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Maggio 2016 Periodico economico-finaziario redatto dagli studenti della Luiss Guido Carli Distribuzione interna gratuita

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Maggio 2016

Periodico economico-�naziario redatto dagli studenti della Luiss Guido CarliDistribuzione interna gratuita

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INDEX

2 Editoriale

2 Legal

Redazione:

Contatti:

DirettoreMichele Carraturo

VicedirettoreAlessia Aiello

CapoRedattoriGiovanni Manuel Guida

Art DirectorAlessia Aiello, Federico Naso

Responsabile Social e ComunicazioneCamilla Nilo

Responsabile Eventi e Relazioni EsterneAlessio d’Ambrosio Lettieri

Responsabile MarketingFilippo Vicinanza

Coordinatore rubrica “Bloomberg”Jacopo Confaloni

Coordinatore rubrica “Economics”Andrea Marchesani

Coordinatore rubrica “Finance Glossary”Luca Bellardini

Coordinatore rubrica “Insiders”Paolo Bucci

Coordinatore rubrica “Outsiders”Annachiara Afeltra

RedattoriLudovica Mancioppi, Ilaria Vergassola, Fran-cesca Sossella, Emanuele Galletta, Amedeo Scarano, Enrico Forlino, Antonio Ricco, Giulia Balestra, Fabio Cosmi, Luca Laureti

Lose-Lose

4 Finance Glossary

10 Economics

16 Outsiders

SPLIT PAYMENT: La scissione dei pagamenti che non piace alle imprese Atlante, un titano per sostenere le banche

Analisi della volatilità implicita e storica Davide e Golia dell’economia: la nascita irlandese e il rallentamento delle tigri asiatiche

La rapida ascesa dei “cina-fonini” Meizu

PP: il paradiso perduto? 7 Bloomberg

12 Insiders

La finanza islamica Equity crowdfunding: ready for take off? Effetto Cina sulla volatilità

How to be successful in the hedge fund industry: intervista a Joseph Di Virgilio How to be successful in the hedge fund industry: l’espe rienza di Marco Doni La consulenza finanziaria questa sconosciuta 2

[email protected]@ufl-theinsider.com

Michele Carraturo +39 334 84 05 579 Alessia Aiello +39 334 82 64 949

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EDITORIALE LEGAL

Atlante, o Lete?

bisogno di riforme consistenti, a partire da regole più inci-sive nei confronti dei manager troppo legati al clientelismo, soprattutto a livello locale e regionale. Se l’istituzione del fondo non sarà accompagnata da tutto questo, la condizione non migliorerà e non si parlerà più Atlante, bensì Lete, il fiume dell’oblio, che cancella ogni ri-cordo passato.

A cura di Michele CarraturoMail [email protected]

La settimana scorsa, con un annuncio (quasi) inaspettato, è stata resa nota la creazione di un nuovo fondo d’investi-mento: Atlante, come il personaggio della mitologia greca il cui compito era quello di sostenere la volta celeste. In questo caso, la volta celeste è rappresenta dall’intero siste-ma bancario italiano, condotto ad un lento ed inesorabile default dall’inefficienza di una governance ancora legata a pratiche antiquate ed inefficaci. Tra le diverse crisi bancarie che si sono susseguite durante la storia del capitalismo, il “panico bancario” del 1907 negli USA sembra avere diver-se analogie con l’attuale situazione italiana, in primis per la scelta di creare un fondo ad hoc per sostenere le quotazioni delle principali banche dell’epoca. Gli istituti di quel perio-do avevano subito ingenti perdite a causa di operazioni ri-schiose, finanziando la speculazione della “United Copper”, poi fallita. In Italia, invece, l’esigenza nasce dalle montagne di non-performing loans e sofferenze bancarie di circa 360 miliardi di euro, accumulati nei bilanci delle banche. Agire era ed è necessario. “Un piccolo passo nella giusta direzio-ne”, come dice Mario Draghi. Forse l’unica direzione possi-bile. Le parole usate nella presentazione del fondo erano forti: si parla di “default del sistema bancario” e di “collasso dell’economia italiana”. Basta una base di cultura economica per capire come que-ste due conseguenze sono correlate. Considerando anche l’impossibilità della BCE di poter agire specificatamente nel contesto italiano, la creazione di questo fondo è stata inevitabile. Ma una domanda sorge spontanea: come può un fondo dotato di poco più di 4 miliardi di euro sostenere l’intero sistema? Inoltre, la partecipazione al fondo non sarà senza conseguenze per le banche coinvolte: basta pensare che le principali, Banca Intesa e Unicredit, le quali investi-ranno circa un miliardo, potrebbero subire un impatto ne-gativo sul loro merito creditizio; Atlante, in fondo, sarà chia-mato a sottoscrivere azioni di banche che sono a rischio fallimento/scioglimento e a comprare titoli in sofferenza per i quali non c’è mercato. Ulteriori difficoltà sono legate agli aspetti legislativi, quali la possibilità o meno da parte delle partecipanti di dedurre il capitale investito nel fon-do da quello regolamentare, con diverse conseguenze sul piano dei requisiti minimi prudenziali richiesti. Altre ancora legate a una non chiara partecipazione dello Stato, tramite Cassa Depositi e Prestiti, delle diverse fondazioni bancarie e anche alla gestione da parte di Quaestio Capital Mana-gement. La situazione, quindi, non è chiara e la soluzione sembra non essere definitiva. Il nostro sistema bancario ha

PP: il paradiso perduto?

Nel 1987, una ormai dimenticata Belinda Carlise incideva il tormentone ‘’Heaven is a place on Earth”. Ad oggi, forse non nel senso della canzone, il paradiso in terra esiste, in particolare per i proprietari di ingenti capitali e patrimoni liquidi. Esistono, infatti, stati in cui la tassazione dei conti e dei capitali è ridotta all’essenziale, i c.d. paradisi fiscali (tax heaven). Uno di questi paesi è Panama. Il piccolo stato cen-tro-americano è stato di recente al centro dell’attenzione mondiale a seguito di un reportage, nel quale veniva pub-blicata una serie di informazioni a carattere bancario-finan-ziario, che avrebbero dovuto restare riservate. Fulcro della fuga di informazioni, una law firm internazionale, con sede principale a Panama - la Mossak Fonseca - specializzata in gestione degli investimenti e operazioni con shelf-compa-nies. La notizia, ai più nota come i “Panama Papers”, ha visto coinvolti soggetti da tutto il mondo, e anche personaggi in vista, sia direttamente, che indirettamente: dal padre del premier britannico Cameron, al nostrano Carlo Verdone, passando per la famiglia del presidente Putin. Due gli ele-menti che hanno destato il maggior clamore: il volume del-le informazioni sottratte (stimato a più di 4 volte quelle del caso Wikileaks) e il presunto “scandalo”. Nonostante molti giornali abbiano lottato per pubblicare in esclusiva i detta-gli e i nomi dei soggetti coinvolti di maggiori rilievo, siamo di fronte a quello che Shakespeare avrebbe definito “much ado about nothing” (molto rumore per nulla, ndr). I paradisi fiscali e la maggior parte delle operazioni bancarie e/o finanziarie ad essi connessi, infatti, sono legali. L’illecito (o nei casi più gravi, il reato) si configura solo qualora con l’operazione posta in essere, il soggetto abbia violato la leg-

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fiscale (al quale può essere ricondotto anche il caso dei Pa-nama Papers) che consente ai contribuenti che detengono illecitamente capitali all’estero di regolarizzare la propria posizione con il Fisco italiano denunciando spontanea-mente la violazione degli obblighi fiscali. Tale pratica risulta essere particolarmente vantaggiosa: è esclusa la punibilità per i delitti di dichiarazione infedele e omessa dichiarazio-ne, oltre che di dichiarazione fraudolenta con uso di fatture false e dichiarazione fraudolenta con altri artifici. Un istitu-to che si presenta, pertanto, come un’arma a doppio taglio per l’AF: coloro che sceglieranno di usufruirne, possono evi-tare eventuali condanne in sede penale, purchè dall’accer-tamento non risulti che il soggetto abbia dichiarato il falso (in questo caso il beneficio decade). Che il paradiso, per i soggetti a rischio condanna, non sia Panama?

