparsi i ca-taloghi cartacei e i libri ammonticchiati, posti come la Strand sono di-ventati ancora più importanti. Scaffale dopo scaffale, tavolo dopo tavo-lo, la pletora di libri di ogni genere incoraggia a sfogliare, induce al libe-ro gioco delle associazioni: è il luogo dove perdersi, dove sognare ad oc-chi aperti; entrare ed uscire rapidamente è impossibile, sembra che il pa-vimento stesso eserciti una sorta di attrazione gravitazionale, una beni-gna distesa di sabbie mobili storico/culturali.

I clienti, dal serioso allo squattrinato al fanatico, girano tutti per il ne-gozio con la testa girata di lato, a leggere il dorso dei libri in esposizione.Il personale, composto da bibliofili appassionati con interessi e compe-tenze nelle aree più disparate, è altrettanto variegato dello scenario cir-costante: negli anni, hanno lavorato alla Strand innumerevoli scrittori,e anche poeti del rock come Patti Smith e Tom Verlaine. La libreria com-pra ogni giorno libri «nuovi» (spesso un titolo arriva alla Strand parec-chie settimane prima di arrivare nelle grandi catene), a riprova di comequesto posto sia un paradiso per gli addetti ai lavori. Professionisti del-l’editoria, critici, editori vendono le loro copie omaggio alla Strand incambio di un prezzo poco più che simbolico, e a loro volta le bibliotechecomprano i libri dalla Strand a un prezzo più basso di quello offerto di-rettamente dagli editori.

Uno dei segnali che sei arrivato davvero, come scrittore, è trovare inmagazzino qualche copia del tuo libro, spesso con i materiali destinatialla stampa ancora dentro. Quando ero una giovane scrittrice, con unpiccolo appartamento e poco spazio, portavo i miei vecchi libri a FredBass, lui gli dava un’occhiata e mi proponeva due cifre, una se volevo es-sere pagata in contanti, una se volevo essere pagata con un credito sui li-bri: io sceglievo sempre il credito e spesso andavo direttamente al se-condo piano dell’edificio adiacente, la famigerata sala dei libri rari. È sta-to qui che ho trovato una prima edizione, firmata dall’autore, di Undicisolitudini, diRichard Yates: la dedica portava scritto «A Patty, che mi haportato i fiori». E poi, prime edizioni di John Cheever e Truman Capote,e anche volumi di Maurice Samuel, mio lontano cugino.

In questo piccolo, e ancora più polveroso, angolo del negozio c’è sem-pre un gruppetto di persone radunate a esaminare qualcosa: le bozze diun libro ancora non pubblicato con una firma strana, un raro volumeantico, un catalogo ragionato di artisti, un’edizione limitata di un poe-ta. Nel corso degli anni, ho stretto amicizia con alcune delle persone chelavorano in quella sala: il mio preferito è Eddie Sutton, un tizio che suo-na il piano, che ho conosciuto nel lontano 1989, quando fu pubblicato ilmio primo romanzo: lui sapeva chi ero, ancora prima che lo sapessi io!Negli anni mi è capitato spesso di chiamare il banco delle copie omag-gio riciclate, nel seminterrato, chiedendo un titolo e, se non ce l’aveva-no, nel giro di poche ore miracolosamente riuscivano a trovarlo. E per lemie ricerche mi affido spesso alla sterminata quantità di materiali con-tenuti nei magazzini del negozio, telefonando a Eddie, con suo grandedivertimento, con richieste apparentemente un po’ strane del tipo «Miservirebbero tutti i titoli dei libri scritti dal presidente Ronald Reagan oche hanno a che fare con lui». Lui mi chiede semplicemente, «Che cosahai in mente questa volta?», e io confesso: un racconto, un romanzo,un’opera teatrale. Non esco mai da Strand a mani vuote, vado semprevia carica di libri, è più forte di me. (Traduzione di Fabio Galimberti)

L’ultimo libro dell’autrice pubblicato in Italia :“Questo libro ti salverà la vita”, Feltrinelli

La grotta del tesoronel cuore di Manhattan

A.M. HOMES

JORGE LUIS BORGESIl suo amore per i libri

si rispecchia nel suo racconto

La Biblioteca di Babele

ALLEN GINSBERGAmava anche la libreria

City Lights di San Francisco

che lo pubblicò

PATTI SMITHLa cantante e poetessa rock

da giovane lavorò

alla libreria Strand

UMBERTO ECOUn capolavoro

la descrizione della biblioteca

de Il nome della rosa

JULIA ROBERTSStar del cinema innamorata

di un modesto libraio

nel film Notting Hill

La Strand oggi, la più grande

libreria dell’usato del mondo

2007Alcuni assidui frequentatori

della Strand di ieri e di oggi

i clienti

‘‘La scritta “a metà prezzo” della Strandè la più profonda delle recensioni

ANATOLE BROYARDcritico letterario del New York Times ‘‘

Una grande miscela di newyorkesità letteraria,non nuova di zecca, non pretenziosa, idiosincratica

KURT ANDERSENscrittore

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

i luoghiHimalaya leggendaria

In principio c’era Shambhala, paradiso in terra narratodai testi sacri tibetani. Poi l’Occidente creò la favoladi “Orizzonte perduto”, libro di James Hiltone film di Frank Capra. Ora la favola rinasce a Deqen,tramutata da Pechino in una Disneyland esoterica

Londra, vedenel buddismo tibetano il nucleo ori-ginario di tutte le religioni umane, indicanelle montagne dell’Himalaya i luoghidove lo spirito umano può raggiungere lapiù pura introspezione, la sede deiMahatma (le “grandi anime”). Per alcuniteosofi il Tibet è addirittura la regione do-ve si rifugiarono i sopravvissuti della mi-tica Atlantide per salvarsi dalla rovinadella civiltà. L’esploratrice franceseAlexandra David-Neel, che nel 1912 in-contra il tredicesimo Dalai Lama, contri-buisce a diffondere in Europa il fascinodel Tibet come depositario della spiritua-lità autentica, una scuola di ascetismodove lo stesso cristianesimo deve impa-rare a rigenerarsi.

In questo contesto già sovraccarico diimmaginazione, nel 1933 esce in Inghil-terra Orizzonte perduto di James Hilton(edito in Italia da Sellerio), il primo librodella storia a essere pubblicato in edizio-ne tascabile, quasi subito un best-sellermondiale: l’origine del mito di Shangri-La. All’inizio del romanzo un gruppo dioccidentali sono casualmente riuniti in

DEQEN, SHANGRI-LA

Mentre il pilota annunciala discesa, dal finestrinodell’aereo si intravedelontano il maestoso pic-

co innevato del Karakal, 6.740 metri: lamontagna incantata del romanzo che at-tira me e altri visitatori su queste cime ti-betane della catena Meili. Oggi l’Airbus siabbassa delicatamente verso la vallata diDeqen e tocca la pista con sicurezza, nul-la che ricordi il drammatico atterraggio difortuna dei viaggiatori di Orizzonte per-duto. Benvenuti a Shangri-La, annunciaun cartellone all’aeroporto, uno scalopiccolo ma nuovo fiammante. In qua-ranta minuti di taxi si arriva nella cittadi-na, preannunciata da un lungo paesag-gio di crateri: voragini dove si accalcanoscavatrici e betoniere, gru e miriadi dioperai, i cantieri di grandi alberghi in co-struzione che sporcano l’aria buona dimontagna sollevando nubi di sabbia e ce-mento. È già inaugurato il nuovissimoHotel Paradise, bunker di cemento ar-mato, e al suo fianco svetta l’albergo HolyPalace (Palazzo Sacro), grattacielo impo-nente pronto ad accogliere fiumane ditorpedoni cinesi.

Finalmente appare la città antica, oquello che vorrebbe assomigliarle. È unborgo grazioso con i vicoli lastricati di pie-tra, le case di legno dai tetti spioventi co-perti di tegole di ardesia, sui muri c’èqualche affresco buddista dove fanno ca-polino anche divinità induiste. Purtrop-po quasi tutto è finto o ricostruito. Nego-zi di souvenir, ristoranti per turisti, locan-

de che si chiamano Himalayan GardenInn, Himalayan Café ed anche GoogleCafé e Balcony Laptop: per viaggiatoriansiosi di restare in contatto via Internetcol resto del mondo. Un’accozzaglia distili incolla fianco a fianco le case rifatte instile tibetano e le pagode cinesi. Una fol-la di turismo che si crede alternativo — in-sieme agli occidentali spunta anchequalche “saccopelista” cinese con bufficapelli acconciati in trecce rasta — si me-scola alle donne dal costume tradiziona-le. Loro hanno il turbante rosa, i pantalo-ni neri ricoperti di gonne-grembiuli di la-na a strisce parallele di tutti i colori del-l’arcobaleno. Sulle spalle hanno il grossocanestro per portare il bambino, o la frut-ta, o i tessuti da vendere al mercato.

Sovrasta la cittadina il monastero Sen-ze Ling detto “il piccolo Potala” perchéimita la celebre dimora millenaria dei La-ma a Lhasa, la capitale del Tibet. Ha lastessa posizione coricata su un fianco dimontagna, i bei cubi regolari delle cellemonacali, le fondamenta di pietra bian-ca e i piani alti di terra rossa. Ma l’origina-le del Diciassettesimo secolo fu comple-tamente distrutto durante la Rivoluzioneculturale maoista, come il lago di fronte(oggi inaridito) dove le Guardie rosseaffogavano i monaci fedeli al Dalai Lamanel 1966. Il piccolo Potala di Shangri-La èuna cineseria ricostruita nel 1982 conl’aggiunta volgare di un luccicante tettodorato a forma di pagoda. È una delle ul-time beffe che Pechino ha inflitto ai tibe-tani di questa zona, già “amputati” dalperimetro ufficiale del Tibet amministra-tivo dopo l’invasione dell’esercito cinesenel 1950: oggi questa terra risulta in pro-vincia dello Yunnan. La gente di qui con-

tinua a subire umiliazioni, come l’inva-sione di un turismo cinese chiassoso ecafone. Le comitive sguaiate che afflui-scono nel piccolo Potala strepitano nellalamaseria e girano le ruote sacre della vi-ta al contrario (in senso antiorario), of-fendendo la sensibilità dei fedeli. Loro sivendicano con silenziosi gesti di sfida co-me la foto proibita del Dalai Lama che siscopre in un’ala buia del monastero, mi-metizzata in mezzo a una folla di imma-gini di Budda e di divinità di origine scia-manica o induista. La sola presenza diquella foto è un reato grave per la legge ci-nese, chi l’ha messa e chi la venera fa unatto di coraggio che può costare caro.

È un triste destino questo di Deqen,propaggine sacrificata del grande Tibetdi una volta, tranquillo villaggio di pasto-ri strappato suo malgrado alla solitudinedelle montagne, trasformato in una Di-sneyland pseudo-spiritualista da vende-re ai turisti in cerca di spaesamento eso-terico. Tutto per colpa di un’antica leg-genda che si perde nella notte dei tempi,poi di un romanzo di successo degli anniTrenta, e infine di Hollywood.

Non credete ai dépliants dell’ente turi-stico. Shangri-La non esiste. Non è maiesistita. Con questo nome un inglese dinome James Hilton storpiò il terminesanscrito di Shambhala, che nei sacri te-sti tibetani del Kalacakra Tantra designauna favolosa regione situata a nord dellacatena himalayana. Secondo la leggen-da, in quel regno a forma di fiore di lotos’instaura il paradiso in terra grazie a unadinastia di sovrani illuminati che custo-discono l’autentica saggezza buddista.Protetto da barriere di montagne invali-cabili, Shambhala consente ai suoi abi-

tanti di seguire il proprio dharma, le re-gole di vita scritte nel destino. Lì ogni bi-sogno umano è soddisfatto; nessuno vi siammala né invecchia. È il luogo dove gliuomini di buona volontà possono trova-re rifugio dalle sofferenze, nell’attesa cheil resto del mondo guarisca dalla violenzae si converta all’amore.

L’Occidente s’invaghisce della leggen-da di Shambhala verso la fine dell’Otto-cento. All’apice degli imperialismi bri-tannico, francese e russo, il Tibet — gra-zie al suo isolamento geografico, al climarigido, alla natura aspra e ostile — è unodei pochissimi territori asiatici che si sot-traggono alla colonizzazione. Per gli eu-ropei dell’epoca, imbevuti di positivismoe fiducia nel progresso, è uno shock la de-scrizione fatta dai rari esploratori: sullemontagne più alte del pianeta esiste unaciviltà rimasta indifferente all’invenzio-ne della ruota… la usa solo come stru-mento di preghiera. Nell’èra in cui CinaIndia e Indocina vengono concupite da-gli appetiti commerciali dell’uomo bian-co, il Tibet diventa l’ultima landa arcanae inaccessibile, sulla quale tutte le fanta-sie possono scatenarsi.

