Discorso Intorno Alla Nostra Lingua
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Corso di Storia della Lingua Italiana del Rinascimento a. a. 2010/2011 Prof.ssa Nicoletta Maraschio
La paternità del Discorso intorno alla nostra
lingua:
una questione ancora aperta
I. Risale al 2009 un articolo di Simone Bionda che si proponeva di
«ravvivare la fiamma»1 del dibattito sul Dialogo o discorso intorno alla
nostra lingua (d’ora in avanti sempre Discorso, seguendo Trovato)2 la
quale, dopo i furori degli anni Settanta e Ottanta, si era andata
progressivamente spegnendo3. Insieme con il dibattito, si spengeva anche
uno dei suoi più agguerriti partecipanti, Mario Martelli ―scomparso nel
2007― che senz’altro avrebbe letto quest’ultimo contributo con una certa
soddisfazione. Infatti, nonostante la questione del Discorso sia tutt’altro
che risolta, si può forse affermare, di nuovo, ciò che Grayson sostenne nel
1979: ossia che in questa contesa «un certo vantaggio pare, ad oggi, stare
dalla parte del Martelli»4.
La riflessione di Bionda, infatti, pur non confermando assolutamente
nella sua interezza la teoria del Martelli («decisamente antieconomica»5 e
talvolta argomentata con osservazioni francamente assurde6), quantomeno
mette fortemente in discussione quelle dei suoi avversari, strenui difensori
1 Cit., BIONDA, Il “nodo” del Dialogo della lingua attribuito a Niccolò Machiavelli, in «Interpres», n. XXVIII, 2009, p. 276.2 La Castellani Pollidori, Grayson e altri optano invece per l’abbreviazione Dialogo. Ad ogni modo, l’opera è anepigrafa; questo titolo si ricava dall’avvertenza di Giuliano de’ Ricci.3 Non mancano tuttavia contributi recenti come: GENSINI, Note sul Discorso, «Bollettino di italianistica», n. 2, 2008, pp. 45-61; CASTELLANI POLLIDORI, Dal carteggio Borghini-Valori un possibile spiraglio sulla tradizione testuale del Dialogo di Niccolò Machiavelli, in «Studi linguistici italiani», n. 2, 2008, pp. 161-174; MACONI, L’esordio platonico e l'interpretazione del “Discorso intorno alla nostra lingua” di Machiavelli, in «Lingua e stile», n. 2, 2008, pp. 165-181.4 Cit., GRAYSON, Questione aperta. Ancora sul Dialogo intorno alla nostra lingua, in «Studi e problemi di critica testuale», n. XIX, 1979, p. 11.5 Cit., TROVATO, Appunti sul Discorso intorno alla nostra lingua del Machiavelli, in «La Bibliofilia», n. LXXXIII, 1981, p. 51.6 Per citarne una, mi trovo d’accordo con Grayson quando definisce «un’esagerazione» (GRAYSON, Questione aperta, cit., pp. 119-120) giudicare, come fa Martelli, un «errore mostruoso» indegno di «un qualsivoglia studente di scuola media inferiore» (cit., MARTELLI, Una giarda fiorentina. Il ‘Dialogo della lingua’ attribuito a Niccolò Machiavelli, Salerno editrice, Roma, 1978, p. 95) il passaggio dal modo condizionale all’indicativo al momento del ritorno dalla parte dialogica a quella narrativa. A Stoppelli invece questa di Martelli sembra un’argomentazione «brillante e persuasiva» (cit., STOPPELLI, Recensione a MARTELLI, Una giarda fiorentina, in «Belfagor», n. 34, 1979, p. 603).
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Corso di Storia della Lingua Italiana del Rinascimento a. a. 2010/2011 Prof.ssa Nicoletta Maraschio
della paternità del Machiavelli, portando alla luce un rilevante
impedimento a qualsiasi datazione antecedente agli anni Quaranta del
Cinquecento, tanto che, al momento, chi si voglia occupare del Discorso
dovrà necessariamente o smantellare l’argomentazione di Bionda o
riconsiderare l’ipotesi del falso.
Come ammette lo stesso Bionda, può restare ancora valida la
proposta che fu di Inglese e di Stoppelli, ossia che il Discorso possa
dipendere da uno scritto di Machiavelli rimaneggiato da altri7; tuttavia, la
scoperta di Bionda va a mettere in discussione proprio uno dei passi più
insospettabili del Discorso8 che difficilmente potrà essere considerato
un’interpolazione. Non è comunque da escludere la possibilità che,
attraverso studi più approfonditi e capillari, la scoperta di Bionda possa
essere messa in discussione.
In questa sede vorrei ripercorrere rapidamente alcuni dei principali
nodi del dibattito sulla paternità del Discorso, dall’articolo di Grayson del
1961 fino al recente contributo di Bionda9.
7 Cfr. INGLESE, Machiavelli nel Dialogo, in «La cultura», n. XVIII, 1980 e STOPPELLI, Recensione.8 Cfr. INGLESE, Introduzione, in Machiavelli, Clizia, Andria, Dialogo intorno alla nostra lingua, Milano, Rizzoli, 1997, p. 8.9 La bibliografia su questo argomento è tanto vasta da essere spiazzante soprattutto per chi, come me, voglia provare a riassumere i nodi del problema in una relazione dallo spazio limitato. Ho cercato di dare voce a più studiosi, ma comunque non sono riuscita a darla a tutti e a nessuno in modo approfondito (per alcune questioni mi sono ritagliata degli spazi nelle note, ma si tratta sempre e solo di accenni). Spero, tuttavia, che da questo lavoro possa comunque emergere la complessità della questione e che il lettore possa farsi un’idea dei vari metodi con i quali gli studiosi abbiano cercato di risolverla. Non ho potuto trattare tutte le problematiche del Discorso. Per chi voglia analizzare il problema della trasmissione dell’opera rimando a MIGLIORINI FISSI, Per la fortuna del ‘De vulgari eloquentia’. Un nuovo codice del ‘Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua’, in «Studi danteschi», n. XLIX, 1972 pp. 135-214, a TROVATO, Appunti e a CASTELLANI POLLIDORI, Dal carteggio Borghini-Valori. Per il passo del Discorso nel quale ci si riferisce a Guido Guinizelli, Guittone e Cino da Pistoia dicendo che «tutti non aggiunsono a X canzoni» (Discorso, cit., § 20. Traggo tutte le citazioni del Discorso dall’edizione contenuta in CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli e il «Dialogo intorno alla nostra lingua», Olschki, Firenze, 1978 facendo riferimento alla divisione in paragrafi ivi presente), si vedano invece DE ROBERTIS, Cronologia del canone delle rime antiche nel Cinquecento (per il Dialogo intorno alla nostra lingua), in «Rinascimento», n. 30, 1979, pp. 265-267, CASTELLANI POLLIDORI, Nuove riflessioni sul Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua di Niccolò Machiavelli, Salerno Editrice, Roma, 1981, IACHINI BELLISARII, Alla ricerca di un autunno: per la datazione del Discorso o dialogo di Niccolò Machiavelli, Trimestre, Pescara, 1980 e SORELLA, Magia lingua e commedia nel Machiavelli, Olschki, Firenze, 1990, pp. 104-105. Per un riassunto del dibattito sul Discorso prima dell’articolo di Grayson rimando invece a DIONISOTTI, Machiavelliche. Storia e fortuna di Machiavelli, Einaudi, Torino, 1980.
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II. La paternità di Machiavelli, basata principalmente sull’avvertenza di
Giuliano de’ Ricci, non è mai stata seriamente messa in dubbio prima del
196110. Sino ad allora gli studiosi si impegnarono principalmente a
risolvere il problema della datazione che venne fissata, quasi all’unanimità
e anche dall’autorità del Rajna, attorno al 151511 sulla base del passo del
Discorso in cui ci si riferisce all’autore dei Suppositi chiamandolo «uno
degl’Ariosti di Ferrara»12. Si ritenne, infatti, che una denominazione di
questo tipo fissasse nel 1516, anno della prima edizione dell’Orlando
furioso, il terminus ante quem della stesura: come si sarebbe potuto, dopo
allora, definire in modo tanto vago un autore ormai di successo? Tanto più
che in una lettera del 1517 Machiavelli manifesta il suo rammarico per non
essere stato incluso nel Furioso, dimostrando di conoscere bene e di
ammirare l’Ariosto.