A cura di Rita Santaniello e Alessia AielloMail [email protected] [email protected]

ge interna dello Stato a cui appartiene o dello Stato in cui i redditi sono prodotti a seconda del regime di tassazione a cui quel cespite patrimoniale è sottoposto (generalmente stabilito sempre con legge interna o tramite convenzioni internazionali). Chi ha violato la legge, però, cosa rischia?Innanzitutto, c’è da capire se e quando potrebbe aprirsi la strada a ipotesi di reato. In Italia è consentito partecipare a società o essere proprietari di conti correnti situati in paesi considerati tax heaven (come Panama), purché siano rispet-tate due condizioni: i conti devono essere nominativi ed essere ulteriormente segnalati nel quadro RW del Modello Unico oppure affidati in amministrazione ad una fiduciaria, la quale svolgerà funzione di sostituto di imposta e preven-zione nell’ambito della normativa antiriciclaggio.In merito, la Procura della Repubblica di Torino ha avviato un’indagine, incontrando però non poche difficoltà: da un lato la decorrenza dei termini di prescrizione, in scadenza per i reati di più remota commissione; dall’altro problema-tiche di natura procedurale, considerando che la lista degli 800 nomi può essere utilizzata dai nostri inquirenti esclu-sivamente come elemento indiziario, con la conseguenza che i nomi devono essere vagliati singolarmente e l’esito di tali ricerche è subordinato agli accordi internazionali in ma-teria. Ad oggi, i reati contestati ai soggetti coinvolti sono: falsa fatturazione, costituzione di fondi in nero, riciclaggio e auto-riciclaggio. Il primo della serie rileva soprattutto in tema di evasione, dato che la sua commissione è presup-posto per un ulteriore reato, a carattere tributario: dichia-razione fraudolenta volta a consentire a terzi l’evasione. La costituzione di fondi in nero è invece un reato societario che si concretizza nella creazione, gestione e utilizzazione di liquidità extra che non compare (o almeno non in modo esplicito) nel bilancio ufficiale di una società, il più delle volte aggravata dai fini illeciti. Per entrambi i reati le san-zioni previste non supererebbero i sei anni (molto dipende dall’ammontare evaso), salve le aggravanti. Sanzioni ipote-tiche, considerando che coloro che hanno esportato capi-tali all’estero dopo il 2004 potrebbero usufruire dello scudo fiscale, che oltre a garantire l’anonimato assoluto, esclude la maggior parte degli effetti penali e amministrativi.Da un punto di vista legale, comunque, l’aspetto più inte-ressante è l’imputabilità dei reati di riciclaggio e, soprattut-to, autoriciclaggio. Quest’ultima fattispecie di reato, infatti, viene introdotta dal legislatore nel 2014 contestualmente alla voluntary disclosure. La voluntary disclosure è una prati-ca introdotta al fine di contrastare il fenomeno dell’opacità

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FINANCE GLOSSARY

Atlante, un titano per sostenere le banche

preponderante» del totale offerto – circa 2,5 miliardi – «non venga sottoscritta». Lo scenario che verrebbe a delinearsi è così fosco da sembrare forse irrealistico, ma a parte la prima eventualità – una «fuga dei depositi» causata dallo spau-racchio del bail-in – sono tutte situazioni che, sebbene con intensità ed estensione limitate, l’Italia ha in qualche modo già vissuto: aumento dei costi di finanziamento (riflessi dal-lo spread BTp-Bund), perdite su investimenti di vario tipo, capital impairments. Infatti, non solo il processo di dismis-sione dei crediti deteriorati è afflitto da «lentezza»; non solo la Bce pone ulteriori requisiti patrimoniali per fronteggiare il problema; ma la vicenda delle ormai famose Banca Mar-che, Banca Etruria, Carife e Carichieti ha fatto peggiorare sensibilmente il market sentiment e danneggiato l’immagi-ne dell’intero sistema. Allora, è la conclusione delle «con-siderazioni introduttive», urge una soluzione «di sistema» da applicare «tempestivamente», con l’obiettivo di dare «un significativo supporto alla stabilità finanziaria» nel medio termine. Che cosa dovrà fare, perciò, questo fondo? Innanzitutto sosterrà in via diretta gli aumenti di capitale, sia mediante «accordi di sindacazione» con altri componenti del consor-zio di collocamento o di garanzia (agendo insieme ad essi per vendere le azioni o acquistare l’inoptato, a un prezzo o un intervallo di prezzo fissato), sia partecipando – anche in via esclusiva – al private placement (quando i titoli vengono offerti, appunto, a investitori professionali accuratamente scelti), sia sottoscrivendo «altri strumenti computabili nei fondi propri delle banche». Inoltre, il fondo dovrà sostenere «operazioni di cessione e gestione di crediti in sofferenza». Un tema, quello dei non-performing loans (Npl), su cui po-che settimane fa il governo ha trovato un accordo con la Commissione europea: è stata così scongiurata una “ricapi-talizzazione forzata” – tale da compensare con nuovo patri-monio l’effetto delle svalutazioni – che avrebbe riguardato numerosi istituti (compresi alcuni di quelli che intendono partecipare ad Atlante) esponendoli al rischio, qualora la raccolta di equity non fosse stata sufficiente, di essere sot-toposti a risoluzione. Un’extrema ratio che non viene auto-maticamente esclusa con l’intervento del fondo, ma che quest’ultimo – disponendo di risorse e credibilità superiori rispetto a quelle del singolo intermediario – rende certa-mente meno probabile. Gli Npl, comunque, restano una spina nel fianco dell’intero sistema: gli incagli, cioè i crediti caratterizzati da «perdurante situazione di difficoltà», am-montano a circa 113 miliardi; le sofferenze lorde – di esigi-

Si chiama così perché è destinato a reggere sulle proprie spalle il peso di un sistema bancario in cui la «patologia» sembra – con sempre maggiore frequenza – prevalere sulla fisiologia. Ma se nella mitologia classica Atlante era un solo individuo (per quanto figlio di giganti, o addirittura semi-divino), nell’universo creditizio italiano i protagonisti sono diversi. Stiamo parlando di un fondo d’investimento alter-nativo mobiliare, chiuso, gestito da una Sgr indipendente (individuata in Quaestio Capital Management), cui parte-ciperanno – secondo la bozza pubblicata nei giorni scorsi dal Messaggero, e solo per citare i maggiori contribuenti – Cassa depositi e prestiti, UniCredit, Intesa Sanpaolo, in-sieme ad altri gruppi; e poi ancora «società di assicurazione, fondazioni bancarie, casse di previdenza e fondi pensione». Con quale finalità? Il «documento informativo» richiama in-nanzitutto quei fattori che producono «criticità», mettendo in chiaro fin da subito la loro natura sistemica. Ad essere in pericolo – viene spiegato – non sono soltanto il patrimonio del piccolo investitore e l’operatività del singolo interme-diario, ma la fiducia dei consumatori e il funding di tutte le banche, dunque «la ripresa economica del Paese». D’altron-de, i dati lasciano poco spazio a dubbi: dall’inizio dell’anno, i corsi azionari del comparto creditizio hanno subíto una contrazione durissima (-41%, con punte del 59 per Mps, 55 per Banco popolare e 54 per Carige), molto più ampia che negli altri mercati europei. I multipli – cioè il rappor-to tra il prezzo di Borsa e le principali grandezze contabili o finanziarie della società quotata, usati a fini valutativi – sono precipitati anche del 30%. E lo spread sui credit default swaps (Cds), che identifica il premio per il rischio pagato da chi si immunizza dall’insolvenza del debitore, negli ultimi tempi è stato incredibilmente volatile (per Montepaschi è salito addirittura di 330 punti-base). E il futuro non promet-te nulla di buono: fra le altre cose, giungeranno via via a scadenza le obbligazioni sovrane – perlopiù BTp – emesse in anni nei quali i tassi erano su livelli particolarmente so-stenuti, sicché nei bilanci bancari diminuiranno i bond con cedole sostanziose e aumenteranno quelli (più recenti) che corrispondono interessi limitati. Un’erosione marcata, per quanto “naturale”, di quegli introiti periodici su cui gli enti creditizi hanno sempre fatto grande affidamento. Il risultato di tutto questo è che i due maggiori interventi straordinari già deliberati, gli aumenti di capitale per Ve-neto Banca e la Popolare di Vicenza, potrebbero concreta-mente risolversi in un clamoroso insuccesso: è «molto pro-babile», avvertono i promotori di Atlante, che «una quota