Dal 1870 al 1876 un esploratore delloZar, il romantico colonnello NikolaiMikhailovich Przhevalsky, detto “il LordByron russo”, lancia diverse spedizioninella speranza di scoprire la miticaShambhala, che ha sentito descrivere daun lama come «un’isola dorata in mezzoa un mare a elevatissima altitudine». Peruna singolare coincidenza nel 1875 la mi-steriosa Madame Helena Petrovna Bla-vatsky, anche lei di origine russa, dà vitaalla Teosofia. Quel movimento, che se-duce una élite intellettuale a New York e a

FEDERICO RAMPINI

Il business di Shangri-La

CARTOLINEIn queste pagine alcune foto

della provincia dello Yunnan

dove è stata battezzata la nuova

Shangri-La e immagini del Tibet

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Area archeologica di Villa Adriana

Tivoli (Roma)

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29 e 30 Giugno

Cruda. Vuelta yvuelta. Al punto.ChamuscadaRodrigo Garcia (Spagna, Argentina)PRIMA ITALIANA

3 e 4 Luglio

The Manganiyar SeductionRoysten Abel (India)PRIMA EUROPEA

5 Luglio ConcertoLudovico Einaudi“Il tempo del mito”PRIMA ASSOLUTA

6 Luglio ConcertoOrchestra PopolareItaliana Ambrogio Sparagna con Sonia Bergamasco e Giovanni Lindo Ferretti“Bbella fatte chiama’ - Cantid’amore dalla campagna romana”

9 e 10 Luglio

MythSidi Larbi Cherkaoui (Belgio, Marocco)PRIMA ITALIANA

13 e 14 Luglio

VertigesToni Gatlif (Algeria, Francia)PRIMA ITALIANA

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A cura di Giorgio Barberio Corsetti

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 3GIUGNO 2007

dell’Occidente. Il gran lama è ben di-verso dai visionari feroci che voglionocostruire l’Uomo Nuovo. «In breve po-trei definire la nostra principale cre-denza così: moderazione. Inculchia-mo la virtù di evitare eccessi di qualun-que specie; persino, perdonatemi il pa-radosso, eccessi di virtù. Questo princi-pio è la fonte di uno speciale grado di fe-licità. La nostra gente è moderatamentesobria, moderatamente casta, e mode-ratamente onesta».

Il successo di Orizzonte perdutodiffonde il sogno di Shangri-La come unaterra fuori dal tempo, lontana dal doloree dal male, immunizzata dalla ferociadell’uomo. È stato definito il più perfettoromanzo di evasione, in senso letterale,perché è centrato sul tema della fuga. L’e-vasione dalla realtà fu portata agli estre-mi da Frank Capra che realizzò il film nelcanyon californiano della Ojai Valley, vi-cino a Los Angeles, usando indiani d’A-merica come comparse al posto dei tibe-tani. Nel romanzo come nella sua versio-ne hollywoodiana è rigorosamente as-sente il volto duro e retrogrado del Tibet:la miseria, la sporcizia e le malattie, gliaspetti superstiziosi e degradanti dellatradizione, lo sfruttamento del popolo daparte della teocrazia parassitaria dei mo-naci. Via via che nuove generazioni occi-dentali si avvicinavano alle religioniorientali — i poeti beat negli anni Cin-quanta a San Francisco, il movimentohippy, la New Age, oggi attori di Hol-lywood come Richard Gere e Steven Sea-gal — l’intera tradizione buddista tibeta-na veniva trasfigurata come una grandeShangri-La, una saggezza eterna fioritasulle montagne, da proteggere contro gli

assalti della modernità. Simbolo di rifu-gio, oasi di tranquillità, il nome di Shan-gri-La è perfino adottato da una celebrecatena di alberghi di lusso.

La ghiotta opportunità non potevasfuggire ai cinesi. Dopo l’occupazionemilitare del Tibet lanciata da Mao Ze-dong nel 1950, dopo le persecuzioni reli-giose della Rivoluzione culturale, la nuo-va Cina capitalista ha annusato il busi-ness. Per decreto governativo Pechino hastabilito che Shangri-La esiste davvero.Ha ribattezzato con quel nome un pae-sello vicino a Deqen, ha costruito l’aero-porto, ha dato via libera ai miliardari del-la speculazione edilizia perché si appro-prino del sogno e lo trasformino in attra-zione per il turismo di massa. All’aero-porto un opuscolo in carta patinata riccodi fotografie a colori accoglie i visitatoricon le parole del giornalista di regime XieJie: «Chiunque sia stato a Deqen è d’ac-cordo che questo luogo sperduto è comeil regno delle fate, è proprio la Shangri-Lache abbiamo nel cuore».

Gli unici che restano freddi di fronte al-lo sfruttamento industriale del mito sonoi tibetani, quelli veri. Come la mia guidaTenzin, ventiseienne, cresciuto in Indiadove i genitori fuggirono dalle violenzemaoiste. Tenzin è stato tre volte a Dhar-masala, la città indiana dove vive il gover-no tibetano in esilio, per vedere il DalaiLama. «Mi ero preparato tante cose dadirgli, da chiedergli, ma una volta davan-ti a lui mi sono sentito svuotato, sono ri-masto muto». Tenzin non ha dubbi che illeader spirituale dei buddisti tibetani tor-nerà nella sua terra, sfidando il veto di Pe-chino. «Il Dalai Lama vivrà centocin-quant’anni, noi lo sappiamo con certez-

za, è scritto nel cielo. Prima che muoia lorivedremo a Lhasa e in tutto il Tibet». LaRepubblica popolare anche dopo averriaperto i monasteri continua a trattare ilDalai Lama come un nemico, il regimenon ammette un’autorità spirituale indi-pendente. Nonostante sia messo al ban-do, la sua popolarità qui resta immensa.Tenzin ricorda un episodio esemplare:«Due anni fa il Dalai Lama lanciò la cam-pagna per proteggere l’antilope tibetanadall’estinzione. In modo clandestino dif-fuse al suo popolo la preghiera di non ve-stirsi più con le pelli degli animali selvati-ci. All’unisono in tutto il Tibet si acceserodei falò. Sui roghi la gente bruciava le pel-li proibite. A Lhasa qualche turista vestitadi pelliccia è stata aggredita per la strada,a pugnalate».

Ma come il guru spirituale di Orizzon-te perduto, il vero Dalai Lama persegue lamoderazione. «Il Tibet potrebbe esplo-dere in qualsiasi momento contro i cine-si — dice Tenzin — se non fosse il DalaiLama a vietarci la violenza». Nell’attesadel grande ritorno, Tenzin per sopravvi-vere è costretto a guidare i turisti tra spet-tacoli folcloristici e boutiques di paccot-tiglia in questa caricatura di Shangri-La,recitando una parte scritta per lui da unromanziere inglese settant’anni fa. «I ci-nesi sono abili, ma in testa hanno una co-sa sola, il denaro. Questa Shangri-La lastanno rifacendo tutta, e poi fra tre anniricominceranno daccapo. A me sembra-no pazzi». Pare quasi di udire l’eco delleparole di un certo Robert Conway, sper-duto e felice lassù sul Karakal, dove ighiacciai eterni, i burroni e le bufere divento tengono alla larga la curiosità mal-sana e distruttiva dei contemporanei.

un volo che viene dirotta-to per ragioni in apparenza misteriose.L’atterraggio forzato vicino al monte Ka-rakal li porta a contatto con Shangri-La,altissima e sperduta, dove una comunitàdi saggi vivono felicemente lontani dallaciviltà moderna, pur conoscendo nei det-tagli tutto ciò che vi avviene. A Shangri-Lai lama che praticano lo yoga e la medita-zione trascendentale restano giovani percentinaia d’anni, la morte li colpisce rara-mente e quando arriva li trova preparati,sereni. Ma il segreto dell’eterna giovinez-za non è l’aspetto che più colpisce i lettorinegli anni Trenta. Quando esce il roman-zo di Hilton, e poi ne viene tratto l’omoni-mo film diretto da Frank Capra nel 1937,l’Occidente è ancora traumatizzato dallaGrande depressione iniziata nel 1929. Astento ha superato le ferite della Primaguerra mondiale e già l’avvento dei totali-tarismi (Mussolini, Hitler, Stalin) prean-nuncia nuovi conflitti, altri orrori e vio-lenze di massa.

Il personaggio princi-pale di Orizzonte perduto, RobertConway — un diplomatico inglese ango-sciato dal ricordo della Prima guerramondiale — riassume così il clima del suotempo: «Il mondo intero attorno a mesembra essere diventato completamen-te pazzo». Un altro passaggio suona pro-fetico, anni prima dell’Olocausto e dellabomba atomica di Hiroshima: «Il Me-dioevo che sta per iniziare coprirà il mon-do intero col suo manto funebre». Ai fu-nesti presagi di Conway risponde il granlama di Shangri-La: «Staremo qui con inostri libri, con la nostra musica, con lenostre meditazioni, a custodire le fragilieleganze di un’età moribonda, cercandoquella saggezza di cui gli uomini avrannotanto bisogno quando le loro passioni sisaranno consumate». L’iniziazione cheha luogo a Shangri-La non è fanatica nésettaria, si adatta alle menti più razionali

JAMESHILTONNel 1933 uscì

Orizzonte perduto:

il mito Shangri-La

divenne mondiale

HELENABLAVATSKYFondatrice della teosofia

che, sosteneva,

si basava sulla saggezza

himalayana

NIKOLAIPRZHEVALSKYEsploratore dello Zar

dal 1870 al 1876 lanciò

diverse spedizioni

alla ricerca di Shangri-La

ALEXANDRADAVID-NEELL’esploratrice francese

nel 1912 incontrò il Dalai

Lama e diffuse in Europa

il fascino del Tibet

FILM CULTA sinistra,

la locandina

di Orizzonteperduto,

il film di Frank

Capra del 1937

tratto dal bestseller

di James Hilton

La storia

di un gruppo

di sopravvissuti

a un disastro aereo

che scopre

la magia

di Shangri-La

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Page 10: DOMENICA 3GIUGNO 2007 di Mezzo secolo Beatlesdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2007/030607.pdf · Ci accoglie suonandoci una serenata napoletana. « Roma. Roma, la bella Roma »,

ancora adolescente a studiare e imitarele mosse del geniale nemico in un lavo-ro certosino e testardo, che lo porta a for-zare la propria indole e a identificarsicon l’avversario. Un rapporto edipico,che lo condannerà a sconfiggere il nemi-co di Roma anche per “uccidere il padre”— freudianamente — e liberarsi di unmodello ingombrante e ossessivo.

Primato della disciplina romana suldisordine e l’imbroglio punico? Maquando mai. Il giovane Scipione è dall’i-nizio uno scapestrato in fregola, un ra-gazzo dissoluto della Roma-bene.Quando ha diciassette anni, il padre im-bestialito deve portarlo via seminudodal cubiculum di una matrona e in etàmatura la moglie deve chiudere un oc-chio sulle sue scappatelle con le servot-te di casa. Annibale, invece, è un asceta.Non tocca le prigioniere e ordina ai sol-dati di evitare abusi su di loro. Il cartagi-nese ha una convinzione di ferro: ledonne del nemico non si toccano altri-menti la guerra degenera, si incattivi-sce, e soprattutto impedisce allo scon-fitto — toccato nell’onore — di diventa-re un giorno prezioso alleato. Scipionecapisce l’intelligenza della mossa e siadegua: al fronte diventa casto anchelui. Quando in Spagna de-gli ufficiali, che conosconola sua passione per le don-ne, gli portano una verginedi straordinaria bellezzadestinata a un principe deiceltiberi, lui non la sfiora ela fa riaccompagnare «amalincuore» dal padre.

