file · Web viewDi qui l’esigenza, in mancanza di una fattispecie penale ad hoc, di...
-
Upload
nguyenhuong -
Category
Documents
-
view
214 -
download
0
Transcript of file · Web viewDi qui l’esigenza, in mancanza di una fattispecie penale ad hoc, di...
LA RILEVANZA PENALE DEL MOBBING.
Americo Marini
1. Introduzione: una breve analisi sociologica del fenomeno.
Prima di discorrere circa la rilevanza penale del mobbing occorre, a mio parere, inquadrare il
fenomeno dal punto di vista fattuale. A questo scopo, poiché in Italia non esiste una definizione
giuridica del termine, bisogna avvalersi degli studi sociologici in materia.
Il primo a realizzare studi consistenti sul fenomeno in questione fu, negli anni ’80, lo psicologo
svedese Heinz Leymann, considerato il “padre del mobbing”. Per lo studioso, il mobbing è definito
come: “il terrore psicologico sul luogo di lavoro che consiste in una comunicazione ostile e
contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente
contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una condizione di impotenza e
impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili. Queste azioni sono
effettuate con un’alta frequenza (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo
(per almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il comportamento ostile dà
luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici, sociali”1.
Nel panorama italiano la figura più importante è lo psicologo Harald Ege che ha tradotto gli studi di
Leymann e li ha rielaborati in modo da renderli applicabili alla situazione sociale italiana.
Secondo Ege il mobbing è “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in
costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto
persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo
scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell'impossibilità
di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali
e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e
percentualizzazione”2.
Dalle citazioni riportate si evince che il mobbing è un fenomeno che appartiene alle cd. disfunzioni
lavorative caratterizzato in particolare da forme di aggressione, esclusione, emarginazione di un
lavoratore: a seconda che soggetto attivo della condotta sia datore di lavoro o collega si suole
distinguere tra mobbing di tipo verticale e di tipo orizzontale. In Italia il mobbing verticale ha
assunto in alcuni casi connotati caratteristici: è accaduto con certa frequenza che le vessazioni
fossero compiute dal datore di lavoro nei confronti del sottoposto in attuazione di una subdola
strategia espulsiva; ciò accade in particolare in sistemi garantisti come il nostro dove c’è una
1 H. LEYMANN, in H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002. 2 H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing cit., pag. 39.
1
ristretta libertà di licenziamento3. Si ricorre allora al mobbing (che nel caso di specie prende anche
il nome di bossing) per costringere il “lavoratore scomodo” alle dimissioni.
Forse proprio questa situazione presentatasi con sempre più ricorrenza ha reso intollerabile, nel
sentire comune ma anche agli occhi del legislatore e degli interpreti, la lacuna di tutela nei confronti
della posizione debole. Di qui l’esigenza, in mancanza di una fattispecie penale ad hoc, di
sussunzione del fenomeno sotto specifiche ipotesi di maltrattamenti o fattispecie “limitrofe”.
Di questa esigenza deve farsi naturalmente carico l’interprete, consapevole che mai potrà trascurare
i vincoli dettati dal principio di legalità (e dai corollari che ne seguono) e che quindi mai potrà
offrire una tutela penale per così dire “creativa” a fatti atipici; ciò che potrà (e che in verità si è
sforzato di) fare è utilizzare reati codificati qualora applicabili al caso concreto. A tal fine le norme
che di volta in volta si sono candidate a dare copertura al fenomeno di mobbing sono state diverse:
la giurisprudenza da un lato ha riconosciuto la rilevanza penale di singoli comportamenti vessatori
riconducendoli a reati di ingiuria, diffamazione, molestie, minacce, lesioni, violenza sessuale,
violenza privata, estorsione etc.; dall'altro lato, ha cercato di garantire una tutela più uniforme, che
contempli la condotta vessatoria nel suo complesso, ricorrendo all'ipotesi dei maltrattamenti in
famiglia.
Nei paragrafi successivi quindi si procederà all’analisi dei singoli reati nei quali potrebbe “trovare
cittadinanza” il fenomeno del mobbing, conducendo, soprattutto con riguardo al delitto di
maltrattamenti ex 572 c.p., una dissertazione anche di carattere giurisprudenziale.
Chiuderanno il cerchio alcune considerazioni sulla possibile introduzione di una specifica tutela
penale; considerazioni fatte tenendo a mente i pareri della più avveduta dottrina.
2. Sussunzione del mobbing nel reato di maltrattamenti in famiglia (572 c.p.)
2.1 Ante L.172/2012
Si riporta di seguito l’art. 572 co.1 c.p. vecchia versione: “Maltrattamenti in famiglia o verso
fanciulli - Chiunque, fuori dei casi previsti nell’articolo precedente, maltratta una persona della
famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui
affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una
professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
La norma è tutt’altro fuorché inequivoca, non tanto per la sua formulazione, quanto per la sua
collocazione sistematica la quale ha riservato spazi notevoli alle pagine della dottrina.