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bilità ancora più dubbia – risultano pari a circa 200 miliardi, oltre un decimo del totale dei crediti; quelle nette – cioè al netto delle svalutazioni già effettuate – raggiungono quota 87, ma in media sono coperte da liquidità solo per il 56%. Bisogna considerare, poi, che l’acquisto dei crediti in sofferenza dovrà avvenire a prezzi ben superiori a quelli generalmente riscontrabili nel mercato: un tratto indubbia-mente “coercitivo” dell’intera operazione, poco in linea con la natura volontaria (almeno formalmente) di Atlante. Su quante risorse potrà contare il fondo? La «massa critica» è fissata a 6 miliardi, di cui almeno 3 alla costituzione (siamo già intorno ai 4); viene anche prevista una non ancora spe-cificata leva finanziaria, che comunque – ha ammonito il Ceo di Intesa, Carlo Messina – dovrà essere «limitata». Le ri-cadute, scrivono i promotori, risulterebbero particolarmen-te positive: il fondo non modificherà in alcun modo l’asset-to proprietario delle banche target; consentirà agli istituti partecipanti di ottenere uno “sconto” sul livello-obiettivo del Common equity tier 1 (patrimonio «di qualità primaria», Cet1); e non renderà necessario alcun consolidamento, a li-vello contabile né regolamentare, fra le banche coinvolte. Insomma, si punta ad acquisire capitale sociale e/o soffe-renze delle banche in difficoltà con risorse provenienti da altri istituti: così facendo, si toglie patrimonio (di vigilanza) agli enti più virtuosi per finanziare quelli in cattiva salute. Ma i partecipanti ad Atlante sono davvero i migliori del si-stema? Qualche dubbio viene, se guardiamo alla classifica stilata dalla Bocconi per Corriere Economia: in quanto a Cet1 (ma anche a total capital ratio), UniCredit è quattordicesima tra le prime venti più grandi banche italiane. In ogni caso, sarebbe incredibile che la mera interposizione di un fondo consentisse di non applicare le regole di Basilea sul calcolo delle partecipazioni bancarie e delle sofferenze ai fini pa-trimoniali. In sostanza – dunque – non si crea nulla, ma ci si limita a un po’ di finanza creativa. Perplessità mostrate anche dall’agenzia di rating Moody’s, che – mettendo a di-sposizione dei propri sottoscrittori un report specifico – ha sottolineato (moodys.com, 15 aprile) come l’investimento nel fondo sia benefico per i destinatari ma non per i parte-cipanti, e come – per giunta – l’impatto sul rischio sistemico sia destinato a rimanere piuttosto blando. In Italia, comunque, Atlante sembra avere molti sostenitori. La Consob ha già dato il via libera alla commercializzazione delle quote del fondo; via Nazionale, tramite il governatore Visco, ha definito l’iniziativa «efficace»; il ministro Padoan, entusiasta del progetto, ne è da sempre un grande sponsor.

Ma all’estero gli osservatori sono ben più severi: nell’edizio-ne del 21 aprile, anche il Financial Times ha sollevato dubbi sull’effettiva riduzione del rischio sistemico, sottolineando come vi sia ancora molta incertezza soprattutto sull’am-montare degli haircut per i crediti deteriorati e sul giudizio della Commissione europea. Quest’ultima – abbiamo visto – tende a interpretare in senso alquanto restrittivo la disci-plina sugli aiuti di Stato; dunque potrebbe facilmente cri-ticare il commitment di Cdp, società per azioni a forte con-trollo pubblico. In ogni caso, al di là di ogni considerazione tecnica, appare evidente come – nonostante le buone in-tenzioni – il fondo corra il rischio concreto di risultare pal-liativo, o poco più; e di come possa sembrare quasi il tenta-tivo – agli occhi dei mercati internazionali, e soprattutto dei risparmiatori colpiti dalle difficoltà del sistema bancario – di curare una grave malattia somministrando tisane. “Medici-ne” certo gradevoli, ma profondamente inadeguate. Senza un’operazione chirurgica – cioè un intervento coraggioso, strutturale, definitivo – le spalle di Atlante potrebbero scric-chiolare molto presto.

A cura di Luca BellardiniMail [email protected]

FINANCE GLOSSARY

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FINANCE GLOSSARY

Immaginate un pranzo domenicale di una famiglia italiana di cinque persone, incluso un bambino di 5 anni. Tema del-la conversazione: evasione fiscale. La curiosità del piccolo fa da padrona e la domanda - “Che cos’è l’evasione fiscale” - non tarda ad arrivare. “L’evasione fiscale è quando tu dai al cartolaio i soldi delle figurine e lui, che dovrebbe incassare solo una parte del costo della confezione e dare allo Stato la restante, si “dimentica” di restituirgliela e intasca tutti i sol-di che tu gli hai dato”. A questo punto la curiosità si mette da parte e subito si manifesta l’innocenza della tenera età con l’espressione: “Ma non è giusto. Il resto dei soldi non era suo”. Probabilmente, in Italia, l’espressione “Evasione fiscale” è l’unica che può effettivamente competere con la parola “calcio” in termini di frequenza di utilizzo. Questo termine di paragone non è per niente positivo se si considera che si giustifica nei circa 270 miliardi di euro evasi ogni anno. Pre-cedentemente la famosa IVA (imposta sul valore aggiunto) veniva riscossa dal Fisco solo dopo 1 anno dall’operazione anche se la fattura non era ancora stata pagata. Questa sca-denza poteva essere un’arma a doppio taglio perché dava al creditore l’impressione di avere una capacità finanziaria maggiore di quella effettiva. Le imprese di conseguenza, si sentivano autorizzate ad usare il surplus iscritto in bilancio, illudendosi per una maggiore disponibilità che, nella so-stanza, non era di loro proprietà. Il vero problema arrivava 365 giorni dopo, quando l’Erario andava comunque a bat-tere cassa. Il più delle volte, invano. Per arginare tale proble-ma sono state varate molte manovre e, l’ultima, tra diversi pro e contro, si presenta con il nome di Split Payment. Que-sta “scissione dei pagamenti” è stata introdotta con la leg-ge di stabilità 2015 e rappresenta un nuovo meccanismo per regolare il pagamento dell’IVA da parte della Pubblica Amministrazione: gli enti statali, in sintesi, non versano più l’imposta sul valore aggiunto all’azienda fornitrice ma diret-tamente all’Erario. Questo significa che le aziende si stanno trovando con meno liquidità disponibile, senza la possibili-tà di compensare il credito vantato. La novella interessa gli enti statali centrali e territoriali, le Asl, le Camere di commer-cio, le Università e altri indicati nel provvedimento, i quali, dall’1 gennaio 2015, una volta ricevuta la fattura pagano all’azienda fornitrice di un servizio soltanto la base imponi-bile dell’IVA, trattenendo invece l’ammontare dell’aliquota di imposta che sarà poi versata in un secondo momento di-rettamente all’Erario. Detta in altri termini, il corrispettivo del servizio o del bene viene saldato all’azienda che però non incassa l’imposta - prevista comunque nella sua fattu-