Impara a fare come il ne-mico. Come Annibale libe-ra senza riscatto i prigio-nieri fatti tra gli alleati diCartagine, per tirarli dallaparte di Roma: greci, ispa-nici, cavalieri nùmidi,frombolieri delle Baleari.Come Annibale studia ilmondo ellenico — guar-dato ancora con diffidenzadai romani campagnoli —e il grande modello di Ales-sandro Magno. Come luilavora meticolosamente arafforzare il consenso conla truppa: vive tra i soldati,si massacra di fatica, dor-me sulla nuda terra quan-do capita, anche in pienogiorno. E quando, dopo un attento stu-dio dei venti e delle maree, scopre il mo-do di guadare — a sorpresa, di notte —la laguna interna di Nova Cartago perconquistare la base del nemico in terradi Spagna, non esita ad attribuire il “mi-racolo” all’intervento del dio Nettuno,ovviamente in suo favore. Come Anni-bale si richiama a Ercole, il semidio cheuccide le fiere, disbosca e apre la stradadella civiltà nel terreno dei barbari, così

Scipione lascia filtrare la diceria che suamadre sia stata visitata da Giove sottoforma di serpente. E quando si ritira inisolamento nel tempio di Giove Capito-lino, narra che al suo arrivo i sacri caniguardiani hanno evitato di abbaiare,forse riconoscendolo come uno di casa.

Quando, sedici anni prima di Zama, ilgiovane Scipione ancora diciassetten-ne, a capo di un gruppo di giovani reclu-te a cavallo, vede «per la prima volta i ca-valieri numidici volteggiare sul suologelato della Cisalpina, eleganti e morta-li nonostante le pesanti cappe di pelleche li proteggono dai rigori dell’inver-no», quando proprio lì, alla battaglia delTicino, vede «uno dei loro corti giavel-lotti infilarsi, insidioso e preciso, in uninterstizio della corazza del padre»,console e comandante in capo col suostesso nome, allora sente, anzi capiscecon certezza, che «quella guerra è dall’i-nizio, e sarebbe stata sempre più, un af-fare tra lui e Annibale». E quando, nel202 avanti Cristo, alla vigilia dello scon-tro finale sul suolo cartaginese, primadell’unica ma definitiva vittoria roma-na, i due condottieri — come racconta-no Tito Livio e Polibio — si incontranoda soli su richiesta di Annibale, ritti sul-le loro cavalcature sul ventoso altopia-no di Zama, Scipione sente di conosce-re come nessuno l’uomo straordinarioche ha di fronte.

Alla fine di quella guerra interminabi-le, sentendosi stanco e precocementeinvecchiato, s’accorge che il padre-pa-drone dei suoi incubi non gli ha solo ru-bato buona parte della famiglia, ma an-

Quando la vittoriaè l’arte di imitareil proprio nemicoPAOLO RUMIZ

I due grandi condottieri che si affrontarono in una lotta mortaleper il dominio sul Mediterraneo, il cartaginese Annibalee il suo rivale, erano prigionieri di un rapporto psicologico

che li legò l’uno all’altro per tutta la vita. Questa è l’avvincente tesi di un nuovolibro dello storico Giovanni Brizzi, secondo il quale il romano ebbe infine la meglioperché seppe mettere da parte l’odio e imparare dall’avversario

Scipionemaestroe il

suo

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

Grasso, ributtante, con unocchio solo. Macellaiodei popoli, traditore deipatti, sleale tessitore diinganni, capace di vince-re solo con trucchi mise-

rabili. Infido — anzi, perfido — e per dipiù scuro di pelle, figlio di un’odiosa raz-za inferiore. Era questo l’Annibale che cipropinò Mussolini nel kolossal Scipionel’africano, prodotto in tempi di leggi raz-ziali e reboanti proclami, con l’imperoappena conquistato in terra d’oltrema-re. Nel film gli venne contrapposto uneroe — il vincitore di Zama — leale e d’a-nimo puro, parodia di gerarca italiota,ginnico e ovviamente ariano, che vinserestaurando il primato della disciplinaromana sulle «astuzie dei greci» e «l’altastatura dei celti» e soprattutto — leggia-mo nella monumentale Storia di Romavoluta dal Duce — la missione «norma-lizzatrice e civilizzatrice nei confrontidella razza bianca». Un delirio.

Si sa che la storia la fanno i vincitori; epoiché ventidue secoli prima Romaaveva vinto, agli occhi del popolo Anni-bale Barca — l’uomo che aveva tenutoin scacco le legioni per quasi vent’anniin Italia — era già diventato «il malva-gio». Ma il fascismo aggiunse travisa-mento al travisamento, e così anche lastoria romana fu trasformata in propa-ganda dal regime, che ne fu sponsor in-degno e caricaturale. Il fascismo era raz-zista mentre Roma era policentrica, eb-be imperatori ispanici, dalmati e africa-ni. L’Italia del fascio non era più un pae-se guerriero — solo fingeva di esserlo —laddove Roma fu una macchina bellicae organizzativa micidiale. Il fascismo fuagli antipodi di Roma: era scenografiacontro sostanza, sopruso contro diritto,nazionalismo contro visione imperiale.Era totalitarismo contro accettazionedelle culture “altre”; quella accettazio-ne che trovò il suo centro nel Pantheon,il tempio dove gli dei dell’ecumene era-no tutti a pari dignità.

Con l’elmo di Scipio e la spada del car-taginese ridotti entrambi a caricatura,era difficile tentare, sulla strada di Plu-tarco, una biografia parallela dei due. Einvece ci riesce alla grande GiovanniBrizzi, professore di storia romana all’U-niversità di Bologna, in un testo acroba-tico — Scipione e Annibale, la guerra persalvare Roma, edito da Laterza — chenon solo rovescia lo schema di partenzae ri-umanizza i due generali, ma — ri-scattando Annibale — ne fa il modellocui Scipione tenta per tutta la vita diuniformarsi, e non solo sul piano milita-re. Il libro svela che l’intelligenza del ro-mano sta nel mettere da parte l’odio perl’uomo che gli ha ucciso in battaglia il pa-dre, lo zio e il cognato e nel riconoscernela superiorità. Spiega che Scipione inizia

IL LIBRO

L’editore Laterza manda in libreria questa settimana

il libro di Giovanni Brizzi Scipione e Annibale. La guerraper salvare Roma (414 pagine, 20 euro). Brizzi, ordinario di Storia

romana all’Università di Bologna, specialista di storia militare

antica, ha già pubblicato diverse opere sulla figura di Annibale.

In questo nuovo lavoro ne racconta la vita in parallelo con quella

del suo nemico romano Scipione, mettendo in evidenza affinità

e specularità tra le figure dei due grandi condottieri. Il libro

è costruito come il racconto di un veterano delle guerre puniche

IL ROMANOPublio Cornelio Scipione

Roma 235 a. C. - Literno 183 a. C.

IL CARTAGINESEAnnibale Barca

247 a. C. - 182 a. C.

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Uniti dal campo di battaglia,lo furono anche dall’ingratitudine

delle rispettive patrie

versario, esattamente come a Waterlooi granatieri del prussiano Blücher, mar-ciando a fine giornata attraverso il gra-no delle Fiandre, eviteranno all’ingleseWellington di essere beffato da Napo-leone.

Sempre da Annibale, racconta Brizzinel suo libro, Scipione capisce l’utilità dimosse imprevedibili, apparentementefolli ma capaci di spiazzare l’avversario.Il cartaginese scorrazza indisturbato inItalia? E lui si sposta in Spagna, a deva-stare le terre del grande avversario. An-nibale marcia su Roma beffando dodicilegioni? E Scipione attacca Nova Carta-go, apre un fronte dopo l’altro, trasfor-ma la guerra italica in una guerra medi-terranea, dunque — per quei tempi —mondiale. Ma fa di più: impara le tantovituperate astuzie «greche» del cartagi-nese. Ricordate Virgilio, e il suo «timeoDanaos et dona ferentes», temo i grecianche quando portano doni? Bene, Vir-gilio, che era poeta di corte, fingeva dinon sapere che in questo il romano Sci-pione aveva ampiamente superato An-nibale, accantonando definitivamentela lealtà cavalleresca. Il capolavoro ful’incendio dei campi numidici e cartagi-nesi in Africa — una strage da almenoventimila morti — resa possibile da unafinta trattativa di pace con uomini dei“servizi” travestiti da ambasciatori.

I due generali sopravvivono entram-bi all’armistizio che segna la fine dellapotenza cartaginese, ma ormai le lorovite parallele sono condannate a inse-guirsi e a intrecciarsi fino alla fine. En-trambi sono personaggi ingombranti

ed entrambi entrano in conflitto con ipoteri forti delle loro metropoli. Di en-trambi è la rispettiva patria, e non il ne-mico storico, a diventare il persecutore.Annibale, uomo di fieri principi e inca-pace di perseguire il suo personale tor-naconto, è costretto alla fuga verso leterre dei progenitori fenici e poi a una vi-ta raminga di reame in reame fino alCaucaso e poi alle coste d’Anatolia, do-ve — tradito — si avvelena a sessanta-quattro anni. Scipione, attaccato da Ca-tone il Censore (sì, quello che martella-va il senato con l’invito a distruggereCartagine, «Delenda Cartago») per avercoperto il fratello in una brutta storia dimalversazione di pubblico denaro, allafine si ritira — stanco e malato di idropi-sia — nel suo rifugio di Literno in Cam-pania, dove esce di scena appena cin-quantatreenne, mormorando: «Ingratapatria, ne ossa quidem mea habes», nonavrai nemmeno le mie ossa.

Muoiono, i due nemici, nello stessoanno, e a Brizzi — che tesse con la fictionle parti lasciate vuote dal telaio della sto-ria — piace credere che Annibale se nesia andato per primo, tirandosi dietroScipione. Alla notizia della sua morte, ilromano — che sul cartaginese aveva co-struito la sua grandezza — era stato col-to da un presagio: «Aveva sentito — no,aveva saputo — che non gli sarebbe so-pravvissuto a lungo. Non gli era statoamico, il Barcide; ma era stato il piùgrande e nobile dei suoi nemici». Perquesto capì che l’avrebbe seguito inmorte, esattamente come l’aveva segui-to in vita.

che la gioventù e la bellezza.Il comandante in capo delle legioni sa

benissimo che è stato Annibale, a suondi batoste, a rilanciare la macchina mi-litare romana, impartendole lezionimemorabili. E capisce di essere statoproprio lui, Scipione, l’autore di questastraordinaria metamorfosi che dopo ilcollaudo della guerra punica metteràRoma — nata secoli dopo l’espansionefenicia nel Mediterraneo — sulla stradadi diventare una vera potenza imperia-le. Con Scipione, che impara tutto daAnnibale, il movimento dei reparti incampo perde rigidità, impara la mano-vra avvolgente portata alla perfezionedal cartaginese nella battaglia di Canne,e scopre — proprio a Canne, dove i ro-mani erano il doppio del nemico ma fu-rono massacrati egualmente — che lasuperiorità numerica, quando diventaeccessiva, finisce per divorare se stessa,generando confusione e intasamentofra i reparti.

Lui romano, figlio di un esercito difanterie, capisce che è la cavalleria lachiave di tutto, e concepisce l’audacia direclutare i micidiali squadroni numidi-ci di Massinissa che fino alla vigilia di Za-ma sono stati agli ordini di Annibale. So-no gli stessi squadroni che hanno deter-minato la sconfitta e la morte di suo pa-dre e di suo zio. Ma lui, anziché vendi-carsi, li tira dalla sua e ne fa l’arma vin-cente, rubando al nemico non solo latattica rivoluzionaria, ma persino gliuomini. Così a Zama sono i cavalieri giàdi Annibale a salvare in extremis Scipio-ne dalla mosse imprevedibili dell’av-

ELEFANTILa battaglia di Zama,

disegno di Giulio

Romano (Museo del Louvre)

In basso a sinistra,

un dipinto dello stesso

soggetto, della scuola

di Giulio Romano (Museo

Pushkin di Mosca)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 3GIUGNO 2007

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la letturaSegreti culinari

È sempre stato uno scrittore, un lavoratore da scrivania. Poi un giornoa New York conosce uno chef italoamericano e decide di diventaresuo allievo. E di sottoporsi a qualsiasi tipo di fatica e umiliazionepur di trasformarsi a sua volta in un grande chef. Ecco la storia vera,divenuta un libro, di un uomo e del suo tirocinio, anche spirituale,tra piatti sporchi, cucine-caserma, bruciature, tagli e lacrime

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

La griglia è come l’inferno. Dopo cinqueminuti che ci stai pensi: allora era questoche aveva in mente Dante. Si trova in unangolo buio e caldo, più caldo di qual-siasi altro angolo della cucina, più caldodi qualsiasi altro luogo della vostra vita.

