Dispense migrazioni e viaggio

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CRESCERE CHE AVVENTURA! Storie in filza Dispense per lo studio PERCORSO “MIGRAZIONE E VIAGGIO”

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Materiale di studio per il percorso su migrazioni e viaggi del progetto "Crescere che avventura"

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CRESCERE CHE AVVENTURA! Storie in filza Dispense per lo studio PERCORSO “MIGRAZIONE E VIAGGIO”

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INDICE CAPITOLO 1. RICERCA STORICA. METODOLOGIA E SELEZIONE DELLE FONTI

CAPITOLO 2. L’ARCHIVIO DELL’ISTITUTO DEGLI INNOCENTI E LA MOSTRA FIGLI D’ITALIA 1. L’archivio storico 10 2. L’Inventario on line 10 3. La mostra 10 4. Accoglienza e percorsi di vita prima della chiusura della ruota 11

4.1 L'arrivo nel “presepe”, segni di riconoscimento e nomi 11 4.2 Baliatico e percorsi di vita 13

CAPITOLO 3. IL PASSAGGIO AL DIGITALE, EDUCAZIONE AI MEDIA E IDENTITÀ IN RETE

1. L’archivio e la rete 16 2. Caratteristiche generali del Web 16

2.1 Descrizione 16 2.2 L'organizzazione dei contenuti 17 2.3 I servizi 18

3. Identità in rete e privacy 18 3.1 Caratteristiche dell'identità digitale 18 3.2 Autenticazione 18 3.3 Reputazione 19

4. Privacy online, questa sconosciuta 19 5. Sai proteggere la tua privacy online? Tre passi per iniziare 20 6. Copyright e copyleft 21 7. La legge di internet 25

1. Storia e storiografia pag 4 2. Storia nota e storia ignota 5 3. Finalità della storia 5 4. Le fonti storiche 5

4.1 Classificazione 6 4.2 Fonti volontarie e fonti involontarie 6 4.3 Fonti orali e audiovisive 6 4.4 Fonti scritte 8 4.5 Conservazione delle fonti 8 4.6 Gli archivi e le biblioteche 9 4.7 Errori e varianti 9

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CAPITOLO 4. STORIA E GEOGRAFIA DELLE MIGRAZIONI 1. I fenomeni migratori 27 2. Le migrazioni nell’età preindustriale 28

2.1 La mobilità circolare e l’attrazione urbana in Europa 28 2.2 Guerre e diaspore religiose 29 2.3 Le migrazioni extraeuropee: colonialismo e migrazione 29 2.4 America latina e America del Nord e Australia 30 2.5 Gli esodi di massa tra Ottocento e Novecento 30 2.6 La Grande emigrazione dall’Europa 31 2.7 L’emigrazione italiana 32

3. Il fenomeno nel mondo contemporaneo 33 3.1 I fenomeni globali in atto 34

4. Le cause delle migrazioni 36

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CAPITOLO 1. RICERCA STORICA. METODOLOGIA E SELEZIONE DELLE FONTI 1. Storia e storiografia La storia è la disciplina che si occupa dello studio del passato tramite l'uso di fonti, cioè di tutto ciò che possa trasmettere il sapere. Più precisamente, la storia è la ricerca e la narrazione continua e sistematica di eventi del passato considerati di importanza per la specie umana, compreso lo studio degli eventi nel corso del tempo e la loro relazione con l'umanità. La storiografia è la descrizione scritta di fatti e accadimenti della vita degli individui e delle società del passato e dell'interpretazione che ne danno gli storici. Tra le discipline scientifiche e letterarie, la storiografia è forse quella più ostica da definire, poiché il tentativo di scoprire e conoscere gli eventi accaduti nel passato, formulandone un resoconto intelligibile, implica necessariamente l'uso e l'influsso di numerose discipline ausiliarie. Scopo degli storici è quello di raccogliere e registrare gli eventi del passato dell'umanità, per scoprirne spesso di nuovi, partendo dal principio che le informazioni in loro possesso sono incomplete, parzialmente inesatte o distorte e che richiedono quindi un'analisi accurata. Perciò la storiografia è naturalmente soggetta ad interpretazione e pertanto influiscono su di essa gli indirizzi, i metodi e gli strumenti degli interpreti (gli storici); gli storici sono a loro volta influenzabili dalla struttura socio-culturale-economica in cui si formano e agiscono. Proprio per questa dipendenza dai modi di pensare dei suoi interpreti, la storiografia è a sua volta una sorta di processo che può essere oggetto di studio: in questo senso si può parlare di una storia della storiografia.

È un grande equivoco confondere la storiografia con la storia. Si considera la storia come l'insieme di tutti gli eventi, fenomeni, evoluzioni che hanno riguardato il genere umano dalla nascita della scrittura ad oggi. In questo senso, se la storia è res gestae, ("cose accadute"), la storiografia è stata correttamente definita historia rerum gestarum ("racconto delle cose accadute").

In generale si possono distinguere tra diverse tipologie di oggetti della storiografia:

-­‐ eventi: avvenimenti di breve o brevissima durata che il più delle volte hanno un'incidenza limitata, ma che a volte possono avere anche portata e ripercussioni molto differenti;

-­‐ fenomeni: andamenti che si svolgono durante periodi più lunghi, estesi almeno nell'arco di una generazione. Tendenze e svolgimenti di portata ampia che si svolgono prevalentemente in campo economico, sociale, demografico, culturale;

-­‐ evoluzioni: trasformazioni di lunghissima durata e portata amplissima. Si estendono oltre le epoche storiche e a volte risalgono anche a tempi precedenti alla comparsa dell'uomo (mutazioni astronomiche, geologiche, climatiche, ecc.).

La storia procede per processi di trasformazione, o evolutivi, attraverso una transazione continua, in cui evoluzioni, fenomeni ed eventi, motivazioni e accidentalità, fattori ambientali e umani, contrasti e coincidenze si intrecciano, si urtano, rimbalzano, si deformano, scompaiono e riappaiono, influenzati da rapporti di causalità, come dalle perturbazioni della causalità e si attuano secondo svolgimenti previsti e imprevedibili. Tutto ciò confluisce a formare delle congiunture, in altre parole quelle combinazioni eterogenee di situazioni e di fatti che, proprio per la loro complessità interna sono

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irripetibili. Ogni periodo della storia può essere visto come la combinazione di un'ampia gamma di concomitanti condizioni, circostanze, fattori, andamenti e variazioni di origine remota, recente o contemporanea.

2. Storia nota e storia ignota

Occorre sempre tenere presente che non esistono verità storiche, o meglio storiografiche, dovendosi parlare sempre di ricostruzioni, interpretazioni e conoscenze attendibili e fornite in buona fede, che rimangono comunque sempre parziali e provvisorie. Se la storia si occupa di quella minima parte del tempo passato in cui è comparso l'uomo, di questa piccola parte ne conosciamo solo una piccolissima porzione. È per questo che è utile distinguere nella storia la storia nota, che è molto poca, da quella ignota, che è invece la maggior parte. La storia nota è costituita da quei rari frammenti del suo corso complessivo di cui si ha qualche traccia. La storia ignota è tale o per la perdita delle sue tracce, o per occultamenti volontari e involontari, o per la nostra incapacità di leggerne le tracce o per la nostra paura a riconoscerle.

La storia può essere ricavata da ogni parte. Noi stessi siamo fonti storiche. I nostri modi di fare ci sono tramandati, così la nostra cultura; se fossimo addirittura in grado di interpretare il nostro patrimonio genetico, che si è tramandato nelle varie generazioni dell'uomo, vi potremmo leggere moltissime informazioni sul nostro passato.

3. Finalità della storia

Si studia la storia per capire se stessi. Si studia se stessi per capire la società, lo Stato, la civiltà nella quale si vive, anche, e soprattutto, in rapporto con il passato. Nel momento in cui si nasce si eredita anche quella parte oscura che è il nostro passato, con cui mantiene legami tutto il nostro successivo agire. La storia può e deve integrarsi con le altre materie scientifiche attraverso studi interdisciplinari, allo scopo di illuminare il più possibile il nostro percorso evolutivo.

È la mancanza d'identità, vale a dire il difetto di conoscenza delle proprie radici, a portare l'intolleranza, che è alimentata inoltre dalla mancanza di una corretta conoscenza della storia degli altri, dell'altrui punto di vista e dello spirito di accettazione delle alterità.

Ecco perché la storia è costretta ad uscire fuori dagli angusti margini delle date e dei luoghi per fertilizzare con il suo limo i ramoscelli inerpicanti nella scala della conoscenza, alla ricerca delle cause prime dei mutamenti.

4. Le fonti storiche Ogni traccia del passato rappresenta, in senso lato, una fonte, ovvero il materiale di lavoro dello storico e la condizione fondamentale per la ricerca. Il punto di partenza della ricerca storica è, comunque, un documento e cioè un oggetto che può fornire una testimonianza utile per conoscere un determinato evento. I documenti non devono essere necessariamente scritti. Essi non possono venire concepiti come dati oggettivi e assoluti, di per sé evidenti ed eloquenti, poiché diventano tali solo quando sono rilevanti e significativi all’interno delle ipotesi che guidano e orientano la ricerca stessa.

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4.1 Classificazione Le classificazioni hanno un valore meramente pratico, di comodità di studio e di ricerca, anche perché i criteri su cui poggiano sono sempre imprecisi e incerti. L’insostenibilitā delle ripartizioni è stata chiaramente avvertita da eminenti esponenti della ricerca storiografica. Non è possibile, perciò, una classificazione assoluta delle fonti che, secondo le indicazioni proposte nel passato, tenga conto solo di contenuto, forma o supporto del documento. La classificazione che segue, sintetizzata in Figura 9, ha un valore puramente pratico di comodità e utilità convenzionale nell’ambito della procedura di ricerca, con la consapevolezza che alla base delle distinzioni vi sono criteri tutt’altro che certi e univoci. 4.2 Fonti volontarie e fonti involontarie Le fonti volontarie o intenzionali, in base alla catalogazione delle fonti nei manuali classici di metodologia, sono quelle che sono state create allo scopo deliberato di lasciare un ricordo, una testimonianza per i posteri. Si tratta di una categoria vastissima che comprende opere artistiche e tecniche, usi, leggi, corrispondenze ecc. Una cronaca, ad esempio, è testimonianza volontaria, in quanto chi ha scritto il resoconto dei fatti voleva che altri ne fossero informati; così chi ha fatto erigere un arco di trionfo si proponeva di celebrare la gloria di un personaggio o di un episodio anche nei secoli futuri. Le fonti involontarie sono costituite da quasi tutto ciò che il passato ci ha lasciato, ma non intenzionalmente. Sono paragonabili a indizi che trasmettono o suggeriscono informazioni, magari incomplete e frammentarie, come sono appunto gli indizi. Cicerone scrivendo le lettere ai suoi familiari non pensava ai posteri, eppure per noi quelle lettere rappresentano una miniera di informazioni sulla vita a Roma nel secolo I a.C. Tali fonti sono numerosissime e vanno dalle reliquie umane agli oggetti di uso comune. 4.3 Fonti orali e audiovisive Fin dall'antichità e per molto tempo l’unico metodo per trasmettere notizie fu la tradizione orale: ogni messaggio orale, però, dovendo sottostare a numerosi passaggi (riferimento di voce in voce, trascrizione, interpretazione) comportava necessariamente alterazioni e tendeva inevitabilmente all’approssimazione. Il greco Tucidide (secolo V a.C.), nell’esporre i criteri con cui si documentò per narrare le vicende della lunga guerra che oppose Atene e Sparta verso la fine del secolo, dichiarava: “Ho ritenuto di dover scrivere i fatti ai quali io stesso fui presente e quelli riferiti dagli altri esaminandoli con esattezza a uno a uno, per quanto era possibile. Era ben difficile la ricerca della verità perché quelli che erano stati presenti ai singoli fatti non li riferivano allo stesso modo, ma secondo che uno aveva buona o cattiva memoria, e secondo la simpatia per questa o quella parte”. Le affermazioni di Tucidide lasciano però intuire che non sempre è possibile distinguere nettamente le fonti primarie da quelle secondarie (di cui si parlerà in seguito); anch’egli, infatti, talvolta riferisce testimonianze fornite da altri. Il problema è lo stesso quando gli storici antichi si ispirano ad autori vissuti in secoli precedenti e le cui opere sono andate perdute. Nel corso dei secoli la fonte orale ha vissuto periodi di maggiore o minore fortuna. Fino all'avvento di tecnologie in grado di riportarci la viva voce di testimoni di grandi eventi o fatti di vita quotidiana, la fonte orale ha sempre dovuto appoggiarsi ad una trascrizione. La scrittura faceva, quindi, da mediazione, più o meno fedele, tra il testimone e i posteri. Tra le fonti orali oggetto di trascrizione (che devono essere sottoposte a una verifica e che assumono sempre la caratteristica di fonti secondarie) possiamo includere leggende, proverbi, notizie tramandate di generazione in generazione, tradizioni, canzoni popolari.