ra - di cui potrà chiedere solo successivamente il rimborso, secondo il meccanismo della compensazione. La ratio della nuova norma va ricercata nella volontà ottenere un mag-gior gettito fiscale (IVA), possibile grazie alla riduzione dei passaggi nei rapporti tra pubblico e privato, ammettendo quindi la maggiore garanzia e affidabilità fiscale della PA.È chiaro che tutto ciò potrebbe provocare un danno enor-me ai fornitori della Pubblica Amministrazione, considerato anche che questi non incassano l’IVA delle fatture emesse e non possono in alcun modo compensarla con quella che avevano anticipato precedentemente ai loro fornitori, ac-cumulando così un credito ingente. Per quest’ultimo può essere chiesto un rimborso, sottostando però ai tempi di-latati della burocrazia statale. Le imprese non hanno altra alternativa che ricorrere al credito esterno, con aggravio di altri oneri di finanziamento, oppure ritardare i pagamenti ai loro fornitori. Il danno fatto alle imprese non può assoluta-mente essere sottovalutato: con la vecchia disciplina, pote-va succedere che l’impresa avesse utilizzato l’IVA a debito iscritta in bilancio per finanziare una parte delle sue attivi-tà in investimenti che non avevano poi portato ai risultati sperati, e il Fisco vedeva così scomparire soldi preventivati nelle proprie casse ma che, materialmente, non avrebbe mai più ottenuto. D’altro canto, quello che doveva essere un passo in avanti per l’Erario ha portato ad un appesan-timento delle procedure: ciò che prima si faceva in un solo momento, adesso lo si deve fare in due. La situazione attua-le è un campo di battaglia. Su un fronte sono schierate le imprese, preoccupate per la loro sopravvivenza, dall’altro lo Stato che reclama i propri utili. Una soluzione va trovata, e anche alla svelta. Che sia un’agevolazione per gli oneri di finanziamento o una maggiore flessibilità per i tetti massi-mi degli importi per cui poter chiedere una compensazione o addirittura l’ipotesi di ridurre di qualche frazione di pun-to percentuale l’imposta. Altrimenti, al termine dei giochi, purtroppo, coloro che pagheranno davvero il prezzo più alto saranno le PMI, che vedono la loro liquidità già forte-mente compromessa dal credit crunch, e, in ultima analisi, il cittadino medio. Le tasse infatti, vanno pagate. A chi le per-cepisce poco importa da quali tasche vengano presi i soldi. Se un solo soggetto viene meno, l’importo di quest’ultimo non viene abbonato. E’ solo ridistribuito tra un numero mi-nore di contribuenti.

A cura di Anna Chiara AfeltraMail [email protected]

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La finanza islamica

può essere attribuito a problematiche e limiti riscontrabili sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta.Per quanto riguarda il primo aspetto, la scarsa richiesta di strumenti finanziari è dovuto alla presenza sul territorio della prima, massimo seconda generazione, di migranti mussulmani interessati maggiormente dalle rimesse e dai sistemi di pagamento piuttosto che dall’opportunità di in-vestimento dei propri risparmi.L’ offerta, d’altro canto, è un aspetto che affronta due criti-cità dettate dal TUB: la prima riguarda la garanzia dei depo-sitanti che mal si concilia con il principio della condivisione dei profitti e delle perdite e la seconda alla separazione tra banca e impresa e i relativi vincoli partecipativi.Non poche sono le soluzioni promosse nei diversi paesi, sicuramente, però, con l’aumentare dei flussi migratori dai paesi islamici e con l’inarrestabile processo di globalizzazio-ne, il modello finanziario islamico si presenta oggi, come non mai, una strada di opportunità non più trascurabile.

A cura di Federico CiaralliMail [email protected]

Molteplici sono le differenze tra l’Occidente e il mondo ara-bo. Ciò appare ancor più evidente alla luce dell’attuale pe-riodo storico. Tuttavia, le difformità di cui trattasi non sono riscontrabili solo in ambito politico-culturale, investendo anche e soprattutto la stessa scienza delle finanze. Se, in-fatti, in Occidente, la filosofia su cui si basa il sistema eco-nomico è intrisa di concetti derivanti dall’illuminismo e dal liberalismo, tra i popoli islamici essa appare improntata ed orientata verso principi fideistici e religiosi che garantisco-no, conseguentemente, un contesto regolamentare favore-vole. I principali concetti coranici su cui la finanza islamica si fonda sono: Riba (divieto del tasso d’interesse), Gharar (divieto dell’incertezza), Maysir (divieto della speculazione) e Zakāt (la tassa islamica).La finanza islamica pare essere stata immune alla recente crisi che ha sconvolto i paesi in cui è prevalente la finanza convenzionale. Il valore stimato del complesso degli Sukuk (obbligazioni) e delle operazioni ammonta a circa duemila miliardi di dollari e ha registrato un incremento del 18% ne-gli ultimi 48 mesi.Dal punto di vista dei finanziamenti, lo strumento più utiliz-zato dagli istituti di credito è il c.d. Murabaha, con il quale le banche trasferiscono direttamente un bene reale al cliente applicando la maggiorazione prestabilita sul prezzo, dopo aver precedentemente acquisito la proprietà.La comunità mussulmana residente nell’Unione europea è di circa 13 milioni (circa il 4% della popolazione com-plessiva), ed è in continua crescita. Tuttavia le strutture e i mezzi con i quali è gestita la finanza islamica in Europa non sembrano sufficienti al fabbisogno finanziario di una tale porzione di popolazione. Ciò ha già indotto il legislatore britannico ad agire come first mover per rimuovere gli osta-coli fiscali e normativi che rendevano poco competitiva la commercializzazione di strumenti finanziari islamici. Oggi, questa situazione potrebbe rappresentare un terreno fer-tile per l’immissione di nuovi capitali anche all’interno del mercato finanziario italiano. E’ chiaro che, adottando una linea che ricomprenda offerte c.d. Sharia compliant, le ban-che nostrane attirerebbero maggiori clienti da quel 2% di popolazione di fede mussulmana presente in Italia. D’altro canto, seguendo i principi della finanza islamica, il capitale così depositato dovrà essere oggetto di impegno da parte degli stessi istituti di credito che dovrebbero reinvestirlo in attività compatibili con il Corano, determinando in questo modo un potenziale ostacolo per le scelte di investimen-to future. Il mancato decollo della finanza islamica in Italia

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«Il mercato si sta muovendo e la relativa scarsità dei capi-tali ha fatto selezione naturale e oggi abbiamo startupper bravi e competenti, ma la normativa italiana è troppo com-plicata. Troppa burocrazia uccide le startup. Ma la strada per cambiare la cultura imprenditoriale di questo Paese è lunga». A parlare è Luigi Capello, Ceo di LVentureGroup e fondatore di LUISS EnLabs.È noto come il tessuto produttivo italiano sia fondato sulle piccole imprese. Sono anche note le difficoltà che incontra-no queste imprese, soprattutto dopo la crisi del 2008, a ot-tenere finanziamenti dalle banche. E difficoltà ancora mag-giori riscontrano le imprese neo costituite, le c.d.startup.Proprio in riferimento alle startup di tipo innovativo sono dedicate alcune norme introdotte dal decreto legge n. 179/2012 (noto come “Decreto crescita bis”), adottato con lo scopo di fornire uno stimolo alla crescita economica del nostro Paese. Nel complessivo disegno del legislatore, l’e-quity crowdfunding è visto come uno strumento che può fa-vorire lo sviluppo delle startup innovative attraverso regole e modalità di finanziamento in grado di sfruttare le poten-zialità di internet.Ma cos’è l’equity crowdfunding? Si parla di “equity-based crowdfunding” quando tramite l’investimento online si acquista un vero e proprio titolo di partecipazione in una società: in tal caso, la “ricompensa” per il finanziamento è rappresentata dal complesso di diritti patrimoniali e ammi-nistrativi che derivano dalla partecipazione nell’impresa. Nella maggior parte dei Paesi in cui operano portali di crow-dfunding il fenomeno non è soggetto a regolamentazione ed è fatto pertanto rientrare nell’ambito di applicazione di discipline già esistenti. L’Italia, attraverso la Consob, è inve-ce il primo Paese in Europa ad essersi dotato di una norma-tiva specifica e organica. Normativa rivelatasi inadeguata e inapplicabile, con criteri stringenti che hanno avuto l’ef-fetto di “uccidere” il mercato nel suo stato primordiale. Me-diante lo sforzo compiuto da parte dell’AIEC, Associazione Italiana Equity Crowdfunding, la Consob ha approvato una riforma del regolamento, con la quale semplifica la discipli-na, puntando a ridurre i costi di raccolta e ad ampliare la platea dei soggetti che possono contribuire a finanziare i progetti d’impresa innovativi. È importante sottolineare che l’investimento in startup innovative presenta caratteristiche particolari e rischi eco-nomici più elevati rispetto agli investimenti tradizionali. In primo luogo, dato che una startup innovativa, in sostanza, offre un’idea e un progetto per realizzarla, la decisione se

investire oppure no, non si basa, come tradizionalmente av-viene, su elementi economici e razionali ma, inevitabilmen-te, sul nostro modo di apprezzare, anche emotivamente, il progetto che ci viene presentato. Questo costituisce forse uno degli aspetti più delicati. Difatti, una particolare tute-la è rivolta nei confronti degli investitori retail (cioè quelli diversi da banche, SIM, compagnie di assicurazione, etc.) i quali devono completare un vero e proprio “percorso di investimento consapevole”: un apposito questionario onli-ne da cui risulti che hanno preso visione delle informazioni messe a disposizione e che hanno compreso le caratteristi-che e i rischi dell’investimento in startup innovative, prima di poter accedere alla sezione del portale in cui è possibile aderire alle offerte.In conclusione, bisogna portare più attori nel mercato e au-mentare le dimensioni di quelli esistenti: le grandi imprese investono ingenti somme di denaro in attività di marketing e sono costantemente alla ricerca di nuovi modi per di-stinguersi dai concorrenti, investire in startup acquistando azioni offerte attraverso una campagna di equity crowdfun-ding può contribuire a perseguire obiettivi di brand equity e di innovazione. Necessitiamo di un’educazione all’investi-mento e di una disciplina normativa accattivante per com-petere globalmente e per cercare di divenire un vero polo attrattivo dell’innovazione.