Di recente avevano messo l’aria condizionata, masopra la griglia durante il servizio restava spenta: al-trimenti come si faceva a mantenere inalterata quel-la temperatura da girone dell’inferno? L’illumina-zione era pessima, per nessun motivo sensato a par-te il fatto che non ce n’era abbastanza, il che accen-tuava la sensazione di trovarsi in un posto dove nonvoleva stare nessuno: troppo unto, troppo sgradevo-le. L’unica luce che c’era sembrava provenire dallefiamme: venivano accese un’oretta prima che ini-ziasse il servizio e rimanevano così per le otto ore se-guenti. Non avevo riflettuto bene su cosa avrebbecomportato imparare a lavorare alla griglia. Non miero mai visualizzato in quell’angolo, a svolgere quel-le mansioni.

Mario mi disse di andarci e io gli obbedii, varcan-do il muro di calore che avevo eretto nella mia men-te, sentendo con l’improvviso aumento di tempera-tura una specie di crepitio sulla pelle. Visto da vicinoMark Barrett, che era stato incaricato di insegnarmiil mestiere, mi ricordava un uomo di un’altra epoca.Aveva le mani ricoperte di un sudiciume ottocente-sco. Le unghie come falci di luna lorde di nero. Gliavambracci glabri e rigati di bruciature viola. Gli oc-chi ingigantiti — batteva le palpebre dietro un paiodi lenti distorcenti con la montatura spessa — e il na-so, ancora bendato perché se l’era rotto, striato di ri-gagnoli anneriti di grasso. Pareva uno spazzacaminimiope. Puzzava di sudore.

Mi descrisse la postazione. C’erano due apparec-chi per la cottura oltre alla griglia. A destra c’era un for-no per ultimare la cottura delle carni più volumino-se, per esempio una bistecca alta dieci centimetri(prima sulla griglia, poi nel forno), e sulla sinistra unapiastra per la preparazione dei contorni, ossia il restodella roba che andava sul piatto. Mi indicò alle suespalle un espositore con un centinaio di vassoietti diingredienti diversi: erbe aromatiche, fagiolini, cuoridi carciofo, barbabietole e chissà che altro — un sac-co di rosso e verde e giallo. Io li osservai e pensai: man-co morto. Tornai a guardare la postazione nel suo in-sieme. Ero assediato dal calore. «Attento alla giacca»,mi avvertì Mark. «Se dai le spalle alla griglia i fili sisciolgono e ti si appiccicano alla pelle». Mi propose didividerci i compiti: lui avrebbe impiattato e io potevostare alla griglia. Aggiunse che dividerli era comun-que l’abitudine nella maggior parte dei ristoranti.

Ero elettrizzato. Non significava forse che avrei cu-cinato io tutta la carne del ristorante? (Non significa-va anche che mi sarei evitato i contorni?) Mark mispiegò la procedura. Visto che la carne doveva ripo-sare, veniva cotta subito, appena qualcuno la ordi-nava, anche se sarebbe stata servita un’ora dopo.(Quando poi la comanda veniva “chiamata”, la car-ne veniva rapidamente riscaldata e impiattata.) Lecomande venivano chiamate dall’annunciatore,che cinque sere alla settimana era Andy e le altre dueera uno dei sous-chef, Memo o Frankie, poi il cuocodella postazione interessata le ripeteva a voce altaper conferma.

«Due cinesi», diceva Andy, abbreviazione per ilmenu di assaggi di pasta, e Nick rispondeva: «Due ci-nesi». Oppure Andy diceva: «A seguire una lettera,un’anima e un ali» intendendo che a seguire biso-gnava servire una pasta che si chiamava lettere d’a-more, una porzione di animelle e una di halibut, alche l’addetto alla pasta rispondeva: «Lettere», eDom, l’addetto al sauté, rispondeva: «Un’anima, unali», una sequenza di parole che se ascoltate con unminimo di distacco sembravano comporre unanarrazione a sé stante. Oppure: «Perdente albancone, maiale», che significava che c’era unapersona da sola al bancone (il perdente) cheaveva ordinato un filetto di maiale.

Ripetei la comanda ad alta voce e presi lacarne da un piccolo frigorifero sotto l’espo-sitore dei contorni. Era tutto studiato per ri-durre i movimenti al minimo, in modo cheil cuoco potesse ruotare su se stesso tenen-do i piedi fissi a terra come un giocatore dibasket. La carne cruda andava su un vassoio,dove condivo entrambi i lati con sale e pepe.Una volta cotta veniva depositata su un altrovassoio a riposare. L’idea era che in qualsiasimomento dovevo avere sott’occhio tuttoquello che era stato ordinato, cotto o no. Sulpavimento c’era un grosso secchio pienod’acqua calda saponata. «Ti si coprirannole mani di olio e grasso, devi immergerlenell’acqua per evitare che la roba ti scivo-li fra le dita», disse Mark. «Sfortunata-mente di solito non c’è il tempo di cam-biarla». Dopo un’oretta l’acqua non erapiù né calda né saponosa. Per essere one-sti, dopo un’oretta l’acqua era qualcosache preferivo non guardare, e quando ciimmergevo le mani chiudevo gli occhi. A fi-ne serata smisi di farlo: le mani sembravanopiù unte dopo che le bagnavo.

[...] Imparare a grigliare la carne significa im-parare a essere a proprio agio con variazione e

improvvisazione, perché la carne è il tessuto di unacreatura vivente e ogni pezzo è diverso. In questosenso cominciavo a capire che esistono due tipi dicuochi: quelli che cucinano carne e quelli che cuci-nano dolci. Il pasticcere è scientifico e lavora conmisurazioni precise e ingredienti fissi che si com-portano in maniera prevedibile.

Mescolate una specifica quantità di latte, uova,zucchero, farina ed eccovi la torta. Aggiungete piùburro e la torta sarà friabile; aggiungete unaltro uovo e sarà spugnosa. La carne in-vece è pronta quando sentite che lo è.Un volatile, come una quaglia o unpiccione, lo cuocete finché non sa-pete per esperienza che è pronto(oppure, se siete me e non aveteesperienza, fate un taglietto eguardate com’è dentro). Una bi-stecca la tenete sul fuoco finchénon capite “al tatto” che è arriva-ta. I libri di cucina non possonoinsegnarlo — questa sensazione,questa cosa che si apprende per ri-petizione finché non la si immagaz-zina nella memoria come un odore —e io avevo qualche difficoltà a capire co-me funzionava. Normalmente s’intendeche un pezzo di carne — una costoletta di agnel-lo, poniamo — è medio al sangue quando ha unacerta morbidezza al tatto. Per spiegarmelo Mario sitoccava la parte più morbida del palmo paffuto e di-ceva che la carne doveva avere quel «tipo di elasti-cità», un gonfiore da trampolino imbottito, il chenon mi aiutava affatto, perché le sue mani eranouniche al mondo, due zampone sproporzionate,tozze e larghe. Io avevo sempre il tocco pesante e mibruciavo e non capivo mai se era il momento oppu-re no.

Allora presi a toccare la carne per capire nonquanto era cotta ma quanto era cruda. Misi le co-stolette di agnello sulla griglia — cinque, ognuna diforma diversa — e ne toccai una, anche se sapevoche sarebbe stata cedevole e molle. La girai e la toc-cai di nuovo. Ancora morbida, come lana ba-gnata. La toccai ancora, poi ancora, e ancora,fino a quando una iniziò a sembrarmi piùsoda, ma di pochissimo. La toccai. An-cora più soda. La toccai. Nessuncambiamento. Latoccai. Pron-ta.[...]

Ero allagriglia dadue mesiquando, per dirlanel gergo della cuci-na, fui «martel-lato». Era giu-gno, l’inizio

caldissimo di un’estate caldissima. [...] Fuori c’era-no trentaquattro gradi. E dentro? Chissà. Diciamodi più. Una volta cominciato il servizio, l’aria condi-zionata sopra la griglia venne spenta. Mi fu detto diprepararmi una serie di brocche d’acqua. «Tientipronto», mi disse Frankie: col caldo tutti ordinanoqualcosa dalla griglia. (Perché? Forse perché sa di«rustico, all’aperto, italiano»? Oppure perché lagente sa che la griglia sta nella parte più calda della

cucina e ha voglia di torturare il poverettoche ci lavora?) Alle cinque e mezza si

sentì il rumore della telescrivente.«Calcio d’inizio», disse Memo. Se-

condo un diagramma preparatoda John Mainieri si attendevanocirca duecentocinquanta per-sone. Ne vennero di più, con-centrate nei primi novanta mi-nuti.

Uno dei misteri dei ristoran-ti è che c’è sempre un piatto che

ordinano tutti, e non puoi maiprevedere quale sarà. Una sera

toccò ad anatra e branzino, e io eDom eravamo i più indaffarati del-

la cucina: ordinarono venticinquebranzini e ventitré anatre. Era una serata

caldissima e potevo capire l’attrattiva di unpesce alla griglia. Ma perché l’anatra? Un’altra seratoccò al coniglio, dopodiché basta, non lo volle piùnessuno. La sera in questione era il turno delle co-stolette d’agnello, cottura media (media al sangueera la più facile da sentire, e ben cotta era la più faci-le di tutte: la carbonizzavi e basta).

«Un branzino, due agnelli medi, un agnello bencotto, un agnello medio al sangue», chiamò Andy.Io risposi: «Un branzino, due agnelli medi, uno bencotto e uno medio al sangue». Per quale motivo, ri-cordo di aver pensato, uno va al ristorante italianoe ordina costolette d’agnello?[...]

«Comanda!» attaccò Andy. «Due agnelli medi, unpiccione, un maiale, una lombata». Io

girai su me stesso, infilaiuna mano nel frigo-

rifero, presi lacarne,

mi girai di nuovo, la buttai sul vassoio del crudo, e lacondii. Allineai le costolette sulla griglia in due fileda cinque, tutte rivolte verso destra, sistemai i filet-ti in un altro angolo, misi su la lombata, ma non eroancora arrivato al piccione quando sentii il rumoredella telescrivente: «Tre branzini e due agnelli me-di». Stessa procedura: altre due file di costolette ri-volte verso destra però in una parte diversa della gri-glia rispetto alle prime (che avevo girato ed erano ri-volte a sinistra), perché queste dovevano essere me-die al sangue. Ma i branzini dove li infilavo? Non c’e-ra spazio.

Di nuovo la telescrivente. «Comanda, tre agnellimedi, un branzino, un coniglio». Ancora? Interrup-pi quello che stavo facendo: dovevo almeno mette-re le nuove ordinazioni sul vassoio dei crudi percondirle sennò al prossimo giro di comande me lesarei dimenticate, e se rimanevo indietro mettevonei guai tutta la cucina. La carne da cuocere si stavaaccumulando sul vassoio perché sulla griglia nonc’era spazio. Mi accorsi che Memo mi si era avvici-nato, pronto a subentrare se non reggevo: quelloche la cucina chiama «il tracollo» o «il momento del-la devastazione», quando ci sono più cose di quan-te la tua mente possa ricordare.

Di nuovo la telescrivente. Cominciavo ad averel’impressione di essere un concorrente in una garasportiva. Il sudore mi colava giù per il naso mentrecercavo di muovermi veloce, quel tanto che mi con-sentiva la mia concentrazione: capovolgere, gira-re, toccare, bruciarmi, una fila rivolta verso de-stra, un’altra verso sinistra, toccare di nuo-vo, ammonticchiare carne da una parte,precipitarmi dai branzini cheaspettavano un buco in cui es-sere cotti, girare, le fiammein un angolo della grigliache non accennavano aplacarsi, alimentatedal grasso della car-ne che andavo ag-giungendo. Dinuovo la tele-scriven-te. La

BILL BUFORD

Una griglia per cuocere all’inferno

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 3GIUGNO 2007

mia mente era satura, con un solo pensiero vagan-te, una domanda, ripetuta all’infinito: che succedese resto indietro? E arrivarono altre comande: unagnello medio, un agnello medio al sangue. Cheproblemi ha questa gente?

Ero circondato di carne. Carne sulla griglia. Carnesul vassoio da condire. Carne sul vassoio a riposare,una montagna. Tanta carne che non sembravaneanche più carne. O forse sembrava esattamentequello. Erano tessuti e muscoli e nervi. E ancora al-tre comande. «La senti l’ebbrezza?», mi sussurròMemo, ancora alle mie spalle. «È per questo che vi-vi», disse Andy, prendendo piatti dal passaggio e ag-giungendo misteriosamente: «Dio, che figata». Quelcommento mi rimase impresso per il resto della se-rata, e pensai bene a cos’era che sentivo: esaltazio-ne, paura, stranezza, una scarica di endorfine dagrande sforzo fisico. Ma definirla una «figata»? Sitrattava, conclusi, del mio primo sguardo su quelloche Mario aveva descritto come «la realtà della cuci-na»: una stanza piena di drogati di adrenalina.