3 “Nei sistemi dove maggiore è la libertà di licenziare, minore sarà la frequenza delle strategie di bossing; al contrario, in una realtà dove il licenziamento è ammesso solo per giusta causa o giustificato motivo, pena sanzioni anche rilevanti, l'interesse a provocare le dimissioni può divenire molto forte”, Bona e Oliva, Il fenomeno del mobbing, in Monateri - Bona -Oliva, Mobbing. Vessazioni sul lavoro., Milano, 2000, pag. 10
2
Volendo partire proprio da questo aspetto si osserva come l’art 572 c.p. sia collocato al titolo IX
– capo IV del libro II riservato ai delitti contro l’assistenza familiare: se si dovesse individuare
il bene giuridico tutelato sulla base della collocazione sistematica non ci sarebbe alcun dubbio e
si propenderebbe per un’interpretazione della norma tutta volta alla tutela del rapporto familiare
e dei profili relazionali ad essi assimilabili. Subito quest’osservazione si scontra con un’analisi
letterale del testo: i soggetti passivi del reato possono essere legati all’autore non solo da un
vincolo di natura familiare ma anche da un rapporto fondato sull’autorità o da una precisa
ragione di affidamento. Il dato letterale e il mutato sentire sociale hanno pian piano piegato a
loro piacere i criteri esegetici della sistematicità donando nuova interpretazione al reato di
maltrattamenti rispetto a come concepito nella vecchia stesura: ecco che per giurisprudenza
costante la nozione di famiglia è venuta ad abbracciare “ogni consorzio di persone tra le quali,
per strette relazioni o consuetudini di vita siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un
apprezzabile periodo di tempo”4 (si vedrà come ciò ha portato nella nuova versione
all’inclusione nella norma dei conviventi).
Questo atteggiamento generale di apertura e caratteristiche intrinseche alla struttura del reato
rendono particolarmente idoneo l’art.572 c.p. a sussumere il fenomeno di mobbing in
particolare sotto l’inciso “persone sottoposte all’autorità del colpevole”; l’art. 572 c.p. ben si
presta per una serie di motivi: è reato proprio, di mera condotta, a forma libera; il verbo
maltrattare assorbe in sé molteplicità di condotte tanto tipiche (percosse, minacce etc.) quanto
atipiche ma che comunque nella loro ripetizione determinano sofferenze fisiche o morali.
Altra caratteristica importante è l’abitualità: elemento psicologico indefettibile è il dolo generico
e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze instaurando
un sistema di sopraffazioni e vessazioni che ne avviliscono la personalità e costituiscono fonte
di disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di vita.5
Tuttavia gli elementi costitutivi della norma non possono instaurare una relazione d’identità con
il fenomeno oggetto d’indagine; quali elementi allora devono caratterizzare il mobbing perché
questo possa rientrare nel paradigma dell’art. 572 c.p.? In nostro aiuto sovviene una sentenza
della Cassazione (n.218201/2010) la quale per la configurazione del fenomeno nel reato di
maltrattamenti richiede non solo il già pacifico requisito della frequenza e durata delle condotte
vessatorie, ma che queste avvengano nell’ambito di un rapporto tra lavoratore e preposto che
assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da
consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra,
4 Cass. 29 gennaio 2008, n.20647 5 D. PULITANO’ (a cura di), Diritto penale. Parte speciale, I , Tutela penale della persona, 2011, Torino, Giappicchelli, p.434.
3
dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di
supremazia6; la stessa sentenza pone l’accento sul fatto che il legislatore non abbia predisposto
una specifica figura incriminatrice per contrastare tale pratica persecutoria: questa costituisce
sicuramente titolo per risarcimento in sede civile ( configurando responsabilità contrattuale ex
2087 c.c.) ma non necessariamente è configurabile sotto il 572 c.p.; in altre parole “ il mobbing
per quanto assimilabile al 572 c.p. non ne condivide tout court, quasi per automatismo, tutti gli
elementi tipici”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Trib. Di Milano 30 settembre 2010: “la caratteristica
ontologica del 572 c.p. è quella di reprimere non la generica discriminazione nei confronti del
lavoratore dipendente, né tantomeno la sistematica violazione dei doveri contrattuali di rispetto
della sua integrità fisica e morale, ma lo stravolgimento di un peculiare rapporto personale tra
il “superiore” e un subordinato, in un ambito che per dimensioni e rapporti di quotidianità può
essere assimilato ad una famiglia”. Con la conseguenza che “il bene giuridico tutelato
dall’art.572 c.p. è ben più corposo e delicato della sola, anche se grave, violazione dei doveri
contrattuali verso il dipendente e per questo motivo non può essere ravvisato nelle aziende di
grandi dimensioni in cui il lavoratore presta, sostanzialmente, solo il suo tempo e le sue
capacità intellettuali e fisiche ad un soggetto impersonale, ad un’organizzazione complessa ed
articolata”.
Nell’assetto di questa giurisprudenza come appena rilevato diventa elemento di discrimine la
dimensione dell’azienda: ciò ha suscitato non poche critiche da parte della più avveduta dottrina
tra cui quella (oserei dire lungimirante) di Roberto Bartoli in una nota alla pocanzi citata
sentenza del tribunale di Milano (30 settembre 2010): “se la sentenza è nel giusto quando
afferma che la fattispecie di maltrattamenti in famiglia non può essere integrata con la mera
violazione dei doveri contrattuali, dall’altro lato, però, può risultare ambigua quando precisa che
tale fattispecie non può trovare applicazione nelle aziende di grandi dimensioni (…). La nostra
impressione è che il criterio delle dimensioni non abbia particolare rilevanza, dovendosi invece
basare soprattutto sul contesto relazionale”7.
Vedremo nel prossimo paragrafo come questa impostazione, soprattutto a seguito delle
modifiche introdotte dalla L.172/2012, sia stata seguita dalla successiva giurisprudenza di
legittimità.
6 Cfr. Cass. n.26594/2009 che fa esemplificativamente riferimento al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o al rapporto che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista.7 R.BARTOLI, Fenomeno del mobbing e tipo criminoso forgiato dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, in Dir. Penale Contemporaneo.
4
2.2 Post L.172/2012
La legge 172/2012 che più volte si ritrova scritta nelle pagine precedenti altro non è che una
legge di ratifica ed esecuzione di obblighi di natura internazionale che il nostro paese ha assunto
con l’adesione alla Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre del 2007. Questa ha per obiettivo
principale la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, prevenendo e
combattendo i reati in tale materia, tutelandone le vittime e promuovendo la cooperazione
nazionale ed internazionale nel contrasto a tali forme criminose8.