Tuttavia, nel 1971 Grayson pubblicò un articolo nel quale proponeva
di ritardare la datazione dell’opera perlomeno di una decina d’anni rispetto
al 151513. In quella sede, Grayson confutò la datazione tradizionale
sottolineando alcune incoerenze14 e non mancò di ricollocare quelle
considerazioni puntuali all’interno di una riflessione più ampia, notando
che, se il Discorso fosse stato steso nel 1515, esso sarebbe un’«opera
d’avanguardia» basata su una «conoscenza piuttosto eccezionale dei
10 Lo fece comunque, per primo, Polidori (POLIDORI, Opere minori di Niccolò Machiavelli, Le Monnier, Firenze, 1852).
11 In particolare, Rajna propose il 1514 (cfr. RAJNA, La data del dialogo intorno alla lingua di Niccolò Machiavelli, in «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», ser. V, n. II, 1893, pp. 203-222), mentre Baron il 1515 o il 1516 (cfr. BARON, Machiavelli in the Eve of the Discourses: the Date and Place of his «Dialogo intorno alla nostra lingua», in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», n. XXIII, 1961, pp. 449-476).12 Discorso, cit., § 69.13 GRAYSON, Machiavelli e Dante. Per la data e l’attribuzione del «Dialogo intorno alla lingua» , in «Studi e problemi di critica testuale», n. 2, 1971, pp. 5-28.14 Nel Discorso si fa un accenno alla corte di Milano come se esistesse in quel momento, ma il Duca era stato cacciato nel 1515 e tornò solo dopo il 1520; inoltre si dice che Firenze si trova in «tanta felicità e in sì tranquillo stato» che Dante «ripercosso dai colpi di quella sua innata invidia, vorrebbe, essendo risuscitato, di nuovo morire» (Discorso, cit., § 24): visti i difficili rapporti tra Machiavelli e i Medici, tornati a Firenze nel 1512, risulta difficile giustificare quest’entusiasmo patriottico nel 1514-1515. Per Sorella questi accenni alla grandezza delle città sono soltanto dei topoi che non dimostrano nulla (cfr. SORELLA, Magia, Olschki, Firenze, 1990, p. 107). Secondo Bertelli, che ―come vedremo― colloca il Discorso intorno al 1550, invece, l’accenno alla prosperità di Firenze «rientra perfettamente nel clima cosimiano» (cit., BERTELLI, Egemenonia linguistica come egemonia culturale nella Firenze cosimiana, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1976, p. 282); v. però CASTELLANI POLLIDORI, Appendice a Niccolò Machiavelli, p. 173 per una critica all’affermazione di Bertelli.
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problemi linguistici del volgare»15 (problemi ai quali, per altro, Machiavelli
non si interessò nel resto della sua produzione)16. Grayson ammise che le
discussioni intorno alla natura17 e al nome da darsi al volgare cominciarono
all’inizio del secolo ―anticipando di alcuni anni le pubblicazioni che le
riflettono―, ma ricordò anche che quelle discussioni si svolsero
principalmente fuori dalla Toscana, con la sola eccezione delle visite del
Trissino a Firenze durante le quali forse questi diffuse il De vulgari
eloquentia18, e arrivò alla radicale conclusione che prima del 1525 il
Discorso «non poteva essere stato scritto né da Machiavelli né da alcun
altro fiorentino»19. Dopo il 1525 esso invece si collocherebbe assai più
comodamente all’interno del dibattito allora ben avviato della lingua20.
D’altra parte, lo stesso Grayson portò delle obiezioni anche a questa
datazione21 che, associate ad alcuni dubbi sulla paternità dell’opera
derivanti dal violento antidantismo che vi si legge e del quale non si vedono
tracce nel resto della produzione di Machiavelli, lasciarono aperta la
possibilità di un ulteriore slittamento, anche al di là del 1527 (anno di
morte di Machiavelli).
Questo articolo di Grayson scatenò un nuovo interesse per il
Discorso. La datazione del 1515 fu da quasi tutti gli studiosi (ma non dal
15 GRAYSON, Machiavelli e Dante, cit., p. 16.16 V. però CHIAPPELLI, Machiavelli e la “lingua fiorentina”, Boni, Bologna, 1974, § I dove si raccolgono esempi di riflessioni linguistiche all’interno dell’opera di Machiavelli. V. anche POZZI, Ancora sul «Discorso o dialogo», in «Giornale storico della letteratura italiana», n. CLII, 1975, pp. 487-491 per un ridimensionamento delle osservazioni di Chiappelli.17 Per un approfondimento sul naturalismo linguistico nel Discorso, v. GENSINI, Note.18 Nel Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua, Gelli scrive appunto che il Trissino diffuse il De vulgari eloquentia a Firenze intorno al 1514. Tuttavia, questa testimonianza tarda è ritenuta da Marazzini «probabilmente inesatta» (cit., MARAZZINI, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattito sull’italiano, Carocci, Roma, 1999, p. 51).19 GRAYSON, Machiavelli e Dante, cit., p. 17.20 Martelli cercherà di dimostrare che alcune parti del Discorso presentino conoscenze ancora più tarde (di metà secolo), cfr., ad esempio, MARTELLI, Giarda, pp. 99-101, 217-219, 227-228, 233-234. Questi esempi sono citati da Trovato (cfr. TROVATO, Appunti, p. 28) e da lui smantellati (cfr. ivi, pp. 28 e segg.).21 Il riferimento alla condizione di Firenze precedentemente citato (v. n. 14) andrebbe inteso come un’affermazione iperbolica e andrebbe spiegata la divergenza tra il Discorso e l’Arte della guerra (scritta tra il 1519 e il 1520) circa la composizione delle legioni romane che, a rigor di logica e come aveva già notato anche il Rajna, porterebbe a considerare il Discorso anteriore. Per un’analisi di quest’ultimo problema e per una panoramica su varie proposte di soluzione, v. CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, pp. 22-24. V. anche una critica alla teoria della Castellani Pollidori e un’ulteriore proposta di soluzione in MACONI, L’esordio platonico, pp. 177-178.
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Sozzi)22 ritenuta inattendibile e fu variamente risolto il «piccolo e falso
problema»23 della denominazione dell’Ariosto24. Tuttavia, si scatenò una
acceso dibattito sulla paternità dell’opera, accompagnato da altre proposte
di datazione.
La maggior parte degli studiosi difese la paternità di Machiavelli.
Tuttavia, questo fronte si dimostrò scarsamente compattato; gli studiosi
non riuscirono infatti a mettersi d’accordo, ad esempio, sulla questione
della datazione: solo per citare alcune proposte, Dionisotti collocò il
Discorso tra il 1520 e il 1524, la Castellani Pollidori e Chiappelli proposero
il 1525, Sorella, nel 1990, mise in discussione le osservazioni di Grayson
―che sembravano ormai appurate― e propose di ripristinare una
datazione alta, intorno al 1518.
L’altro schieramento si identifica in sostanza nel Martelli,
spalleggiato, con varie riserve, da Grayson. Martelli teorizzò che il
Discorso fosse un falso steso tra il 1576 e il 1577 da una persona di spiriti
antimedicei con l’intenzione di beffarsi degli Accademici (alla base del falso
ci sarebbe uno scritto di Borghini adeguatamente modificato)25. Anche
Bertelli negò la paternità di Machiavelli, ma non ritenne possibile che il
Discorso fosse un falso26 visto che esso non venne diffuso (com’è noto,
manca una tradizione manoscritta del testo per tutta la prima metà del
Cinquecento e il Discorso sembra non aver lasciato tracce)27. Bertelli pensò
22 SOZZI, Nota su un disconoscimento di paternità letteraria, in «Giornale storico della letteratura italiana», n. 149, 1972, pp. 394-399.23 GRAYSON, Questione aperta, cit., p. 124. 24 Per citare alcuni esempi di soluzione, Grayson propose un errore di trascrizione (uno da lo, abbreviazione di Lodovico), Dionisotti ricordò che all’epoca la notorietà della nobile famiglia degli Ariosti prevaleva su quella dei singoli componenti (cfr. DIONISOTTI, Machiavellerie, p. 292), la Castellani Pollidori valutò invece la possibilità che una denominazione tanto vaga fosse una «frecciata» (CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, cit., p. 26) lanciata da Machiavelli all’Ariosto per vendicarsi di non essere stato incluso nel suo poema. Bionda invece ritiene che si possa trattare di una «sarcastica citazione comune» (BIONDA, Il “nodo”, cit., p. 295) di Ludovico, Gabriele e Virginio Ariosto. I tre infatti furono, in differente misura, autori della commedia Gli studenti (pubblicata non dopo il 1547): Ludovico la lasciò incompiuta al quarto atto, Gabriele (il fratello) la terminò e Virginio (figlio di Gabriele) ne scrisse il prologo. 25 V., MARTELLI, Giarda, p. 138 per maggiori dettagli.26 In realtà ipotizza la possibilità del falso (collocandolo nel dibattito su Machiavelli avvenuto a Ferrara nel 1537 e ricordato da Muzio) all’interno dell’articolo (cfr. BERTELLI, Egemonia, pp. 280-281), ma la scarta nell’Appendice. 27 Sorella ha rintracciato quelle che a suo avviso sono influenze del Discorso in diverse opere cinquecentesche; Bertelli avrebbe però forse risposto a Sorella come rispose al Rajna e a Thérèse Labaude-Jeanroy che ritennero, rispettivamente, la Risposta di Martelli e il Castellano del Trissino successivi al Discorso: «Ma non sarebbe più semplice e logico pensare che l’anonimo autore di Lga [scil. Discorso] abbia lui tenuto presenti e Martelli e Trissino, anziché viceversa?» (cit., BERTELLI,
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piuttosto ad un «testo maturato nel clima teso delle polemiche suscitate
dall’apparizione de Il Gello. Un testo che non fu reso immediatamente
pubblico, per gli stessi motivi per i quali L’Ercolano attese tanto a venire
alla luce»28; il Discorso, insomma, come spiega più chiaramente la
Castellani Pollidori, sarebbe nato, secondo Bertelli, «come protesta
“fiorentinista” contro la tesi in sostanza “toscanista” del Giambullari, il
quale nel Gello, per assecondare le mire politiche di Cosimo de’ Medici,
coinvolge nell’apoteosi dell’etruscheria la Toscana intera, obliterando in un
certo qual modo il primato di Firenze»29.
