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DIRITTO CIVILE

I DIRITTI REALI

Rapporti di vicinato e diritti reali di godimento

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Dottrina

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I DIRITTI REALI

Sommario: 1. Nozioni e caratteri dei diritti reali. – 1.1. 1.1. I principi del numerus clausus e della tipicità dei

diritti reali. – 2. Il diritto di proprietà: fonti normative. – 2.1. La proprietà privata nel Codice civile. – 2.2. Il

divieto di atti emulativi. – 2.3. La proprietà fondiaria. – 2.4. I rapporti di vicinato: distanze, luci e vedute. – 2.5.

Le immissioni. – 2.6. Le azioni a tutela della proprietà. – 2.6.1. L’azione di rivendicazione. – 2.6.2. L’azione

negatoria (c.d. “negatoria servitutis”). – 2.6.3. Le azioni di regolamento di confini e di apposizione di termini.

– 3. La categoria dei diritti reali di godimento. – 3.1. La superficie: nozioni preliminari. – 3.2. L’enfiteusi. – 3.3.

L’usufrutto. – 3.4. Uso e abitazione. – 3.5. Le servitù: definizione e contenuto. – 3.5.1. Tipologie. – 3.5.2.

Modalità di costituzione … – 3.5.2.1. … e di estinzione. – 3.5.3. Tutela delle servitù.

1. NOZIONE E CARATTERI DEI DIRITTI REALI L’espressione “diritti reali” indica quella categoria di diritti patrimoniali che è caratterizzata, secondo l’opinione comune, da un potere immediato del titolare su una cosa; “diritti reali” sta a significare, appunto, “diritti sulle cose” (secondo l’accezione latina res=”cosa”). Nella categoria si annoverano, da un lato, la proprietà e dall’altro, i diritti su cosa altrui distinti, a loro volta, in diritti reali di godimento (usufrutto, uso, abitazione, servitù, superficie, enfiteusi) e diritti reali di garanzia (pegno, ipoteca). Tradizionalmente si ritiene che i diritti reali siano caratterizzati dalla: 1) immediatezza, che indica la diretta soggezione della cosa al potere del titolare del diritto reale, nel senso che il titolare esercita il suo potere senza il tramite di una prestazione altrui. In sostanza, la relazione che lega il bene oggetto del diritto al soggetto titolare consente a costui di trarre utilità e godere del bene svolgendo direttamente su di esso l’attività allo scopo necessaria, senza bisogno che a tal fine intervenga un altro soggetto che renda possibile tale attività; 2) assolutezza, carattere che sta invece ad indicare la tutelabilità del diritto nella vita di relazione nei confronti di chiunque lo contesti o lo pregiudichi o sia destinatario dei suoi effetti. Esso indica, in sostanza, l’opponibilità del diritto erga omnes; 3) inerenza, termine che si indica l’opponibilità del diritto a chiunque possieda o vanti diritti sulla cosa; l’inerenza fa sì che il diritto reale gravi praticamente sul bene-oggetto, consentendo al titolare di affermare e far valere la propria posizione di fronte a chiunque esplichi in fatto un’attività di godimento sul bene o pretenda di avere sul bene stesso un diritto incompatibile o comunque limitativo, senza l’appoggio di un titolo preferenziale. Nello stesso senso si parla anche di un “diritto di sequela”, caratteristico, in particolare, dei diritti reali minori e che vale a specificare come tali diritti “seguono” il bene, senza subire alcuna conseguenza pregiudizievole dagli eventuali mutamenti che possano verificarsi nella titolarità del diritto maggiore (e cioè la proprietà) sul bene stesso.

1.1. I PRINCIPI DEL NUMERUS CLAUSUS E DELLA TIPICITÀ DEI DIRITTI REALI

A differenza dei diritti di credito, i diritti reali costituiscono un numerus clausus: è infatti preclusa ai privati la possibilità di creare diritti reali diversi da quelli espressamente disciplinati dalla legge. Contestualmente, essi sono connotati dal carattere della tipicità, essendo di regola precluso all’autonomia dei privati di modificare la disciplina legale dei singoli diritti reali. La ratio di tali caratteristiche è da rinvenire in un duplice ordine di ragioni: 1) evitare che un bene sia gravato da vincoli ulteriori rispetto a quelli ammessi dalla legge, così da ridurre la possibilità di modificare la destinazione economica del bene stesso; 2) tutelare i terzi i quali, nell’entrare in rapporto con i titolari di diritti sulla cosa, devono essere posti in grado di conoscere esattamente i vincoli gravanti sul bene. I principi del numero chiuso e di tipicità dei diritti reali sono stati negli ultimi anni riconsiderati, soprattutto in seguito all’affermazione di nuove figure giuridiche, come, ad es., il supercondominio e la multiproprietà immobiliare, le quali sono state talvolta qualificate in dottrina, soprattutto prima degli interventi legislativi che ne hanno dato compiuta disciplina, in termini di diritti reali atipici. I principali argomenti a favore della vigenza dei principi del numerus clausus e della tipicità possono essere desunti dalle disposizioni di cui: – all’art. 2643 c.c. che, in termini tassativi, senza alcuna formula di chiusura, elenca gli atti suscettibili di trascrizione; dunque, anche a voler dare asilo a diritti reali atipici, i contratti che abbiano questi per oggetto non sarebbero trascrivibili, determinandosi notevoli difficoltà per la risoluzione dei possibili conflitti tra diversi aventi causa; – all’art. 1372 c.c., atteso che, il diritto di sequela che caratterizza molti diritti reali limitati, incide sul principio di relatività del contratto da questa norma positivizzato. Il vincolo derivante dal diritto reale non grava, infatti,

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esclusivamente sul soggetto che contrattualmente lo costituisce, ma seguendo il bene nei suoi trasferimenti, finisce per gravare anche sui successivi aventi causa. L’argomento più forte, tuttavia, non è di ordine positivo, ma va identificato nella stessa ratio dei principi in esame che, come si è detto, soddisfano l’esigenza sociale di evitare ostacoli alla circolazione dei beni.

2. IL DIRITTO DI PROPRIETÀ: FONTI NORMATIVE Il Codice civile, se da un lato riconosce la pienezza del diritto di proprietà, d’altro canto, in linea con l’ideologia dominante nel periodo in cui venne redatto, ne potenzia l’aspetto funzionale, richiedendo al singolo un esercizio del dominio conforme alle esigenze del regime e dello Stato. La Costituzione, all’art. 42, co. 2, prevedendo che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”, esprime il principio della c.d. funzionalizzazione della proprietà privata nell’interesse generale, ossia della sua suscettibilità di essere limitata (per legge) quando ciò sia socialmente utile. Anche per l’espropriazione “per motivi di interesse generale” la Carta costituzionale richiede che sia disciplinata da precise disposizioni, sottraendola all’arbitrio dell’autorità amministrativa (art. 42, co. 3, Cost.). La previsione dell’art. 834 c.c., secondo cui “nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di una giusta indennità”, è completata dalle disposizioni dal d.P.R. n. 327/2001 (c.d. Testo Unico dell’espropriazione), che, oltre a dare la precisa definizione di “espropriazione” di beni immobili, circoscrivendone l’ambito applicativo, stabilisce anche i criteri cui il legislatore deve attenersi per la determinazione dell’indennizzo da corrispondere al soggetto che la subisce.

2.1. LA PROPRIETÀ PRIVATA NEL CODICE CIVILE

L’art. 832 c.c. riconosce al titolare del diritto di proprietà il diritto di godere ed il potere di disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo. Il proprietario può: 1) trarre utilità dalla cosa, sia con l’uso diretto, sia ricavandone i frutti naturali o civili (diritto di godere); 2) decidere ed attuare operazioni materiali sulla cosa – destinandola ad un certo uso o trasformandola –, determinarne la sorte giuridica, alienandola, donandola, costituendo diritti altrui sulla cosa (potere di disporre). Entrambe le prerogative spettano al proprietario: a) in modo pieno, non essendo necessaria una specifica previsione normativa in tal senso, indispensabile, invece, per porre i limiti; b) ed esclusivo, dovendo, tutti i consociati, astenersi da comportamenti che ostacolino il libero e pieno godimento del bene. Il diritto del proprietario è riconosciuto necessariamente come perpetuo: non solo non è assoggettabile a termine finale ma è sottratto all’operatività dell’istituto della prescrizione (nel senso che l’azione con la quale il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque l’abbia in suo possesso è imprescrittibile). L’inerzia del proprietario, tuttavia, può contribuire, sebbene in modo soltanto passivo, alla formazione di una fattispecie estintiva del diritto, ogniqualvolta la cosa cada in effettivo possesso di persona diversa dal titolare, la quale, comportandosi come proprietario per un lungo periodo di tempo, l’acquista a titolo originario (usucapione). Il diritto di proprietà si caratterizza, infine, per l’elasticità, riespandendosi naturalmente una volta che venga meno un limite su di esso gravante.

2.2. IL DIVIETO DI ATTI EMULATIVI

Il Codice civile, all’art. 833, sancisce il divieto degli atti emulativi, ossia di quegli atti che non hanno altro scopo che quello di nuocere o arrecare molestia ad altri (così, ad es., piantare alberi al solo fine di togliere la veduta panoramica al vicino). Secondo la dottrina maggioritaria, il fondamento del divieto deve individuarsi nella convinzione che l’ordinamento giuridico accorda la sua protezione soltanto ad atti umani che abbiano qualche utilità e non siano motivati esclusivamente dal capriccio del singolo. Si discute, in proposito, se il divieto costituisca un limite interno, connaturato alla struttura del diritto di proprietà, il cui esercizio non deve mai perdere di vista l’interesse del titolare, o se integri piuttosto un limite esterno imposto al proprietario al fine di circoscrivere l’ampiezza del suo diritto in modo da garantirne la coesistenza con le situazioni giuridiche altrui. Accedendo alla prima impostazione, il divieto in questione rappresenterebbe la traduzione normativa del principio dell’abuso del diritto. L’atto emulativo si sostanzia nell’esercizio di un diritto di proprietà, sebbene pacificamente si ritenga di

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estendere la latitudine applicativa del divieto anche a situazioni non riconducibili nell’ambito dell’art. 832 c.c. (il riferimento è al comproprietario, all’enfiteuta, al superficiario, all’usufruttuario, all’usuario e al titolare di una servitù, discutendosi, invece, in ordine alla posizione del possessore in senso lato). Sotto il profilo oggettivo viene considerata quale segnale rivelatore del carattere emulativo di un determinato comportamento la mancanza di utilità di tipo economico o anche morale per l’autore; la giurisprudenza, però, adottando un criterio di valutazione alquanto elastico, reputa sufficiente la configurabilità di un minimo interesse dell’agente. Dal punto di vista soggettivo, invece, l’atto emulativo deve connotarsi psico-logicamente per il dolo specifico del responsabile, il quale agisce nell’esclusivo scopo di nuocere o molestare i terzi senza un proprio reale vantaggio. La giurisprudenza, dal canto suo, considera il carattere emulativo come limite esterno al diritto di proprietà, esercitabile dal confinante, da valutare in termini restrittivi, anche quale residua utilità, per cui seppure l’opera può non rispondere completamente ai requisiti funzionali che ne giustificano la realizzazione, tuttavia la obiettiva idoneità a soddisfarli in gran parte consente l’esclusione del carattere emulativo (Cass. civ., sez. VI, 28 marzo 2013, n. 7805). La verifica processuale dell’esistenza dell’animus nocendi deve essere condotta con particolare rigore, finendo talvolta per dar vita ad una probatio diabolica ricadente sul danneggiato, agevolato, tuttavia, dalla possibilità di far ricorso alle presunzioni. In ultimo, occorre precisare che l’accertamento dell’atto emulativo consente al danneggiato di richiedere: a) la restitutio in integrum (ossia la riduzione in pristino); b) il risarcimento del danno.

2.3. LA PROPRIETÀ FONDIARIA

Nell’ambito della disciplina della proprietà sulle cose, quella fondiaria pone al legislatore problemi non facili da risolvere. A ben guardare, infatti, il bene immobile è un bene la cui utilizzazione può incidere (ed anzi incide sempre) sugli interessi individuali di altri proprietari (i confinanti e, più in generale, i vicini) e sugli interessi della collettività; i due aspetti (interessi privati ed interesse pubblico) non sono divisi da una linea di netta separazione in quanto numerose disposizioni, mentre proteggono un interesse privato, assicurano contemporaneamente un’esigenza della collettività, e viceversa. Un tempo, la proprietà del suolo si concepiva come proprietà di tutto ciò che sta sotto il suolo e nello spazio sopra il suolo, senza alcun limite in profondità ed in altezza. L’art. 840 c.c. codifica invece un criterio diverso: può formare oggetto di diritto ciò che presenta una utilità per il titolare; la proprietà, quindi, si estende al sottosuolo (co. 1) ed allo spazio sovrastante, ma il diritto di escludere le attività altrui cessa quando la profondità o l’altezza è tale da determinare la mancanza di un interesse ad escludere (co. 2). Il proprietario ha il diritto di escludere, cioè di vietare l’accesso al fondo: in base all’art. 841 c.c. può, in qualsiasi momento, chiudere il fondo, e cioè recintarlo, o compiere altre opere adatte a impedirne a chiunque l’accesso purché permetta l’accesso al fondo al vicino che debba costruire o riparare un muro o altra opera propria o comune, o a quanti debbano recuperare una propria cosa che vi sia capitata accidentalmente (art. 843, co. 1 e 3 c.c.).

2.4. I RAPPORTI DI VICINATO: DISTANZE, LUCI E VEDUTE

I rapporti di vicinato regolano il godimento dei fondi in relazione a quelli vicini in funzione di un’ordinata coesistenza della proprietà fondiaria. Il rapporto di vicinato è fonte di vari limiti alla proprietà privata che presentano però alcuni caratteri comuni: 1) l’automaticità (i limiti nascono direttamente dalla esistenza della situazione prevista dalla legge); 2) la reciprocità (ciò che vale per l’uno vale anche per l’altro, il sacrificio ed il vantaggio sono reciproci); 3) la gratuità (poiché non esiste uno squilibrio di vantaggi, non c’é nemmeno un correlato compenso). Una prima tipologia di limiti al diritto dominicale derivante dai rapporti di vicinato è disciplinata dagli artt. 873 ss. c.c. recanti norme relative a distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, muri, fossi e siepi interposti tra i fondi. L’art. 873 c.c. impone, tra le costruzioni (se non unite, né aderenti), una distanza minima di tre metri; distanze maggiori sono imposte da leggi speciali e regolamenti comunali, per fini diversi. In caso di violazione delle norme sulle distanze al proprietario danneggiato spetta: a) il risarcimento dei danni; b) la riduzione in pristino nel caso in cui la norma sulle distanze sia dettata per disciplinare interessi privatistici inerenti ai rapporti di vicinato. Anche in materia di luci e vedute (artt. 900-907 c.c.) la legge prevede l’obbligo di osservare una certa

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distanza tra la costruzione e il confine al fine di contemperare l’esigenza del proprietario della costruzione di ricevere luce e aria e l’esigenza del vicino a non essere esposto alla vista altrui. Le finestre si distinguono in: 1) luci, che danno solo passaggio alla luce e all’aria e possono essere aperte senza osservare le distanze legali; 2) vedute o prospetti, che permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente. Il Codice prevede una distanza minima delle vedute dal confine pari alla metà di quella che deve esistere tra le costruzioni (art. 905 c.c.).

2.5. LE IMMISSIONI

Un limite generale della proprietà fondiaria è rinvenibile nel divieto, posto dall’art. 844 c.c., di immissioni che superino la normale tollerabilità. Le immissioni sono propagazioni di fattori disturbanti causate dall’opera dell’uomo ed hanno per oggetto tutte le entità atte a recare molestia, indicate dal Codice civile (fumo, calore, esalazione di rumore, scuotimenti...) con una elencazione meramente esemplificativa. L’immissione, a cui fa riferimento l’art. 844 c.c., deve essere: 1) materiale, nel senso che deve consistere in entità materiali che si propagano da un fondo all’altro, con esclusione delle c.d. “immissioni ideali”. 2) positiva, non rilevando le c.d. “immissioni negative”, cioè quelle che si sostanziano nella mera sottrazione di utilità, ma senza effetto propagativi sul fondo altrui; 3) indiretta, dovendo derivare da un’attività svolta sul fondo per interessi del fondo e del suo proprietario e che provoca delle ripercussioni indirette nei confronti del vicino, essendo le immissioni dirette vietate secondo la regola generale di cui all’art. 2043 c.c. L’art. 844, co. 1, c.c. stabilisce che il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni derivanti dalla proprietà del vicino se non superano la “normale tollerabilità”. L’idea della normale tollerabilità non è invariabile, ma si adatta alla “condizione dei luoghi”: quello che è intollerabile in una tranquilla zona residenziale va tollerato, invece, in una zona con insediamenti misti (quali negozi, officine, abitazioni). Il secondo comma affronta invece la questione del rapporto tra interessi pro-prietari ed interessi industriali, stabilendo che il giudice, ai fini della valutazione, deve contemperare l’esigenza della produzione con quella della proprietà: pertanto, un’attività produttiva rilevante può giustificare delle immissioni altrimenti intollerabili; l’autorità giudiziaria, in questo caso, può tener conto della priorità di un determinato uso. Secondo la giurisprudenza, un’immissione intollerabile autorizzata determina un obbligo di indennizzo a carico del soggetto che la pone in essere. In caso di immissione intollerabile non autorizzata il proprietario può esercitare: 1) l’azione inibitoria (espressamente indicata dalla norma) che, secondo l’opinione prevalente, ha carattere reale ed è imprescrittibile; 2) l’azione risarcitoria (non prevista dall’art. 844 c.c.) che, ancorata alla regola generale di cui all’art. 2043 c.c., ha carattere personale ed è soggetta al termine di prescrizione quinquennale. Sotto un profilo squisitamente processuale, l’azione di natura reale, esperita dal proprietario del fondo danneggiato per l’accertamento dell’illegittimità delle immissioni e per la realizzazione delle modifiche strutturali necessarie al fine di far cessare le stesse, deve essere proposta nei confronti del proprietario del fondo da cui tali immissioni provengono e può essere cumulata con la domanda verso altro convenuto per responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., volta ad ottenere il risarcimento del pregiudizio di natura personale da quelle cagionato (Cass. civ., sez. un., 27 febbraio 2013, n. 4848). Merita ricordare, in conclusione, il tentativo, operato in passato da una parte della giurisprudenza, di estendere la portata dell’art. 844 c.c., onde consentire la tutela di diritti fondamentali della persona, quale in primo luogo quello alla salute; la Consulta, tuttavia, ribadendo l’orientamento tradizionale, ha escluso l’applicabilità dell’art. 844 c.c. oltre ai rapporti dominicali.

2.6. LE AZIONI A TUTELA DELLA PROPRIETÀ

Quando il proprietario, nell’esercizio del suo diritto, viene ostacolato dalle turbative di un terzo, la legge gli riconosce la possibilità di esperire le c.d. “azioni petitorie”, o “reali” che mirano ad accertare ed affermare la titolarità del diritto di proprietà contro chi la contesti direttamente (cioè negandola) o indirettamente (cioè vantando diritti reali limitati sul bene). Sono azioni petitorie: – l’azione di rivendicazione; – l’azione di mero accertamento della proprietà; – l’azione negatoria;

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– l’azione di regolamento di confini; – l’azione per apposizione di termini. Le azioni reali si distinguono da quelle personali, che tendono a far valere pretese creditorie o comunque fondate su rapporti obbligatori e dalle azioni possessorie volte a tutelare una situazione di fatto (il possesso) lesa da atti di spoglio o molestie. Le azioni reali possono avere: 1) una finalità recuperatoria del bene illegittimamente sottratto e dunque reintegratoria (ad es. la rivendica); 2) una funzione compensativa e risarcitoria, qualora l’attore assuma a fondamento della sua domanda la titolarità del diritto reale e chieda il risarcimento in funzione sostitutiva del mancato recupero o ripristino del bene (arg. ex artt. 844, co. 2; 938, 940 e 948 c.c.). Le azioni reali sono imprescrittibili e, qualora abbiano ad oggetto beni immobili, sono soggette a trascrizione.

2.6.1. L’AZIONE DI RIVENDICAZIONE

Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene senza titolo (art. 948, co. 1, c.c.). L’azione di rivendicazione è una tipica azione di condanna, in cui l’accertamento della proprietà ha funzione di fondamento della condanna al rilascio della cosa. La domanda di rivendica, avendo tipica finalità recuperatoria, presuppone necessariamente che all’atto della sua formulazione il bene rivendicato sia nel possesso del convenuto; la legittimazione attiva, pertanto, spetta a chi sostiene di essere proprietario del bene senza trovarsi nel possesso della res, e quella passiva a colui che, avendo il possesso o la detenzione della cosa, sia in grado di restituirla (c.d. “facultas restituendi”). L’azione di rivendicazione è imprescrittibile: può essere proposta in ogni tempo, salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione. A livello processuale sono previste delle agevolazioni in relazione all’onere della prova: – se il bene rivendicato è un bene immobile, è sufficiente che l’attore dimostri che fra lui ed i suoi danti causa il bene è stato posseduto per il tempo necessario ad usucapirlo; – se il bene rivendicato è un bene mobile, è sufficiente che il proprietario fornisca la prova di aver ricevuto il possesso del bene in buona fede, in base ad un titolo anche astrattamente idoneo (ex art. 1153 c.c.). L’azione di rivendicazione si distingue dall’azione di restituzione: la prima ha carattere reale, si fonda sul diritto di proprietà di un bene, del quale l’attore assume di essere titolare e di non avere la disponibilità, ed è esperibile contro chiunque in fatto possiede o detiene il bene al fine di ottenere l’accertamento del diritto di proprietà sul bene stesso e di riacquisirne il possesso; la seconda ha, invece, natura personale, si fonda sulla deduzione della insussistenza o del sopravvenuto venir meno di un titolo di detenzione del bene da parte di chi attualmente lo detiene per averlo ricevuto dall’attore o dal suo dante causa, ed è rivolta, previo accertamento di quella insussistenza o di quel venir meno, ad ottenere la consegna del bene.

2.6.2. L’AZIONE NEGATORIA (C.D. “NEGATORIA SERVITUTIS”)

L’azione negatoria è un’azione a tutela della proprietà volta ad ottenere l’accertamento dell’inesistenza di diritti reali vantati da altri sulla cosa e a far cessare molestie o turbative che manifestino l’esercizio di tali diritti. A differenza della rivendica, che ha natura prettamente condannatoria e recuperatoria, l’azione negatoria è in primo luogo un’azione di accertamento che ha ad oggetto la libertà della cosa da diritti reali vantati da terzi. Qualora, peraltro, i terzi compiano atti corrispondenti all’esercizio dei diritti vantati, recando così turbative o molestie alle ragioni della proprietà, l’azione assume una connotazione: – inibitoria (potendosi domandare in negatoria la cessazione delle molestie e turbative); – riparatoria (stante la possibilità, espressamente riconosciuta dall’art. 949 c.c., di domandare oltre alla cessazione di molestie e turbative il risarcimento del danno). L’azione negatoria compete oltre che al proprietario, anche all’enfiteuta e all’usufruttuario; legittimato passivo è invece chiunque affermi la titolarità di diritti reali su un bene dell’attore, o sia autore di molestie o turbative in base alla pretesa titolarità di un diritto reale. Sotto il profilo dell’onere della prova, l’azione negatoria non presenta il rigore proprio dell’azione di rivendicazione. Trattandosi di azione reale, anche l’azione negatoria è imprescrittibile.

2.6.3. LE AZIONI DI REGOLAMENTO DI CONFINI E DI APPOSIZIONE DI TERMINI

Quando il confine fra due fondi è incerto, ciascuno dei proprietari può chiedere che esso sia stabilito giudizialmente (art. 950 c.c.). Anche questa azione ha carattere reale ed è imprescrittibile, salva l’operatività dell’usucapione. L’azione presuppone l’assenza di demarcazione visibile (incertezza obiettiva) tra i fondi o la sua inidoneità a

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separarli in modo certo e definitivo (incertezza soggettiva). Nel giudizio di regolamento di confini le posizioni dell’attore e del convenuto sono sostanzialmente uguali, incombendo su ciascuno di essi l’onere di allegare e fornire qualsiasi mezzo di prova idoneo all’individuazione della esatta linea di confine. Secondo quanto previsto dall’art. 951 c.c., se i termini tra i fondi contigui mancano o sono divenuti irriconoscibili, ciascuno dei proprietari ha diritto di chiedere che essi siano apposti o ristabiliti a spese comuni; tale azione, che, a differenza della precedente, presuppone che la estensione della proprietà sia certa, ma manchino i segni esterni di delimitazione del tracciato del confine, secondo la giurisprudenza, ha natura personale.

3. LA CATEGORIA DEI DIRITTI REALI DI GODIMENTO 1. La categoria dei diritti reali di godimento I diritti reali costituiscono una categoria unitaria, nell’ambito della quale si distinguono: – la proprietà (ius in re propria); – i diritti reali su cosa altrui (iura in re aliena), detti anche diritti reali limitati o minori. La primazia del dominio sugli altri diritti reali è testimoniata da diversi caratteri che li differenziano reciprocamente. In primo luogo la proprietà si differenzia dagli iura in re aliena sotto il profilo dell’estensione: infatti, se da un lato il diritto di proprietà tendenzialmente attribuisce una signoria piena ed illimitata sul bene, con conseguente riconoscimento di un’ampia sfera di facoltà nel godimento e nell’uso della res, i diritti su cosa altrui si caratterizzano per un contenuto più limitato. Inoltre, il dominio si caratterizza per l’elasticità ossia per la capacità di riespandersi non appena i diritti reali limitati vengano meno. Nell’ambito degli iura in re aliena si distinguono: – i diritti reali di godimento, che attribuiscono al titolare il diritto di trarre dal bene altrui talune delle utilità che lo stesso è in grado di offrire, comprimendo il corrispettivo potere di godimento spettante al proprietario (sono diritti reali di godimento la superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione e le servitù prediali); – i diritti reali di garanzia, che consistono in un vincolo giuridico imposto su un bene a garanzia di un credito.