Con la legge di ratifica, oltre alla specifica introduzione di reati che la convenzione prescriveva
e che per altro in gran parte avevamo già nel nostro sistema penale, si sono introdotte
disposizioni di adeguamento interno tra cui anche la modifica dell’art 572 c.p. che a noi
interessa e che oggi recita:
“Maltrattamenti contro familiari e conviventi - Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo
precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona
sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o
custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei
anni”.
Prima di vedere da vicino le principali novità del nuovo testo, per un principio di parallelismo
rispetto al precedente paragrafo, si fa notare come il legislatore, pur modificando i contenuti
della norma, non abbia scelto di cambiarne la collocazione sistematica , cosa che alcuni si
aspettavano dato ormai per appurato che trattasi di collocazione anacronistica e in
considerazione del fatto che l’interesse giuridico protetto dalla norma è ormai pacificamente
riferibile alla vita, alla libertà e all’integrità psicofisica e morale della persona9.
In quanto a struttura del reato nulla cambia: viene conservato il termine maltrattare e dunque la
forma libera, restano immutati i profili che qualificano il reato come necessariamente abituale
etc.; ciò che cambia è essenzialmente costituito dal novero delle possibili vittime del reato: il
primo comma aggiunge al riferimento alla persona della famiglia l’espressione “o comunque
convivente”. Indubbiamente, l’inserimento della nozione di convivenza sottolinea quanto già era
emerso nelle sentenze che estendevano la nozione di famiglia ai rapporti affettivi di convivenza,
anche fuori del matrimonio; emerge però, qui, un primo profilo critico, proprio rispetto a quanto
già era stato evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale aveva riconosciuto
l’estensione della nozione di famiglia non solo alle convivenze more uxorio, ma anche alle
8 Art.1 della Convenzione di Lanzarote, 25 ottobre 2007.9 G.PAVICH, Luci ed ombre nel nuovo volto del delitto di maltrattamenti, in dir. Penale contemporaneo.
5
situazioni in cui vi fossero rapporti di affetto e solidarietà al di fuori di una vera e propria
convivenza, sia pure in un quadro di frequentazione reciproca10.
Questo riferimento alla convivenza emerge già dalla rubrica la quale appunto muta da
“Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” a “Maltrattamenti verso familiari o conviventi”:
particolare non di poco conto nell’economia del nostro discorso dato che proprio collocazione
sistematica e rubrica avevano costituito pietra angolare dell’interpretazione giurisprudenziale
che nega l’applicabilità di questa fattispecie ai casi di mobbing quando il rapporto non sia
connotato dall’elemento della para-familiarità. La nuova rubrica in realtà, se dovesse essere
criterio esegetico per la sussunzione, altro non farebbe che confermare proprio quell’indirizzo:
sembrerebbe che la norma intenda tutelare infatti la famiglia, questa volta non solo giuridica ma
anche di fatto, e non le relazioni sociali ad essa non accostabili. In realtà parte della dottrina,
attraverso un’abile ricostruzione di diritto costituzionale in materia di interpretazione delle
rubriche (che ha quale principale referente Crisafulli), tende a propendere per una (non) valenza
esegetica della rubrica dell’art. 572 c.p.11Le ragioni che sostengono tale visione sono
essenzialmente due:
L’art 572 c.p. sfugge alla sua rubrica: è una norma a strati che tutela oltre ai rapporti
familiari anche altri rapporti tra i quali anche quello istauratosi tra il maltrattante e il
soggetto sottoposto alla sua autorità per l’esercizio di una professione (come ad es.
datore di lavoro e lavoratore).Si guarda la norma alla luce di una generica finalità di
tutela della posizione debole di una relazione affinché questa non sia distorta per fini
riprovati dall’ordinamento. Se si guarda all’aspetto finalistico e alla ratio generale la
tutela del bene giuridico “famiglia” poco c’entra e la modifica della rubrica del 572 c.p.
non può introdurre alcuna novità in tal senso.
L’intento del legislatore è quello principalmente di codificare il principio già affermato
dalla giurisprudenza di equiparazione della famiglia di fatto a quella giuridica; da questa
volontà non può essere desunta quella di intervenire su altri rapporti presi in
considerazione nel testo della norma (es. maestra che maltratta l’allievo, l’infermiere che
maltratta l’anziano ospitato in una casa di cura…).
Detto delle modificazioni compiute da parte del legislatore e della configurabilità in capo al
nuovo 572 c.p. di condotte che si pongono anche al di fuori del contesto strettamente
familiare, proprio come fatto per la prospettiva ante riforma, si passa a vedere come la
10 Si fa qui rinvio agli arresti giurisprudenziali relativi alla concubina non convivente, o all’amante legata al soggetto attivo da una relazione stabile, o alla persona legata all’autore da una relazione sentimentale, che abbia comportato un' assidua frequentazione della di lei abitazione.11 C.PARODI, Mobbing e maltrattamenti alla luce della legge n.172/2012 di ratifica ed esecuzione della convenzione di Lanzarote, in dir. Penale contemporaneo.
