DISTACCO E PERDITA NELLA LETTERATURA PER L’INFANZIA ... · pone il legame fraterno nella sua...
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DISTACCO E PERDITA NELLA LETTERATURA PER L’INFANZIA:
ELEMENTI DI ANALISI ED ESEMPI SIGNIFICATIVI
di Katia Scabello Garbin
“Non c’è nave che possa come un libro
portarci nelle terre più lontane,
non c’è corsiere pari ad una pagina
di poesia che balza e che s’impenna.
Questo viaggio può farlo il miserabile,
senza l’oppressione del pedaggio:
è assai frugale il carro
che trasporta l’anima dell’uomo”
(Emily Dickinson)1
La tematizzazione della perdita, del distacco, della morte, può trovare molteplici percorsi di analisi,
attraversando differenti discipline e saperi. Fra questi, la letteratura permette di condurre la
riflessione oltre il testo originale, offrendo percorsi elaborativi, meditativi ed interpretativi portatori
di un’importante valenza educativo-formativa.
Nel suo essere testimonianza ed invenzione, nel suo sollecitare un’interpretazione e una ricerca di
significato, la letteratura fornisce un contributo immancabile alla costruzione di senso, nei modi
propri e specifici di invitare il lettore a partecipare ad un viaggio in cui non rimanere semplice
passeggero, ma protagonista, co-autore: “L’opera letteraria è un particolare spazio comunicativo nel
quale Autore e Lettore intervengono in una reciprocità tale che essa trascina con sé sempre la
singolarità dell’incontro”2. L’incontro con il testo letterario può dunque dimostrarsi spazio
privilegiato per un confronto con la propria e l’altrui finitudine, collocando il lettore in un ambito di
riflessione protetto dalla fictio, dalla finzione narrativa, permettendo di raggiungere, talvolta, spazi
d’immaginazione negati dalla realtà dell’esistente. La letteratura può permettersi il privilegio, come
l’arte in generale, di immaginare la morte, di inventarle un “luogo” di espressione, di darle parola
senza cadere nel delirio di follia in quanto Autore e Lettore accettano, di comune accordo, di
condividere uno spazio d’invenzione circoscritto, al termine del quale non è certo negata la dura
realtà della morte.
“Raccontare la morte significa allora, prima di tutto creare nuovi sfondi di senso all’interno dei
quali collocare la nostra narrazione. Sfondi precari, certamente, che debbono trovare la forza di
rifiutare la tentazione dell’onnipotenza e del totalitarismo”3.
Risulta piuttosto consueto imbattersi in racconti, non appartenenti a generi letterari specifici quali il
noir o l’horror ed il thriller, in cui l’incontro con la morte si intreccia con le trame narrative più
1 E. Dickinson, Poesie, Cologna ai Colli (Vr), Demetra, 2000, p.110. 2 D. Lombello Soffiato, La narrativa fantastica: strumenti per l’analisi, Padova, Cleup, 2006, p.1. 3 R. Mantegazza, Pedagogia della morte, Troina (En), Città Aperta, 2004, p.156.
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differenti: immancabilmente fa capolino la sua presenza, il suo intervento, con toni più o meno
marcati, con un coinvolgimento diversificato in relazione alle vicende ed ai profili dei protagonisti.
Che cosa spinge molti autori ad inerpicarsi in percorsi narrativi in cui il confronto con la morte è
obbligato, voluto, ricercato?
David Almond, apprezzato autore di libri per ragazzi e giovani-adulti, amato dal giovane pubblico
di lettori per le intriganti trame dei suoi racconti, in un’intervista pubblicata dalla rivista
“Fuorilegge”, così giustifica tale tendenza: “La presenza della morte enfatizza il miracolo della vita,
il buio esiste perché esiste la luce. Fuori c’è il sole, noi siamo qui a chiacchierare, tutto questo è
fantastico, è vita. Ma sappiamo che poco più in là ci può essere la morte. E’ il rapporto tra le due
cose che dà loro un senso”4. Il mistero della morte affascina Almond quanto quello della vita, in una
vorticosa tensione a rintracciare, negli anfratti dell’esistenza, le linee che legano una vita all’altra: è
quanto emerge, con particolare insistenza, nel racconto, fortemente autobiografico, Contare le
stelle5, in cui la voce stessa dell’autore riveste il ruolo di narratrice delle adolescenziali vicende del
giovane David, nel passaggio dall’infanzia verso un mondo adulto da capire, da squarciare o,
semplicemente, da accettare. In tutto questo, cos’è la morte per Almond? “-La morte è sapere che
stai per morire- dice mamma.- È vedere la morte e la vita nello stesso momento, senza morire e
senza vivere. È aspettare l’ultimo respiro, mentre i morti e i vivi sono tutti intorno a te, ti
accarezzano e ti sussurrano: «Va tutto bene, mamma. Va tutto bene.» Ma non è possibile restare
aggrappato all’ultimo respiro. Devi morire”6.
Contrariamente alla sincera consapevolezza sulla finitudine espressa in molta Letteratura di
accertata qualità stilistica, nella nostra società, occidentale contemporanea, si é radicata l’idea fatua
dell’immortalità, nella tensione continua verso un edonismo privo di limiti, nel mito dell’eterna
giovinezza che maggiormente rafforza il tabù della morte, nel progresso tecnologico e scientifico,
unico credo per la risoluzione d’ogni problema.
Reduci da una cultura materialista che, a partire dal positivismo, ha operato per la negazione di una
realtà ultraterrena, con la conseguente perdita di quella familiarità per il culto dei morti, sembra ora
di vivere in una sorta di “non-problema”, come Pierre Chaunu ben sostenne quando affermò: ”Non
potendo scacciare la morte dalla vita, l’avevamo eliminata dai nostri pensieri, dai nostri
comportamenti sociali”7.
Paradossalmente ciò che pone in scacco il nostro sapere é che, a fronte della certezza assoluta di una
realtà che accomuna ogni uomo e donna indistintamente, pareggiandone le differenze d’ogni forma
4 Intervista a David Almond, “Fuorilegge”, n.1, 2004, p.17. 5 D. Almond, Contare le stelle, Milano, Mondadori, 2002. 6 Ivi, p.138. 7 P. Chaunu, P. Ariès, storico della morte, in M.Spinella, G.Cassanmagnago, M.Lecconi (a cura di), La morte oggi, Milano,
Feltrinelli, 1985, p.34.
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e genere (solidarietà della morte), vi é il silenzio più totale sulla singola esperienza. Nessuno può
raccontarci della propria morte: possiamo solo fare esperienza della morte d’altri, seppur fino ad un
certo punto, oltre il quale il racconto tace nel modo più completo, assoluto, perfetto.
Ma se davvero la morte é l’esperienza che accomuna tutti gli esseri viventi, l’uomo si distingue per
la sua capacità di parlare, di riflettere, di pensare. Le altre specie viventi non sanno di morire,
l’uomo sì, perciò, nel corso dei secoli, é stato capace di elaborare il lutto inventando le vie più
consone per affrontare l’inevitabile.
La cultura, attraverso i rituali, le tradizioni, il culto di chi già “non c’era più”, trovava i modi di un
“essere ancora” che rendeva l’esperienza della morte, oltreché familiare, preparata e, per certi
aspetti, meno traumatica, senza per altro negare il dolore del distacco8. Il distacco stesso era vissuto
in un clima di cura familiare, di pietas partecipata e condivisa; l’angoscia di separazione trovava,
nella coesione del gruppo familiare e sociale, uno strumento valido per “addomesticare la morte”9.
La contemporaneità, all’inverso, ci fornisce quotidianamente la prova di una privatizzazione della
morte, mediante l’ospedalizzazione e la riduzione della stessa ad un rapporto medicalizzato. Il
rischio, che per molti diviene realtà, é di un abbandono alla propria sorte: l’emarginazione
dell’uomo nel momento più difficile, più temuto, il silenzio sterile di fronte all’epifania della morte.
Ed ecco dunque la “coerenza” di un non-parlare, non-dire, non-raccontare la morte, quasi a
ricercare, così, una via per allontanarla, esorcizzando il pensiero, lasciandosi poi scaraventare dalla
sua travolgente e sconvolgente potenza, quando ad esserne toccati sono i nostri affetti più cari.
La grave conseguenza é che estraniarsi dal pensiero della morte corre il rischio di divenire motivo
di “estraneità anche nei confronti di molti nostri amici”10
: rinnegare la nostra morte induce a non
riconoscere la profondità e l’inestimabile valore di ciò che ci lega agli altri.
C’é dunque bisogno di parlare della morte, non certo per un senso del macabro o per un gusto
dell’horror, al contrario: dare la parola alla morte è consentire all’uomo, non solo di convivere con
essa, non solo di darle un volto più familiare in grado di contenere l’angoscia dell’inevitabile, ma,
al di sopra di tutto, per ritrovare un senso, un significato che possa ulteriormente illuminare il
profondo senso della vita.
8 Secondo il parere di P. Pira e L. Venini, ogni forma culturale, sia a livello individuale, nelle produzioni artistiche, sia a livello
sociale, nei riti e nei miti, può considerarsi come la volontà ed il tentativo da parte dell’uomo di contenere creativamente, in una
situazione esistenziale, ciò che oscilla tra i poli opposti di essere e non essere.
P. Pira, L. Venini, Le immagini e il vissuto della morte, ivi, p.143. 9 Il ruolo della religiosità popolare, di radice cristiana, è sempre stato quello di mantenere vicina la presenza dei defunti
(originariamente le stesse sepolture avvenivano nel giardino intorno alle chiese); si ricordino inoltre i molteplici culti agresti pre-
cristiani, in cui si invocavano i morti a difesa del raccolto e contro le forze del male.
F. Salimbeni, Il tema della morte nei recenti studi italiani, ivi, p.29. 10 C.M. Martini, La speranza oltre la morte, ivi, p.50.
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Ecco dunque il valore della “buona morte”: aprire lo sguardo e la riflessione sul “buon vivere”.
Perché negare la realtà del dolore, della sofferenza, della perdita, del distacco, se non anche della
morte, così connaturati alla vita umana? Perché lasciare in contenzioso un’esperienza che
inevitabilmente ogni essere umano incontrerà nella propria esistenza terrena?
La cura, la protezione alla quale siamo chiamati verso i più piccoli, i più giovani, ci impone di
riflettere, di cercare le vie più adatte per un incontro sereno con le “numerose morti” di cui é ricca la
quotidianità, siano esse piccoli o grandi fallimenti, perdite, rinunce, fino alla morte corporale
propria e degli altri.
San Francesco d’Assisi è d’esempio nel definire “sorella” la morte, con la giusta intuizione che
pone il legame fraterno nella sua originalità: la comunanza con la nascita.
Il mistero della nascita ed il mistero della morte non sono separati, ma, intrinsecamente, uniti, ed é
solo nella loro unità che scaturisce il senso profondo della vita, in una unità perfetta11
.
Inoltre: ricercare i tratti dell’esperienza del lutto nella letteratura giovanile diviene utile strumento
per chi intende proporsi come educatore per non trovarsi impreparato, per non lasciar cadere nel
vuoto silenzioso o nell’inadeguatezza di una risposta frettolosa la domanda dell’educando che si
pone innanzi a noi e che da noi attende una conferma, non certo una certezza. È dunque un dovere,
non certo un “di più”, é un doveroso compito quello di fornire risposte eticamente fondate che,
innanzi tutto, si devono cercare per sé.
Quale sostegno educativo, dunque, può offrire la letteratura giovanile? Quale prospettiva propone
nei riguardi di un argomento così sensibile? Di quale utilità può essere portatrice?
Vita e morte, amore e morte: temi che, dai tempi più lontani, hanno ispirato scrittori e poeti, pittori e
drammaturghi che ne hanno indagato la comune misteriosità ammaliatrice, talvolta lasciandosi
trascinare in estremismi catastrofici, se non assurdi12
, nella ricerca spasmodica di un’illusione
d’eternità.
Torna alla memoria l’antico tentativo di Orfeo di riportare la sua amata Euridice al mondo dei
viventi, ricorrendo alle sue riconosciute doti musicali: tentativo drammaticamente fallito a causa del
fatale gesto di girarsi a guardare la sua amata prima del tempo dovuto. Ma ciò che colpisce del
racconto mitologico è la richiesta di Orfeo: non tanto l’immortalità della giovinetta, bensì di poterla
riportare in vita il tempo necessario di un’esistenza, senza rincorrere l’immortalità. Purtroppo il suo
nobilissimo desiderio non verrà esaudito, a causa di un errore umano, non tanto di un diniego
divino. Lo sguardo perduto e drammatico di Euridice è ancora capace di commuovere: la
11 “Appena qualche attimo prima di morire, appoggiata al nocciolo del giardino, l’Annina emerse dall’ombra[…]in quei brevi istanti
che la morte ancora le concesse[…]vide sua madre partorirla urlando di un dolore che le sembrò perfetto[…]”.
U. Riccarelli, Il dolore perfetto, Milano, Mondadori, 2004, p.9. 12 Dal suicidio del giovane Werther, raccontato da Goethe, a quello reale del poeta Kleist, il rapporto tra eros e thanatos è il soggetto
del breve saggio di Patrik Süskind, Sull’Amore sulla Morte, Milano, Longanesi, 2007.
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drammaticità dell’esistenza di Orfeo, dopo la seconda tragica perdita, non può che accettare un
epilogo altrettanto macabro, in cui, tuttavia, il richiamo dell’amata sopravvive.
La mitologia greca prima, e la letteratura latina poi, hanno cantato la vita e la morte, l’amore e la
morte con passione instancabile. Volendo restare ad un’epoca a noi più vicina, basti ricordare la
crudele Salomè di Oscar Wilde, le morti drammatiche di vite segnate da tormenti amorosi, quali
Anna Karenina e Madame Bovary, per non dimenticare la determinazione di Armand nel voler
rivedere il cadavere di Marguerite, per lui unica certezza della fine di un supplizio interiore13
.
Vita e morte, amore e morte: muse ispiratrici di una forza creativa che “rappresenterebbe la
partecipazione dell’uomo all’immortalità, perché avrebbe effetto e durata al di là della sua morte”14
.