A cura di Rocco MarchitelliMail [email protected]: @roccomarkitelli

Equity crowdfunding: ready for take off?

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BLOOMBERG

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Effetto Cina sulla volatilità

alimentavano senza alcuna cognizione la bolla speculativa continuando anche ad indebitarsi per fare profitto. Il levera-ge aveva raggiunto livelli esorbitanti toccando un ammon-tare pari al 3% del PIL nazionale. Dal 13 giugno, quando il mercato iniziava a mostrare i primi segni di cedimento, le autorità hanno cercato di fermare il crollo. Ingenti flussi di liquidità affluivano agli investitori istituzionali per mante-nere alta la domanda delle azioni mentre il Governo proi-biva ai grandi azionisti di vendere le proprie azioni per 6 mesi. Il principale meccanismo che avrebbe dovuto frenare il crollo è il “cuircuit breaker”. Quest’ultimo, studiato inizial-mente per fermare le contrattazioni in caso di bruschi crolli del mercato, è stato invece causa di maggiore volatilità nel mercato cinese sia nella scorsa estate che nello scorso gen-naio. Gli investitori cinesi infatti, preoccupati di non poter più vendere le proprie azioni dopo che il circuit breaker fos-se entrato in azione, erano portati a ingenti sell-off prima che lo stop arrivasse. Per il mercato cinese il meccanismo prevedeva uno stop del trading appena l’indice Shanghai Composite avesse perso il 5%, un livello troppo basso consi-derato il ristretto numero di azioni in circolazione e la gran-de volatilità che caratterizza il mercato azionario cinese. Il 5 gennaio l’incertezza sui ribassi incontrollati in Cina ha cau-sato violente vendite sulle borse occidentali: Piazza Affari, Londra, Francoforte, Parigi e Wall Street hanno tutte chiuso in ribasso. Il mercato azionario cinese ha una storia relati-vamente breve. La sua creazione fu segnata dalla nascita dei mercati azionari di Shanghai e Shenzhen nel 1990. Le numerose riforme che hanno riguardato sia l’economia in generale sia direttamente i mercati azionari hanno spesso causato euforia nei mercati con successivi crolli delle quo-tazioni. Nel suo percorso verso l’internazionalizzazione e la modernizzazione il mercato cinese dovrà ancora fare i conti con l’enorme ammontare di investitori inesperti, principali protagonisti del mercato azionario. La loro presenza può infatti portare ad irrazionali fughe dal mercato e massicci sell-off anche alla luce di piccole e fisiologiche variazioni del mercato. Quindi, fino a quando gli andamenti azionari sa-ranno guidati dall’irrazionalità e non dai fondamentali, ci si aspetta altre forti correzioni del mercato. Inoltre, data l’ina-deguatezza degli interventi delle autorità cinesi di fermare i crolli del mercato, non è da escludere che le conseguenze potrebbero riversarsi ancora sui mercati globali.

A cura di Antonio RiccoMail [email protected]

A gennaio, per la seconda volta in sei mesi, le performan-ce dei mercati azionari Europei hanno scontato gli avve-nimenti dell’estremo oriente. Un emblematico titolo di un articolo dello scorso agosto recitava “The dragon sneezes, Europe catches a cold” indicando per l’appunto le crescenti preoccupazioni che lo scoppio della bolla delle A-shares ci-nesi potesse creare in Europa. Il successivo raffreddamento del mercato cinese ha poi placato l’apprensione degli in-vestitori europei fino all’inizio del 2016. Il 5 gennaio infatti, nella prima seduta di trading dell’anno il CSI 300, indice re-plicante le performance di 300 azioni quotate nei mercati di Shanghai e di Shenzhen, ha ceduto il 7% della propria capitalizzazione, causato dal primo sell-off dell’anno e pro-vocando un effetto domino su altri listini mondiali. I dati macroeconomici parlano chiaro: la seconda potenza eco-nomica mondiale sta rallentando e dalle stime continuerà a farlo per i prossimi anni. Dopo anni di considerevole cre-scita, la crisi finanziaria del 2007 aveva già indebolito la Cina, ma solo nel 2014 si è registrata la più bassa crescita dal 1990. Il 2015 si è chiuso con una crescita annua del 6.9% e con un’inflazione decisamente in calo. Seppur la crescita risulti consistente comparata agli standard europei, non bi-sogna dimenticarsi che la Cina è ancora un emerging market con standard di crescita ben superiori a quelli registrati. Ai primi sintomi di rallentamento è corrisposta la reazione da parte di People’s Bank of China (PBOC). La banca centrale cinese, ha infatti più volte tagliato dal 2014 i tassi di rifinan-ziamento con l’intento di stimolare il credito in particolare alle piccole e medie imprese cinesi. Tuttavia i fondi sono confluiti principalmente alle big SOEs (State-Owned Enter-prises), imprese controllate dallo governo cinese. Infatti il controllo comunista cinese puntava a mantenere la stabili-tà del Paese, mantenendo un tasso di occupazione elevato (la Cina è infatti tra i Paesi mondiali con il più basso tasso di disoccupazione al mondo, circa il 4%). Il flusso di capitali della banca centrale anziché alimentare nuovi investimen-ti a lungo termine, ha soltanto gonfiato i salari. Il popolo cinese, storicamente popolo di risparmiatori, convogliava l’enorme ammontare di liquidità nel mercato azionario, in particolar modo nelle “A-shares”, azioni quotate in renmim-bi e principalmente accessibili agli investitori locali. Il Go-verno a sua volta promuoveva questi investimenti garan-tendo che il mercato azionario non sarebbe mai crollato. Così il prezzo di queste azioni in poco tempo ha raggiunto picchi storici, apprezzandosi del 150% in un solo anno. Gli investitori cinesi, l’80% dei quali sono piccoli risparmiatori,

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ECONOMICS

Leggendo articoli ed analisi sui mercati, oltre che alle oscil-lazioni di prezzo e ai volumi, molto spesso si sente parlare di volatilità. A molti questa parola può non dir nulla ma in realtà è tutto ciò che muove il mercato, è la quella scintil-la che tiene viva la borsa. La volatilità indica quanto si può muovere uno strumento finanziario e quindi è metro del rischio che quel determinato asset può avere. Ovviamente un investitore long term cercherà un beta minore rispetto all’indice di riferimento, cercando quindi un titolo poco vo-latile. Al contrario un trader cerca situazioni molto volatili come la rottura di importanti livelli storici o rumors su futuri dati macroeconomici di rilievo. Non è affatto facile stimare la variabilità di un titolo e gran parte dei forecasts si basano proprio sulla sua proiezione nel tempo. Vi possono essere strumenti che di propria natura sono volatili ed altri che in base alle condizioni macroeco-nomiche possono variare. Inoltre, ci sono alcune situazioni, le preferite dagli speculatori a breve termine, in cui vi è un titolo che si è mantenuto stabile nel tempo ma che all’im-provviso ha un’esplosione di volatilità e quindi una forte oscillazione di prezzo che può portare ad ottimi guadagni. Gli operatori nel mercato utilizzano varie formule per sti-mare il rischio e la variabilità, le più utilizzate ed affidabili sono l’Average True Range (ATR) e il VIX.Il primo, indica la volatilità storica, ossia, quanto lo strumen-to finanziario si è mosso nei giorni precedenti, andando così a cavalcare il momentum che si è creato. Non è altro che la media, generalmente a 14 giorni, del range tra il mi-nimo e il massimo che si è registrato giornalmente. Questo indicatore indica la storia, il bias di prezzo ma per quanto preciso è un lagging indicator, in quanto mostra ciò che è già successo. Il VIX, invece, misura la volatilità implicita partendo dall’an-damento delle opzioni.E’ un indicatore che misura il prezzo che gli operatori sono stati disposti a pagare per assicurarsi la facoltà ma non l’obbligo di scommettere al rialzo e al ribasso sull’indice S&P500. Questa opportunità diventa più appetibile, man mano che la volatilità aumenta, in quanto si può sceglie-re di entrare sul mercato in un’operazione potenzialmente più redditizia in caso di esito positivo. Per questo motivo il prezzo delle opzioni e la volatilità dell’indice sono positiva-mente correlati. Il VIX al contrario dell’ATR, stima la volatilità futura, in quanto è quella sulla quale scelgo di investire. Osservando il VIX e l’andamento del S&P500 si nota che quando il primo sale, il secondo scende, venendosi a creare