A questi due fronti se ne contrappose un terzo ―a cui si è già
accennato―, quello di Inglese e Stoppelli, i quali ritennero che il Discorso
potesse essere uno scritto machiavelliano rimaneggiato. Attraverso questa
supposizione si cercò di superare, in assenza di fatti documentali nuovi, la
fase di stallo raggiunta dagli studi precedenti.
III. Gli studi sulla paternità si basarono su due criteri: da un lato, l’analisi
linguistica, ossia confronti puntuali tra il Discorso e le altre opere di
Machiavelli, alla ricerca di analogie e contrasti; dall’altro, l’analisi dei
contenuti, svolta vagliando i rapporti con il resto della produzione di
Machiavelli, nonché con altre opere chiave della disputa sulla lingua.
Quanto agli studi linguistici, nel 1979 Grayson sentenziò:
«l’argomento linguistico e formale, fin qua considerato da molti decisivo
per l’attribuzione al Machiavelli, non può né deve averla vinta»30. In effetti,
studi di questo tipo sembrano essere facilmente affetti da faziosità. Sia
Appendice a Egemonia linguistica come egemonia culturale e politica nella Firenze cosimiana, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», n. XXXVIII, 1976, p. 282).28 BERTELLI, Appendice, cit., p. 283. Per una risposta a Bertelli, v. CASTELLANI POLLIDORI, Appendice a Niccolò Machiavelli (pp. 171-187). 29 CASTELLANI POLLIDORI, Appendice a Niccolò Machiavelli, cit., p. 176. In realtà però gli studiosi non si sono dimostrati affatto concordi nel riconoscere nel Discorso una chiara contrapposizione tra fiorentino e toscano, v. n. 76.30 GRAYSON, Questione aperta, cit., p. 122. Anche Inglese e Ridolfi si dichiararono d’accordo sul fatto che lo stile non può rappresentare in questo caso una prova definitiva (cfr. INGLESE, Machiavelli, n. 1, p. 284 e RIDOLFI, Una «giarda» del Machiavelli, in «La Bibliofilia», n. LXXX, 1978, p. 245).
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l’analisi della Castellani Pollidori31, sulla scia di Chiappelli32, che quella di
Martelli33 riportano lunghe serie di corrispondenze (sia lessicali che
sintattiche) che vorrebbe essere probanti, dimostrando però tesi opposte:
quelle della Castellani Pollidori accerterebbero che Machiavelli sia stato in
effetti l’autore del Discorso, mentre quelle di Martelli scoprirebbero, come
si è detto, una dipendenza del Discorso da qualche scritto del Borghini34.
Diversa l’analisi stilistica dello storico «studioso principe del
Machiavelli»35, Roberto Ridolfi, che dichiara di «essersi sempre fatto beffe
di chi crede di provare qualcosa con poche coppie e neppur peregrine di
parolette»36: la sua è un’analisi (forse sarebbe più corretto chiamarla un’
“autorevole impressione”) più generale, basata sull’impasto della lingua,
sul piglio, sul «ductus dello stile»37, che per lui non potrebbero essere
d’altri che di Machiavelli.
31 CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli (v. Parte I, § III) e, successivamente, ID., Nuove riflessioni (v. pp. 20-38). Questa seconda pubblicazione fu scritta dalla Castellani Pollidori in risposta a una critica fattale da Martelli in MARTELLI, Paralipomeni alla Giarda: venti tesi sul dialogo della lingua, in «Filologia e critica», n. IV, 1979, pp. 213-279. La critica di Martelli ―che corrisponde anche a una rettifica del suo proprio modo di indagare le corrispondenze tra il Discorso e lo stile del Borghini― sottolinea come per ottenere qualche certezza dalle indagini stilistiche ci si dovrebbe concentrare non tanto sulle equivalenze quanto sulle estraneità, ossia sulla presenza nel Discorso di modi estranei all’opera di Machiavelli (cfr. MARTELLI, Paralipomeni alla Giarda, p. 240). Martelli fa seguire questa considerazione da un’indagine dei modi estranei al Machiavelli presenti nel Dialogo e al contempo tipici del Borghini. La Castellani Pollidori nella sua pubblicazione analizza i modi individuati da Martelli concludendo che «delle trenta espressioni o costruzioni o accezioni del Dialogo accusate di non machiavellità […], quattordici vanno assolte perché il fatto non sussiste […], quattordici perché il fatto non costituisce reato. Rimangono in forma che e sentire ‘pensare’: e si tratta di usi caratteristici del Landino o attestati nel Landino. Un Machiavelli in vena di variatio verbale, anche se fermamente ancorato alle sue abitudini di sempre, può benissimo averli adoperati, una tantum» (CASTELLANI POLLIDORI, Nuove riflessioni, cit., p. 38). Ad incrementare gli esempi della Castellani contribuì anche Trovato (v. TROVATO, Appunti, pp. 61-66). Per un altro giudizio a favore della Castellani Pollidori in questa contesa, v. anche RIDOLFI, Una «giarda», p. 243. 32 CHIAPPELLI, Machiavelli e la “lingua fiorentina”.33 MARTELLI, Giarda e ID., Paralipomeni.34 D’altra parte, secondo Martelli (cfr. MARTELLI, Giarda, pp. 188 e segg. e p. 213) si deve anche tenere conto del fatto che certe analogie stilistiche ―nonché le riprese precise dalla Clizia (v. CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, pp. 31-34)― potrebbero essere state costruite ad hoc se il Discorso fosse un falso. Per niente d’accordo Ridolfi, che di Martelli scrive: «mette in corpo a un presunto falsario cinquecentesco le idee, le malizie, le esperienze di un falsario moderno; attribuisce al Castravilla, da lui spesso a ragione decorato con l’appellativo di “rozzo”, le raffinatezze di un parodista del Novecento: un vero e proprio Vita Finzi rinascimentale. Anzi è manifesto che se il Dialogo fosse d’altri che del segretario fiorentino il suo autore sarebbe da giudicare il più grande parodista di tutti i tempi» (RIDOLFI, Una «giarda», cit., p. 244, in nota). 35 Cit. DIONISOTTI, Recensione a CHIAPPELLI, Machiavelli e la “lingua fiorentina”, in «Lingua
nostra», 1975, p. 33.36 Cit., RIDOLFI, Nota sull’attribuzione del Dialogo intorno alla nostra lingua, in «La Bibliofilia», n. LXXIII, 1971, p. 239.37 Ivi, p. 240.
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Per quanto riguarda invece le analisi contenutistiche, gli studiosi che
hanno voluto difendere la paternità di Machiavelli hanno dovuto innanzi
tutto rispondere ai dubbi di Grayson circa l’antidantismo del Discorso38.
Tali dubbi furono raccolti e ampliati da Martelli39. A differenza di Grayson,
tuttavia, Martelli non si limitò a cercare negli scritti di Machiavelli varie
tracce dantesche, prova della sua grande stima per il poeta. Egli infatti
volle anche evidenziare, da un lato, la consonanza di pensiero tra Dante e
Machiavelli proprio in quelle questioni alla base dell’invettiva presente nel
Discorso ―ossia la condanna di Firenze e quella di Bruto40―, dall’altro,
l’anacronismo di quell’invettiva nel 152541, non solo in bocca di Machiavelli
ma di un qualsivoglia fiorentino42.