E poi, così com’era iniziato, il primo ciclo della se-rata terminò.

[...] Diventai grigliere. In quel periodo Mario nonera mai venuto in cucina. Era in viaggio, a promuo-vere qualcosa, e al suo ritorno io lavoravo alla griglia

da quasi un mese. Forse mi ero mon-tato la testa. Forse avevo bisogno

di essere ridimensionato, sta difatto che la prima sera che

tornò Mario mi allontanò

dalla mia postazione. Avevo cotto male due co-mande. I piatti erano sul passaggio.

«Questo maiale è poco cotto», disse, staccando lefettine di un filetto e giudicandole troppo crude.«Rifai». Mi porse il piatto. «E il coniglio» — strinse lacarne bianca e polposa fra il pollice e l’indice — «ètroppo cotto». Il maiale si poteva sistemare metten-dolo sotto la “salamandra”, una griglia che scaldadall’alto usata per riscaldare e cuocere in fretta, an-che se non era proprio l’ideale: la carne,non più rosa, aveva assunto un colorgrigio smorto decisamente poco al-lettante. Ma il coniglio non si pote-va sistemare in nessun modo: fudato a un commis e servito co-munque. Mario chiamò Memoe Frankie e conferì con lorodandomi le spalle, un mugu-gnio indecifrabile salvo cheper la parola «inammissibile».Poi uscì emettendo quello chesembrò uno sbuffo e se ne andò.Memo, che prima era impegna-to nella cella frigorifera, venne dame e mi disse di spostarmi.

«Non è quello che farei io. È quelloche mi ha detto di fare il capo». Poi preseil mio posto alla griglia. Non è che ci fosse unposto dove potevo spostarmi. Mi trovavo di fronte aun dilemma. Dovevo tornare a casa? Per l’ora se-guente considerai l’eventualità. Fu una lunga ora.

Rimasi in piedi più dritto che potevo. Ero schiaccia-to contro un forno acceso, lo stesso che avevo usatoper completare le lombate. Stavo cercando di farmipiccolo. Anzi, stavo cercando di scomparire. La gen-te passando mi spintonava apposta. L’addetto agliantipasti doveva usare la griglia per scaldare il poli-po, e per non essergli d’intralcio ero costretto ad ap-piattirmi contro il forno. Alla fine, nel tentativo direndermi utile, mi misi a condire la carne che cuo-

ceva Memo: divenne il mio ruolo, l’addetto alsale e al pepe. Un po’ di sale, un po’ di pe-

pe, seguito da una lunga attesa finchénon veniva ordinata dell’altra carne.

Riflettei: se me ne fossi andato, sa-rebbe stato come dire che non po-tevo reggere lì dentro. Non sareipiù riuscito a tornare. Condii del-l’altra carne. In cucina era calatoil silenzio.

Nessuno mi guardava negliocchi, e me ne accorgevo bene,

perché non avendo altro da fareera proprio questo che facevo:

guardavo la gente che non mi guar-dava. L’ambiente della cucina inco-

raggia sentimenti da commilitoni — ilunghi orari, la pressione, la necessità di la-

vorare all’unisono — e questa umiliazionepubblica, lo spettacolo del «guardatelo, ha scazza-to», metteva tutti a disagio: toccava il cuore di quel-lo che significava essere parte di quel posto. Che Ma-rio l’avesse fatto di proposito, creare disarmonia, ri-cordare a tutti che non esistono amici, ma solo ri-sultati? Che fossi diventato troppo compagnone?Forse Mario aveva la luna storta. Quel filetto di maia-le era davvero tanto crudo? Mi venne in mente unacosa che aveva detto una volta Mark Barrett: Marionon urla mai, ma quando è in cucina diventa un’al-tra persona ed è famoso per massacrare la gente. PoiMario ricomparve. (Merda. E adesso?) Si mise a una

delle piastre e iniziò a preparare pizze, “pizza al-la piastra”, come le avrebbe servite nella nuo-

va pizzeria. Era la sua fissazione del mo-mento, e voleva che qualcuno del ristoran-te le assaggiasse. Ne cucinò una serie, met-

tendoci sopra pezzi di grasso di maiale e sal-sa piccante di peperoncini, un miscuglio mol-

liccio e gocciolante. Ne morse una e si sbrodolò laguancia, un rivoletto lucido rosso di unto.

Guardai tutto questo perché, ripeto,era quello che stavo facendo:

guardavo. Poi si avvicinòa grandi passi e misbatté il resto dellapizza in bocca,veloce e conforza.

«Questo»,disse, «è il sa-pore che l’A-

merica staaspettando».

Mi stava a pochicentimetri dalla fac-

cia. «Non trovi anche tuche questo sia il sapore che

l’America sta aspettan-do?». Teneva la testa incli-

nata all’indietro, come un pu-gile, porgendomi il mento

ma parandosi il naso. Mistava piantato davanticon un atteggiamento ag-gressivo, lo sguardo duro,quasi beffardo. Mi fissò,in attesa del mio assen-

so. «Questo», dissi, «èquello che l’America

sta aspettando».S o d d i s f a t t o ,

Mario portò lepizze ai suoiospiti e se netornò a casa, eallora Memo miordinò di rimet-

termi alla gri-glia. «Se n’è an-

dato», mi disse, «etu devi recuperareil tocco». Era un ge-sto profondamen-

te solidale — gene-roso, ribelle, giusto

— e così rientrai nellasquadra.

Frankie mi spiegò.«È successo a tutti noi.È così che impari. È larealtà della cucina.

Benvenuto da Babbo».Il giorno dopo mi scu-

sai con Mario.«Non lo farai mai più»,

rispose lui. E aveva ragione:non lo feci mai più.

Traduzionedi Adelaide Cioni

(© 2007 Fandango Libri)

IL LIBRO

Bill Buford, autore ed editor per la fiction per il New Yorker e tra i fondatori

di Granta, una delle più prestigiose riviste letterarie del mondo anglosassone

è anche famoso per il libro Among the Thugs, un viaggio nel mondo degli

hooligans inglesi. Un giorno conosce il celebre chef italoamericano Mario

Batali durante una cena e decide di diventare il suo “schiavo” nelle cucine

di Babbo, uno dei migliori ristoranti di New York, pur di diventare un cuoco

esperto. Heat è il racconto del suo apprendistato, duro, spesso umiliante

ma anche divertente, tra fallimenti e speranze, cadute e successi.

L’8 giugno esce in italiano con il titolo Calore. Le avventure di un dilettantecome sguattero, cuoco di partita, pastaio e apprendista di un macellaiotoscano che recita Dante (Fandango Libri, 320 pagine, 18,50 euro).

Ne anticipiamo un capitolo. I disegni di queste pagine sono di Gipi.

La memoriadel cuoco

CARLO PETRINI

Ormai ne conosco a migliaiadi cuochi e cuoche. Soltan-to a Torino, lo scorso otto-

bre in occasione di Terra Madre,ne ho incontrati più di mille in unsol colpo: partecipavano, concinquemila produttori di ciborealizzato in maniera sostenibile.Va detto che c’è una cosa fonda-mentale che accomuna i cuochidi tutto il mondo: la profondapassione per il loro lavoro. È unmestiere durissimo, che compor-ta un coinvolgimento totale, ora-ri difficili, molti sacrifici: solo chiha sincera passione può riuscirebene.

E riuscire bene al giorno d’ogginon significa soltanto deliziare ipropri clienti, significa anche ri-coprire un ruolo fondamentale.In una società globale che rischiadi rimuovere progressivamente,o dimenticare del tutto, gran par-te del suo bagaglio di conoscenzelegate alla preparazione del cibo,il savoir faire cucinario, sia che siparli di tradizione sia che si parlidi innovazione, è sempre più nel-le loro mani: hanno dunque unaresponsabilità notevole.

Il cuoco conosce le tecniche,studia e inventa le ricette, imparaletteralmente i prodotti per trar-ne sempre il massimo. Questasua attività, in un mondo dove sicucina sempre meno nelle case,

dove si è rotto il cordone om-belicale che consentiva la

trasmissione di cono-scenza di madre in fi-

glia, lo rende in qual-che modo custodedi una parte impor-tante del futuro delnostro cibo.

Decisivo diventail loro rapporto con

i contadini, perchévedo due grandi ten-

denze in atto nel mon-do della cucina: due

correnti da apprezzare epromuovere allo stesso mo-

do, che ci raccontano molto delruolo attuale del cuoco. Da un la-to abbiamo l’esaltazione dellamaestria in senso più classico, lacapacità di trasformare i prodottiin una preparazione alta, risulta-to assoluto di un’abilità. In que-sto caso prevale la tecnica, anchemolto complessa, a volte strabi-liante, tanto che può arrivare amettere in secondo piano il valo-re della materia prima, la sua pro-venienza, le sue caratteristicheorganolettiche. Elementi che, in-vece, l’altra scuola sa mettere ingrande risalto. È una tendenza fi-glia del tempo in cui il sistema delcibo palesa grandi contraddizio-ni e difficoltà: prevale in manierapreponderante la semplicità, peresaltare verdure, carni, pesci,condimenti, tutti eccellenti e lo-cali. Nasce così un’alleanza tracuochi e contadini, che oggi haraggiunto un livello tale per cui sipuò davvero parlare di cucinadella Terra, dominata da elemen-ti come origine, stagionalità, na-turalità. La bravura del cuoco staprima di tutto nel conoscere iproduttori e ricercare i prodotti,per poi esaltarli: il savoir faire cu-cinario è in questo caso molto di-screto.

Non si parli, però, di una con-trapposizione tra tecnica e mate-ria prima: sono due facce dellastessa medaglia, della stessa im-mensa operazione culturale cheogni giorno milioni di cuochicompiono nelle loro cucine. Il ri-sultato di una passione, di un du-ro lavoro che è un patrimonio datenere in grande considerazione,incredibilmente prezioso.

ILLUSTRAZIONI DI GIPI

Repubblica Nazionale

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Uno è nato in mezzo al de-serto del Sahara, l’altro inun libro. Uno guarda ilmondo con l’occhio deibambini, l’altro con l’oc-chio degli adulti consa-

pevoli della loro mortalità. Uno è un“piccolo” film che sembra grande, nel-la memoria, per il successo che ha ri-scosso, ma che è stato concepito e rea-lizzato come una deriva personale allaricerca delle fiaba perduta, l’altro è unmeraviglioso, sontuoso monumentovisivo denso di rimandi filosofici, misti-ci, culturali. Uno si svolge in un presen-te indeterminato ai margini della classi-ca piccola città americana, l’altro nel-l’immenso sprawl, nella distesa senzafine della Los Angeles del 2019. Tutti edue hanno segnato la storia del cinemadi fantascienza con tanta forza da nonaver creato (o quasi) dei cloni: unici, ini-mitabili, definitivi.Tutti e due, E.T. e Bla-de Runner, si confron-tano in un anniversa-rio, compiono unquarto di secolo.

Della nascita di E.T.,il piccolo extraterre-stre abbandonato pererrore dalla sua astro-nave vicino alla casadel piccolo e non tan-to felice Elliott, ha rac-contato molte volteSteven Spielberg. Pri-ma i ricordi: di quandolui aveva sei anni e unanotte suo padre lo sve-gliò alle tre per portar-lo a vedere una piog-gia di meteore, e lui,piccino, capì «che ilcielo e le stelle lassùmeritano un’osserva-zione molto attenta».Poi ci mette le sueesperienze con Il ma-go di Oz e Peter Pan, etanto Disney e Hitch-cock e Kubrick e Stein-beck e Faulkner e «tut-te le esperienze che hofatto alle elementari,alla medie, al liceo, alcollege per farmi spa-zio nella vita». E infinequando stava in mez-zo al Sahara, durantele riprese di I predato-ri dell’Arca perduta,«tra nazisti assassini eproiettili che volava-no da tutte le parti».Che ci faccio qui? si èchiesto il regista. «De-vo tornare indietro, al-la spiritualità di In-contri ravvicinati, alcalore delle emozionipiù genuine».

Detto fatto. Dopol’arrivo sulla scena diIndiana Jones, Hol-lywood era pronta aconcedere al suo pu-pillo qualsiasi capric-cio. E E.T. non era uncapriccio costoso,tutt’altro. Era l’incon-tro al massimo livellopossibile tra la fanta-sia di Spielberg e la suavoglia di gioco, comequei giochi che i bam-bini riescono a farecon poco. E era, a det-ta sua, di nuovo unfilm «personale, il pri-mo dopo Incontri rav-vicinati».