Certamente, ciò che nel tempo è mutata, è la dimestichezza, anche letteraria, di raccontare la morte,
di considerarne la costante presenza come, al contrario, sono stati capaci scrittori come Charles
Dickens: basta scorrere le prime righe de Le avventure di Oliver Twist, per comprendere come la
giovane vita del protagonista, fin da subito, sia segnata dal lutto15
. Tutto il racconto è pervaso da
scene che evocano la solitudine, la malinconia, il dolore, di cui la morte segna il cammino della
vita, a conferma di una sua presenza riconosciuta, legittimata, ma, non per questo, meno patita. La
familiarità con un’esperienza che ora, tenacemente, tentiamo di tacere, di negare, trova, nel racconto
di Dickens, innumerevoli modi per allacciarsi all’esperienza quotidiana, tanto che ogni tramonto
diviene, per l’autore, anticipazione della naturale finitudine di ogni creatura: “quando la campana di
San Paolo suonò a morte per un altro giorno trascorso”16
.
Vita e morte, amore e morte: un intreccio senza tempo, una danza eternamente ripetuta in cui
l’uomo è alla ricerca spasmodica di un senso, in una tensione primordiale in cui trova espressione il
desiderio di narrare, raccontare, dire.
È proprio dell’istinto di narrazione la spinta a voler raccontare il proprio vissuto, in un desiderio di
condivisione che cerca, nell’artifizio della scrittura, una traccia d’infinito. Raccontare e scrivere per
non abbandonare nell’oblio, nel vizio della memoria, il testamento umano di cui ogni persona è
portatrice, anche in nome di chi non è dotato di abilità narrative, ma sa ritrovare, nel patrimonio
letterario, una parte di sé.
Quelli che ami non muoiono17
: espressione di cui ognuno ci appropriamo nel tentativo di mantenere
in vita un legame affettivo con coloro che ci hanno preceduto nell’aldilà, è anche il titolo di un
saggio dello scrittore e giornalista Mario Fortunato, in cui lo stesso autore ha voluto rendere
13
A. Dumas, La Signora delle Camelie, Milano, Rizzoli, 2002. 14 P. Süskind, Sull’amore sulla Morte, op.cit., p.14. 15 “Il medico le mise la creaturina tra le braccia. Lei premette appassionatamente le labbra esangui e gelide sulla fronte del bambino,
si passò le mani sul viso, si guardò attorno con terrore e sgomento, venne percorsa da lunghi brividi, ricadde sul guanciale…e morì.”.
C. Dickens, Le avventure di Oliver Twist, Milano, Mondatori, 1987, p.5. 16 Ivi, p.436. 17
M. Fortunato, Quelli che ami non muoiono, Milano, Bompiani, 2008.
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omaggio a persone amate e stimate: “ho sentito a un certo punto di dover restituire almeno un poco
di ciò che a suo tempo mi avevano dato con tanta generosità, provando a raccontare a dei nuovi
lettori, e in definitiva accettando il mio ruolo vicario nella catena evolutiva”18
.
Il racconto diventa dono, riconoscenza verso l’altro per l’importante ruolo assunto nel personale
percorso di crescita di chi ricorda, in un gesto di ri-membranza che riempie di senso di riconoscenza
e che trova nuovi modi per continuare un dialogo anche oltre il confine invalicabile segnato dalla
morte. Ricordare significa sentire proprio un evento esperito anche come doloroso (la perdita di una
persona cara), ma superato e perciò recuperabile nella memoria come parte di sé, riconoscendo il
valore intrinseco che lo caratterizza, la potenza esistenziale di cui é portatore e a cui ci si può
rivolgere anche con gratitudine per l’apporto di significato che ha dato alla propria vita. “Come dice
il verbo ri-membrare, noi ri-membriamo, rimettiamo insieme le nostre membra, reintegriamo ciò
che era alienato o separato, rivalutiamo ciò che disprezzavamo”19
. A questo bisogno risponde la
scrittura e la narrazione, fornendosi come ponte fra due mondi separati, il qui e l’altrove, fungendo
da vero e proprio percorso di elaborazione di quella sofferenza di cui il lutto è portatore.
Non ci sono solo i racconti dei sopravvissuti, impegnati nel loro personale lavorio interiore di
elaborazione: ci sono anche i racconti di coloro che, consapevolmente, si apprestano a compiere il
loro ultimo solitario viaggio verso l’ignoto. Racconti non sempre e non solo immaginari, bensì
fortemente reali, come quelli raccolti da Henning Mankell. Lo scrittore svedese, dopo uno strano
sogno rivelatore, decide di dedicarsi alla stesura dei Memory Books, i Libri della memoria: racconti
di genitori malati di Aids nella martoriata Africa, dedicati ai figli, presto orfani, che altrimenti
rischierebbero, a causa della morte prematura delle madri e dei padri, di restare senza radici, privati
dei racconti della propria genesi. In Io muoio ma il ricordo resta20
, Mankell ci conduce dentro una
sofferenza in cui la morte ingiusta la fa da padrona: di Aids non si dovrebbe morire, se il diritto alle
cure e l’accesso alle medicine non fosse appannaggio di pochi privilegiati.
Che cosa raccontano i memory books se non quello che ogni genitore vorrebbe poter dire al proprio
figlio e che ogni figlio vorrebbe sapere di sé dalla voce di chi lo ha generato. I libri della memoria
sono sfida alla morte: una morte che di naturale ha ben poco! “In futuro nessuno più dovrà scrivere i
libri della memoria”21
: questo il desiderio più forte che spinge l’autore ad incontrare la sofferenza
segnata dall’Aids per denunciare la morte ingiusta, per lottare contro la discriminazione anche
attraverso la scrittura.
18 Ivi, p.10. 19 D. Metzger, Scrivere per crescere, Roma, Astrolabio, 1994, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, Bologna,
EMI, 1996, p.138. 20 H. Mankel, Io muoio, ma il ricordo resta, Venezia, Marsilio, 2005. 21 Ivi, p.45.
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Ma, fintantoché l’uomo continuerà a disperdere le proprie energie per combattere con sofisticate
armi tecnologiche nemici più o meno reali, a distruggere il pianeta che ci ospita, in risposta ad
egoistici impulsi di onnipotenza delirante, molti altri memory books dovranno continuare ad essere
scritti.
La storia dell’umanità è disseminata di eventi luttuosi che trovano, in straordinari racconti, uno
spazio per non essere dimenticati. Così, dopo la drammaticità dell’Olocausto, la promessa dei
sopravissuti alle abominevoli offese all’umanità perpetrate dalla pazzia nazista è stata di raccontare,
di trovare le parole, tutte le possibili parole perché il mondo conoscesse la realtà, la verità e, nel
racconto, trovare le forza di sopravvivere oltre il desiderio di morte che la malvagità nazista era
stata capace di iniettare nelle loro vite. Vittima, fra le tante, lo scrittore Primo Levi: e la memoria
porta in primo piano le ultime frasi di Se questo è un uomo: “Sul pavimento, l'infame tumulto di
membra stecchite, la cosa Somogyi”…similmente a quel tumulo di membra ai piedi della tromba
delle scale scelte da Levi per farla finita con il tormento che gli toglieva il desiderio di vivere
ancora22
. Fra tutti, due straordinari picture books nati dalle straordinarie doti illustrative di Roberto
Innocenti, offrono ad un pubblico di giovanissimi lettori di poter conoscere alcuni squarci del
periodo fascista attraverso le storie di due bambine, ebrea la prima, in La storia di Erika (Milano,
La Margherita Edizioni, 2005), tedesca la seconda, in Rosa Bianca (Milano, La Margherita
Edizioni, 2005). A questi si aggiunga il toccate racconto di Irène Cohen-Janca, con le illustrazioni
di Maurizio A.C. Quarello, L’albero di Anne (Roma, orecchio acerbo, 2010). Storie di morte, certo,
di sopraffazione, di violazione del diritto di vita di ogni bambino e bambina, eppure trasformate in
racconti di una bellezza profonda, emozionante a conferma di quanto afferma lo scrittore Jean
Genet: “Attraverso la scrittura ho trovato ciò che cercavo…A guidarmi non sarà ciò che ho vissuto,
ma il tono che userò per raccontarlo. Non aneddoti, ma opere d’arte…”23
.
Il racconto si fa denuncia, provoca un sussulto nella coscienza del lettore inducendolo a riconoscere
che non tutte le morti si equivalgono e che, a fronte della naturalità della morte, vi è un oltraggio
alla vita quando la morte è procurata, indotta, causata dalla crudeltà di cui l’uomo (…se questo è un
uomo, parafrasando Levi) sa rendersi artefice. Abbiamo bisogno della nostra piantina di Mango
nascosta da Aida tra le frasche, raccontata da Mankel, che, per sopportare il pensiero della prossima
morte della madre, la bambina coltiva in segreto, esorcizzando la drammaticità del futuro che
l’attende prendendosi cura della vita.
Ogni bel racconto, pur nella tristezza di molte vicende narrate, rappresenta un piccolo Mango
accuratamente nascosto: il desiderio, nonostante tutto, di coltivare la speranza, di alimentare il
desiderio di vita, di superare la paura della morte, perché la morte genera, sempre, inquietudine,
22 Da un articolo di Guido Vergani apparso sul quotidiano La Repubblica, il 12 aprile 1987. 23 B. Cyrulnik, I brutti anatroccoli, Milano, Frassinelli, 2002, p.142.
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spiazzamento: un’inquietudine che abbisogna anche del coraggio di tacere per lasciare tempo ad un
gesto di solidarietà, di vicinanza pregna di significato per quanto detto nel tempo delle parole24
.
Qual è la vera paura che ci attanaglia di fronte alla morte dell’altro: la sua dipartita o l’anticipazione
della nostra? Non di supereroi che affrontano la morte imperituri, ha bisogno la nostra anima
innanzi alla paura di morte, bensì di amici che condividono la nostra ansia perché, al di là di ogni
discorso, la solitudine della morte ci fa temere, sempre!
Recuperare la comunanza di questa solitudine, di questa paura dovrebbe divenire percorso
educativo in grado di spronarci a raggiungere mete alte, perché la vita vale questo; dotarci di sano
sdegno di fronte alle nefandezze umane, perché la vita non merita d’essere offesa; a sorridere nel
cogliere le debolezze umane che ci illudono di poter trovare nell’effimero un rimedio alla personale
finitudine, perché la vita è ben più del possesso. E come dimenticare la satirica poesia di Antonio de
Curtis, in arte Totò, ‘A livella, in cui, ciò che dà allegria è, ancora una volta, il comportamento
ottuso e stupido degli uomini, che pare non avere fine nemmeno dopo la morte25
.
Della morte, dunque, si può, si deve tornare a parlare, non solo nei luoghi in cui essa è presente per
antonomasia, bensì nel vivere quotidiano, senza necrofilismi, senza declinazioni tanatofiliache.
Tornare a parlare della finitudine dell’esistenza per aiutarci ad apprezzare di più e meglio la vita,
per indurci ad osservare noi e gli altri con occhi diversi, depurandoci dalle scorie di immortalità
illusoria che spesso inquinano la nostra esistenza impedendoci di riconoscere il valore unico ed
irripetibile di chi incontriamo, di chi ci sta accanto, delle responsabilità che ci competono come
adulti, genitori, educatori, uomini e donne di questo tempo, di questo hic et nunc.
“Ora sono qui, sdraiata nel salotto di Ruth, guardo arrivare un’altra aurora e penso che, quando sei
consapevole di morire, il sentiero si assottiglia e alla fine c’è posto per una sola persona…per te,
non più distratta da null’altro e quindi in grado di vedere tutto ciò che non riuscivi a vedere prima. E
che questo può essere un dono così grande che rabbrividisci, dentro, nell’accoglierlo”26
. Affrontare
24 Jude Daly, riprendendo i versetti 1-8 del cap.III del libro di Qohelet, ci dona un piccolo albo illustrato, restituendoci il senso di
circolarità del tempo: c’è un tempo per nascere ed un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per il
dolore e un tempo per la gioia. Una sapienza che, nella sua semplicità, colloca gli eventi umani nel ciclo naturale dell’esistenza in cui
c’è un tempo per abbracciare e un tempo per sciogliersi dall’abbraccio.
J. Daly, Una stagione per ogni cosa, Roma, Edizioni Lapis, 2008.
Con immagini delicate e parole leggere come un soffio, un altro libriccino è capace di narrare il cerchio della vita dalla voce di una
madre ad una figlia: una perla di poesia che abbellisce la vita in uno scambio intragenerazionale di cui tutti sentiamo la mancanza:
A. Mcghee, P. H. Reynolds, Un giorno, Milano, Salani-ape junior, 2007. 25 “Lurido porco!...Come ti permetti paragonarti a me ch’ebbi natali illustri, nobilissimi e perfetti, da far invidia a Principi Reali?”
“Tu qua’Natale…Pasca e Epifania!!! T’’o vvuo’ metter ‘ncapo…’int’a cervella che staje malato ancora e’ fantasia?...’A morte ‘o
ssaje ched’’e?...è una livella. (…) Perciò, stamme a ssenti…nun fa’’o restio, suppuortame vicino-che te ‘mporta? Sti pagliacciate ‘e
ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”.
A. De Curtis, ‘A livella, Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1968.
Da segnalare l’apprezzatissimo progetto di Paramica Edizioni per Bambini (Vittorio Veneto, 2008)che ha riadattato il testo della
poesia di Totò grazie al racconto di Antonella Ossario ed alle immagini per mano di Monica Auriemma, con prefazione di Liliana e
Diana de Curtis. 26 E. Berg, Parole prima del sonno, Milano, Longanesi, 1994, p.183.
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la morte, come la vita, richiede coraggio e maturità, saggezza e un pizzico di follia che ci aiuti a
riconoscere, come gli indiani d’America che “oggi è un buon giorno per morire”.
Sfidare la morte trovando nuovi rituali pregni di significato per strappare la morte ad
un’amministrazione burocratica, fredda e frettolosa e riscoprire, negli interstizi della fragilità e
temporalità della vita, le opportunità di bellezza che, l’incontro con chi condivide la nostra
creaturalità, sa essere portatore: un racconto, un romanzo, un buon libro può incoraggiare a rischiare
di ascoltare qualcosa di infinitamente bello prima del sonno.
Recita una lirica di Davide Maria Turoldo: “Morte necessaria come la vita,/ morte come interstizio /
tra le vocali e le consonanti del verbo, / morte; impulso a sempre nuove forme”27
.
La vita è parola, canto, poesia, musica. La vita è vita; non si tratta di un contenitore da riempire
come lo è purtroppo per molti, ma di un tesoro da scoprire, apprezzare, amare, custodire, donare,
celebrare. Se la vita è parola che sa dire, esprimere e dunque essere, forse è proprio della parola il
compito di tenere viva l’esistenza quando essa è espressione di una umanità che, pur riconoscendo
la propria finitudine, non rinuncia all’opportunità di poter offrire ad ogni vita uno squarcio di luce.