3.1. LA SUPERFICIE: NOZIONI PRELIMINARI La superficie è il primo dei diritti reali di godimento che il Codice civile disciplina, subito dopo la proprietà (artt. 952 ss.). L’istituto costituisce una deroga alla regola dell’accessione, in base alla quale ciò che è costruito sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario del suolo stesso (“superficies solo cedit”). Ai sensi dell’art. 952 c.c., infatti, il proprietario del suolo può costituire il diritto di fare e mantenere al di sopra di esso una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà, ovvero può alienare la proprietà della costruzione già esistente separatamente dalla proprietà del suolo. L’art. 952 c.c. si riferisce a due distinte situazioni giuridiche: – da un lato, il diritto del superficiario sul suolo, ossia il diritto di costruire sul suolo altrui una costruzione, c.d. “ius ad aedificandum”; – dall’altro, il diritto dello stesso superficiario sulla costruzione che venga eventualmente realizzata in forza di tale ius aedificandi (c.d. “proprietà superficiaria”). Di tali due situazioni giuridiche solo la prima si configura quale diritto di superficie, la seconda infatti, come si evidenzia dallo stesso art. 952 c.c., è un autentico diritto di proprietà. Come ogni altro diritto reale, il diritto di superficie può essere costituito per atto inter vivos (sia a titolo oneroso che a titolo gratuito) o per atto mortis causa (e dunque mediante testamento); nel primo caso, trattandosi di diritto reale su beni immobili, il relativo contratto necessiterà della forma scritta ad substantiam ex art. 1350, n. 2, c.c., e sarà soggetto a trascrizione, ai sensi dell’art. 2643, n. 2, c.c. (si discute circa l’ammissibilità dell’acquisto del diritto di superficie mediante usucapione). Legittimati a costituire il diritto di superficie sono il proprietario o i comproprietari del suolo, siano essi persone fisiche o giuridiche, private o pubbliche. Il diritto di superficie può essere perpetuo o concesso a tempo determinato (art. 953 c.c.); in quest’ultimo caso, la proprietà superficiaria che ne deriva dà luogo ad una delle discusse ipotesi di “proprietà temporanea”, venendosi a derogare, con la previsione di un termine di durata, al principio secondo cui la proprietà è per sua natura perpetua. É opportuno distinguere tra diritti ed obblighi del concedente e diritti ed obblighi del superficiario. Quanto al concedente, ha come obbligo principale quello di permettere la costruzione e tollerare il suo insistere sul suolo, senza ostacolare in alcun modo l’attività del superficiario. Il superficiario, invece, può compiere tutte le attività che siano necessarie per la costruzione ed il mantenimento della stessa sul suolo; gli obblighi cui è tenuto, ai quali il Codice non fa cenno alcuno, sono quelli risultanti dal titolo costitutivo del diritto (primo tra tutti, quello di pagare come corrispettivo un canone).

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Il diritto di superficie si estingue per scadenza del termine, con conseguente acquisto della proprietà della costruzione da parte del proprietario del suolo (art. 953 c.c.). Altre cause di estinzione del diritto di superficie sono: 1) la consolidazione, derivante da una qualsiasi causa che determini il riunirsi della qualità di proprietario e di superficiario nella stessa persona; 2) la prescrizione per non uso ventennale (concepibile soltanto con riferimento al diritto di realizzare la costruzione); 3) il perimento della costruzione, qualora le parti lo abbiano espressamente pattuito. L’estinzione del diritto di superficie comporta l’estinzione dei diritti reali imposti dal superficiario, mentre le locazioni stipulate dal superficiario permangono in vita solo per l’anno in corso alla scadenza del termine (art. 954 c.c.). L’art. 955 c.c. estende la disciplina del diritto di superficie anche alle costruzioni da farsi o da mantenersi al di sotto del suolo altrui. è espressamente vietata, invece, la possibilità di costituire o trasferire la proprietà delle piantagioni, separatamente dalla proprietà del suolo, divieto la cui spiegazione va ricercata nella difficoltà di separare la superficie agraria in parti dotate di una propria autonomia fisica e giuridica, rispettando pertanto le esigenze dell’agricoltura (art. 956 c.c.).

3.2. L’ENFITEUSI L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su cosa altrui che attribuisce al titolare lo stesso diritto di godimento del fondo che spetta al proprietario, salvo l’obbligo di effettuare miglioramenti e di corrispondere al proprietario concedente un canone periodico (artt. 957 ss. c.c.). Si tratta dunque del più ampio dei diritti reali su cosa altrui, conferendo un diritto di utilizzazione a contenuto generale, che comprende finanche la facoltà di modificare la destinazione economica del bene. L’estensione dei poteri dell’enfiteuta è tanto ampia che si è da taluno avanzata l’ipotesi che sia da attribuire a quest’ultimo la qualità di effettivo proprietario del bene concesso in enfiteusi, mentre il concedente conserverebbe su di esso solo un diritto minore. In realtà, basta considerare che il diritto dell’enfiteuta (c.d. “dominio utile”), a differenza di quello del concedente (c.d. “dominio diretto”), si estingue per non uso (art. 970 c.c.) per escludere in capo al primo qualunque forma di “proprietà” che è, per sua natura, imprescrittibile. In base a quanto disposto dall’art. 957 c.c. l’enfiteusi è regolata dalle norme contenute nel titolo IV del libro III del Codice civile e da quelle successivamente introdotte da leggi speciali, salvo che il titolo disponga diversamente. Nel secondo comma dello stesso articolo si precisa, però, che il titolo non può derogare a talune norme imperative contenute negli artt. 958, co. 2, 961, co. 2; 965, 968, 971 e 973 c.c. L’enfiteusi, che può essere costituita anche su fondi urbani, può nascere: a) per contratto (da stipularsi in forma scritta ad substantiam ex art. 1350, n. 2, c.c., e assoggettato a trascrizione, ai sensi dell’art. 2643, n. 2, c.c.); b) per testamento; c) per usucapione (in giurisprudenza si ritiene che, al fine di configurare il possesso enfiteutico ad usucapionem, oltre al pagamento del canone sia sufficiente l’apporto di miglioramenti che accrescano il valore del fondo, non occorrendo anche la realizzazione di radicali innovazioni del fondo stesso). L’enfiteusi può essere costituita in perpetuo o a tempo determinato, ma in ogni caso non è consentito derogare alla norma che vieta la costituzione di un rapporto enfiteutico di durata inferiore ai venti anni (art. 958 c.c.). Con l’enfiteusi il proprietario di un fondo, dietro pagamento di un canone periodico (art. 960 c.c.) e salvo l’obbligo di effettuare miglioramenti, si spoglia sostanzialmente dei propri poteri di godimento del fondo stesso, attribuendo all’enfiteuta i diritti sui frutti, sulle utilizzazioni del sottosuolo e sulle accessioni (art. 965 c.c.). L’obbligo di miglioria è essenziale all’enfiteusi: l’istituto nasce, infatti, soprattutto come rimedio all’abbandono di terreni agricoli, combinando insieme l’interesse del proprietario a recuperarli alla coltura e a migliorarne lo stato, con quello del coltivatore a godere del fondo con un rapporto meno precario e meno oneroso dei comuni rapporti contrattuali. Ai sensi dell’art. 965 c.c., l’enfiteuta può liberamente disporre del suo diritto per testamento o per atto tra vivi, salvo in tale ultimo caso che sia stato convenuto un divieto di alienazione comunque non eccedente i venti anni. É, infine, espressamente vietata la “subenfiteusi” ai sensi dell’art. 968 c.c. Per quanto riguarda l’estinzione del rapporto, occorre evidenziare come anche l’enfiteusi, al pari degli altri iura in re aliena, si estingua: – per non uso protratto per venti anni; – per rinunzia; – per confusione; – per decorso del tempo, se costituita a termine (sempre, comunque, non prima del decorso di venti anni, poiché non è ammessa la costituzione di un rapporto enfiteutico di durata inferiore).

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L’estinzione si verifica anche nell’ipotesi di totale perimento del fondo (art. 963 c.c.), fattispecie a cui la giurisprudenza assimila, sul piano degli effetti estintivi, l’illecita appropriazione acquisitiva del terreno concesso in enfiteusi, con conseguente lesione del diritto tanto del concedente che dell’enfiteuta, in favore dei quali, pertanto, dovrà essere liquidato il relativo risarcimento, avendo riguardo al valore dei rispettivi diritti lesi. Oltre a tali ipotesi comuni agli altri diritti reali di godimento, il Codice disciplina due peculiari vicende estintive proprie del diritto di enfiteusi: l’affrancazione e la devoluzione. L’affrancazione (art. 971 c.c. e art. 9 della L. 1138/1970) è un diritto potestativo attribuito all’enfiteuta, al cui esercizio consegue automaticamente l’effetto dell’acquisto della proprietà del fondo. è sufficiente infatti a tal fine la manifestazione di volontà dell’enfiteuta e il versamento di una somma corrispondente a quindici volte il canone annuo. In caso di mancata adesione da parte del proprietario, l’enfiteuta può adire l’autorità giudiziaria al fine di ottenere una sentenza (costituiva) che pronuncia l’affrancazione. La devoluzione (art. 972 c.c.), invece, è un diritto potestativo riconosciuto al proprietario il quale, nel caso in cui l’enfiteuta non adempia all’obbligo di migliorare il fondo (o, addirittura, lo deteriori), ovvero sia in mora nel pagamento di almeno due annualità del canone, può ottenere la liberazione del fondo, chiedendo al giudice una pronuncia costituiva di caducazione dell’enfiteusi, con conseguente riunione del dominio utile e del dominio diretto a suo favore.

3.3. L’USUFRUTTO L’usufrutto consiste nel diritto reale di godere della cosa altrui, con l’obbligo di non mutarne la destinazione economica (“ius utendi fruendi salva rerum substantia”). L’usufruttuario può trarre dalla cosa tutte le utilità che ne può trarre il proprietario, il quale, privato del potere di usare il bene e di fare propri i frutti, è comunemente detto “nudo proprietario”. Il potere dell’usufruttuario, tuttavia, incontra un limite essenziale, che rende le sue prerogative molto più ristrette rispetto alle facoltà del proprietario: egli ha, infatti, l’obbligo di rispettare la destinazione economica del bene. Occorre specificare che tale preclusione riguarda non tanto le caratteristiche materiali della cosa, essendo possibili miglioramenti ed addizioni (ipotesi disciplinate agli artt. 985 e 986 c.c.) quanto piuttosto quelle caratteristiche che concorrono ad individuare la struttura economica e l’organizzazione produttiva del bene. Al fine di non comprimere per un tempo troppo lungo l’esercizio delle facoltà dominicali e di non ostacolare la circolazione dei beni, l’usufrutto, che si configura come un diritto reale di godimento su cosa altrui a contenuto generale, ha carattere temporaneo: secondo quanto disposto dall’art. 979 c.c., infatti, non può eccedere in nessun caso la vita dell’usufruttuario, se si tratta di persona fisica o, se costituito in favore di una persona giuridica, i trenta anni. Oggetto di usufrutto possono essere indifferentemente beni mobili o immobili, materiali o immateriali (si pensi, ad es., all’usufrutto del diritto d’autore), crediti, titoli di credito, aziende, universalità. In linea generale, tuttavia, deve trattarsi essenzialmente di un bene fruttifero nonché, in considerazione dell’obbligo di restituzione al termine della durata del diritto, inconsumabile, ancorché deteriorabile (art. 996 c.c.). Sono deteriorabili (ma inconsumabili) quei beni che sono suscettibili di un uso ripetuto che ne diminuisce il valore ma non li distrugge (ad es. i vestiti); in tal caso l’usufruttuario ha diritto di servirsene secondo l’uso cui sono destinati e, al termine del rapporto, è tenuto a restituirli nello stato in cui si trovano (art. 996 c.c.). Il Codice, tuttavia, disciplina espressamente anche l’ipotesi in cui l’usufrutto abbia ad oggetto cose consumabili (si parla in tal caso di quasi-usufrutto). In siffatta ipotesi, i beni consumabili passano in proprietà dell’usufruttuario, il quale al termine del rapporto ha l’obbligo di pagarne il valore secondo la stima convenuta; in mancanza di stima, è in facoltà dell’usufruttuario di pagare le cose secondo il valore che hanno al tempo in cui finisce l’usufrutto, o di restituirne altre in eguale qualità e quantità (art. 995 c.c.). L’usufruttuario ha diritto di godere della cosa, traendo ogni utilità che essa può dare: per realizzare tale godimento, l’usufruttuario ha diritto di ottenere il possesso della cosa, e cioè la disponibilità materiale della stessa, servendosene e amministrandola, senza che sia a tal fine necessaria la collaborazione del nudo proprietario o di altri soggetti. L’usufruttuario ha altresì il diritto di far suoi i frutti naturali e civili della cosa, per tutta la durata dell’usufrutto, salvo il contemperamento previsto dall’art. 984 c.c.. Sull’usufruttuario grava in primo luogo l’obbligo di restituire al proprietario, alla scadenza del rapporto, il bene che ha formato oggetto del suo diritto (o il suo valore se si tratta di quasi-usufrutto) nelle stesse condizioni in cui lo ha ricevuto, salvo l’ordinario deterioramento derivante dal godimento. L’usufruttuario deve, inoltre, godere della cosa usando la diligenza del buon padre di famiglia, salvaguardandola nella sua integrità e destinazione economica, ed ha altresì gli obblighi di fare a proprie spese l’inventario dei beni e di prestare idonea garanzia (artt. 1002, 1003 c.c.), di sostenere le spese di custodia, di amministrazione e di manutenzione ordinaria (art. 1004 c.c.). Le spese per le riparazioni straordinarie devono essere invece sopportate dal proprietario, dovendo però in tal caso l’usufruttuario

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corrispondere a quest’ultimo, durante l’usufrutto, l’interesse legale sulle somme spese a tal fine (art. 1005 c.c.). L’estinzione dell’usufrutto si verifica, oltre che per scadenza del termine di durata o per la morte dell’usufruttuario, anche per non uso ventennale, per consolidazione (ossia la riunione dell’usufrutto e della nuda proprietà nella stessa persona), per rinunzia e per il totale perimento della cosa.

3.4. USO E ABITAZIONE Di contenuto più limitato rispetto all’usufrutto, anche se simili a questo per struttura, sono l’uso e l’abitazione, disciplinati dagli artt. 1021-1026 c.c. Tali diritti hanno una funzione essenzialmente personale, come dimostrano tanto i limiti quantitativi imposti dalla legge al godimento delle cose che ne formano oggetto, nonché i divieti di cessione e locazione di cui all’art. 1024 c.c. Per quanto non espressamente disposto dalla disciplina che specificamente li regola, i diritti di uso e abitazione, seguono la disciplina dell’usufrutto, in quanto compatibile. Il giudizio di compatibilità dovrà essere condotto dall’interprete sulla scorta della peculiare funzione personale dei diritti d’uso e d’abitazione, che a dispetto dell’analogia strutturale con l’usufrutto, vale a qualificarli ed a giustificare una loro previsione specifica nel sistema codicistico. Il diritto: – d’uso attribuisce al suo titolare (c.d. “usuario”) il diritto di servirsi della cosa (bene mobile o immobile), e, se fruttifera, di raccoglierne i frutti, limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia. – di abitazione attribuisce al titolare il diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia. La differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita dall’ampiezza ed illimitatezza del primo, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto. In materia successoria la legge (art. 540 c.c.) contempla espressamente un’ipotesi di diritto di abitazione riservato ex lege in favore del coniuge superstite sulla casa adibita a residenza familiare, unitamente al diritto di uso sui mobili che la corredano.

3.5. LE SERVITÙ: DEFINIZIONE E CONTENUTO La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo (c.d. “fondo servente”) per l’utilità di un altro fondo (c.d. “fondo dominante”) appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.). Si tratta di un diritto reale di godimento che può spettare ad un soggetto in quanto proprietario di un fondo e che consiste in uno ius habendi, facendi o prohibendi su un fondo altrui. La servitù dunque è un rapporto tra fondi (e non tra i soggetti titolari degli stessi) che si traduce, dal punto di vista giuridico, in una situazione di vantaggio per il proprietario del fondo dominante ed in una di svantaggio per il proprietario del fondo servente, con rapporto immanente al bene. É anche ammessa la costituzione di una servitù per assicurare ad un fondo un vantaggio futuro, ovvero a vantaggio o a carico di un edificio da costruire o di un fondo da acquistare (art. 1029 c.c.). Dall’esame della disciplina codicistica è possibile individuare i caratteri fondamentali e generali delle servitù, che sono: – la predialità; – la vicinanza; – l’utilità; – l’alterità soggettiva; – l’inseparabilità; – l’indivisibilità. La servitù si configura innanzitutto per la predialità (dal latino praedium=“fondo”): ciò significa che essa è posta a vantaggio del fondo e non del proprietario del fondo stesso. In altre parole, la proprietà del fondo servente non può essere limitata per il vantaggio personale del proprietario del fondo dominante, ma solo per l’oggettivo vantaggio del fondo stesso. Il proprietario del fondo dominante quindi riceve il vantaggio della servitù mediante il suo bene. Non costituiscono pertanto servitù prediali le c.d. “servitù irregolari” o “personali”, nell’ambito delle quali il servizio è prestato da un fondo a favore di una persona. Conseguenza pratica della predialità è il principio secondo il quale predia vicina esse debent; carattere, questo, da intendere, tuttavia, non in senso assoluto, ma relativo. La servitù si caratterizza, infatti, anche per l’utilità, consistente in un qualsiasi vantaggio, anche non economico, che si traduca in una migliore utilizzazione del fondo dominante (l’utilità dei fondi può anche essere reciproca).

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Ai fini della costituzione di una servitù, i due fondi devono appartenere a proprietari diversi (“nemini res sua servit”). Si tratta di un principio che tuttavia è stato notevolmente temperato dalla prassi giurisprudenziale: così, la regola non opera nel caso in cui il proprietario di uno dei due fondi sia anche comproprietario dell’altro.

3.5.1. TIPOLOGIE Delle servitù possono operarsi diverse classificazioni. In primo luogo, le servitù si distinguono in: – apparenti, per il cui esercizio sono necessarie opere, naturali o artificiali, visibili e permanenti (art. 1061, co. 2, c.c.) e tali da rivelare, per la loro struttura e funzionalità, l’esistenza della servitù sul fondo servente (tipico esempio è la servitù di acquedotto). – non apparenti quando non vi sono opere che ne denuncino l’esistenza (si pensi, ad es., alle servitù di pascolo, di non edificare, di non innalzare la costruzione oltre un certo limite). Le servitù si distinguono ulteriormente in: – affermative, per il cui esercizio è richiesto un comportamento attivo del proprietario del fondo dominante, con un corrispondente pati del proprietario del fondo servente (così, ad es., la servitù di passaggio). – negative, che, invece, si risolvono in un obbligo di non facere a carico del proprietario del fondo servente, che di per sé realizza l’utilità altrui (ad es., la servitù di non costruire o di costruire oltre una certa altezza, c.d. “servitus altius non tollendi”). Poiché per il relativo esercizio non occorrono opere visibili, le servitù negative devono considerarsi non apparenti. Le servitù affermative possono essere a loro volta distinte in servitù continue e discontinue, a seconda che il fatto dell’uomo sia o meno necessario per il loro esercizio. Le servitù si distinguono inoltre in volontarie e coattive, a seconda che la loro costituzione si ricolleghi alla volontà dell’uomo o alla legge. La costituzione delle servitù può avvenire generalmente in due modi: per volontà dell’uomo o coattivamente, per imposizione della legge. La costituzione può altresì avere luogo per effetto dell’usucapione e della destinazione del padre di famiglia istituto, quest’ultimo, peculiare delle servitù.

3.5.2. MODALITÀ DI COSTITUZIONE … Le servitù volontarie possono essere costituite per contratto o per testamento (art. 1058 c.c.); deve invece escludersi la possibilità di creare la servitù con un atto unilaterale inter vivos considerata, per un verso la tipicità dei modi di costituzione delle servitù, per l’altro la difficoltà di conferire efficacia presuntiva ad un atto di riconoscimento di servitù, operando il riconoscimento unilaterale soltanto per i rapporti obbligatori ai sensi dell’art. 1988 c.c. Il contratto costitutivo di servitù necessita della forma scritta ad substantiam ex art. 1350 n. 4, c.c. ed è soggetto a trascrizione ai sensi dell’art. 2643 n. 4, c.c. Talvolta la legge, in considerazione della situazione nella quale si trova un fondo (che, ad es., risulta privo di accesso alla pubblica via) attribuisce al suo proprietario il diritto potestativo ad ottenere l’imposizione della servitù sul fondo altrui, dietro versamento di un’indennità. Ricorre in tal caso la figura della servitù coattiva (o legale); diversamente dalle servitù volontarie, che possono avere ad oggetto una qualsiasi utilitas, le servitù prediali coattive formano un numerus clausus, sono cioè tipiche, avendo ciascuna il contenuto legalmente predeterminato. Secondo il dettato dell’art. 1032 c.c. quando, in forza di legge, il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù, questa, in mancanza di contratto, è costituita: a) con sentenza (la quale determinerà, altresì, l’indennità da corrispondere al proprietario del fondo servente, il cui pagamento è contemplato quale condizione per il relativo esercizio, attesa, altrimenti, la facoltà del proprietario del fondo servente di opporvisi); b) nei casi espressamente previsti dalla legge, con atto amministrativo (si pensi all’ipotesi in cui sia la P.A. ad essere titolare del diritto alla servitù). Sotto il profilo squisitamente processuale, l’azione di costituzione coattiva di servitù di passaggio deve essere contestualmente proposta nei confronti dei proprietari di tutti i fondi che si frappongono all’accesso alla pubblica via, realizzandosi la funzione propria del diritto riconosciuto al proprietario del fondo intercluso dall’art. 1051 c.c. solo con la costituzione del passaggio nella sua interezza; in mancanza la domanda va respinta perché diretta a far valere un diritto inesistente, restando esclusa la possibilità di integrare il contraddittorio rispetto ai proprietari pretermessi (Cass. civ., sez. un., 22 aprile 2013, n. 9685). Le principali figure di servitù coattive previste dalla legge sono quelle di acquedotto coattivo (consistente nel diritto di far passare acque proprie attraverso fondi altrui: artt. 1033 ss. c.c.); di passaggio coattivo (consistente nel diritto al passaggio sul fondo vicino per accedere alla via pubblica, di cui agli artt. 1051 ss. c.c.).

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Le ultime due modalità di costituzione delle servitù che restano da analizzare sono l’usucapione e la destinazione del padre di famiglia. Mediante usucapione ventennale (e cioè in base al possesso continuato per venti anni di un immobile per l’esercizio di un potere di fatto corrispondente ad una servitù apparente) e decennale (e cioè in base al possesso continuato per dieci anni da parte di colui che abbia acquistato in buona fede un diritto reale su un immobile da chi non è proprietario, in virtù di un titolo debitamente trascritto) possono essere costituite le sole servitù apparenti. La destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.) costituisce un modo di acquisto a titolo originario peculiare delle servitù prediali che, come l’usucapione, interessa però soltanto le servitù apparenti.

3.5.2.1. … E DI ESTINZIONE Anche le servitù, come ogni altro diritto reale su cosa altrui, si estinguono per confusione allorché, cioè, si riunisca in una sola persona la proprietà del fondo dominante con quella del fondo servente (art. 1072 c.c.). Le servitù si estinguono, inoltre, per prescrizione estintiva ventennale, per scadenza del termine se previsto nel titolo, per abbandono del fondo servente e, infine, per rinuncia del proprietario del fondo dominante. L’art. 1073 c.c. disciplina l’estinzione della servitù a seguito del non uso protratto per venti anni. Oltre a tali ipotesi di estinzione vanno, infine, ricordate: – l’abbandono del fondo servente (o abbandono liberatorio), che ricorre quando il proprietario del fondo servente, tenuto in virtù del titolo o della legge alle spese necessarie per l’esercizio della servitù, se ne liberi, rinunziando così alla proprietà del fondo a favore del proprietario del fondo dominante; – la rinunzia alla servitù da parte del proprietario del fondo dominante che costituisce modo di estinzione che determina l’automatica consolidazione del diritto di proprietà del proprietario del fondo servente.

3.5.3. TUTELA DELLE SERVITÙ A tutela della propria situazione giuridica, il titolare del diritto di servitù può esercitare l’azione confessoria (c.d. “vindicatio servitutis”) di cui all’art. 1079 c.c., la quale è diretta all’accertamento del diritto contro chi lo contesta, nonché alla cessazione degli eventuali impedimenti e turbative. Il titolare può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino, oltre il risarcimento dei danni. La legittimazione attiva spetta, oltre che al proprietario del fondo dominante, anche all’enfiteuta e all’usufruttuario. Colui che agisce in “confessoria servitutis” ha l’onere di provare qualora questa venga contestata, la propria legittimazione ad agire, in quanto titolare di un diritto di proprietà sul fondo dominante, sebbene la prova della proprietà non sia altrettanto rigorosa di quella richiesta per la rivendicazione, posto che, mentre con quest’ultima azione si mira alla dichiarazione del diritto di proprietà sul fondo, nel caso dell’azione confessoria si domanda soltanto l’affermazione del vincolo di servitù con le eventuali altre conseguenti dichiarazioni di diritto, onde la proprietà del fondo dominante costituisce unicamente il presupposto dell’azione ed è sufficiente che emerga anche attraverso delle presunzioni. L’azione è esperibile erga omnes, e cioè sia contro terzi sia contro lo stesso proprietario del fondo servente. L’actio confessoria trova il suo fondamento nella contestazione della servitù. Ne deriva che in tutte le ipotesi nelle quali non sia in contestazione il diritto di servitù ma si tratti di reagire a turbative o minacce, si è fuori dall’ambito applicativo del rimedio di cui all’art. 1079 c.c. e il titolare potrà reagire esclusivamente con l’azione di responsabilità aquiliana. Ove ne ricorrano i presupposti, infine, a tutela della servitù saranno esperibili le azioni possessorie.

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Le immissioni Sommario: 1. Premessa. – 2. Il dato normativo. – 3. La nozione di «immissioni». – 4. La normale tollerabilità. – 4.1. Le condizioni dei luoghi. – 4.2. Il contemperamento delle diverse esigenze. – 4.3. Il criterio del preuso. – 5. I limiti legali, regolamentari … – 5.1. … e convenzionali (regolamento di condominio). – 5.1.1. Le immissioni condominiali. – 5.1.2. Il regolamento condominiale. – 5.1.3. La formulazione delle clausole. – 5.1.4. Casistica. – 6. Le immissioni elettromagnetiche (c.d. elettrosmog). – 6.1. Le nuove tecnologie: Wi-Fi. – 6.2. La normativa di riferimento. – 6.3. L’individuazione dei limiti. – 6.3.1. Il principio di precauzione. – 6.3.2. I limiti di esposizione, valori di attenzione e obiettivi di qualità. – 6.4. L’operatività dell’art. 844 c.c. (il concetto di «simili propagazioni»).1. PREMESSA Il problema delle immissioni è stato avvertito sin dai tempi antichi, come attestato dall’interesse mostrato da giuristi del calibro di Aristone, Alfeno Varo e Pomponio . La necessità di una disciplina delle immissioni scaturisce dal fatto che la loro produzione, in astratto, è riconducibile alla libera esplicazione della personalità individuale (art. 2 Cost.) e al diritto di esercitare in maniera piena ed esclusiva il diritto di proprietà (art. 832 c.c.), anche in quelle forme particolari ravvisate nella propagazione di fumi, e nella produzione di emissioni maleodoranti, fino a comprendere l’utilizzazione di apparecchi televisivi o radiofonici a volume elevato . Queste «espressioni della personalità», tuttavia, possono incidere negativamente su altre posizioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi e diffusi) facenti capo agli altri consociati . La portata lesiva della condotta immissiva si apprezza particolarmente sul piano civilistico venendo in rilievo una pluralità di voci risarcitorie, legate, per lo più, alla lesione del diritto fondamentale della salute scolpito dall’art. 32 della Costituzione . Il codice civile, tuttavia, all’art. 844 c.c., mira a risolvere il conflitto tra i proprietari dei fondi vicini per le influenze negative delle attività svolte con riguardo esclusivo al diritto di proprietà; non sono contemplate le immissioni che rechino pregiudizio alla salute umana o all’integrità dell’ambiente naturale, alla cui tutela presiedono altre norme. La questione relativa al coordinamento del diritto del proprietario con i principi di tutela della salute e dell’ambiente pare essere stata risolta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, che ha sancito, in via generale, che il contemperamento di interessi tra le esigenze della produzione e le ragioni della proprietà, previsto dalla norma civilistica sulle immissioni, deve tenere conto, in una lettura costituzionalmente orientata della norma (ossia conforme alle norme della Costituzione), della dell’esigenza di privilegiare l’utilizzo dei fondi che sia maggiormente compatibile con il diritto costituzionalmente garantito alla salute .