«Quando incomin-ciai E.T. ero grasso, fe-lice e soddisfatto deifilm che avevo in pro-gramma. E sentivoche non avevo nullada perdere». Quelloche produsse grazieanche all’ingegnosa epoetica creatura diCarlo Rambaldi (chenella realtà della lavo-razione furono tre, inun progressivo livello

di sofisticazione e di ingombro) è unpersonaggio che si aggiunge alPantheon degli eroi fantastici, a MickeyMouse (come auspicava e annunciavail regista) e, andando indietro nel tem-po delle favole, a Peter Pan, a Pollicino,agli archetipi dei bambini indipenden-ti e ribelli.

Qui veramente i bambini sono due,stranamente assortiti: il bambino/vec-chio, E.T., ormai l’extraterrestre per an-tonomasia, rugoso come una tartarugae tenero come un pupazzo, e Elliott, ilbambino/bambino che con E.T. crescee diventa consapevole del suo essereumano. La singolare e strana coppia,bambino e extraterrestre, che si ritrovae si vuol bene, si riconosce e sperimen-ta la solidarietà dei piccoli, mossa dallaregia a altezza di bambino di Spielberg(chi non ricorda quegli adulti cattivi ri-presi dalla vita in giù, quel tintinnare ag-gressivo di chiavi portate da uno scono-sciuto di cui non si vede il volto e che, si

favoleggia, era forse Harrison Ford?),ha prodotto il miracolo di un cartoneanimato umanizzato, della meravigliaeretta a sistema (e con poco, come insi-ste il regista, con mezzi umani e mode-ratamente tecnologici, e ogni tanto l’in-tervento di un nanetto, Pat Bilon, nellapelle rugosa di E.T.).

Quando, in occasione di un altro an-niversario (il ventesimo) E.T. uscì inquella che veniva presentata come unanuova versione (in realtà limitata a treminuti in più di girato), l’unica vera dif-ferenza rispetto alla versione del 1982era che Spielberg aveva deciso di elimi-nare tutte le pistole dal film. Effetto 11settembre, si disse. In realtà Spielbergaveva dichiarato da tempi insospetta-bili che c’erano due cose di cui si penti-va, nel film: gli adulti con la pistola cheminacciano i bambini nella loro fuga inbicicletta verso la grande luna bianca, ela presenza nel film di armi.

L’unico punto che collega E.T. al suo

coetaneo Blade Runner — piccolo uno,gigantesco l’altro; provinciale il primo,megalopolitano il secondo; fiaba perbambini l’uno, incubo per adulti l’altro— è che in ambedue i film gli alieni so-no umani, più che umani, che la defini-zione di umanità viene messa in di-scussione dalla natura della strana alie-nità degli altri.

Se E.T. è nato dal desiderio di fiabaesploso nella fantasia di Spielberg inpieno Sahara, Blade Runner nasce dal-le letture eccentriche di Ridley Scott:eccentriche perché Philip K. Dick nonera in quegli anni assurto alla posizionedi scrittore di culto che gli è riconosciu-ta oggi. Ma accanto a Dick, autore delracconto su cui si basa con molte va-rianti il film (Do Androids Dream ofElectric Sheep? Gli androidi sognano pe-core elettriche?), servirebbe un interoscaffale, se non di più, per contenere lefonti letterarie e filosofiche di un filmche fortunatamente parla anche e sem-

Negli stessi giorni del giugno di venticinque anni fauscivano due classici della fantascienza, filmdi enorme successo per ragioni opposte: l’uno una fiaba

per bambini di provincia, l’altro un incubo megalopolitano per adultiEppure entrambi - come oggi ricordano gli artefici di quei successi -ci parlano della sostanza e dei confini della nostra umanità

IRENE BIGNARDI

E.T. e Blade Runner, lezione alienaIn queste storiei protagonisti ,il tenero, ridicoloextraterrestree i perfetti replicanti,sono umani,più che umaniQuesto è il puntodi contattotra le due vicende

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

GRANDEBURATTINAIOIn alto, Carlo

Rambaldi,

il papà di E.T.

Accanto,

un disegno

del piccolo

extraterrestre

Carlo Rambaldi ha ottantuno anni,vive in Calabria con la moglie Bru-na, vicino alla figlia Daniela dei cui

bambini fa il nonno a tempo pieno purcontinuando a progettare parchi a temasul futuro e lo spazio. È passato un quar-to di secolo dalla sua avventura con E.T.,il mega-successo di Steven Spielberg cuilui diede un contributo decisivo co-struendo il protagonista, la marionettarobotica allora di assoluta avanguardiatecnologica.

Rambaldi, ricorda il primo incontrocon Spielberg?

«Quando Steven mi venne a trovareper parlarmi del progetto si rifiutò di mo-strarmi i modellini di E.T. che lui stessoaveva costruito: per non influenzarmi,diceva. Mi diede la sceneggiatura di Me-lissa Mathison, ex moglie di HarrisonFord, e scoprii che il personaggio dell’ex-traterrestre era in fondo un bambino chesi ritrova in un pianeta lontano dal suo,con esseri diversi da lui. Si sente spaesa-to, ha nostalgia di casa. La sua piccola sta-tura riflette questa innocenza: è infattipiù piccolo degli altri bambini del film.Ma E.T. ha quella capacità quasi magicadi allungare il collo, come una giraffa, esubito diventa il bambino più alto».

Ci mise molto a realizzare i primicampioni del pupazzo?

«Poche settimane. Presentai a Spiel-berg un modellino di E.T. in creta alto ap-pena trenta centimetri per capire se eraquello che voleva: gli piacque. Stevenchiese alla Universal di svolgere un’inda-gine sul mercato dei pupazzi per assicu-rarsi che la mia idea fosse di assoluta ori-ginalità. Indagarono ovunque, dall’Ame-rica al Giappone alla Cina, e dopo due set-timane confermarono l’unicità del miodisegno. Non c’era pericolo di plagio».

Come s’inventò la fisionomia di E.T.?«Dal copione capii cosa doveva rap-

presentare nell’immaginario collettivo. Ilineamenti facciali protuberanti sottoli-neavano l’alienità all’anatomia umana.Pochi centimetri di troppo avrebbero re-so ridicolo quel muso proteso in avanti.Non dovevo esagerare, e lo stesso valevaper gli occhi grandi: una sfida da equili-bristi. Quando E.T. allunga il collo crescein un istante di qualche anno: il bambinodiventa ragazzino, e a volte sembra unvecchietto».

Perché dargli gambette così corte egoffe?

«Per dare l’immediata impressioneche di fronte a un pericolo E.T. non puòdarsela a gambe levate e correre veloce.La gambetta corta è un handicap che lorende più vulnerabile e ti fa venire vogliadi proteggerlo. L’elemento fisico diventaun tratto caratteriale. E.T. è il buono perantonomasia: per difendersi ha solo laforza della mente».

La mia sfidada equilibrista

Carlo Rambaldi

SILVIA BIZIO

Ambientato in una Los Angelesdark e piovosa nel 2019, il thrillerfuturista di Ridley Scott Blade

Runnerè diventato un “cult” assoluto. Inoccasione dell’anniversario, il regista in-glese, sessantanove anni, ha deciso di ag-giungere alcune scene per il pubblicodell’home video. Scott ha lamentatospesso problemi di budget al tempo del-le riprese e alterazioni al montaggio im-poste dai finanziatori, e ha col film unrapporto ambivalente.

Come prese forma il mondo caotico ebuio di Blade Runner?

«Pensando a New York e Hong Kong.Era il periodo in cui da Londra andavospesso a New York per girare spot pub-blicitari. Atterravo a Jfk e prendevo l’eli-cottero-shuttle che mi depositava sultetto del grattacielo PanAm; la notte do-po ripartivo dallo stesso tetto alla volta diLondra. Era pauroso: era inverno, c’erasempre vento e ghiaccio su quel tetto, ipasseggeri erano già sbronzi di Martini eero convinto che anche il pilota avessefatto il pieno. Si buttava giù dal tetto e al-l’improvviso mi appariva Manhattansotto i piedi. È questa immagine alluci-nante, oscura e notturna della metropo-li che avrebbe poi dato forma al mondodi Blade Runner».

E Hong Kong?«Ci andavo spesso per lavoro e ero

sconvolto dal suo ambiente. Non c’era-no grattacieli. Le strade erano medieva-li, il porto coperto da una crosta di schi-fezza: una città sull’orlo di perdere il con-trollo. Quando abbiamo disegnato lacittà di Blade Runnervolevo Hong Kong,volevo mettere grattacieli in quel porto.Così, a differenza di film dell’inizio delVentesimo secolo come Metropolis, chepresentava la città del futuro pulita e fun-zionale, il mio scenografo, Syd Mead, re-se la città di Blade Runner eclettica, cao-tica e altamente tecnica, quasi in modopunitivo».

Ricorda le prime reazioni al film?«Non venne subito capito. Alcuni cri-

tici mi insultarono per aver ritratto unaLos Angeles, che si preparava alle Olim-piadi 1984, con tonalità troppo dark. Iocercavo solo di creare una sorta di fu-metto heavy metal con un Philip Mar-lowe del 2019. Una proiezione lirica delfuturo che risultò poi più accurata diquello che si pensava allora, anche senon ci voleva un genio a immaginarla».

La versione ’92 non piacque a Ford.«Il suo personaggio è un replicante ma

lui odiava essere un robot, che invece perme era l’idea cardine del film. ConsideroBlade Runner una fantascienza sociolo-gica, e mi sarebbe piaciuto esplorarlacon un secondo o terzo capitolo. Ma orasono convinto che sia stato meglio la-sciarlo in pace, va bene così com’è». (s.b.)

La città-caosfece scandalo

Ridley Scott

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Rapporti

domani in edicola

LA PUGLIA CHE VERRÀ

L'Economia, i protagonisti, le prospettive di una Regione che punta al rilancio

Rapporto PUGLIA

Repubblica Nazionale

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plicemente per la sua potenza visiva edemotiva.

Perché se Blade Runner parla di alie-ni molto umani, parla in effetti dellacondizione umana, della vita a prestitoe a termine che tutti viviamo e che nei“replicanti” del film (i perfettissimi ro-bot costruiti sul modello degli uominiper lavorare nello “spazio esterno”) è li-mitata a quattro anni, con “data di riti-ro” prestabilita e fissa. E se nel romanzodi Dick, secondo lo stesso Dick, «i repli-canti sono odiosi, crudeli, freddi e sen-za cuore», nel film di Ridley Scott, sem-pre secondo Dick, sono «superuominisenza ali». Ridley Scott li mescola econfonde con un’umanità molto menobuona e sensibile di loro, più consape-voli degli uomini della loro fragile con-dizione di creature a termine, più uma-ni degli umani. Di più: i replicanti (defi-niti da una parola che in questi venti-cinque anni si è radicata con un’acce-zione ironica e denigratoria nel lin-guaggio comune, almeno comepaparazzi e vitelloni) con la loro stessaesistenza non solo costringono gli esse-ri umani a confrontarsi con l’essenzamortale, ma preannunciano tutto il di-battito attuale sulla clonazione e sul-l’ingegneria genetica.

Eppure, come tutti i film diventati inqualche misura un universo mitico, an-che di Blade Runner è difficile stabilirela preminenza, in termini di fascinazio-ne, di un elemento sull’altro. La storia?Forse. Gli interpreti? Sicuramente (ma,poveretti, a parte Harrison Ford, il cac-ciatore di replicanti, talmente segnatidalla loro presenza nel film da avere poiuna carriera altalenante, vedi la bellissi-ma Sean Young, che apparirà e scom-parirà come un fiume carsico, o RutgerHauer, che non riapparirà fino a LadyHawke e a La leggenda del santo bevito-re in film di qualche riguardo). La emo-zionante, emotiva, “maledetta” musicadi Vangelis? Anche. Ma io voto per ilpaesaggio, anzi, il cityscape. Blade Run-nerè il prototipo, il modello, l’invenzio-ne, il canone del paesaggio urbano emagalopolitano prossimo venturo — oanche presente, a giudicare da certi sky-line e certe strade e certi vicoli e gli on-nipresenti schermi giganti sui gratta-cieli delle metropoli asiatiche. RidleyScott, con Syd Mead, già designer deiConcorde, inventa sulle strutture dellaLos Angeles reale e su migliaia di mo-dellini un paesaggio urbano metà veroe metà fantastico, fatto di grandi archi-tetture tra rétro e postmoderno, miscel-lanea di stili e di moduli, lo invecchia elo fa decadere, lo percorre con le sue in-quadrature dall’alto al basso (simme-triche e diverse da quelle di E.T.) per stu-pirci con l’abisso di quei canyon urba-ni. E in definitiva sancisce e stabiliscequella che sarà la città futura della di-stopia architettonica.