una correlazione negativa. Non a caso questo indicatore è chiamato “ l’indice della paura”.In borsa non esistono assiomi e quindi tutto può variare e ciò che ha funzionato nel passato può non funzionare nel futuro. Tuttavia l’ATR e il VIX statisticamente in un modello probabilistico si sono rivelati ottimi strumenti nelle mani degli operatori.

A cura di Antonio ManganelliMail [email protected]

Analisi della volatilità implicita e storica

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ECONOMICS

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Davide e Golia dell’economia: la nascita irlandese e il rallenta-mento delle tigri asiatiche

zato per indicare le economie di quattro paesi (Taiwan, Co-rea del Sud, Singapore e Hong Kong) che tra gli anni 1960 e 1990 hanno promosso percorsi di industrializzazione, cam-biamento strutturale e crescita realizzando un boom eco-nomico durato fino alla crisi del 1998. Il rallentamento della Cina, il problema delle svalutazioni monetarie e la caduta del prezzo del petrolio hanno aperto una voragine nell’eco-nomia mondiale. Questi eventi hanno travolto le tigri asia-tiche, da sempre nell’orbita dell’economia cinese, restando senza traino e avendo come ultima scialuppa la ASEAN, un’organizzazione economica con lo scopo di promuovere la cooperazione e l’assistenza reciproca fra gli stati membri. Il presidente cinese Xi Jinping, avviando il cosiddetto “new normal”, un periodo di crescita economica più contenuta nel tentativo di focalizzarsi sulla qualità della crescita, ha messo in difficoltà tutti i paesi emergenti asiatici.La bruciante sconfitta del partito di governo coreano alle elezioni per l’assemblea nazionale complica le strategie economiche promosse dal presidente Park Geun-hyee e come se non bastasse i rapporti tra Corea del Nord e Corea del Sud si inaspriscono sempre di più. La debole doman-da globale continua a mettere il freno a Taiwan; secondo quanto comunicato il governo Taipei ha annunciato il quat-tordicesimo mese consecutivo di declino dell’export. Altri segnali di rallentamento monetario sono giunti dalla banca centrale di Singapore, scesa in campo per dare una mano all’economia del paese a causa di una brusca frenata del PIL. La recente decisione dell’Autorità Monetaria di Singa-pore ha messo sotto pressione le valute della regione asiati-ca e alcuni partecipanti al mercato temono un ritorno della svalutazione competitiva. Infine, sulla già debole congiun-tura thailandese, la banca centrale ha abbassato di nuovo le stime di crescita economica. Appare chiaro che l’Irlanda si conferma l’economia a cresci-ta più rapida, battendo i ritmi asiatici. Così la storia si ripete: Davide contro Golia, Irlanda contro Asia… Il finale già lo conosciamo.

A cura di Ettore Maria Ramerino e Ludovica MancioppiMail [email protected] [email protected]

Cosi come la fenice risorge dalle sue ceneri, l’Irlanda ritorna più competitiva che mai sullo scenario economico mondia-le con un rialzo del PIL del 6,8%, un incremento che non si vedeva dai tempi in cui fu definita la “Tigre Celtica”, per evidenziare la sbalorditiva capacità di attrarre capitali esteri che ha portato il paese ad una rapida crescita economica a cavallo tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio. Infatti, tra il 1995 e il 2000 in Irlanda c’è stato uno “spillo-ver effect”, grazie agli investimenti diretti esteri (IDE), al ro-vesciamento della politica nazionalistica di De Valera e ad una legislazione a favore delle aziende: da qui il boom eco-nomico. Prima dello scoppio della crisi dei mutui subprime il governo e le istituzioni irlandesi sono riuscite ad attirare nel proprio paese ingenti capitali di società internazionali soprattutto americane, rendendo l’Isola di Smeraldo su-scettibile alla volatilità dell’economia statunitense. Gli in-vestimenti diretti esteri si sono rivelati un’arma a doppio taglio: nel 2008 su un totale di 1000 multinazionali presen-ti in terra irlandese 464 erano statunitensi. Questo trend ascendente è stato capovolto da una crisi che ha messo in ginocchio il paese di Joyce, causata dalla vulnerabilità dell’economia irlandese che si reggeva su un sistema ame-ricano ormai marcio. Va ricordato che la crisi dei debiti so-vrani ha costretto il Paese a chiedere aiuti internazionali per 67,5 miliardi attraverso un piano di salvataggio, costato una dolorosa austerity. Oggi la “Tigre Celtica” torna a ruggire, passando da fanalino di coda a carro trainante dell’Europa: a sostenere il PIL sono le multinazionali, i giganti del web e Big Pharma (industria farmaceutica). Il risultato è che i con-ti pubblici sono tornati in ordine e l’economia ha messo le ali. Questa fase ora è in bilico a causa dello spettro Brexit, che potrebbe infiammare gli animi e far nascere una nuova guerra d’indipendenza tra cattolici e protestanti, e di uno scenario politico instabile. Il Parlamento è frammentato e paralizzato: la soluzione più semplice ma allo stesso tempo remota potrebbe essere una coalizione tra i due maggiori partiti Fine Gail e Fianna Fail, due schieramenti moderati e storicamente contrapposti. Mentre l’economia irlandese avanza ininterrottamente, dall’altra parte del mondo si registra il rallentamento delle tigri asiatiche. Al riguardo, appare utile ricordare che col ter-mine “Tigri asiatiche” o “Quattro dragoni” è il termine utiliz-

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INSIDERS

How to be successful in the hedge fund industry: intervista a Joseph di Virgilio

differenti necessità - a loro volta operanti sia nel mercato pubblico che in quello privato – hai modo di padroneggia-re le dinamiche del settore.Questo tipo di conoscenza è inestimabile per me, perché oggi stesso è parte integrante dei miei processi di investi-mento.

3. Quali sono state le principali motivazioni che lo hanno spinto a lasciare il mondo dell’Investment Banking per de-dicarsi a quello del Fund Management?

Quando ero un investment banker, sapevo che sarei finito “dall’altra parte”, perché mentre amavo finalizzare grandi affari ed ero orgoglioso della loro riuscita, allo steso tem-po sapevo che la mia creatività sarebbe stata limitata dagli standard dell’investment banking. D’altro canto l’Hedge fund management mi avrebbe permesso di sviluppare temi con metodologie di investimento singolari: è anche per questa ragione che se ne parla come di “un’industria alternativa di investimento”. Per esempio, mi viene riconosciuto di aver lanciato il primo vero Hedge Fund basato sulla sostenibilità “verde” in Ame-rica nel 2006. Sono anche orgoglioso di essere stato un in-novatore in questa direzione, perché ero (e sono tuttora) convinto che gli investimenti nell’ambito del sostenibile, sarebbero divenuti più popolari tra gli investitori nel corso degli anni. Oggi abbiamo un gran numero di hedge anche considerevoli di questo tipo operanti in tutto il mondo (RSI, ESG or Impact investing). Pensa che le stesse Nazioni Uni-te hanno dato vita ai “PRI” (Principles for Responsible Invest-ment, ovvero principi per l’investimento responsabile), e cioè ad un gruppo all’interno delle Nazioni Unite che promuo-vono simili “regole” di investimento, incentivando le com-pagnie ad aderire ai parametri stabiliti dal PRI se vogliono che Fund Manager del sostenibile, come il sottoscritto, in-vestano in esse. Questo dimostra quanto capitale sia stato allocato in queste strategie.