Trovato ritenne che le argomentazioni di Martelli non fossero «affatto
incontrovertibili»43. In particolare, fece notare che, sebbene non si possa
negare la stima di Machiavelli nei confronti di Dante e che non siano
comuni a Firenze riserve nei confronti della Commedia fino alla metà del
Cinquecento, le critiche espresse nel Discorso non si indirizzino affatto
contro la Commedia ma solo contro le idee linguistiche di Dante (e, di
conseguenza, contro chi, tra i contemporanei, le condivideva). Per quanto
riguarda la condanna alla persona del poeta, invece, essa si spiegherebbe
semplicemente ricordando il modello offerto dalla retorica classica
―seguito dal Discorso, come mostra lo stesso Trovato― che suggerisce di
38 V. GRAYSON, Machiavelli e Dante, pp. 5-10. Questi stessi dubbi erano già stati anche di Tommasini. Cfr. TOMMASINI, La vita e gli scritti di N. Macchiavelli, vol. I, Torino, 1883. V. anche DIONISOTTI, Machiavellerie, p. 277. All’interno del Discorso compaiono varie accuse a Dante, ma per il passo preso in considerazione da Grayson ―senz’altro il più lungo e violento―, v. Discorso, §§ 23-26.39 Cfr. MARTELLI, Giarda, § I.40 Secondo Sorella è in effetti difficile ipotizzare il dissenso di Machiavelli con la condanna dantesca di Bruto dopo la scoperta della congiura antimedicea del 1522; per questo e altri motivi, propone di retrodatare il Discorso.41 Data spartiacque in quanto anno di pubblicazione delle Prose della volgar lingua. Ma per vedere la reazione che si ebbe a Firenze in risposta ad un passo del Galateo di Giovanni della Casa (siamo quindi già oltre la metà del secolo) nel quale si criticano certi aspetti della poesia di Dante, cfr. MARTELLI, Giarda, pp. 67-72. Una nuova fase della polemica antidantesca iniziò invece con il Castravilla, il cui Discorso contro Dante è successivo al 1570 (v. MARTELLI, Giarda, pp. 74-93 per un confronto tra il nostro Discorso e quello del Castravilla. Martelli ipotizza anche che «autore del Discorso ed autore del Dialogo ―o, almeno, delle parti di questo dirette contro Dante― fossero una medesima persona», ivi, p. 84). 42 Secondo Stoppelli, «questa parte del lavoro di Martelli ha valore in sé, finendo per essere uno dei più efficaci capitoli di storia della fortuna di Dante tra Quattro e Cinquecento che siano stati mai scritti» (STOPPELLI, Recensione, cit., p. 600).43 TROVATO, Appunti, cit., p. 33.
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tratteggiare il più negativamente possibile la vita dell’accusato44. In
proposito invece Ridolfi ricordò la «peculiarissima capacità dei fiorentini di
vituperare, d’irridere, di sbeffeggiare le persone e le cose da loro più
amate e venerate senza però cessare di amarle e di venerarle»45. Senza
bisogno di ricorrere alla peculiare psicologia dei fiorentini, Sozzi notò che
non c’è niente di strano e sorprendente nel fatto che qualcuno, pur
ammirando complessivamente un autore ―e quest’ammirazione la si trova
anche nel Discorso―, esprima delle riserve su qualche particolare aspetto
della sua opera; oltretutto, e questo è il punto, sarebbe tutt’altro che
sorprendente questo «furore polemico»46 ai danni di Dante dopo la
diffusione del De vulgari eloquentia visto che per Machiavelli la questione
«dall’ambito linguistico sconfinava […] nell’ambito politico»47.
L’antidantismo non è l’unica stranezza del Discorso, opera «qua
ammirevole là sconcertante»48. Martelli elenca diverse contraddizioni e
rozzezze frutto, a suo avviso, qua della volontà d’irridere del falsario, là
della sua crassa ignoranza. Impossibile in questa sede tracciare le linee del
dibattito su ciascuno dei luoghi problematici additati dal Martelli49;
ripercorrerò pertanto, solo a titolo di esempio, la questione della legge dei
verbi e dei nomi50.
La legge dei verbi e dei nomi è una teoria degli italianisti (ma
«inutilmente si cercherebbe qualche nome, far gli italianisti, cui attribuirne
44 Cfr. ivi, pp. 35-37. 45 RIDOLFI, Nota sull’attribuzione, cit., n. 2, p. 236.46 SOZZI, Nota, cit., p. 398.47 Ibidem. 48 CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, cit., p. 167.49 Per chi voglia approfondire questo aspetto del dibattito rimando principalmente a MARTELLI, Giarda, ID., Paralipomeni e a CASTELLANI POLLIDORI, Nuove riflessioni.50 Questo il passo in questione: «dicono che chi considera bene le 8 parti de l’oratione, et nelle quale ogni parlar si divide, troverrà che quella che si chiama verbo è la catena et il nervo della lingua; et ogni volta che in questa parte non si varia, ancora che nelle altre si variasse assai, conviene che le lingue habbino una comune intelligenza: perché quelli nomi che ci sono incogniti ce li fa intendere il verbo, quale infra loro è collocato. Et così, per contrario, dove li verbi sono [di]ferenti, ancora che vi fussi similitudine ne’ nomi, diventa quella [lingua un’altra] lingua. Et per exemplo si può dare la provincia d’Italia, la quale è in una minima parte differente ne i verbi, ma ne i nomi differentissima: perché ciascuno Italiano dice amare, stare et leggere, ma ciascuno di loro non dice già deschetto, tavola e guastada» (Discorso, cit., §§ 16-17);
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la paternità»51) che l’autore del Discorso riporta facendola però, secondo
Martelli52, propria. Questa legge consiste in tre affermazioni:
I. il verbo costituisce «la catena et il nervo della lingua»,
II. i verbi sono comuni a tutta Italia,
III. grazie ai verbi possiamo decifrare anche i nomi fra essi collocati, i
quali invece possono variare da regione a regione.
In un passo successivo del Discorso si contesterà la conclusione degli
italianisti, ossia che sulla base di questa uniformità dei verbi si possa
parlare di lingua italiana; manca però nel Discorso una presa di distanza
dalla legge in sé (Sansone53 e la Castellani Pollidori54 ipotizzano una
lacuna). Secondo Martelli questa legge è un composto di acume e
balordaggini e deriverebbe dallo storpiamento e dal fraintendimento di uno
scritto del Borghini: il Borghini sarebbe, infatti, l’inventore della felice
definizione del verbo (che ritroviamo in effetti anche nei suoi scritti55),
mentre l’idea di poter decifrare i nomi sulla base dei verbi noti sarebbe
stata desunta, in modo erroneo, dalla sua distinzione tra voci «comuni» e
«particulari»56. Secondo Martelli, questa «enormità»57 avrebbe come
bersaglio il Varchi e altri Accademici fiorentini che si erano prodigati in
studi sul verbo fiorentino.
La Castellani Pollidori conferma che la legge «così com’è formulata
nel Dialogo, non appare accettabile»58. Tuttavia, da un lato, nega che essa
sia condivisa dall’autore del Discorso e, dall’altro, ridimensiona lo
sconcerto di Martelli. Secondo lei, infatti, pur mancando di validità
scientifica, essa «corrisponderebbe a un’innegabile tendenza istintiva»
51 MARTELLI, Paralipomeni, cit., p. 251. V. però INGLESE, Machiavelli, p. 296 e SORELLA, Magia, pp. 234-254.52 Con un’argomentazione, a detta di Inglese, non «immediatamente perspicua» (INGLESE, Machiavelli, cit., p. 294).53 SANSONE, Aspetti della questione della lingua in Italia nel sec. XVI, in «Rassegna di letteratura italiana», LIX, 1955, pp. 361-388.54 Nella sua seconda pubblicazione (Nuove riflessioni), non nella prima (Niccolò Macchiavelli).55 V. MARTELLI, Giarda, p. 115.56 V. ibidem. Come nota Inglese, una simile teoria del contesto, prima che in Borghini, si trova nelle Prose (cfr. INGLESE, Machiavelli, p. 294).57 MARTELLI, Giarda, cit., p. 101.58 CASTELLANI POLLIDORI, Nuove riflessioni, cit., p. 38.
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giacché «le azioni generali o essenziali per la vita umana sono espresse
abbastanza spesso con gli stessi lessemi da un’estremità all’altra del
territorio italiano»59.
Vediamo ora il passo del Discorso in cui si controbatte a chi, sulla
base della legge dei verbi e dei nomi, voglia dimostrare l’esistenza di una
lingua italiana60. Nel Discorso si dice che se in Italia «si sono usati li
medesimi verbi, non s’usano i medesimi termini» e a riprova di questo si
portano come esempi le tre coppie seguenti: cianciare~zanzare,
verrà~vegnirà, poltrone~poltron. Martelli ―che per termini intende
‘nomi’61― sottolinea l’incongruenza degli esempi, ritenuti anche da
Grayson «di una debolezza patetica»62: due su tre sono di verbi e l’unico
esempio di nomi, poltrone~poltron, mostra una differenza poco
significativa.