In prima di copertina del romanzo dell’australiano Markus Zusak, La bambina che salvava i libri
(Milano, Frassinelli, 2007), appare una bambina che trascina verso un bosco una cesta contenete
libri: il suo sguardo ci invita a seguirla, ad incamminarci con lei: apriamo il libro e, fin dalle prime
righe, comprendiamo di avere tra le mani un racconto sui generis. Immediatamente ci sforziamo di
negare ciò che, con evidenza, si manifesta: la voce narrante, con tono inequivocabilmente schietto e
diretto, appartiene alla Morte. La sua voce non è metallica, fredda, tutt’altro: umana, leale,
compassionevole, a tratti affannata dal duro lavoro a cui spesso la costringono gli uomini. Siamo
nella Monaco della seconda guerra mondiale, ed è lì che la narratrice incontra Liesel per ben tre
volte, fino al momento in cui si approprierà del diario della bambina e, nel corso degli anni, leggerà
e rileggerà un’infinità di volte quelle pagine, quei disegni, per poi farne dono a noi che teniamo il
libro aperto in grembo. Chi è Liesel? È The Book Thief (titolo originale dell’opera), letteralmente: la
ladra di libri. Il primo libro che ruba, al cimitero in cui è stato sepolto il fratellino, è il manuale del
necroforo: è in quelle pagine che Liesel impara a leggere, incantata dal potere rasserenante del
suono delle parole più che dal loro significato. Parole e suoni che si intrecciano sempre più alle
vicende della vita, donandole sapori nuovi. Perfino il Main Kampf di Hitler trova modo d’essere
paradossalmente trasformato in un dono dolcissimo. Ciò che affiora con insistenza dal racconto di
Zusak non è la drammaticità della morte in sé, bensì, come per altri libri citati, la capacità
dell’uomo d’essere artefice della disumanizzazione più totale della propria esistenza. Il racconto
tocca molti temi duri come l’abbandono e la perdita, la solitudine e la sofferenza, la guerra e la
27 D.M. Turoldo, Canti ultimi, Milano, Garzanti, 1991, p.58.
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shoah. Temi in cui di naturale non v’è proprio nulla: sono la causa diretta dei comportamenti umani.
L’uomo causa della sua stessa infelicità. Ed alla Morte non resta che raccogliere le anime dei corpi
assassinati dalla stupidità dell’uomo, di girovagare tra le macerie della città bombardata e,
pietosamente, portare con sé quel che resta dei corpi straziati dall’incapacità degli uomini di capire
che con la vita non si scherza, figuriamoci con la Morte!
Lo scrittore australiano dimostra un’abilità geniale nell’uso della parola, restituendoci un racconto
profondamente commovente e provocatorio, al termine del quale il lettore è consapevole d’aver
attraversato quel fitto bosco insieme con la giovane Liesel: si è salvi, ma non indenni. L’unico
bagaglio che è valso la pena portare con sé, i libri, metaforicamente e non solo, rappresentano ciò
che ha permesso, alla bambina e al lettore con lei, di uscire dalla boscaglia per ritrovare un nuovo
spiraglio di sole.
Zusak, con lieve tono ironico, fa dire alla morte-narratrice che il racconto “non è che una della
miriade di storie che porto con me, ognuna a suo modo straordinaria. Ciascuna di loro rappresenta
un tentativo -un faticoso tentativo- di dimostrarmi che la vostra esistenza di uomini vale la pena di
essere vissuta”28
.
Non possiamo negarlo: ogni narrazione raccolta da un libro rappresenta il tentativo di dare
significato alla vita, ad ogni vita, perché ogni uomo e donna merita un romanzo! È sfida alla morte.
Ritorna la verità della narrazione, la libertà delle parole di riallacciare le vicende di ogni vissuto e di
farne un romanzo. Non importa quanto è lunga ogni singola esistenza: ciò che conta è il tono usato
nel raccontarla.
Il romanzo di Zusak si ispira ai racconti dei genitori, vissuti in Germania in tempo di guerra:
aggiungendo la propria immaginazione e fantasia, trasforma, quanto da loro ascoltato, da marcia
funebre a libera danza sopra le umane macerie. Come una sorta di scrittore combattente, Zusak
sceglie di raccontare la sua verità, la verità narrativa, coinvolgendo in tutto e per tutto il lettore,
rendendolo complice29
, presente in quel bosco cupo che necessita d’essere attraversato, conosciuto,
esplorato, reso terreno calpestato: come in un rito d’iniziazione. La foresta attraversata da Liesel
rappresenta, metaforicamente, non solo la guerra e gli orrori nazisti: è la foresta di ogni vita, la
tappa obbligata da superare per poter essere ancora, per poter divenire altro nel personale percorso
di crescita che obbliga ad affrontare la vita con tutto il suo carico di difficoltà, di durezza, di
sconosciuto, se non anche, di abbandono.
Al termine del bosco Liesel arriva da sola, senza madre né fratello, senza genitori adottivi né amici.
Sola con se stessa, eppure carica di quanto ogni persona, per lei significativa, ha indelebilmente
28 M. Zusak , La bambina che salvava i libri, Milano, Frassinelli, 2007, p.15. 29 “Un buon libro […] è semplicemente un libro che coinvolge in tutto e per tutto il lettore e ne fa un complice di chi scrive,
trasformandolo a sua volta dentro di sé in autore”. M. Silvera, Libroterapia, Milano, Salani, 2007, p.18.
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tracciato nella sua giovane esistenza. I libri l’hanno salvata, ma, più di tutto, è stata salvata da
coloro che a quei libri hanno saputo dare un senso, oltre il significato della scrittura. È stata salvata
dai legami che i libri, donati o rubati, hanno intessuto con gioia e timore, rendendo ogni parola letta
una goccia di speranza.
Il potere delle parole, il fascino del racconto, la bellezza del libro!
Parole, racconti, libri capaci di trasformare anche la difficoltà di crescere in una storia sensuale in
cui il lettore ritrova, in maniera più o meno conscia, i propri tratti, le proprie fatiche e speranze, le
proprie attese e conferme.
Nei momenti più difficili una storia può salvarci la vita30
. Le piccole grandi tragedie che costellano
ogni esistenza abbisognano di parole e immagini per potersi dire, pegno l’irrisolutezza,
l’incompiutezza, la fragilità disarmante. “Ma, lo dico molto sinceramente, se avessi avuto allora La
Città di Armin Greder, avrei avuto davvero il sussidio didattico che a me serviva. Perché in questa
fiaba dolente e salvifica (…) ci sono gli echi di una tragedia che parlava, e parla, a me e a loro”: è
quanto afferma con decisione Antonio Faeti31
in una ricca nota a termine del drammatico libro di
Greder, La Città (Roma, Orecchio acerbo, 2009). Il racconto rappresenta una tipologia di fiabe per
molto tempo volutamente ignorate dalla Pedagogia in quanto ritenute fiabe mortuarie, orrorifiche,
prive di significato educativo e mere portatrici di insani pensieri32
. Superato, almeno in parte,
questo tabù e riconosciuta la valenza formativa anche di una tipologia così particolare di racconti, a
fronte delle maggiori conoscenze dello sviluppo psicologico del bambino e della persona in
generale, vi è ora una maggiore apertura nel cogliere i significati ed i messaggi veicolati da una
tradizione fiabesca di remota nascita. Se da sempre le porte chiuse hanno attirato la curiosità di tutti
i bambini, animandone la fantasia, alimentando l’immaginazione ed ispirando magnifici racconti33
,
la curiosità e il timore di scoprire qualcosa di orrendo non stanno all’antitesi, ma si attraggono a
vicenda, tesi a svelare segreti, a scoprire tesori nascosti o giardini dimenticati, mantenendo un senso
di paura dell’ignoto ed un desiderio di non sfuggire più all’incubo, ma di contemplarlo “e quando lo
si è guardato con la luce della conoscenza, si definisce un nuovo rapporto”34
.
30 La storia di Shahrazàd ne Le mille e una notte, e dei racconti che le salvarono la vita dalla sete di vendetta del re Shahriyàr,
mantiene il suo incanto! 31 Antonio Faeti, scrittore e saggista, esperto di Letteratura per l’Infanzia e di Pedagogia della creatività presso l’Università degli
Studi di Bologna. 32 Ricordiamo, a tal proposito, una famosa nursery rhyme apparsa all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, e divenuta presto
patrimonio collettivo: There was an old lady who swallowed a fly (C’era una vecchia signora che aveva ingoiato una mosca,
traduzione di chi scrive). È stata riproposta dalla casa editrice californiana Chronicle Books nel 2009 e racconta di una vecchia che, a
seguire, ingoia svariati animali, affermando, ad ogni strofa che “perhaps she’ll die” (“certamente morirà”, traduzione di chi scrive):
ed è quanto accade al termine del racconto in cui compare la vecchia signora ad occhi chiusi, con le braccia incrociate nell’ultimo
eterno riposo. Il libro ha ricevuto il premio opera prima Bologna Ragazzi Award 2010 in quanto, come affermano, fra le altre, le
motivazioni dell’assegnazione: insegna mentre diverte. Maggiori dettagli sono consultabili all’indirizzo
http://www.bookfair.bolognafiere.it/boragazziaward/, ultima consultazione: 17/X/2010. 33 Il giardino segreto, di Frances H.Burnett (Milano, Salani, coll. Gl’istrici, nuova edizione 2008) ed Il giardino di mezzanotte, di
Philippa Pearce (Milano, Salani, coll. Gl’istrici, nuova edizione 2008), sono solo due possibili esempi fra i tantissimi citabili. 34 S. King, citato da A. Faeti, postfazione al racconto di A. Greder, La Città, Roma, Orecchio acerbo, 2009.
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Non è dunque il silenzio, o l’indifferenza rispetto ai temi che più inquietano, a liberarci dall’ansia o
dal malessere inconscio che accompagna ogni persona e, ancor più, i soggetti in crescita: molto più
esorcizzante è il racconto, in grado di dare un nome, di svelare attraverso la fictio narrativa i misteri
interiori, di inoltrarsi anche dove il nostro pensiero si ferma per timore dell’ignoto. Per superare la
paura, qualsiasi paura, compresa la paura della morte, è necessario riflettere su di essa.
Il racconto permette di affrontare le paure, i dubbi, le incomprensioni: ci prende per mano, ci
accompagna lungo il percorso narrativo scelto dall’autore che, anche utilizzando la finzione
scenico-letteraria, utilizza dispositivi cognitivi ed emotivi reali, condivisi, in una sorta di linguaggio
comune e condiviso. ”Ma attenzione! Non è la sofferenza a diventare piacevole, ma la sua
rappresentazione. Un atto che conferma come il soggetto ferito sia riuscito a governare e a prendere
le distanze dal suo trauma, trasformandolo in un’opera socialmente stimolante”35
. Se è doloroso
affrontare le difficoltà, inclusa la sofferenza legata alla crescita come all’esperienza del lutto e del
distacco, certamente è maggiore il beneficio tratto dal racconto del vissuto rispetto al rischio del
danno per un percorso narrativo-elaborativo rifiutato o taciuto. Il piccolo protagonista de La Città
sperimenterà la libertà di poter andare incontro al proprio futuro senza senso di colpa o pegno verso
il proprio passato, solamente quando accetterà di liberarsi dal peso delle ossa della madre che
rappresentano il già vissuto, l’infanzia finita. Andare verso la Città significa aprirsi all’inedito senza
rinnegare il passato, trovando un posto dove lasciare ciò che è già stato: un luogo che possa
custodire le spoglie mortali di coloro che ci hanno preceduto, metafora del luogo interiore in cui
ciascuno è chiamato a custodire ricordi ed affetti.
C’è bisogno di trovare un luogo dove seppellire le ossa dei persone che hanno ceduto il passo della
vita ad altri, in un continuum esistenziale cosmico. Non si tratta di dimenticare, tutt’altro: si tratta di
donare un luogo in cui la nostra memoria sia libera di tornare per ri-celebrare un incontro.
“Si può lasciar andare una persona, non tanto perché ci liberiamo di lei o del suo ricordo, ma
quando la si porta dentro. Quando si riesce a dare senso alla perdita riconoscendo i doni che la
persona ci ha lasciato e la sua eredità”36
.
Il valore di un racconto lo si coglie ancor più in profondità quando ci permette di adottare nuovi e
differenti sguardi, di procedere oltre e al di là di quanto possa fare un reportage giornalistico, di
scavare nelle vicende che si celano dietro drammatici titoli di prime pagine tese a ricercare lo scoop
piuttosto che ad indagare i vissuti che hanno indotto a compiere gesti dal drammatico epilogo. In un
libro vi è lo spazio dilatato che favorisce la ricognizione delle esperienze, non fermandosi alla
cronaca, allo scatto fotografico: una dilatazione che permette di collocare un fatto all’interno di un
percorso al termine del quale la stessa visione degli accaduti può radicalmente mutare. È quanto
35 B. Cyrulnik, I brutti anatroccoli, op.cit., p.136. 36 L. Ciotti, Postfazione al testo di M. Varano, Tornerà? Come parlare della morte ai bambini, Torino, EGA Editore, 2002, p.114.
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accade in due particolari racconti che, rivolgendosi ad un pubblico di lettori adolescenti, portano
alla ribalta comportamenti sconcertanti: 13, di Jay Asher (Milano, Mondadori, 2008), e Avete visto
JJ? (Milano, Mondadori Junior, 2006) di Anna Cassidy. Entrambi prendono spunto da fatti di
cronaca nera: il suicidio di un’adolescente, per Asher, e l’omicidio di una bambina di dieci anni da
parte di un’amica, JJ per l’appunto, per la Cassidy. Quotidianamente i media riportano fatti
drammatici che vedono protagonisti giovani o giovanissimi, fermandosi il più delle volte su
descrizioni dettagliate dei fatti e licenziando la biografia dei responsabili con riduttivi aggettivi o, al
contrario, attribuendo alla debolezza della famiglia l’intera responsabilità. La semplificazione, la
riduzione, la relativizzazione delle cronache giornalistiche che, per loro natura, dovrebbero attenersi
ai fatti, rischiano di divenire l’unico spunto di riflessione per molti adolescenti e giovani, se non
anche per gli adulti. Al contrario: respirare il disagio, le delusioni, la drammatica lotta interiore che
può indurre una giovanissima ragazza a cogliere nel suicidio l’unico atto di libertà consentito,
l’ultimo gesto di rifiuto nei confronti delle falsità e dell’ipocrisia che percepisce intorno a sé, grazie
ad un racconto capace di calarsi nell’introspezione dei personaggi, attento a svelare la realtà dei
vissuti, in grado di condurre nel mondo giovanile con competenza, non può che permettere
un’apertura differente ed una considerazione nuova verso tutto quanto è accaduto precedentemente
il compimento di un gesto drastico e irreversibile.