4. Parliamo del suo nuovo fondo che verrà lanciato a bre-ve. Sarebbe interessante discutere le strategie adottate, sia per quanto riguarda i settori in cui sono concentrati gli investimenti che i tratti salienti che lo distinguono dal precedente fondo.

1. Chi è Joseph Di Virgilio?Sono un Hedge Fund Manager a NYC, nonché commen-tatore finanziario ed accademico nei campi dell’economia neoclassica e comportamentale. Come avrete potuto ap-purare dalla conferenza, sono una persona alla quale piace condividere le sue esperienze ed aiutare gli altri a miglio-rarsi, dando consigli sia nell’ambito della finanza che com-portamentali.

2. Nella sua carriera, dal 2001 al 2005, ha ricoperto la po-sizione di VP of Deutsche Bank’s Global Power & Utility Investment Banking Group. Cosa può raccontarci circa questa sua importante esperienza?

Questa esperienza fu cruciale per me, perché mi familia-rizzò con le attività del mercato primario del settore in cui oggi stesso opero (investment management a Wall Street). Quando sei direttamente coinvolto nella definizione di af-fari come Fusioni/Acquisizioni, IPOs, ed altre transazioni di investment banking con società di diverse dimensioni e con

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Come avrete capito, sono un investitore che punta sul so-stenibile. “Sostenibilità” è davvero un termine ampio per-ché, a pensarci, molti settori hanno caratteristiche affini. Anche quello del carbone ad esempio, se considerate la relativa tecnologia pulita o il sequestro dell’anidride carbo-nica. La biofarmacologia è un altro esempio, con le nuove tecnologie e cure etc. Personalmente non investo nel setto-re delle biofarmacologie, dato che non sono né un dottore né uno scienziato farmaceutico, e non investo in cose che non comprendo pienamente. La mia strategia è tematica, nella misura in cui essa è collegata direttamente alla cre-scita esponenziale della popolazione della terra: noi difatti crediamo che I settori che saranno maggiormente impatta-ti da questa crescita saranno cibo, acqua ed energie. Credia-mo inoltre che settori quali prodotti agricoli, rifiuti, nuove tecnologie (pulite), infrastrutture, industriali, chimici e tra-sporti siano cruciali per questo trend. Noi abbiamo un approccio basilare, di tipo fondamentale e top-down, con una copertura sia qualitativa che quan-titativa. Noi guardiamo a società pubbliche quotate che operano in questi settori, ma che devono rispettare deter-minati criteri affinché possano interessarci. Questi criteri riguardano la capitalizzazione di mercato, la percentuale di guadagni derivante da attività riferibili alla sostenibilità, ecc. Ci sono fondi che affermano di avere un approccio so-stenibile, soltanto perché investono in GE (General Electric) perché questa produce mulini a vento. Ma i guadagni della GE in questo settore sono minimi in relazione alla sua tota-le operatività. Noi siamo più inclini al “pure play”, per cui ci concentriamo su società che hanno una loro nicchia, e che possano permetterci strategie del tipo long/short. Noi vogliamo identificare e sondare le “long opportunities” e finire per vendere quelle in cui non crediamo. Il nuovo fondo europeo sarà lo specchio di questa mia strategia di hedging. Sarà regolato dall’autorità finanziaria europea e disponibile sia per gli investitori istituzionali che per quelli retail in Europa.

5. Quali sue esperienze vuole citare che più le hanno per-messo di maturare e crescere durante la sua carriera pro-fessionale?

Ricollegandomi alla risposta #2, l’esperienza in entrambi i mercati (primario e secondario) è molto importante se una

persona vuole capire il mondo della finanza nei suoi minimi dettagli. Inoltre, è importante essere creativi nella misura in cui si riesca sia a generare idee innovative che trasmetterle al mondo, differenziandosi dal resto della folla.

6. Nella conferenza, abbiamo discusso molto di “Finanza comportamentale”. Può riassumere il concetto, chiaren-do in cosa consiste e quanto possa essere importante per un investitore?

In breve, la disciplina di finanza comportamentale studia come gli investitori interpretano sia i dati economici che quelli di mercato, e come agiscono su di essi. Cerca inoltre di identificare i comportamenti e le determinanti delle de-cisioni irrazionali degli investitori, che potrebbero portare singoli stock o indici ad essere ipervenduti o ipercomprati deviando così dal quadro generale.

7. Cosa si prova ad essere classificati tra i primi dieci hedge fund manager con un rendimento netto pari al 19.92%?

È una soddisfazione aver raggiunto questo traguardo così importante. Sono orgoglioso del duro lavoro che il mio team ed io abbiamo fatto per perfezionare il nostro proces-so di investimento e la nostra strategia in generale.Davvero tanto è stato il lavoro, tantissime le ore spese, e tantissimo lo stress… Però, alla fine, è tutto valso la pena, dato che siamo riusciti a soddisfare le attese dei nostri in-vestitori.

A cura di Elisabetta Lizzi e Andrea MarchesaniMail [email protected] Mail [email protected]

INSIDERS

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INSIDERS

How to be successful in the hedge fund industry: l’esperienza di Marco Doni

di tecniche semplici ma efficaci, determina il principale vantaggio competitivo di un trader e che la sua bravura è commisurata alla capacità di riconoscere in tempo una stra-tegia perdente. Gli errori più comuni si realizzano quando si fanno troppe operazioni contemporaneamente, quando il numero di contratti è troppo elevato rispetto al portafoglio e quando si chiude con basso profitto o con un’alta perdita. In particolare, è fondamentale chiudere un’operazione quando la perdita è bassa  e  considerare questa come un semplice indice statistico nel lungo periodo, eliminando l’emotività ad essa associata a vantaggio della profittabilità. Lo strumento finanziario che predilige è costituito dalle opzio-ni. Tale scelta è giustificata da una serie di motivi che vanno dalla possibilità di utilizzare la leva nella creazione di attivi, alla capacità di fare in modo di conseguire guadagni in un mercato laterale. In particolare, si fa portatore dell’introduzione delle opzio-ni con scadenza weekly in Italia. Tali strumenti, inizialmente sottovalutati, si stanno diffondendo sempre più per la ve-locità delle dinamiche che si completano in una settimana anziché in un mese, aumentando l’operatività di quattro volte a vantaggio dell’equity di portafoglio. Forte di un’esperienza consolidata e di un bagaglio di co-noscenze notevoli, il consiglio che Marco Doni si sente di dare a noi giovani studenti di finanza e, in generale, a tutti coloro che sono incuriositi dal mondo del trading, è di “non limitarsi alla teoria, che rimane comunque un aspetto neces-sario per la formazione, ma di approcciarsi a questo mondo praticamente, al fine di riuscire a gestire i propri investimenti personalmente, affidandosi a percorsi seri tenuti da traders che hanno ottenuto risultati positivi nel corso del tempo”.

A cura di Elisabetta Lizzi e Andrea MarchesaniMail [email protected] [email protected]

In occasione del Trading Contest e della conferenza “How to be successful in the Hedge Fund industry”, organizzati dall’as-sociazione studentesca University Finance Lab, abbiamo avuto modo di intervistare e conoscere meglio Marco Doni, master trading coach, trader e formatore professionista specializzato in opzioni americane. Nato in provincia di Mantova 49 anni fa, M.D. si appassiona dapprima al mondo delle azioni, grazie al padre che opera-va in Borsa con i propri risparmi. Dopo aver lavorato per 12 anni nel mondo dell’Information Technology, ricoprendo il ruolo di Project manager e Team leader, comincia ad informarsi e a frequentare corsi di tra-ding negli Stati Uniti, che in un secondo momento, gli per-metteranno di divenire esperto al punto da intraprendere una vera e propria attività professionale. Da questo percor-so nasce appunto la decisione di fondare una prima e vera scuola di trading online, universitrading.com, insieme ad un suo socio ed amico Bruno Moltrasio.Durante la sua carriera condivide idee e collabora con personalità di spicco del panorama finanziario del calibro di John Carter, Ben Sheridan e Doc Severson, dai quali im-para, in particolare, che il “Keep it simple”  e, cioè, l’utilizzo