Assai diversamente interpreta il passo la Castellani Pollidori: secondo
lei (e secondo Inglese63) l’autore del Discorso vuole ribadire che non si può
parlare di identità di termini sul territorio italiano perché quello che conta
veramente è la pronuncia, che varia considerevolmente («quello che fa
ancora differenti le lingue, ma non tanto che non s’intendino, sono la
pronuntia e gl’accenti»64): «è questa una concezione moderna, nettamente
opposta a quella del Trissino, che si fonda sul lessico»65.
Inglese, tuttavia, non ritenne che tutte le difficoltà del testo
evidenziate da Martelli potessero spiegarsi «con la semplice vicenda della
tradizione del testo; e nemmeno con l’impeto di una stesura di getto cui sia
mancata la revisione dell’autore»66 e ipotizzò pertanto che il testo fosse
stato rimaneggiato da altri. Nel 1990, Sorella affermò invece che, a suo
59 Ivi, p. 48.60 Il passo in questione: «Et se tu la chiamassi o Comune d’Italia o Cortigiana perché in quella si usassino tutti li verbi che s’usano in Firenze, ti rispondo che, se si sono usati li medesimi verbi, non s’usano i medesimi termini, perché si variano tanto con la pronuntia che diventono un’altra cosa. Perché tu sai che i forestieri o e’ pervertano il c in z, come di sopra di disse di cianciare et zanzare, o eglino aggiungano lettere, come verrà, vegnirà, o e’ ne lievano, come poltrone e poltron; talmente che quelli vocaboli se son simili a’ nostri gli storpiano in modo che gli fanno diventare un’altra cosa» (Discorso, §§ 56-57).61 Per la riflessione in proposito, v. MARTELLI, Giarda, pp. 110-112.62 GRAYSON, Questione aperta, cit., p. 120.63 V. INGLESE, Machiavelli, p. 295.64 Discorso, cit., § 18.65 CASTELLANI POLLIDORI, Nuove riflessioni, cit., p. 47.66 INGLESE, Machiavelli, cit., p. 293.
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avviso, «nonostante alcune piccole sbavature, dovute in qualche caso a
difetti di tradizione, l’operetta si dimostra non solo perfettamente coerente,
ma anche fondata sulla solida base teorica costituita dal riferimento a
numerosi testi linguistici, retorici e filosofici di autori antichi e
contemporanei»67.
IV. Passiamo dunque ad analizzare i rapporti tra il Discorso e tre opere
chiave nel dibattito sulla lingua: l’Epistola de le lettere nuovamente
aggiunte alla lingua italiana del Trissino, la Risposta all’epistola del
Trissino delle lettere nuovamente aggionte alla lingua volgar fiorentina di
Ludovico Martelli e le Prose della volgar lingua del Bembo. Queste tre
opere di datazione certa (le prime due del 152468, l’ultima del 1525) hanno
rappresentato dei punti di riferimento attorno ai quali tentare di fissare il
Discorso.
Fondamentale è stato indagare a fondo la relazione tra il Discorso e
la prima metà della Risposta del Martelli69. Infatti, tanto stretto è il legame
che li unisce che accettare di collocare il Discorso successivamente alla
Risposta significa spogliarlo quasi interamente del suo valore innovativo70.
Ci offre un attento esame comparato dei due testi la Castellani Pollidori71,
rinvenendo numerosissime analogie sia sul piano dei contenuti che della
lingua (ci sono corrispondenze testuali). Solo per citarne alcune: i due testi
fanno delle considerazioni sull’«uso» e la «natura» della lingua e sulla
lingua delle commedie (e la riflessione sulla lingua delle commedie, definita
a ragione dalla Castellani Pollidori «uno dei traits d’union più vistosi tra
67 SORELLA, Magia, cit., p. 103.68 Come ricostruito dal Rajna. V. RAJNA, Datazione di un manifesto memorabile di riforma ortografica, in «Rassegna», s. 3a, I, 1916, pp. 257-262 e ID., La data del «Dialogo intorno alla lingua», p. 206.69 Il legame esistente tra i due testi era comunque già stato individuato nel 1888 da Gaspary: GASPARY, Geschichte der italienischen Literatur, Trübner, Strassburg, 1888, vol. II, p. 536.70 Come segnalato dalla Castellani Pollidori, resterebbero comunque meriti del Discorso l’aver stabilito una correlazione tra scambi culturali e lessicali, l’aver affermato la legittimità di introdurre in una lingua materiali eterogenei purché assimilati al resto, l’aver individuato la ragione storica per cui si è caduti nell’equivoco di considerare «comune» ciò che in realtà era un tempo proprio del fiorentino (cfr. CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, n. 75, p. 141).71 In CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, Parte II, § II.
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Risposta e Dialogo»72 è condotta dai due autori in maniera assolutamente
parallela, toccando gli stessi temi nello stesso ordine); in entrambi inoltre
si sostiene che i prestiti non inficino la fiorentinità della lingua della
Commedia e che il fiorentino possegga un’intrinseca eccellenza73.
Nel corso della sua analisi, la Castellani Pollidori fa emergere la
maggiore specificità del Discorso rispetto alla Risposta, sulla quale fonda il
sospetto della maggiore antichità di quest’ultima. Per quanto riguarda i
passi circa la lingua delle commedie, ad esempio, ritiene che sia «forse
alquanto più naturale che il Machiavelli, trovato uno spunto a lui
singolarmente congeniale nello scritto del Martelli, lo abbia dilatato
abbandonandosi all’estro; meno probabile, […] che il Martelli abbia
sfrondato, con sapienti colpi di forbice, l’excursus machiavelliano,
isolandone proprio le tre o quattro idee portanti»74.
Nel capitolo successivo, la Castellani Pollidori si dedica
espressamente a stabilire quale delle due opere sia matrice dell’altra,
cercando di dare maggior concretezza all’intuizione di cui si è appena
parlato. Sbriga la questione abbastanza rapidamente, attribuendo la
priorità alla Risposta sulla base di poche altre prove forse non del tutto
convincenti75: in primo luogo, insiste a lungo sui due sintagmi temporali
presenti nei due testi («più volte ne’ passati giorni» presente nel Dialogo in
riferimento a una disputa circa la lingua in cui scrissero i poeti fiorentini
―«Fiorentina, Toscana o Italiana»― e «a questi passati giorni», nella
Risposta, in riferimento all’Epistola del Trissino)76 e, in secondo luogo,
ipotizza che il Discorso sia successivo all’Opusculum in quo agit utrum
adiectio novarum litterarum Italicae linguae aliquam utilitatem pepererit di
Vincenzo Oreadini77 del 1525 e che, proprio rispondendo a questo, nel
Discorso ci si soffermi a specificare quello che si debba intendere per
«lingua comune» e «lingua propria»; questa teoria sarebbe rafforzata da
72 Ivi, p. 115.73 Quest’ultima però era un’idea diffusa tra i fiorentini nel Cinquecento, cfr. TROVATO, Introduzione a MACHIAVELLI, Discorso intorno alla nostra lingua, Antenore, Padova, 1982, pp. XIV-XV.74 CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, cit., p. 117. 75 Non risulta persuaso ad esempio Trovato, cfr. TROVATO, Introduzione, pp. XXIX-XXX.76 Per una critica a questa prova, v. TROVATO, Appunti, n. 76, p. 69.77 Oreadini fu «l’unico sostenitore della teoria dei Trissino», cit., MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Bompiani, Milano, 200411, pp. 355-356.
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una coincidenza lessicale (tra il pertinacer di Oreadini e il pertinaci del
Discorso). A questo punto la Castellani Pollidori esprime la sua ipotesi
circa la genesi dell’opera: Machiavelli avrebbe voluto riportare il dibattito
sulla questione della fiorentinità che rischiava invece di cadere in secondo
piano appannata dal clamore contro la riforma ortografica del Trissino;
inoltre, tenendo conto delle polemiche degli accademici senesi, per mezzo
del Discorso si vorrebbe precisare la distinzione tra fiorentino e toscano
visto che la Risposta si caratterizza per una certa ambiguità in proposito78.