Ricollocare il suicidio all’interno di un racconto significa non tanto dare dignità ad un gesto che
dovrebbe sempre chiamare in causa la responsabilità collettiva, bensì porlo all’interno di una trama
che ne restituisce un senso, togliendolo dalla solitudine individuale in cui si è consumato per
riportalo su un piano d’interpretazione più complesso ed articolato. È quanto ottiene di fare Asher
con il suo libro-denuncia ricorrendo ad un’invenzione letteraria del tutto verosimile: la giovane
suicida, prima di compiere il suo gesto, invia tredici radiocassette, con inciso il racconto della sua
vita, a tredici coetanei che, in modi differenti, ritiene co-responsabili della decisione di togliersi la
vita. Toccante, pungente, provocatoria, la voce di Hannah Baker (la ragazza suicida) chiama in
causa, con i coetanei, anche il lettore, offrendogli, comunque, un posto “protetto”: la voce narrante
appartiene a Clay, da sempre innamorato della ragazza, l’unico ad aver sofferto per lei e ad essere
stato al di fuori delle malvagità che l’hanno colpita. È una posizione di favore che permette al
lettore di non essere trascinato senza colpa nel vortice delle responsabilità collettive. Asher
costruisce un thriller psicologico che, usando il linguaggio dei giovani, si rivolge ai lettori con toni
diretti, offrendo l’opportunità di un’immedesimazione autentica e profonda. L’invito dell’autore è
di superare le barriere del qualunquismo per ricercare, nel volto inquieto dei giovani d’oggi, oltre
l’apparente superficialità, la loro vera capacità di emozionare ed emozionarsi, di soffrire e di
stupirsi, in un gioco continuo di ricerca del superamento della propria fragilità anche attraverso
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gesti eclatanti o, apparentemente, immaturi ed irresponsabili. Sul medesimo tema si dipana il
racconto di Paola Zannonner, L’invisibile linea d’argento (Milano, Mondadori, 2009, collana
Shout): Eugenio, il diciassettenne protagonista, dopo l’apparente suicidio dell’amico, è costretto a
fare i conti con la vera realtà dell’esistere, in una lenta ricostruzione introspettiva dell’ambiguo
legame d’amicizia che lo legava al compagno scomparso; la rivisitazione del vissuto antecedente al
dramma diventa percorso di formazione della propria identità nel miscuglio delle turbolenze che
caratterizzano il periodo adolescenziale37
. Eugenio, per volere dei genitori, sarà allontanato dal
clima cittadino per essere catapultato in una realtà lontana, selvaggia, quasi a voler recuperare, nel
significato metaforico che ogni racconto porta con sé, il senso profondo dell’incontro con la natura
e con l’essenza dell’esistenza: un ritorno alle origini che permette di rivedere con occhi nuovi il
presente, contaminato dalla complessità, ed il futuro che invita ad una progettualità da protagonista,
ad una nuova e continua possibilità di cogliere nella vita un’opportunità unica ed irripetibile.
Anche il romanzo di Anne Cassidy si rivolge ad un pubblico di adolescenti, incoraggiandoli a porsi
nei panni di una ragazza diciassettenne costretta a ricostruire la propria identità lontano dalla madre,
in una città diversa, con un nuovo nome (ritorna, come nella vicenda di Eugenio della Zannoner, la
prospettiva dell’allontanamento come tappa obbligata per la costruzione della propria identità). La
giovane protagonista dovrà lottare non solo per accettare la consapevolezza d’essere stata l’omicida
dell’amica del cuore all’età di dieci anni, bensì per sottrarsi alla pressione dei media e dell’opinione
pubblica, che in lei vuol continuare a vedere “un mostro omicida”, rifiutando ogni possibile
recupero personale e sociale in nome di una giustizia fine a se stessa. Ciò che emerge dal racconto,
come per il thriller di Asher, è un ribaltamento del piano di lettura degli eventi: permettere di
entrare nelle vicende, di ricollocare all’interno di una storia ben più complessa un fatto di cronaca
nera che stimola una popolare e morbosa curiosità per i particolari più raccapriccianti ed
imbarazzanti, offrendo, all’opposto, al lettore di mettersi, empaticamente, dalla parte del “carnefice”
per scoprire che, probabilmente, è davvero sottile la differenza fra vittima e colpevole. Ancora una
volta si presenta l’opportunità di un processo di immedesimazione con la giovane omicida che,
grazie ad una cifra narrativa credibile, dosando la veridicità dei sentimenti e delle emozioni
sollevate, diventa occasione per una riflessione interiore importante e significativa per sviluppare un
atteggiamento maggiormente critico nei confronti dei modi più istintivi di reagire innanzi a simili
fatti. Nell’evidenziare come nulla sia mai completamente come appare, l’autrice richiama la
possibilità di un riscatto che diventa atto dovuto nei confronti di ogni persona, ancor più se in
giovane età.
37 Si tratta di quel periodo psicologico definito di « identità riflessa» ossia caratterizzato “da una riflessione centrata sulla propria
persona e da una ricerca attiva di sintesi, ovvero di una immagine di sé unitaria”. G. Petter, Problemi psicologici della
preadolescenza e dell’adolescenza, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p.269.
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Il racconto, dunque, nella sua prospettiva metaforica, capace di rinviare ad altro, “può avere una
funzione maieutica: essa può aiutare, partendo dalle immagini prodotte, a immaginare soluzioni
inedite, inserendo nuovi pensieri, immagini mentali, sentimenti affinché possano essere modificate
vecchie associazioni mentali e schemi di comportamento”38
.
L’incontro con la morte cercata (suicidio) o provocata (omicidio), collocata in una dimensione
narrativa, può modificare punti di vista, offrendo piani di lettura in grado di riorientare la
percezione della realtà e, con ciò, la stessa modalità interpretativa degli eventi esperiti. Stimolare
abilità interpretative che si avvalgono di una capacità di pensiero divergente, proprio, critico,
sdoganato da condizionamenti indotti dai media o dal facile dire comune, è un merito che spetta alla
letteratura -alla buona letteratura- portatrice di una verità artistica propria in cui prevale “una
meditazione sull’esistenza vista (anche) attraverso personaggi immaginari”39
. Il libro si presta
come spazio interpretativo, meditativo: spazio di completa libertà, di rispetto dei tempi personali di
comprensione e coinvolgimento: “il rapporto con il libro scelto crea una feconda separazione dallo
spazio esteriore, riducendo la persona a ritrovare, almeno in certa misura, un silenzio favorevole a
una duplice direzione di scavo: quello intellettuale, di comprensione sempre meglio connotata dal
testo, e quello ricettivo, che impegna strutture personali ancora più profonde a lasciarsi investire e
interrogare dall’offerta e dal dono del testo stesso, per un allargamento dei propri confini interiori
liberamente intrapreso e sentito come necessario”40
.
Nell’incontro fra autore e lettore, attraverso il testo scritto e letto, si crea una sorta di spazio vitale
fra due mondi, all’origine contrapposti, che, lungo le trame della narrazione, permettono al primo di
mettere in gioco se stesso e la propria ricchezza interiore di inventio mediante la creatività aurorale
che si rende responsabile del proprio dire e, all’altro, di cogliere un di più di cui lui stesso è veicolo,
con la propria originale storia personale. “Abbiamo bisogno di storie, di conoscerle, di ascoltarle, di
ripeterle, anche per poterci opporre, per dissentire, per scegliere soluzioni diverse da quelle che ci
vengono prospettate. [le storie] ci salvano, ad esempio, dall’acquiescenza e dal silenzio”41
.
La narrazione è interpretazione e l’interpretazione si connota come caratteristica peculiare della
persona “necessariamente narrante e narrata”42
. Perciò la narrazione si apre alla relazione e
all’incontro di volti, ciascuno portatore, oltreché della propria opacità, della propria traccia
d’infinito e del proprio inedito. “Come a dire, quindi, che nasciamo tutti per leggere e per ascoltare
38 R. Vittori, Identità e narrazione, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, op.cit., p.25. 39 B. Pitzorno, Storia delle mie storie, Milano, Pratiche Editrice, 2002, p.184. 40 R. Lollo, Lo spazio del leggere come crocevia di relazioni: cenni interpretativi, “Studium Educationis”, n.3, 2000, p.419. 41 V. Rosi, Prefazione al testo di L. Adorno, et alii, Le storie salvano la vita?, Reggio Emilia, Mavida, 2006, p.12. 42 A.M. Bernardinis, Narrazione e pedagogia, in G. Flores d'Arcais (a cura di), Pedagogie personalistiche e/o pedagogia della
persona, La Scuola, Brescia, 1999, p.30.
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storie e nasciamo anche per raccontarle, per dare un senso alle nostre esistenze attraverso le
parole”43
.
Al di là di esperienze o conoscenze dirette, l’età adolescenziale coltiva una curiosità e un’attrazione
connaturata nei confronti della morte che può assumere, talvolta, tratti distintivi estremi,
manifestazioni evidenti nei comportamenti, nell’abbigliamento, nei discorsi. L’adolescenza è un
periodo di lutto: il lutto per la perdita dell’infanzia e del sentimento d’identità sicuro e narcisistico;
il lutto per la disillusione di aver creduto nell’immortalità, nell’infallibilità ed onnipotenza dei
propri genitori44
. Un lutto che obbliga ad oltrepassare la soglia dello spazio fanciullesco, spensierato
e sicuro, per dirigersi verso un modo altro, simile ad una foresta a tratti oscura e insidiosa
generosamente narrata nelle fiabe e nei racconti vecchi e nuovi scaturiti dalle mani di sapienti
scrittori, capaci di porsi dalla parte del giovane lettore per scrutarne i sentimenti, per esplicitarne i
vissuti interiori, offrendo l’opportunità di un rispecchiamento confermante ed incoraggiante,
oltreché salvifico. Nell’allargamento interiore generato dal racconto trova accoglienza l’identità in
formazione per la quale è fortemente impegnato l’adolescente, grazie all’abilità dell’autore di porsi
dalla parte del giovane lettore e di esplicitarne il vissuto e l’esperito in forza delle competenze
tecnico-linguistiche45
e della creatività di cui è espressione. Ecco, dunque, come alcuni autori
abbiano scelto di porre un grave evento luttuoso a scansione di tale passaggio obbligato, inducendo
i protagonisti ad abbandonare il mondo ovattato dell’infanzia per volgersi a riflettere e decidere del
proprio futuro. Bianca Pitzorno, in Principessa Laurentina (Milano, Mondadori, 1990), Beatrice
Masini, in Se è una bambina (Sonzono, Bompiani, 1998), Nico Orengo, con L’allodola e il
cinghiale (Torino, Einaudi, 2001) e Lygia Bojunga, con Il mio amico pittore (Milano, Salani, 2004),
scelgono tale percorso. Tali opere, pur partendo da situazioni nettamente differenti, il suicidio di un
amico nel delicato racconto della Bojunga e la perdita della madre nelle prime tre narrazioni, fanno
della morte un ponte necessario da attraversare per poter passare dall’adolescenza al mondo adulto,
permettendo ai giovani protagonisti di scoprirsi nuovi e diversi, capaci di scegliere e di percepirsi
autonomi nel pensiero, e liberi nella volontà di desiderare una vita da assaporare in pienezza.
La morte si può incontrare anche come termine di un rito d’iniziazione voluto e cercato, teso a
provare di non essere più bambini e in risposta al desiderio di non voler più essere considerati tali.
Ci prova Angela Nanetti con tono drammatico e realistico ne I Randagi (Trieste, EL, 1999): un
racconto che si svolge sul filo del rasoio, ricco di suspense e profondamente verosimile nel
raffigurare i sentimenti contrastanti, opposti e complementari, che talvolta animano i rapporti tra
fratelli, ripercorrendo, in chiave contemporanea, il primordiale odio fra Caino e Abele, in cui il
43 V. Rosi, Prefazione al testo di L. Adorno et alii, Le storie salvano la vita, op.cit., p.9. 44 Per un approfondimento si veda: D. Oppenheim, Dialoghi con i bambini sulla morte, Trento, Erickson, 2004. 45 B. Pitzorno, Storia delle mie storie, op.cit., p.42.
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primo ritrova la propria umana fragilità, e con essa il desiderio di ben spendere la propria vita, solo
dopo aver preso consapevolezza di essere colpevole della morte del fratello.
Paula Fox, con Il volo dell’aquilone (Milano, Mondadori, 1996), accompagna il lettore lungo il
difficile percorso intrapreso dal tredicenne Liam: accettare un padre omosessuale, malato terminale
di Aids. In Un’estate di quelle che non finiscono mai, della scrittrice tedesca Jutta Richter (Milano,
Salani, 2006), Daniel, il giovanissimo protagonista, nell’illusione di poter vedere guarita la madre,
malata di cancro, si scontra con la dura realtà della vita che, talvolta, non lascia vie di scampo.
Sia la Fox che la Richter danno voce alla rabbia interiore, al rifiuto, da parte dei protagonisti, di una
realtà innanzi alla quale non possono che riconoscersi impotenti. Se, inizialmente, all’ira si
accompagna l’allontanamento dalle figure genitoriali colpite da malattia incurabile, è attraverso
l’accettazione della realtà e il reinvestimento affettivo più consapevole e maturo che i giovani
protagonisti trovano una nuova via di apertura alla vita. Fra la rabbia e la nuova luce ritrovata, il
tempo sembra sospendersi, quasi a voler sottolineare come la sua stessa percezione muti nel
momento in cui l’uomo abbandona la concezione del tempo come kronos, come mero scorrere, per
appropriarsi di una dimensione del tempo come kairŏs, come momento opportuno, come
opportunitas46
.
”Avrei tanto voluto fermare il tempo qui, ma nessuno lo può fare. Il tempo scorre e non si ferma
mai, e poi viene la sera e poi la mattina e poi un temporale e poi splende di nuovo il sole. Così va il
tempo. E poi un mattino, sotto gli alberi, trovi le castagne marroni e lucenti, e poi viene l’inverno.
Va così”47
.