6
giurisprudenza si è evoluta sul punto. Invero anche nelle pronunce successive alla modifica
legislativa tanto la giurisprudenza di merito che la giurisprudenza di legittimità hanno
continuato, avallando le teorie dei sostenitori dell’interpretazione sistematica, ad affermare
la necessità della para-familiarità della relazione intercorrente tra vittima e autore di
mobbing. Da qui il corollario-discrimine quantitativo dato dalle dimensioni dell’azienda.12
Su questo solco diviene interessante osservare la sentenza della Cassazione, sezione VI, 22
ottobre 2014 n.53416 che registra in materia un evoluzione di vedute. Se ne riassume
brevemente la vicenda: una signora da molti anni in servizio presso un’azienda del settore
chimico con oltre 25 dipendenti, subisce dopo il rientro da un periodo di maternità una serie
di condotte vessatorie da parte dell’ amministratore della società nello specifico consistenti
in demansionamenti, esclusione da occasioni conviviali, adozione di provvedimenti
disciplinari nonché da ultimo licenziamento per giusta causa: provvedimenti già ritenuti
illegittimi da parte del giudice del lavoro. Gli imputati in sede penale vengono dapprima
condannati dal tribunale di Torino poi assolti in Appello. La decisione del giudice di
secondo grado si basa sulle seguenti ragioni:
a) numero dei dipendenti dell’azienda (più di 25) è incompatibile con i tratti della para-
familiarità: a un elevata densità occupazionale corrisponde una minore intensità delle
relazioni personali.
b) durata del rapporto: l’anzianità della dipendente escluderebbe lo stato di soggezione;
c) non esclusività della condotta mobizzante: il fatto che la signora non fosse unica
destinataria delle condotte in questione sarebbe indicativo della natura spersonalizzata
dei rapporti tra vittima e imputati.
d) reazioni della vittima: il fatto che la lavoratrice abbia denunciato il fatto a mezzi
d’informazione oltre che all’autorità giudiziaria indica ancora la mancanza di uno stato
di soggezione.
La sesta sezione penale della cassazione annulla con rinvio la decisione assolutoria
censurando l’illogicità della relativa motivazione; in particolare in relazione ad ogni punto:
a) il criterio meramente quantitativo delle dimensioni aziendali non può costituire unica e
sicura guida per l’interprete; si impone necessariamente un esame qualitativo del
rapporto tra le parti. In proposito la Suprema Corte sottolinea come possano esservi
dinamiche prettamente para-familiari anche all’interno di un reparto tra caporeparto e
singolo addetto.
12 In merito si veda anche Cass. sez VI n.19760/2013 con nota a sent. di F. FERRI e M. MIGLIO, La rilevanza penale del mobbing nelle imprese di grandi dimensioni, su dir. Penale contemporaneo.
7
b) la massima d’esperienza fatta propria dal giudice di secondo grado appare non
ragionevole: le condotte persecutorie ben potrebbero in concreto essere tollerate per
molti anni in ragione di una situazione di bisogno economico e mancanza di alternative
professionali.
c) Anche questa terza motivazione appare illogica agli occhi della Suprema Corte: se si
assumesse per buona una simile affermazione si giungerebbe al paradosso di introdurre
una nuova causa di non punibilità in presenza di un atteggiamento persecutorio
indirizzato non già a una vittima isolata, bensì a una classe di lavoratori. Semmai la
reiterazione delle condotte nei confronti di una pluralità di soggetti dovrebbe apparire
come sintomatica di una maggiore intensità del dolo.
d) questo punto delle motivazioni della corte d’Appello non solo erra in diritto perché
rimette la punibilità di un delitto alla realizzazione di un comportamento successivo
lasciato alla volontà del soggetto passivo, ma rischia anche di veicolare un pericoloso
messaggio: si rischia in qualche modo di incentivare una condotta astensionista delle
vittime di tali soprusi, scoraggiando l’iniziativa procedimentale della persona offesa.
In conclusione si può sostenere che la posizione fatta propria dalla Cassazione nella
sentenza n.53416/2014 pare in un certo senso scalfire la rigidità del criterio dimensionale, a
favore di un giudizio particolaristico, più rispettoso dei principi di legalità (specie nella
declinazione di riserva di legge e determinatezza) e ragionevolezza dell'intervento penale. In
primis, occorre ricordare che il requisito numerico non è previsto dalla legge: attraverso il
suo utilizzo, pertanto, l'interprete introduce discrezionalmente un elemento decisivo per la
configurabilità della fattispecie ex art. 572 c.p., in assenza di specifiche soglie di rilevanza
penale a tal fine predisposte dal legislatore. Senza contare, peraltro, che un requisito siffatto
risulta persino carente sotto il profilo della necessaria determinatezza: non è chiaro, invero,
quale sia la precisa soglia numerica da prendere in considerazione. Infine, istanze di
ragionevolezza sconsigliano anch'esse una risoluzione aprioristica della questione: il criterio
dimensionale non consente di tenere in debita considerazione la diversa intensità delle
dinamiche relazionali, aprendo così la strada a trattamenti potenzialmente discriminatori13.
3. Riconducibilità del mobbing ad altre fattispecie delittuose
Cosa succede se mancando il requisito della para-familiarità (ad es. come più volte attestato dalla
giurisprudenza a seguito dell’accertamento dimensionale dell’azienda), non si può sussumere la
condotta vessatoria o persecutoria nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p.? Quale profilo di tutela
13 Così L.ZOLI, Sulla rilevanza penale del mobbing: i maltrattamenti sono configurabili anche all’interno di imprese medio-grandi, in dir. Penale contemporaneo.
8
penale in altre parole può accordarsi a queste situazioni? Ove ne ricorrano gli elementi costitutivi
nulla esclude che singoli atti di questa specie possano essere ricondotti di volta in volta “sotto il
cappello” della violenza privata (610 c.p.), delle lesioni personali (582 c.p.), dell’estorsione (629
c.p.) e così via. Tuttavia si tratta sempre di incriminazioni non in grado di cogliere la natura unitaria
del fenomeno in questione, neppure valorizzando l’esistenza di un legame tra le stesse nei termini di
un “medesimo disegno criminoso” rilevante ex 81 co2 c.p.