Secondo Dionisotti, invece, «fin dal titolo la Risposta presuppone cosa
che il Dialogo ignora: l’Epistola del Trissino»79. La riforma ortografica del
Trissino fu criticata e derisa non sono dal Martelli ma anche dal
Firenzuola, dal Tolomei e da Liburnio; per Dionisotti è difficile credere che
Machiavelli, pronto a scagliarsi contro due maestri come Dante e Ariosto,
si fosse trattenuto dal colpire un bersaglio tanto facile80; ritenne pertanto
che il Discorso fosse stato scritto prima della diffusione dell’Epistola, e che,
di conseguenza, fosse anteriore alla Risposta, cosa che sarebbe confermata
dal fatto che in esso non si mette in discussione l’autenticità del De vulgari
eloquentia, a differenza di quanto farà invece Martelli e di quanto si farà a
Firenze fino all’edizione francese del testo latino, e anche in seguito81.
Dionisotti rispose anche al dubbio di Grayson il quale, ipotizzando che
la Risposta fosse più tarda del Discorso, si chiedeva come fosse possibile
che, quando questa venne diffusa, l’ancor vivo Machiavelli non avesse in
nessun modo protestato vedendosi usurpati concetti suoi82. «Inutile»,
scrive Dionisotti, «chiedersi come diamine Machiavelli potesse protestare,
78 Se non fosse che la stessa Castellani Pollidori arriva ad affermare che «nel Dialogo non c’è opposizione fra “fiorentino” e “toscano”» (CASTELLANI POLLIDORI, Nuove riflessioni, cit., p. 14). La Castellani contraddice la sua tesi pur di non cedere terreno a Martelli che nella terza tesi dei Paralipomeni nota che «contraddittoriamente con l’assunto fondamentale del Dialogo e con quanto già sostenuto (a parte il lapsus del par. 36) fino al par. 64, nei par. 68-71, e soltanto in quelli, non si parli più di fiorentino ma di toscano» (MARTELLI, Paralipomeni, cit., p. 218). Trovato cita la mancanza di un’approfondita distinzione tra toscano e fiorentino insieme ad altri aspetti del Discorso per dimostrare la sua pertinenza ad una fase alta della disputa linguistica del Cinquecento (cfr. TROVATO, Appunti, pp. 56-57). Neanche Pozzi individua una distinzione tra toscano e fiorentino nel Discorso (v. POZZI, Ancora sul «Discorso o dialogo», pp. 490-491).79 DIONISOTTI, Machiavellerie, cit., p. 326.80 Lo stesso sostiene anche Pozzi: POZZI, Ancora sul «Discorso o dialogo», p. 498.81 V. anche TROVATO, Introduzione, pp. XXX-XXXI. Per una lettura opposta della questione, v. CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, pp. 124-126.82 Cfr. GRAYSON, Machiavelli e Dante, p. 18.
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e come diamine il Grayson possa oggi sapere che nessuno allora
protestò»83 e, d’altronde, non varrebbe lo stesso discorso per il Martelli, se
la sua Risposta fosse precedente al Discorso?
Anche Sorella è convinto che il Discorso preceda la Risposta84. Egli
individua all’interno dei due testi «non pochi loci similes […] nei quali il
Martelli rivela di essersi servito dello scritto del più anziano amico Niccolò,
non riuscendo però a percepire a fondo certe allusioni e battute polemiche,
con il risultato di banalizzarle o di compendiarle con inevitabili tagli nei
punti a lui più oscuri»85 (la maggiore specificità del Discorso che per la
Pollidori aveva dimostrato la sua posteriorità è da lui interpretata in senso
inverso). Confrontando quei loci similes, Sorella evidenzia come il Martelli
dimostri una conoscenza molto più approfondita del De vulgari eloquentia
rispetto a quella che emerge dal Dialogo (molti studiosi ritengono in effetti
che Machiavelli non lo avesse letto), ma che invece gli manchi la
conoscenza delle discussioni che si fecero probabilmente presso gli Orti
Oricellari e che, come ipotizza Sorella, furono alla base del Dialogo.
Passiamo dunque a trattare i rapporti tra Discorso e Prose della
volgar lingua. Innanzi tutto è importante ricordare la testimonianza del
Lenzoni, il quale, nel suo libro In difesa della lingua fiorentina di Dante
(pubblicato postumo, a Firenze, nel 1556), fa raccontare a uno degli
interlocutori del suo dialogo un episodio avente per protagonista
Machiavelli86: questi, una volta che vennero diffuse le Prose del Bembo, si
sarebbe scontrato con un nobile veneziano, messer Maffio, dimostrandogli
l’assurdità di chi, avendo imparato una lingua dai testi letterari,
pretendesse d’insegnarla a chi quella lingua la parla ogni giorno sin
dall’infanzia. Il racconto, ritenuto attendibile da Grayson e dagli altri dopo
di lui, dimostra quindi un interessamento di Machiavelli alla disputa sulla
lingua. Considerando anche la somiglianza di alcune espressioni presenti
sia nel Discorso che nelle parole di Machiavelli riportate dal Lenzoni,
83 DIONISOTTI, Machiavellerie, cit., p. 328.84 A questa indagine dedica un capitolo del suo libro: SORELLA, Magia, § Il «Dialogo» e la «Risposta» di Lodovico Martelli, pp. 112-123.85 SORELLA, Magia, cit., p. 115.86 Il passo in questione può essere letto ad esempio in GRAYSON, Machiavelli e Dante, p. 9 oppure in CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, n. 23, p. 38.
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questa testimonianza può dimostrarci che il Discorso sia stato scritto da
Machiavelli? E può darci qualche informazione sul rapporto tra Discorso e
Prose?
Secondo Grayson le reazioni alle teorie del Bembo esposte dal
Lenzoni «non corrispondono, se non in modo molto generico, alle idee
espresse dall’autore del Dialogo e perciò non possono costituire un solido
appoggio all’autenticità della tradizione di quest’opera»87. Inoltre, se il
Lenzoni avesse conosciuto il Discorso come opera di Machiavelli, molto
difficilmente l’avrebbe scelto come «rappresentante ideale del suo dialogo
del punto di vista dei fiorentini»88. A Sozzi però sembra che «la qualità e il
procedimento del discorso del Grayson accusino in modo lampante il suo
sforzo di autoconvincersi e il sentore di non riuscire a convincere»89; per
quanto riguarda il problema dell’antidantismo, Sozzi ricorda che il Lenzoni,
delle teorie di Machiavelli, «accoglieva l’usufruibile ai propri fini, cioè la
tesi della fiorentinità, mentre per conto suo la correggeva e integrava con
quella difesa di Dante che figura già nel titolo dell’opera»90. Invece, anche
su questo nodo del dibattito, Martelli prende le mosse da Grayson e
rinforza la sua posizione. A suo avviso, il Lenzoni «proponendo Machiavelli
come campione di fiorentinità […] dimostra di non conoscere il Dialogo
come sua opera», infatti «chiunque l’avesse pensata su Dante nella
maniera in cui si dimostra pensarla nel Dialogo, nonché campione di
fiorentinità, sarebbe stato ritenuto puramente e semplicemente un
traditore della patria»91. La Castellani Pollidori ritiene debole questa prova.
La studiosa non vede una contraddizione tra l’attacco a Dante del Discorso
e l’attacco a Bembo, infatti «la velata critica al Bembo non significa
necessariamente che lui, Machiavelli, ritenga Dante al di sopra d’ogni
possibile censura: significa solo che egli non riconosce ad un “forestiero”
[…] certi diritti che invece è convinto di poter riconoscere a sé stesso,
Fiorentino purosangue»92. A lei pare che il Machiavelli descritto dal
87 GRAYSON, Machiavelli e Dante, cit., p. 26.88 Ivi, p. 25.89 SOZZI, Nota, cit., pp. 398-399.90 Ivi, p. 399.91 MARTELLI, Giarda, cit., p. 11.92 CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, cit., p. 41.
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Lenzoni «collimi al millimetro»93 con quello del Discorso e riconosce alcune
analogie tra i contenuti dei due testi94.
Oltre alla testimonianza del Lenzoni, a far pensare a una dipendenza
del Discorso dalla Prose furono il riferimento alle otto parti del discorso, la
critica al linguaggio «porco», «goffo» e «osceno»95 della Commedia (che
Inglese definì «una sorta di bembismo estremizzato»96) e il «sorprendente
riconoscimento della primogenitura provenzale nella poesia in rima»97.
Secondo Chiappelli non sarebbe trascurabile indizio il fatto che nel
Discorso si faccia riferimento alla otto parti del discorso98 giacché il
Fortunio ne conta quattro ―dichiarando di seguire Prisciano― e che solo
con le Prose si tornava alla distinzione di otto categorie, seguendo il
modello dell’Ars minor di Donato. Secondo Pozzi però «troppo poco è
notare la corrispondenza di qualche concetto»99; tanto più che, come
ricorda Trovato, «la divisione in otto è così scontata all’inizio del
Cinquecento che la ritroviamo, desunta dal Perotti, perfino negli appunti di
quel geniale “omo senza lettere” che è Leonardo»100. Bionda, invece,
ricorda che anche nella Poetica si fa riferimento alle otto parti del discorso:
questo accenno potrebbe dunque essere un’altra spia della dipendenza del
Discorso dal trattato aristotelico che egli ritiene di aver scoperto101.