Così è per un altro intenso ed esilarante racconto di Polly Horvath, La stagione delle conserve
(Milano, Mondadori, 2004), in cui, fin dal primo incontro fra l’adolescente protagonista e due
vecchie e strane sorelle, ritorna con regolarità il tema della morte considerata come “compimento
voluto” (quale è un drammatico e rocambolesco suicidio, che assume nel racconto toni di macabra
ilarità) o “compimento naturale” (la morte di vecchiaia). Nel racconto della Horvarth il tempo fra la
nascita e la morte è uno straordinario incontro con l’incanto della natura e la bellezza dell’amore
semplice ed autentico che solo può rendere la vita un’avventura unica e completa.
Se nei testi citati la morte colpisce persone care ai giovani protagonisti, in due toccanti racconti la
prospettiva viene ribaltata: la morte, a causa di una grave malattia, coglie i giovani protagonisti. Nel
racconto verosimile di Eric-Emmanuel Schmitt, Oscar e la dama in rosa (Milano, BUR, 2006,
settima edizione), Oscar, affetto da cancro, trova nella fantastica corrispondenza con Dio un modo
per affrontare gli ultimi giorni di vita terrena immaginando che ogni giorno sia pari a dieci anni, con
tutte le trasformazioni, le scelte, gli avvenimenti che possono riempire un’intera esistenza. Il decimo
46 L. Paglierini, Il tempo come opportunitas, “Animazione Sociale”, n.5, 2000, p.4. 47 J. Richter, Un’estate di quelle che non finiscono mai, Milano, Salani, 2006, pp.90-91.
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giorno è, per il giovane e provato protagonista, il giorno del termine e, stanco come un vecchio di
cent’anni, abbandona quella vita che lui definisce “uno strano regalo”. Anche Alice Sturiale, nata a
Firenze nel novembre del 1983 e morta improvvisamente nel febbraio del 1996 nel suo banco di
scuola, lascia un messaggio straordinario sulla bellezza ed il valore dell’esistenza, nonostante i suoi
brevi dodici anni trascorsi su una carrozzella, eppure ricchi di amicizia, di stupore, di amore. La
piccola Alice lascia un libriccino in cui i genitori ed i molti amici hanno voluto raccogliere i
numerosi scritti e poesie. Fra le pagine, accanto alle foto e ai disegni, appare con chiarezza il suo
sorriso, il suo desiderio di cogliere il meglio in ogni situazione, in barba a chi si limita a valutare la
vita solo in termini cronologici ed edonostici. “Adesso è sera. / Se ripenso al momento in cui /
stamani, / quando il cielo era chiaro / mi sono alzata / dal letto, / mi accorgo / che è passata /
un’infinità di tempo […] ma adesso / è tutto finito, / quello che è stato è stato / non c’è più niente
ora / che io debba fare. / Adesso / posso riposarmi”48
.
Pur nella significativa differenza d’ogni racconto, nel rispetto dell’originalità e unicità di cui è
espressione, i libri citati hanno la capacità di mostrare la weltanschauung degli adolescenti,
ponendo in luce non certo stereotipi di genere o psicologie semplicisticamente tratteggiate, bensì la
realtà complessa dei vissuti interiori, mettendo in risalto, di volta in volta, differenti prospettive
dell’animo e del carattere, problematiche nuove (non solo la morte, ma il nuovo rapporto con il
proprio corpo piuttosto che con il gruppo dei pari, o con il mondo adulto, talvolta meschino ed
invidioso), e modalità diverse di affrontare il difficile percorso di crescita. Gli autori, con maestria
e talento, fantasia e creatività, permettono di comprendere i turbamenti e la complessità del rapporto
con il mondo adulto genitoriale: un mondo adulto che, spesso impreparato o anch’esso
psicologicamente “adolescente”, si svela incapace di gestire la naturale fase evolutiva delle nuove
generazioni con la dovuta consapevolezza. Le figure adulte sono, infatti, spesso raffigurate in tutta
la loro povertà, nelle loro assenze, a denuncia della triste verità dell’inadeguatezza a sostenere un
percorso di crescita, se non anche a rappresentare, metaforicamente, l’obbligato processo di
disinvestimento affettivo necessario per consentire di accelerare un benefico distacco che induca,
nel giovane in crescita, uno sviluppo autonomo della propria personalità e della propria identità49
. È
solamente dopo tale disinvestimento che vi può essere il ripristino di un rapporto più equilibrato e
maturo.
Altro aspetto importante è il ruolo attribuito all’amicizia, non solo con il gruppo dei pari, ma anche
con persone adulte esterne al nucleo familiare, capaci di fornire un supporto emotivo significativo,
diverso e alternativo rispetto a quello genitoriale50
. Una prova emblematica di quanto sopra
48 A. Sturiale, Il libro di Alice, Milano, Rizzoli, 19972, p.183. 49 G. Petter, Problemi psicologici della preadolescenza e dell’adolescenza, op.cit., p.127. 50
Ivi, p.283.
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affermato ci viene offerta dal toccante e straordinario racconto pluripremiato della parigina Anna-
Laure Bondoux, Le lacrime dell’assassino (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2008): Pablo,
rimane orfano di entrambi i genitori prima ancora di capire il significato del loro legame naturale ed
affettivo, prima ancora di scoprire una innata nostalgia profonda per un affetto familiare mai
sperimentato. Angel, l’assassino dei due coniugi, capace di uccidere con la stessa facilità con cui
mangia un piatto di minestra, ferma la lama del coltello rivolta verso il bambino per un apparente
bisogno di qualcuno che gli prepari il cibo. In realtà, lungo il prosieguo del racconto, la vicinanza
forzata fra i due si trasformerà in un legame profondo, fatto di tenerezza, di lacrime, se non anche di
crudeltà e colpi di scena. Un racconto solcato dalla drammaticità della morte, tanto che anche il
piccolo Pablo desidera morire innanzi alla certezza che nessuno provi dell’affetto per lui.
La Bondoux, dimostrando una capacità narrativa pacata e coinvolgente, a tratti poetica, accompagna
il lettore alla scoperta della vera essenza dell’essere umano: si vive quando si sa di essere amati,
voluti, cercati.
La morte e la vita, in un intreccio continuo simile ad una danza sensuale ed attraente, trovano in
questo racconto uno spazio singolare, inedito, carico d’emozione. Un vero e proprio capolavoro
letterario in grado di svelare le profondità più recondite dell’animo umano, gli spazi più nascosti di
autentica umanità che si possono celare anche dietro maschere di evidente malvagità: “Ogni sera,
Luis apriva il libro e leggeva a voce alta […]. Ogni sera, Angel si metteva di fronte alla finestra,
perché gli altri due non vedessero le sue lacrime, le lacrime che bagnavano i suoi occhi di
assassino”51
. Sopra ogni logica di morte, di solitudine, di desolazione e di ingiustizia, la Bondoux
svela caparbiamente, con una lentezza che nulla condivide con la noia, la bellezza, la poesia,
l’amore per la vita, fornendo loro uno spazio di espressione lungo tutto il racconto, per terminare
con un finale che illumina come una nuova aurora: “Altri anni passarono. Più tardi, Terusa mise al
mondo un bambino, una femmina. Pablo propose a Terusa di chiamare la loro figlia Angelina. Lei,
in quel nome, non vide altro che un paio di ali e un’aureola. Accettò senza esitare”52
.
Ciò che emerge dai racconti, talvolta sottilmente, altre volte a gran voce, è che la vita, pur nella
complessità, è davvero un’avventura meravigliosa e, forse, diventare grande, per un adolescente,
significa proprio questo: “Che cosa avrebbe creduto, che la vita fosse semplice come un cartone
animato? Eh, no, era complicata, ora lo sapeva. Ma sapeva anche non c’era nulla di cui aver
paura”53
.
Un altro meraviglioso racconto, scaturito dalla indomabile penna di Roberto Piumini, Lo Stralisco
(Trieste, Einaudi Ragazzi, 1996), oltre alle immagini ed ai significati simbolici evocati
51 A.L. Bondoux, Le lacrime dell’assassino, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2008, p.39. 52 Ivi, p.187. 53 M. Milani, L’ultimo lupo, Casale Monferrato (AL), Piemme Junior, 1993, p.146.
20
dall’esperienza della morte, si offre come proposta narrativa interpretabile come metafora del
distacco vissuto dall’adolescente: l’allontanamento dall’infanzia, indotto dallo sviluppo psicofisico,
obbliga ciascun bambino e bambina ad intraprendere un personale percorso elaborativo fin dall’età
preadolescenziale, età a cui il racconto appare destinato.
Allontanarsi non significa solamente perdere per sempre: vuol dire certamente rinunciare,
obbligatoriamente (così come impone la morte), a ciò che si è stati per essere altro, per aprirsi al
nuovo e per scoprire, nel nuovo, un’identità accresciuta. Sakumat, il pittore protagonista insieme al
piccolo e malato Madurer de Lo Stralisco, ben rappresentano questo passaggio obbligato: la morte
di Madurer (metafora dell’età infantile che si conclude) induce il pittore-protagonista ad un ritorno
al villaggio natale: un ritorno che diviene epifania di un cambiamento profondo. La casa, gli amici,
la natura sono rimasti invariati, ma lui, Sakumat, non è più lo stesso. Il congedo da un passato che
sente non appartenergli più dopo l’incontro con Madurer, lo induce a partire alla ricerca di un nuovo
luogo, diverso, dove incontrare altra gente, altre abitudini, un altro lavoro. La sua identità trova
nuovi modi per esprimere la propria originalità nel coraggio di accettare un cambiamento al quale
non ci si può opporre ed in cui si può, creativamente, scoprire i modi per essere ancora più se stessi.
Il passato, le esperienze vissute, i ricordi fissati nella memoria divengono, per Sakumat, tesoro,
risorsa vitale per aprirsi ad un divenire forse mai immaginato prima, in cui assaporare la serenità di
un’esistenza che sa accettare il distacco (metaforicamente, la morte di ciò che è stato in precedenza)
perché capace di cogliere la vita come dono, opportunità, relazione, riflessione: un mare infinito a
cui abbandonarsi, non per perdersi nella delirante rincorsa all’immortalità, ma per vivere
autenticamente ogni attimo, fino all’ultimo.
Quando il testo si pone nei confronti del lettore come Kenegdô, in ebraico “che gli stia di fronte”,
può realmente avverarsi quell’incontro autentico e magico che rende la scrittura dono offerto e la
lettura pensiero interpretativo, in uno scambio reciproco libero ed originale: “Perché la vita è poca
cosa senza le parole che ci scambiamo per trasformarla in racconto”54
.
Vi sono altri racconti, altre trame che si intrecciano in libri che meritano, come i molti citati, di
trovare posto fra le piccole o giovani mani dei lettori, che sono degni d’essere aperti per incontrare
occhi ed orecchie in grado di ascoltarli, che sanno stimolare un pensiero, perché, come dice Roberto
Piumini: “Quanto al resto delle storie, delle vite, del tempo, ognuno può immaginare e inventarlo:
può conoscerlo nella sua mente. Perché questo è la scrittura: un segno che chiama il pensiero. E la
lettura è il pensiero che risponde”55
.
54
V. Rosi, Prefazione al testo di L. Adorno et alii, Le storie salvano la vita, op.cit., p.14. 55 R. Piumini, Motu-iti l’isola dei gabbiani, Trieste, Einaudi Ragazzi, 1997, p.130.
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Quali comuni vie di narrazione trova la morte in moltissimi racconti? Quali topoi sono riconoscibili
come tracce costanti di storie che, seppur differenti, trovano nell’esperienza della morte un’eguale
volontà di dire e raccontare?
Nella metafora del viaggio, nella tensione al recupero della naturalità della morte, nell’immagine
del rinnovo dell’esistenza, nel senso del dono della vita, nell’intreccio di dialoghi e di relazioni,
nella valenza poetica ed estetica della narrazione, nell’apertura ad un fine lieto, si possano
individuare alcune costanti che, seppur con sfumature talvolta ampiamente dissimili, accomunano
molte storie. L’intento non è di piegare la letteratura all’educativo, bensì di evidenziare come
un’opera d’arte letteraria sia portatrice e stimolatrice di cambiamento che, nella sua connotazione
metabletica56
, è strutturalmente educativo nel momento in cui tende ad agire per umanizzare la
persona.
Il tema della morte, sia come perdita che come distacco, non manca nell’oceanico e fascinoso
mondo della Letteratura per l’Infanzia. Nella produzione tradizionale, come in quella
contemporanea, sono frequenti gli incontri con la morte. “La Morte nella sua personificazione è una
delle figure più radicate nell’immaginario collettivo. Per questo motivo nella fiaba il suo ruolo non
è mai secondario: la Morte non è sostituibile con altre figure, poiché non ne esistono di equivalenti,
la sua è una presenza fondamentale capace di caratterizzare, a seconda degli elementi che si
dispongono intorno ad essa, varie fiabe-tipo”57
. Basti pensare ai tanti orfani, da Hansel e Gretel, a
Cenerentola dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm; alla celebrazione della gloria post-mortem come
ricompensa alla generosità, all’altruismo, al senso di pietà in vita, nei racconti di Oscar Wilde: Il
Principe Felice, Il Gigante Egoista o L’Usignolo e la rosa58
. E non si possono dimenticare La
margheritina, Il tenace soldatino di stagno, L’angelo, La bambina dei fiammiferi di Hans Christian
Andersen59
, per citarne altre; e, ancora, La foresta-radice-labirinto60
di Italo Calvino: un gioco
metaforico continuo fra amore e odio, vita e morte: tema, quest’ultimo, che compare in molte fiabe
e racconti recuperati dalla tradizione italiana, a cura dello stesso Calvino61
. Non ultimo, il fantasioso
e squisito Gianni Rodari che, con garbo ed ironia, sa introdurre il tema della morte ne La fuga di
Pulcinella e Il muratore della Valtellina, solo per ricordare alcune sue opere letterarie62
.
I bambini sono attratti dall’ascolto di racconti prima di saper parlare e scrivere, ed ancor prima di
sapere il significato di tutte le parole sentite: la narrazione ha un valore in sé, che anticipa il valore
56 “La metabletica (gr.: metaballein: cambiare, trasformare, variare; metabolé: cambiamento spostamento) […]. Ma la struttura
metabletica ci appare come una struttura delle strutture: la condizione focale in base alla quale un processo educativo si origina,
giustifica e termina.” D. Demetrio, Educatori di professione, La Nuova Italia, Firenze, 1995, pp.49-55. 57 G.P. Caprettini et alii, Dizionario della fiaba, Roma, Maltemi Editore, 1998, p. 252. 58 O. Wilde, Il Principe Felice e altre storie, Milano, Mondadori, 2005. 59 H.C. Andersen, Fiabe, Milano, Edizione CDE, 1998. 60 I. Calvino, La Foresta-radice-labirinto, Milano, Mondadori, 2000. 61 I. Calvino, L’uccello belvedere e altre fiabe italiane, Torino, Einaudi, 1972. 62 R. Rodari, Favole al telefono, San Dorligo della Valle (Trieste), Edizioni EL, 1993.