2. IL DATO NORMATIVO La norma cardine alla quale far riferimento in tema di immissioni è l’art. 844 c.c. secondo cui il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori e gli scuotimenti e simili propagazioni, derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Nell’applicare questa norma, l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà; può tener conto della priorità di un determinato uso. L’intenzione originaria del legislatore era quella: da un lato, di dettare una norma idonea a comporre i conflitti che sarebbero potuti insorgere tra proprietari di fondi contigui; dall’altro, di risolvere tali contrasti a favore del soggetto capace di contribuire maggiormente allo sviluppo economico della nazione. Come anticipato, la previsione originaria è stata oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali che hanno piegato la norma al fine di tutelare valori e situazioni di carattere generale, quali la salubrità dell’ambiente o la salute, in ciò agevolati dalla struttura flessibile della disposizione, che consente un amplissimo potere discrezionale al giudice in sede di applicazione. Così, una disposizione, in origine orientata a tutelare per lo più le esigenze della produzione – alla quale veniva attribuita un’importanza maggiore rispetto alla qualità della vita del privato – è stata progressivamente interpretata privilegiando l’interesse della qualità della vita privata.

3. LA NOZIONE DI «IMMISSIONI» L’elenco riportato dall’art. 844 c.c. non è ovviamente esaustivo, ma si ritiene che le immissioni debbano comunque essere materiali, cioè percepibili attraverso i sensi dell’uomo o attraverso apparecchi rilevatori (é il caso, ad es., di propagazione in forma di vibrazioni, onde e simili). All’orientamento (prevalente) che considera requisito indispensabile dell’immissione vietata la sua materialità, si oppone una corrente di pensiero secondo la quale integrerebbero immissioni vietate anche quelle c.d. ideali, consistenti cioè in immagini così squallide o sgradevoli o ripugnanti da comportare l’invivibilità di un fondo o di

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un appartamento. In ogni caso, le immissioni considerate dalla disposizione civilistica sono soltanto quelle indirette, ovvero quelle che non consistono in un fare qualcosa direttamente sul fondo altrui, generalmente ricollegate, sotto il profilo causale, ad un fenomeno di propagazione al fondo vicino per il tramite di fattori naturali, come il vento. La ripercussione delle immissioni non deve provenire da attività dirette verso il fondo altrui, ma solo per effetto di attività compiute sul proprio fondo, integrando, la diretta immissione nel fondo altrui, un atto illecito: il lancio di oggetti nel fondo vicino, o l’acqua proveniente direttamente da altro fondo, assume una connotazione chiaramente illecita, a fronte della quale il soggetto leso non potrà invocare la norma che disciplina le immissioni.

4. LA NORMALE TOLLERABILITÀ L’art. 844 c.c. impone, nei limiti di tale normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall’uso delle proprietà attuato nel contesto delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio; al di fuori di tali limiti, si è in presenza di un’attività illegittima, che comporta l’imposizione di un sacrificio all’altrui diritto di proprietà o di godimento. Il legislatore del ’42, con una norma assolutamente innovativa, ha affidato al giudice l’incombenza di risolvere i conflitti derivanti da usi incompatibili di proprietà immobiliari contigue; conferendo allo stesso il compito di individuare la «normale tollerabilità», gli ha attribuito un’ampia sfera di discrezionalità. Esistono, dunque, immissioni lecite perché al di sotto della soglia della normale tollerabilità ed immissioni illecite poiché al di sopra di tale parametro (che devono, di conseguenza, essere inibite, salvo che colui che le produca adotti accorgimenti tecnici idonei a ricondurle al di sotto del limite codicistico). Le prime sono definite anche immissioni inevitabili, dovendo essere sopportate sia pure entro certi limiti, ossia nell’ambito di quella normale tollerabilità che deve essere valutata in rapporto alle condizioni di tempo e di luogo ed in relazione al luogo in cui le immissioni si propagano e non a quello di provenienza. Il limite della dell’immissione è dato non dalla normalità del suo esercizio, bensì dalla «normale tollerabilità» per chi deve subirla: si tratta di un criterio oggettivo, in quanto prescinde dalle caratteristiche di un determinato soggetto ma va commisurato con riferimento allo stato dei luoghi, al tempo ed alle attività svolte; determinati limiti, tuttavia, non possono essere superati in assoluto, come accade nel caso di immissioni di per sé nocive per la salute. Detto limite, inoltre, non ha carattere assoluto, ma è relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti. Non a caso la giurisprudenza, con riferimento specifico alla valutazione della normale tollerabilità delle immissioni sonore, ha, in più occasioni , rilevato come essa debba essere compiuta tenendo conto dei comportamenti sociali, delle abitudini di vita e della condizione dei luoghi nell’ambito dei quali lo svolgimento delle attività rumorose ha luogo. L’art. 844 c.c. tempera il criterio in esame a favore delle attività produttive aggiungendo che, nell’applicare il criterio della normale tollerabilità, il giudice deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà . Al menzionato criterio della condizione dei luoghi (a chi abita in una zona industriale si può chiedere una maggiore tolleranza), la norma codicistica aggiunge quello della priorità di un dato uso (così, fra il proprietario di una rumorosa attività commerciale e quello di una abitazione, è più protetto quello dei due che per primo ha dato la diversa destinazione al proprio fondo) .

4.1. LE CONDIZIONI DEI LUOGHI Il discrimine tra condotta lecita ed illecita in riferimento all’art. 844 c.c. è dato dal superamento del limite della normale tollerabilità: oltre ai parametri di valutazione oggettiva delle immissioni prodotte, si deve tener conto della «situazione di fatto preesistente». Il primo e fondamentale criterio per la valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, va ricercato nelle caratteristiche del luogo, ovvero nella sua natura geofisica e nella destinazione urbanistica e sociale della zona, che impone l’adozione di misure di prevenzione per ricondurre il livello delle propagazioni entro il limite di legge. La condizione dei luoghi non deve essere considerata in relazione al singolo fondo oggetto dell’attività di immissione ma con riferimento a tutta la zona nella quale si trova. Quanto, ad esempio, alle immissioni sonore, la struttura geomorfologica del terreno può avere quale effetto quello dell’esaltazione del disturbo, così come nel caso di colpi su una struttura rocciosa, anelastica, del terreno, che agevola la propagazione delle vibrazioni alle abitazioni circostanti; tale condizione, quindi, viene ad incrementare anche la soglia della normale tollerabilità. Con riferimento all’aspetto della destinazione sociale, è evidente che la valutazione varia a seconda che una determinata attività produttiva di immissioni si verifichi in un quartiere industriale o in un quartiere residenziale:

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nel primo, il livello delle immissioni di fumo, esalazioni e propagazioni varie sarà naturalmente più elevato e dovrà ritenersi tollerabile proprio in rapporto alla natura dell’insediamento. Al fine di valutare la normale tollerabilità dei rumori nei rapporti tra vicini, deve aversi riguardo al criterio comparativo , che assume come riferimento il rumore di fondo; il metodo differenziale, infatti, calcola la tollerabilità delle emissioni sonore sottraendo dalle emissioni accertate il c.d. «rumore di fondo» . Quanto ai limiti, la giurisprudenza ha affermato che la tutela riconosciuta dall’art. 844 c.c. non può essere richiesta da chi esercita un’attività produttiva parimenti rumorosa negli ambienti pretesamente inquinati dalle immissioni.

4.2. IL CONTEMPERAMENTO DELLE DIVERSE ESIGENZE L’art. 844 c.c., nel lasciare all’apprezzamento caso per caso dell’autorità giudiziaria la valutazione sull’eccedenza o meno della normale tollerabilità dell’immissione, impone di contemperare le esigenze della proprietà con quelle della produzione tenendo conto della priorità dell’uno o dell’altro uso. Il giudice, in realtà, deve operare tale contemperamento solo quando le prescrizioni adottate siano inidonee allo scopo, accertando la preminenza dell’interesse collettivo alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale nonostante le sue ripercussioni negative sull’ambiente circostante e sulle singole proprietà finitime, ed in tal caso determinare un giusto indennizzo per chi la subisce. Il criterio del contemperamento delle esigenze della produzione con quelle della proprietà viene in considerazione solo nell’ipotesi in cui, accertatosi il superamento dei limiti della normale tollerabilità, l’adozione delle possibili misure di prevenzione si riveli insufficiente a ricondurre il livello delle immissioni entro i limiti stessi. La Suprema corte , affrontando il caso di fondi posti in zona a prevalente vocazione abitativa e soggetti a destinazioni differenti – l’uno ad abitazione e l’altro ad opificio –, ha sostenuto che il criterio dell’utilità sociale impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica delle parti, privilegiando, alla luce dei principi costituzionali, le esigenze personali di vita connesse all’abitazione rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all’esercizio di attività produttive o commerciali. Il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell’attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della produzione il soddisfacimento ad una normale qualità della vita. La giurisprudenza, ad ogni modo, esclude l’applicabilità del criterio dell’equo contemperamento delle opposte esigenze nell’ipotesi di esercizio illegittimo della proprietà (nel caso di specie, le immissioni acustiche emesse in danno dell’appartamento destinato dall’attore ad abitazione in conformità della normativa vigente provenivano dall’opificio illecitamente installato dal vicino) . Le immissioni determinate da un’attività produttiva che superino i normali limiti di tollerabilità fissati, nel pubblico interesse, da leggi o regolamenti, sono da reputarsi illecite, sicché il giudice, dovendo riconoscerle come tali, può addivenire ad un contemperamento delle esigenze della produzione soltanto al fine di adottare quei rimedi tecnici che consentano l’esercizio della attività produttiva nel rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale tollerabilità. La stessa regola vale in presenza di immissioni che siano dannose per la salute umana, che il giudice può solo inibire o ricondurre a normale tollerabilità imponendo l’adozione di rimedi riduttivi delle stesse che siano idonei a salvaguardare la salute senza, tuttavia, pregiudicare oltre misura lo svolgimento dell’attività commerciale. Il criterio della normale tollerabilità, in altre parole, va riferito esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà e non può essere utilizzato per giudicare sulla liceità delle immissioni che rechino pregiudizio anche alla salute umana, alla cui tutela è rivolto un altro ordine di norme; da ciò l’inapplicabilità del criterio del contemperamento degli interessi quando le esigenze della produzione siano contrapposte non a quelle della proprietà, ma alla lesione del diritto alla salute. Il conflitto fra diritto alla salute, da una parte, e diritto di proprietà o di iniziativa economica, dall’altra, non può che risolversi in favore del primo e, pertanto, la produzione di emissioni sonore, attinente all’esercizio di un’attività economica, deve arrestarsi allorché sia idonea a produrre pregiudizio alla salute altrui . Infine, quanto ai rumori provocati da attività sportive praticate all’aperto, il contemperamento delle esigenze della proprietà con quelle ricreative e sportive che, ai sensi dell’art. 844 c.c., postula la concreta valutazione di ormai diffusi abitudini di vita e comportamenti sociali nell’ambito dei quali lo svolgimento delle suddette attività, prevalentemente praticate all’aria, è notoriamente più intenso durante le stagioni caratterizzate da un maggior numero di ore di luce e dal clima più favorevole .

4.3. IL CRITERIO DEL PREUSO L’ultimo criterio posto dall’art. 844 c.c. è quello della priorità di un certo uso; il giudice, infatti, può tener conto, quale criterio complementare, del preesistente utilizzo di una certa area, ad es., a fini industriali. La logica che ispira tale criterio è evidente: chi si insedia in un determinato luogo nel quale sono già presenti stabilimenti industriali che producono immissioni è già al corrente della situazione del posto che, in qualche

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modo, accetta. Si tratta comunque di un criterio di carattere oggettivo (ossia non relativo alle persone dei titolari dei fondi) e facoltativo, cosicché il giudice del merito, nella valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, non è tenuto a farvi ricorso quando, in base agli opportuni accertamenti di fatto, e secondo il suo apprezzamento ritenga superata la soglia di tollerabilità . La norma, poi, come accennato, nel prevedere la valutazione da parte del giudice del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, tenendo eventualmente conto della priorità di un determinato uso, è suscettibile di un’interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata, in relazione al bene salute; un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma codicistica sulle immissioni impone al giudice di considerare prevalente la tutela della qualità della vita e della salute .

5. I LIMITI LEGALI, REGOLAMENTARI … Mentre è senz’altro illecito il superamento dei livelli di accettabilità delle immissioni stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell’interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità, l’eventuale rispetto degli stessi non può fare considerare senz’altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi a stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c. Le finalità e il campo di applicazione di quest’ultima disposizione sono distinti e differenti rispetto a quelli della normativa speciale: la prima è posta a presidio del diritto di proprietà ed è volta a disciplinare i rapporti di natura patrimoniale tra i privati proprietari di fondi vicini; la seconda, invece, ha carattere pubblicistico, perseguendo l’interesse pubblico ambientale ed operando nei rapporti tra i privati e la pubblica amministrazione . I parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente (dirette alla protezione di esigenze della collettività, di rilevanza pubblicistica), pur potendo essere considerati come criteri minimali di partenza, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li eccedano, non sono necessariamente vincolanti per il giudice civile che, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo al giudizio di intollerabilità delle emissioni, ancorché contenute in quei limiti, sulla scorta di un prudente apprezzamento che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica, posta preminentemente a tutela di situazioni soggettive privatistiche, segnatamente della proprietà. I criteri stabiliti dalla legislazione speciale per la determinazione dei limiti massimi di esposizione al rumore, benché dettati per la tutela generale del territorio, possono essere utilizzati come parametro di riferimento per stabilire l’intensità, e di riflesso, la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati come un limite minimo e non massimo, dato che i suddetti parametri sono meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi, ai sensi dell’art. 844 c.c., con la conseguenza che, in difetto di altri dati, il loro superamento determina necessariamente la violazione della predetta norma. I «valori di attenzione», ove normativamente previsti, hanno un effetto meramente indicativo (cioè presuntivo ma non vincolante) ai fini della determinazione della conformità di una propagazione ai livelli di «normale tollerabilità» previsti dall’art. 844 c.c.; in quest’ultima ipotesi, infatti, oggetto del giudizio sono beni e diritti differenti da quelli tutelati dalla legge. Ai fini dell’individuazione della normale tollerabilità a cui la disposizione codicistica fa riferimento, non può essere utilizzato il quadro normativo rappresentato dalla legge 26 ottobre 1995, n. 447, «Legge quadro sull’inquinamento acustico», dal D.P.C.M. 1° marzo 1991, «Limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno» (poi D.P.C.M. 14 novembre 1997, «Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore»). Detta normativa, fissando limiti oltre ai quali la fonte rumorosa è da considerarsi di per sé illecita, contiene norme regolamentari volte a tutelare l’interesse pubblico ambientale, cioè la generale salubrità dell’ambiente in relazione alla destinazione delle aree nelle quali è suddiviso il territorio comunale .

5.1. … E CONVENZIONALI (REGOLAMENTO DI CONDOMINIO) La disciplina delle immissioni da un fondo ad un altro è applicabile anche ai rapporti tra i piani e le porzioni di piano in proprietà esclusiva nell’ambito di un edificio condominiale. La specifica fisionomia giuridica del condominio negli edifici si fonda sulla relazione che, nel fabbricato, lega i beni propri e comuni, riflettendosi sui diritti, dei quali i beni formano oggetto (la proprietà esclusiva e il condominio). Le norme dettate dagli artt. 1117, e 1139 c.c. si applicano all’edificio, nel quale più piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse e un certo numero di cose, impianti e servizi di uso comune sono legati alle unità abitative dalla relazione di accessorietà.

5.1.1. LE IMMISSIONI CONDOMINIALI Nell’ambito della proprietà condominiale, numerose sono le controversie che possono insorgere in materia di immissioni .

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Per quanto attiene a quelle acustiche, basti pensare al funzionamento di tutti gli impianti che assicurano l’acqua (autoclave) o il calore (caldaia) allo stabile, allo scarico delle acque bianche o nere, al suono degli strumenti musicali, alla chiusura violenta di porte e finestre, al calpestio proveniente dal piano superiore, al volume degli impianti televisivi o radiofonici e ai latrati di animali domestici . L’immissione può essere anche rappresentata dalle macchie di umidità provenienti dalle parti comuni o da altre unità immobiliari, oltre che da vere o proprie perdite d’acqua e dagli odori nauseanti provocati da cose o animali dei condomini . In relazione all’accertamento delle immissioni in ambito condominiale, si profilano diverse soluzioni: un orientamento sostiene che i divieti delle immissioni debbano essere interpretati in maniera elastica, cosicché il condomino deve tollerare propagazioni che invece non sarebbero tollerabili da parte di proprietari di abitazioni contigue-vicine, e ciò proprio in ragione della peculiarità del rapporto condominiale; altra corrente di pensiero considera il legame condominiale quale presupposto per rendere ancora più stringenti i limiti posti a carico del singolo, di modo che il condomino non può essere tenuto a sopportare quanto l’art. 844 c.c. impone al vicino; un ultimo indirizzo di pensiero ritiene, invece, che si applichino gli ordinari principi operanti nei rapporti di vicinato. Poiché l’art. 844 c.c. ha carattere dispositivo, nulla vieta che i proprietari regolino i loro rapporti di vicinato con norme diverse più o meno restrittive, per esempio attraverso il regolamento di condominio.

5.1.2. IL REGOLAMENTO CONDOMINIALE Il regolamento del condominio tipico reca le norme che disciplinano l’uso e le modalità di godimento delle cose comuni, la ripartizione delle spese relative, la tutela del decoro dell’edificio. Il regolamento contempla una materia che rimane nell’ambito della organizzazione della vita interna del condominio, la quale ben può esser modificata dall’organo cui quel potere di organizzazione è devoluto, vale a dire dall’assemblea dei condomini con la maggioranza prevista dal codice civile, a differenza del regolamento c.d. contrattuale che non si limita soltanto alla disciplina dell’uso delle cose comuni in conformità dei diritti spettanti ai singoli condomini, ma pone delle norme che, incidendo sui singoli diritti, si risolvono in un’alterazione, a vantaggio di alcuni dei partecipanti e in pregiudizio degli altri, della misura del godimento che ciascun condomino ha in ragione della propria quota. Quest’ultimo tipo di regolamento condominiale si caratterizza per la possibilità di contenere il divieto di dare ai singoli appartamenti in proprietà esclusiva una o più delle destinazioni possibili; tuttavia, i divieti e le limitazioni di destinazione delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, come i vincoli di una determinata destinazione ed il divieto di mutare l’originaria destinazione, qualora siano posti con il regolamento condominiale predisposto dall’originario proprietario ed accettati con l’atto d’acquisto, devono risultare da una volontà chiaramente ed espressamente manifestata nell’atto o da una volontà desumibile, comunque, in modo non equivoco dall’atto stesso, non essendo certamente sufficiente, a tal fine, la semplice indicazione di una determinata attuale destinazione delle unità immobiliari medesime, trattandosi di una volontà diretta a restringere facoltà normalmente inerenti alla proprietà esclusiva da parte dei singoli condomini . Con particolare riferimento alle clausole che impongono ai condomini divieti di immissioni dannose o moleste nella proprietà degli altri condomini, si è stabilito che l’esigenza di risolvere il conseguente conflitto secondo i criteri dettati dall’art. 844 c.c. viene meno in presenza di un regolamento condominiale di tipo contrattuale che specificamente disciplini l’utilizzazione delle cose proprie e comuni, stabilendo limiti e divieti precisi e rigorosi che rendano inammissibile il ricorso al criterio della normale tollerabilità ed al contemperamento equitativo delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Qualora i condomini, con il regolamento di condominio, abbiano disciplinato i loro reciproci rapporti, in materia di immissioni, con norma più rigorosa di quella dettata dall’art. 844 c.c., avente carattere dispositivo, la liceità o meno della concreta immissione dovrà essere giudicata non alla stregua del principio generale posto dalla legge, bensì del criterio di valutazione fissato nel regolamento, in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale, possono legittimamente imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche diverse e maggiori di quelle stabilite dalla citata norma, e l’obbligo del condomino di adeguarsi alla norma regolamentare discende in via immediata e diretta dal contratto in virtù del generale principio espresso dall’art. 1372 c.c., secondo cui questo ha forza di legge tra le parti . Il regolamento di condominio predisposto dall’originario unico proprietario dell’intero edificio, ove sia accettato dagli iniziali acquirenti dei singoli appartamenti e regolarmente trascritto nei registri immobiliari, assume carattere convenzionale e vincola tutti i successivi acquirenti, non solo per le clausole che disciplinano l’uso o il godimento dei servizi o delle parti comuni, ma anche per quelle che restringono i poteri e le facoltà dei singoli condomini sulle loro proprietà esclusive venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca .

5.1.3. LA FORMULAZIONE DELLE CLAUSOLE. Secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, i divieti e le limitazioni di destinazione delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini possono essere formulati nei regolamenti sia

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mediante elencazione delle attività vietate, sia mediante riferimento ai pregiudizi che si intendono evitare: nella prima ipotesi è sufficiente stabilire se una determinata destinazione sia vietata o limitata, e verificare se la destinazione sia inclusa nell’elenco; nella seconda ipotesi è necessario accertare l’effettiva capacità della destinazione contestata a produrre gli inconvenienti a cui si volle ovviare. In presenza di tali clausole, per giudicare la liceità o meno di una un’immissione occorre tenere conto anche dei criteri stabiliti nel regolamento, anche alla luce delle peculiari caratteristiche del condominio, all’interno del quale potrebbero esservi unità immobiliari destinate ad abitazione civile ed altre ad attività commerciali. La giurisprudenza, dal canto suo, privilegia, tendenzialmente, le esigenze di vita connesse alla all’abitazione piuttosto che quelle commerciali. Va comunque evidenziato che le restrizioni di natura contrattuale alle facoltà di un condomino inerenti all’unità immobiliare di sua proprietà, contenute nel regolamento di condominio, sono legittime, purché formulate in modo espresso o comunque non equivoco, sì da non lasciare alcun margine d’incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni.

5.1.4. CASISTICA In applicazione dei suesposti principi, la Suprema corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito secondo cui la destinazione di un appartamento a studio medico dentistico non violava la norma del regolamento condominiale di natura contrattuale che vietava l’esercizio negli immobili di proprietà esclusiva di attività rumorose maleodoranti ed antigieniche, atteso che l’attività espletata non presentava in concreto tali caratteri. In altra circostanza, invece, la giurisprudenza ha ravvisato la violazione delle prescrizioni regolamentari con riferimento all’apertura di una birreria con musica dal vivo in presenza di un espresso divieto posto dal regolamento contrattuale di utilizzare porzioni di immobile di proprietà individuale per usi contrari alla tranquillità della collettività condominiale. Da ultimo, la Corte di Cassazione ha affermato la legittimità del divieto imposto al proprietario di un’unità immobiliare di adibirla a discoteca a causa delle inevitabili immissioni sonore che ne sarebbero scaturite; a ciò è giunta reputando ineccepibile l’interpretazione del giudice di merito di un regolamento contrattuale che faceva riferimento alla necessità di tutelare la «tranquillità», il «decoro» e la «sicurezza» del condominio.

6. LE IMMISSIONI ELETTROMAGNETICHE (C.D. ELETTROSMOG). La dottrina è solita distinguere tra emissione di radiazioni ionizzanti e non ionizzanti a seconda della capacità di rompere il legame atomico che lega le singole molecole. A loro volta le emissioni non ionizzanti si suddividono in emissioni ad alta e bassa frequenza. Le onde elettromagnetiche scaturiscono dall’azione combinata di due tipi di propagazione: onde elettriche e onde magnetiche. Le prime, a bassa frequenza, non hanno effetti patogenetici sul corpo umano; vi è incertezza, invece, sugli effetti delle emissioni a bassa frequenza delle onde elettromagnetiche ELF. La letteratura scientifica in materia di elettrosmog sostiene che non sia possibile affermare con assoluta certezza la pericolosità dell’emissione di onde elettromagnetiche a bassa frequenza ELF sul corpo umano, ma non ne esclude la potenzialità cancerogena.

6.1. LE NUOVE TECNOLOGIE: WI-FI La questione deve oggi fare i conti con il Wi-Fi e le comunicazioni senza fili che, se da un lato liberano gli utenti dal cavo e dalla rete fisica, dall’altro pongono una serie di interrogativi a cui la scienza ancora non sa rispondere. Il Wi-Fi – che nelle telecomunicazioni indica la tecnica e i relativi dispositivi che consentono a terminali di utenza di collegarsi tra loro attraverso una rete locale in maniera wireless (WLAN) basandosi sulle specifiche dello standard IEEE 802.11 – si estende dappertutto, non solo nei luoghi pubblici come scuole, centri storici, ed edifici, ma anche dentro casa per scelta degli stessi cittadini . I modem Wi-Fi, per operare il collegamento ad Internet e consentire la navigazione senza fili dal proprio computer di casa, si basano sulla trasmissione delle onde radio così come un qualsiasi cellulare; anche se con un raggio e una potenza di molto inferiori rispetto a un ripetitore radiomobile, espongono gli utenti a continui campi elettromagnetici locali.

6.2. LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO Proprio in ragione della possibilità di pericolosità e nocività per il corpo umano, è nato il protocollo sui principi di precauzione, trasfuso nella legge 22 febbraio 2001, n. 36 («Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici»), volto a contemperare, con riferimento ai fenomeni di elettrosmog, l’esigenza di mantenere le strutture produttive di tali emissioni con la minimizzazione dei rischi conseguenti ai fenomeni di inquinamento elettromagnetico.