93 Ivi, p. 39.94 In particolare, nota come anche nel Discorso si faccia un accenno all’imperfezione di una lingua appresa dai libri, come risulta evidente leggendo opere di quegli scrittori «forestieri» che «con mille sudori» (Discorso, cit., § 62) cerchino d’imitare Dante. Sottolinea un parallelismo tra questa frase della Difesa «Pertanto io concludo che molte cose sono quelle che non si possono scrivere bene senza intendere le cose proprie et particulari di quella lingua che è più in prezzo. Et volendo li proprii, conviene andare alla fonte donde quella lingua ha hauto origine, altrimenti si fa una compositione dove l’una parte non corrisponde all’altra» e il passo del Discorso sulla lingua delle commedie dove si dice che gli autori non toscani rischiano di fare «una compositione mezza toscana e mezza forestiera», insomma di scrivere in una lingua che sembri una «veste rattoppata» (ivi, § 68). 95 Discorso, cit., § 50.96 INGLESE, Machiavelli, cit., p. 289.97 DIONISOTTI, Machiavellerie, cit., p. 311.98 V. Discorso, § 16.99 POZZI, Ancora sul «Discorso o dialogo», cit., n. 22, p. 497.100 TROVATO, Appunti, cit., n. 39, p. 46.101 Cfr. BIONDA, Il “nodo”, n. 38, p. 288.
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La critica al linguaggio di Dante102 sorprese alcuni studiosi, tra cui
Grayson103, che non la ritennero in linea con il pensiero di Machiavelli104.
Secondo Chiappelli essa però si può spiegare come reazione alle Prose e
all’accusa a Dante ivi contenuta:
L’autore del Dialogo chiama in causa direttamente Dante, e lo strapazza per la sua dichiarazione del De vulgari eloquentia, ma in realtà mira a rivendicarne la presenza fra i modelli della classicità fiorentina; e, ciò che più importa, proprio sul piano lessicale dove aveva operato Bembo per escluderlo. […] La volgarità eventuale del lessico […] diviene un argomento che comprova la fiorentinità della Commedia. 105
Secondo Pozzi, invece:
La rivendicazione della fiorentinità integrale del capolavoro dantesco, se era un buon argomento contro il Trissino, non serviva contro Bembo, che non la negava, anzi rimproverava a Dante di non aver saputo fare la dovuta elezione della lingua più bella. […] È il passo di Bembo che sembra scritto per controbattere una tesi «fiorentina» come quella esposta dal Machiavelli, e non viceversa; anzi il fatto stesso che l’autore del Dialogo punti, per mostrare la fiorentinità della Commedia, sul goffo, il porco e l’osceno, sembra mostrare che egli scriveva prima che uscissero le Prose.106
Sorella sostiene che il «gusto purgato» del Discorso dipenda da
un’influenza non delle Prose ma del classicismo quintilianeo e che le
somiglianze che si possono riscontrare tra i due testi dipendano
dall’influenza del Discorso sulle Prose e non viceversa.
Il passo in questione, ovviamente, è problematico anche per la
questione dell’antidantismo. Secondo Inglese107 è assai strano che
102 Il passo in questione (Discorso, § 50):N. Dante mio, io voglio che tu t’emendi, et che tu consideri meglio il parlar Fiorentino et la tua opera. Et vedrai che, s’alcuno s’harà da vergognare, sarà più tosto Firenze che tu: perché, se considererai bene a quel che tu hai detto, tu vedrai come ne’ tuoi versi non hai fuggito il goffo, com’è quello:
«Poi ci partimmo et n’andavamo in[troque]»;non hai fuggito il porco, com’è quello:
«che merda fa di quel che si trangugia»non hai fuggito l’osceno, come è:
«le mani alzò con ambedue le fiche».103 Cfr. GRAYSON, Machiavelli e Dante, p. 10.104 Per una critica a questa visione immobile della persona di Machiavelli, v. CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, pp. 27-28.105 CHIAPPELLI, Machiavelli e la “lingua fiorentina”, cit., p. 43.106 POZZI, Ancora sul «Discorso o dialogo», cit., p. 494. 107 Cfr. INGLESE, Machiavelli, pp. 289-290.
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all’interno dello stesso si trovino due affermazioni tanto contrastanti (da un
lato, si dice che «gl’huomini che scrivono in quella lingua […] debbono far
quello che ha fatto Dante»108, dall’altro, in due incisi, si dice che la
Commedia risulta disonorata dall’uso di quelle voci goffe, porche e oscene,
tanto da rappresentare una vergogna per Firenze109). Per risolvere questa
incoerenza, la Castellani Pollidori propose di espungere i due incisi in
quanto potrebbe trattarsi di interpolazioni110. Sorella sostiene che in realtà
si tratti solo di un’«apparente contraddizione»111, spiegabile attraverso la
matrice quintilianea di cui si è detto.
L’accenno alle origine del rimare in volgare112 è forse uno dei luoghi
più misteriosi del Discorso, tanto più che esso non può neppure essere
completamente risolto ipotizzando la conoscenza da parte del Machiavelli
delle Prose.
Debenedetti, nella sua tesi sugli studi provenzali pubblicata nel
1911113, fece notare la difficoltà di spiegare come Machiavelli potesse dare
per risolta una questione che, prima della pubblicazione delle Prose, «non
era ancora divenuta argomento d’una speciale trattazione, nemmeno di
parziali tentativi o studi»114. Complicò la controversia Pozzi che dichiarò di
non vedere neppure nelle Prose il presupposto del Discorso. Infatti, nelle
Prose, si propongono due tesi contrapposte sull’origine del rimare: che
abbia avuto origine in Provenza o, al contrario, che l’abbia avuta in Sicilia.
La tesi per la quale poi si decide è la prima; ma non si dice mai che poi la
poesia nata in Provenza fosse passata in Sicilia e da lì in Toscana e a
Firenze. Alla luce di questo, secondo Pozzi, «l’affermazione del Dialogo
108 Discorso, cit., § 54.109 «Et vedrai che, se alcuno s’harà da vergognare, sarà più tosto Firenze che tu» (Discorso, cit., § 50. Cfr. per due diverse interpretazioni di questo passo MARTELLI, Giarda, p. 254 e CASTELLANI POLLIDORI, Nuove riflessioni, p. 51) e «che dishonora tutta l’opera tua» (Discorso, cit., § 51).110 Cfr. CASTELLANI POLLIDORI, Nuove riflessioni, p. 51. 111 SORELLA, Magia, cit., 152.112 Il passo in questione: «Perché ciascuno sa come i Provenzali cominciarono a scrivere in versi; di Provenza ne venne quest’uso in Sicilia, et di Sicilia in Italia; et intra le province d’Italia, in Toscana; e di tutta Toscana, in Firenze: non per altro che per esser la lingua più atta» (Discorso, cit., § 74).113 DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1995.114 Ivi, p. 195.
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resta inquietante specialmente per quel “ciascun sa”, ma non lo diventa
meno se si pensa a un influsso delle Prose»115.
Dionisotti però ricordò che la pubblicazione delle Prose fu preceduta
da quelle di due opere, il Libro de natura de amore dell’Equicola e il
commento petrarchesco del Vellutello, che uscirono nell’estate del 1525 e
che dimostrano una «curiosità nuova dell’antica poesia volgare, e di quella
provenzale in ispecie»116. Già Debendetti, d’altra parte, aveva notato
l’evoluzione del passo del Natura de amore circa l’origine della poesia
volgare che mostra chiaramente un avanzamento degli studi
sull’argomento. Nell’abbozzo della sua opera (1505-1511) l’Equicola
riportava opinioni contrastanti:
Il suo principio quando fusse è incerto et anchora la lite pende. (Secun)do alcuni cominciò in Sicilia; alcuni lo attribuiscono ad (barba)ri; alcuni in Provenza di una lingua mista del hispano, gallico, italico et (provenz)ale idioma117,
mentre nella redazione definitiva proponeva, come sottolinea giustamente
Sorella118, una teoria assai più vicina a quella del Dialogo di quanto non lo
sia quella riportata dal Bembo e che doveva essere allora la più diffusa119:
La Provenza alcuni fanno matre di tal invento e indi transportato in Sicilia et diffusose poscia per tutto120.
È forse anche il caso di ricordare che la questione dell’origine del
rimare è trattata nelle Prose all’interno del primo libro il quale, nel 1512,
era già stato fatto leggere dal Bembo ad alcuni amici, anche se in una
forma che non conosciamo.