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del significato del suo stesso contenuto. “Prima del senso c’è il suono, prima delle parole c’è la
voce. Quella voce ha potere sulle cose: le chiama all’umanità, le rende umane”63
. Ecco dunque che
ritorna, in modo forte e perentorio, il ruolo e il valore della lettura ad alta voce64
. La stessa intensità
e lo stesso coinvolgimento emotivo stimolato da un argomento toccante, qual è la morte, richiede un
supporto ed una vicinanza affettiva: compito che la presenza dell’adulto può assolvere. Il racconto
può divenire strumento atto a favorire un dialogo autentico fra adulto e bambino, per delineare uno
spazio in cui le domande, le curiosità, le paure trovano un dove ed un quando per potersi esprimere,
nella consapevolezza che non vi è danno peggiore, per lo sviluppo del bambino, di quello derivato
da una mancata espressione ed elaborazione dei tanti perché, attraverso i quali si realizza la
comprensione della vita, del mondo, del suo stesso essere. L’incontro con il libro letto e raccontato
si dimostra, inoltre, utile allo stesso adulto per stimolare una riflessione propria, personale,
certamente difficile e sofferta, quanto significativa. Lo sfondo pregnante rimane pur sempre
l’atteggiamento degli adulti innanzi alla morte: i più piccoli osservano, scrutano, interrogano a
parole, o solo con lo sguardo, il comportamento adulto, nella ricerca di comprendere e capire una
realtà costantemente da scoprire. Agli adulti è chiesto d’essere testimoni di una riflessione propria,
personale rispetto alla finitudine umana, una riflessione frutto dell’esperienza e, ancor più, della
capacità di tornare sul proprio vissuto, sia esso gioioso o doloroso: in questo si fonda la possibilità
di poter e saper fornire delle risposte originali, non in quanto inedite, bensì, proprie.
Il racconto, dunque, si rivela prezioso alleato, amico nel dialogo, aiuto nella riflessione: da un lato
per avvicinarsi con garbo ad un argomento di così delicato profilo, dall’altro offrendosi come tema
di confronto. La trama si presenta con il tatto di parole ricercate, con la coerenza della narrazione,
con l’efficacia delle immagini evocate, coadiuvato dall’espressività manifestata e dal calore di una
voce percepita come amica, con la completezza della storia narrata.
La vicenda raccontata offre un’interpretazione, una visione degli eventi, un’opportunità
identificativa, una partecipazione emotiva, un invito alla condivisione.
La “magia” della narrazione è di rispondere ad un bisogno innato dell’uomo: “organizzare
l’esperienza in modo narrativo”65
.
Il racconto fornisce uno schema, una strutturazione per ordinare l’esperienza, facilitandone la presa
in carico e l’uso in memoria; e poiché senza memoria non vi è storia, apprendere a trattare la
propria vita in termini narrativi significa “storicizzare” la propria esistenza, collocandola nel tempo
e nello spazio, in un quando e in un dove aventi un contenuto originale e identitario.
63 R. Valentino Merletti , B. Tognolini, Leggimi forte, Milano, Salani, 2006, p.6. 64 Per un approfondimento sull’importanza e sul valore della lettura vicariale e ad alta voce si veda, in particolare, R.Valentino
Merletti, Leggere ad alta voce, Milano, Mondadori, 1996. 65 R. Vittori, Identità e narrazione, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, op. cit., p.16.
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Molti libri ed albi illustrati, che tematizzano la morte, scelgono di rivolgersi ad un pubblico di
piccolissimi lettori66
. L’editoria contemporanea offre con generosità veri e propri capolavori
dall’indubbio valore estetico e letterario.
Andrea Rauch, con vivaci illustrazioni e semplici parole, ne La Stellina (Firenze, La Biblioteca,
2004), offre alla simpatica protagonista, che risponde al nome di Banana, di ritrovare la nonna
defunta in una stellina immaginaria. Così come nell’originale libro di Christian Voltz, La carezza
della farfalla (Milano, edizioni ARKA, 2005), la nonna scomparsa sembra prendere le sembianze di
una farfalla, mentre nelle immagini del testo appare la sua figura in trasparenza67
.
Entrambi gli autori si avvalgono di un’immagine sostitutiva, grazie al gioco simbolico del “come
se”, che nei bambini di due-quattro anni si connota con un “è”. Rauch e Voltz illustrano quel gioco
di fantasia che è proprio dello sviluppo nello stadio preoperatorio, in cui, attraverso la
“trasposizione simbolica” il bambino assoggetta la realtà esterna alla propria attività68
: il bambino,
perciò, può credere di poter giocare ancora con la nonna-stellina o di ricevere un bacio dalla nonna-
farfalla, anche in forza della presenza amorevole di un “altro significativo” che, per entrambi gli
autori, è impersonato dal nonno. Non si tratta di illudere i bambini con semplici e, apparentemente,
banali trucchi: offrire un oggetto simbolico sostitutivo è un modo per “tenere vicino”, affrontare un
cambiamento, ammettere una trasformazione, supportare il pensiero attraverso un’immagine che
non nega la morte, così come, tantomeno, dimentica una presenza.
Ai bambini di quattro-sei anni sono dedicati altri testi che, a fianco di immagini fortemente
evocative, offrono un racconto lievemente strutturato nella trama: Birte Müller con Soledad e la
nonna (S.Martino Buon Albergo, Verona, Nord-Sud Edizioni, 2004) e Dolf Verroen con Un
Paradiso per il piccolo Orso (Roma, Edizioni e/o, 2003), propongono due percorsi elaborativi
ricchi di similitudini, pur nella diversità originale di ciascun racconto. La Müller, a cui
appartengono anche le delicatissime immagini illustrate, recupera la tradizione dei popoli andini di
festeggiare il ritorno delle anime nei primi giorni di novembre, garantendo alla piccola protagonista,
Soledad, in un contesto sociale in cui i rituali e le tradizioni fungono da supporto, di ritrovare la
presenza della nonna, interiorizzata da un lato, reale dall’altro (gli abitanti del villaggio preparano
una festa per le anime dei morti con le stesse modalità con cui si fa festa per i vivi, in un continuum
voluto e cercato). Il racconto della Müller provoca a ripensare all’odierno modo di vivere il giorno
dedicato alla memoria dei defunti, spesso caratterizzato da pellegrinaggi ai cimiteri, compiuti
66 Per un approfondimento sul tema della comprensione della morte da parte dei bambini, si veda, in particolare, R. Vinello – M.L.
Marin, La comprensione della morte nel bambino, Firenze, Giunti-Barbèra, 1985 67 Le sfumature interpretative offerte dal racconto di Voltz si muovono in una duplice direzione: quella del ricordo e del senso di
vicinanza della persona scomparsa, e quella del recupero della naturalità della vita nella sua ciclicità. L’autore utilizza la farfalla, la
terra, la semina e la piantagione di un ciliegio come immagini simbolo: immagini elaborate con maestria mediante l’utilizzo ironico
di materiali poveri e di recupero, fissate nelle fotografie di Jean-Luis Hess. 68 J. Singer, G. Singer, Nel regno del possibile, Firenze, Giunti, 1995, p.82.
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talvolta più per dovere, con atteggiamenti di sommessa commozione che terminano, per lo più,
all’uscita dal Camposanto. Smarrire la dimensione culturale e sociale che, attraverso i rituali, le
tradizioni ed il culto di chi “non c’è più”, per secoli ha permesso di “addomesticare la morte”69
,
significa rinunciare ad uno strumento elaborativo per lasciare il posto, talvolta, ad un’esperienza di
separazione caratterizzata dall’angoscia e dalla solitudine70
. Dolf Verroen accompagna, come la
Müller con Soledad, il piccolo Orso alla ricerca del nonno, o meglio, del modo per poterlo
raggiungere in quel Paradiso meraviglioso di cui gli adulti parlano descrivendolo come il luogo
della serenità. La tristezza e la delusione di piccolo Orso (per l’impossibilità di raggiungere il
Paradiso, come per Soledad di reincontrare la nonna nei luoghi conosciuti), sono abilmente
riprodotte nelle illustrazioni di Wolf Erlbruch71
, capaci di affiancare il racconto creando una
complementarità arricchente fra testo ed immagine. Soledad e la nonna e Un Paradiso per il
piccolo Orso sono libri che si prestano per essere ascoltati (lettura vicariale da parte dell’adulto) e
guardati: il bambino, dopo l’incontro nel magico triangolo costituito da se stesso, dal libro e
dall’adulto lettore-narratore, può, autonomamente, ripercorrere la storia, raccontarla nuovamente a
se stesso o, magari, ad un amichetto, o aggiungere alla storia la propria storia, immaginata,
fantasticata, inventata: perché anche a questo si offre un bel libro.
La scrittura, il racconto, le immagini possono prendersi la libertà di fantasticare sulla morte senza,
per questo, eludere la drammaticità dell’esperito e, d’altro canto, esercitando, a tutto tondo, la
facoltà umana di piegare gli eventi all’inverosimile per renderli più accettabili, meno drammatici,
non tanto in capo ad un’illusione, bensì in forza del desiderio di riportare il vissuto su un piano di
significato che si avvale del legame affettivo realmente esperito fra chi non c’è più e chi vive
ancora. Ci prova, Anna Lavatelli, regalando ai giovanissimi lettori un albo illustrato delicato e
brioso al contempo, reale e fantastico in egual misura: La nonna in cielo (Roma, Edizioni Lapis,
2008). Il testo e le vivaci immagini, create da David Pintor, sollevano dalla tristezza del distacco
dalla nonna la piccola Emma, e con lei il lettore, in un gioco di illusione e fantasia che può
69 Secondo il parere di P. Pira e L. Venini, ogni forma culturale, sia a livello individuale, nelle produzioni artistiche, sia a livello
sociale, nei riti e nei miti, può considerarsi come la volontà ed il tentativo da parte dell’uomo di contenere creativamente in una
situazione esistenziale ciò che oscilla tra i poli opposti di essere e non essere.
P. Pira, L. Venini, Le immagini e il vissuto della morte, in M. Spinella, G. Cassanmagnago, M. Lecconi (a cura di), La morte oggi,
op.cit., p.143. 70 “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da molto dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un
giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore.” Dal racconto di Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Sonzono,
Bompiani, 1993, p.94.
Un libro particolarmente interessante che permette, attraverso il racconto del viaggio di un nonno, di conoscere la ritualità funeraria
delle terre d’Africa lo offre Emanuela Nava, con le illustrazioni sinuose di Elena Barboni, in C’era una volta il nonno (Roma, Sinnos
editrice, 2007), arricchito da un approfondimento a termine di racconto che offre significativi spunti di riflessione utilizzabili anche
in ambito scolastico per un’utile ricerca storico-antropologica e interculturale, nonché per la condivisione e il confronto con possibili
esperienze vissute: occasione per sviluppare un pensiero su come si desidererebbe affrontare un’inevitabile e prevedibile perdita di
una persona cara, qual è un nonno, proprio come avviene nel racconto citato. Non si tratta di schede didattiche, bensì di una sorta di
racconto ulteriore su come, in particolare i popoli africani, assumono un atteggiamento verso la morte, così come verso la vita, molto
diverso rispetto agli atteggiamenti in uso nella nostra società. 71 Wolf Erlbruch, nato a Wuppertal in Germania, è considerato uno dei più importanti illustratori europei.
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sostenere la formazione di un pensiero elaborativo in cui il soggetto in crescita può trovare un modo
proprio e libero di interiorizzare le figure che la morte rende assenti. Il libro, il racconto non rende
la morte meno amara, certamente può favorire una migliore accettazione della stessa promuovendo
l’acquisizione di capacità atte a sostenere un processo elaborativo che si articola in un recupero del
valore, dell’affetto, del legame che, in vita, è stato costruito e vissuto fra le persone. Ecco, dunque,
che fra nonna e nipote, a separarle, non vi è più solo la morte, ma, come ci invita ad immaginare la
Lavatelli, ci può essere di mezzo il cielo: seppure trattasi sempre di distanza, certamente il cielo è
più trasparente, più limpido, più rasserenante.
Talvolta può accadere che un autore ritorni sul tema della morte in maniera ancor più chiara, come
se l’averne infranto il tabù permetta di fronteggiarla con maggior coraggio. Ne dà prova, ancora una
volta, Erlbruch con un libro per bambini davvero ardimentoso di cui è, oltreché illustratore delle
intense immagini, autore: L’anatra, la morte e il tulipano (Roma, Edizioni e/o, 2007)72
. Si tratta di
un libro temerario nelle immagini e schietto nel proporre un dialogo fra l’anatra e la morte,
protagoniste di una riflessione che pone la morte a fianco e non in opposizione alla vita, in una
prospettiva di naturalità capace di tratteggiare la morte con profilo propriamente umano. Il compito
che Erlbruch affida alla morte, simile ad un bambino che cerca compagnia ed amicizia, è di
raccogliere le spoglie mortali dell’anatra e non di causarne il decesso, in un clima di pietas che solo
il tratto di un artista è in grado di offrire73
. La morte, dunque, intesa come compagna naturale della
vita, la morte vista come componente insostituibile dell’essere, perde quell’alone di orrore nefasto
per riappropriarsi di un posto di naturale appartenenza.
Ancora per bambini a partire dai 5 anni, l’editoria contemporanea ci offre Il viaggio sul fiume e Il
nonno non è vecchio.