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Figura 1: Sintesi della classificazione delle fonti adottata. Con l'utilizzo di strumenti di registrazione vocale la fonte orale ha riacquistato una sua dignità di fonte diretta: ad esempio le trasmissioni radiofoniche e televisive corrispondono, per valore storiografico, a giornali, quotidiani e riviste; oppure la registrazione delle voci dei piloti conservata nella scatola nera di un aereo diventa a volte l'unica fonte diretta sulla dinamica di un incidente. Alle fonti audiovisive appartengono quelle fonti che altrove vengono definite figurate e con questi termini si fa riferimento alle carte geografiche e topografiche, alle insegne araldiche, alle monete, ai quadri, ai film. Molti strumenti di informazione e di consultazione si possono presentare anche o in alternativa alla forma manoscritta o stampata, sotto forma di microfilmati e su diversi supporti elettronici locali (CD-rom, floppy) o remoti (accesso diretto alle reti Internet). E’ possibile, infatti, accedere ai cataloghi nazionali e internazionali tramite la rete Internet, modalità di ricerca che si affianca a quella tradizionale dell’opera a stampa. Le nuove tecnologie informatiche stanno anche trasformando i procedimenti di conservazione e di

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catalogazione delle fonti e, quindi, stanno profondamente incidendo su tutte le fasi della ricerca. 4.4 Fonti scritte La fonte scritta è tradizionalmente la fonte per eccellenza dello storico: lapidi, materiale diplomatico e notarile, diari, libri, hanno origine quando gli uomini imparano a scrivere e cominciano a incidere i primi segni su lastre di pietra, fogli di papiro, pergamena, medaglie, tramandandoci così le prime informazioni sicure su determinati fatti. Le fonti scritte a loro volta si distinguono in fonti documentarie e fonti narrative. Tra le fonti scritte documentarie sono annoverati tutti i documenti di tipo pubblico e di tipo privato. Gli atti pubblici sono quelli emanati dalle autorità politiche (i diplomi dei sovrani; le bolle papali; le istruzioni dei ministri degli esteri; i carteggi degli ambasciatori; i registri delle cancellerie dei principi, del papa e dell’imperatore; gli atti parlamentari; gli editti; i manifesti, etc.) e gli atti di tipo amministrativo (come gli atti anagrafici, le ordinanze, i bandi, le registrazioni catastali). Gli atti privati riguardano ogni attività di tipo privato che necessiti la testimonianza scritta (contratti, atti notarili, testamenti, doti, ecc.). Il carattere pubblico o privato del documento è dato dalla sua stessa natura, non dalla persona che lo produce: se, ad esempio, un re emana un decreto, produce un atto di tipo pubblico, ma se firma un atto notarile per l'acquisto di una proprietà, compie un atto privato. Altre fonti documentarie sono costituite dalla stampa periodica, dagli atti di congressi, da ogni tipo di documentazione a stampa che voglia fornire particolari informazioni (orari ferroviari, depliant pubblicitari, elenchi telefonici, cataloghi, etc.). Esiste una documentazione scritta anche dell’attività economica: i bilanci delle aziende, i listini dei prezzi, le registrazioni dell’andamento dei cambi e della borsa valori, i registri di contabilità di enti pubblici e privati. Le fonti narrative sono costituite da cronache, annali, storie, biografie, diari, memorie, racconti di avvenimenti. 4.5 Conservazione delle fonti Le biblioteche e gli archivi sono i luoghi di conservazione delle scritture su carta. La biblioteca è il luogo in cui trovano in prevalenza collocazione le fonti edite, le fonti inedite e quelle cronachistiche (manoscritti, fondi ecclesiastici, fondi privati, bibliografie speciali, stampa di varia natura, cataloghi, inventari), mentre le fonti documentarie sono tendenzialmente concentrate presso gli archivi (archivi di stato, comunali, ecclesiastici, di famiglie, parrocchiali, vaticani). I documenti scritti su materiale facilmente deperibile, papiro o pergamena, in genere non hanno resistito al tempo. Attualmente, però, è possibile ricostruire testi in pessimo stato di conservazione, attraverso la lettura con il microscopio elettronico. Molto più abbondanti sono i testi scolpiti su materiale durevole come pietra, metallo e terracotta. A questo proposito si pone il problema del rapporto dello storico che fa ricerca con altre discipline come l’epigrafia (necessaria a tradurre e interpretare correttamente le iscrizioni); la numismatica, che occupandosi di monete fornisce indirettamente informazioni sul grado di sviluppo dell’economia e su altri aspetti della società. Per le epoche più vicine a noi si può ricorrere al contributo di altre discipline quali, ad esempio, la statistica, l’economia, la demografia e l’elenco potrebbe continuare ancora per avvalorare l’idea della complessità e del rigore con cui deve essere condotta un’approfondita indagine storica. 4.6 Gli archivi e le biblioteche Gli archivi nascono con l’organizzazione stessa del vivere sociale delle cui istituzioni raccolgono il sedimento scritto. Esistono, quindi, archivi di famiglia, di comuni, di stati, di

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confraternite, di imprese commerciali, caratterizzati dall’assoluto predominio di pezzi unici, consistenti spesso in una carta a sé stante (testamenti, contratti, lettere, ecc.) o in registri. Gli Archivi di Stato italiani sono uno per ogni capoluogo di provincia, con eventuali sezioni distaccate. Si arricchiscono continuamente di quanto, per legge, deve esservi depositato da enti pubblici e delle donazioni e depositi di archivi privati. Si tratta di materiale liberamente consultabile, salvo alcune eccezioni: quelli di carattere riservato relativi alla politica estera o interna dello Stato, che divengono consultabili cinquanta anni dopo la loro data, e quelli riservati relativi a situazioni private di persone, che divengono consultabili dopo settanta anni. 4.7 Errori e varianti I manoscritti possono contenere diverse forme di imperfezione, soprattutto se sono stati copiati. Per cui è frequente incorrere in parole scritte in modo impreciso a causa, ad esempio, di aplografia (statale ridotto a stale), dittografia (sperare diventa sperperare), omissione di segni diacritici (accenti, apostrofi, punteggiatura). Tra i vari errori possibili, alcuni sono evidenti, altri sono subdoli, perché le parole sostituite hanno senso e s’inseriscono bene nel contesto. Il capitolo è tratto da: - Wikipedia, voci storia e storiografia - Linee Guida per la ricerca di informazioni storico-ambientali, Margottini, Martini, Paolini, Rocconi Bibliografia: Croce B., Teoria e storia della storiografia, Bari, 1927 Chabot F., Lezioni di metodo storico, Roma-Bari, 1995 Caracciolo A., L’unità del lavoro storico: note di ricerca, Napoli, 1967 Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969 Fernand Braudel, Storia, misura del mondo, Bologna, Il mulino, 2000

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CAPITOLO 2. L’ARCHIVIO DELL’ISTITUTO DEGLI INNOCENTI E LA MOSTRA FIGLI D’ITALIA 1. L’archivio storico La raccolta documentaria, che costituisce l'Archivio Storico dell'Istituto degli Innocenti, rappresenta un patrimonio unico nel suo genere per completezza cronologica e varietà di contenuti. Tale ricchezza, costituita da ben 13551 unità, testimonia la vita dell'antico Ospedale a partire dalla sua edificazione e quella di innumerevoli altri enti, famiglie e personaggi la cui memoria scritta pervenne, con i loro patrimoni, agli Innocenti nel corso dei secoli. Tra le serie documentarie di notevole rilievo per la storia dell'Ospedale e per quella della sua attività assistenziale, prodotte in gran parte sotto il Patronato dell'Arte della Seta (secc. XV-XVIII), sono particolarmente preziose quelle dei Libri della muraglia (1419-1582), che testimoniano l'accrescimento della Fabbrica brunelleschiana; dei Libri dei privilegi (secc. XV-XVIII) concessi dal Comune all'antico Ospedale; delle Deliberazioni degli Operai (1575-1791), preposti alla gestione dell'Ente; dei registri di Balie e bambini (1445-1950), testimonianti la continuità dell'attenzione ai bisogni dell'infanzia nel corso dei secoli e attraverso le varie forme di governo istituzionale. Il materiale conservato è composto da settori in parte caratteristici degli archivi degli enti di assistenza e beneficenza e in parte del tutto originali, a costituire una fonte ricchissima di notizie per la storia economica, culturale, artistica e sociale della città di Firenze e del territorio circostante, con possibilità di ricerca anche su aree nazionali ed europee. 2. L’Inventario on line L'attuale edizione digitale dell'Inventario dell'antico ospedale rappresenta il punto di arrivo del riordino logico e fisico della documentazione storica conservata dall'Istituto degli Innocenti. E' uno strumento unico nel suo genere perché coniuga alle caratteristiche dell'inventario tradizionale le potenzialità del mezzo informatico. L’Inventario on line rappresenta uno strumento messo a disposizione degli studiosi di tutto il mondo che intendono fare ricerca sulle fonti dell’antico ospedale e su quelle di enti e persone le cui memorie documentarie sono conservate da secoli all’interno del suo archivio storico. Diversamente dai tradizionali inventari cartacei, esso offre all’utente in modo del tutto prezioso e originale, la possibilità di estrapolare, con consultazioni mirate, notizie sufficienti all’avvio di innumerevoli ricerche e di compendiarle per temi, per cronologico, per fondi, sezioni e settori. Uno strumento dunque che vuole essere di stimolo oltre che di aiuto alla ricerca storica, suscettibile, in quanto mezzo digitale, di edizioni aggiornate che ne mantengano tuttavia invariato l’impianto gerarchico originale, espressione dell’attività di storico del curatore, cui spetta anche ogni diritto morale sui contenuti. 3. La mostra La mostra Figli d'Italia, Gli Innocenti e la nascita di un progetto nazionale per l'infanzia (1861-1911) illustra la storia dell'accoglienza ai bambini abbandonati a Firenze, Milano, Venezia, Napoli e Bologna, nel primo cinquantennio dello stato nazionale. Si offre così uno sguardo inedito su un periodo che vede il tema dell'infanzia e della sua cura entrare di diritto a far parte delle nascenti politiche unitarie.

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La mostra racconta le vicende degli assistiti, orfani o abbandonati che venivano introdotti nella “ruota”, a Napoli, nella “scafetta” a Venezia o messi nel “presepe” a Firenze. Attraverso le biografie di 15 fanciulli vissuti agli Innocenti e in altri brefotrofi italiani, tra il 1861 e il 1911 e, grazie a fotografie d'epoca, video, oggetti e documenti di archivio la mostra illustra la vita quotidiana dei bambini e delle bambine all'interno delle istituzioni. Il percorso espositivo, ambientato nell’antico Ospedale, nei luoghi dove arrivavano e vivevano i piccoli esposti, prende avvio dagli ultimi anni di utilizzo della finestra ferrata la cui chiusura, avvenuta a Firenze nel 1875, segnò la fine dell'abbandono anonimo introducendo nuove modalità di accoglienza. Con Figli d'Italia si delinea l'evoluzione della cura e dell'educazione che riflette e talvolta anticipa le innovazioni scientifiche e pedagogiche del tempo. Emergono gli aspetti demografici e le condizioni di vita dei fanciulli, la formazione ai mestieri, l'assistenza alle donne in gravidanza. L'avventura della crescita e le vicissitudini di madri e bambini si intrecciano con le trasformazioni degli enti di accoglienza, allora al centro di una riforma profonda che porterà a nuove politiche nazionali per l'infanzia. Le vicende degli assistiti, orfani o abbandonati si diversificavano dopo il periodo dell’allattamento. A Napoli i maschi, non restituiti ai legittimi genitori e non adottati, erano inviati ad altri reclusori dove avrebbero trascorso l’infanzia a imparare un mestiere. Se a Venezia si prediligeva l’impiego dei trovatelli nell’artigianato e nei primi opifici, agli Innocenti di Firenze maschi e femmine erano una risorsa del mondo agricolo e si inserivano soprattutto nelle famiglie a contatto con l’ente assistenziale: balie, tenutari, benefattori. Nei casi più fortunati le bambine, in numero sempre maggiore tra gli esposti, erano prese a servizio dalle famiglie benestanti. Per gli orfani dei Martinitt e delle Stelline di Milano e dell’istituto Primodì di Bologna la cura e l’educazione si differenziano rispetto a quanto è riservato agli abbandonati. I ragazzi, accolti attorno ai sette anni vengono istruiti, avviati al lavoro e tutelati in modo più organico rispetto ai loro coetanei del brefotrofio, privi tra l’altro del sostegno di un’identità familiare. Divenne chiaro però allora che l’opera caritativa non si esauriva con l’accettazione e l’allevamento dei minori. Bisognava battersi perché la loro dignità e i loro diritti fossero rispettati. È in questo periodo, scandito dal progresso nella cura dell’infanzia che si ha finalmente la consapevolezza che orfani ed esposti erano, oltre che alunni e assistiti, prima di tutto figli, “figli d’Italia”. 4. Accoglienza e percorsi di vita prima della chiusura della ruota Riportiamo di seguito il saggio di Lucia Ricciardi, archivista dell’Istituto degli Innocenti, in cui l’autrice ripercorre, attraverso i documenti messi in mostra, la storia dell’Istituto e dei bambini che vi furono accolti. 4.1 L'arrivo nel “presepe”, segni di riconoscimento e nomi «Altezza imperiale e Reale, per le buche di una ferrata, corrispondente sotto il loggiato esterno di questo Spedale, vengono introdotti, ordinariamente a notte molto avanzata e depositati sul ripiano della finestrella coperto da un cuscino, gl’innocenti figli della colpa o della miseria; e coloro che ve gli abbandonano sogliono darne avviso per mezzo del suono di un campanello, situato a tal uopo presso la finestra medesima. Non è poi infrequente il caso che qualche inumano mercenario, incaricato di portarveli, gli lasci sul nudo pavimento del loggiato e se ne parta in silenzio. La donna per altro che di continuo veglia al ricevimento di queste misere creature, appena ode il tintinnio del campanello o i vagiti dell’infante, scende dalla sua stanza a raccoglierlo e nel tempo stesso annunzia, parimente col suono del campanello alle balie che riposano nel dormentorio dei lattanti, l’avviso di un nuovo ospite, affinché quella fra loro cui spetta per turno, l’alzarsi e giunga sollecita ad apprestargli le prime cure materne».