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Tra le finalità della legge vi sono quelle di assicurare la tutela della popolazione dagli effetti dell’esposizione a determinati livelli di campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici ai sensi e nel rispetto dell’art. 32 Cost., di promuovere la ricerca scientifica per la valutazione degli effetti a lungo termine e l’attivazione delle misure di cautela, da adottare in applicazione del principio di precauzione di cui all’art. 174, par. 2, del Trattato istitutivo dell’Unione Europea.

6.3. L’INDIVIDUAZIONE DEI LIMITI L’individuazione dei limiti è stata poi operata con i decreti dell’8 luglio 2003, n. 11719 (per i campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) e n. 11723 (per gli elettrodotti). La legge non si arresta alla definizione di valore limite di esposizione, ma definisce anche il concetto, ben più importante, di valore di attenzione, in relazione alla finalità di valutazione degli effetti a lungo termine della esposizione. I limiti sono stabiliti in relazione ad entrambi i predetti valori di riferimento: il primo è definito ai fini della tutela della salute da effetti acuti, e non deve essere superato in alcuna condizione di esposizione della popolazione e dei lavoratori al fine di assicurare la tutela della salute; il secondo è stabilito a titolo di misura di cautela per la protezione da possibili effetti a lungo termine, eventualmente connessi con le esposizioni ai campi generati alle suddette frequenze all’interno di edifici adibiti a permanenze non inferiori a quattro ore giornaliere, al fine di promuovere la ricerca scientifica per la valutazione degli effetti a lungo termine, e soprattutto di attivare misure di cautela da adottare in applicazione del principio di precauzione.

6.3.1. IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE La legge n. 36 del 2001 si fonda sul principio comunitario di precauzione che distribuisce sui diversi livelli di governo la competenza dei vari enti per fronteggiare i pericoli derivanti dall’elettrosmog. I livelli di governo interessati sono tre: lo Stato interviene come ente con competenza esclusiva nella disciplina del fenomeno dell’inquinamento elettromagnetico ; le Regioni hanno il compito di individuare delle zone del territorio da destinare alle strutture produttive di onde elettromagnetiche (come, ad esempio, le stazioni radio base); i Comuni, infine, hanno i compiti di miglioramento delle condizioni di vita . La tutela sanitaria della popolazione dalle emissioni elettromagnetiche esula dalle competenze delle amministrazioni comunali, essendo affidata dalla legge quadro (n. 36/2001) al legislatore statale, il quale ha prescelto un criterio basato esclusivamente sui limiti di immissione delle irradiazioni nei luoghi particolarmente protetti . Si discostano da tale criterio i divieti di localizzazione e di installazione connessi alla mera destinazione urbanistica delle aree e le prescrizioni di distanze minime fisse, tra impianti e abitazioni, diverse dalle distanze ordinarie previste per gli edifici.

6.3.2. I LIMITI DI ESPOSIZIONE, VALORI DI ATTENZIONE E OBIETTIVI DI QUALITÀ La legge l. n. 36 del 2001, inoltre, detta una tripartizione tra limiti di esposizione, valori di attenzione e obiettivi di qualità. I limiti di esposizione sono quei valori di campo che non possono essere mai superati: il superamento determina una presunzione (relativa) di pericolosità. I valori di attenzione sono, invece, quei valori di campo che devono caratterizzare determinati ambienti dove la presenza dell’uomo è prolungata. Infine esistono gli obiettivi di qualità, che riguardano la progettazione di nuove linee elettriche in zone residenziali e che mirano ad abbassare i valori di campo stratificati negli anni.

6.4. L’OPERATIVITÀ DELL’ART. 844 C.C. (IL CONCETTO DI «SIMILI PROPAGAZIONI») Anche le immissioni che, pur non producendo un’immediata lesione all’essere umano, comportino comunque un pericolo concreto attuale che, in futuro, si estrinsechi, perfezionandosi, in una lesione, rientrano nella previsione dell’art. 844 c.c.. Tale disposizione, infatti, non si riferisce esclusivamente alle immissioni immediatamente avvertibili con i cinque sensi dell’essere umano, ma ricomprende anche quelle idonee comunque, anche solo in prospettiva (purché reale, e non solo putativa), in termini di rischio e non già di danno, ad influire – evidentemente, in modo lesivo – sull’organismo umano, come nel caso delle immissioni di campi elettromagnetici di bassa frequenza, generati da elettrodotti. Le immissioni di onde elettromagnetiche rientrano nel campo di applicabilità dell’art. 844 c.c., proprio perché il concetto di «simili propagazioni» si presta a ricomprendere anche le immissioni non immediatamente percepibili su un piano «organolettico». Il rischio prodotto da tali immissioni sull’organismo umano deve essere esistente, concreto e non meramente immaginario e, infine, superare una soglia di ragionevolezza, che, trattandosi di immissioni non organoletticamente avvertibili, deve essere determinato scientificamente.

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Infine, le valutazioni circa la relazione tra esposizione cronica ad onde elettromagnetiche ed eventualità lesive per la salute possono essere determinate facendo riferimento al concetto di possibilità-probabilità meramente statistica. Secondo una recente giurisprudenza di merito , in materia d’inquinamento elettromagnetico proprio l'esistenza di una specifica disciplina (Legge Quadro n. 36 del 2001) dimostra inequivocabilmente che, allo stato delle conoscenze scientifiche, l'esposizione ai campi elettrici, se siano superati determinati limiti massimi, è considerata fonte di possibili effetti negativi cosicché il soggetto danneggiato può esercitare, anche cumulativamente, l'azione inibitoria ex art. 844 c.c. - a tutela del diritto di proprietà e quindi di natura reale -, l'azione di responsabilità aquiliana e l'azione di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. .

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Giurisprudenza

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INDICE 1. Diritti reali atipici (autonomia contrattuale) 2. Violazione delle distanze tra costruzioni: risarcimento del danno 3. Distanze legali e condominio 4. Violazione delle distanze (immobile abusivo - risarcimento dei danni) 5. Immissioni: attualità e materialità 6. Immissioni: criteri di accertamento 7. Immissioni e locazione: responsabilità … 7.1. … e vizi della cosa locata 8. Immissioni: tutela inibitoria e risarcimento del danno 9. Immissioni e danno alla salute 10. Usucapione di posto auto 11. Usucapione di beni in comunione

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1. Diritti reali atipici (autonomia contrattuale)

MASSIMA In base al principio dell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 c.c., è consentito alle parti di sottrarsi alla regola della tipicità dei diritti reali su cose altrui attraverso la costituzione di rapporti meramente obbligatori. Pertanto, invece di prevedere l'imposizione di un peso su un fondo (servente) per l'utilità di un altro (dominante), in una relazione di asservimento del primo al secondo che si configura come una "qualitas fundi", le parti ben possono pattuire un obbligo personale, configurabile quando il diritto attribuito sia previsto per un vantaggio della persona o delle persone indicate nel relativo atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria. Cass. civ., sez. II, 9 ottobre 2014, n. 21356 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione delle norme in materia di transazione, e in particolare degli artt. 1965 e 1967 c.c., nonché vizi di motivazione. Sostiene che la Corte di Appello, nel ritenere che la scrittura privata del 1-10-1982 si limitava a specificare che rimaneva in piedi il precedente diritto, con le medesime caratteristiche, non ha proceduto ad un corretto esame della transazione contenuta in tale atto, con la quale, in particolare, la G. ha rinunciato alla servitù di passaggio sull'area cortiliva già esistente a favore del magazzino di sua proprietà, mantenendo, invece, il diritto di passaggio sullo stradello comunicante con la via (omissis), di cui ai precedenti rogiti Capello e Chiossi, ma con diversa regolamentazione, e cioè a favore non del magazzino, ma del fabbricato abitativo dei G. , come servitù reale e non semplicemente ad personam. Rileva che il giudice del gravame non ha considerato che, ove il diritto di passaggio avesse conservato le stesse caratteristiche di quello preesistente, la G. , con la transazione del 1-10-1982, non avrebbe conseguito alcun risultato apprezzabile, concludendo quindi una transazione priva di causa. 1a) Il motivo è inammissibile, in quanto prospetta una questione nuova, che non risulta trattata nella sentenza impugnata e la cui deduzione nelle anteriori fasi del giudizio non è stata nemmeno affermata dalla ricorrente. Si rammenta, al riguardo, che nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito (tra le più recenti v. 13-9-2007 n. 19164; Cass. 9-7-2013 n. 17041). Ne discende che, qualora una determinata questione giuridica non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della n censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare 'ex actis' la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 14-4-2011 n. 8504; Cass. 22540/06; Cass. 15-2-2010 n. 3468; Cass. 11-11-2008 n. 26953; Cass. 21-2-2006 n. 3664; Cass. 22-5-2006 n. 11922; Cass. 19-5-2006 n. 11874; Cass. 11-1-2006 n. 230). Nella specie, la ricorrente non ha dedotto di avere esplicitamente sollevato nel giudizio di merito la questione inerente alla natura transattiva della scrittura del 1-10-1982 e al riconoscimento della natura reale del diritto di passaggio per cui è causa quale contropartita per la rinuncia della G. alla servitù di passaggio sull'area condominiale. Tale questione, pertanto, implicando la necessità di indagini di fatto, non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità. 2) Con il secondo motivo la ricorrente si duole dell'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione riguardo alla natura del diritto di passaggio in questione. Deduce che la Corte di Appello, nel definire come personale la servitù in oggetto, ha tenuto conto dei vecchi e superati rogiti Capelli e Chiossi, omettendo un attento e completo esame della scrittura privata del 1-10-1982, dalla quale emerge chiaramente la natura reale di tale diritto. A sostegno della propria tesi, la ricorrente richiama, in particolare: - la clausola 2, che prevede la servitù di passaggio in questione non più a favore dei fratelli G. , ma a favore della 'proprietà G. ', cioè del fabbricato per civile abitazione (indicato con la lettera C nelle Note esplicative) descritto nella citata scrittura; - il n. 3 delle Note esplicative allegate alla scrittura in questione, nelle quali è espressamente previsto che i G. 'per sé ed aventi causa' conserveranno il diritto di passaggio pedonale per accedere al fabbricato C; espressione che esprime in modo inequivoco l'automatica trasmissibilità della servitù ogni qualvolta si verifichi una successione, anche inter vivos, nella proprietà del fabbricato, laddove, ove si trattasse di un diritto personale, per il suo trasferimento sarebbe necessario un atto ad hoc; - l'indicazione, nella parte finale della clausola 2), della quota di spesa per la manutenzione dello stradello, pari al 10% della spesa totale, a carico dei fratelli G. , in quanto 'proprietari del fondo dominante'; espressione, questa, chiara e tipica della servitù prediale; 2a) Il motivo è fondato.

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Deve premettersi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte,, in base al principio dell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 c.c., è consentito alle parti di sottrarsi alla regola della tipicità dei diritti reali su cose altrui attraverso la costituzione di rapporti meramente obbligatori. Pertanto, invece di prevedere l'imposizione di un peso su un fondo (servente) per l'utilità di un altro (dominante), in una relazione di asservimento del primo al secondo che si configura come una 'qualitas fundi', le parti ben possono pattuire un obbligo personale, configurabile quando il diritto attribuito sia previsto per un vantaggio della persona o delle persone indicate nel relativo atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria (Cass. 11-2-2014 n. 3091; Cass. 4-2-2010 n. 2651; Cass. 29-8-1991 n. 9232). Nel caso in esame, la Corte di Appello, nell'affermare che la scrittura privata del 1-10-1982 si limitava a specificare che rimaneva in piedi il precedente diritto, con le medesime caratteristiche, ha ritenuto che tale atto, al pari dei precedenti rogiti, prevedeva un mero diritto personale di passaggio in favore di singoli soggetti (nella specie, la G. ), escludendo che con esso sia stata costituita una servitù prediale e, quindi, un diritto reale in favore del fondo dell'attrice. Nel pervenire a tali conclusioni, peraltro, il giudice del gravame ha omesso di prendere in considerazione alcuni elementi, emergenti dal tenore letterale della scrittura privata in esame ed opportunamente richiamati dalla ricorrente, che sembrano, al contrario, deporre per la natura reale del diritto di passaggio in p questione. E invero, espressioni quali quelle usate nella clausola 2 (in cui si parla di servitù di passaggio in favore della 'proprietà G. ', e si fa specifico riferimento ai fratelli G. quali 'proprietari del fondo dominante'), e nel n. 3 delle allegate Note (in cui si fa cenno al diritto dei G. 'per sé ed aventi causa'), sembrano mal conciliarsi con l'idea di un diritto di passaggio di natura meramente obbligatoria, previsto esclusivamente per un vantaggio di determinate persone, ed appaiono piuttosto evocare l'idea di un peso imposto su un fondo (servente) per l'utilità o la maggiore comodità di un altro fondo (dominante). Il convincimento espresso dal giudice di appello riguardo alla natura personale del diritto di passaggio oggetto della scrittura privata del 1-10-1982, pertanto, non risulta sorretto da una motivazione esaustiva, avendo tralasciato la disamina di elementi testuali che, almeno in astratto, avrebbero potuto portare ad una decisione diversa in ordine alla ricostruzione dell'effettiva volontà perseguita dalle parti e che, pertanto, avrebbero meritato un maggiore approfondimento. 3b) In accoglimento del secondo motivo di ricorso, di conseguenza, s'impone la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna, la quale provvederà anche sulle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M. La Corte rigetta il primo motivo, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna.

2. Violazione delle distanze tra costruzioni: risarcimento del danno MASSIMA In tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva impostazione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria. Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2014, n. 16687 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione dell'art. 37, e art. 78, comma 2, del regolamento edilizio del comune di (OMISSIS), in relazione agli artt. 872 e 873 c.c.. Adducono, limitatamente al prefabbricato in lamiera, che l'interpretazione dell'art. 78, 2 co., del regolamento, quale operata dalla corte di merito, deve reputarsi errata sia sotto il profilo logico che letterale; che "non si riesce a capire la ragione per cui il legislatore locale si sarebbe preoccupato di vincolare al rispetto di una distanza minima, oltretutto considerevole, fabbricati appartenenti allo stesso proprietario" (così ricorso, pag. 5); che conseguentemente "dal combinato disposto degli artt. 37 e 78 r.e.c. si evince, quindi, che i fabbricati non abitabili ed accessori, come quello in questione, possono essere costruiti ad una distanza di m. 6,00 dai fabbricati

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principali ed anche sul confine. In tal caso devono però essere ad una distanza non inferiore a m. 10 dai fabbricati esistenti sui lotti contigui" (così ricorso, pag. 6); limitatamente alla sopraelevazione fuori terra, che ha errato il secondo giudice nel ritenere applicabile l'art. 37 del r.e.c., giacché, viceversa, "la regola di riferimento avrebbe dovuto essere, trattandosi anche in questo caso, comunque, di locale accessorio non abitabile (la sopraelevazione è conseguente all'innalzamento del solaio del fabbricato interrato), quella prevista dall'art. 78, comma 2, R.E.... per le stesse considerazioni svolte con riguardo al fabbricato in lamiera" (così ricorso, pag. 8). Il motivo è destituito di fondamento. Invero va condivisa l'interpretazione delle disposizioni del regolamento edilizio del Comune di (OMISSIS), segnatamente della previsione di cui all'art. 78, comma 2, quale operata dalla corte di merito. E ciò anche alla luce delle più che plausibili argomentazioni di parte controricorrente di cui alle pagine 9 e ss. del controricorso. Va in primo luogo evidenziato che alla stregua della medesima prospettazione dei ricorrenti è fuor di contestazione nella fattispecie la natura accessoria sia del fabbricato in lamiera ad uso autorimessa sia della sopraelevazione fuori terra (cfr. ricorso, pagg. 6 e 8). Va in secondo luogo evidenziato che il vincolo di accessorietà tra due beni, propriamente la relazione di subordinazione funzionale che lega un bene (accessorio) ad un altro bene (principale), postula che il proprietario della cosa principale abbia la piena disponibilità anche della res accessoria (cfr. Cass. 12.12.1977, n. 5386; Cass. 30.7.1990 n. 7655). Su tale scorta si osserva, per un verso, che è senz'altro corretto in chiave esegetico - letterale intendere l'espressione "detti fabbricati", di cui all'art. 78, comma 2, del regolamento edilizio, come riferita ai fabbricati tra in cui intercorra vincolo di correlazione tra accessorio e principale. Si osserva, per altro verso, che è senz'altro corretto in chiave logico ù esagetica reputare che la correlazione tra accessorio e principale al medesimo art. 78, comma 2, contemplata, presupponga l'ubicazione e del manufatto principale e del manufatto o accessorio sul medesimo lotto ovvero l'appartenenza al medesimo proprietario, giacché in tal guisa risulta integrata la precondizione della piena disponibilità della res accessoria da parte del proprietario della res principale. Si osserva, per altro verso ancora, che, conseguentemente, è senz'altro corretto il postulato esegetico che parte controricorrente ha inteso trarre (cfr. controricorso, pag. 11) ovvero il corollario secondo cui è da escludere che la nozione di fabbricati principali di cui all'art. 78, comma 2, del regolamento ricomprenda "anche i fabbricati siti nel fondo del vicino" (così controricorso, pag. 11). D'altro canto, all'interrogativo che parte ricorrente prospettata ("non si riesce a capire la ragione per cui il legislatore locale...": così ricorso, pag. 5), ben può replicarsi col rilievo, del tutto congruo, di parte controricorrente: "nell'ambito dell'art. 78 ci si sta muovendo nell'ambito di una deroga alla regola generale e che, quindi, in quanto tale (cioè in quanto deroga), può essere logico e ragionevole pensare che essa possa essere consentita e prevista solo in presenza di determinate condizioni" (così controricorso pag. 11). Non ha, dipoi, assolutamente ragion d'esser l'incongruenza che i ricorrenti hanno inteso prefigurare ed alla cui stregua, "ove si accolga l'interpretazione seguita dal Giudice di seconda istanza, la precisazione contenuta nell'art. 78, comma 2, ut. parte, R.E.C., per il caso di fabbricati costruiti sul confine, sarebbe superflua, non facendo, altro che ribadire il limite generale già fissato dall'art. 37 del medesimo regolamento" (così ricorso, pag. 6). Al riguardo è bastevole reiterare il rilievo del controricorrente, a tenor del quale "la disposizione di cui all'ultima parte del secondo comma dell'art. 78, non è inutile, in quanto si pone come deroga alla regola generale di cui all'art. 37, comma 3, R.E. dettata per le costruzioni poste a confine: in sostanza, in virtù di tale disposizione, viene consentito solo ai fabbricati accessori... di poter essere costruiti a confine, senza dover ricercare il consenso e l'impegno del vicino... a sua volta a costruire a confine con progetto edilizio unitario" (così controricorso, pag. 12). Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), il vizio di omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, riguardante "la questione della rilevanza del mancato rispetto delle distanze dal confine previste dalla licenza edilizia del fabbricato del sig. Z." (così ricorso, pag. 10). Adducono che hanno invano fatto rilevare nel corso del giudizio di appello che l'edificio di controparte risulta esser diversamente posizionato rispetto alla licenza edilizia a tempo debito rilasciata a Z.L.; che, "ove controparte avesse costruito l'edificio rispettando i limiti della licenza edilizia, la distanza con il prefabbricato in lamiera ad uso autorimessa degli odierni ricorrenti sarebbe stata... non di m. 8,30, ma superiore a m. 10" (così ricorso, pag. 11), quindi conforme all'art. 37 del r.e.c.. Il motivo è immeritevole di seguito. É sufficiente a tal proposito reiterare l'insegnamento di questa Corte di legittimità alla cui stregua, nelle controversie tra privati derivanti dall'esecuzione di opere edilizie non conformi alle prescrizioni dei regolamenti edilizi o dei piani regolatori comunali viene in discussione sempre la lesione di diritti soggettivi, configurino o meno, le disposizioni violate, norme integrative del codice civile in materia di rapporti di vicinato (con la sola differenza che nel primo caso la tutela del privato giunge sino alla rimozione dell'opera costruita contra legem, mentre nel secondo caso essa è limitata al risarcimento del

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danno); cosicché, ai fini della decisione delle dette controversie, ciò che rileva è soltanto la violazione delle suddette norme di edilizia, essendo invece irrilevante in linea di principio (salva l'ipotesi delle cosiddette licenze in deroga) la esistenza o la legittimità degli atti amministrativi (licenze, concessioni, ecc.) che condizionano in concreto l'esercizio dello ius aedificandi sul piano del diritto pubblico, come pure la conformità delle costruzioni a tali atti (cfr. Cass. 28.11.1984, n. 6197; cfr. ancora Cass. 30.3.2006, n. 7563, secondo cui, in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, va inteso nel senso che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l'aspetto formale dell'attività costruttiva). Con il terzo motivo i ricorrenti deducono "la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3" (così ricorso, pag. 12). Adducono che "il Tribunale non avrebbe dovuto accogliere la domanda proposta da Z.L. di risarcimento danni, avendo egli espressamente indicato e delimitato la causa petendi nello stillicidio delle acque piovane, conseguente all'innalzamento del piano di campagna" (così ricorso, pag. 12) e ciò pur all'esito delle conclusioni rassegnate dal c.t.u.; che nondimeno la corte d'appello ha confermato la statuizione di prime cure; che in tal guisa ha arbitrariamente interpretato in via estensiva le conclusioni formulate ex adverso, condannando essi ricorrenti "al risarcimento dei danni in base a fatti diversi rispetto a quelli espressamente dedotti e allegati dall'attore, incorrendo così in vizio di ultra e/o extra petizione" (così ricorso, pag. 13). Con il quarto motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, riguardante "la riconducibilità, sotto il profilo causale, degli assestamenti del terreno di proprietà del sig. Z. anche al riversamento delle acque del lotto contiguo, provocato dall'innalzamento del piano di campagna oltre la quota del muretto di confine" (così ricorso, pag. 17). Adducono che il c.t.u. "ha, chiaramente, ricollegato l'avvallamento della pavimentazione del sig. Z. esclusivamente... agli scavi per la realizzazione del piano interrato" (così ricorso, pag. 17); che, "anche ammesso e non concesso che gli assestamenti del terreno siano stati provocati dal riversamento delle acque dal lotto contiguo, è stato accertato che al verificarsi di tale situazione ha contribuito lo stesso danneggiato in quanto il danno lamentato non si sarebbe prodotto ove la pavimentazione del cortile di quest'ultimo avesse presentato una corretta pendenza verso l'esterno" (così ricorso, pag. 18). Il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono strettamente connessi; se ne giustifica la contestuale disamina. Ambedue i motivi sono comunque destituiti di fondamento. Si evidenzia che la corte distrettuale ha opinato in primo luogo nel senso che l'interpretazione del tenore complessivo dell'atto di citazione induceva "a considerare la domanda attrice di primo grado estesa al risarcimento dei danni causati dalla esecuzione delle opere realizzate sul lotto contiguo senza il rispetto delle norme urbanistiche, a prescindere dall'espresso riferimento fatto nelle conclusioni allo stillicidio delle acque piovane" (così sentenza d'appello, pag. 13). La riferita affermazione è appieno conforme all'insegnamento di questo giudice del diritto. Questa Corte di legittimità difatti spiega che il concreto significato e l'effettiva portata di una domanda giudiziale debbono desumersi dall'esame e dalla comprensione complessivi dell'atto di relativa proposizione, in ogni sua parte ed in ogni sua necessaria, anche se non espressa, implicazione, di presupposti e di conseguenze, dovendo il giudice, per il corretto adempimento dell'obbligo di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, imposto dall'art. 112 c.p.c., identificare, con ogni adeguato strumento ermeneutico, la reale volontà e intenzione della parte e lo scopo da essa perseguito mediante il giudizio (cfr. Cass. 21.11.1983, n. 6942; cfr. altresì Cass. 22.3.1984, n. 1922). D'altro canto, l'interpretazione della domanda rientra nei compiti del giudice del merito ed è sottratta al sindacato di legittimità se correttamente motivata (cfr. Cass. sez. lav. 26.5.1995, n. 5829). In questi termini si rimarca, da un lato, che col terzo motivo i ricorrenti non hanno addotto un vizio di motivazione: hanno propriamente inteso censurare ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c.; dall'altro - e pur a prescindere da tal ultimo rilievo - che l'eventuale, possibile incongruenza della motivazione assunta, in parte qua agitur, dalla corte territoriale resterebbe, nella prospettazione di F.G. e T.G., confinata nei limiti angusti ed apodittici dell'avverbio "arbitrariamente" che figura a pagina 13 del ricorso. Si evidenzia che la corte distrettuale ha opinato in secondo luogo nel senso che, sebbene il c.t.u. avesse "individuato negli scavi per la realizzazione del piano interrato l'origine prima dell'avvallamento della pavimentazione del cortile di proprietà Z., non pare... infondato ritenere che a determinare gli assestamenti del terreno abbia contribuito anche il riversamento delle acque dal lotto contiguo, provocato dall'innalzamento del piano di campagna oltre la quota del muretto di confine" (così sentenza d'appello, pag. 14).