Il viaggio sul fiume (Milano, Jaca Book, 2002): splendido albo illustrato, in cui un solitario e
inderogabile viaggio diviene metafora del distacco e della perdita di una persona cara. Come a far
propria l’idea di morte attribuita da Freud ai bambini74
, i quali, secondo il parere del padre della
psicanalisi, la considerano come una partenza per un lungo viaggio, il racconto si avvale di tale
immagine per rappresentare la dipartita di un amico: non parla di vecchiaia né di malattia l’autore
del testo, Armin Beuscher, così ben armonizzato delle ampie figure illustrate per mano e talento di
Cornelia Haas. Il racconto ha come protagonisti un gruppo di simpatici animali che soffrono per
l’improvvisa ed inaspettata partenza di uno di loro, senza poter capire il perché di un viaggio così
improcrastinabile e solitario. Eppure, proprio nel ricordo degli intensi momenti vissuti, il gruppo di
72
Il tulipano nero, Queen of Night e Black Parrot, non è mai stato ottenuto e, per molti appassionati tulipanomani è diventata
un’ossessione. Come tutti i fiori è simbolo della caducità di tutte le cose, anche le più belle. Nel racconto di Erlbruch il tulipano nero,
appannaggio dell’uomo, è portato dalla morte quasi a sottolineare l’inafferrabile mistero della vita e della morte. 73
La similitudine con l’immagine della morte offerta dal racconto di Zusak è immediata; il tulipano posto sul corpo senza vita
dell’anatra e l’ultima passeggiata della morte con Liesel, rinviano l’una all’altra. 74 R. Vianello, Psicologia dello sviluppo, Bergamo, Edizioni Junior, 1993, p.168.
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amici trova la forza di accettare la realtà, riconoscendo i tanti doni lasciati dall’amico nel vissuto di
ciascuno: nel ricordo condiviso germina il seme del desiderio di continuare a celebrare la vita,
anche per chi non c’è più. Il dolore per il distacco non raggela i rapporti fra quanti sono rimasti,
tutt’altro: esso diviene forza coesiva, legame d’amicizia ancor più profondo, sincero, deciso.
Nel racconto Il nonno non è vecchio (Milano, Feltrinelli Kids, 2000), Donatella Ziliotto affida al
nonno il ruolo sostitutivo del genitore perduto, sottolineando la necessità di garantire, al bambino
rimasto orfano, una presenza che assolva i compiti di identificazione e sostegno emotivo atti a
favorire il buon proseguimento dello sviluppo psicofisico75
. Spesso gli adulti, impegnati
nell’espressione del proprio cordoglio76
, attribuendo ai più piccoli una mancata capacità nel
riconoscere la gravità della situazione, non si curano del bisogno di un nuovo sostegno, seppur
diverso, che non può mancare nelle fasi più delicate della crescita di un bambino, nonché dello
smarrimento, da loro provato, dopo la perdita di una persona cara. Donatella Ziliotto, grazie al suo
vivace racconto, accompagnato dalle chiare immagini di Adriano Gon, riporta l’attenzione su tale
aspetto e induce ad interrogarsi se si tratti di un libro per bambini o di un ammonimento per gli
adulti!
Nella vita può succedere che la morte sopraggiunga all’improvviso, inaspettata, lasciando orfani
bambini ancora troppo piccoli. Inger Hermann e Georg Maag con maestria si inerpicano in un
sentiero tortuoso, difficile e commovente: il percorso di elaborazione del lutto di due bambini,
Pietro e Valentina, entrambi costretti a subire la morte del papà. Il racconto si fa duro, drammatico e
profondamente emozionante, per poi concludersi con un luminoso finale. Sono contento di te! della
Hermann, narra di un grave incidente automobilistico in cui rimane coinvolto il piccolo Pietro e la
sua famiglia, evento purtroppo assai frequente nelle cronache italiane e non solo. L’autrice tedesca
non teme di usare parole dirette secondo un principio di realtà che rivendica il diritto di attribuire
alle cose il loro vero nome: “Papà…è morto”77
. L’iniziale rifiuto della luttuosa realtà permette a
Pietro di ritrovare nel sogno, e nel sogno ad occhi aperti, il genitore perduto78
. Solo grazie ad un
contesto familiare affettivamente ricco, Pietro riuscirà a trasformare una presenza desiderata e
sognata in una presenza interiorizzata, che trova, nel riecheggio dell’espressione paterna “sono
75 La perdita di una persona cara causa uno stato di crisi proprio per la mancanza dell’oggetto sul quale è stato investita la carica
affettiva; è necessario, nei tempi e nei modi rispettosi della personalità di ciascuno, un reinvestimento emotivo verso un “oggetto
d’amore” sostitutivo, che permetta al soggetto di trovare nuovi modi d’amare e sentirsi amato. Per un approfondimento si veda A.
Pioli, presentazione del testo G. Raimbault, Il bambino e la morte, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p.XIV 76 Il termine cordoglio deriva dal latino cordolium composto da cor (cuore) e dolere (provar dolore): è la risposta emotiva alla perdita
di qualcuno o qualcosa. Il termine lutto dal latino lugere (piangere). Per un approfondimento: A. Pangrazzi, Il lutto: un viaggio
dentro la vita, Torino, Edizioni Camilliane, terza edizione 2006, p.21. 77 I. Hermann, Sono contento di te!, Milano, Jaca Book, 1999.
La verbalizzazione dell’esperito e dell’avvenuto obbliga ad una presa in carico della realtà non solo da parte di chi ascolta, ma anche
di chi esprime a parole quanto accaduto, inducendo ad accettare una realtà, seppur drammatica, accogliendola e facendola propria. 78 “Trovandosi di fronte a una realtà che essi non sono in grado di gestire, spesso i bambini escono dal mondo reale, preferendo un
mondo che trovano accettabile”. H. Fitzgerald, Mi manchi tanto! Come aiutare i bambini ad affrontare il lutto, Molfetta (Ba),
edizioni la meridiana, 2002, p.43.
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contento di te!”, una continuità che si fa conferma. Valentina, nel singolare racconto di Maag, non
teme di dare sfogo a tutta la rabbia che sente dentro per la perdita, o meglio, per il sentimento di
smarrimento che segue quel “mai più” (riferito al rientro a casa del padre) che, come scure
improvvisa, si abbatte sulla sua giovane esistenza, ferendola spietatamente. Lo scrittore tedesco ci
permette di conoscere i sentimenti travagliati di una bambina catapultata, all’improvviso, da un
mondo incantato fatto di felicità, colori, profumi, parole, sguardi, alla dura realtà della perdita del
padre. Valentina strappa, sradica, distrugge, “uccide” il giardino e ciò che contiene, perché era in
quel giardino che, con il padre, si compiva la sua spensierata infanzia. Distruggere il giardino
significa ricercare una similitudine fra l’interiormente vissuto e il mondo circostante, con la rabbia
di non sapere che nome dare a ciò che si prova, senza capire ciò che si è rotto dentro79
. La penna di
Maag, a tratti densi e duri, percorre una via di elaborazione che diviene crescita, accettazione della
realtà per un’apertura nuova al futuro. Sono contento di te! e Il giardino appaiono adatti a bambini
a partire dai sei-otto anni d’età che, intrapreso uno sviluppo del pensiero di tipo operatorio-
concreto80
, iniziano a percepire il loro “diventare grande” che, dai racconti, emerge con chiarezza.
Si tratta di un diventare grandi che passa, obbligatoriamente, attraverso la consapevolezza di un
cambiamento e di un distacco graduale dalle figure di riferimento, metaforicamente rappresentato
dal lutto, per poter vedere oltre lo steccato dell’infanzia che, in particolare a partire dalla
preadolescenza, assumerà tratti sempre più nitidi ed impegnativi.
Altri libri, adatti alla fascia d’età sei-otto anni, sono Il mare del cielo, di Cosetta Zanotti (Cinisello
Balsamo, Milano, Edizioni San Paolo, 2004), Dove vanno le nuvole, di Antonella Ossorio (Roma,
Anicia, 2006) e Il cerchio della vita, di Koos Meinderts, Harrie Jekkers e Piet Grobler (Cornaredo,
Lemnisccat, 2009). Cosetta Zanotti si affida al linguaggio metaforico per parlare della morte come
dell’altra faccia della vita, scegliendo di chiamare mare d’acqua la vita e mare del cielo l’aldilà:
“La parola mare per tutti e due gli aspetti della vita (il qui e l’oltre) conferisce un’unità simbolica e
immaginifica che vale più di mille parole astratte”81
. In questo libro la scelta dell’autrice è di offrire
una visione della morte come passaggio: una prospettiva religiosa che vede nell’aldilà una
continuazione ed un rinnovato incontro fra coloro che si amano82
.
L’autrice Antonella Ossorio, nel racconto Dove vanno le nuvole, dà voce ad una nuvola che,
insieme ad una mamma ed al suo bambino, percorre le tappe della vita lasciando al mistero il prima
79 La rabbia, insieme al rifiuto, al senso di colpa e alla depressione sono reazioni che spesso si accompagnano al dolore per la perdita
di una persona cara; ai bambini dev’essere permesso provare tali sentimenti, devono essere aiutati ad esprimerli ed abbisognano
d’essere accompagnati nel percorso di superamento della crisi anche mediante l’indicazione delle modalità di espressione e
comunicazione, efficaci e non distruttive, dell’energia sprigionata dalle turbolenze interiori. Per un approfondimento: H. Fitzgerald,
Mi manchi tanto!, op.cit., pp. 42-59. 80 P.H. Miller, Teorie dello sviluppo psicologico, Bologna, Il Mulino, 1994, p.60. 81 M. Zattoni, Introduzione a C.Zanotti, Il mare del cielo, Cinisello Balsamo (Mi), Edizioni San Paolo, 2004. 82 Il libro Il mare del cielo fa parte della collana “Parole per dirlo, Libri preziosi per vivere insieme le cose difficili”, diretta, per le
Edizioni San Paolo, dalla stessa Zanotti.
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e il dopo, prima della vita e dopo la morte, che accomuna tutte le creature e tutto il creato. Fra
questi due estremi, che immaginiamo bui, in cui il buio rappresenta il nostro non sapere, c’è lo
spazio della vita che porta in sé il sapore dell’immensità: un’arena di vitalità, di gioia, di stupore, di
intense emozioni che permettono di dire, insieme alla nuvola narrante, che, seppur finita, la vita è
davvero un’avventura degna d’essere vissuta, attimo per attimo, nella bellezza dell’incontro con gli
altri. Il racconto della Ossorio, limpido e sereno, si accompagna alle delicate immagini pastello di
Alessandro Ferraro, donandosi al lettore come attimo di materna intimità. E, non ultimo, Il cerchio
della vita: è significativo notare come il titolo originario olandese, Ballade van de Dood,
letteralmente ballata della morte, sia stato capovolto, edulcorato, reinterpretato. Un simpatico
racconto in rima, ambientato in un fantastico regno animale, dove il leone-sovrano, insieme con gli
scienziati più affermati, escogita un modo infallibile per catturare la morte e fermare il suo lavoro.
L’epilogo non è così scontato: dopo gli anni di festa subentra la noia, la stanchezza di una vita senza
fine che perde, nella monotonia dell’eternità, il suo stesso entusiasmo, se non anche, il suo stesso
significato: “Allora il re si alzò e con orgoglio incominciò: ʹAndrò io! Addio!ʹ, esclamò. ʹDella
morte non ho più paura, la vita senza morte è ancor più dura!ʹ Entrò nella campana, forte e glorioso,
e tra le braccia della Morte trovò riposo. ʹLunga vita alla Morteʹ, esclamò il popolo gioioso. E
vissero tutti a lungo felici e contenti perché la Morte non faceva più battere i denti”83
.
I percorsi offerti da albi illustrati e da altri racconti rivolti alla fascia del primo biennio della Scuola
primaria si caratterizzano per scelte letterarie differenti: con percorsi immaginativi diversificati
presentano una vasta gamma all’interno della quale il piccolo lettore può incontrare ciò che più si
avvicina alle proprie esigenze e, d’altra parte, permettendo agli adulti di individuare eventuali
racconti specificamente adatti a situazioni contingenti o a vissuti personali: senza per questo
sottovalutare l’emozione e la provocazione suscitata dalla forza intrinseca di un bel racconto,
indipendentemente dall’aver vissuto o meno una situazione simile a quanto narrato.
Fin dalla prima infanzia, i bambini abbisognano d’essere accompagnati nella scoperta e nella
comprensione delle emozioni scaturite dalle esperienze interiori, delle quali spesso non conoscono
ancora il nome. Dare un nome alle emozioni, ai sentimenti, all’interiormente provato significa
acquisire uno strumento per appropriarsi del vissuto, ed è il primo passo da compiere per addestrare
la giovane personalità in costruzione a gestire le emozioni: processo fondamentale per uno sviluppo
maturo e resiliente84
. La narrazione si presta come tutore per apprendere a riconoscere le emozioni,
e la letteratura, nello specifico, diviene terreno di scoperta, spazio protetto di esplorazione: “E
mentre narriamo, ci accorgiamo che diventiamo più consapevoli di chi siamo, cosa desideriamo,
83 K. Meinderts, H. Jekkers e P. Grobler, Il cerchio della vita, Cornaredo, Lemnisccat, 2009, pp.22-24. 84 Per un approfondimento dell’importanza educativa della formazione resiliente, si rinvia al testo: B. Cyrulnik, I brutti anatroccoli,
op.cit.
29
cosa ci addolora, cosa ci rende felici. Quando raccontiamo, infatti, diamo senso non solo all’evento
specifico, ma ad un’intera classe di eventi; cioè esplicitiamo l’interpretazione che diamo a ciò che
accade”85
. Paradigmatico è, in tal senso, il fiabesco racconto del pediatra e scrittore Marcello
Bernardi, La palla perduta (illustrazioni di Vanna Vinci, Milano, Fabbri Editori, 2007), in cui la
protagonista Caterina attraversa i Regni della Solitudine, della Ricchezza, della Gloria, dell’Astuzia,
dell’Indifferenza, del Potere e della Paura prima di far ritorno a casa, dagli affetti e dagli amici, per
scoprire che al posto del nonno c’è un fiore. Il messaggio di Bernardi, certamente avallato da molti
anni di esperienza sul campo con i bambini, sembra affermare che, per essere capaci di accettare la
morte e, con essa, la ciclicità della vita, è necessario entrare nelle emozioni, farne esperienza,
conoscerle ed assaporarle nella realtà della la vita, in una comunione di sentimenti che può garantire
la sopravvivenza dell’individuo anche dove vi è difficoltà, in quanto la difficoltà è parte integrante e
costituente dell’esistenza umana86
. La forza suggestiva del racconto, arricchita da una cifra narrativa
cadenzata e ritmica, permette alla protagonista e, con lei, al lettore, di conquistare “passo dopo
passo, la possibilità di trovare la luce alla fine della oscura caverna”87
.