Appuntamento per un controllo al2019? Abbiamo già superato senza dan-ni particolari il 1984 (il Grande fratelloper ora è solo quello televisivo, di guastine fa ma non così spaventosi…). E for-se, se ha ragione Al Gore, la grande pe-renne pioggia quasi dantesca di RidleyScott non ci sarà. Ma di E.T. e di BladeRunner resterà la poesia: la nuova fan-

tascienza di un quarto di secolo fa la-scia alle spalle, assieme ai baccello-

ni e ai dischi volanti, quello cheScott chiama «l’estetismo Na-

sa» e ci saluta con le immaginiumane, molto umane, di un

bambino e di un piccoloextraterrestre che si sta-

gliano con la loro bici-cletta contro la lu-

na, e di un repli-cante che muo-

re salutato dauna colom-

ba bian-ca.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 3GIUGNO 2007

STEVEN ALLAN

SPIELBERG

Nato a Cincinnati

il 18 dicembre 1946,

il regista e produttore

ha vinto due premi

Oscar (per la regia):

Schindler's Liste Salvate il soldatoRyan. Ha ricevuto

il Leone d'Oro

per la carriera

nel 1993 a Venezia

RIDLEY

SCOTT

Nato a South Shields

(Regno Unito)

il 30 novembre 1937,

il regista e produttore

ha ricevuto tre

nomination all'Oscar

come “miglior

regista”, ma non

ha mai portato a casa

l'ambita statuetta

Ha diretto 18 film

Repubblica Nazionale

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i sapori

C’era una volta il salmone selvaggio. Atlantico o Pacifico, faceva pocadifferenza. Tipologie diverse — il Salmo Salar dell’Atlantico, ben cin-que varietà nel Pacifico — ma ovunque quantità abbondanti, carnisucculente, benessere dei pescatori, se è vero che in Irlanda la sua im-magine guizzante venne scelta per caratterizzare la moneta da diecipence.

Raccontano che nei fiumi del Nord Europa — Scozia, Irlanda, Islanda, Norvegia, più ilQuebec canadese — durante la stagione degli amori un tempo si poteva letteralmentecamminare sui corpi argentati dei salmoni in ostinata risalita delle correnti. Cibo tanto dif-fuso da suggerirne la conservazione (per affumicatura) fin dall’era mesolitica, quasi die-cimila anni fa. L’introduzione del metodo della salatura, durante il Medioevo, provocòuno scollamento nell’accesso sociale al pesce: essiccato col fumo per i poveri, salato perricchi e nobili. E i poveri di salmone ne mangiavano talmente tanto che le mense lavora-tive con due sole porzioni di salmone nel menù settimanale venivano considerate un pri-vilegio assoluto.

Possiamo ridere per non piangere. Perché nell’ultimo scorcio di Novecento, fiumi e ma-ri sono rimasti orfani di salmone. Una penuria così impressionante da far azzerare gli ap-provvigionamenti su larga scala in tutto l’Atlantico e contingentare quelli del Pacifico. Ro-

ba che perfino il minuscolo Presidio Slow Food degli affumicatori irlandesi — lavorazio-ne iper artigianale nella Contea di Cork — due anni fa è stato prima sospeso e poi chiuso,tra i messaggi di plauso di migliaia di membri dell’associazione. L’etica gastronomica hapremiato anche l’islandese Orri Vigfusson, pescatore pentito e fondatore del Nasf (NorthAtlantic Salmon Fund), fresco vincitore del Goldman Environmental Prize ed “Eroe eu-ropeo” di Time Magazine, per la sua opera di convincimento nei confronti di pescatori eaffumicatori.

Così, se in Alaska e Giappone ancora si pescano i selvaggi, in Europa, ormai, gliaffumicatoi lavorano solo salmoni allevati, con la Norvegia al primo posto nelmondo. Uniche, orgogliose eccezioni, i pescatori sportivi, che a partire da que-sto fine settimana potranno, con clausole strettissime e licenze dai costi proibi-tivi, accedere ai fiumi-nursery, dove ogni fine primavera avviene il rito della de-posizione delle uova. Un’impresa che ai salmoni più fortunati riesce due, tre vol-te nella vita. La maggior parte, infatti, non sopravvive allo sforzo e muore primadi tornare in mare dopo aver assicurato la prosecuzione della specie.

Comunque, quello di acquacoltura non è certo un salmone di serie B. Un recente paneldi degustatori internazionali ha accertato gusto meno evidente per gli esemplari di ac-quacoltura, carne bella soda ma accenti più fangosi per quelli pescati. Molto simili anchei contenuti nutrizionali, con massiccia presenza dei famosi Omega Tre, gli acidi grassi po-linsaturi ad azione antiossidante: addirittura 2.5 grammi per porzione, contro i 500 mggiornalieri auspicati nelle tabelle dietologiche, a cui aggiungere un alto numero di protei-ne, paragonabile al manzo. In più, nelle specie allevate non sono mai stati rintracciati pa-rassiti, particolare che rende più lieve la pratica di sushi e sashimi.

Se non ci credete, organizzate un weekend a Bergen, Norvegia, dividendovi tra una vi-sita agli impianti di acquacoltura — immense reti chiuse galleggianti nei fiordi sotto l’oc-chio elettronico e vigile dell’Istituto superiore di nutrizione che controlla, oltre i mangimie il benessere animale, i livelli di metalli pesanti e inquinanti chimici — e una gita al fiume.Portatevi appresso un barattolo di maionese, pane nero e limone. Ma non fatevi troppe il-lusioni: in caso di super salmone, il pescatore invece di apparecchiare tavola si dirigerà ra-pidamente verso l’imbalsamatore, per trasformarlo nel trofeo dell’anno.

itinerariCittadina vittoriana

costruita tra laghi

e sponde del Tay,

è una sorta

di paradiso

dei salmoni. Qui,

gli appassionati

accorrono a tarda

primavera

per vedere the salmon ladder (la scala dei salmoni)

con i pesci che guizzano risalendo il fiume

DOVE DORMIREPINE TREES HOTEL

Strathview Terrace

Tel. 01796-472121

Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOLD ARMOURY

Armoury Road

Tel. 01796-474281

In estate sempre aperto, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREHOUSE OF BRUAR

Blair Atholl

Tel. 01796-481543

Dalla baiadel vapore,

nome italiano

della capitale

più settentrionale

del mondo, da metà

giugno a settembre

partono escursioni

per il salmonwatching (o fishing, pesca) verso gli oltre cento fiumi

dalle acque cristalline che scorrono nell’isola

DOVE DORMIREÁSKOT B&B

Ásvallagata 52

Tel. 00354-8681306

Camera doppia da 108 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREEINAR BEN

Ingolfstorg square 101

Tel. 00354-5115090

Sempre aperto in estate, menù da 60 euro

DOVE COMPRAREFISH MARKET

Reykjavik Harbour

Aperto tutti i giorni

le calorie presentiin 100 grammi di salmone

23% I grassi presentinella carne di salmone

5mila le uova di salmonecontenute in un litro d’acqua

SalmoneUna carriera controcorrente

Affacciata

su un fiordo

circondato da sette

picchi, è stata

inserita dall’Unesco

tra i siti patrimonio

dell’umanità

per Bryggen,

la meravigliosa

sealine di colorate casette di legno ultrasecolari

È capitale dell’acquacoltura di salmone e trota

DOVE DORMIRECLARION HOTEL HAVNEKONTORET

Slottsgaten 1

Tel. 0047-55601100

Camera doppia da 140 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARESØTT+SALT

Skostredet 14

Tel. 0047-40003713

Aperto tutte le sere, menù da 140 euro

DOVE COMPRAREFISH MARKET

Fisketorget

Aperto tutti i giorni

MarinatoIl salmone pulito riposa24 ore in frigo in una pirofilafra due strati compostida una miscela di zuccheroe sale (40 e 60 per cento)con un peso sopra. Il giornodopo, lavaggio sotto un filod’acqua fredda, asciugaturae ulteriore riposo in pellicolaunta d’olio

AffumicatoNella lavorazione a freddo- la più frequente - ilsalmone, marinato in salee zucchero, vieneaffumicato a 22 gradi Poi,abbattitura a 4 gradiL’affumicatura a caldo(80-100 gradi), invece,è preceduta da una marinatura di sale

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

Cucina del freddo

InvoltiniGli involtini di Ezio Santinhanno come base le fettedi salmone marinato,da farcire con formaggiodi capra, passatoal setaccio e lavorato con olio, erba cipollinae pepe verde. Sul piatto,una maionese allungata con panna e vino bianco

LICIA GRANELLO

C’erano una volta le specie selvaggeche popolavano i fiumi del Nord Europae sfamavano migliaia di pescatori. Oggi -esaurite le risorse - prevale l’acquacolturae gli “affumicatoi” lavorano solo esemplariallevati. Ma la Norvegia continua a mantenereil primato mondiale di qualità e gusto

Frode Alræk è il più talentuosotra i nuovi cuochinorvegesi. Nel suo“Søtt+Salt”(dolce e salato)propone percorsi

didattici-degustativiche durano dal pomeriggioalla sera, dove il salmoneè ingrediente basee viene interpretatoin veste modernissimae molto sfiziosa

Pitlochry (Scozia) Bergen (Norvegia) Reykjavik (Islanda)

170

1

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 3GIUGNO 2007

Poiché ho sposato una danese, le mie feste nuziali si svolsero (in unpassato lontano: nella notte dei tempi) a Copenaghen, e le esperien-ze gastronomiche furono di impronta nordica. Non ero del tutto

sprovveduto: sebbene giovane, avevo già fatto qualche viaggio, avevoqualche esperienza alle spalle. In un soggiorno moscovita, avevo scoper-to il caviale, quello grigio (ma forse l’aggettivo è un po’ pedestre, dovreipiuttosto dire perlaceo) e quello rosso: tanto diverso, bisogna pur dirlo, dalcaviale che si compra oggi. In Inghilterra avevo scoperto le sogliole di Do-ver, in Normandia e in Olanda le ostriche. In Danimarca feci la conoscen-za col salmone.

Un salmone, a sua volta, diverso da quello contemporaneo. Si chiama-va (spero di non sbagliare la grafia) vildlaks. E vild vuol dire selvatico. Il sal-mone di cui parlo apparteneva a una specie che si pescava nei laghi e neifiumi (ma credo anche in mare) in Norvegia, in Finlandia, in Svezia, nelCanada. Era relativamente raro e costoso. Aveva un sapore allo stesso tem-po deciso e gentile. I danesi non lo mangiavano sul pane di segala, che tan-to amano: pensavano che fosse troppo delicato, e lo servivano col panebianco. Ma col salmone non bevevano volentieri il vino, forse perché i duesapori, quello del salmone e quello del vino, si combattevano a vicenda.Preferivano l’acquavite, lo snaps: forte, ma neutrale.

Oggi, quando si naviga per i mari del Nord, si vedono spesso allevamen-ti di salmone. Il pesce è diventato popolare: costa poco, ormai. Ma non èpiù quello di una volta. Anche nel passato il salmone ha subìto tuttavia, di-remo così, qualche umiliazione. Come le ostriche. Si legge che i contadinid’Inghilterra inscenarono sommosse perché erano stanchi di essere man-tenuti, nella stagione dei lavori campestri, a ostriche. Bene: anche i bo-scaioli finlandesi, si racconta, protestarono perché erano mantenuti a sal-mone (sebbene fosse quello buono).

Non mi meraviglio: questa è la natura umana. Quando vivevo a Mosca,dopo un congruo periodo di tempo, scoprii che ero stufo di caviale.