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Si ribadisce, innanzitutto, che la corte bolognese, mercé la corretta esegesi della domanda risarcitoria formulata dall'attuale controricorrente, ha correlato eziologicamente i danni da costui sofferti tout court alla esecuzione delle opere realizzate dagli attuali ricorrenti nel proprio fondo in violazione delle norme urbanistiche. Cosicché la valenza delle ragioni addotte dai ricorrenti col quarto motivo si stempera significativamente. In ogni caso si rimarca che tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima, od in via indiretta e remota, salvo il temperamento di cui al capoverso dell'art. 41 c.p., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l'evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere (cfr. Cass. 16.6.1984, n. 3609). In quest'ottica la circostanza che la corte distrettuale abbia eziologicamente ascritto i danni sofferti da Z.L. altresì e segnatamente al "riversamento delle acque dal lotto contiguo" di proprietà dei ricorrenti, non è - in rapporto al nesso di causalità - per nulla censurabile. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 2, n. 5), il vizio di insufficiente e/o illogica e/o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, riguardante "il diniego alla sostituzione della reintegrazione in forma in forma specifica con la riparazione per equivalente" (così ricorso, pag. 19). Adducono che i motivi espressi al riguardo dal giudice d'appello risultano "oltremodo generici ed apodittici" (così ricorso, pag. 19); che "non è dato sapere... per quali ragioni la natura delle violazioni accertate sarebbe di ostacolo alla riparazione per equivalente che, viceversa, alla luce degli elementi di fatto, appare concretamente attuabile" (così ricorso, pag. 20); che "del tutto oscuro rimane, poi, il generico riferimento... al comportamento processuale degli appellanti, dato che agli stessi non viene mosso alcun rilievo specifico che appaia come ostacolo al risarcimento per equivalente" (così ricorso pag. 20). Il motivo non merita seguito. Al riguardo la corte distrettuale ha reputato che, "data la natura delle violazioni accertate, il comportamento processuale degli appellanti e le ragioni di tutela (condizioni di salubrità ed igiene) poste a fondamento delle disposizioni in materia di distanze legali tra edifici, non si ravvisano i presupposti per disporre la sostituzione della reintegrazione in forma specifica, disposta in primo grado, con la riparazione per equivalente, come genericamente richiesto dagli appellanti in comparsa conclusionale" (così sentenza d'appello, pag. 12). Si osserva, in primo luogo, che le norme che nella fattispecie risultano violate, sono senza dubbio integrative delle disposizioni del codice civile. Cosicché è senz'altro operante l'insegnamento di questa Corte secondo cui in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva impostazione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria (cfr. Cass. 16.12.2010, n. 25475; Cass. 26.7.1985, n. 4353, secondo cui alla distinzione tra le norme, che integrano o modificano le disposizioni del codice sui rapporti di vicinato, dalle norme che, se pure dirette incidentalmente ad assicurare una migliore coesistenza e una più razionale utilizzazione delle proprietà private, tendono principalmente a soddisfare interessi di orine generale, come quelli inerenti alle esigenze igieniche e alla tutela dell'estetica edilizia (artt. 871 e 872 c.c.) corrisponde una diversa regolamentazione giuridica, nel senso che la violazione delle norme del primo tipo, che di solito riguarda la distanza nelle costruzioni, comporta non solo il risarcimento del danno a favore di colui che abbia subito pregiudizio, ma anche l'eliminazione dello stato di cose abusivamente creato, mentre la violazione di quelle del secondo tipo attribuisce soltanto alla pubblica amministrazione il potere di imporne l'osservanza coattiva, di modo che al privato viene riconosciuto, in caso di violazione, il solo diritto al risarcimento del danno, non anche quello della riduzione in pristino). Si osserva, in secondo luogo, che l'art. 2058 c.c., comma 2, ove è prevista la possibilità di ordinare il risarcimento del danno per equivalente anziché la reintegrazione in forma specifica, in caso di eccessiva onerosità di quest'ultima, non trova applicazione con riferimento alle azioni intese a far valere un diritto reale, la cui tutela esige la rimozione del fatto lesivo, come nel caso della domanda di riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso (cfr. Cass. 17.2.2012, n. 2359; cfr. anche Cass. 25.5.2012, n. 8358, secondo cui l'art. 2933 c.c., comma 2, che limita l'esecuzione forzata degli obblighi di non fare, nel senso di vietare la distribuzione della cosa che sia di pregiudizio all'economia nazionale, deve intendersi riferibile alle sole fondi di produzione o di distribuzione della ricchezza dell'intero paese, e, pertanto, non è invocabile al fine di evitare lo spostamento di una costruzione alla distanza prescritta dalle norme in materia, comportando, invece, la persistenza di detta costruzione una lesione di pur rilevanti interessi individuali). Nei termini esposti era ed è indubitabile, quindi, l'insussistenza dei presupposti perché fosse e sia

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disposto il risarcimento per equivalente. Con il sesto motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), il vizio di erronea e/o illogica e/o contraddittoria motivazione su un fatto e controverso e decisivo per il giudizio, riguardante la condanna alle spese di causa. Adducono che il giudice di primo grado aveva solo in parte accolto le domande di parte attrice; che nella specie ricorreva, "quindi, un'ipotesi di soccombenza reciproca, come conferma il fatto che le spese liquidate a favore del C.T.U. sono state ripartite in parti uguali fra le parti" (così ricorso, pag. 23); che, dunque, "appare contraddittorio che la Corte territoriale abbia confermato la sentenza di primo grado che, dopo aver compensato le spese della C.T.U., ha condannato gli odierni ricorrenti al pagamento integrale delle spese di lite" (così ricorso, pag. 23). Il motivo è inammissibile. Ovviamente rileva il dettato dell'art. 92 c.p.c., nella formulazione antecedente alla novella di cui alla L. n. 263 del 2005, (applicabile ai procedimenti instaurati successivamente all'1.3.2006) ed alla novella di cui alla L. n. 69 del 2009, (applicabile ai procedimenti instaurati successivamente al 4.7.2009). In questo quadro è sufficiente reiterare l'insegnamento di questa Corte, secondo cui in tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato di legittimità è limitato alla violazione del principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, nella ipotesi di soccombenza reciproca, esula da tale sindacato e rientra, invece, nei poteri del giudice del merito, la valutazione dell'opportunità di disporre o meno la compensazione, con la conseguenza che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale si contesti il provvedimento del giudice che abbia posto l'onere delle spese a carico totale della parte pur non totalmente soccombente (cfr. Cass. 11.11.1996, n. 9840; cfr., altresì Cass. sez. un. 15.7.2005, n. 14989, secondo cui in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l'eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione). Il rigetto del ricorso giustifica la condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali ed accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 maggio 2014. Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2014

3. Distanze legali e condominio MASSIMA Le norme sulle distanze legali, rivolte fondamentalmente a regolare rapporti fra proprietà contigue e separate, sono applicabili anche nei rapporti tra i condomini di un edificio condominiale quando siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative alle cose comuni (art. 1102 c.c.), cioè quando l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto prevalgono le norme sulle cose comuni con la conseguente inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che nel condominio degli edifici e nei rapporti fra singolo condomino e condominio sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime. In considerazione della peculiarità del condominio degli edifici, caratterizzato dalla coesistenza di una comunione forzosa e di proprietà esclusive, il godimento dei beni, degli impianti e dei servizi comuni è in funzione del diritto individuale sui singoli piani in cui è diviso il fabbricato: dovendo i rapporti fra condomini ispirarsi a ragioni di solidarietà si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, dovendo verificarsi necessariamente alla stregua delle norme che disciplinano la comunione - che l'uso del bene comune da parte di ciascuno sia compatibile con i diritti degli altri. Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2011, n.22092 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto nonché omessa, insufficiente contraddittoria motivazione sul punto 'sicurezza' dei ricorrenti, censurano la decisione gravata che, nella valutazione della gerarchia dei valori condominiali, aveva ritenuto secondario il problema della

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sicurezza evidenziato da essi ricorrenti rispetto alla funzione di protezione e riparo della porta finestra del piano terra, che era stato invece considerato primario mentre tale sarebbe stato il problema della sicurezza e la tutela dell'integrità fisica e patrimoniale degli attori. Ugualmente assurdo doveva considerarsi il ragionamento della Corte laddove aveva ritenuto che nelle lastre in policarbonato doveva individuarsi il piano di appoggio per accedere all'appartamento degli attori quando in realtà la base di appoggio era la struttura metallica in acciaio infissa nel muro e su cui poggiava il policarbonato. 1.2. Con il secondo motivo il ricorrenti, lamentando violazione dell'art. 907 cod. civ. ed errata interpretazione dell'art. 1102 cod. civ. nonché irrazionale omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censurano la sentenza gravata che con motivazione innovativa e inaccettabile aveva ritenuto che nell'ambito condominiale le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione solo in quanto compatibili. Erroneamente era stato ritenuto che il valore primario della protezione dagli agenti atmosferici dovesse sacrificare nell'ambito condominiale il diritto di veduta goduto dagli attori, i quali avevano diritto all'osservanza delle prescrizioni dettate dall'art. 907 cod. civ. anche con riferimento a una pensilina che non deve impedire il diritto di veduta dei condomini, secondo quanto statuito dalla Suprema Corte. Tenuto conto che la pensilina, nella parte in cui. è costituita con materiale trasparente, è destinata a opacizzarsi rapidamente, non si comprendeva come la stessa potesse considerarsi non ostativa all'esercizio della veduta. 2. I motivi - che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente - sono infondati. La sentenza impugnata è innanzitutto conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui le norme sulle distanze legali, rivolte fondamentalmente a regolare rapporti fra proprietà contigue e separate, sono applicabili anche nei rapporti tra i condomini di un edificio condominiale quando sia compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative alle cose comuni (art. 1102 c.c.),cioè quando l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto prevalgono le norme sulle cose comuni con la conseguente inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che nel condominio degli edifici e nei rapporti fra singolo condomino e condominio sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (Cass. 6546/2010; 7044/2004; 8978/2003; 15394/2000; 9995/1998; 10704/1994). Al riguardo occorre ricordare i principi che in modo particolare sono stati chiariti e precisati da Cass. 14 aprile 2004 n. 7044 (di recente integralmente ripresi e riportati da Cass. 6546/2010). Secondo Cass. 7044/ 2004 n. 7044, in considerazione della peculiarità del condominio degli edifici, caratterizzato dalla coesistenza di una comunione forzosa e di proprietà esclusive, il godimento dei beni, degli impianti e dei servizi comuni è in funzione del diritto individuale sui singoli piani in cui è diviso il fabbricato: dovendo i rapporti fra condomini ispirarsi a ragioni di solidarietà si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, dovendo verificarsi necessariamente alla stregua delle norme che disciplinano la comunione - che l'uso del bene comune da parte di ciascuno sia compatibile con i diritti degli altri (Cass. 8808/2003). Trova perciò applicazione la disciplina, che regolando in modo particolare e specifico, il godimento e l'utilizzazione dei beni comuni, ha natura speciale rispetto alla normativa che, nell'ambito dei rapporti di vicinato, stabilisce le limitazioni legali fra proprietà confinanti, che sono imposte con carattere di reciprocità indipendentemente dalla verifica di un pregiudizio derivante dalla loro inosservanza. Al riguardo occorre fare riferimento quindi all'art. 1102 cod. civ. - applicabile, ai sensi dell'art. 1139 cod. civ., al condominio - che, nello stabilire i poteri e i limiti di ciascun partecipante nell'uso dei beni comuni, fissa al tempo stesso le condizioni di liceità della condotta del comunista. Con riferimento al condominio la norma consente, infatti, la più intensa utilizzazione dei beni comuni in funzione del godimento della proprietà esclusiva, purché il condomino non alteri la destinazione del bene e non ne impedisca l'altrui pari uso. In definitiva l'estensione del diritto di ciascun comunista trova il limite nella necessità di non sacrificare ma di consentire il potenziale pari uso della cosa da parte degli altri partecipanti (Cass. 10453/2001). Pertanto, qualora - attraverso la valutazione delle esigenze e dei diritti degli altri partecipanti alla comunione - il giudice verifichi che l'uso della cosa comune sia avvenuto nell'esercizio dei poteri e nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art.1102 cod. civ. a tutela degli altri comproprietari, deve ritenersi legittima l'opera seppure realizzata senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti fra proprietà contigue e che trovano applicazione nel condominio, sempreché la relativa osservanza sia compatibile con la struttura dell'edificio condominiale, in cui le singole proprietà coesistono in unico edificio. Infatti la prevalenza della norma speciale, dettata in materia di condominio, determina l'inapplicabilità di quella generale, quando i diritti o le facoltà da questa previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal partecipante alla comunione sulla base dell'art. 1102 e. e: in considerazione del rapporto strumentale di cui si è detto fra l'uso del bene comune e la proprietà esclusiva, che caratterizza il condominio, non sembra ragionevole individuare a carico del diritto del singolo condomino - che si serva delle parti comuni in funzione del migliore e più razionale godimento del bene di proprietà individuale - limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al

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contemperamento degli interessi dei partecipanti alla comunione secondo i parametri stabiliti dalla specifica disciplina al riguardo dettata dall'art. 1102 cod. civ.. Nella specie, la sentenza ha compiuto, con motivazione immune da vizi logici, la verifica della compatibilità dell'uso più intenso della cosa comune con i limiti sanciti dall'art. 1102 cod. civ.. Ed invero, i Giudici non hanno affatto considerato prevalente la funzione di protezione delle pensiline rispetto al problema della sicurezza posto dagli attori avendo escluso che i manufatti realizzati dai convenuti potessero essere utilizzati da malintenzionati per accedere all'appartamento degli attori: hanno ritenuto che soltanto la lastra in policarbonato in astratto fosse utilizzabile come base di appoggio ma che in concreto per la sua fragilità non potesse costituire un piano idoneo per accedere all'appartamento degli attori. D'altra parte, è stata anche esclusa la lesione del diritto di veduta, stante il materiale trasparente di cui erano costituite le pensiline, che le stesse fossero state mantenute in condizioni di pulizia dai predetti convenuti in adempimento degli obblighi loro imposti a garanzia di una civile convivenza e di un corretto svolgimento dei rapporti di vicinato. Orbene, le doglianze sollevate dai ricorrenti si sostanziano nella censura degli apprezzamenti compiuti dalla sentenza impugnata in ordine agli accertamenti di fatto - che sono riservati al giudice di merito - circa l'idoneità dei manufatti a creare una condizione di insicurezza o a ledere il diritto di veduta. Al riguardo, va sottolineato che il vizio deducibile ai sensi dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. deve consistere in un errore intrinseco al ragionamento del giudice che deve essere verificato in base al solo esame del contenuto del provvedimento impugnato e non può risolversi nella denuncia della difformità della valutazione delle risultanze processuali compiuta dal giudice di merito rispetto a quella a cui, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuti pervenire: in sostanza, ai sensi dell'art. 360 n. 5 citato, la (dedotta) erroneità della decisione non può basarsi su una ricostruzione soggettiva del fatto che il ricorrente formuli procedendo a una diversa lettura del materiale probatorio, atteso che tale indagine rientra nell'ambito degli accertamenti riservati al giudice di merito ed è sottratta al controllo di legittimità della Cassazione che non può esaminare e valutare gli atti processuali ai quali non ha accesso, ad eccezione che per gli errores in procedendo (solo in tal caso la Corte è anche giudice del fatto). Il ricorso va rigettato. Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti, risultati soccombenti.

P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 2.000,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 1.800,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

4. Violazione delle distanze (immobile abusivo - risarcimento dei danni) MASSIMA In tema di rapporti di vicinato, l'originaria abusività di un immobile per difformità dalla concessione, oggetto di successiva sanatoria, non osta al risarcimento del danno allo stesso cagionato da una illecita costruzione su terreno confinante, atteso che l'immobile sanato, non essendo più incommerciabile, è in grado di risentire della correlata diminuzione di valore commerciale. Cass. civ., sez. II, 11 settembre 2013, n. 20849 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 61/18 N.T.A. del P.d.F. del Comune di Terlizzi e degli artt. 872, 2043 e 1223 e ss. c.c. richiamati dall'art. 2056 c.c. e sostiene che la Corte di Appello avrebbe erroneamente applicato le norme urbanistiche (art. 61/18 N.T.A. del P.d.F. del Comune di Terlizzi con riferimento alle zone tipizzate E2 - verde agricolo) e che, se le norme fossero state correttamente applicate, la Corte di Appello avrebbe dovuto ritenere, diversamente da quanto ritenuto, che la casa delle attrici non poteva essere realizzata ed era abusiva perché costruita in violazione delle norme suddette, con la conseguenza che non poteva essere liquidato il danno subito per la perdita di valore di una costruzione abusiva. In particolare, il ricorrente sostiene che la previsione delle N.T.A., secondo la quale potevano essere costruite anche case isolate e chalet, doveva essere coordinata con il vincolo dell'intero territorio a verde agricolo e con la previsione dell'ultima parte della norma locale che, pur ammettendo parziali utilizzazioni residenziali da concentrarsi in piccoli nuclei, impone ai proponenti la lottizzazione, di utilizzare la parte di terreno non utilizzata per la destinazione residenziale alla destinazione agricola. Formulando il quesito di diritto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione temporis, chiede:

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- se l'art. 61/18 N.T.A. del P.d.F. del Comune di Terlizzi, nella parte in cui recita "In tale zona sono permesse costruzioni inerenti all'attività agricola e allo sviluppo dell' agricoltura in generale... omissis nonché case isolate, chalet, casette con annesso vano per l'attività artigiana..." imprime a tutti gli immobili a realizzarsi in quella zona una finalizzazione di carattere agricolo; se la violazione della richiamata norma sia compatibile con gli artt. 872, 2043, 1233 e 2056 c.c.. 1.1 Con riferimento al secondo quesito occorre premettere che la giurisprudenza di questa Corte ha effettivamente affermato che il danno subito da un immobile costruito abusivamente "ancor prima che ingiusto è inesistente in quanto il bene abusivo non è suscettibile di essere scambiato sul mercato" (Cass. 21/2/2011 n. 4206); questa giurisprudenza richiama principi in tema di espropriazione per pubblica utilità secondo i quali gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria (Cass. 14/12/2007 n. 26260). Nella fattispecie, tuttavia, tali principi non sono applicabili in quanto le attrici avevano ottenuto la concessione in sanatoria (come documentato nel giudizio di merito) perché la costruzione era conforme alle norme urbanistiche. Dal motivo è tuttavia desumibile l'ulteriore affermazione di una persistente illegittimità della costruzione in considerazione del fatto che nessuna concessione poteva essere assentita attesa la destinazione agricola della zona all'interno della quale la costruzione era stata realizzata e in tal senso deve essere interpretata la censura di falsa applicazione delle N.T.A. del Comune di Terlizzi. Anche sotto questo profilo la censura è infondata perché, in via generale, la destinazione agricola della zona non era incompatibile con una destinazione residenziale se rispettosa di determinati presupposti sia connessi alla cubatura, sia connessi al tipo di costruzione e al suo impatto sul territorio (case isolate, come appunto quella dell'attrice, chalet, casette con annesso vano per le attività artigiane) come correttamente evidenziato dalla Corte di Appello che, con condivisibile motivazione, ha rilevato che la tipizzazione impressa dallo strumento urbanistico non resta compromessa dalla costruzione di case isolate. Questa considerazione di carattere più generale trova riscontro nella specifica previsione della possibilità di costruire case isolate, chalet e casette con annesso vano per le attività artigiane, attività che, quindi non sono agricole, con ciò confermandosi la valutazione in termini non già di esclusività della destinazione agricola, ma di regola, suscettibile di deroghe, purché mantenute negli stretti limiti consentiti dalla N.T.A, conclusione ulteriormente avvalorata dalla prevista possibilità di "insediamenti residenziali purché concentrati in piccoli nuclei". In conclusione, l'interpretazione della Corte di Appello appare conforme alla lettera e alla ratio delle norme in questione, oltre che confermata dalla successiva concessione in sanatoria, mentre appare contrastante con la ratio delle previsioni urbanistiche, oltre che irragionevole, la pretesa di escludere in assoluto una limitata possibilità di costruzioni solo residenziali, quella proposta dal ricorrente. La normativa come correttamente interpretata dal giudice di appello e la concessione in sanatoria esclude, in ogni caso, la rilevanza della censura ai fini del rigetto della domanda risarcitoria, posto che l'immobile, in quanto sanato, non può più essere considerato incommerciabile e pertanto neppure l'iniziale abusività scaturente non dalle previsioni urbanistiche, ma dalla difformità dall'iniziale concessione, ormai non più sussistente, potrebbe pregiudicare il diritto al risarcimento per il diminuito valore commerciale. Pertanto al primo quesito occorre dare risposta contraria a quella auspicata dal ricorrente e il primo motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto infondato. 2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l'omessa motivazione e la violazione e falsa applicazione delle norme civili sul risarcimento del danno. Il ricorrente sostiene di avere dedotto con l'appello che l'immobile era stato solo parzialmente condonato e nel ricorso aggiunge che dagli atti dovrebbe risultare che non sarebbe stato condonato quanto ad una superficie di 50 metri quadrati tenuto conto dell'estensione del terreno e dell'indice di fabbricabilità che avrebbe consentito la realizzazione di una cubatura minore di quella realizzata, mentre le superfici oggetto della richiesta di condono erano inferiori rispetto a quelle realizzate. Con riferimento al vizio di motivazione, il ricorrente sostiene che la Corte di Appello non avrebbe motivato sulla censura di condono solo parziale; con riferimento alla violazione di norme, sostiene che la costruzione, in quanto ancora abusiva, non avrebbe valore di mercato essendo incommerciabile. Formulando i quesiti di diritto chiede: di accertare se l'eccedenza di cubatura della costruzione rispetto all'indice di fabbricabilità della zona e la mancanza del condono edilizio rendano abusiva e quindi illecita la costruzione; di stabilire se la parziale o totale illiceità della costruzione incida sul valore di mercato. 2.1 Il motivo, quanto al vizio di omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 è inammissibile perché, dopo l'affermazione che la censura era stata sollevata con il motivo di appello senza trovare evasione, la censura doveva essere proposta non come vizio di motivazione, ma come omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c.. Inoltre il motivo muove dal presupposto dell'esistenza di documenti acquisiti al processo (concessioni edilizie e concessioni in sanatoria, ossia provvedimenti amministrativi che, tra l'altro, non sono tecnicamente equipollenti al condono che a differenza della sanatoria rende possibile sanare anche interventi non permessi dalla normativa vigente) rispetto ai quali non viene indicato con specificità il contenuto; non è a tal fine sufficiente la semplice allegazione della consulenza tecnica di parte che costituisce semplice allegazione difensiva, priva, come tale di

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autonomo valore probatorio (cfr., ex multis, Cass. 29/1/2010 n. 2063). Infine, il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza in quanto non risulta in quali termini la censura come oggi proposta sia stata formulata con l'atto di appello, posto che l'obbligo di motivazione del giudice di appello è limitato (ex art. 342 c.p.c.) a quanto specificamente dedotto con il motivo di appello non essendo sufficiente affermare che l'immobile non era stato integralmente condonato quando il primo giudice aveva invece affermato che l'abuso edilizio era stato, invece, sanato. I quesiti di diritto muovono da un presupposto, in fatto (l'eccedenza di cubatura rispetto a quanto condonato e la conseguente parziale o totale illiceità della costruzione) non corrispondente agli accertamenti in fatto dei giudici del merito e, quindi, sono inammissibili, come è inammissibile il motivo nei termini in cui è formulato, perché non attingono la ratio decidendi della sentenza impugnata che ha accertato l'intervenuta sanatoria. Il motivo deve pertanto essere rigettato. 3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 47 del 1985, artt. 31 e ss. e la mancata applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41 quater, come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 16, nonché degli artt. 872, 2043, 1223 e ss. e 2056 c.c.. Il ricorrente sostiene di avere ottenuto non già una concessione in sanatoria, ma una concessione in deroga ai sensi della L. n. 1150 del 1942, art. 41 quater, come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 16, ancorché qualificata come concessione in sanatoria perché rilasciata dopo la realizzazione dei capannoni; tale concessione in deroga avrebbe mutato la destinazione di uso rendendo così legittima la sua costruzione. Formulando il quesito di diritto chiede se la concessione di in deroga di cui alla L. n. 1150 del 1942, art. 41 quater, come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 16 esplichi i suoi effetti anche nei rapporti tra privati diversamente dalla concessione in sanatoria di cui alla L. n. 47 del 1985. 3.1 Il motivo è inammissibile per tre distinte e autonome ragioni: a) la questione, che presuppone la valutazione di elementi documentali (nella specie, la concessione in sanatoria asseritamente ottenuta dall'odierno ricorrente) non risulta proposta davanti al giudice di appello e dunque è questione nuova, come tale non deducibile in questo giudizio di legittimità; b) manca qualsiasi riferimento alla produzione del documento sul quale è fondato il motivo, nelle fasi del merito; c) il quesito è inammissibile in quanto assolutamente generico (cfr. Cass. Sez. Un. 5/1/2007, n. 36; Cass. 21/5/2007, n. 11682; Cass. 11/3/2008, n. 6420; Cass. 15/7/2008, n. 19348) e si risolve in un'enunciazione tautologica (cfr. Cass. Sez. Un. 8/5/2008, n. 11210). La formulazione corretta del quesito di diritto esige pertanto che dapprima il ricorrente indichi la fattispecie concreta, poi la rapporti ad uno schema normativo tipico, infine formuli il principio giuridico di cui chiede l'affermazione (Cass. 27 gennaio 2009, n. 1944); in altri termini, il ricorrente deve domandare alla Corte se, in una fattispecie come quella contestualmente e sommariamente in fatto descritta nel quesito, si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata (Cass. Sez. Un. 5/2/2008, n. 265 nello stesso senso, da ultimo, Cass. 2/4/2009 n. 8102). 4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione in relazione agli artt. 2043, 1223 e ss. e 2056 c.c.. Il ricorrente sostiene che la Corte di Appello, nel riconoscere il danno da diminuzione del godimento (in termini di godimento e panoramicità) dell'immobile come conseguenza dei capannoni abusivi di esso ricorrente: - ha omesso di motivare in ordine all'esistenza, sul confine tra le due proprietà, di una recinzione altra tre metri e alla presenza, in prossimità del confine, di alberi ad altro fusto, circostanza che sarebbe stata sottoposta all'attenzione del giudice di appello e documentata fotograficamente; - non ha considerato che i capannoni avevano la medesima altezza sia che fossero adibiti a serre, sia che fossero adibiti a deposito e commercializzazione di prodotti per l'edilizia; - ha negato qualsiasi incidenza alla presenza di due grossi insediamenti industriali nel raggio di 500 metri dalla proprietà delle attrici, parimenti incidenti sulla panoramicita e alla presenza di un cimitero alla distanza di 200 metri. Il ricorrente formula due quesiti che definisce quesiti di diritto, chiedendo: - se la presenza di una recinzione alta tre metri posta a confine tra la proprietà e di alberi di alto fusto posti a ridosso della recinzione sia di ostacolo alla visuale sul fondo limitrofo concretizzi un danno da risarcire; - se la presenza di opifici industriali e del cimitero nelle vicinanze della proprietà V. - M. pregiudichi l'amenità e la panoramicità della zona. 4.1 Il motivo di ricorso, sotto il profilo del vizio di motivazione è infondato perché è stato adeguatamente motivato dai giudici del merito il pregiudizio subito dagli attori e di conseguenza risulta insussistente la dedotta violazione delle norme in materia di risarcimento del danno. In diritto, non è contestato, in questa sede, il principio di diritto affermato dalla Corte di Appello, secondo il quale la realizzazione di opere in violazione di norme di edilizia è fonte di responsabilità risarcitoria verso il proprietario del fondo limitrofo sia per il deprezzamento commerciale del bene, sia per la limitazione del suo godimento in termini di amenità. Il principio così affermato, d'altra parte, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte che opera una distinzione tra le violazioni in materia di distanze e le altre violazioni della normativa urbanistica