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Nell’ottobre del 1842 il commissario degli Innocenti Carlo Michelagnoli scrive al granduca Leopoldo II per convincerlo a intervenire nel “presepe” «ove si depositano i trovatelli», affiancando alla stanza di ricezione, posta dal 1660 nella testata nord del portico di facciata, altre due sale provviste di letti e culle per la sorvegliante e le balie di turno. La lettera ci offre l’opportunità di gettare un primo sguardo “dall’interno” sulle modalità con cui i bambini venivano accolti dall’ospedale, una ricerca che possiamo approfondire attraverso il Regolamento generale, redatto dalla stesso Michelagnoli nel 1839. Spettava alla prima «soprabbalia, conosciuta e distinta col titolo di maggiore», il compito di prelevare il bambino dal presepe, esaminarlo e annotare tutte le informazioni necessarie per la compilazione dei registri d’ingresso, come il giorno, l’ora di arrivo, il sesso, i segnali di riconoscimento ed eventuali documenti di accompagnamento. Dopo questa prima ispezione, la maggiore doveva consegnare il bambino alla balia di turno, non prima «di aver licenziata la persona che ha portata la creatura, se viene esposta per consegna, o di essersi impossessata di tutti i segni, se sia lasciata, onde impedire che dalla detta balia si venga a conoscerne la provenienza o i connotati». I segni erano considerati, al pari delle informazioni contenute nei biglietti che accompagnavano i bambini, elementi identificativi da archiviare «appena aperto lo scrittoio delle creature» e da conservare in funzione di un eventuale ricongiungimento. L’Archivio Storico degli Innocenti custodisce molti segni ottocenteschi avvolti, come prescriveva il regolamento del 1839, in un piccolo foglio rettangolare ove compaiono la lettera dell’alfabeto, corrispondente al registro di Balie e bambini in cui è annotato l’arrivo del bambino e il numero d’ordine assegnatogli. Nei cinque anni presi in esame, su un totale di 11.010 ingressi il 65% ha uno o più segni espositivi, di questi meno del 2% allude agli avvenimenti politici del tempo, un campione molto ristretto il cui studio offre però spunti interessanti sulle modalità di affidamento e accoglienza dei neonati agli Innocenti. Gli oggetti più diffusi sono le medaglie, spesso tagliate a metà e generalmente di ottone, con le immagini di Napoleone III, Emanuele II e Giuseppe Garibaldi. A parte numerosi nastri tricolori, è stata rinvenuta una sola coccarda di metallo, verde bianca e rossa e un pezzo di latta di forma rettangolare che la descrizione sui registri indica «a guisa di bandiera». Nell’esigua rassegna sono stati trovati anche una medaglia commemorativa della battaglia di Magenta; il ricordo di una stampa, non conservata, in cui erano raffigurate «alcune suore della carità con dei soldati feriti»; lo stemma di casa Savoia inciso su cuoio e ceralacca o impresso su carta. I messaggi scritti, lasciati su strisce di carta di varie dimensioni e forme, danno la percezione di un’esultanza più viva: due giorni dopo l’annuncio dell’Unità italiana viene introdotta nell’ospedale Faustina, con «un foglietto ceruleo in cui leggevasi: Figlia d’Italia, battezzata»; nel gennaio 1865 viene lasciata nel presepe una bambina accompagnata da «una stella di foglio ceruleo negli spicchi della quale leggevasi: «Viva It[a]lia…». In questo ridotto campione è frequente la richiesta di dare ai bambini maschi i nomi dei nuovi eroi nazionali e alle femmine quello della patria. Il 7 gennaio 1861 viene lasciato un bambino di tre giorni, i genitori dichiarano di averlo chiamato Garibaldo Vittorio, ma agli Innocenti riceverà poi il nome di Adolfo. Pochi giorni dopo arriva una bambina accompagnata da un foglietto in cui si dichiarava «si desidera il nome Italia», anche in questo caso la richiesta non fu accolta e alla bambina venne chiamata Beniamina. Sul foglio che accompagnava un neonato il 5 marzo 1861 era scritto: «Depositato un maschio di nome Vittorio Garibaldi e Cammillo in questo Spedale di Firenze, è battezzato». «Faranno grazia a mettere i nomi di Maria Italia», lasciarono scritto in una striscia di carta i genitori della piccola entrata il 30 marzo 1861, ma che l’ospedale chiamò Formosa. Così Francesca, entrata nel dicembre 1861, chiamata dai familiari «col nome d’Italia». Un’altra bambina, nata nell’ottobre del 1862 portava un foglietto con scritto: «Bramerei che fosse chiamata Italia», un desiderio che rimase però inesaudito perché alla piccola fu dato il

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nome Alamira. «Il suo nome sia Garibaldo» chiedono nel foglietto di accompagnamento i genitori del bambino entrato il 15 aprile 1863 e chiamato poi Ignazio. Le prescrizioni ospedaliere imponevano che i nomi suggeriti dai genitori potessero essere accolti previa presentazione del documento, in originale, accertante l’avvenuto battesimo. La semplice autodichiarazione non era sufficiente. Capitava, a volte, che l’ospedale aggirasse l’ostacolo ponendoli come secondi nomi, come avvenne a un piccolo nato il 15 ottobre del 1863 che i genitori volevano col nome di Garibaldo, Ferdinando e Fortunato. Fu rispettata in parte la richiesta, anteponendo ai tre quello di Carlo. Stessa modalità fu riservata a Garibaldo Giuseppe che ricevette Giovanni come primo nome. 4.2 Baliatico e percorsi di vita Dopo la prima accoglienza gli infanti giunti agli Innocenti passavano alle cure della nutrice interna. Avrebbe dovuto trattarsi, come da regolamento, di donna del popolo, spesso proveniente dalla campagna, che lasciava temporaneamente la propria famiglia per lavorare presso l’ospedale. Per essere ammesse come balie interne occorreva avere tra i venti e i trentacinque anni, e presentare «l’attestato del proprio parroco, circa i costumi, quello del medico locale quanto alla salute ed il consenso del marito, se coniugata, o dei genitori se vedova». Alle donne nubili erano richiesti anche un certificato medico attestante la «loro sanità avanti il parto» e il «consenso dei genitori o di chi altro presiede». Era imposto loro di vivere dentro l’ospedale almeno un anno dalla data dell'ultimo parto, in questo periodo dipendevano direttamente dalle soprabbalie incaricate di sorvegliare il buon andamento della “famiglia” e ogni loro infrazione veniva punita, a seconda della gravità, dall’ammonizione fino al licenziamento «colla perdita di tutto o parte del salario già guadagnato». Il compito principale delle nutrici era quello di prendersi cura della creatura assegnata, provvedendo alla sua pulizia e allattandola ogni tre ore o al bisogno; solo in caso di emergenza, e secondo l’ordine imposto dalla maggiore, la nutrice poteva allattare anche due bambini contemporaneamente. Dimostrando un atteggiamento critico nei confronti di un’usanza molto antica come quella di immobilizzare i neonati con le fasce per irrobustirli e raddrizzarli, era vietata «qualunque compressione in qualsiasi voglia parte del corpo e per qualsiasi motivo fosse anche per rendere le fattezze più belle». Così come era loro severamente proibito usare verso i piccoli «motti d’imprecazione o cerimonie superstiziose», pena il licenziamento. Per scongiurare un frequente motivo di morte infantile era «assolutamente proibito tenere i lattenti nel proprio letto con qualsivoglia pretesto». I medici e i chirurghi passavano in rassegna ogni mattina i nuovi arrivati, i bambini che si ritenevano malati di sifilide venivano curati in una zona loro riservata e alimentati «con latte di capra (…) nel tempo ch’infetti ed i sospetti ricevono le convenienti cure». Trascorso il periodo di necessaria osservazione, se risultavano sani e in forze per affrontare il viaggio, i bambini erano pronti per essere affidati a una balia esterna, solitamente presso una famiglia di contadini. Se in questo periodo le creature avessero sviluppato «un male contagioso» la balia aveva il dovere di riportarle immediatamente perché i medici dell’ospedale provvedessero a curarla. Dopo lo svezzamento i bambini erano affidati a una famiglia di tenutari, a volte la stessa che li aveva accolti durante l’allattamento. L’ospedale richiedeva alle famiglie intenzionate a ricevere «le nostre creature», di aver cura di loro «come se fossero proprie» e di avviarle «fino dalla puerizia ai doveri di religione e dirigerle ad un qualche mestiere». Per ogni creatura presa a domicilio l’ospedale corrispondeva «un salario mensile di lire nove fino al termine del primo anno della creatura stessa, di lire cinque dal principio del secondo anno e tutto il quinto e di lire tre dal sesto al decimo anno parimente compito». Come vestiario i tenutari ricevevano «i panni e le scarpe proporzionalmente all’età e nella

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quantità e qualità designate» all’inizio dell’estate e dell’inverno. Nei mesi di aprile e di maggio si consegnava ogni anno una camicia, ogni due anni anche una camiciola di canapino. Nei mesi di ottobre e novembre di ogni anno si distribuivano camicia e scarpe e ogni due anni anche una camiciola di mezzalana. Infine veniva consegnato loro un libretto con i dati anagrafici del bambino e gli obblighi imposti per educarlo e allevarlo. Nel libretto veniva registrato ogni avere consegnato «sì di contanti che di vestiario» e doveva essere presentato al momento delle riscossioni e custodito con cura. Per i bambini affidati ai tenutari il libretto costituiva un vero documento di identità, definito come fondamentale anche per la futura vita da adulti, come recitava lo stesso documento: «l’individuo inscritto giustifica la sua esistenza sociale colla esibizione del medesimo. Procuri di conservarlo premurosamente anche dopo avere oltrepassato l’età della sotto posizione a questo Spedale». Gli Innocenti erano comunque pronti ad accogliere eventuali “ritorni”, richiesti dai tenutari o imposti dall’ospedale quando all’interno della famiglia non sussistevano più le condizioni per l’affidamento. Si trattava di una seconda accoglienza, che riguardava in maggioranza le ragazze, definite «fanciulle di ritorno» o «alunne» nel Regolamento del 1839. Per la loro permanenza all’ospedale, in attesa di una nuova destinazione, era previsto un severo regime di vita «che le abiliti, se idiote, le conservi e le perfezioni se esperte nelle faccende proprie del loro sesso, capacità e condizione». La maestra, la sotto-maestra e anche le sorveglianti avevano l’obbligo di vigilare su di loro «continuamente perché in tutti i tempi ed in tutti i luoghi si eseguiscano i regolamenti e si mantenga il buon ordine ed in modo speciale che le alunne siano assidue rispettivamente ai loro lavori ed ingerenze». Era loro richiesto di mostrare un «ossequioso rispetto, pronta obbedienza ed umile sommissione», verso tutte le autorità dell’ospedale. Era proibito comunicare con l’esterno, appartarsi in due o più per parlare separatamente dalle altre ed era altresì proibito trattenersi sul terrazzo e nel dormitorio in momenti diversi dalla ricreazione o dal riposo, così come era vietato «scendere al cancello o nel chiesino o penetrare nell’interno dello Spedale senza motivo». Dovevano vivere secondo «la prudenza e la carità cristiana, guardandosi dal ridere quello che avranno veduto o sentito di male in tempo di loro assenza dallo Spedale». Sottrarsi da «raccontare fatti o novelle indecenti, dal cantare istorielle profane o gerghi così detti Stornelli e qualunque altra cosa che si opponesse al buon costume ed alla riservatezza cristiana». I loro servizi erano in parte remunerati: l’amministrazione aveva stabilito che per tutti i «lavori nuovi per conto dell’ospedale e sui lavori e bucati per persone estranee» le alunne ricevessero «una partecipazione non minore della metà del prezzo dei medesimi, secondo il merito e la qualità del lavoro», il rimanente restava «a benefizio dello Spedale che corrisponde loro tutto mantenimento». Elencando i valori e gli insegnamenti che dovevano essere proposti alle alunne, il regolamento ci mostra chiaramente il modello di vita che veniva proposto loro. Durante la ricreazione, che aveva luogo un’ora dopo pranzo, un’ora dopo il lavoro del giorno e mezz’ora dopo cena, la maestra era tenuta a esortarle affinché sopportassero «le fatiche e gl’incomodi della vita colonica, per quelle che oramai hanno sufficiente robustezza e sono già educate alla rustica, facendo ad esse riflettere che meritandosi il titolo di buone lavoranti potranno più facilmente conseguire a suo tempo un collocamento stabile e conveniente». Per le altre, che avevano esperienze come domestiche e che «aspirano di ritornare con famiglie fiorentine o provinciali» la maestra doveva argomentare sulle necessità «di sostenere i pesi e le inquietudini della servitù (particolarmente in quelle case dove sono figlioli) con docilità e con pazienza» e le spronava a evitare di prendere e dare confidenza alle altre persone della servitù, così come ai padroni di casa. Ricorda loro che restare per lungo periodo a servizio dagli stessi signori era un segno di onore, «giacché quelle che mutano tanto spesso padrone, oltre a

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screditare lo Spedale, e le altre alunne loro compagne, si guadagnano non senza ragione un nome poco favorevole». Bibliografia: Filipponi, Mazzocchi, Sandri, Catalogo della mostra: Figli d’Italia. Gli Innocenti e la nascita di un progetto nazionale per l’infanzia (1861-1911), Firenze, Alinari 24 ORE, 2011

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CAPITOLO 3. IL PASSAGGIO AL DIGITALE, EDUCAZIONE AI MEDIA E IDENTITÀ IN RETE 1. L’archivio e la rete Immaginiamo che nel 2060 qualcuno voglia conoscere qualcosa a proposito degli anni che stiamo ora vivendo. Probabilmente disporrà di certe rappresentazioni sull’inizio del millennio: qualcosa si sarà depositato nella memoria collettiva, vi saranno testimoni; qualcosa saprà grazie all’istruzione che avrà conseguito, qualcos’altro dai media del suo tempo. Ma immaginiamo che sia uno studioso. Su quali fonti potrà basare il suo studio? Esiste un enorme database di informazioni che più o meno volontariamente stiamo costruendo. Si tratta del Web. Forse la ricerca del nostro storico del futuro partirebbe da lì? Quali problematiche comporta il fatto di considerare il web come un insieme di fonti, o meglio, come un archivio, anche se molto particolare? Innanzitutto, in informatica, il termine database, banca dati o base di dati, indica un insieme di archivi collegati secondo un particolare modello logico (relazionale, gerarchico, reticolare o a oggetti) e in modo tale da consentire la gestione dei dati stessi (inserimento, ricerca, cancellazione ed aggiornamento) da parte di particolari applicazioni software dedicate. Il World Wide Web, in sigla WWW, più spesso abbreviato in Web, è un servizio di Internet che permette di navigare ed usufruire di un insieme vastissimo di contenuti multimediali e di ulteriori servizi accessibili a tutti o ad una parte selezionata degli utenti di Internet.