Restano fuori, in ogni caso, quelle condotte comunque ascrivibili al fenomeno del mobbing ma di
per sé penalmente neutre: condotte che potrebbero assumere rilevanza penale solo se ricondotte ad
una serie complessiva costitutiva di un reato abituale proprio. A questo scopo alcuni in dottrina
hanno ritenuto di ricondurre il mobbing entro gli elastici confini della fattispecie di atti persecutori
(612bis c.p.)14. La sovrapponibilità tra fatti di mobbing e stalking non risulta peraltro ancora
“testata” in sede giurisprudenziale.
Sembra opportuno ai fini della relazione passare brevemente in rassegna alcune ulteriori ipotesi di
reato (probabilmente le più comuni) cui le condotte di mobbing possono essere ricondotte:
segnatamente lesioni personali (582 c.p.), violenza privata (610 c.p.), atti persecutori (612bis c.p.).
Per ognuna di esse si procederà preliminarmente ad una sommaria analisi del reato così da poter
successivamente comprendere fino a che punto una singola condotta mobizzante possa essere fatta
ricadere nell’area del penalmente rilevante e dove invece questa è destinata a rimanere
inevitabilmente in una “zona grigia”.
3.1 Lesioni personali
Il reato di lesioni personali è disciplinato all’art.582 c.p. ed è integrato quando un qualsiasi
soggetto “cagiona ad alcuno una lesione personale dalla quale deriva una malattia nel corpo o
nella mente”. Struttura della fattispecie è quella del delitto comune di evento a forma libera
tipizzato in chiave causale mentre il bene giuridico tutelato è l’integrità psico-fisica della
vittima.
La formula legislativa sembra articolarsi su un doppio evento: lesione e malattia; in realtà è
ormai interpretazione pacifica che l’evento non può che essere unico ed è la malattia15: questa
comprende solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo
processo patologico ovvero una compromissione, anche non definitiva delle funzioni
dell’organismo. Per malattia della mente si intende “ogni manifestazione dannosa dell'attività
funzionale psichica: sono tali, pertanto, l'offuscamento, il disordine, l'indebolimento, 14 cfr. A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, 203 ss.; A. Galanti, Prime considerazioni in ordine al reato di stalking: se diventasse (anche) mobbing?, in Giust. pen., 2010(2), 63 ss.15 Questa interpretazione è corroborata dal fatto che l’intensità e conseguente gravità dell’evento “malattia” costituisce principale criterio di articolazione interna della disciplina: da qui la distinzione tra lesioni semplici, gravi e gravissime; si rinvia alla lettura dell’art. 583 c.p.
9
l'eccitamento, la depressione o l'inerzia dell'attività psichica, con effetto permanente o
temporaneo, pure brevissimo, compresi lo shock ed il semplice svenimento (…). Non integrano
invece una malattia nella mente ai sensi dell'art. 582 c.p. le c.d. nevrosi psicogene da scopo, da
appetizione, da rivendicazione: sindromi mediate che la vittima di un trauma sviluppa con
intento speculativo”16.
Affinché sia integrato il delitto di lesioni è richiesta la presenza del dolo generico cioè della
consapevolezza che la propria azione provochi o possa provocare un’offesa all’integrità
personale della vittima; non è invece necessario che l’agente sia determinato a produrre
specifiche conseguenze lesive né che sia consapevole o meno dell’antigiuridicità del fatto.
Il dolo di lesioni a livello più intenso confina col dolo di omicidio: la realizzazione di eventi
lesivi dell’integrità fisica può essere l’effetto di un fallito tentativo di omicidio; il discrimine tra
tentato omicidio e lesioni dipende dal contenuto del dolo: se c’è dolo in una forma idonea a
integrare il tentativo d’omicidio, il delitto di lesioni personali è assorbito in quello di tentato
omicidio17.
Costituisce titolo autonomo di reato la lesione cagionata colposamente (art.590 c.p.).
Detto in generale del delitto di lesioni bisogna ora domandarci quando questo sia fungibile a
dare una veste alla fattispecie di mobbing. Partendo dal verificare la sussistenza del fatto e in
particolare dell’evento, la prima difficoltà con cui ci si scontra è quella di ricomprendere nella
nozione di malattia mentale i tipici disturbi patiti dalle vittime di vessazioni sul lavoro. Non
ogni turbamento potrà essere ritenuto penalmente rilevante ma dovrà essere verificata la
sussistenza di una patologia. Anche accogliendo una concezione non unitaria di malattia ma
fondata su un approccio individualistico, come il più delle volte la giurisprudenza ha fatto, si è
comunque ritenuto che dovessero sussistere almeno stati depressivi, ansiosi o nevrosi non
rilevando il mero turbamento, la sofferenza o l’agitazione (qualora non ricollegabili a malattie
psichiche).
Una volta appurato che gli effetti psicofisici conseguenza del mobbing siano inquadrabili come
“malattia della mente” ai sensi del 582 c.p. è necessario dimostrare il nesso causale tra la
condotta vessatoria e il sorgere della malattia. A dimostrare il legame causativo secondo una
certa dottrina sarebbero la congruità sul piano cronologico tra condotta e malattia e la
compatibilità e proporzionalità tra natura del comportamento vessatorio e danno realizzatosi18.
Per quanto riguarda la configurabilità dell’elemento soggettivo va sottolineato che raramente si
tratterà di dolo intenzionale o diretto: lo scopo del mobber invero non è principalmente quello di 16 Voce Lesione personale, in E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, IPSOA, 2011.17 D. PULITANO’ (a cura di) Diritto penale, Parte speciale, I, Tutela penale della persona, 2011, Torino, Giappicchelli.18 S.BONINI, Aspetti penalistici del mobbing, in S.SCARPONI (a cura di) Il mobbing analisi giuridica interdisciplinare. Atti del convegno tenutosi a Trento il 8/11/07, Trento, 2009.