115 POZZI, Ancora sul «Discorso o dialogo», cit., p. 493.116 DIONISOTTI, Machiavellerie, cit., p. 319. Anche gli studi della Cannata sulla datazione sul ms. Vaticano latino 4831 di Colocci dimostrano un interesse precoce, fin dai primissimi anni del Cinquecento, nei confronti dell’origine della poesia volgare. In questi suoi primi appunti, Colocci ―che ancora non conosceva il De vulgari eloquentia― tenta di abbozzare la storia della poesia volgare dai provenzali al Quattrocento (ignorando i siciliani).117 Cit., Ms, N. III.10 della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, c. 21 (traggo la citazione da DEBENEDETTI, Studi provenzali, p. 194).118 Cfr. SORELLA, Magia, p. 108.119 Cfr. DEBENEDETTI, Studi provenzali, p. 194.120 Cit., EQUICOLA, Libro de natura de amore, Venezia, L. Lorio da Portes, 1525, c. 3v (traggo la citazione da SORELLA, Magia, p. 108).
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Ovviamente, coloro che hanno voluto vedere un’influenza delle Prose sul
Discorso hanno dovuto risolvere anche delle questioni di datazione.
Chiappelli ritenne che Machiavelli avesse potuto leggere le Prose, fresche
di stampa, durante il suo viaggio a Venezia nel 1525 e colloca la stesura del
Discorso nell’autunno del 1525. A sostegno di questa tesi Chiappelli
dovette anche ipotizzare che alla metà del mese di settembre, quando
Machiavelli lasciava Venezia, l’edizione delle Prose dovesse essere già
compiuta, ricordando che in effetti non vi erano state inserite le correzioni
richieste dal Bembo in una lettera del 26 settembre; Dionisotti accertò
però che l’argomento non regge121.
La Castellani Pollidori, che propose la stessa datazione di Chiappelli,
ritenne che durante quel soggiorno a Venezia Machiavelli, pur non avendo
modo di leggere le Prose, ne avesse comunque sentito parlare122 e potesse
«aver intravisto la possibilità di combinare strategicamente quel certo tipo
di censura a Dante colla prova della fiorentinità intrinseca della
Commedia»123.
V. Veniamo ora all’ultimo contributo al dibattito, l’articolo di Simone
Bionda. La ricerca di Bionda si concentra su di un celebre passo del
Discorso:
Et a provar questo, io voglio che tu legga una Commedia fatta da uno degl’Ariosti di Ferrara: et vedrai una gentil compositione et uno stilo ornato et ordinato; vedrai un nodo bene accomodato et meglio sciolto124.
Come si è ricordato, questo passo diede filo da torcere agli studiosi che
vollero collocare l’opera al di là della data della prima edizione del Furioso.
Bionda però si concentra su un altro punto del passo, quello che ho
121 V. anche il consenso di Trovato, in TROVATO, Appunti, p. 31.122 Fatto ritenuto da Dionisotti non probabile ma possibile. Cfr. DIONISOTTI, Machiavellerie, p. 316. 123 CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli, cit., p. 162.124 Discorso, cit., § 69.
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evidenziato in corsivo, che sarebbe una «vera e propria citazione»125 di un
luogo della Poetica di Aristotele:
È giusto anche definire una tragedia diversa o identica [a un’altra] per nient’altro che per il racconto: e cioè [dire identiche] quelle di cui identici sono il nodo e lo scioglimento. Ma molti, dopo aver ben preparato il nodo, lo sciolgono male; bisogna invece che entrambe le cose si accordino.126
Ora, questa conoscenza da parte di Machiavelli non è scontata giacché la
larga diffusione della Poetica è posteriore alla versione latina di Alessandro
de’ Pazzi (1536) e che, come ricorda anche Trovato, prima di quella data, la
sua conoscenza era «prerogativa di pochi ellenizzati come il Trissino»127.
Non solo, secondo Bionda, l’uso del termine nodo per indicare il concetto
tecnico espresso in greco da Aristotele con δέσις128 sarebbe proprio di una
fase matura degli studi sulla Poetica che ebbe inizio con gli esperimenti
teatrali di Giraldi Cinzio a Ferrara (1543) e proseguì poi a Pisa (commento
latino di Francesco Robortello del 1548) e a Firenze (volgarizzamento del
Segni del 1549). In una prima fase, per tradurlo erano stati usati (ad
esempio dallo stesso Trissino129) i vocaboli connexione o legatura,
corrispondenti ai termini latini della traduzione del Pazzi.
Nel Battaglia le attestazioni di nodo con questo significato tecnico
fioriscono in effetti a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento e
confermerebbero che esso appartenga a questa seconda fase di diffusione
della Poetica. Tuttavia il Battaglia segnala anche un’attestazione più
antica, del 1513, all’interno della commedia I due felici rivali di Jacopo
Nardi.
Bionda mostra che la prima attestazione («nodo dell’errore») è la
traduzione di un sintagma presente nel De fabula di Evanzio («nodus
erroris»), utilizzato anche dal Poliziano nel commento all’Andria di
125 BIONDA, Il “nodo”, cit., p. 280.126 ARISTOTELE, Poetica, a cura di DONINI, Torino, Einaudi, 2008, cit., p. 125. (Ripropongo il corsivo di Bionda).127 TROVATO, Introduzione, cit., n. 94, pp. XLVII-XLVIII. V. anche TESI, Aristotele in italiano, Accademia della Crusca, Firenze, 1997, pp. 26-27.128 E con il suo sinonimo πλοκη.129 V. TRISSINO, La quinta e la sesta divisione della Poetica, in WEINBERG, Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Laterza, Bari, 1970, p. 27.
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Terenzio, materia di un corso che questi tenne nel 1484-1485 presso lo
Studio fiorentino. Gli appunti del Poliziano circolarono nell’ambiente degli
Orti Oricellari, pertanto, così come al Nardi, essi potevano essere noti al
Machiavelli. Tuttavia, secondo Bionda:
risulta difficile ricondurre il passo del Dialogo al nodus erroris, anzitutto perché in esso si parla di “nodo” senza ulteriori precisazioni, quando la formula latina sembra essere fissa, come dimostra la traduzione letterale del Nardi; in secondo luogo perché l’impiego così disinvolto che ne fa l’autore del Dialogo presuppone da una parte il termine gemello (“scioglimento”), dall’altra la consapevolezza che il pubblico cui si rivolgeva cogliesse immediatamente il significato tecnico-teatrale del vocabolo, senza che si sentisse obbligato ad aggiungere alcunché (quel complemento di specificazione che costituirebbe di fatto una spiegazione del concetto di “nodo”: errore inteso come gli equivoci tipici dell’intreccio comico).130
Dopo aver collocato il Discorso ben al di là dei confini biografici di
Machiavelli sulla base di questa spia linguistica, Bionda si trova a dover in
qualche modo giustificare la sua esistenza e lo fa collocandolo nel periodo
e nel contesto individuati da Bertelli (cioè, ricordo, negli anni a ridosso del
1550 e nell’ambiente dell’Accademia fiorentina), ma considerandolo, come
Martelli, un falso. Secondo Bionda, bersaglio della “giarda” avrebbe potuto
essere il gruppo degli Aramei (Giovan Battista Gelli, Cosimo Bartoli, Carlo
Lenzoni) che non si rassegnava all’idea di un Dante autore del De vulgari
eloquentia.
L’articolo di Bionda, dopo innumerevoli contribuiti basati sulla
speculazione, offre finalmente un dato concreto su cui lavorare; questo
tuttavia allontana gli studi da una soluzione definitiva complicando
l’accesso a quello che sembrava essere l’approdo, tutto sommato, più agile:
l’attribuzione a Machiavelli. Accogliere l’ipotesi del falso, infatti, comporta
la ricerca di un autore, di una motivazione, di un bersaglio, di una data.
Come abbiamo visto, Martelli, Bionda e anche Bertelli131 hanno già
avanzato proposte. Quelle di Martelli e Bertelli, che vennero scartate dagli
130 BIONDA, Il “nodo”, cit., p. 284.131 V. n. 25.
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altri studiosi, potranno forse essere riconsiderate, mentre quella di Bionda
―poco più di un abbozzo― andrà approfondita.
Ad oggi, ancora manca una risposta a Bionda. A breve, comunque,
dovrebbe uscire una nuova edizione del Discorso132 che forse offrirà
l’occasione per raccogliere e sviluppare (o smantellare) gli spunti dello
studioso.
DIANA BIAGINI
132 A cura di Paola Cosentino, in appendice all’edizione nazionale delle opere di Machiavelli (Salerno editrice). Ringrazio per questa segnalazione Simone Bionda.
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