2. Caratteristiche generali del Web

Caratteristica principale della rete Web è che i nodi che la compongono sono tra loro collegati tramite i cosiddetti link (collegamenti), formando un enorme ipertesto. E i suoi servizi possono essere resi disponibili dagli stessi utenti di Internet. Per quanto riguarda i contenuti, quindi, il Web possiede la straordinaria peculiarità di offrire a chiunque la possibilità di diventare editore e, con una spesa estremamente esigua, di raggiungere un pubblico potenzialmente vastissimo distribuito in tutto il mondo. Il Web è stato inizialmente implementato da Tim Berners-Lee mentre era ricercatore al CERN, sulla base di idee dello stesso Berners-Lee e di un suo collega, Robert Cailliau. La nascita del Web risale al 6 agosto 1991, giorno in cui Berners-Lee mise on-line su Internet il primo sito Web. Inizialmente utilizzato solo dalla comunità scientifica, il 30 aprile 1993 il CERN decide di rendere pubblica la tecnologia alla base del Web. A tale decisione fa seguito un suo immediato e ampio successo in virtù della possibilità offerta a chiunque di diventare editore, della sua efficienza e, non ultima, della sua semplicità. Con il successo del Web ha inizio la crescita esponenziale e inarrestabile di Internet ancora oggi in atto, nonché la cosiddetta "era del Web".

2.1 Descrizione

Il Web è uno spazio elettronico e digitale di Internet destinato alla pubblicazione di contenuti multimediali (testi, immagini, audio, video, ipertesti, ipermedia, ecc.) nonché uno strumento per implementare particolari servizi come ad esempio il download di software (programmi, dati, applicazioni, videogiochi, ecc.). Tale spazio elettronico e tali

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servizi sono resi disponibili attraverso particolari computer di Internet chiamati server web.

Chiunque disponga di un computer, di un accesso ad Internet, degli opportuni programmi e del cosiddetto spazio web, porzione di memoria di un server web destinata alla memorizzazione di contenuti web e all'implementazione di servizi web, può, nel rispetto delle leggi vigenti nel Paese in cui risiede il server web, pubblicare contenuti multimediali sul Web e fornire particolari servizi attraverso il Web. I contenuti del Web sono infatti costantemente on-line quindi costantemente fruibili da chiunque disponga di un computer, di un accesso a Internet, e degli opportuni programmi (in particolare del cosiddetto browser web, il programma che permette, come si dice in gergo, di "navigare" nel Web, cioè di fruire dei contenuti e dei servizi del Web.)

Non tutti i contenuti e i servizi del Web sono però disponibili a chiunque in quanto il proprietario dello spazio web, o chi ne ha delega di utilizzo, può renderli disponibili solo a determinati utenti, gratuitamente o a pagamento, utilizzando il sistema degli account.

2.2 L'organizzazione dei contenuti

I contenuti del Web sono organizzati nei cosiddetti siti web a loro volta strutturati nelle cosiddette pagine web le quali si presentano come composizioni di testo e/o grafica visualizzate sullo schermo del computer dal browser web. Le pagine web, anche appartenenti a siti diversi, sono collegate fra loro in modo non sequenziale attraverso i cosiddetti link (anche chiamati collegamenti), parti di testo e/o grafica di una pagina web che permettono di accedere ad un'altra pagina web, di scaricare particolari contenuti, o di accedere a particolari funzionalità, cliccandoci sopra con il mouse, creando così un ipertesto.

Rappresentazione grafica di una piccola sezione di World Wide Web

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Tutti i siti web, sono identificati dal cosiddetto indirizzo web, una sequenza di caratteri univoca chiamata in termini tecnici URL che ne permette la rintracciabilità nel Web.

Non è previsto un indice aggiornato in tempo reale dei contenuti del Web, quindi nel corso degli anni sono nati ed hanno riscosso notevole successo i cosiddetti motori di ricerca, siti web da cui è possibile ricercare contenuti nel Web in modo automatico sulla base di parole chiave inserite dall'utente, e i cosiddetti portali web, siti web da cui è possibile accedere ad ampie quantità di contenuti del Web selezionati dai redattori del portale web attraverso l'utilizzo di motori di ricerca o su segnalazione dei redattori dei siti web.

2.3 I servizi

Oltre alla pubblicazione di contenuti multimediali il Web permette di offrire servizi particolari implementabili dagli stessi utenti del Web. I servizi implementabili sono innumerevoli, in pratica limitati solo dalla velocità della linea di telecomunicazioni con cui l'utente e chi fornisce il servizio sono collegati e dalla potenza di calcolo dei loro computer. Di seguito quindi sono elencati solo quelli contraddistinti da una denominazione generica:

⋅ download: la distribuzione di software; ⋅ web mail: la gestione della casella di posta elettronica attraverso il Web; ⋅ streaming: la distribuzione di audio/video in tempo reale; ⋅ web TV: la televisione fruita attraverso il Web; ⋅ web radio: la radio fruita attraverso il Web; ⋅ web chat: la comunicazione testuale in tempo reale tra più utenti di Internet,

tramite pagine web; 3. Identità in rete e privacy L'identità digitale è l'insieme delle informazioni e delle risorse concesse da un sistema informatico ad un particolare utilizzatore del suddetto. È l'identità che un utente della rete determina attraverso website e social network. 3.1 Caratteristiche dell'identità digitale La rappresentazione dell’identità digitale deve essere tanto più completa quanto è complessa la transazione in cui è coinvolta. Infatti il grado di affidabilità e le quantità di informazioni richiesti possono variare in modo molto significativo a seconda del tipo di transazione. Un’identità digitale è articolata in due parti:

• Chi uno è (identità) • Le credenziali che ognuno possiede (gli attributi di tale identità)

Le credenziali possono essere numericamente e qualitativamente molto variegate e hanno differenti utilizzi. L’identità digitale completa è abbastanza complessa e ha implicazioni sia legali che tecniche. Comunque, l’identità digitale più semplice consiste in un ID (o username) e una parola di identificazione segreta (o password). In questo caso lo username è l’identità, mentre la password è chiamata credenziale di autenticazione. Ma l’identità digitale può essere complessa come una vera e propria identità umana.

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3.2 Autenticazione Nelle transazioni quando viene provato che l’identità digitale presentata sia effettivamente quella di chi o di cosa dice di essere, si parla di processo di autenticazione. L’autenticazione ad un solo fattore (quella con username e password vista prima) non è molto sicura perché la password potrebbe essere indovinata da qualcuno che non è il vero utente. Quella multi-fattore può essere più sicura, ad esempio quella con una chiave fisica di sicurezza, o tessera magnetica, smart card ("qualcosa che possiedi") e una password, ("qualcosa che sai"). Se si aggiungono informazioni biometriche (iride, impronta digitale, impronta vocale, riconoscimento del volto, ecc.) abbiamo anche fattori di autenticazione che rispondono a "qualcosa che sei". Queste informazioni sono di norma protette da un sistema di autenticazione. La Carta d'identità elettronica italiana e la Carta nazionale dei servizi sono l'unico strumento di autenticazione previsto dal Codice dell'Amministrazione Digitale per l'accesso ai servizi web erogati dalle Pubbliche Amministrazioni. È la capacità del sistema di impedire che una terza parte intercetti e sfrutti dati che si stanno ricevendo o trasmettendo (n° carta di credito, conto corrente, ecc) si dice riservatezza o confidenzialità. Questo livello di sicurezza è raggiungibile con la crittografia, ma è l’identità digitale che ha in sé le credenziali necessarie per fare ciò. Per essere sicuri che nessuno intercetti i dati che si stanno scambiando, può essere importante sapere che nessuno li ha alterati durante la trasmissione. Cioè essere sicuri che il documento che si riceve è lo stesso del documento inoltrato dall'altra identità digitale e non è stato alterato o danneggiato. Questo è realizzato con la firma digitale e speciali tecniche di crittografia a chiave pubblica e privata. Se le identità digitali possiedono le credenziali della firma digitale, è possibile effettuare specifiche transazioni in cui i dati inviati con la firma digitale sono codificati in un modo che dimostra che i dati sono effettivamente stati inviati. 3.3 Reputazione La reputazone digitale è l’insieme delle valutazioni (negative o positive) che si reperiscono dall’analisi sistematica, grazie all’utilizzo di strumenti informatici delle opinioni che gli utenti della rete si scambiano attraverso i canali di comunicazione messi a disposizione del web 2.0. Poiché le tecniche della firma digitale permettono che identità digitali effettuino transazioni in cui entrambe le identità sono attendibilmente conosciute e possono trasportare dati che non possono essere alterati, senza che ciò sia palesato, diventa possibile per un'identità digitale costruirsi progressivamente una reputazione dalle relative interazioni con altre identità digitali. Ciò permette che interazioni molto complesse fra le identità digitali possano diventare l’imitazione di ogni transazione che, come esseri umani, abbiamo individualmente o in gruppo. 4. Privacy online, questa sconosciuta Riportiamo di seguito un articolo di Claudio Tamburrino per punto-informatico.it "Molti cittadini vedono solo i vantaggi della vita online senza accorgersi di quante informazioni sono raccolte, di chi le raccoglie e di come vengono usate", ha detto Richard Purcell, executive director di The Privacy Project, una delle associazioni coinvolte nella ricerca di una possibile soluzione alla problematica: da un lato si tratta di gestire le informazioni che volenti o nolenti le grandi aziende si trovano a gestire (Google con la sua quota maggioritaria nella ricerca e nell'advertising su tutti), dall'altro l'incoscienza degli utenti che divulgano volontariamente dati sensibili senza comprensione dei possibili utilizzi e conseguenze.

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Proprio della sensibilizzazione dei netizen si occupa un'altra associazione, la Future of Privacy Forum, una coalizione di aziende (di cui fanno parte molte delle più importanti, da Microsoft a Google passando per Procter & Gamble e General Electric), che hanno inaugurato una forma di autoregolamentazione (quindi di per sé non obbligatoria). Si tratta di un'icona standard (una "i" tendente alla chiocciola) che avrà il compito di rendere immediatamente identificabili le pubblicità online che usano dati demografici e statistiche per dire ai consumatori cosa sta succedendo, che le aziende sono consapevoli cioè di chi sta navigando e cosa cerca solitamente. Quando gli spazi pubblicitari se ne doteranno saranno inizialmente correlate della frase "perché ho ricevuto questa pubblicità?", che se cliccato porterà ad una pagina esplicativa. Google, da parte sua, afferma di utilizzare le informazioni raccolte sugli utenti per migliorare il servizio offerto, ma dichiara altresì di offrire ai naviganti efficaci opzioni a difesa della loro privacy, esplicitando a chi fosse interessato le informazioni finora raccolte in nome della trasparenza. L'argomento della privacy, e la conseguente sicurezza dei dati, è d'altronde di pressante attualità e su di esso si sta concentrando anche il Congresso degli Stati Uniti. Per gli organi di vigilanza il nocciolo della questione è la liceità o meno delle tecniche di analisi dei comportamenti degli utenti della Rete: la pratica, per esempio, di tracciare i clic dei netizen per ottenere una statistica di comportamento che permetta di personalizzare i servizi offerti. In pratica, per la gran parte, con il fine di specificare le pubblicità da veicolare al singolo consumatore che naviga.” 5. Sai proteggere la tua privacy online? Tre passi per iniziare Riportiamo, di seguito, un articolo di Morena Ragone per ninjamarketing.it “Il popolo di internet si divide equamente tra i sostenitori della necessità di porre delle barriere alla nostra vita digitale, e coloro che, invece, sull’onda emotiva del ‘non ho nulla da nascondere‘, lasciano tranquillamente in rete qualsiasi traccia del proprio passaggio digitale. L’utilizzo della rete comporta la conoscenza e l’uso di strumenti notevolmente differenti da quelli della vita analogica e, soprattutto, dall’enorme potenzialità diffusiva. Semplificando, si dice che immettere qualcosa in rete equivale ad averla persa per sempre. Un po’ drastico, ma con un fondo di verità: è necessario sapere quali dati immettere in Rete, evitando di fornirne di non strettamente necessari, e soprattutto, come. Fondamentalmente, vale sempre e comunque la stessa regola di accortezza: mai mettere in Rete qualcosa che non si divulgherebbe con la stessa facilità al vicino di casa. Un modo come un altro per sottolineare che il problema dell’utilizzo della rete non è relativo a ciò che ciascuno di noi può o vuole rivelare di se stesso e della propria vita, ma l’uso che altri possono fare delle informazioni così raccolte. E, soprattutto, le tracce che inconsapevolmente lasciamo, e che possono venire utilizzate per mancanza di trasparenza e di accordi chiari con l’utente della rete. E’ praticamente impossibile riassumere in poche righe quello che potrebbe essere oggetto di un trattato. Partiamo però da tre indicazioni preliminari, tre piccoli passi per affrontare con maggiore sicurezza la navigazione online: A. La sicurezza parte dal proprio pc. La tutela della privacy, prima che dalla Rete, parte da casa nostra o dal nostro ufficio, dall’utilizzo di computer sicuri e aggiornati, primo vero strumento per difendere la nostra sicurezza online. Qualche esempio: Usate ancora Internet Explorer 6? Impostate correttamente il firewall, o autorizzate il traffico di rete? Aggiornate costantemente l’antivirus e il Sistema