10
cagionare lesioni alla vittima; più verosimilmente sarà quello di isolare, umiliare e allontanare il
lavoratore accettando l’eventualità che dal suo comportamento possa derivare un danno psico-
fisico; la partita si giocherà allora quasi sempre sulla prova del dolo eventuale.
La serie di considerazioni fin qui fatte consente di ricostruire a contrario la posizione della
dottrina sfavorevole alla sussunzione del fenomeno di mobbing sotto il reato di cui al 582 c.p. 19:
si farà leva su necessità di certezza (o meglio di tipicità), difficoltà di distinzione fra malattia e
mero disagio, difficoltà di dimostrazione del nesso causale, prova del dolo.
Non va del tutto trascurata, ad avviso di chi scrive, una terza via: appare condivisibile la tesi di
chi ritiene il reato di lesioni applicabile solo a specifiche situazioni di mobbing; non è infatti in
alcun modo rinvenibile un identità tra intera vicenda di mobbing e delitto di cui art.582 c.p.
3.2 Violenza privata
Secondo l’art. 610 c.p. realizza reato di violenza privata “chiunque, con violenza o minaccia,
costringe altri a fare, tollerare, od omettere qualche cosa”.
Il delitto in esame offende la libertà morale intesa come libertà di autodeterminazione e libertà
di azione sulla base di scelte effettuate autonomamente dal soggetto. Si tratta di reato comune a
forma vincolata la cui consumazione richiede la realizzazione di violenza e minaccia da parte
dell’autore (condotta) e conseguente comportamento della vittima, costretta a fare, tollerare ed
omettere qualcosa (evento).
Affinché sia integrato il reato in questione, è necessario quindi che vengano posti in essere atti
di violenza o di minaccia che abbiano l'effetto di costringere la vittima a fare, tollerare o
omettere una determinata cosa. È fondamentale la presenza dell'elemento di costrizione ed è
inoltre richiesto che l'azione o l'omissione che il reo è volto a ottenere siano determinate.
Sull’interpretazione del termine violenza si sono registrati diversi orientamenti giurisprudenziali
che ne hanno fornito di volta in volta:
Interpretazione estensiva: “è interpretazione consolidata quella per cui costituisce
violenza l’uso di un qualsiasi mezzo che sia idoneo a privare coattivamente l’offeso
delle libertà di determinazione o di azione potendo la violenza essere anche impropria,
attuata cioè mediante l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressione sulla volontà
altrui”20;
Interpretazione restrittiva: si nega che la sussistenza della violenza “sia insita nel mero
risultato della coazione, evidente essendo che, rispetto a questo, essa si pone
testualmente come entità strumentale e, per giunta, neppure esclusiva, stante l’alternativa
19 R.DIES, La difficile tutela penale contro il mobbing, in S.SCARPONI (a cura di) Il mobbing analisi giuridica interdisciplinare. Atti del convegno tenutosi a Trento il 8/11/07, Trento, 2009.20 Cassazione n.33854 dell’aprile 2009.
11
previsione della minaccia. Tali nozioni impongono all’interprete di ricercare una
nozione contenutistica e non puramente finalistica, di violenza, definendola con
precisione in rapporto al mezzo alternativo della minaccia”21.
Per minaccia invece si intende “un qualsiasi comportamento o atteggiamento, sia verso il
soggetto passivo sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione
di subire un danno ingiusto, onde ottenere, mediante tale intimidazione, che il soggetto
passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa”22.
Da ultimo è giusto ricordare che la costrizione, realizzata nei modi sopra considerati, deve
essere ingiusta ossia non autorizzata da alcuna norma giuridica.
In relazione all'elemento soggettivo, per la realizzazione di questo reato è richiesto il dolo,
che consiste nella coscienza e volontà di indurre la vittima a fare, tollerare od omettere una
determinata cosa. È fondamentale poi che il reo sia consapevole del dissenso della vittima
nel realizzare l'azione/omissione, che è stata quindi posta in essere solo a seguito della
coazione.
Trattandosi di un reato istantaneo, la violenza privata si consuma nel momento in cui il
soggetto passivo pone in essere l'azione od omissione alla quale è stato costretto. Nel caso in
cui la coazione non andasse a buon fine, quando cioè la vittima nonostante la violenza o la
minaccia non realizza quanto voluto dal soggetto attivo, il reato sarà integrato solo nella
forma del tentativo.
Va detto infine che il delitto di violenza privata è un delitto a titolo generico e sussidiario: si
verifica cioè quando non si configuri per quel determinato fatto, una diversa qualificazione
giuridica (es. l’estorsione - art.629 c.p. - è figura speciale rispetto all’art. 610 c.p.).
Per ciò che più ci interessa l’applicabilità in astratto del 610 c.p. a casi di mobbing è molto
spesso criticata dalla dottrina e dalla giurisprudenza soprattutto per la difficoltà di definire in
maniera univoca il concetto di violenza. Il problema riguarda l'incompatibilità
dell'interpretazione restrittiva della nozione di violenza, fondata sull'idea di aggressione
fisica, con le vessazioni sul lavoro, che possono essere sì costituite da violenze di tale
tipologia, ma nella maggior parte dei casi si concretano in violenze morali. D’altra parte una
lettura estensiva di tale concetto – che prescinde cioè dall’elemento fisico - sarebbe
rischiosa: sebbene funzionale ad obiettivi di politica criminale in ordine alla repressione di
condotte socialmente riprovevoli, troverebbe non pochi profili di contrasto con la funzione
di garanzia del diritto penale, specie con il divieto di analogia. Il mobbing infatti non solo
può essere caratterizzato da condotte che, singolarmente considerate, risulterebbero lecite,
21 Cassazione n.2013 del novembre 2009.22 Voce Violenza privata, in E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, IPSOA, 2011.