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affermando che la realizzazione di opere in violazione di norme recepite negli strumenti urbanistici locali diverse da quelle in materia di distanze, non comporta un immediato e contestuale danno per i vicini il cui diritto al risarcimento presuppone l'accertamento di un nesso causale tra la violazione contestata e l'effettivo pregiudizio subito; la prova di tale pregiudizio deve essere fornita dall'interessato in modo preciso con riferimento alla sussistenza del danno ed all'entità dello stesso (tra le tante, Cass. 23/2/1999 n. 1513; Cass. 12/6/2001 n. 7909; Cass. 7/3/2002, n. 3341; Cass. 1/12/2010 n. 24387; Cass. 27/3/2013 n. 7752). Ciò che il ricorrente contesta è la ritenuta sussistenza di un pregiudizio all'amenità e panoramicità della zona (da intendersi, come pregiudizio all'amenità e panoramicità di cui godeva l'immobile prima della costruzione abusiva), tenuto conto della presenza di un muro alto tre metri, di alberi ad alto fusto, di un cimitero a 200 metri e dalla presenza, nelle vicinanze, di una zona ad insediamento industriale-commerciale. Tuttavia, in linea di principio, non si può escludere che un'immobile destinato a residenza, per quanto si trovi in una zona nella quale sono presenti insediamenti dalla cui mancanza deriverebbe una maggiore amenità e godibilità del luogo, possa egualmente subire un pregiudizio dall'aggravamento costituito dalla realizzazione di un'altra costruzione che, come rilevato dalla Corte di Appello non è solo "in zona", ma addirittura a ridosso della residenza (v. pag. 8 della sentenza di appello); inoltre, il diritto a conservare la gradevolezza dell'abitare del proprietario nella sua casa non si arresta a ciò che si trova all'interno della stessa, ma si espande a tutto il luogo circostante la cui amenità, secondo la valutazione di merito della Corte, è stata compromessa dalla realizzazione, da parte del vicino di un capannone di dimensioni esorbitanti rispetto a quanto consentito dalla normativa urbanistica (v. pag. 7 della sentenza di appello). Per il resto, si tratta di una censura che attiene non già alla mancanza, insufficienza o illogicità della motivazione, ma esprime una mera non condivisione sostenuta da argomenti che, come detto, non sono decisivi e, quindi, si risolve in una censura della valutazione di merito che si pone al di fuori dei limiti del sindacato di questa Corte; neppure la deduzione dell'esistenza di un muro dell'altezza di tre metri e della presenza di alberi di alto fusto appare un argomento rilevante, non risultando né provato né dedotto che la vista della costruzione abusiva dalla casa fosse totalmente preclusa per la presenza del muro e degli alberi. Il motivo deve quindi essere rigettato. 5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 2697 c.c. in relazione agli artt. 1223 e 2056 c.c.. Il ricorrente sostiene che la Corte di Appello avrebbe omesso una indagine critica circa la mancanza di prova in ordine all'ammontare del danno rifugiandosi acriticamente nelle conclusioni del CTU e nel ricorso all'equità operato dal Tribunale sul presupposto che la deminutio patrimonii relativa ad aria, luce, amenità e godimento del paesaggio fosse in re ipsa e non postulasse la prova dell'entità della stessa, mentre il ricorso all'equità deve essere sorretto dall'indicazione dei criteri ispiratori. Formulando il quesito di diritto il ricorrente chiede se l'indagine sull'incidenza dell'onere della prova sia rilevante e necessaria in relazione a fatti decisivi che il giudice non possa accertare iuxta alligata et probata. 5.1 Il motivo è inammissibile sia per la genericità e astrattezza del quesito che si risolve in una mera affermazione di principio senza alcun collegamento con le deduzioni e allegazioni delle parti, sia per la genericità della censura stessa nella quale non si deducono critiche specifiche alla consulenza argomentatamente recepita dalla Corte di Appello, come risulta dalla mera lettura della pagina 7 della sentenza e non attinge l'ulteriore motivazione secondo la quale, quanto al pregiudizio derivante dalla compromissione del godimento del bene, una volta dimostrata l'esistenza del danno, non è censurabile la liquidazione secondo equità "non senza trascurare che la quantificazione di tale voce di danno non è stata neppure oggetto di uno specifico motivo di appello" (pag. 9 della sentenza di appello); sotto questo profilo si deve concludere che il motivo è altresì inammissibile in quanto introduce una questione non ritualmente proposta con uno specifico motivo di appello. 6. Il ricorso va rigettato; le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna C.S. a pagare alla parte controricorrente nelle persone di V.T., M.E. e M.S., le spese di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 3.000 per compensi oltre Euro 200,00 per esborsi. Così deciso in Roma, il 26 giugno 2013. Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2013

5. Immissioni: attualità e materialità MASSIMA Allorché le immissioni lamentate manchino dei requisiti dell'attualità e della materialità, la loro riconduzione alla disciplina contenuta nell'art. 844 c.p.c. si rivela impossibile, risolvendosi le stesse in meri fatti unici ed eccezionali. Cass. civ., sez. VI, 20 febbraio 2014, n. 4093

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SENTENZA PER ESTESO

FATTO E DIRITTO

Rilevato che il consigliere designato ha depositato, in data 22 aprile 2013, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c.: "Con atto di citazione, notificato il 10 febbraio 2007, i sigg. S.G. e D.F.T.C., in proprio e quali esercenti la potestà sul figlio minore S. G., convenivano in giudizio, davanti al Giudice di pace di Frigento, il sig. D.G. perché gli fosse ordinato, una volta accertata l'intollerabilità delle immissioni prodotte dalla canna fumaria del convenuto, di eseguire le opere idonee ad eliminare le immissioni stesse e perché fosse condannato al risarcimento dei danni. Radicatosi ritualmente il contraddittorio, il Giudice di pace, con sentenza n. 119/2009, accoglieva la domanda attorea, vietando azioni atte a provocare immissioni di fumo sino alla realizzazione di una nuova canna fumaria esterna e condannava il sig. D. al risarcimento dei danni subiti sia dai coniugi, che dal loro figlio minore. Interposto appello dal sig. D., con atto di citazione notificato il 30 1 aprile 2009, il Tribunale di Sant'Angelo dei Lombardi, con sentenza n. 367/2011, depositata il 5 luglio 2011, dichiarata la contumacia degli appellati, in parziale riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda proposta in primo grado dai coniugi S.; rigettava, altresì, la domanda riconvenzionale, avanzata davanti al Giudice di pace, dal sig. D.; dichiarava interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di primo grado, mentre nulla disponeva per le spese relative al giudizio di secondo grado. Avverso la citata decisione i sigg. S.G. e D. F.T.C., in proprio e quali esercenti la potestà sul figlio minore S.G., proponevano ricorso per cassazione, notificato il 2 ottobre 2012 e depositato il 12 ottobre 2012, articolato in un unico motivo, al quale il sig. D. resisteva con controricorso. Ritiene il relatore, che avuto riguardo all'art. 380 bis c.p.c., in relazione all'art. 375 c.p.c., n. 5, sussistono le condizioni per pervenire al rigetto del ricorso per sua manifesta infondatezza e, quindi, per la sua conseguente definizione nelle forme del procedimento camerale. Con l'unico motivo formulato i ricorrenti hanno prospettato la violazione degli artt. 844 e 2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5. In particolare, i predetti ricorrenti hanno inteso evidenziare che il Giudice d'appello aveva adottato una motivazione solo apparente, laddove lo stesso aveva statuito "che nel caso di specie gli attuali appellanti avessero l'onere di provare, in concreto, l'effettiva nocività delle immissioni ed i danni derivati alla loro salute, conformemente a quanto affermato dalle più recenti pronunzie di legittimità" e che, inoltre, non aveva accordato la tutela inibitoria di cui all'art. 844 c.c.. Tale complessa doglianza appare, ad avviso del relatore, palesemente destituita di pregio. Infatti, il Giudice di secondo grado ha chiaramente sottolineato che non si poteva riscontrare, nella fattispecie in esame, il requisito dell'intollerabilità, previsto dall'art. 844 c.p.c., come elemento essenziale ai fini del riconoscimento della tutela inibitoria e che, conseguentemente, il dettato normativo del presente articolo, non era passibile di applicazione estensiva, in assenza di quel carattere, ritenuto fondamentale dalla giurisprudenza di legittimità (cfr, fra tutte, Cass. n. 1404/1979). Nel dettaglio, come anche puntualizzato dagli stessi coniugi nell'atto di citazione, le immissioni di cui trattasi erano state occasionali e sporadiche, essendosi verificate nella loro abitazione solo in due occasioni (precisamente, il 30 novembre 2005 e il 25 gennaio 2007); per di più, come correttamente evidenziato dal Giudice d'appello, la circostanza che esse fossero avvenute a notevole distanza di tempo (oltre un anno) l'una dell'altra, ne escludeva il carattere continuativo e periodico, per il quale è richiesta una certa frequenza e ripetitività nel tempo (non essendo, invece, sufficiente la manifestazione di episodi isolati e circoscritti). In aggiunta a ciò, nel caso di specie, difettava, altresì, il requisito dell'attualità di una situazione d'intollerabilità: invero, per quanto accertato in fatto dal giudice di seconde cure (sulla scorta delle risultanze della relazione di c.t.u.), si trattava di pericolo solo potenziale e non anche attuale, in mancanza di un'apprezzabile reiterazione nel tempo delle lamentate immissioni, in virtù del loro carattere sporadico ed occasionale. Infine, il Giudice d'Appello ha rilevato come i coniugi S. non avessero fornito alcuna prova di aver subito, in conseguenza del surriscaldamento della canna fumaria, una specifica compromissione della salute propria e del figlio minore, venendo, in tal modo, a mancare il requisito della materialità, intesa come influenza oggettiva e negativa sull'organismo dell'uomo, tale da oltrepassare il limite della normale tollerabilità. Del resto, l'impossibilità della configurazione del danno "in re ipsa" arrecato alla salute da immissioni nocive e il correlato onere di provare l'effettiva nocività, sono ormai pacificamente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte: infatti, "l'accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili non costituisce di per sé prova dell'esistenza di danno alla salute, la cui risarcibilità è subordinata all'accertamento dell'effettiva esistenza di una lesione fisica o psichica" (cfr. Cass. n. 25820 del 2009 e, da ultimo, Cass. n. 4394 del 2012 secondo cui, "in tema di immissioni eccedenti il limite della normale tollerabilità, non può essere risarcito il danno non patrimoniale consistente nella modifica delle abitudini di vita del danneggiato, in difetto di specifica prospettazione di un danno attuale e concreto alla sua

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salute o di altri profili di responsabilità del proprietario del fondo da cui si originano le immissioni"). Alla stregua di quanto esposto, la mancanza dei requisiti dell'attualità e della materialità rendevano impossibile la riconduzione delle lamentate immissioni alla disciplina contenuta nell'art. 844 c.p.c., risolvendosi le stesse, come posto in risalto, in meri fatti unici ed eccezionali. In tal senso, pertanto, appare del tutto corretto ed adeguatamente motivato il ragionamento espresso dal Giudice d'appello, oltre che rispondente ai principi giuridici affermati da questa Corte intorno alle condizioni di applicabilità della tutela prevista dall'art. 844 c.c.. In definitiva, quindi, si riconferma che sembrano emergere le condizioni per procedere nelle forme di cui all'art. 380 bis c.p.c., ravvisandosi la manifesta infondatezza dell'unico motivo del ricorso principale, in relazione all'ipotesi enucleata dall'art. 375 c.p.c., n. 5, emergendo l'adeguatezza e la logicità della motivazione della sentenza impugnata nella presente sede di legittimità (donde la sua incensurabilità ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e l'insussistenza della dedotta violazione di legge". Considerato che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra, avverso la quale, peraltro, la memoria difensiva depositata - ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., comma 2, - nell'interesse dei ricorrenti non apporta nuove argomentazioni sul piano giuridico che risultino idonee a confutare, in modo determinante, il contenuto della relazione stessa, non emerse nemmeno all'esito della discussione orale fatta dal difensore degli stessi ricorrenti, posto che le pronunce richiamate nella suddetta memoria non scalfiscono l'impianto argomentativo di cui alla ricordata relazione, nella quale è stato evidenziato che - con la sentenza impugnata - era stato adeguatamente escluso che fosse stata raggiunta la prova sulla paventata intollerabilità dell'immissioni e, quindi, sulla conseguente configurabilità dei danni alle medesime correlabili; ritenuto che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate nei sensi di cui in dispositivo, sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (applicabile nel caso di specie in virtù dell'art. 41 dello stesso D.M.: cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012).

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in via fra loro solidale, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge. Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2014. Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2014

6. Immissioni: criteri di accertamento MASSIMA In tema di immissioni rumorose, non vi sono ostacoli all'applicabilità del criterio comparativo differenziale per determinare la soglia dell'intollerabilità anche nei rapporti tra i privati ed i concessionari della pubblica amministrazione, che comunque sono tenuti ad osservare gli standards ambientali; perciò l'articolo 844 c.c., quale norma che disciplina in generale le immissioni, detta un parametro di riferimento che può essere utilmente applicato analogicamente anche ai rapporti con il concessionario della pubblica amministrazione (fattispecie relativa all'azione di risarcimento dei danni derivanti dall'eccessivo rumore prodotto dal traffico autostradale in assenza di idonea barriera). Cass. civ., sez. III, 25 agosto 2014, n. 18195 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denunzia violazione falsa applicazione dell'art. 844 c.c., nonché del D.P.C.M. 14 novembre 1997, artt. 3, 4 e 5, ex art. 360 c.p.c., n. 3. Viene formulato il seguente quesito di diritto: dica la Suprema Corte se - in presenza di immissioni rumorose prodotte da traffico veicolare di un'infrastruttura autostradale e impattanti sull'immobile posto nella fascia di rispetto autostradale - desumere il superamento della normale tollerabilità attraverso l'applicazione del criterio cosiddetto comparativo differenziale dei 3 decibel rispetto al rumore di fondo, costituisca violazione e falsa applicazione dell'art. 844 c.c., attese le previsioni nel D.M.C.P. 14 novembre 1997, artt. 3, 4 e 5, e attesa la diversità di una fattispecie del genere rispetto a quelle ove vengono in rilievo sorgenti disturbanti fisse. 2. Il motivo è infondato. La Corte di appello ha affermato che la mancanza di una specifica normativa applicabile ad un determinato settore, soprattutto quelli in espansione, molto frequente nel nostro ordinamento, è risolta con il ricorso al procedimento analogico; che proprio perché gli artt. 2 e 32 Cost., individuano il diritto alla salute quale diritto fondamentale dell'individuo e l'art. 844 c.c., disciplina le immissioni anche rumorose

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nei rapporti tra privati, esprimendo il principio di riferimento della normale tollerabilità, non vi sono ostacoli all'applicabilità del criterio comparativo differenziale per determinare la soglia dell'intollerabilità anche nei rapporti tra i privati ed i concessionari della pubblica amministrazione, che comunque sono tenuti ad osservare gli standard ambientali; che perciò l'art. 844 c.c., quale norma che disciplina in generale le immissioni, detta un parametro di riferimento che può essere utilmente applicato analogicamente anche ai rapporti con il concessionario della pubblica amministrazione. 3. La corte di merito ha fatto corretta applicazione delle norme vigenti in materia di immissioni ed a tutela del diritto fondamentale della salute, costituzionalmente protetto. Ha posto in rilievo che la norma dell'art. 844 c.c., che prevede come principio guida in materia il criterio della normale tollerabilità delle immissioni, ben si coordina come il cosiddetto criterio comparativo, che assume come punto di riferimento il rumore di fondo della zona e che consiste nel confrontare il livello medio del rumore di fondo con quello del rumore rilevato nel luogo soggetto alle immissioni, al fine di controllare se sussista un superamento non tollerabile del livello medio di rumore, che viene fissato in tre decibel superiore la rumore di fondo. 4. L'applicazione della suddetta normativa non è condizionata dalla sorgente fissa o meno della immissioni, attenendo la qualità della sorgente rumorosa all'accertamento della sua normale tollerabilità, che è un accertamento in fatto non più rivalutabile in questa sede di legittimità. 5. Con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 e 2697 c.c.. Viene formulato il seguente quesito diritto; dica la Suprema Corte se in presenza di un accertamento sulla inesistenza di lesione all'integrità psicofisica di coloro che si ritengono danneggiati e in mancanza di denuncia da parte dei medesimi di pregiudizi di tipo esistenziale conseguenti alla lesioni di diritti inviolabili della persona diversa dal diritto alla salute - riconoscere la risarcibilità di un danno non patrimoniale costituisca violazione falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., posti a fondamento dell'illecito civile extra contrattuale; dica inoltre la Suprema Corte se riconoscere la risarcibilità del danno temporaneo alla salute in mancanza di un accertamento giudiziale e in mancanza di allegazione da parte dei richiedenti degli elementi necessari a consentire il ricorso alla prova presuntiva, costituisca violazione falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., che pone a carico del danneggiato l'onere della prova. 6. Il motivo è inammissibile per inidonea formulazione del quesito di diritto in quanto non riporta esattamente la fattispecie concreta oggetto della decisione, non censura adeguatamente la motivazione della Corte di merito, contiene deduzioni di fatto che non risultano accertate nel presente procedimento, non indica le norme erroneamente applicate e quelle effettivamente applicabili nella fattispecie e richiede una nuova valutazione in fatto dell'accertamento del danno operata dalla Corte d'appello, sorretta da motivazione logica non contraddittoria conforme alla legge. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente il pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 6.000,00 oltre Euro 200,00 per gli esborsi, spese generali ed accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 26 giugno 2014. Depositato in Cancelleria il 25 agosto 2014

7. Immissioni e locazione: responsabilità … MASSIMA In materia di immissioni intollerabili, allorché le stesse originino da un immobile condotto in locazione, la responsabilità ex art. 2043 cod. civ. per i danni da esse derivanti può essere affermata nei confronti del proprietario, locatore dell'immobile, solo se il medesimo abbia concorso alla realizzazione del fatto dannoso, e non già per avere omesso di rivolgere al conduttore una formale diffida ad adottare gli interventi necessari ad impedire pregiudizi a carico di terzi. Cass. civ., sez. III, 28 maggio 2015, n. 11125 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo parte ricorrente denuncia "nullità della sentenza e del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4). Violazione o falsa applicazione degli artt. 844, 2043 e 2051 c.c.. Art. 360 c.p.c., n. 3)". Sostengono i ricorrenti che la Corte d'appello avrebbe dovuto rigettare la domanda risarcitoria, atteso che, come afferma la stessa sentenza, essi non erano i gestori dell'attività commerciale fonte del preteso danno. Dunque, ad avviso dei medesimi ricorrenti, la sentenza impugnata è viziata sotto il profilo processuale per avere eluso il loro specifico motivo d'appello pronunciando su una censura non proposta (legittimazione passiva sulla domanda di

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indennizzo ex art. 844 c.c.), anziché sulla censura effettivamente sollevata dagli appellanti, attuali ricorrenti (legittimazione passiva sulla domanda risarcitoria). L'impugnata sentenza, sempre ad avviso dei ricorrenti, è inoltre errata sotto il profilo sostanziale per avere erroneamente interpretato ed applicato le richiamate norme e principi in tema di responsabilità civile (artt. 2043 e 2051 c.c., nonché art. 844 c.c.), affermando una responsabilità risarcitoria dei proprietari per un danno che andrebbe semmai imputato ai gestori dell'esercizio commerciale. Il motivo è fondato nei termini che seguono. L'azione di natura reale, esperita dal proprietario del fondo danneggiato per l'accertamento dell'illegittimità delle immissioni e per la realizzazione delle modifiche strutturali necessarie al fine di far cessare le stesse, deve essere proposta nei confronti del proprietario del fondo da cui tali immissioni provengono e può essere cumulata con la domanda verso altro convenuto, per responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ., volta ad ottenere il risarcimento del pregiudizio di natura personale da quelle cagionato (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2013, n. 4848). Quest'ultima domanda risarcitoria va proposta secondo i principi della responsabilità aquiliana e cioè nei confronti del soggetto individuato dal criterio di imputazione della responsabilità; quindi nei confronti dell'autore del fatto illecito (materiale o morale), allorché il criterio di imputazione è la colpa o il dolo (art. 2043) e nei confronti del custode della cosa (nella specie l'immobile) allorché il criterio di imputazione è il rapporto di custodia ex art. 2051 c.c.. Nella fattispecie, pertanto, la domanda risarcitoria poteva essere proposta nei confronti dei proprietari solo se essi avessero concorso alla realizzazione del fatto dannoso, quale autori o coautori dello stesso, mentre il solo fatto di essere proprietari, ancorché consapevoli, ma senza alcun apporto causale al fatto dannoso, non è idoneo, neppure in astratto, a realizzare una loro responsabilità o corresponsabilità aquiliana. A tal fine va rilevato che questa corte ha affermato, sia pure con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2051 c.c., un principio applicabile anche in tema di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. e cioè che il proprietario di un immobile concesso in locazione non può essere chiamato a rispondere dei danni a terzi causati da macchinari utilizzati dal conduttore, quando non abbia avuto alcuna possibilità concreta di controllo sull'uso di essi, non potendo detta responsabilità sorgere per il solo fatto che il proprietario medesimo ometta di rivolgere al conduttore una formale diffida ad adottare gli interventi del caso al fine di impedire il verificarsi di danni a terzi, giacché essi costituirebbero atti inidonei ad incidere sul funzionamento della cosa dannosa (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata la quale aveva affermato la responsabilità del proprietario di un immobile adibito a ristorante, gestito dal conduttore dell'immobile stesso, per i danni causati all'appartamento sottostante, di proprietà di un terzo, dalle infiltrazioni d'acqua provocate dall'impianto di condensa dei frigoriferi e dall'idrante per la pulizia dei pavimenti in uso al gestore del ristorante medesimo) (Cass., 1 aprile 2010, n. 8006). Con il secondo motivo si denuncia "violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2051 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Nullità della sentenza e del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all'art. 112 c.p.c.)". Ad avviso dei ricorrenti la motivazione della sentenza impugnata ruota intorno ad una ritenuta responsabilità dei proprietari che si erano spogliati della detenzione e della custodia della cosa, sul presupposto che fosse loro onere vigilare sull'uso che della stessa avrebbero fatto i conduttori. A tale proposito essi evidenziano due profili di censure. In primo luogo i ricorrenti rilevano nella sentenza impugnata un vizio di ultrapetizione giacché il giudice d'appello ha travisato la causa petendi sulla quale gli attori avevano fondato la loro domanda risarcitoria. Lamentano inoltre l'erronea applicazione degli artt. 2043 e 2051 c.c.. In secondo luogo, sotto il profilo della colpa, la sentenza d'appello ha richiamato un precedente di legittimità (Cass., 318/1985) che ad avviso dei ricorrenti si pone in contrasto con altra giurisprudenza di questa Corte (Cass. 8006/2010). Con il terzo motivo parte ricorrente denuncia "violazione o falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)". Ad avviso dei ricorrenti, la particolarità delle prove testimoniali, vertente su percezioni del tutto soggettive ed il suo elevato grado di opinabilità imponeva al giudice del merito una rafforzata cautela ed un più stringente obbligo di motivazione. La Corte d'appello, a loro avviso, avrebbe dovuto escludere che fosse stata raggiunta la prova in ordine alle immissioni intollerabili. Con il quarto motivo si denuncia "violazione o falsa applicazione dell'art. 1227 c.c., comma 1, (art. 360 c.p.c., n. 3). Omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5). Nullità della sentenza e del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4)". I ricorrenti evidenziano che, anche in assenza delle pretese immissioni dai locali di loro proprietà, l'appartamento degli attori sarebbe stato comunque pesantemente attinto da altri odori, provenienti dalla fabbrica di confetti degli

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stessi attori. I suddetti motivi devono essere considerati assorbiti a seguito dell'accoglimento del primo motivo. In conclusione, nel caso in esame, in accoglimento del primo motivo di ricorso, va cassata l'impugnata sentenza che ha affermato la responsabilità aquiliana dei ricorrenti sul solo presupposto che essi erano i proprietari del locale adibito a ristorante, mentre, per poter affermare tale responsabilità avrebbe dovuto accertare se i proprietari dello stesso avessero concorso, con il conduttore titolare del ristorante, alla realizzazione del fatto dannoso, dando un apporto causale allo stesso. Cioè occorre che i proprietari siano qualificabili come autori o coautori del fatto causativo del danno. Il solo fatto che essi sapessero dell'esercizio dell'attività lecita di ristorazione al momento della conclusione del contratto, ovvero successivamente che il ristoratore conduttore effettuava immissioni intollerabili in danno di terzi non comporta una responsabilità dei proprietari locatori per tali danni. Tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio. L'accoglimento del primo motivo comporta l'assorbimento dei restanti. L'impugnata sentenza va quindi cassata con rinvio alla Corte d'appello di l'Aquila che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo, assorbiti i restanti. Cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di L'Aquila in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 3 marzo 2015. Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2015 7.1. … e vizi della cosa locata MASSIMA In tema di locazione immobiliare, le immissioni derivanti da immobili vicini non sono idonee ad integrare vizio della cosa locata, agli effetti dell'art. 1578 cod. civ., in quanto non attengono all'intrinseca struttura della cosa medesima né alla sua interazione con l'ambiente circostante, ma dipendono dal fatto del terzo. Esse, pertanto, configurano molestie di fatto, ai sensi del secondo comma dell'art. 1585 cod. civ., con la conseguenza che, se intollerabili, sono interamente ascrivibili alla condotta del terzo, mentre, se tollerabili, non determinano alcun danno suscettibile di risarcimento. Cass. civ., sez. III, 4 novembre 2014, n. 23447 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. - La ricorrente F. - dopo un'analitica esposizione dei fatti di causa (pagine fino a 29 del ricorso) e l'adduzione del dispiegamento di revocazione per errore di fatto avverso la stessa sentenza 2124/11 della corte ambrosiana oggetto del ricorso in ordine alla ritenuta mancata produzione di documentazione indispensabile a provare la persistente intollerabilità delle immissioni - articola undici mezzi ed in particolare: - col primo (di "omessa o difettosa motivazione su un punto decisivo della controversia... in relazione al principio del giusto processo, dell'art. 2697 c.c., e art. 116 c.p.c.": pagine da 36 a 45 del ricorso), lamenta omessa motivazione sull'adduzione della mancata produzione del procedimento di a.t.p., vizio di motivazione sulla superfluità dell'acquisizione del relativo fascicolo, omessa motivazione sull'asserita irrilevanza di quest'ultimo; - col secondo (di "violazione art. 116 c.p.c., omessa o difettosa motivazione...": pagine da 45 a 48 del ricorso), censura la conclusione dell'intervenuta cessazione delle immissioni di odori provenienti dal Ristorante (OMISSIS), in contrasto con il materiale probatorio acquisito e ignorato; - col terzo di "violazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in relazione all'art. 116 c.p.c., art. 2697 c.c., per omessa e/o difettosa motivazione in relazione a punti decisivi della controversia...": pagine da 45 a 57 del ricorso, si duole della ritenuta irrilevanza delle risultanze della prova testimoniale e delle risultanze probatorie in genere oltre che per contrasto logico- giuridico tra queste ultime e le statuizioni della sentenza in relazione alla tollerabilità delle immissioni provenienti dal bar Sahara, riportando numerose deposizioni testimoniali ed analizzandole anche tra loro in confronto; - col quarto (di "vizio di motivazione in relazione ad un punto decisivo della controversia...": pagine da 45 a 60 del ricorso), contesta l'asserzione della spettanza a lei dell'onere di provare l'intollerabilità delle immissioni, nonché la valutazione del materiale probatorio; - col quinto (di "violazione di norme... in relazione all'errata interpretazione del contratto in data 7 maggio 2002 in base ai vigenti canoni ermeneutici e segnatamente artt. 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c....": pagine da 61 a 69 del ricorso), censura la mancata considerazione delle clausole dell'accordo che stabilivano un procedimento di verifica delle immissioni e la conclusione circa un obbligo del locatore di ottenere la riconduzione a tollerabilità