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Operativo? E, soprattutto, prima di affrontare una sessione di navigazione, avete cura di impostare le opzioni di privacy presenti in tutti i browser? B. Navigazione anonima? perchè no! Nella navigazione web alcuni dati personali vengono utilizzati, si dice, per migliorare ‘l’esperienza online’. In altre parole, i siti tengono traccia – tramite i cookies – della nostra navigazione, e delle attività effettuate online, utilizzando i dati personali da noi (spesso) inconsapevolmente forniti. Si può evitare di fornire tali dati utilizzando la modalità di navigazione anonima messa a disposizione dai diversi browser: Firefox dalla versione 3.5; IE dalla release 8 – InPrivate browsing; Google Chrome – navigazione in incognito; Safari – navigazione privata; Opera – private browsing – dalla release 10.50. E’ una alternativa più che utile nel caso non si utilizzi il proprio computer, ma una postazione multiutente o un pc non personale. Evita che il browser – e il pc – memorizzino i dati di navigazione comunemente raccolti – durata della sessione, siti visitati, link attivati, etc.. Attivando tali modalità, non verranno registrate le pagine visitate, i moduli e le barre di ricerca, le password inserite, l’elenco dei download affettuati, i cookies – tranne nel caso si sia spuntata la voce relativa ad un singolo sito – il contenuto della cache. Un suggerimento ulteriore: spesso si trascura di impostare le opzioni di privacy e di condivisione relative a flash player. Chi non l’ha mai fatto, troverà molto interessante questo link e tutti i link ad esso collegati presenti nella pagina. C. La prima sicurezza sei tu! Ancora prima dell’hardware e del software, il primo imprescindibile livello di sicurezza è la consapevolezza dell’utente. La divulgazione di determinate informazioni potrebbe essere quantomeno non opportuno. In questo caso, i primi interessati sono i minori, che hanno spesso un utilizzo molto ‘disinvolto’ di chat e bacheche, tramite l’accettazione delle impostazioni di default stabilite da siti e programmi. Come sappiamo, non basta stabilire un limite minimo di età per l’utilizzo di un servizio: facebook (e tutta internet) sono piene di minori (sovra)esposti, spesso anche per volontà degli stessi genitori, che non esitano a pubblicare foto e notizie che li riguardano. Un po’ di attenzione in più su questo non guasterebbe: la Polizia Postale sottolinea che nell’anno appena trascorso 6 minori su 10 sono stati contattati da sconosciuti online, e che oltre 3 minori su 10 hanno accettato di incontrare persone che non conoscevano, senza poter accertare con sicurezza la loro identità. Cifre su cui riflettere.” 6. Copyright e copyleft La legislazione sui diritti d’autore è molto rigida sul tema della condivisione in rete. In generale, il download o l’upload (cioè la messa in condivisione) di materiali coperti da diritti d’autore è un reato, che riguarda sia chi materialmente ha acquisito i file (testi, filmati, foto, musica, programmi) sia chi ha messo a disposizione le macchine: spesso anzi sono solo le macchine a poter essere facilmente individuate. La questione diventa interessante quando non riguarda soltanto il doveroso rispetto della legge ma più in generale il rispetto della proprietà intellettuale. In diversi stanno criticando un certo modo di intendere il copyright, proponendo modelli alternativi di sfruttamento dei diritti, dall’uso personale della copia multipla, all’uso didattico o per citazione, fino alle problematiche relative al codice di programmazione aperto agli utenti. Più in generale il copyright, secondo i suoi detrattori, può diventare un mezzo per limitare la diffusione della conoscenza. Uno degli strumenti è il copyleft, un insieme di norme che tutelano la proprietà intellettuale senza limitare per questo i diritti dello sfruttamento dell’opera: in pratica si autorizza l’uso, lo studio e la modifica di quanto acquisito, purché venga riconosciuta

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l’opera originaria (la proprietà intellettuale) e si rispetti la filosofia con cui si è acquisito (cioè, per esempio, non si può far proprio o vendere un prodotto acquisito coperto da licenze copyleft, nemmeno se rielaborato). Da un punto di vista didattico, la chiave di tutto sta nel rispetto della proprietà intellettuale: quello che troviamo è costato del lavoro a qualcuno, in termini di esperienza, conoscenza e fatica materiale; oltre a un corrispettivo economico, dobbiamo riconoscere tale lavoro, qualunque sia l’uso che ne faremo. Esempi di licenze copyleft per il software sono la GNU GPL e la GNU LGPL, per altri ambiti le licenze Creative Commons (più propriamente con la clausola share alike) oppure la stessa licenza GNU FDL usata per Wikipedia fino al 2009 (data del passaggio alla licenza Creative Commons). 6.1 Creative Commons Creative Commons (CC) è un'organizzazione non profit con sede a San Francisco dedicata all'espansione della portata delle opere di creatività offerte alla condivisione e all'utilizzo pubblici. Essa intende rendere possibile, com'è sempre avvenuto prima di un sostanziale abuso della legge sul copyright, il ricorso creativo a opere di ingegno altrui nel pieno rispetto delle leggi esistenti. La missione di Creative Commons è ben rappresentata dal logo dell'organizzazione (CC), che rappresenta una via di mezzo tra il rigido modello del copyright All rights reserved (C) e quello invece di pubblico dominio No rights reserved (PD), introducendo il nuovo concetto appunto di some rights reserved (CC).

L’organizzazione è nata ufficialmente nel 2001 per volere del professore Lawrence Lessig, ordinario della facoltà di Giurisprudenza di Stanford (e in precedenza anche di Harvard) e riconosciuto come uno dei massimi esperti di diritto d'autore negli Stati Uniti. Lessig fondò l'organizzazione come metodo addizionale per raggiungere il suo scopo nel suo caso di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti, Eldred v. Ashcroft. Il set iniziale delle licenze creative commons fu pubblicato il 16 dicembre 2002. Al progetto fu conferito il Golden Nica Award durante il Prix Ars Electronica nella categoria Net Vision nel 2004.

6.2 Licenze CC

Le licenze di tipo Creative Commons permettono a quanti detengono dei diritti di copyright di trasmettere alcuni di questi diritti al pubblico e di conservare gli altri, per mezzo di una varietà di schemi di licenze e di contratti. L'intenzione è quella di evitare i problemi che le attuali leggi sul copyright creano per la diffusione e la condivisione delle informazioni.

La normativa per le Creative Commons fornisce un insieme di quattro opzioni che permettono facilmente di riconoscere i diritti vantati dall'autore e da terzi sull'oggetto della licenza.

La legislazione, al momento, non prevede che vi sia un ente preposto dove l'autore possa depositare l'opera prima di distribuirla. È più difficile per l'autore dimostrare la paternità dell'opera, nel caso in cui qualcuno applichi successivamente il diritto d'autore, e al limite accusi di averlo violato quanti fruiscono l'opera stessa.

Rispetto alla licenza, prevale la legislazione, che nei Paesi di diritto latino prevede che resti l'obbligo di citare l'autore, e che i diritti morali sulle opere siano per questi irrinunciabili.

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6.3 Le quattro clausole delle licenze Creative Commons

Le licenze Creative Commons sono nate negli USA appoggiandosi al sistema giuridico locale. Sono state quindi adattate al sistema giuridico italiano, dove il diritto d'autore è regolato dalla legge 633/41. L'autore diventa detentore dei diritti nel momento dell'estrinsecazione dell'opera creativa, secondo la L. 633/41, art. 6 « Il titolo originario dell'acquisto del diritto di autore è costituito dalla creazione dell'opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale »

Inoltre tutti i diritti sono riservati all'autore (art.13 / 18bis).

Le sei licenze Creative Commons (definite dalla combinazione di quattro attributi) stabiliscono in modo esplicito quali sono i diritti riservati, modificando quindi la regola di default in cui tutti i diritti sono riservati.

Attribuzione (by)

Attribuzione (Attribution) Bisogna sempre indicare l'autore dell'opera (attributo obbligatorio) in modo che sia possibile attribuirne la paternità come definito dagli artt. 8 e 20 lda:

Non uso commerciale (nc)

Non Commerciale (Non Commercial) Non sono consentiti usi commerciali dell'opera creativa come definito dal secondo comma dell'art. 12:

Chiunque può riprodurre, trascrivere, eseguire e distribuire purché non a scopo di lucro, attribuendo sempre la paternità come definito nel primo attributo. Tuttavia le limitazioni sullo sfruttamento economico dell'opera sono limitate al settantesimo anno solare dopo la morte dell'autore come specificato dall'art. 25 lda.

Non opere derivate (nd)

No opere derivate (No Derivative Works) Non sono consentite elaborazioni dell'opera creativa come definito dall'art 20. Non è quindi possibile modificare l’opera o alcune sue parti.

Condividi allo stesso modo (sa)

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Condividi allo stesso modo (Share Alike) Si può modificare l'opera ma l'opera modificata deve essere rilasciata secondo le stesse condizioni scelte dall'autore originale.

Le sei licenze pubbliche Creative Commons, date dalla combinazione dei sopracitati quattro attributi, sono:

⋅ Attribuzione ⋅ Attribuzione - Non opere derivate ⋅ Attribuzione - Non Commerciale ⋅ Attribuzione - Condividi allo stesso modo ⋅ Attribuzione - Non opere derivate, Non commerciale ⋅ Attribuzione - Non commerciale, Condividi allo stesso modo

6.4 Progetti che adottano licenze Creative Commons Diversi milioni di pagine e di contenuti sulla Rete adottano le licenze Creative Commons. Alcuni dei progetti più conosciuti licenziati sotto CC includono:

⋅ Al Jazeera Creative Commons Repository ⋅ Arduino, piattaforma hardware open source per il physical computing: la scheda è

offerta con licenza Attribution-ShareAlike 2.5. ⋅ OpenStreetMap, le immagini delle mappe sono rilasciate sotto la licenza Creative

Commons Attribution-ShareAlike 2.0 ⋅ Wikinotizie, utilizza la licenza CC-BY ⋅ Linuxquestions.org wiki ⋅ Opcopy ⋅ Wikitravel ⋅ Reset Radio ⋅ World66 ⋅ Wikivoyage ⋅ Lega Nerd ⋅ La fiction di Cory Doctorow ⋅ Il libro del professor Lessig pubblicato nel 2004, Free Culture ⋅ Tre dei libri di Eric S. Raymond, The Cathedral and the Bazaar (il primo ad essere

pubblicato commercialmente sotto una licenza CC, edito da O'Reilly & Associates), The New Hacker's Dictionary, e The Art of Unix Programming (tutti e tre con una clausola condizionale aggiunta)

⋅ Public Library of Science ⋅ Star Wreck VI ⋅ MoveOn.org's Bush In 30 Seconds contest ⋅ Groklaw ⋅ CcMixter A community music site featuring remixes licensed under Creative

Commons ⋅ MIT OpenCourseWare ⋅ Penínsulas Progetto on line di Midesa, per la diffusione di testi accademici che

analizzano la cultura spagnola e italiana, sotto licenza Creative Commons. ⋅ Telltale Weekly

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⋅ The Oyez Project - Supreme Court MP3 Files ⋅ La maggior parte dei video realizzati dalle Telestreet italiane ⋅ POIGPS, i punti di interesse da scaricare sul proprio navigatore GPS ⋅ Deviantart, ha la possibilità di attribuire la licenza CC ai lavori caricati. ⋅ RadioMauroDelleChiaie, web radio inserita nel libro il software libero in italia di

Andrea Berardi edito da Shake edizioni distribuito da Feltrinelli trasmette solo musica su licenza Creative Commons.

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Dal 2001 in Italia le licenze Creative Commons sono state utilizzate in molti contesti:

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TuttoLibri con licenza Creative Commons BY-NC-ND. ⋅ Stampa Alternativa, nella sezione Libera Cultura Libera Conoscenza vengono

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7. La legge di internet Di seguito pubblichiamo un editoriale uscito su Le Monde, Francia (2 febbraio 2012) con lo stesso titolo. “La difesa del diritto d’autore non è una battaglia di retroguardia. Una settimana fa, dopo la chiusura del sito Megaupload decisa dall’Fbi, la questione è tornata di grande attualità. Aumentando la pressione contro il download illegale, gli Stati Uniti hanno dimostrato il carattere impari di questa lotta. Basta chiudere un sito per farne spuntare altri dieci. A cosa serve allora questa dimostrazione di forza? Veniamo ai fatti. Megaupload faceva soldi sul download illegale di opere piratate. Per i puristi si trattava invece solo di una piattaforma tecnica di scambio di file. E in effetti non era Kim Schmitz, di cui un giudice neozelandese ha confermato il 25 gennaio l’arresto, a mettere a disposizione i contenuti illegali sul sito che aveva fondato. Ma la sua impresa, che comprendeva anche una struttura pubblicitaria e un sito di streaming, Megavideo – che permette una semplice visione invece del download –, avrebbe guadagnato, secondo l’Fbi, 135 miliardi di euro. Con più di 50 milioni di visitatori al giorno, il sito divorava pubblicità. Era quindi un vero e proprio business realizzato grazie a contenuti (film, serie tv) che appartengono ad altri

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(produttori, autori, eccetera). Come impedire un commercio del genere quando la tecnologia permette di creare siti di questo tipo ovunque nel mondo? La Francia, con la legge Hadopi, ha scelto una risposta graduale, che dovrebbe scoraggiare il download illegale e condannare i pirati. Il bilancio però è piuttosto deludente e la risposta poco adatta a un fenomeno globale. Indipendentemente da chi sarà il prossimo presidente francese, la Hadopi sarà cambiata. E sembra più efficace e più giusto, se non più facile, cercare di colpire il grossista e il rivenditore invece del consumatore. Ma questo non basta per due motivi. Da un lato l’offerta di download legale deve migliorare: i siti di video on demand scomodi e costosi fanno il gioco dei pirati. Dall’altro anche il diritto alla proprietà intellettuale deve adattarsi all’epoca digitale. Tra la chiusura assoluta e la resa totale ci sono strade che permettono oggi di modulare il livello di tutela di questa proprietà. Strade che devono essere esplorate.” Il capitolo è stato tratto da: Wikipedia, voci Identità digitale, Creative Commons, SITI UTILI: www.wordpress.com (per costruire gratuitamente il proprio blog) www.flickr.com (per condividere foto con licenza CC o con tutti i diritti riservati) www.prezi.com (per costruire divertenti e accattivanti presentazioni) www.surveymonkey.com (per costruire sondaggi on line) www.jamendo.com (archivio di musica in CC) www.freemusicarchive.org (archivio di musica in CC e altre licenze copyleft) www.creativecommons.it (archivio di audio, immagini, video e testi in CC) http://adblock-plus.softonic.it (plug-in per Firefox per filtrare i contenuti pubblicitari)