12
ma anche da condotte che potrebbero risultare addirittura “normali” nella gestione d’impresa
quindi tutto fuorché violente. La sottrazione di compiti, il divieto di utilizzare il telefono, il
mancato invito a delle riunioni etc. se considerati cumulativamente potrebbero indurre il
lavoratore a dimettersi ma, se considerati singolarmente, sono senz’altro sprovvisti della
qualità di condotte violente e perciò coercitive. Volendo tirare una linea di demarcazione
ben si potrebbe dire che una cosa è la coercizione, altra è l’induzione23.
Anche qui dunque come in precedenza emerge in tutta la sua evidenza la difficoltà di una
sussunzione in automatico: la violenza privata non può garantire una copertura penale al
fenomeno complessivamente considerato senza comportare, in alcuni casi, l’adozione di una
nozione di violenza inaccettabile e del tutto incompatibile con il nostro ordinamento.
Concludendo e volendo “spezzare una lancia” a favore della possibile utilità del 610 c.p. ai
fini di una repressione dei fenomeni di mobbing, si osserva che il reato in questione può ben
tutelare le vittime di determinati episodi di vessazioni - in particolare di quelle attuate con
violenza e minaccia - garantendo perlomeno una copertura parziale al mobbing.
3.3 Atti persecutori
Il reato di atti persecutori, comunemente chiamato stalking, è disciplinato all’art. 612bis c.p.,
recentemente introdotto nel nostro codice penale dall'art 7 del decreto legge 11/2009,
convertito con modifiche nella legge 23 aprile 2009, n.38. Pone in essere questo reato chi
“con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e
grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità
propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva
ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”, salvo che il fatto
costituisca più grave reato.
Dalla collocazione sistematica si evince che il bene giuridico tutelato è la libertà morale,
intesa questa volta come tranquillità individuale e libertà di autodeterminazione.
Asistematicamente invece la norma può considerarsi a presidio anche della salute mentale e
fisica della vittima. Se mettiamo insieme le due cose possiamo affermare che in realtà è
configurata con la norma una tutela assai ampia che riguarda in generale l’intangibilità della
sfera privata.
Molto si è discusso circa l’inquadramento del reato di stalking tra i reati di evento o di mera
condotta: oggi si ritiene il reato ascrivibile alla prima delle due categorie, essendo stato
valorizzato, soprattutto in dottrina, l’utilizzo di verbi pregnanti propri della causalità come
cagionare, ingenerare e costringere24.
23 F.VIGANO’, La tutela penale della libertà individuale. L’offesa mediante violenza, Giuffrè, Milano, 2002, pag.39.24 D. PULITANO’ (a cura di) Diritto penale, Parte speciale, I, Tutela penale della persona, 2011, Torino, Giappicchelli.
13
Per quanto attiene all'elemento oggettivo, questo consiste nella reiterazione delle condotte di
minaccia e molestia. Per minaccia si intende unanimemente la prospettazione di un male
ingiusto il cui verificarsi o meno dipende dalla volontà dell'agente; più problematica invece
è la definizione di molestia: innanzitutto è da rilevare come, nonostante all'interno dell'art.
612 bis c.p. il termine parrebbe da intendersi come descrittivo della condotta, sembrerebbe
più corretto concepirlo come il risultato di un comportamento qualsiasi (telefonate notturne,
pedinamenti, appostamenti, riprese fotografiche), che si concretizza in “un'intrusione nella
sfera psichica altrui con conseguente compromissione della tranquillità personale e della
libertà morale della vittima, senza però concretizzarsi in vere e proprie violenze sulla
persona”25.
Con riguardo al requisito della reiterazione molto si è discusso: ci si chiedeva in particolare
quale fosse in numero minimo di condotte necessarie e quanto tempo dovesse trascorrere tra
le varie ripetizioni. Senza entrare troppo nel dettaglio, il che richiederebbe un ampia
dissertazione del tema, qui basti sapere che la giurisprudenza ha affermato che possono
ritenersi sufficienti anche due sole condotte26.
Per quanto riguarda l'evento, questo consiste alternativamente nel perdurante stato di ansia o
paura, o nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto oppure
nell'alterazione delle abitudini di vita, evento che non si riterrà integrato in presenza di
piccoli cambiamenti irrilevanti. Secondo un'interpretazione restrittiva della fattispecie,
inoltre, il terzo evento non gode di autonomia, ma deve essere sempre connesso allo stato di
paura o al timore per l'incolumità, poiché solo in questo modo si giustificherebbe la pena
comminata, ben più severa di quella prevista dai reati di minaccia e molestia poiché tesa a
“bloccare sul nascere un'escalation persecutoria che, in base all'esperienza criminologica,
troppo spesso passa dalle molestie all'aggressione fisica”27.
Da quanto detto finora è chiaro perché alcuni studiosi hanno sovente candidato l’art.612bis
c.p. a dare copertura al mobbing: l’elasticità della condotta, che per quanto vincolata lascia
ampi margini di permeabilità data l’ampiezza dei comportamenti definibili come molesti, e
la costruzione del reato come reato abituale, lo rendono sicuramente un valido alleato di
coloro che ricercano una “strada” che conduca alla repressione del fenomeno.
Non si può fare a meno di fornire le controindicazioni. Vanno infatti tenute in debita
considerazione le differenze tra mobbing e stalking: la principale riguarda la tipologia di
relazione tra vittima e persecutore: “nel caso del mobbing, l'agente vuole allontanare la 25 Voce Atti persecutori, in E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, IPSOA, 2011.26 Così abbastanza recentemente Cass. penale, sezione V n. 25527 del 5 luglio 2010; circa la possibile cesura di incostituzionalità per violazione del principio di determinatezza si rinvia da ultimo a sent. 172/2014 C.Cost.27 Ancora cfr. Voce Atti persecutori, in E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, IPSOA, 2011.