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delle immissioni con diritto di controparte, in mancanza, ad essere risarcita dei danni subiti; - col sesto (di "omessa o difettosa motivazione su un punto decisivo della controversia": pagine da 69 a 71 del ricorso), si duole dell'esclusione del riconoscimento dei danni da lei subiti per il periodo in cui le immissioni erano state intollerabili; - col settimo (di "violazione di legge art. 1585 c.c., comma 2, art. 41 Cost., artt. 1321 e 1322 c.c., in coordinamento con il contratto fra le parti del 7.5.2002 e omessa motivazione su punto decisivo della controversia...": pagine 71 e seguente del ricorso), contesta la non riconducibilità al locatore dei danni derivanti dalle molestie di fatto dei terzi; - con l'ottavo (di vizio di motivazione: pagine da 72 a 74 del ricorso), si duole della ritenuta natura esclusivamente di "molestia di fatto" delle immissioni lamentate; - col nono (di vizio motivazionale: pagine da 74 a 77 del ricorso), adduce vizio nella motivazione, "anche in relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c.", quanto alla conclusione, a fondamento dell'esclusione della risarcibilità dei danni, che le immissioni, anche ove attribuibili a vizio della cosa locata, non sarebbero state idonee a diminuire in modo apprezzabile l'idoneità della medesima all'uso; - col decimo (di "errata e omessa motivazione... artt. 1578 e 2043 c.c.": pagine da 77 a 79 del ricorso), contesta l'asserita mancanza di dimostrazione della natura dolosa dell'occultamento delle immissioni al momento della stipula del contratto di locazione e censura l'omessa valutazione della natura almeno colposa di tale occultamento; - con l'undicesimo (di vizio di motivazione: pagina 79 del ricorso) si duole della ritenuta irrilevanza di nuove istanze istruttorie sulla persistenza delle immissioni anche nel luglio 2011. 3. - Dal canto suo, il contro ricorrente S., dopo avere censurato nel loro complesso i mezzi di ricorso per involgere essi apprezzamenti di fatto, analiticamente li contesta: - quanto al primo, per il carattere dirimente della ritenuta superfluità di acquisizione di documenti relativi all'a.t.p. all'esito delle conclusioni della successiva relazione; - quanto al secondo, rilevando non essendo indicato il materiale lamentato come ignorato e presupposto per l'applicazione di un criterio comparativo riferito al momento iniziale della perizia; - quanto al terzo, avendo la corte territoriale coerentemente tratto le sue conclusioni proprio da quella complessiva valutazione di tutto il materiale probatorio; - quanto al quarto, essendo stata la censura malamente sussunta entro il vizio motivazionale, anziché entro l'art. 360 c.p.c., n. 3; - quanto al quinto, dovendo escludersi la sindacabilità in cassazione dell'interpretazione del contenuto dell'accordo transattivo intercorso tra le parti, siccome logica e coerente; - quanto al sesto ed al settimo, correttamente dovendo ricondursi la considerazione di ogni danno alla riduzione del canone transattivamente pattuita ed essendo irrilevante la clausola di salvezza di ogni altro diritto; - quanto all'ottavo, correttamente avendo la corte territoriale escluso la prova di vizi della struttura della cosa locata, anziché di sole ipotesi e fatti non accertati; - quanto al nono, per il carattere centrale della valutazione di tollerabilità delle immissioni residue, a fondamento dell'esclusione della riduzione apprezzabile dell'idoneità della cosa all'uso; - quanto al decimo, per la rigorosa consequenzialità tra i diversi passaggi della sentenza; - quanto all'undicesimo, riferendosi le nuove prove ad un inammissibile tentativo di riesame nel merito della controversia. 4. - Con le contrapposte memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c., ciascuna delle parti informa questa Corte dell'esito della domanda di revocazione di cui l'odierna ricorrente aveva fatto cenno in ricorso - definita dalla corte ambrosiana con sentenza di rigetto, resa col n. 2916 il 25 luglio 2014, sul riscontro dell'avvenuta completa e piena valutazione di tutti gli elementi di fatto, compresi quelli di cui la F. aveva prospettato la mancata disamina e comunque esclusa la configurabilità di un errore di fatto rilevante ai fini dell'art. 395 c.p.c., n. 4, - ed oltre a ciò: - dal canto suo, la ricorrente illustra ulteriormente i singoli motivi di ricorso, tra l'altro: ribadendo la persistenza delle immissioni intollerabili, nonostante la diversa valutazione della corte territoriale, sottoposta a rinnovate critiche; riproducendo in memoria la tabella dei risultati delle misurazioni fonometriche; sottolineando il superamento dei limiti di accettabilità e di quelli di tollerabilità, oltretutto per l'inidoneità di un'unica evidenza temporalmente circoscritta; - il controricorrente ribadisce l'inammissibilità, nella presente sede di legittimità, dell'esame fattuale della vicenda invocato dalla controparte con i motivi complessivamente considerati. 5. - Alla disamina dei motivi di ricorso va premesso che non è mai consentito instare, dinanzi a questa Corte di legittimità, per una lettura diversa delle risultanze istruttorie. Infatti, il vizio di motivazione - nell'accezione, applicabile ratione temporis, anteriore alla novella del 2012 dell'art. 360 c.p.c., n. 5, - non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché non ha la corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo invero la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (tra le molte, v.: Cass. 17 novembre 2005, n. 23286; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 9 agosto 2007, n.

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17477; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass., ord. 6 aprile 2011, n. 7921). In altri termini, il vizio motivazionale - sempre nell'accezione anteriore alla richiamata novella del 2012 - non si configura in caso di difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte. Spetta invece solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (giurisprudenza fermissima; per tutte: Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. sez. un., 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 4 novembre 2013, n. 24679; Cass. 8 luglio 2014, n. 15563), privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili): non incontrando altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20 aprile 2012, n. 6260; Cass. 13 giugno 2014, n. 13543). 5. - Tanto premesso, proprio perché involgono censure al merito con invocazione di una diversa lettura delle risultanze probatorie, i primi quattro motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente per l'intima loro connessione e se del caso riqualificato vizio di violazione di legge il quarto da inammissibile censura di vizio motivazionale avverso l'individuazione della parte onerata della prova di un fatto (che integrerebbe una violazione dell'art. 2697 c.c.), sono infondati. La corte territoriale non commette alcuno dei soli errori censurabili in questa sede nel compiere gli apprezzamenti di fatto o nel merito ad essa istituzionalmente devoluti e radicalmente vietati invece a questa Corte, secondo quanto ricordato al precedente punto 4. Per le immissioni provenienti dal ristorante, invero, correttamente decisivo, nel senso dell'esclusione della loro persistenza, è il riferimento della corte territoriale alla duplice circostanza che il c.t.u. - all'esito del sopralluogo del 7.11.02 - aveva qualificato i lavori effettuativi come "risolutivi" - così attribuendo a tale lemma un significato coerente con l'etimologia ed il contesto della controversia cui si riferisce - e che tale conclusione era stata raggiunta all'esito di una complessa serie di indagini nel contraddittorio coi tecnici delle parti: donde l'irrilevanza - nel senso appunto del superamento, correttamente posto in luce dalla corte di merito con argomento logicamente prevalente su ogni altro - dei documenti relativi alle fasi pregresse. Per le residue immissioni, quelle di odori provenienti dal bar, pure riscontrate come in effetti persistenti, il fatto che il tema del decidere sì concentrasse sulla loro tollerabilità od intollerabilità comporta che si sottragga alle critiche la complessiva motivazione della corte del merito di inidoneità delle valutazioni, sul punto, eminentemente soggettive dei testi di parte locataria - del resto bene evidenziando l'elisione delle loro risultanze in base a quelle dei testi della controparte - e di necessità di una prova rigorosa, da affidarsi ad accertamenti ufficiali o comunque da parte di enti od organismi terzi e pubblici, conformemente alle modalità di verifica perfino concertate tra le parti in sede di transazione. E bene, dinanzi al carattere neutro della descrizione delle immissioni olfattive, ritenuto comunque sostanzialmente compiuto quanto previsto in transazione a carico del locatore col deposito della relazione del consulente, si è allora accollato il relativo onere appunto alla locataria. 6. - Il quinto ed il sesto motivo, anch'essi unitariamente considerati, sono infondati. Entrambi involgono - sotto diversi profili - l'interpretazione della transazione intercorsa tra le parti, sia sul rispetto della procedura pattizia di verifica dell'eliminazione delle immissioni non tollerabili che sul carattere sostanzialmente onnicomprensivo, in grado di assorbire anche ogni danno patito dalla locataria, della riduzione del canone locatizio. 6.1. Ora ed in estrema sintesi, si deve premettere che: - l'interpretazione delle clausole contrattuali rientra tra i compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, potendo il sindacato di legittimità avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, bensì solo l'individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (tra le molte, v.: Cass. 31 marzo 2006, n. 7597; Cass. 1 aprile 2011, n. 7557; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2109; Cass., ord. 9 gennaio 2013, n. 380); pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168); - al riguardo, le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c., prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365 e 1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d'essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un

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determinato rapporto giuridico: pertanto, l'adozione dei predetti criteri integrativi non può portare alla dilatazione del contenuto negoziale mediante l'individuazione di diritti ed obblighi diversi da quelli espressamente contemplati nel contratto o mediante l'eterointegrazione dell'assetto negoziale esplicitamente previsto dai contraenti, neppure se tale adeguamento si presenti, in astratto, idoneo a ben contemperare il loro interesse (in generale, tra le altre: Cass. 24 gennaio 2012, n. 925 e Cass. 11 ottobre 2012, n. 17324; sulla prima parte, v. altresì, tra le molte, Cass. 22 marzo 2010, n. 6852, ovvero Cass. 25 ottobre 2005, n. 20660). 6.2. Nella specie, le censure invocano una lettura complessiva della transazione e chiedono individuarsi lo spirito che la ha sorretta: ma per ciò stesso prospettano non già una specifica violazione di singole e puntuali disposizioni di ermeneutica contrattuale in relazione a ben determinate clausole della transazione, ma appunto proprio la qui vietata riconsiderazione dei merito dell'interpretazione. Nessuna violazione del criterio letterale, gerarchicamente sovraordinato ad ogni altro, viene prospettata in termini tali da consentire l'attivazione dei successivi: ed anche questi sono invocati con il richiamo ad una condotta o ad un interesse complessivo delle parti, le quali, già di per sé, in una transazione possono avere un ruolo necessariamente minore, attesa la fondamentale importanza, nell'operarsi le reciproche concessioni in cui la transazione stessa di norma consiste, delle espressioni volutamente adoperate per individuarle e descriverle. E, nella specie, la corte di appello opera un accertamento di fatto o di merito in questa sede non sindacabile nel momento in cui, peraltro in modo corretto e scevro da qualsiasi vizio logico o violazione delle ricordate regole ermeneutiche: - da un lato, individua un autentico nesso sinallagmatico tra la riduzione del canone e la persistenza delle immissioni oltre la soglia di tollerabilità, quale controprestazione dovuta per tutte le limitazioni al godimento del bene oggetto della locazione; - dall'altro lato, qualifica nella sostanza rispettato, ai fini della cessazione della riduzione, il procedimento di verifica affidato ad autorità terze ed imparziali della relativa circostanza. 7. - Neppure il settimo, l'ottavo ed il nono motivo, tra loro congiuntamente esaminati in quanto relativi alla qualificazione delle immissioni come molestie di fatto dalle quali il locatore non era tenuto a garantire il locatario, sono fondati. 7.1. In primo luogo, ogni questione posta dai motivi così esaminati perde rilevanza una volta ricordato che ridonda in una valutazione di fatto od apprezzamento di merito, qui non censurabile per quanto specificato più sopra al punto 5, quella sulla tollerabilità delle immissioni olfattive, uniche residuate, in concreto accertata dalla corte di merito. 7.2. Ora, va applicato alla fattispecie il principio di diritto già affermato da questa Corte (Cass. 9 maggio 2008, n. 11514), secondo cui costituiscono vizi della cosa locata, agli effetti di cui all'art. 1578 c.c., quelli che incidono sulla struttura materiale della cosa, alterandone l'integrità in modo tale da impedirne o ridurne notevolmente il godimento secondo la destinazione contrattuale o legale; si configurano, invece, come molestie di diritto, per le quali, ai sensi dell'art. 1585 c.c., comma 1, il locatore è tenuto a garantire il conduttore, quelle che si concretano in pretese di terzi che accampino diritti contrastanti con quelli del conduttore, sia contestando il potere di disposizione del locatore, sia rivendicando un diritto reale o personale che infirmi o menomi quello del conduttore; nel caso, infine, in cui il terzo non avanzi pretese di natura giuridica ma arrechi, col proprio comportamento illecito, pregiudizio al godimento del conduttore, la molestia è di fatto e il conduttore può agire direttamente contro il terzo ai sensi dell'art. 1585 c.c., comma 2, pur persistendo, al riguardo, autonoma e concorrente legittimazione ad agire in capo al locatore (Cass. 27 gennaio 2010, n. 1693, relativa ad un caso di infiltrazioni d'acqua in un immobile concesso in locazione). Sul punto, dirimente considerazione a farsi è che le immissioni non integrano vizi della cosa locata, in quanto non attengono né alla intrinseca struttura della medesima né all'interazione della medesima con l'ambiente che ordinariamente la circonda, ma dipendono dal fatto del terzo, sicché si pone la seguente alternativa: se intollerabili, sono interamente ascrivibili alla condotta di quest'ultimo; se tollerabili, non determinano alcun danno suscettibile di risarcimento. Né muta la conclusione a voler configurare il bene locato come non idoneo a far fronte a tali immissioni: visto che, se intollerabili, non è tenuto il locatore a prevedere o a predisporre cautele contro gli altrui fatti illeciti, mentre, se tollerabili, il loro carattere lecito esclude che quegli debba anche solo prenderle in considerazione; ed in entrambi i casi eccettuato il solo caso - che però con tutta evidenza qui non ricorre - di una esplicita garanzia del locatore del possesso del bene locato di caratteristiche intrinseche idonee a preservarne gli occupanti da peculiari e ben individuati rischi di immissioni illegittimamente cagionate da estranei al rapporto. 8. - Anche gli ultimi due motivi sono infondati: - il decimo, perché correttamente la corte territoriale esclude la rilevanza dell'occultamento, sia in punto di diritto ai fini di una responsabilità precontrattuale od extracontrattuale (con richiamo a giurisprudenza anche di legittimità della cui confutazione la ricorrente non si fa neppure carico), sia in punto di fatto per la non configurabilità delle immissioni come vizio intrinseco dell'immobile; - l'undicesimo, perché pienamente condivisibile è l'esclusione di rilevanza di fatti successivi di gran lunga a quelli

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per cui era causa ù la presenza di immissioni dapprima pure intollerabili e poi soltanto tollerabili nel periodo iniziale del rapporto di locazione intercorso tra le parti e concluso da tempo con il rilascio del bene da parte della locataria - e soprattutto estranei alla ratio decidendi delle domande esaminate, cioè la risoluzione degli inconvenienti intollerabili diversi dalle immissioni di odori ed il contenimento di queste ultime entro la soglia della tollerabilità. 9. - Conclusivamente, il ricorso va rigettato e la soccombente ricorrente condannata alle spese del giudizio di legittimità in favore di controparte.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna F.M. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore di S. E., liquidandole in Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali ed accessori come per legge. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 ottobre 2014. Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2014

8. Immissioni: tutela inibitoria e risarcimento del danno MASSIMA In caso di accertamento circa il superamento della soglia di normale tollerabilità delle immissioni, si versa in una situazione di illiceità che esclude il ricorso al giudizio di bilanciamento e quindi all'indennizzo, e introduce il diverso tema della inibitoria delle immissioni e dell'eventuale risarcimento del danno. Cass. civ., sez. II, 7 aprile 2014, n. 8094 SENTENZA PER ESTESO

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. - Il ricorso deve essere accolto. 1.1. - Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 844, 2043 e 1032 cod. civ., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si contesta, sotto plurimi profili, l'interpretazione e l'applicazione della norma che disciplina le immissioni, alla luce dei consolidati principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità sul tema (sono citate, ex plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 4963 del 2001; Cass., sezioni unite, sentenza n. 10186 del 1998). In particolare, la ricorrente censura la sentenza d'appello nella parte in cui, dopo aver accertato l'intollerabilità delle immissioni, ha operato la comparazione tra le opposte esigenze della proprietà e della produzione, e, all'interno di tale giudizio, ha tenuto conto della "inammissibile soluzione alternativa" consistente nell'obbligare l'attrice a prestare il consenso alla installazione della canna fumaria - dunque alla costituzione di una servitù - o a subire le immissioni. Sono, inoltre, contestate il rigetto della domanda di risarcimento del danno alla salute e la decisione in punto di spese. 1.2. - In ossequio al disposto dell'art. 366-bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporis, la ricorrente formula un complesso quesito di diritto, riassumibile nei seguenti termini: "se, in caso di intollerabilità di immissioni, tanto costituisca, per chi le subisce, lesione dei suoi diritti, sia personali che della salute, beni primari rispetto ad ogni altro bene pure tutelato in Costituzione", con la conseguenza che "siffatta intollerabilità non possa comportare una valutazione del contemperamento delle esigenze fra quelle del proprietario di un bene che subisce le immissioni intollerabili con quelle relative alla esigenza della produzione che, anzi, va inibita", e con l'ulteriore conseguenza che "per ovviare all'eliminazione delle immissioni, colui che le subisce non debba sopportare un ulteriore pati, dato dal fatto di dover subire una deminutio della sua proprietà, quale quella data dalla apposizione di una canna fumaria, che costituisce una vera e propria servitù"; e inoltre, "se, accertata la natura di immissioni intollerabili, le stesse, di per sé sole, comportano un danno alla salute, come tale suscettibile di risarcimento, anche in via equitativa"; e infine, "se, là dove venga comunque accertata la ragione della domanda, poi disattesa per altre motivazioni, debba essere disposta la compensazione delle spese". 2. - La doglianza è fondata con riguardo alla erronea applicazione dell'art. 844 cod. civ., in quanto il giudice d'appello ha proceduto al contemperamento delle opposte esigenze delle parti dopo aver accertato l'intollerabilità delle immissioni, che concretizzano una situazione di illecito extracontrattuale. 2.1. - L'art. 844 c.c., comma 2, prevede il giudizio di comparazione a fronte di accertate immissioni ai limiti della normale tollerabilità: in tal caso, il legislatore consente di imporre al proprietario l'obbligo di sopportare le immissioni, ove ciò sia funzionale alle esigenze della produzione, eventualmente previa corresponsione di indennizzo.

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Si tratta di un tipico giudizio di bilanciamento, affidato al giudice del caso concreto, a partire da una situazione in cui nessuna delle contrapposte esigenze prevale sull'altra, azzerandola. Viceversa, quando sia accertato il superamento della soglia di normale tollerabilità delle immissioni, si versa in una situazione di illiceità che, evidentemente, esclude il ricorso al giudizio di bilanciamento e quindi all'indennizzo, e introduce il diverso tema della inibitoria delle immissioni e dell'eventuale risarcimento del danno (ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 939 del 2011; Cass., sez. 3^, sentenza n. 5844 del 2007; Cass., sez. 25820 del 2009). 2.2. - Nel caso in esame, la Corte d'appello ha ritenuto di poter effettuare il giudizio di bilanciamento, pur in presenza dell'accertamento di immissioni intollerabili, ed ha inoltre giudicato pretestuosa l'opposizione della ricorrente alla installazione della canna fumaria, che era stata individuata, nel corso dell'istruttoria, come unico rimedio per evitare le immissioni consentendo, al contempo, la prosecuzione dell'attività commerciale della convenuta. La sentenza d'appello ha dunque affermato, sia pure indirettamente, che il proprietario il quale lamenti - a ragione - il superamento della normale tollerabilità delle immissioni provenienti dal fondo del vicino è tenuto a prestare il consenso alla costituzione di servitù, ove necessaria alla eliminazione dell'inconveniente, in caso contrario rimanendo assoggettato alle immissioni. Si tratta, all'evidenza, di una affermazione carente di qualsiasi supporto normativo. 3. - L'accoglimento della censura riguardante l'erronea applicazione dell'art. 844 cod. civ., e la conseguente la cassazione della sentenza impugnata sul punto, determina l'assorbimento delle ulteriori censure proposte dalla ricorrente. Con il secondo motivo di ricorso, infatti, sono denunciati i limiti motivazionali della sentenza d'appello in riferimento al medesimo profilo già prospettato come violazione dell'art. 844 cod. civ.. Quanto alle restanti censure contenute nel primo motivo di ricorso, va osservato che sia la violazione dell'art. 1032 cod. civ. in tema di servitù coattive, sia la violazione dell'art. 2043 cod. civ. in tema di risarcimento danni da illecito aquiliano, non presentano autonomia rispetto alla questione principale, sulla quale il giudice del rinvio dovrà pronunciarsi, e rimangono pertanto impregiudicate. 3. - Le spese, anche di questa fase del giudizio, saranno regolate dal giudice del rinvio.

P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, cassa e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Bari, anche per le spese. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 31 gennaio 2014. Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2014

9. Immissioni e danno alla salute MASSIMA L'azione ex art. 844 cod. civ. e quella di responsabilità aquiliana per la lesione del diritto alla salute sono azioni distinte ma, ciononostante, cumulabili tra loro. L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare. Nondimeno l'azione inibitoria ex art. 844 cod. civ. può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 cod. civ., nonché la domanda di risarcimento del danno informa specifica ex art. 2058 cod. civ. Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma è relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti; spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa. Le immissioni conseguenti a violazioni delle norme pubblicistiche determinano un'attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d'essere l'imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all'altrui diritto di proprietà o di godimento, sicché non essendo applicabili i criteri dettati dall'art. 844 cod. civ. viene in considerazione unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi secondo lo schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'ari. 2043 cod. civ.; parimenti, il rispetto dei limiti imposti dalle norme pubblicistiche non ha rilievo nei rapporti tra proprietà, avendo invece rilievo solo con riguardo alla sfera pubblicistica. Tali disposizioni, infatti, non escludono l'applicabilità, né dell'art. 844 c.c., né degli altri principi che tutelano la salute nei rapporti interprivati, che richiedono l'accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività. Cass. civ., sez. II, 23 maggio 2013, n. 12828

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SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è infondato e va respinto. Prima di esaminare analiticamente i motivi di ricorso, appare opportuno richiamare i punti significativi della decisione impugnata. La Corte territoriale ha osservato che “la tutela della salute nei rapporti privati richiede accertamento, caso per caso, della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività per lo svolgimento della vita di ogni soggetto interessato. Nel caso concreto (...) l'accensione delle stufe collegate ai camini di cui si discute crea nell'abitazione dello Z. condizioni che superano la normale tollerabilità. Infatti il c.t.u., all'esito delle indagini svolte (...) ha accertato che nell'abitazione della Z. era presente un odore proveniente dai fumi di scarico in atmosfera dai comignoli posti sulla copertura del tetto della casa sottostante (...), monossido di carbonio (...) e ha concluso affermando che l'uso dei camini causarono inquinamento da sostarne chimiche all'interno dell'abitazione dello Z. ”. Osserva, quindi, la Corte territoriale che “Le critiche mosse dall'appellante non scalfiscono le acquisizioni istruttorie del giudizio di primo grado e la corretta valutazione del Tribunale inevitabilmente discendente dalle prove raccolte: innanzitutto è agevole osservare che la presenta di odore è imprescindibilmente legata alla presenta della sostanza da cui l'odore stesso promana; la rilevazione di gas nocivo all'interno dell'abitazione, poi, indipendentemente dalla durata di tale accertamento, è indice della situazione di degrado che si crea nell'immobile dello Z. quando sono utilizzati i camini per cui è causa. Non è certo necessario, per integrare il superamento dei limiti della normale tollerabilità, la creazione di una condizione di provata nociuta (che nel caso in esame sarebbe esclusa dagli accertamenti dell'ASL competente) e quindi di effettiva lesione dell'integrità fisiopsichica: la tutela del diritto alla salute dell'appellato si concretizza anche nel diritto a condizioni di salubrità dell'ambiente in cui esplica la sua vita, e postula l'adozione dei provvedimenti idonei ad evitare che si verifichino condizioni che la pongano anche soltanto potenzialmente a rischio. In presenza di odori e gas nocivi, qualunque sia la loro concentrazione, in locali destinati alla abitazione e quindi, come esattamente rilevato dal Giudice di primo grado, in luoghi in cui si esplica la dimensione esistenziale prevalente dell'uomo costituisce, indubbiamente, violazione dei diritti (alla salute ed al libero godimento dell'immobile) fatti valere dallo Z. . (...) dispetto a questa situazione è del tutto ininfluente la eventuale regolarità della realizzazione dei camini di cui si discute: infatti, come opportunamente sottolineato dal Tribunale, la posizione delle due abitazioni è tale per cui anche l'eventuale innalzamento dei camini (nell'ipotesi di altezze non regolari) non risolverebbe il problema del convogliamento dei fumi derivanti dalla combustione verso l'abitazione degli appellati”. 2. - I motivi del ricorso. 2.1 - Col primo motivo di ricorso si deduce: “violazione e falsa applicazione degli artt. 1170 c.c., 844 c.c., 2043 c.c.. e 703 cpc, con riferimento all'art. 360 n. 3 cp.c. Omessa motivazione con riferimento all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ.”. Osserva il ricorrente che “la Corte d'Appello di Brescia, nella propria motivazione, sostanzialmente, fa esclusivo riferimento alla violazione del diritto alla salute, sostenendo la valenza della decisione del giudice di prime cure, che ha reputato l’accensione delle stufe alimentate con legna, collegate ai camini in discussione, come circostanza che determina la presenta di esalazioni, che superano la normale tollerabilità, nell'abitazione dei convenuti. La Corte, tuttavia, non ha motivato sul punto, pur sollevato, secondo cui il giudizio verte in tema di immissioni e non anche di diritto alla salute, per la cui tutela si sarebbe dovuta esperire azione risarcitoria avente carattere personale e non reale”. Rileva, altresì, il ricorrente che la tutela della lesione del diritto alla salute richiede una domanda autonoma e distinta (Cass. 1995 n. 1003, Cass. Sezioni unite 1998 n. 10186). Viene formulato il seguente quesito: “Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte se il diritto alla salute possa essere tutelato con l'azione di manutenzione del possesso esperita con riferimento alla violazione dell'art. 844 c.c. in tema di immissioni”. 2.2 - Il motivo è infondato quanto alla dedotta violazione di legge e inammissibile, e comunque infondato, quanto al dedotto vizio di motivazione. Quanto alla violazione di legge, in via generale occorre osservare che questa Corte fin dall'arresto citato dal ricorrente (Sez. U, Sentenza n. 10186 del 15/10/1998, Rv. 519722), ha precisato gli stretti rapporti intercorrenti tra azione a tutela della proprietà in conseguenza di immissioni e azione a tutela delle lesioni al diritto alla salute in conseguenza di immissioni oltre il consentito ex artt. 2043 e 2058 cod. civ.. Al riguardo, ha affermato che “le propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite della normale tollerabilità costituiscono un fatto illecito perseguibile, in via cumulativa, con l'azione diretta a farle cessare (avente carattere reale e natura negatoria) e con quella intesa ad ottenere il risarcimento del pregiudizio che ne sia derivato (di natura personale), a prescindere dalla circostanza che il pregiudizio medesimo abbia assunto i connotati della temporaneità e non della definitività” (Cass. n. 7420 del 2000 - Rv. 537210). Nella motivazione le Sezioni Unite, affrontando il tema del concorso delle azioni e della tutela apprestabile, hanno concluso come segue: “A conclusione del dibattito, può ritenersi consolidata in giurisprudenza la distinzione tra l'azione ex art. 844 cod. civ. e quella di responsabilità aquiliana per la lesione del diritto alla salute e, allo stesso tempo - ciò che maggiormente rileva in questa sede -