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CAPITOLO 4. STORIA E GEOGRAFIA DELLE MIGRAZIONI 1. I fenomeni migratori Il fenomeno delle migrazioni è connesso inestricabilmente con altri fenomeni globali come lo sviluppo, la povertà e i diritti umani. Storicamente le migrazioni hanno avuto un ruolo di sostegno alla crescita economica, hanno sorretto il processo di costruzione delle nazioni e hanno arricchito le culture. Alle migrazioni è stato riconosciuto un ruolo centrale nella storia del Novecento e il fenomeno dei movimenti di popolazione è sempre più percepito dalle società contemporanee come un problema da affrontare, poiché su di esso si catalizzano paure e ostilità sempre crescenti nei paesi di accoglienza. Nel corso della storia la scelta della mobilità è stata fatta da individui, famiglie, gruppi di popolazione, per rispondere ad esigenze di sopravvivenza economica, di miglioramento del proprio status sociale, dalla necessità di sfuggire a guerre, a persecuzioni politiche e religiose, a conflitti civili. Nonostante la forte attenzione che tali fenomeni suscitano oggi nella stampa e negli altri mezzi di comunicazione, spesso sfugge la complessità delle motivazioni e la costante presenza del fenomeno fin da epoche remote anche in paesi che oggi se ne ritengono indenni. In realtà la mobilità ha rappresentato nel corso dei secoli non solo una strategia di sopravvivenza, ma uno strumento indispensabile per esercitare mestieri e professioni tutt’altro che marginali. Accanto a queste migrazioni volontarie, l’analisi storica offre anche numerosissimi esempi in tutto il mondo di migrazioni coatte: deportazioni di razze considerate inferiori, persecuzioni e dispersioni di appartenenti a fedi religiose, di militanti politici, di dissidenti a regimi autoritari. Vari esempi mostrano dunque come l’emigrazione non sia stata esclusivamente la risposta a condizioni di eccezionale povertà economica o la conseguenza di spinte demografiche e del sovrappopolamento e di meccanismi impersonali di push-pull dei mercati internazionali. L’emigrazione appare come una scelta ispirata a strategie economiche socialmente differenziate, alle quali si sono sommate spesso migrazioni di diversa matrice, spesso coercitiva. Provare ad affrontare il tema delle migrazioni con un approccio critico e libero da stereotipi può condurre a leggere in un’ottica diversa anche i grandi movimenti di migranti, esuli e profughi che attraversano il mondo attuale. Per comprendere cosa accade oggi è infatti necessario ricordare che la mobilità è qualcosa di non eccezionale nella storia dell’uomo, che richiede di essere affrontata non come un’emergenza improvvisa ma come un fenomeno continuo che ha interessato e interessa ogni parte del mondo. Anche oggi la pluralità dei motivi e degli attori è molto vasta. Sembrano sempre più imponenti le cifre di coloro che abbandonano il proprio paese per sfuggire a difficili condizioni politiche, economiche e ambientali, ma è molto elevato anche il numero di persone che cercano di spendere i loro titoli di studio e le loro competenze professionali in paesi diversi da quello di nascita. Queste migrazioni economiche “volontarie” nascono anche oggi da scelte individuali e strategie familiari, che consentono di migliorare lo status sociale di chi parte e di chi rimane in patria e permettono di offrire prestazioni lavorative dove queste si rendono disponibili perché la popolazione autoctona non le fornisce. Nel caso dell’Italia, nonostante la grande imponenza dell’emigrazione nel corso di circa un secolo di esodo di massa, il fenomeno migratorio non ha ricevuto un’attenta analisi che lo inserisse in una più completa ricostruzione storiografica, a differenza di quanto è

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accaduto in altri paesi1. Il ruolo minore che in alcuni Stati europei, con eccezione di Francia e Gran Bretagna, le migrazioni esercitano ancora oggi nell’elaborazione del proprio passato si riflette sulla diffusa incertezza sul modo di confrontarsi con gi stranieri e sul sentimento di xenofobia che non abbandona vari segmenti di popolazione. L’Italia si distingue perché, sperimentando la presenza di stranieri da poco più di vent’anni, è stata il paese europeo che fino a metà degli anni ’50 ha avuto il maggior numero di emigranti. Nel caso italiano l’assenza di un’elaborazione delle proprie migrazioni sembra ancora più colpevole, perché impedisce non solo di fare i conti con il passato, ma anche di superare incertezze, contraddizioni e pregiudizi con cui il paese affronta le immigrazioni più recenti. Una discussione razionale del tema dovrebbe tenere conto delle evidenze empiriche piuttosto che dei reportage allarmistici offerti oggi dai mezzi di comunicazione. È necessario situare le preoccupazioni locali in un contesto globale, prendendo in considerazione la totalità dei flussi di persone che attraversano il mondo, senza concentrarsi su un numero ristretto di gruppi che sembrano essere più problematici. Occorre poi essere consapevoli della parzialità delle rilevazioni statistiche, che possono sorreggere ma non sostituire un’attenta analisi che metta in relazione benefici e svantaggi di tutti gli aspetti che le migrazioni portano a tutte le parti coinvolte nel processo. 2. Le migrazioni nell’età preindustriale 2.1 La mobilità circolare e l’attrazione urbana in Europa L’apprendistato dei giovani, le consuetudini matrimoniali, i fenomeni di colonizzazione agricola, le esigenze delle attività manifatturiere e dei commerci richiedevano già in epoca preindustriale un’intensa circolazione della popolazione sul territorio. Tra le varie forme di mobilità, quella legata all’attività agricola fu numericamente la più importante in Europa. Migrazioni di tipo coloniale furono sperimentate soprattutto nel corso del 1600, soprattutto nei confronti dei territori dell’Europa sud orientale scarsamente abitati. Nel corso dell’ancien régime i più estesi movimenti furono però di carattere circolare, poiché erano destinati alle attività stagionali nelle aree agricole. Centinaia di migliaia di lavoratori percorrevano dai 300 ai 700 chilometri per raggiungere le aree più attrattive ogni anno. Sono stati registrati oltre venti sistemi migratori circolari2 in funzione nel corso dell’‘800 da aree generalmente scarse di risorse, con alta popolosità e bassi livelli salariali a zone ricche di infrastrutture, con salari più elevati e con sistemi di coltivazione, manifatture o attività di estrazione mineraria molto sviluppati. Un’altra forma di migrazione molto diffusa è quella artigianale, che aveva radici remote perché già praticata all’interno del sistema medioevale delle corporazioni. Dopo un periodo di apprendistato il maestro inviava il garzone a perfezionarsi in un’altra località, dove il mestiere era praticato e consolidato da lunga tradizione. Benché le migrazioni circolari di tipo agricolo, commerciale e artigiano abbiano avuto un forte ruolo nell’Europa preindustriale, l’attrazione verso i centri urbani è stata sicuramente un altro motore di spinta al movimento migratorio, poiché offrivano

1 Nel mondo anglosassone la radicata presenza di flussi d’immigrazione ha prodotto un nutrito filone di studi che hanno messo in rilievo il ruolo giocato dalle migrazioni nella costruzione dell’idea stessa di cittadinanza in società dalla composizione fortemente mista, come quella statunitense. 2 Tra questi, il grande bacino del Mare del Nord (Olanda e Germania nord-occidentale), l’Inghilterra orientale, la grande area rurale e urbana attorno a Parigi, la fascia costiera della Catalogna e della Provenza, le campagne padane del nord Italia, la Toscana meridionale con Isola del’Elba e Corsica, il Lazio e l’area attorno a Roma.

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numerose opportunità e avevano bisogno di immigrazione esterna per la loro crescita e prosperità. Le città preindustriali erano infatti caratterizzate da altissimi tassi di mortalità dovuti all’affollamento, alle pessime condizioni di igiene e alla carenza di infrastrutture, e richiedevano quindi un costante ricambio demografico. Nel corso del 1500 la crescita della popolazione nelle città europee fu dovuta in massima parte alle migrazioni: le grandi città portuali del Mare del Nord, Londra, Parigi e molti altri centri anche in Italia videro più che raddoppiare nell’arco di un secolo i loro abitanti. Non furono solo le frange più marginali della popolazione a incrementare le migrazioni urbane, rappresentate anche dall’insediamento di soggetti economici e culturali dei piccoli centri nei nodi nevralgici del commercio europeo. 2.2 Guerre e diaspore religiose L’Europa moderna fu anche attraversata da numerosi conflitti, come la Guerra dei Trent’anni, che portarono migliaia di contadini ad abbandonare i loro territori per entrare negli eserciti, o perché gli eserciti lasciavano la devastazione al loro passaggio sulle terre coltivate. Migrazioni di forte intensità accompagnarono tutti i conflitti che impegnarono i tre grandi imperi, quello asburgico, quello ottomano e quello russo. Importante fu anche l’esodo delle minoranze religiose, esempio emblematico di migrazioni dovute a decisioni politiche precise o a vere e proprie azioni repressive da parte dell’autorità statale. Le maggiori diaspore furono quelle degli ebrei, cacciati da Inghilterra (1200), Francia (1300) e Spagna (1400), dei moriscos espulsi dalla Spagna nel 1609, degli ugonotti francesi costretti alla fuga dal 1685. Le guerre di religione che accompagnarono Riforma e Controriforma produssero oltre un milione di profughi. Ovunque per gli Stati nazionali che si andavano formando in Europa le minoranze religiose rappresentavano un elemento di disturbo da eliminare, mentre per i paesi che accolsero queste ondate l’arrivo di dissidenti e perseguitati religiosi e politici rappresentò un motivo di arricchimento economico e culturale. Dal XIV al XIX secolo i paesi che furono meta dei flussi migratori non posero vincoli precisi all’immigrazione, perché le idee dominanti erano quelle che si ispiravano ai principi del mercantilismo, che vedeva l’incremento demografico come motivo di ricchezza da incoraggiare. Per gli stessi motivi era l’emigrazione ad essere ostacolata. 2.3 Le migrazioni extraeuropee: colonialismo e migrazione Le grandi scoperte geografiche e i processi di colonizzazione che ne seguirono furono i fenomeni che impressero il più forte impulso alle migrazioni transoceaniche in epoca moderna. Le grandi potenze europee cercarono di contenere le migrazioni transnazionali per il timore di perdere la popolazione dei propri Stati, già abbastanza esigua3. Circa 200 mila spagnoli si diressero verso l’America del Sud, mentre i Portoghesi giunti in Brasile nel 1500 furono meno di 4000. Altri esigui flussi, di inglesi, olandesi e francesi, riguardarono l’America del Nord e le colonie in Asia e Africa. A partire dal XV secolo la colonizzazione e l’insediamento di nuove attività economiche (di piantagione e di estrazione mineraria) nei territori delle Americhe fu dunque portata avanti dalla manodopera indigena. Gli indigeni americani resi schiavi si rivelarono però insufficienti, soprattutto perché le popolazioni indigene furono decimate dagli scontri con i conquistadores e dalle malattie che arrivarono con gli sbarchi. A partire dal XVI secolo si costituì dunque un sistema economico internazionale che vide come protagonisti i paesi atlantici coloniali e l’Africa sub sahariana (la parte meno popolata del continente africano, che a causa del commercio di schiavi fu ancor più impoverita demograficamente). Si creò così un sistema triangolare in cui i prodotti europei venivano scambiati in Africa con gli schiavi, che a loro volta venivano scambiati

3 Solo per fare alcuni esempi, la Spagna alla fine del 1600 aveva circa 8 milioni di abitanti, in Francia la popolazione si attestava su meno di 16 milioni, l’Inghilterra non raggiungeva i 5 milioni.

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con zucchero, cotone e altri prodotti di piantagione nei Caraibi e in Brasile. Tra il XV e il XIX secolo alcune regioni africane divennero così bacini esclusivi di reclutamento coatto di manodopera nera. La tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico assunse rapidamente proporzioni senza precedenti, dando origine a vere e proprie economie basate sullo schiavismo, dai Caraibi fino agli Stati Uniti meridionali. Fino al 1640 il Portogallo ebbe il monopolio del trasporto degli schiavi dall'Africa, ma il maggiore sviluppo si ebbe nel corso del XVIII secolo quando tra le maggiori potenze europee iniziarono le rivalità per accaparrarsi i profitti che derivavano dal traffico triangolare Europa-Africa-America. Portogallo, Regno Unito, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia presero parte al commercio insieme a mercanti provenienti dal Brasile e dal Nord America. Il numero totale di schiavi che attraversarono l’oceano è stimato tra i 9 e i 12 milioni: una delle più grandi migrazioni della storia, e sicuramente la più grande migrazione forzata. Di questi, la maggior parte fu utilizzata nelle piantagioni di zucchero dei Caraibi, il 38% arrivò in Brasile e meno del 5% giunse negli Stati Uniti. Si stima inoltre che più di due milioni di africani siano morti nel corso delle terribili traversate. Le migrazioni coatte degli schiavi non si limitarono solo alla direttrice americana. Importanti furono i flussi di schiavi e lavoratori in semi libertà dall’Africa orientale verso la vicina penisola araba, l’India e l’Indonesia. 2.4 America latina e America del Nord e Australia Profonde differenze marcarono la colonizzazione europea dell’America del Sud e di quella del Nord: forme di colonizzazione, rapporti con i paesi d’origine, tipologia economica e culturale dei flussi di emigrazione, furono fortemente diverse. La penetrazione nel Sud America si connotò soprattutto per la presenza degli eserciti e per l’intervento più diretto dei governi della madrepatria, mentre nel Nord America le prime migrazioni furono dettate soprattutto da scelte individuali, economiche, politiche e religiose. L’arrivo dei primi pellegrini inglesi, degli ugonotti dalla Francia e delle altre diaspore protestanti provenienti da diverse aree del continente europeo ebbe forti conseguenze sulla costruzione della futura identità nord americana: la conquista del West e il mito della frontiera non sono che simboli di un sentimento e di un portato religioso e politico che marcheranno indelebilmente la costituzione degli Stati Uniti. Nella seconda metà del Settecento prese avvio anche la colonizzazione dell’Australia: lo stabilimento di un’importante colonia penale britannica e lo scontro violento con le popolazioni aborigene segnarono la costituzione dell’altro grande polo di insediamento anglosassone: tra il 1788 e il 1822 furono oltre 32000 le persone inviate sull’isola. Di queste solo 1300 erano giunti liberamente e senza avere alcuna condanna da scontare. 2.5 Gli esodi di massa tra Ottocento e Novecento Dalla fine del XVIII secolo si realizzò un profondo mutamento nella durata temporale e nella dimensione dei flussi migratori, all’interno dei quali acquistarono maggior peso i movimenti transoceanici. Tali mutamenti scaturirono dalle profonde trasformazioni della società europea in campo economico, delle comunicazioni e demografico. La transizione demografica ebbe avvio in Europa alla fine del Settecento, quando iniziò a diminuire il tasso di mortalità e iniziò un periodo di forte crescita della popolazione. La forte pressione demografica fu uno dei motivi alla base dell’aumento dei flussi migratori, alimentati in particolare dalle popolazioni rurali, insieme alla forte industrializzazione di molte aree del continente europeo. Lo sviluppo del trasporto marittimo, sempre più veloce e meno costoso, rendeva poi accessibile il viaggio oltre oceano ad un numero sempre crescente di persone. La propaganda delle grandi compagnie di navigazione fu sicuramente rilevante: si insisteva sulla possibilità di trovare lavoro e sull’alto livello dei salari a tal punto da incoraggiare grandi movimenti di massa. Nel corso dell’Ottocento Italia e Germania andarono ad aggiungersi alle vecchie potenze