14
vittima, che invece lotta per mantenere la relazione, e cioè per conservare il posto di lavoro;
nello stalking, lo stalker vuole a tutti i costi creare una relazione con la vittima, che invece la
rifugge. Nel caso dello stalking, quindi, manca una relazione vera e propria, ma vi è solo
l'unilaterale tentativo dell'agente di instaurarla, turbando la tranquillità della vittima,
desiderosa di escludere interferenze altrui. Lo stalking, poi, è un fenomeno ampio, che
interessa per lo più la sfera privata e attiene alle relazioni umane, mentre il mobbing è un
fenomeno che si verifica unicamente nell'ambiente lavorativo. Il fenomeno delineato dall'art.
612 bis è inoltre ben più grave rispetto al mobbing: lo stalker pone in essere una
persecuzione totale, che limita fortemente la libertà e la tranquillità individuale della vittima,
causandole ansia, timore per la propria incolumità e costringendola a cambiare abitudini di
vita per evitare tali attacchi; non di rado, purtroppo, azioni persecutorie di questo tipo
sfociano in epiloghi tragici, conseguenze invece difficilmente verificabili in presenza del
fenomeno mobbing”28.
In conclusione si ritiene possibile garantire la copertura penale del mobbing tramite l'art.
612 bis c.p. qualora questo fenomeno sia realizzato attraverso comportamenti che si
concretizzano in minacce e molestie, causative di un grave e perdurato stato d'ansia, del
fondato timore per l'incolumità o del forzoso cambiamento di abitudini di vita. Manca, nel
reato di atti persecutori, il fine dell'emarginazione del lavoratore, tipico del mobbing, ma
non richiedendo l'art. 612 bis c.p. un dolo specifico incompatibile con tale fenomeno, ciò
non impedisce il ricorso a questa norma per tutelare i soggetti mobbizzati.
Potrebbero sorgere dei problemi in relazione alla realizzazione dell'evento richiesto dall'art.
612 bis c.p. e cioè, disgiuntivamente, il grave stato d'ansia e paura, il fondato timore per
l'incolumità e la costrizione a mutare abitudini di vita: non sempre infatti lo stato di
“malattia” cagionato dal mobbing si manifesterà nelle forme dell'ansia e della paura e
ugualmente potrebbe creare problemi il riscontro del cambiamento delle abitudini di vita;
per quanto riguarda invece l'evento del fondato timore per l'incolumità, trattandosi di una
formulazione molto vaga, sarebbe possibile farvi rientrare il generico timore del mobbizzato
di continuare a subire le vessazioni.
4. Considerazioni in una prospettiva di riforma
Per concludere la trattazione faccio mia una considerazione fatta dal prof. Bartoli sulla possibilità di
una tipizzazione del fatto di mobbing: in particolare egli ha osservato che là dove si decidesse di
tutelare penalmente il lavoratore dai comportamenti persecutori realizzati nel contesto lavorativo, la
prima questione che si dovrebbe risolvere è se convenga davvero tipizzare una fattispecie sul
28 R.BARTOLI, Mobbing e diritto penale, in Diritto penale e processo, n.1, 2012, pag. 88.
15
modello degli atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. oppure sia preferibile una tutela di tipo
ingiunzionale. Nella prima prospettiva, le difficoltà di tipizzazione si farebbero ancora più
consistenti di quelle che si sono presentate per lo stalking, e ciò proprio in ragione del fatto che di
regola i comportamenti non sono altro che illeciti civili e giuslavoristici, realizzati in un contesto
relazionale tendenzialmente elastico, e soprattutto in ragione del fatto che il vero nucleo di disvalore
sta nella discriminazione, vale a dire nella realizzazione di alcuni comportamenti “positivi” verso
alcuni lavoratori, con esclusione della vittima, oppure nella realizzazione di alcuni comportamenti
“negativi” verso la vittima con esclusione di altri. In sostanza, la previsione di una fattispecie
classica costituirebbe uno strumento troppo rigido e “astratto”, che mal si attaglia alle cangianti
dinamiche del fenomeno.
Ecco allora che, proprio al fine di superare queste difficoltà, si potrebbe pensare ad un modello
ingiunzionale, dove si impartiscono determinati ordini di fare e di non fare all’autore dei
comportamenti discriminatori e dove il diritto penale è posto a tutela del provvedimento emesso.
Questo modello consentirebbe di soddisfare molte esigenze.
Anzitutto, si supererebbero le difficoltà di tipizzazione del fatto, non solo e non tanto in termini di
determinatezza da intendersi come certezza, ma anche e soprattutto in termini di determinatezza
come disvalore, nel senso che, preso atto della difficoltà di configurare un contenuto di disvalore
“punitivo” univoco ed omogeneo già a livello astratto, si rimetterebbe alla ricostruzione effettuata
dai soggetti davanti al giudice il compito di individuare eventuali condotte discriminatorie.
Inoltre, proprio perché il diritto penale interverrebbe in via mediata rispetto a fatti nella sostanza
privi di autentico disvalore criminoso, si rispetterebbero i principi di proporzione e sussidiarietà. A
ciò, infine, si deve aggiungere che si tutelerebbe l’interesse della vittima alla permanenza della
relazione e che si coprirebbero tutte sia le ipotesi classiche di mobbing verticale, sia quelle più
“moderne” di mobbing orizzontale. Insomma, alla dinamicità ed articolazione di un fenomeno si
risponderebbe con uno strumento molto più duttile e flessibile29.
29 R.BARTOLI, Fenomeno del mobbing e tipo criminoso forgiato dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, in Dir. Penale Contemporaneo.
16