Ogni vita è una storia, è un pezzo di universo unico e senza eguali se letto con gli occhi dell’anima,
se osservato con lo sguardo di chi vede nell’altro l’originalità di un incontro: “Olga mi aiutò a
battere a macchina la mia storia […] e anche molto tempo dopo che tu sarai volato dal padre di tutti
i lupi, ci saranno sempre dei bambini che leggeranno la tua storia e ti vorranno bene.[…] Poi volai
giù verso il padre di tutti i lupi. E tutta la mia vita mi passò ancora una volta davanti agli occhi e fui
felice di aver avuto una vita così lunga, ricca e meravigliosa”88
. Un altro significativo albo
illustrato, in cui il protagonista è un gallo tenore, edito dalla Logos di Modena (2010), è L’ultimo
canto, testo di Pablo Albo e straordinarie illustrazioni di Miguel Ángel Díez: un racconto da leggere
e guardare, capace di far sorridere, di far commuovere, di indurci a credere che, da qualche parte nel
mondo, possa davvero esserci un gallo tenore che, al canto di O sole mio, sveglia i pochi abitanti ed
i molti animali del villaggio, fino al giorno in cui tutti dormiranno fino a tardi, perché il gallo,
stanco e vecchio, ma felice, ha terminato il suo compito per lasciare l’eredità del canto al figlio. Con
semplice, ma sincera, pietas gli strani abitanti accompagnano la sepoltura del gallo cha sapeva
salutare il sole ogni mattina: “Con i cuori colmi di gratitudine, pensarono a tutte le mattine in cui li
aveva svegliati. Lo deposero nella sua scatola da scarpe preferita e lo seppellirono accanto al
85 R. Vittori, Identità e narrazione, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, op.cit., p.13. 86 Il racconto di Mario Lodi, Cipì (San Dorligo della Valle, Trieste, Einaudi Ragazzi, 1992) ben esprime la bellezza e la difficoltà
della vita attraverso la storia dell’uccellino Cipì che, nel divenire della sua esistenza, metafora della vita di ogni persona, incontra
bellezza e paura, gioia e dolore, vita e morte in un susseguirsi di avventure che danno, alla quotidianità del vivere di un uccellino, il
sapore della straordinarietà dell’esistenza di ogni singola vita. 87 R. Denti, nota a fine racconto in M. Bernardi, La palla perduta, Milano, Fabbri Editori, 2007. 88 F.K. Waechter, Il lupo rosso, Milano, Babalibri, 2000, pp.50-57.
30
formicaio”89
. Estremamente toccante l’immagine del corteo funebre: bizzarro e triste, nei toni
dominanti del marrone e dell’ocra: il lettore osserva la scena da dietro i panni stesi, curioso ed
estraneo al contempo, con il testo impresso nelle lenzuola ad asciugare. Ritorna il tema della
ciclicità della vita, in un eterno divenire che trova espressione nella continuità da una generazione
all’altra generazione, nel passaggio di testimone dal padre al figlio che, nell’orgoglioso verso chi
ormai non c’è più, trova la forza per dare il meglio di sé.
Nella fascia d’età nove-undici anni troviamo numerosi racconti in cui giovani protagonisti si
confrontano con il momentum e il memento mortis, all’interno di percorsi narrativi più complessi
per trama e linguaggio. All’età considerata, secondo gli studi psicologici piagetiani, i ragazzi hanno
ben sviluppato un pensiero di tipo operatorio concreto, dunque il loro modo di ragionare è più
sistematico ed ordinato oltreché più flessibile, con sempre più affinata capacità di distinguere la
realtà dalla finzione90
. Le loro possibili domande di spiegazione, il loro desiderio di capire di più e
meglio la realtà vissuta ed incontrata è superiore rispetto agli anni precedenti, rendendosi pertanto
necessaria una libera apertura al dialogo, talvolta indotta dagli eventi. I ragazzi di tale fascia d’età
sono disponibili ad accettare un’immagine della morte proiettata, attraverso la narrazione, su un
piano di realtà tangibile o immaginabile, facilmente confrontabile con il loro vissuto, accompagnati
da figure conosciute e vicine capaci di offrire un’immagine accettabile di una realtà altrimenti
difficilmente collocabile in una dimensione comprensibile. In tal senso i racconti possono fornire
valide proposte di pensiero e di riflessione.
In molti libri a prevalere è il ruolo iniziatico affidato ai nonni: a loro spetta il compito di
accompagnare i nipoti lungo il percorso di crescita che comporta anche la conoscenza e la
comprensione della morte, non solo come responsabilità educativa ma, ancor più, come
consolidamento di un legame, garanzia di continuità e di rinnovamento. Il nonno, dunque, come
figura mediatrice attraverso la quale vi è un recupero positivo dell’immagine della vecchiaia e, con
essa, della morte che si avvicina. In Paola non è matta (Casale Monferrato, Alessandria, Piemme
Junior,1994) di Anna Lavatelli, la giovane protagonista crede nella continuità della presenza del
nonno materno defunto come mezzo per sopportare la sofferenza, non solo della separazione dei
genitori, ma anche di un egoismo adulto che isola la piccola, costringendola a ricorrere ai ricordi e
all’immaginazione per costruire un mondo alternativo in cui potersi sentire attesa, amata, accolta
(come lo percepiva quando c’era il nonno vicino a lei). E ancora, nel racconto di Roberto Piumini,
Mattia e il nonno (Trieste, Einaudi Ragazzi, 1999), si privilegia in modo netto il tema della morte
come distacco fisico sia del nipote dal nonno, sia del nonno dalle cose terrene, scegliendo di lasciare
in disparte altre problematiche. Piumini si avvale di un supporto contestuale ed affettivo forte e
89 P. Albo e M.A. Díez, L’ultimo canto, Modena, Logos, 2010, p.18. 90 G. Petter, Fantasia e razionalità nell’età evolutiva, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p.125.
31
protettivo, a fronte del quale poter introdurre, con la dovuta gradualità, il tema della morte del
nonno e del dolore di chi lo accompagna negli ultimi istanti di vita terrena. In un racconto delicato,
sereno, dolce, l’autore adotta immagini simboliche che dona allo stesso lettore, offrendo un modo di
affrontare la morte mediante un percorso elaborativo anticipato, ante mortem, nell’intento di far
giungere il protagonista, e con lui il lettore, ad un incontro preparato. Ciò che conta per l’autore, più
del silenzio che segue la morte, è la forza e la ricchezza che ha caratterizzato l’incontro terreno,
nonché l’auspicata capacità della generazione anziana di saper consegnare un testimone affettivo e
sapienziale profondo e significativo.
Anche Angela Nanetti sceglie di affrontare l’esperienza del distacco di un nipote dai nonni in un
meraviglioso libro: Mio nonno era un ciliegio (San Dorligo della Valle, Trieste, Einaudi Ragazzi,
1998). Un racconto in cui il lieto fine è dato dalla serenità interiore e familiare raggiunta da Tonino,
il giovane protagonista, narratore del racconto. Tonino ripercorre a ritroso la sua pur giovane vita,
caratterizzata da momenti felici e tristi, esilaranti e dolorosi, mettendo in evidenza il vissuto
interiore, il provato a fianco dell’esperito, rispondendo all’esigenza del lettore di identificarsi
attraverso emozioni condivise e sentimenti comuni. Angela Nanetti racconta, mediante uno stile
narrativo semplice, la complessità della vita di un bambino, com’è nella realtà di molti vissuti,
ancor più quando la morte fa capolino trascinando con sé le persone amate. Mediante la fictio
narrativa, la Nanetti invita il lettore a partecipare ad un gioco immaginario e ad utilizzare la fantasia
per affrontare una realtà difficile (l’esperienza della morte è trasformata in un’immagine piacevole),
non certo per illudere, ma in risposta alla necessità di riappropriarsi del “diritto di sfidare le realtà
con le provocazioni della fantasia”91
, allentando non solo l’angoscia di morte, ma, ancor più, il
timore dell’abbandono92
.
Un singolare libro, Graffi sul tavolo (Firenze, Salani, 1996), dell’olandese Guus Kuijer, attraverso
una cifra narrativa realistica e pacata, recupera l’incontro con il doloroso accadimento della perdita
di una nonna per indagare e sciogliere i difficili rapporti fra una madre e la figlia, che neppure la
morte è stata capace di cancellare. A Kuijer si attribuisce la capacità, quasi magica, di capire quei
pensieri che i bambini non sanno esprimere a parole, trasformandoli in racconti dal piacevole
sapore. L’autore affida a Madelief, piccola detective in erba, il compito di accompagnare il nonno,
rimasto vedovo, lungo il percorso di accettazione del lutto, mostrando come, contrariamente al
pensiero comune, anche i bambini possono offrire un sostegno insostituibile che favorisce quel
lavorio interiore necessario a superare la crisi post mortem: ciò si rende possibile quando ai bambini
91 E. Beseghi, Itinerari filosofici attraverso la narrazione per l’infanzia, “Studium Educationis”, n.3, 2000, p.468. 92 Anche nel meraviglioso racconto L’uomo che coltivava le comete, Angela Nanetti offre un’immagine della morte delicata,
immaginandola come passaggio verso un dove capace di rendere quanto in vita sarebbe dovuto ad ogni donna e uomo: “Un breve
respiro, un soffio, poi Nenele aveva sorriso, le aveva stretto la mano ed era volata via nel paese del buon re Uranio, dove non fa mai
né freddo né caldo e dove per la gente come loro eran pronti un letto di piume e una minestra”. A. Nanetti, L’uomo che coltivava le
comete, San Dorligo della Valle (Ts), Edizioni EL, 2002, p.13.
32
è dato di partecipare e condividere l’esperienza dolorosa e di percorrere, con gli adulti, una via che
apre nuovamente alla fiducia nella vita, in cui “A volte tutto è così bello da far paura”93
.
A fianco di racconti che scelgono trame verosimili ve ne sono altri che prediligono di giocare con la
morte, immaginando un mondo parallelo raggiungibile solo con il trapasso, per far emergere che, al
di là degli scenari che possono assumere connotazioni fantasiose o oniriche, vi è sottesa la ricerca di
una continuità dei rapporti con le persone che si amano. Astrid Lindgren, con i protagonisti del
romanzo I fratelli Cuordileone (Milano, Salani, prima edizione marzo 1994), inventa un luogo
senza tempo raggiunto dai due fratelli dopo la morte prematura di entrambi, in risposta al desiderio
di sapere qualcosa di più sull’aldilà: non potendo dare risposte veritiere, la Lindgren si affida
all’immaginazione per descrivere una vita oltretomba in cui le dinamiche terrene, seppur
trasformate dall’immaginario narrativo, si rispecchiano: la lotta tra bene e male, il coraggio di
partire per cercare la propria identità, la scelta di rischiare la vita per il bene dell’altro. Temi molto
cari a chi si appresta a spiccare il volo verso il futuro, staccandosi dalla sicurezza dei propri cari per
cercare e formare la propria identità, attraverso i rischi e le vicissitudini che il percorso di crescita e
di ricerca dell’identità portano con sé. Nel racconto della Lindgren appare chiara la necessità, per
poter crescere e maturare, di dover affrontare l’ignoto, di dover abbandonare la propria casa e gli
affetti sicuri per inoltrarsi in un nuovo dove sconosciuto in cui è messa a prova la volontà di
affrontare la crescita ed il passaggio obbligato verso la forgiatura della personalità adulta. Pur nel
timore della propria fragilità, nell’insicurezza delle proprie capacità, tipiche della preadolescenza
prima e dell’adolescenza poi, il giovane e debole protagonista affronta l’oscura realtà per ritrovarsi,
al termine del racconto, capace di provare paura e capace di affrontare tale profondo sentimento94
.
Sulla scia del racconto della Lindgren, Teresa Buongiorno, con Il mio cuore e una piuma di struzzo
(illustrazioni di Giulia Orecchia, Milano, Salani, 2007), trasporta la giovane Corinna nel mondo
dell’oltretomba, alla ricerca di un padre perduto, sull’impeto del desiderio di un nuovo incontro.
L’esperienza del lutto può accompagnarsi alla fantasia di raggiungere chi ci ha preceduto nel
trapasso, nell’illusione che possa essere meno dolorosa la morte piuttosto che la continuazione della
vita senza una persona importante. La letteratura, in generale, e la letteratura giovanile, nello
specifico, nel suo essere rappresentazione ed interpretazione della realtà, nel suo procedere come
una sorta di lunga interrogazione nella quale lo stesso lettore è incoraggiato a cercare le proprie
risposte ponendosi come meditazione sull’esistenza, sollevando anche il rimosso, il non detto95
,
illuminando zone d’ombra e trasformando in parola narrante il vissuto interiore, si offre come arena
93 G. Kuijer, Graffi sul tavolo, Firenze, Salani, 1996, p.93. 94 La Lindgren, recuperando il valore dei riti di iniziazione che, fin dai tempi antichi, segnavano il passaggio dalla fanciullezza all’età
adulta mediante prove coraggiose e, talvolta, dolorose, fa emerge come la crescita sia associata alla capacità di affrontare la paura
piuttosto che alla negazione, da parte del protagonista, di provare un simile sentimento. 95B. Pitzorno, Storia delle mie storie, op.cit., p.148.
33
accogliente in cui il lettore, bambino o ragazzo, può cogliere motivi di riflessione, termini di
paragone, fattori di confronto, nel rispetto profondo per la propria personale libertà. Ecco dunque
che il racconto si offre come palestra esperienziale in cui poter anticipare, attraverso
l’identificazione e l’immedesimazione con i personaggi narrati, un vissuto ipotizzabile, con tutto il
carico di emozioni e veridicità. Una sorta di palestra esperienziale protetta, che si avvale della fictio
narrativa per allentare il peso della drammaticità che portano con sé la morte ed il distacco.
La letteratura permette di ricollocare la morte all’interno di un percorso narrativo che diviene
ricerca di senso: significazione del vissuto, seppur immaginato, per staccare l’incontro ultimo
dall’idea d’essere un evento imprevisto ed accidentale, ricollocandolo su un piano di realtà che
nulla toglie al carico di umanità che gli spetta di diritto.
Il tempo della lettura diviene tempo dell’essere in cui i bambini ed i ragazzi possono, attraverso la
fictio narrativa, conoscere realtà che mantengono anche per l’adulto un alone di mistero. Il tempo
della lettura diviene risposta alle loro curiosità, al loro desiderio di capire, di sapere; diviene
opportunità di comprendere che, nonostante la morte, la vita porta in sé una traccia d’infinito che
spetta a ciascuno scoprire ed assaporare in pienezza, riconoscendo il valore inestimabile di ogni
esistenza, di ogni essere umano, incoraggiando un’attenzione continua a prenderci cura di ogni vita,
qui ed ora.
34
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