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coloniali, provocando un fenomeno di spartizione dei territori extraeuropei che coinvolse ogni area del pianeta. 2.6 La Grande emigrazione dall’Europa A partire dal 1830 i flussi migratori dall’Europa acquisirono dimensioni senza precedenti. All’inizio furono soprattutto i paesi anglosassoni e nordeuropei ad essere interessati dall’incremento delle partenze (old migration), successivamente i flussi furono sostenuti dai paesi dell’Europa mediterranea e orientale (new migration). Vengono spesso sottolineate le differenze qualitative, oltre che geografiche, tra old e new migration: la prima di provenienza urbana e di estrazione artigiana contrapposta alla dequalificazione e esclusiva matrice rurale della seconda. La prima grande emigrazione transoceanica è rappresentata dall’esodo tra il 1845 e il 1915. In questo arco di tempo il 40% dei emigranti era proveniente dalla Gran Bretagna. Il secondo paese per numero di partenze fu l’Italia, con il 16%, seguito dalla Germania con il 13%. Un basso tasso di natalità e una debole propensione migratoria fecero invece della Francia il paese europeo che contribuì in modo più esiguo ai flussi migratori del periodo, e la resero da allora fino ad oggi uno dei più importanti pays d’accueil d’Europa. Circa il 70% della migrazione europea tra il 1840 e il 1915 si diresse verso gli Stati Uniti. La costituzione degli Stati Uniti alla fine del Settecento l’aveva infatti resa terra di speranza e di liberazione dalla miseria, oltre che mito del riscatto dal giogo coloniale. Fino al 1889 fu l’epoca della conquista di frontiera e della colonizzazione delle terre dell’Ovest; da allora circa un milione di immigrati l’anno arrivarono per accrescere le fila degli operai nel settore edilizio, minerario, industriale. Tra il 1890 e il 1914 quasi 15 milioni di persone provenienti dall’Europa meridionale contribuirono alla costruzione delle grandi infrastrutture di cui il paese aveva bisogno (ponti, strade, ferrovie). L’altro grande polo di immigrazione fu l’America Latina; Argentina e Brasile in particolare avevano infatti necessità di manodopera immigrata per incrementare il lavoro nelle grandi piantagioni, e compensare la bassa densità demografica che li caratterizzava. Per le stesse ragioni, anche la Nuova Zelanda e l’Australia accolsero numeri sempre crescenti di immigrati a nel corso dell’Ottocento. A partire dal primo decennio del Novecento il paese a più elevato tasso migratorio fu l’Italia: senza considerare i lavoratori stagionali o temporanei che difficilmente venivano rilevati dalle statistiche nazionali, dal 1891 al 1913 quasi un milione di emigranti lasciarono il paese diretti verso Francia, Svizzera, Germania, Belgio, Stati Uniti. Tutti i flussi appena descritti furono incoraggiati senza dubbio dalle legislazioni che dal 1840 fino alla Prima Guerra mondiale furono adottate dalla maggior parte dei paesi, europei e non. Molti infatti eliminarono i divieti imposti alla libera circolazione delle merci come delle persone. Inghilterra, Paesi scandinavi, Francia, furono tra i primi a varare legislazioni più permissive, mentre nei paesi del Mediterraneo furono adottate normative di stampo più liberistico solo nell’ultima parte del secolo, quando il fenomeno migratorio iniziò ad avere dimensioni imponenti. In Italia la prima legge organica fu approvata nel 1888, ma soltanto nel 1901 fu varata una normativa che prevedeva anche forme di tutela e di assistenza e che rimase in vigore fino alle limitazioni reintrodotte dal fascismo. Questa riconosceva il diritto di emigrare e affidava ad un Commissariato generale per l’emigrazione tutte le funzioni statali in materia. Anche i paesi di accoglienza vararono leggi volte a favorire l’arrivo di lavoratori esterni. Per fare un solo esempio, in Argentina dal 1876 fu previsto il trasporto gratuito degli immigrati nel paese e una forma di assistenza a coloro che arrivavano. Negli Stati Uniti e in Canada, al contrario, già nel corso dell’Ottocento furono introdotte alcune limitazioni a carattere discriminatorio, in particolare per ostacolare gli arrivi dall’Asia4. In Australia

4 Nel 1882 gli Stati Uniti adottarono con intenti esplicitamente discriminatori il Chinese Exclusion Act. Gli immigrati orientali furono oggetto privilegiato di pregiudizi e azioni

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misure drastiche furono prese nei confronti dei non provenienti dalla Gran Bretagna, non solo cinesi e neri ma anche bianchi dell’Europa orientale e meridionale. 2.7 L’emigrazione italiana L'Italia è stata interessata al fenomeno dell'emigrazione soprattutto nei secoli XIX e XX. Il fenomeno ha riguardato dapprima il Settentrione (Piemonte, Veneto e Friuli in particolare) e, dopo il 1880, anche il Mezzogiorno. Dai porti del mediterraneo partirono molte navi con migliaia di italiani diretti in America per l'economia più favorevole. Tra il 1861 e il 1985 sono state registrate più di 29 milioni di partenze dall'Italia. Nell'arco di poco più di un secolo un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione al momento dell'Unità d'Italia (25 milioni nel primo censimento italiano) si trasferì in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale e in parte del Nord Africa. Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1876 e il 1900 interessò prevalentemente le regioni settentrionali, con tre regioni che fornirono da sole il 47% dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9%), il Friuli-Venezia Giulia (16,1%) ed il Piemonte (12,5%). Nei due decenni successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia. Si può distinguere l'emigrazione italiana in due grandi periodi: quello della grande emigrazione tra la fine del XIX secolo e gli anni trenta del XX secolo (dove fu preponderante l'emigrazione americana) e quello dell'emigrazione europea, che ha avuto inizio a partire dagli anni cinquanta. La grande emigrazione ha avuto come punto d'origine la diffusa povertà di vaste zone dell'Italia e la voglia di riscatto d'intere fasce della popolazione, la cui partenza significò per lo Stato e la società italiana un forte alleggerimento della "pressione demografica": infatti in media ogni famiglia aveva ben dieci o più figli. Essa ebbe come destinazioni soprattutto l'America del sud ed il Nord America (in particolare Stati Uniti, Brasile e Argentina, paesi con grandi estensioni di terre non sfruttate e necessità di mano d'opera) e, in Europa, la Francia. Ebbe modalità e forme diverse a seconda dei paesi di destinazione. A partire dalla fine del XIX secolo vi fu anche una consistente emigrazione verso l'Africa, che riguardò principalmente l'Egitto, la Tunisia ed il Marocco, ma che nel secolo XX interessò pure l'Unione Sudafricana e le colonie italiane della Libia e dell'Eritrea. Negli Stati Uniti e in Brasile si caratterizzò prevalentemente come un'emigrazione di lungo periodo, spesso priva di progetti concreti di ritorno in Italia, mentre in Argentina ed Uruguay fu sia stabile che temporanea. I periodi interessati dal movimento migratorio vanno dal 1876 al 1915 e dal 1920 al 1929 circa. Sebbene il fenomeno fosse già presente fin dai primi anni dell'Unità d'Italia è nel 1876 che viene effettuata la prima statistica sull'emigrazione a cura della Direzione Generali di Statistica. Si stima che solo nel primo periodo partirono circa 14 milioni di persone (con una punta massima nel 1913 di oltre 870.000 partenze), a fronte di una popolazione italiana che nel 1900 giungeva a circa 33 milioni e mezzo di persone. L'emigrazione nelle Americhe fu enorme nella seconda metà dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Quasi si esaurì durante il Fascismo, ma ebbe una piccola ripresa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le nazioni dove più si diressero gli emigranti italiani furono gli Stati Uniti nel Nordamerica, ed il Brasile e l'Argentina nel Sudamerica. In questi tre Stati attualmente vi sono circa 65 milioni di discendenti di emigrati italiani.

xenofobe che si andavano diffondendo nel paese.

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Una quota importante di Italiani andò in Uruguay, dove i discendenti di Italiani nel 1976 erano 1.300.000 (oltre il 40% della popolazione, per via della ridotta dimensione dello Stato). Quote consistenti di emigranti italiani si diressero anche in Venezuela e in Canada, ma vi furono anche nutrite colonie di emigranti italiani in Cile, Peru, Messico, Paraguay, Cuba e Costa Rica. Praticamente l'emigrazione massiccia italiana nelle Americhe si esaurì negli anni sessanta, dopo il miracolo economico italiano, anche se continuò fino agli anni ottanta in Canada e Stati Uniti. L'emigrazione europea della seconda metà del XX secolo, invece, aveva come destinazione soprattutto stati europei in crescita come Francia (a partire dagli anni 1850), Svizzera, Belgio (a partire dagli anni 1940) e Germania ed era considerata da molti, al momento della partenza, come un'emigrazione temporanea - spesso solo di alcuni mesi - nella quale lavorare e guadagnare per costruire, poi, un migliore futuro in Italia. Tuttavia questo fenomeno non si verificò e molti degli emigranti sono rimasti nei paesi di emigrazione. Lo stato italiano firmò nel 1955 un patto di emigrazione con la Germania con il quale si garantiva il reciproco impegno in materia di migrazioni e che portò quasi tre milioni di italiani a varcare la frontiera in cerca di lavoro. Al giorno d'oggi sono presenti in Germania circa 650.000 cittadini italiani fino alla quarta generazione, mentre sono più di 500.000 in Svizzera. In Belgio e Svizzera le comunità italiane restano le più numerose rappresentanze straniere, e nonostante molti facciano rientro in Italia dopo il pensionamento, spesso i figli e i nipoti restano nelle nazioni di nascita, dove hanno ormai messo radici. Un importante fenomeno di aggregazione che si riscontra in Europa come anche negli altri paesi e continenti meta dei flussi migratori italiani è quello dell'associazionismo di emigrazione. Il Ministero degli Esteri calcola che sono presenti all'estero oltre 10.000 associazioni costituite dagli emigrati italiani nel corso di oltre un secolo. Associazioni di mutuo soccorso, culturali, di assistenza e di servizio, che hanno costituito un fondamentale punto di riferimento per le collettività emigrate nel difficile percorso di integrazione nei paesi di arrivo. Le maggiori reti associative di varia ispirazione ideale, sono oggi riunite nella CNE (Consulta Nazionale dell'Emigrazione). Una delle maggiori reti associative presente nel mondo, assieme a quelle del mondo cattolico è quello della FILEF - Federazione Italiana Lavoratori Emigranti e Famiglie. 3. Il fenomeno nel mondo contemporaneo Gli ultimi venti anni del Novecento sono caratterizzati dal crollo del sistema sovietico dopo la caduta del muro di Berlino, da svolte restrittive nelle politiche migratorie dei principali paesi di immigrazione, dal passaggio a una società post industriale nei paesi occidentali. A questi macro fenomeni si sommano i persistenti e spesso crescenti incentivi agli esodi di massa nei paesi in via di sviluppo: l’endemica sovrappopolazione e la fuga dalla povertà caratterizzano ancora oggi molti paesi asiatici, africani e latino americani, mentre vecchi e nuovi conflitti continuano ad incrementare le fila di profughi e rifugiati in tutto il mondo. Sul piano economico, le ultime fasi della globalizzazione hanno portato ad una crescente delocalizzazione della produzione manifatturiera proprio nei paesi meno investiti dalla modernizzazione e che quindi offrono condizioni di vantaggio economico per le imprese multinazionali per i bassi livelli salariali e per i bassi standard di tutela ambientale e del lavoro vigenti. Lo sviluppo della microelettronica ha portato poi ad una nuova rivoluzione industriale, poiché ha determinato una forte contrazione della manodopera impiegata nel settore