Quando il boscaiolo disse “basta”PIERO OTTONE

CavialeLe uova, raccolte primadella completa maturitàsessuale, devono esserecolor rosso-arancionebrillante, intere,non schiacciate, facilmenteseparabili. Nei menùgiapponesi si trovanosotto il nome di Ikura,di derivazione russa

LE RICETTE DEGLI CHEF

PenneIncubo gastronomicodegli anni Settanta, le penneal salmone e vodka sonostate rivisitate da FulvioPierangelini. Che le realizzaa partire da una sfogliadi pasta fresca pizzicatain diagonale e farcitacon un parallelepipedo di “selvaggio” affumicato

DadolataGualtiero Marchesi preparaun guazzetto - cubettidi cipolla, sedano sbollentato,pomodoro senza semi,spadellati e cotti coperticinque minuti - a cui aggiunge

dragoncello tritato.Versato nei piatti, si completa con dadidi salmone saltati

CrudoL’infiltrazione di grassonella carne lo rende perfettoper carpacci e tartare. Moltoutilizzati i ritagli avanzatidalla sfilettatura La consistenza morbidasi sposa con vari tipidi vinaigrette. A piacere:limone, lime, zenzero,pepe verde e rosa

ZuppaPietro Leemann cuoceuna zuppa con cipolla,patate, paprika e la versain cocotte individuali. Sopra,polpettine di salmonespadellate e zabaione (tuorlid’uovo lavorati a caldocon acqua, dragoncellotritato e panna montata),da gratinare in forno

Ecco quattro ricette a base di salmoneproposte da altrettanti chef

tra i più celebri d’Italia

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le tendenzeImitazioni

Monili in stile Masai, decori etnici e arredi d’ispirazione esotica:il Nord del mondo s’innamora ancora una volta dell’Africae in passerella sfilano abiti che rielaborano la sua artee le sue tradizioni. Moda che non nasce solo dalla crisicreativa occidentale, ma anche dall’affermarsidi una nuova generazione di stilisti autoctoni

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3GIUGNO 2007

L’Occidente s’innamora dell’Africa. E quest’estate, a quanto pare, l’a-more sarà caldissimo. Grafismi sui vestiti, monili in stile Masai, designispirato all’Africa nera. Non solo. Tra un anno sarà inaugurato il Mu-seum for african art di New York. E, a Parigi, Jean Nouvel ha disegnatoil museo etnografico. Il fascino sauvage non risparmia nessuno. Per chil’Africa la conosce profondamente come Michela Manervisi, autrice

del libro African style e collaboratrice dell’associazione Afritudine, l’innamoramento inatto non sorprende: «La moda ciclicamente subisce il fascino del completamente ine-splorato e dell’esotismo nero. Per questo motivo ritorna, per i couturier francesi e italiani,il mito della pantera e della savana da proporre in passerella». Diciamolo: l’Africa è una co-stante che, dagli anni Trenta a oggi, ha contaminato la nostra cultura. «Le fantasie non an-noiano, sono cromaticamente perfette e hanno forza visiva», dice la Manervisi, «gli stilistisanno che l’impatto sul pubblico è assicurato e, inoltre, con l’Africa si esce dall’etnico perentrare nel contemporaneo».

Nel 2007 però il mal d’Africa sembra aver contagiato anche molti designer. Mobili edelementi d’arredo, presentati in aprile al Salone del mobile di Milano e presto in venditanegli showroom, richiamano spesso la cultura nera, estrema eminimalista. «Le linee elementari degli arredi possono solo in-segnare ai nostri progettisti», aggiunge la Manervisi, «che la co-sa migliore è togliere invece che aggiungere. La purezza di unachaise longue ricavata da un tronco di legno non ha nulla da in-vidiare a una poltrona di Le Corbusier».

Anche un libro appena approdato in libreria, L’arte africanacontemporanea (Bollati-Boringhieri editore), s’interroga sulperché di questa ricorrente passione. L’autore, l’antropologofrancese Jean-Loup Amselle, riflette su come un numero semprecrescente di riviste, esposizioni e istituzioni fanno dell’arte afri-cana il proprio orizzonte di riferimento. L’Africa, per lui, occupaun posto fondamentale nell’immaginario occidentale. Questoperché il carattere autoreferenziale dell’arte contemporanea laporta a essere imprigionata in un vicolo cieco e, di fronte a que-sto processo di disgregazione, proprio il meticciato, il riciclo, l’i-bridazione delle culture potrebbero costituire una soluzione miracolosa. All’Africa, in-somma, spetterebbe il ruolo di principale fonte di rigenerazione dell’arte occidentale. Mase è vero — per Amselle — che l’Africa esercita un indubbio fascino sugli occidentali è al-trettanto vero che c’è un disinteresse di fondo verso il continente. Ciò che è nero, da un la-to, è vissuto come fonte di rigenerazione dall’altro come entità degenerata.

Ma parallelamente a quella “inventata” o rielaborata dagli occidentali, esiste una “ve-ra” (anche se ancora poco conosciuta) moda africana. Quella ideata da stilisti del conti-nente nero che arrancano per conquistare posizioni sulla scena internazionale. I nomi so-no tanti. Pathé O., famoso per essere il fornitore delle camicie stampate di Nelson Man-dela e anche l’unico che produce un suo prêt-à-porter made in Africa. E poi Awa Meité, delMali, specializzata negli accessori moda in pelle e cotone. Mimi Konaté, sempre del Mali,che crea inconfondibili colli a pieghe in perfetto stile Capucci. La senegalese Aissa Dione,regina di stampe in cotone e rafia, tessuti al telaio e grafiche geometriche. La sudafricanaMarianne Fassler, ideatrice della moda urbana. Alphadi, stilista nigeriano che vive tra laFrancia e l’Africa e aiuta a formare altri couturier africani. Dietro le loro creazioni c’è il pro-getto di un’Africa diversa, non terra di saccheggio ma interlocutrice alla pari. La moda co-me riscatto, un’inedita strada produttiva che rivaluti la sapienza artigianale.

DENTRO LA PELLERaffinati grafismi

africani per la borsa

di Bottega Veneta

Il disegno tipico

si abbina alla pelle

intrecciata

LOOK DA VERTIGININon conosce limiti,

almeno in centimetri,

il sandalo con zeppa

di Borbonese

Sarà amatissimo

da chi detesta

le mezze misure

DOLCI SUONIA destra:

la lampada

di Foscarini,

nascosta

sotto il collo

della maschera

tribale africana,

è in alluminio

Sfiorando

i suoi elementi

tubolari

si sprigionano

suoni delicati

BON TONIl bon ton

modello

Africa

Miu Miu

ha abbinato

ai grafismi

stilizzati

un colletto

bianco

da signorina

per bene

Versione

morigerata

dell’African

style

SEDUTA ALLEGRAMademoiselle

è l’allegra poltroncina

che nasce dall’inedito

matrimonio tra Dolce

& Gabbana e Kartell

Un modo nuovo

di vedere l’animalier

Stregati dalla magiadei simboli tribaliIRENE MARIA SCALISE

PROFUMO DI BOSCOEcco il porta computer che profuma

di esotico. È in legno con finiture

in pelle cucita a mano. Di Monacca

Anche mobilie accessori per la casarichiamano semprepiù spesso la culturasubsahariana,estrema e minimalista

Repubblica Nazionale

Page 19: DOMENICA 3GIUGNO 2007 di Mezzo secolo Beatlesdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2007/030607.pdf · Ci accoglie suonandoci una serenata napoletana. « Roma. Roma, la bella Roma »,

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 3GIUGNO 2007

AUTENTICAMENTE TUAUna borsa autenticamente made

in Africa. È di Afritudine, in tessutoabbinato a delicato pitone

Colori sgargianti, effetto assicurato

IN BELLA VISTASgabelli coloratissimi e trasparenti

della nuova superstar del designMarcel Wanders. Sono adatti

per interni ed esterni. Kartell

SENZA CONFINIVestito multicolor di cotone

con profili a contrastoDi Magò, stilista italiana

che lavora in Africa

FORMEPiù che un anello

sembrauna scultura

Lo ha disegnatoPeter Chang

Sinfoniadi bianco, nero,rosso e argento

COME IL FUOCOSono di Louis Vuitton

i nuovi accessorileopard rosso fuoco

Fermacapelli, collanee ciondoli animalier

MINIMALISMO D’AUTORERicorda i design minimalisti dell’Africanera questa Sit Sat. È una sedutascultura di Massimilano e DorianaFuksas, per Sawaya & Moroni

NELLA SAVANAUn originale abito savana di AntonioMarras per Kenzo

Toni e grafismisono quasi clonati

da quellidelle stoffe

del continentenero

EFFETTO SELVAGGIOPoltroncinaLeatherworksdi Edra in vari tipidi pelle differentiL’effetto sauvageè garantito

Da una decina d’anni, l’Africa è diventa-ta un serbatoio d’ispirazione per igrandi stilisti degli altri continenti. Al-

cuni dei grandi nomi che influenzano le ten-denze della moda internazionale non esitanoa portare in passerella creazioni di matriceetnica: matrice che si esprime in materiali, di-segni, accessori, oggetti, che spesso, nella co-scienza delle popolazioni africane, rappre-sentano dei simboli della propria cultura odella propria storia. Ormai è normale vederetessuti e gioielli africani nelle vetrine dei ne-gozi occidentali, vedere i nostri motivi orna-mentali utilizzati nell’arredamento, le nostremaschere o feticci ancestrali trasformati insoprammobili. Tutti questi oggetti perdono illoro senso etnologico nell’utilizzo distortoche viene fatto dai consumatori, a cui in certicasi poco importa l’origine e il significa-to del prodotto.

Stiamo assistendo a un saccheg-gio della cultura africana: un sac-cheggio che è socioculturale edeconomico. Perché, dietro aquesta infatuazione per l’esteti-ca del continente nero, si intrave-dono già i tratti di una mutazioneeconomica internazionale legataalla produzione e alla distribuzionedell’artigianato, che non offrono alcu-na risposta al problema della povertà dell’A-frica.

Nell’elenco dei prodotti più apprezzati nelNord del mondo figura l’abbigliamento afri-cano, realizzato a livello artigianale con tec-niche antiche e che, spesso, è l’unica fonte direddito per alcuni strati della popolazione.Telai e fusi sono stati rimpiazzati da grossi sta-bilimenti industriali, i pezzi unici ora sonoprodotti in serie, le tinture artigianali hannolasciato il posto alle tinture chimiche. Riten-go prioritario affrontare la questione dellosfruttamento dell’arte africana altrimenti,nel giro di una decina d’anni, i paesi asiaticipotranno vantarsi di essere i maggiori espor-tatori di design africano.

Un esempio concreto di questo sfrutta-mento sono i motivi ornamentali creati dallecelebri tintore del Mali che vengono imitatidalle industrie cinesi e venduti a prezzi tre vol-te più bassi. Gli stabilimenti tessili nazionalinon sfuggono al saccheggio di creatività: al-

cuni hanno già chiuso e altri lo faranno a bre-ve, non potendo far fronte alla concorrenzadei tessuti d’importazione.

Sono entrata nel campo della moda per pas-sione, ma ho forti dubbi che questo mestierepossa rappresentare un punto di forza nellanostra economia. Come me la maggioranzadei giovani stilisti africani oggi deve fare i con-ti con lo stesso problema: riuscire a sopravvi-vere. Le nostre difficoltà sono dovute alla man-canza di visibilità mediatica, di sussidi, di ma-nodopera qualificata e così via. Fatichiamo aimporci di fronte ai colossi della creazione checonsiderano il nostro patrimonio unicamen-te come serbatoio d’ispirazione.

Gli stilisti africani, che sono i principali in-novatori del design del loro continente, mol-to spesso vengono esclusi dalle grandi passe-

relle: Parigi, Milano, New York e Londra.Per non parlare del disinteresse della

stampa internazionale. La soluzio-ne di questi problemi passa dallapresa di coscienza degli africanistessi della qualità dei loro pro-dotti, dal consumo locale, dallaresistenza all’invasione cinese,

dagli aiuti internazionali, dal rico-noscimento (nel Nord del mondo)

delle nostre potenzialità.Io, oggi, ho la mia piccola boutique do-

ve presento abiti che sono adattati alle donneafricane “moderne”, quelle che vanno in uffi-cio, che hanno bisogno di vestiti pratici, mavogliono mantenere le loro peculiarità. Ge-stisco la mia carriera di stilista lavorando perl’Ortm (la radio-tv pubblica del Mali) comepresentatrice di trasmissioni radiofoniche otelevisive sulla moda. Gestisco anche alcuniprogetti che mi stanno molto a cuore: nel2008, ho deciso di aprire — finanziandola ditasca mia — Mode Sup, una scuola di forma-zione a cui si può accedere dopo il diploma.Ma malgrado tutto continuo a sentirmi esclu-sa dal “vero mondo della moda”: posso darprova di inventiva quanto voglio, ma so be-nissimo che la sorte di una giovane stilista ènelle mani di un grande couturier o di un gior-nalista occidentale che — durante un viaggioturistico o sfogliando una rivista sull’artigia-nato africano — si imbatta in una delle miecreazioni.

Traduzione di Fabio Galimberti

L’ultimo saccheggio del continente neroUna stilista del Mali racconta il suo lavoro controcorrente

MIMI KONATÉ

Repubblica Nazionale