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LEGAL

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lante soluzione che, guarda caso, proporrebbero a me come a mia nonna o a mia figlia…proprio per questo il legislatore ha predisposto un questionario da compilare insieme al cliente per attribuirgli un “profilo di rischio”. Questo modulo contiene informazioni socio economiche relative all’investitore, livello di conoscenza di strumenti finanziari, obiettivi di investimento etc. Per chi fa bene il lavoro di consulente finanziario è sempre stata centrale l’esigenza di conoscere approfonditamente il proprio cliente ed è quindi fondamentale chiedere:1. composizione e situazione familiare2. tipo di attività lavorativa dei componenti redditi, situazione debitoria 3. esigenze ad es. accantonare liquidità per gli studi futuri dei figli, proteggere la famiglia in caso di premorienza di quello che in inglese si definisce breadwinner (colui che apporta il maggior reddito), acquisto immobiliare per se o per i figli, inte-grazione della pensione, pianificazione successoria etc... 4. attuale situazione finanziaria: investimenti in essere, redditi da fabbricati etc...A questo punto il consulente finanziario ha a sua disposizio-ne gli elementi per verificare l’efficienza delle scelte di investi-mento pregresse sia in termini assoluti (costi dei prodotti ed efficienza in relazione a prodotti analoghi) che relativi. Ovvero c’è congruenza tra investimenti ed esigenze?Un classico caso  di inefficienza è ad esempio la scelta del comparto prudente di un fondo pensione con contraente giovane (30/40enne) o la mancata predisposizione di volontà testamentarie anche nel caso di clienti novantenni..(parlo per esperienza diretta!). Solo ora quindi un consulente finanziario può produrre una proposta di investimento correlata alle esi-genze specifiche del cliente e della sua famiglia. Il lavoro del consulente finanziario non finisce qui ma è appena iniziato in quanto sarà necessario monitorare nel tempo sia gli investi-menti quanto eventuali cambiamenti di rotta delle esigenze familiari. A cura di Guido ValenzaMail [email protected] 335 66 09 685

Iscritto Albo Unico dei Consulenti Finanziari con delibera Consob 7424

Nel numero scorso ho accennato allo scarso livello di alfabetiz-zazione finanziaria degli italiani e della conseguente necessità che uno Stato “civile” introduca delle ore di formazione econo-mico/finanziaria nei programmi delle scuole dell’obbligo. Ho poi enunciato i 3 principi di un buon investimento: diversifica-re, comprare in basso e vendere in alto (banalità che vengono però spesso disattese dal risparmiatore italico). Vediamo ora quali sono (se ce ne sono) i vantaggi che ho nel servirmi del-la consulenza di un professionista per la gestione finanziaria/previdenziale/assicurativa della mia famiglia. Cominciamo con le statistiche: analisi di mercato (GFK Eurisco) indicano che chi si avvale di un consulente finanziario lo preferisce come canale di informazione in materia di gestione del denaro ri-spetto agli altri disponibili (sportello bancario/postale, amici/parenti, internet, tv, stampa specializzata, agente assicurativo). Ovviamente tutti coloro che non si avvalgono di questa figu-ra professionale non possono fare paragoni. Vediamo quindi nel concreto come si svolge il mio lavoro ed in che consiste fare consulenza finanziaria. Per prima cosa il consulente fi-nanziario non è colui che mi consiglia i titoli migliori da com-prare o che sa come andrà la borsa quest’anno…per quello c’è il mago! Quando incontro un cliente per la prima volta è mio dovre (direttiva comunitaria sui servizi di investimento Mifid, Markets in Financial Instrument Directive) fare una se-rie di domande per conoscere chi ho davanti per un semplice motivo: non esiste il miglior strumento di investimento, esiste una soluzione di investimento specifica per le esigenze di quel singolo risparmiatore in un dato momento della sua vita. Ma se non so nulla di lui come faccio a conoscere le sue esigenze? Eppure a volte capita di rivolgersi ad un intermediario finan-ziario per esigenze di investimento e sentirsi proporre una bril-

La consulenza finanziaria questa sconosciuta 2

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Meizu è una delle numerose aziende cinesi che si stanno af-facciando sul mercato degli smartphone, ponendosi come validi competitors dei colossi del settore, Apple e Samsung. Tuttavia, Meizu sembra avere tutti i presupposti per con-quistare anche ampie quote di mercato o quasi. Meizu Technology Co., Ltd. è un’azienda cinese di elettroni-ca di consumo con sede a Zhuhai, nella provincia di Guan-gdong, in Cina. Fondata nel 2003 da Jack Wong, Meizu ha iniziato come produttrice di dispositivi portatili per la ripro-duzione audio.Il primo smartphone è stato commercializzato nel 2008, e, in qualche anno, l’azienda cinese è riuscita ad implemen-tare il modello, sviluppando un device dalle caratteristiche avanzatissime.L’ultimo modello Meizu Pro 5, in commercio da qualche mese, ha, infatti, mostrato tutti i punti di forza della com-pagnia orientale, che, nonostante in passato fosse stata accusata di aver sfacciatamente imitato i modelli di Apple, creando delle brutte copie degli iPhone, non si è lasciata intimidire e, dall’essere pressoché sconosciuta in Europa, è riuscita a espandersi e a conquistare acquirenti anche in Italia. Il brand ha saputo distinguersi nel panorama Android, po-nendosi come valida alternativa a Hauawei, Honor e Xiaomi, dai quali si contraddistingue per gli elevati standard tecno-logici e soprattutto di design. Lo scorso 13 aprile è stato presentato il nuovissimo model-lo Meizu Pro 6, a soli 7 mesi dal lancio di Meizu Pro 5. In atte-sa di scoprire il riscontro che avrà il nuovo smartphone top di gamma sul mercato occidentale, la domanda che sorge spontanea è: cosa rende Meizu un temibile competitor per i big occidentali e coreani? Innanzitutto la scelta di un design curato e solido: esteti-camente simile all’iPhone 6S Plus, l’ultimo modello si carat-terizza per la cover realizzata per il 98% in metallo,  in cui l’attenzione costruttiva si posiziona ai massimi livelli, con bordi laterali del display ridotti al minimo spessore e arro-tondati, per conferirgli una forma armonica e compatta. Il display è da 5.2 pollici full HD e la particolarità risiede nel fatto che il dispositivo è dotato di una serie di sensori che rendono possibile il tocco aggiuntivo, per attivare funzioni estese.La fotocamera posteriore, da 21 megapixel con apertura focale f/2.2, autofocus laser e flash ad anello a 10 LED, offre ottime prestazioni con messa a fuoco rapidissima.Una delle maggiori peculiarità dello smartphone risiede nel-

le caratteristiche hardware: la batteria è dotata di supporto alla ricarica rapida ed inoltre il Meizu è il primo smartphone al mondo con processore deca-core. Questo permette di migliorarne le performance, riducendone e bilanciandone i consumi: quando si naviga in siti o si utilizzano applicazioni poco pesanti, in termini di richieste, entrano in gioco i core più bassi, mentre quelli più alti intervengono in caso di ap-plicazioni che richiedono maggiori consumi. Il software offre un’interfaccia basata sul principio “more is less”, senza tante app preinstallate in modo da lasciare pie-na libertà di scelta all’utente.Tuttavia la vera forza di Meizu risiede nel basare gran parte della propria strategia competitiva sul prezzo e sull’assi-stenza completa fornita ai suoi clienti: la versione più costo-sa, da 64 GB, si potrà acquistare negli USA al prezzo di 430 dollari, che, al cambio, corrispondono a 390 euro, mentre quella da 32 GB sarà in vendita a 390 dollari, corrispondenti a 350 euro. Inoltre, anche in Italia, Meizu garantisce, trami-te il proprio distributore, assistenza completa alla clientela, fattore che la contraddistingue da altre aziende cinesi che, in Italia, non hanno ancora gli strumenti per tutelare i pro-pri clienti attraverso servizi di assistenza. Con più di 2000 dipendenti e 1000 negozi fisici, l’azienda è al momento ufficialmente inserita in numerosi mercati fra cui Russia, Francia e Italia e vanta un incremento delle ven-dite del 540% rispetto al 2014. Che sia l’inizio di una rapida scalata verso il successo? La sfida è lanciata.

A cura di Francesca SossellaMail [email protected]

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La rapida ascesa dei “cina-fonini” Meizu

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