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industriale dilatando enormemente gli addetti del terziario, ai quali si richiedono elevati livelli di qualificazione professionale. L’apporto degli immigrati al nuovo mercato del lavoro delle economie occidentali si distingue dunque per la sua differenza qualitativa rispetto all’offerta di lavoro degli autoctoni. Mutano i soggetti, gli Stati coinvolti e gli itinerari. I paesi dell’Africa centrale e dell’Europa orientale, precedentemente esclusi, contribuiscono fortemente ai nuovi flussi, mentre le direttrici geografiche più seguite sono quelle che uniscono il Sud al Nord e l’Est all’Ovest. Inoltre, mentre negli anni del miracolo economico erano stati i paesi europei del nord ad attrarre maggiormente i flussi migratori, nell’attuale sistema migratorio hanno un peso crescente i paesi dell’Europa del Sud. In Asia sono invece Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Malesia, Indonesia e Thailandia le mete privilegiate dai migranti di Filippine, Pakistan, Bangladesh. I movimenti di rifugiati politici e profughi in fuga da zone di guerra continuano a crescere dalla fine della guerra fredda. 3.1 I fenomeni globali in atto All’inizio del XXI secolo la migrazione è considerata una delle questioni globali di maggiore interesse: 192 milioni di persone vivono oggi fuori dal proprio paese di nascita, una cifra che rappresenta il 3% della popolazione mondiale. Il 90% degli immigrati si trova nei primi cinquanta paesi più sviluppati del mondo. Inoltre le donne concorrono in misura sempre maggiore all’accrescere i flussi. Nonostante le forti restrizioni che i paesi di accoglienza hanno adottato durante dagli anni ’80 in poi, i flussi dai paesi in via di sviluppo continuano a crescere. Per gestire il fenomeno in modo adeguato è necessario sviluppare una comprensione della sua multidimensionalità. Un approccio simile prevede politiche e programmi per la migrazione e lo sviluppo, la regolazione della migrazione e l’ostacolo alla migrazione forzata: queste misure devono essere intraprese in modo coordinato da tutti gli Stati interessati, politiche unilaterali hanno più volte dimostrato la loro inefficacia. Sui flussi migratori hanno un forte impatto molti trend globali in atto: il boom demografico dei PVS, le disparità economiche crescenti tra Nord e Sud del mondo, le politiche di liberalizzazione commerciale, l’aumento dei disastri ambientali connessi ai cambiamenti climatici, lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e informazione globali, hanno effetti molto importanti sulla mobilità transnazionale delle persone. Alcuni di questi trend potrebbero provocare nel corso dei prossimi decenni un ulteriore incremento nei flussi: · Liberalizzazione economica: La migrazione viene incentivata dall’alta richiesta di forza lavoro nei PS, soddisfatta dalla disponibilità di lavoratori in eccesso nei PVS: un mercato del lavoro sempre più aperto e globale offre la possibilità di minimizzare i costi di produzione delle imprese attraverso l’assunzione di lavoratori migranti o la delocalizzazione. La globalizzazione ha anche rinforzato il movimento di lavoratori qualificati. Ci sono alcuni settori di fornitura di servizi (ristorazione e alberghi, software, assicurazioni e servizi finanziari) che nelle economie americane e europee occupano in larga parte lavoratori immigrati. · Declino economico: Dal 2001 l’economia globale ha subito un forte declino, con un rallentamento della crescita generalizzato e situazioni di crisi in alcune delle maggiori economie del mondo. Questo ha causato un rallentamento dei movimenti dei lavoratori, in particolare nel settore dell’information technology, delle costruzioni e dell’industria manifatturiera. È comunque ancora presto per analizzare in modo compiuto l’impatto che la crisi economica globale ha avuto, e sta avendo tuttora, in termini di rientri dei migranti nei loro paesi di origine. L’esperienza della crisi finanziaria asiatica del 1999 suggerisce che la maggior parte dei migranti tende a rimanere nel paese di accoglienza anche quando le condizioni peggiorano: una recessione temporanea non necessariamente causa un’interruzione significativa dei flussi. · Cambiamenti demografici: Il tasso di crescita della popolazione è sistematicamente più alto nei PVS rispetto ai PS. Mentre il tasso annuale nei PS è inferiore allo 0.3%, nel resto del mondo la popolazione sta crescendo almeno 6 volte più velocemente. Ciò ha due

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importanti effetti sui flussi migratori. Da una parte, la rapida crescita della popolazione, unita alle difficoltà economiche, spinge le persone a muoversi verso le economie più ricche. Dall’altra, l’invecchiamento della popolazione nei paesi sviluppati, causato da un bassissimo tasso di natalità, lascia spazio per un aumento degli ingressi di migranti nei prossimi 50 anni. Secondo le proiezioni dell’ONU, il Giappone e tutti i paesi europei vedranno ridurre la crescita della loro popolazione nei prossimi 50 anni ulteriormente. Ad esempio, si stima che l’Italia passerà dagli attuali 60 milioni a 41 milioni nel 2050. Allo stesso modo si prevede che il Giappone passerà dai 127 milioni attuali a 105 milioni nel 2080. Oltre al declino della popolazione, Giappone e Europa stanno sperimentando un invecchiamento rapidissimo. Sebbene non sia una soluzione, una parte del problema potrebbe essere risolto dal “rimpiazzo dei migranti”. · Emergenza di network di migranti: I network di migranti facilitano la mobilità delle popolazioni, riescono ad influire sulle decisioni politiche dei paesi di accoglienza per fornire assistenza ai paesi di origine e sulle relazioni economiche e commerciali tra paesi di provenienza e di arrivo. Associazioni, comitati e comunità migranti organizzate spingono ovunque per ottenere percorsi di integrazione più creativi e produttivi nei paesi riceventi. · Emergenza della migrazione transnazionale: I miglioramenti nelle tecniche di trasporto e di comunicazione hanno connesso luoghi e persone e hanno reso possibile l’emergere di uno spazio migratorio transnazionale. Non si tratta solo del movimento fisico delle persone, ma dei flussi di informazioni, conoscenze e rimesse che circolano nello spazio globale. Tra le conseguenze dell’aumento dei flussi transnazionali vi sono l’accettazione della doppia cittadinanza, della proprietà multipla e dei diritti di voto: essere membri, cittadini di uno Stato non è più solo una caratteristica legata al territorio di nascita. · Pochi paesi gestiscono in maniera effettiva/efficace la migrazione: Sono pochi i paesi che hanno definito e articolato una reale politica migratoria. È difficile gestire il problema se non esiste una struttura politica stabilita e anche i paesi che si sono dotati di una politica migratoria coerente spesso hanno serie difficoltà nella gestione del fenomeno. Alcune critici della politica pubblica, in particolare nei paesi sviluppati, denunciano il periodo da metà 1970 ad oggi come un quarto di secolo di cattiva gestione. In più i movimenti su larga scala non sono cessati. La migrazione irregolare è diventata uno dei maggiori problemi. I percorsi migratori attuali si sommano al traffico di droga come una delle maggiori fonti di entrata per il crimine organizzato. Il traffico di esseri umani è diventato un problema significativo in tutto il mondo. La migrazione è divenuta uno dei problemi in agenda del G8. Non è difficile comprendere perché le persone scelgono di migrare da aree povere del mondo verso i paesi più ricchi. I movimenti migratori si sono sempre registrati per migliorare le condizioni di vita, per dare maggiori opportunità ai figli, per sfuggire dalla povertà, dalla guerra, dalla fame. Oggi sono sempre di più le persone motivate a partire e che riescono a mettere in atto il progetto migratorio. Media e telecomunicazioni rendono direttamente visibili ai più poveri del pianeta le enormi disparità che esistono tra i loro standard di vita e quelli dei paesi industrializzati. Non solo. Nel mondo globalizzato c’è anche una domanda crescente di mobilità di persone altamente qualificate. Per ridurre gli impatti negativi del fenomeno e anzi realizzare il potenziale positivo delle migrazioni in termini economici, sociali e politici, è necessario per ogni paese arrivare ad una regolazione e gestione efficace dei movimenti migratori su larga scala. L’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni lavora al fianco di Stati, associazioni, comunità e individui per raggiungere una buona gestione delle migrazioni. Un’analisi delle dinamiche del fenomeno nelle singole regioni mondiali può essere interessante. Ovunque si è testimoni di flussi intensi o crescenti, ma con caratteristiche specifiche per tipo di migrazione e di destinazione a seconda delle aree di provenienza.

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I dati che seguono sono tratti da rapporti pubblicati tra il 2007 e il 2008 dalle maggiori organizzazioni internazionali che si occupano di migrazioni (ONU, Banca Mondiale, Norwegian Refugee Council, Organizzazione Mondiale delle Migrazioni, UNHCR). · Africa: I migranti africani si muovono in prevalenza verso altri paesi del continente. Il Sud Africa, il Maghreb e l’Africa Occidentale sono le sub regioni che vengono maggiormente investite dalla mobilità da lavoro in Africa. · Asia: È la fonte più importante di lavoratori migranti con contratti temporanei nel mondo, ed è caratterizzata contemporaneamente da flussi ingenti di lavoratori tra regioni, in particolare con grandi movimenti interni a Cina e India. · Europa: Le dinamiche europee differiscono da quelle del resto del mondo a causa dell’obiettivo dell’Unione Europea di creare uno spazio migratorio comune e di creare una gestione comune dei confini esterni. · Americhe: Sono forti i flussi dall’America Latina e dai Caraibi verso gli Stati Uniti e il Canada, e in modo crescente anche verso l’Europa. Gli Stati Uniti e il Canada continuano a essere i maggiori ricettori di migranti permanenti nel mondo, ma stanno anche affrontando una crescente domanda di lavoratori temporanei. · Medio Oriente: È la regione più importante per i lavoratori con contratti temporanei provenienti in massima parte dall’Asia. I paesi da cui avviene il maggior numero di partenze sono la Cina (35 milioni di migranti), l’India (20 milioni) e le Filippine (7 milioni). A i tradizionali paesi di immigrazione – Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti – si stanno sostituendo o almeno sommando negli ultimi anni alcune destinazioni europee (Irlanda, Italia, Norvegia, Portogallo). Nei paesi industrializzati i lavoratori migranti sono impiegati per la maggior parte nell’industria e nelle costruzioni (40%) e nel settore dei servizi (50%). In alcune aree, e in particolare nei paesi del Golfo persico, più del 40% della forza lavoro è costituita da stranieri. Dal 2000 il numero di permessi di lavoro temporanei per stranieri concessi dai paesi OCSE è aumentato costantemente: nel 2005 sono stati ammessi nei paesi OCSE 1,8 milioni di lavoratori temporanei. Senza l’afflusso di migranti internazionali, la popolazione nei paesi sviluppati tra i 20 e i 64 anni declinerebbe del 23% entro il 2050 (da 741 a 571 milioni). Simmetricamente, si stima che la popolazione adulta (20-64 anni) in Africa triplicherà da 408 milioni nel 2005 a 1,12 miliardi nel 2050 e che senza la valvola di sfogo dell’emigrazione verso i PS, la cifra raggiungerebbe 1,4 miliardi. In Asia si stima che la popolazione adulta crescerà del 40%, da 2,21 miliardi nel 2005 a 3,08 miliardi nel 2050, stima che senza l’emigrazione arriverebbe 3,12 miliardi. Anche per Caraibi e America Latina ci si attende una crescita della popolazione del 45%, da 303 milioni a 441 milioni, comunque inferiore a quello che si registrerebbe senza emigrazione. Secondo queste proiezioni (United Nations, 2008) dei demografi delle maggiori organizzazioni internazionali, nei prossimi 40 anni la forza lavoro originaria dei PVS riuscirà a coprire il declino della popolazione nei paesi sviluppati. 4. Le cause delle migrazioni Le cause della migrazione sono collegate agli specifici contesti dai quali prende forma. In primo luogo ci sono forze strutturali come quelle dell’economia globale che entrano in gioco. In secondo luogo, i differenziali socioculturali (genere, classe, casta, etc.) hanno implicazioni importanti per la mobilità individuale. Le implicazioni demografiche per le popolazioni riceventi cambiano a seconda delle circostanze in cui avviene la migrazione. In generale, fenomeni migratori di un certo rilievo hanno sempre forti impatti sulle popolazioni riceventi. È per esempio innegabile che le migrazioni dalle aree rurali verso le città abbiano prodotto profonde trasformazioni nei tessuti urbani delle più grandi città del Sud del mondo: problemi infrastrutturali, insufficienza di case e di servizi e altri sono

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evidenti in molte capitali dei PVS, ai margini delle quali sono sorte negli ultimi trent’anni baraccopoli enormi, sovraffollate e senza servizi. Una persona che si muove all’interno di una nazione non farà la stessa esperienza migratoria di un rifugiato politico. I rifugiati hanno spesso bisogno di servizi speciali, come assistenza emergenziale, cibo, aiuto legale. Il trauma psicologico di lasciare la propria patria e la propria famiglia può rendere difficile al rifugiato sistemarsi nel nuovo ambiente. Se si considera che un migrante può essere uno schiavo, un rifugiato, una persona in cerca di lavoro… non c’è una sola teoria che possa dare una spiegazione unica del processo migratorio. Rimane comunque un compito dei demografi spiegare perché le persone si muovono. È possibile genericamente dividere le cause (economiche, politiche, culturali e ambientali) delle migrazioni in due classi: i fattori che spingono a partire dalle aree rurali o da un PVS e quelli che attraggono verso le aree urbane o un paese industrializzato. Tra i fattori push vi sono: scarsità di terra coltivabile, fame e povertà, carestia, disastri naturali, basso tenore di vita, mancanza di servizi e infrastrutture, disoccupazione, inaccessibilità sistemi educativi e sanitari, basso livello di reddito, basso riconoscimento sociale, persecuzione politica, religiosa, razziale, rivoluzioni, conflitti, etc. Tra i fattori pull vi sono: migliore tenore di vita, redditi elevati, maggiore possibilità di carriera, maggiore riconoscimento sociale, accesso ai sistemi di istruzione e ai servizi sanitari e sociali, presenza di case migliori, infrastrutture efficienti, maggiore sicurezza e protezione della persona, assenza di conflitto, etc. Qui di seguito viene presentata una tabella riassuntiva che cerca di fare un’ulteriore distinzione tra le cause della migrazione, distinguendo le motivazioni alla partenza individuali dalle cause meso e macro, che coinvolgono comunità, villaggi o interi paesi.

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