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l'ammissibilità del concorso delle due azioni. L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare (Cass., Sez. II, 23 marzo 1996, n. 2598; Cass., Sez. II, 4 agosto 1995, n. 8602). Nondimeno l'azione inibitoria ex art. 844 cod. civ. può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 cod. civ., nonché la domanda di risarcimento del danno informa specifica ex art. 2058 cod. civ. (Cass., Sez. Un. 9 aprile 1973, n. 999)”. La Corte territoriale non ha fatto altro che applicare tale condiviso principio, ritenendo che gli odierni resistenti abbiano esperito l'azione inibitoria ex art. 844 cod. civ.... per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute. Nessuna violazione di legge, quindi, ma soltanto applicazione della stessa in conformità a principi da tempo affermati da questa Corte. Il dedotto vizio di motivazione risulta inammissibile, perché avanzato senza il necessario momento di sintesi richiesto dall'art. 366 bis, ratione temporis vigente, e comunque è infondato avendo la Corte di merito chiarito, per quanto sopra riportato, di aver ricondotto l'azione proposta nel solco dell'art. 844 cod. civ. a tutela del diritto alla salute. 3.1 - Col secondo motivo di ricorso si deduce: “Violazione o falsa applicazione dell'art. 844 cod. civ., del regolamento locale d'igiene della regione Lombardia punto 3.4.43 e dpr 1391/70 punti 6.15 e 6.17, con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c.” Osserva il ricorrente che la 'normale tollerabilità' non è un criterio assoluto, ma variabile. Il limite della normale tollerabilità, posto dall'articolo 844 codice civile, costituisce 'criterio oggettivo', da verificarsi in relazione alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo nel quale si svolge l'attività che si assume lesiva e degli interessi in conflitto, nonché alle concorrenti abitudini della popolazione del luogo. L'indagine non può prescindere dalla condizione di luoghi, intesa sotto il profilo sociale e cioè in relazione al carattere delle attività normalmente svolte in una determinata zona. La collocazione dell'art. 844 nel capo secondo del codice civile testimonia come 'dette norme siano state previste per disciplinare i rapporti tra proprietari dei fondi vicini, avendo presente la necessità di stabilire diritti ed obblighi reciproci dei proprietari di immobili'. Tale reciprocità non è stata considerata dalla Corte d'appello, che ha finito per 'dare preminenza all'immobile dei ricorrenti, abbassando inopinatamente la soglia della normale tollerabilità, senza addurre alcuna giustificazione e senza apportare alcuna motivazione'. Sia il giudice di prime cure, sia la Corte territoriale hanno dato una lettura dell'articolo 844 codice civile, che 'trasforma il concetto di tollerabilità in sinonimo di lesività dei diritti personali dei proprietari confinanti', omettendo di considerare uno dei criteri che la norma impone di osservare: la valutazione dello stato dei luoghi. In particolare la Corte non aveva considerato che 'le abitazioni sono situate in un Comune di montagna, dove le case sono normalmente a dislivello e dove tutti posseggono camini alimentati con legna da ardere o utilizzino cucine economiche funzionante a legna'. I giudici dei due gradi avevano 'omesso di considerare che il criterio adottato dalla norma per operare il bilanciamento tra le diverse situazioni soggettive dei proprietari interessati è quello... della maggiore utilità sociale'. La previsione legislativa di un obbligo di sopportazione, in rapporto alla condizione dei luoghi, costituisce l’applicazione di un più ampio principio di solidarietà nell'interesse comune, garantito dalla Costituzione in misura non minore del diritto alla salute'. Ad essere comparate devono essere le esigenze abitative dei due nuclei familiari, 'esigenze aventi pari dignità'. Secondo il ricorrente, 'non è stata tenuta in alcuna considerazione l'accertata mancanza di nociuta delle esalazioni, la conformità dei camini alle norme del regolamento locale di igiene ed il rispetto delle distanze legali'. Viene formulato il seguente quesito: “Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte: a) se il parametro della normale tollerabilità di cui all'art. 844 c.c. debba avere carattere obiettivo o soggettivo; b) se il giudizio sulla tollerabilità o intollerabilità delle immissioni debba essere affidato a valutazioni condotte in termini relativi, rispetto allo stato dei luoghi; c) se il limite della normale tollerabilità posto dall'art. 844 c.c. debba essere stabilito in relazione alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo, nel quale si svolge l'attività che si assume lesiva, all'entità degli interessi in conflitto, nonché alle concorrenti abitudini della popolazione del luogo in cui l'emissione avviene; d) se il criterio della normale tollerabilità previsto dall'art. 844 II C.C. debba ritenersi operante non solo quando concorrano proprietà e produzione, ma anche tra situazioni soggettive dei proprietari, in relazione al principio della maggior utilità sociale e in rapporto alla condizione dei luoghi, in applicazione di un più ampio principio di solidarietà nell'interesse comune, costituzionalmente garantito; e) se il giudice, nella valutazione del criterio della normale tollerabilità, debba comparare il diritto alla salute con il diritto all'abitazione, tenendo conto dello stato dei luoghi, degli usi e delle abitudini locali e della regolarità delle fonti delle presunte emissioni lesive del diritto alla salute rispetto alle norme previste dal Regolamento locale di Igiene, della conformità edilizio - urbanistica dell'opera e del rispetto delle distante legali; f) se il Giudice possa porre a fondamento della sua decisione situazioni di fatto difformi da quelle previste dalla

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norma che intende applicare”. 3.2. - Il motivo è infondato. Il giudice di merito, nella sua valutazione, ha tenuto conto di tutte le argomentazioni esposte dal ricorrente (contrasto tra analoghe situazioni abitative, località montana, conformità dei camini alla disciplina edilizia ed al regolamento sanitario) e ha poi ha valutato se le esalazioni riscontrate rientrassero o meno nella 'normale tollerabilità' sulla base delle emergenze istruttorie, in particolare sulla base della espletata CTU. Con riguardo al carattere relativo della nozione della tollerabilità (quesiti lettere da a ad è), la Corte territoriale non ha fatto altro che applicare i principi affermati da questa Corte (di recente con Cass. n. 3438 del 2010, Rv. 611513), secondo la quale “Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma è relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti; spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa”. La Corte, infatti, ha analizzato la specificità della situazione, nella quale l'uso dei camini del ricorrente, in relazione alla posizione dei relativi immobili, ove pure in regola con la normativa urbanistica e sanitaria, determinava il fenomeno delle immissioni, da valutarsi in concreto rispetto alla norma codicistica, restando solo da accertare il superamento della normale tollerabilità. è appena il caso di osservare, infatti, da un lato, che le immissioni conseguenti a violazioni delle norme pubblicistiche determinano “un'attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d'essere l'imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all'altrui diritto di proprietà o di godimento, sicché non essendo applicabili i criteri dettati dall'art. 844 cod. civ. viene in considerazione unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi secondo lo schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'ari. 2043 cod. civ.” (Cass. n. 10715 del 2006, Rv. 590127) e che, dall'altro, il rispetto dei limiti imposti dalle norme pubblicistiche non ha rilievo nei rapporti tra proprietà, avendo invece rilievo solo con riguardo alla sfera pubblicistica. Tali disposizioni, infatti, non escludono l'applicabilità, né dall'art. 844 c.c., né degli altri principi che tutelano la salute nei rapporti interprivati, che richiedono l'accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività. Quindi, la Corte territoriale ha applicato correttamente i principi di diritto elaborati da questa Corte con riguardo alla applicazione dell'art. 844 cod. civ., nella sua interpretazione costituzionalmente orientata da tempo consolidatasi e, nel caso di specie, nel conflitto tra due proprietà e delle relative modalità di esplicazione del diritto (uso del camino e tutela della salute), ha correttamente ritenuto di dare la prevalenza a quest'ultimo per il maggior rilievo che assume la tutela della salute rispetto ad una delle possibilità modalità di fruizione e di godimento della proprietà privata. Sicché non sussiste, come si è detto, la violazione di legge denunciata, restando generico il quesito articolato sub lettera f (se il Giudice possa porre a fondamento de Ih sua decisione situazioni di fatto difformi da quelle previste dalla norma che intende applicare). Quanto alla cesura relativa al vizio di motivazione, essa risulta anche in questo caso inammissibile, per le medesime ragioni esposte nell'esame del primo motivo, ed, in ogni caso, infondata, trattandosi di valutazione (quella della 'normale tollerabilità') riservata al giudice e censurabile in cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione, che nel caso in questione non sussiste. Al riguardo, occorre, in proposito, precisare che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento. Di conseguenza il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte. Cass. S.U. n. 13045/97 e successive conformi) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 c.p.c., n. 5) - non equivale alla revisione del 'ragionamento decisorio', ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata. Tale revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. Né, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se - confrontando la sentenza con le risultanze

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istruttorie - prendesse d'ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso 'sub specie' di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, il citato art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ. non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. (Cass. n. 4766 del 06/03/2006 - Rv. 587349). In definitiva, le censure concernenti vizi di motivazione devono indicare quali siano i vizi logici del ragionamento decisorio e non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (Cass. n. 12467 del 25/08/2003 - Rv. 566240). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. n. 20322 del 20/10/2005 - Rv. 584541). Nel caso in questione, il ricorrente non formula precise censure nei termini su indicati, ma si limita ad una propria valutazione del materiale istruttorio (CTU), prospettando una conclusione diversa da quella della Corte di merito. 4.1 - Col terzo motivo di ricorso si deduce: “Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all'art. 360 n. 5 c.p.c.”. il ricorrente osserva che il CTU “concludeva per la irregolarità dei camini, in quanto, a suo giudizio, avrebbero dovuto sovrastare di un metro il colmo del tetto, sul presupposto che la documentazione fotografica allegata agli atti conferma che i camini non rispettano le prescrizioni del Regolamento di Igiene tipo, ex art. 53 L.R. 26.10.1981 n. 64 (norma che imponeva il sovrano di un metro dal colmo del tetto ai parapetti in presenta di ostacoli a distanza inferiore a 10 metri)”. Tale conclusione, ad avviso del ricorrente, è errata perché “il CTU applicava una norma del Regolamento Locale di Igiene non più in vigore, essendo stata superata dal successivo regolamento pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia in data 25.10.1989 (in atti), il cui contenuto impone un sovralzo di 40 cm dal colmo del tetto, quando vi siano ostacoli a distanza inferiore di 8 metri. Soltanto quest'ultimo regolamento doveva essere considerato ai fini della valutazione della conformità dei camini de quibus alle prescrizioni vigenti, non quindi il Regolamento considerato dal C.T.U., in quanto abrogato, e, neppure la disposizione di cui al punto 6.15 dell'art. 6 del D.P.R. 1391 del 22.12.1970, a cui pure fa riferimento il perito d'ufficio, in quanto norma applicabile ai soli impianti termici (esclusi, quindi, per sua stessa ammissione, camini e stufe) di potenzialità superiore alle 30.000 kcal/h”. Rivela il ricorrente ancora che 'i camini sulla proprietà P. distano dall'abitazione dei ricorrenti più di 10 metri' e conclude il motivo, osservando che in presenza di specifiche osservazioni delle parti, 'il giudice del merito è tenuto a fornire un'adeguata motivazione così della sua adesione alle argomentazioni ed alle consequenziali conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, come del mancato ricorso ad un supplemento o ad un rinnovo della consulenza tecnica d'ufficio'. 4.2 - La questione del rispetto delle distanze, della regolarità urbanistica dell'immobile del ricorrente e della applicabilità della normativa sanitaria in materia, resta assorbita dalle considerazioni svolte nel rigetto del precedente motivo. 5.1 - Col quarto motivo di ricorso si deduce: “violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342 e 345 CPC, con riferimento all'art. 360 n. 4 c.p.c.”. Osserva il ricorrente che “Gli appellati hanno formulato appello incidentale del seguente letterale il motivo per cui chiediamo la rimozione o quantomeno la chiusura dei camini a legna è dovuto al fatto che gli stessi sono abusivi in quanto mai approvati dalla Commissione Edilizia e ancor peggio mai progettati. Altro motivo è legato al fatto che lo stesso P. non ha sempre rispettato il divieto di utilizzo imposto dalla sentenza accendendo il camino in tarda serata in modo che nessun passante sulla strada potesse vedere il fumo, ad esclusione dello Z. , che tanto potrebbe fornire prove per testi'. La Corte territoriale sul punto ha accolto l'appello incidentale così motivando: “La difficoltà della esecuzione di un ordine di astensione, rispetto a cui la reazione dell'ordinamento rischia di essere decisamente tardiva, giustifica pienamente la domanda”. Secondo il ricorrente, si trattava di una domanda nuova, sulla quale non era stato accettato il contraddittorio, fondata su motivi privi di specificità e su affermazioni che risultavano non vere e comunque smentite dalla documentazione in atti (regolarità amministrativa dei camini). Viene formulato il seguente quesito: “Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte: a) se l'appellante incidentale, nel proporre l'appello, al fine di assolvere all'onere della specificazione dei motivi d'appello previsto dall'art. 342 cpc, debba esprimere articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado; b) se l'appellante incidentale, nel dedurre i motivi d'appello, debba comunque formulare espressa censura su un punto decisivo della controversia, sul quale il giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi; c) se il giudice possa emettere una statuizione basando la decisione su fatti costitutivi dedotti per la prima volta in appello e/o su fatti costitutivi diversi da quelli dedotti, sforniti di prova”.

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5.2 — Anche tale ultimo motivo è infondato, posto che il giudice d'appello, investito della questione dell'applicabilità al caso in questione dei principi civilistici in materia d'immissioni, non ha considerato le questioni, in tesi nuove, della conformità o meno dei camini alle prescrizioni pubblicistiche, avendo, come detto, fatto applicazione dei principi da tempo affermati da questa Corte al riguardo e sopra riportati. Né l'appello è carente di specificità, essendo sufficientemente indicate le ragioni della decisione impugnata e le richieste dell'appellante (appunto l'adozione di idonei strumenti atti ad evitare le immissioni). Né, ai fini della decisione in concreto resa per evitare le immissioni, la Corte territoriale ha fatto riferimento ai fatti, che, secondo il ricorrente, sarebbero stati dedotti dagli appellanti per la prima volta in appello. Richiesta di un provvedimento adeguato alla soluzione del problema, la Corte ha operato una scelta di merito, non censurabile in questa sede, perché adeguatamente motivata. 6. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 2.500,00 (duemilacinquecento) Euro per compensi e 200,00 (duecento) Euro per spese, oltre accessori di legge.

10. Usucapione di posto auto MASSIMA Al fine di ottenere, nell’ambito di un condominio, il riconoscimento per usucapione di un diritto reale esclusivo, quale un diritto di servitù di transito e parcheggio, è necessario provare lo ius excludendi nei confronti degli altri condomini e cioè il diritto di escludere gli altri condomini dall'uso dello spazio riservato a parcheggio. Cass. civ., sez. II, 16 maggio 2014, n. 10858 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorrenti deducono: 1) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, avendo la Corte di merito completamente omesso l'esame dell'atto pubblico 17.6.1967 che escludeva ogni diritto del condominio "Residenza (OMISSIS)" al parcheggio sul mappale 476, mappale ricompreso invece, secondo il rogito 17.6.1970, nell'area asservita a parcheggio autoveicoli in favore dell' albergo; di conseguenza sarebbe stato erroneamente "attribuito" al condominio convenuto il diritto a posteggiare l'auto sul mappale 476, in contraddizione con la pattuizione di cui all'atto 17.6.1967, laddove era previsto che il condominio potesse accedervi "con transito per soli pedoni"; 2) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, riguardante la domanda di acquisto a titolo originario del diritto di parcheggio esclusivo; il giudice di appello aveva al riguardo omesso di considerare l'esistenza di presidi, anche umani (controllo stabile del portiere dell'albergo), idonei a provare, unitamente ad altri segni permanenti (sbarra telecomandata, cartelloni, segnaletica orizzontale, strisce di colore diverso) l'utilizzo, in forma esclusiva, del parcheggio da parte del "(OMISSIS)". Va preliminarmente dichiarata l'inammissibilità del ricorso proposto dalla Laguna s.a.s. per difetto di legittimazione attiva, essendo la stessa solo locataria del fabbricato ad uso albergo, di proprietà di Mediocredito del Friuli Venezia Giulia s.p.a., unica titolare del diritto di servitù per cui è causa. Il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto fondato sul mancato esame dell'atto pubblico 17.6.1967 il cui tenore, non risultando essere stato oggetto di censura in sede di appello, integra una questione nuova, come tale esulante dal sindacato di legittimità. La sentenza impugnata ha, infatti, dato atto che la convenzione per atto pubblico del 17.6.1970, posta dall'attrice a fondamento della domanda di accertamento della servitù di transito e parcheggio esclusivo sull'area individuata da detto atto (v. pag. 6 della sentenza nella parte relativa allo "svolgimento del processo") era stata correttamente interpretata dal primo giudice, nel senso che alla società attrice erano stati destinati alcuni posti macchina "senza alcuna indicazione dell'esclusività del parcheggio rispetto a tutti gli altri condomini" ed ha escluso, inoltre, che tale esclusività fosse desumibile dal comportamento delle parti successivo al contratto. Priva di fondamento è la seconda censura; la Corte di merito ha disatteso l'acquisto per usucapione, in favore della società appellante, del diritto di parcheggio esclusivo i evidenziando, sulla base della valutazione di elementi in fatto,delle prove testimoniale e dell'esito della C.T.U., che la società stessa non aveva provato il diritto di escludere egli altri condomini dall'uso dello spazio riservato a parcheggio ed, anzi, ha ritenuto sussistente la prova contraria, avendo un teste dichiarato di aver sempre parcheggiato, dal 1986, sui posti auto dell'albergo ed avendo un altro testimone riferito che i vari posti auto erano occupati in maniera indistinta, senza alcun uso esclusivo da parte dei clienti del Condominio Residenza (OMISSIS).

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Tale motivazione è esente da vizi logici e giuridici, non potendo essi consistere in un difforme apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice di merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvo i casi previsti tassativamente dalla legge in cui è assegnato alla prova un valore legale(Cass. n. 7394/2010; n. 6064/2008). In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna delle società ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso della Laguna s.a.s.; rigetta il ricorso di Mediocredito del Friuli Venezia Giulia s.p.a. e condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali che si liquidano in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 7 marzo 2014. Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2014.

11. Usucapione di beni in comunione MASSIMA In tema di comunione, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari, ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocamente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, sicché, in presenza di un ragionevole dubbio sul significato dell'atto materiale, il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito avesse, correttamente, escluso l'avvenuto acquisto per usucapione, da parte di un condomino, della porzione del condotto di scarico della spazzatura adiacente al suo appartamento per non essersi palesata in forme inequivoche per gli altri condomini l'intenzione di possedere attesa l'impossibilità, per loro, di ispezionare il condotto a causa del blocco degli sportelli di accesso - presenti su tutti i ballatoi - dovuto a ragioni pratiche e di sicurezza). Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2015, n. 11903 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente deduce "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)), in ordine alla supposta impossibilità per il Condominio di accertare lo stato di fatto del bene di cui l'esponente ha dedotto l'intervenuta usucapione" (così ricorso, pag. 5). Adduce che al condotto di scarico in muratura della spazzatura, condotto che corre dall'ultimo pianerottolo al piano terra in ciascuna delle tre scale in cui è suddiviso il condominio, "era possibile accedere (...) mediante i portelli di ispezione presenti su ciascun ballatoio dell'immobile" (così ricorso, pag. 7); che, dunque, "il condominio non si trovava nell'impossibilità (...) di farlo" (così ricorso, pag. 7), giacché "proprio l'apertura dei portelli (...) era idonea a mostrare adeguatamente lo stato del condotto e la sua occupazione" (così ricorso, pag. 10); che pertanto "il possesso esclusivo del condotto è sempre stato pubblico in tutte le forme in cui ciò era possibile" (così ricorso, pag. 10); che, del resto, lo stesso "condominio ha ammesso che la "presunta" scoperta dell'avvenuta incorporazione del condotto (...) è avvenuta mediante l'apertura dei portelli del condotto presenti su ciascun pianerottolo dell'immobile" (così ricorso, pag. 13), in tal guisa smentendo l'affermazione, per nulla motivata, della corte di merito, "secondo cui l'accesso alla proprietà dell'esponente avrebbe costituito l'unica possibilità per constatare l'occupazione dello spazio di condotto da parte dell'esponente" (così ricorso, pag. 13). Con il secondo motivo la ricorrente deduce "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)), in ordine alla ritenuta esistenza di un accesso al condotto per cui è causa all'interno dell'appartamento di proprietà dell'esponente" (così ricorso, pag. 17). Adduce che risulta omessa qualsivoglia motivazione in ordine alla circostanza, pur affermata nel dictum di seconde cure, secondo cui al condotto era possibile accedere dalla proprietà di ella ricorrente; che tale affermazione è non solo contraddetta "dalla documentazione fotografica versata in atti" (così ricorso, pag. 18), ma è smentita pur dalle difese del condominio; che "si tratta quindi di un errore in cui è incorsa la Corte di Appello di Genova, la quale (...) ha omesso di motivare in alcun modo la propria decisione sul punto" (così ricorso, pag. 20). Con il terzo motivo la ricorrente deduce "violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3)), con particolare riferimento agli artt. 1158 e 1159 c.c." (così ricorso, pag. 21).

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Adduce che l'affermazione della corte territoriale, secondo cui ella ricorrente non avrebbe potuto acquisire la proprietà del condotto mediante usucapione, avendone l'uso in veste di comproprietaria, è errata in diritto alla luce della giurisprudenza di questa Corte di legittimità; che propriamente, siccome risulta dagli atti di causa, l'appartamento da ella acquistato nel 1976, sulla scorta di atti di acquisto del tutto coerenti con lo stato di fatto, "includeva già in allora - e quindi incorporava definitivamente al suo interno - la porzione del condotto che anteriormente era adiacente all'appartamento stesso" (così ricorso, pag. 22). Si giustifica la simultanea disamina dei motivi di ricorso. Le addotte ragioni di censura sono invero strettamente connesse. In ogni caso i motivi sono tutti e ciascuno destituiti di fondamento. E' fuor di dubbio che "il condotto di scarico della spazzatura di cui si tratta (...) corre dall'ultimo pianerottolo al piano terra" (così ricorso, pag. 8) e "doveva essere utilizzato per la raccolta a caduta dei rifiuti, che ciascun condomino avrebbe dovuto gettare nel condotto dalla botola di accesso posta al suo pianerottolo" (così ricorso, pag. 9). Il condotto de quo agitur quindi è da presumere di proprietà comune in virtù della previsione dell'art. 1117 c.c., n. 3) - nella formulazione applicabile ratione temporis al caso di specie - e, segnatamente, della prefigurazione "canali di scarico" che vi è ricompresa. Su tale scorta e con precipuo riferimento al terzo motivo di ricorso, evidentemente di antecedente rilievo logico - giuridico, risulta imprescindibile il riferimento all'insegnamento n. 2944 del 9.4.1990 di questa Corte, alla cui stregua, in tema di comunione, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari (invero, alla regola della interversio possessionis, intesa in senso propriamente tecnico, è posta una deroga dall'art. 1102 c.c., nell'ipotesi di compossesso, dato che il compossessore se intende estendere il suo possesso esclusivo sul bene comune, non ha alcuna necessità di fare opposizione al diritto dei condomini, cosi come invece previsto nel caso di vera e propria interversio possessionis, ma è sufficiente solo che compia "atti idonei a mutare il titolo del suo possesso": a tal specifico riguardo cfr. Cass. 15.11.1973, n. 3045), ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi, per un verso, l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, per altro verso, denoti inequivocamente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, per cui ove possa sussistere un ragionevole dubbio sul significato dell'atto materiale, il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere, ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva. Orbene, in questi termini si svela certamente inesatta l'affermazione della corte di merito secondo cui "in ogni caso, appare decisivo e dirimente il fatto che parte appellante vanta il possesso di uno spazio condominiale del quale aveva l'uso in qualità di comproprietario e non come mero possessore, per cui tale spazio non può essere usucapito (il bene è di proprietà comune (...) e dello stesso può solo farsi uso, senza privare gli altri comproprietari della proprietà, che resta comune)" (così sentenza d'appello, pag. 6). Ciò nonostante, la valenza di autonoma ratio decidendi che la testé menzionata (ed inesatta) affermazione riveste, per nulla mina, per nulla menoma l'ineccepibilità dell'ulteriore ratio - cui specificamente si correlano i primi due motivi - che da sola ha attitudine a sorreggere e a dar contezza della correttezza del dictum della corte genovese. Più esattamente, nel segno dei menzionati insegnamenti n. 2944 del 9.4.1990 e n. 3045 del 15.11.1973 di questa Corte, vi è da reputare, alla luce delle specifiche circostanze del caso concreto, che lungo tutto l'arco temporale all'esito del quale si assume maturata l'usucapione, l'intenzione di D.M.G. di possedere in via esclusiva la porzione del condotto di scarico limitrofa al proprio appartamento ed in esso inglobata non si è palesata in forme inequivoche agli altri condomini. Non è sicuramente questa la sede per rivisitare il giudizio in ordine alle circostanze di fatto alla stregua della cui valutazione la corte distrettuale ha concluso per la "clandestinità" del possesso. Invero, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789). Nondimeno si evidenzia quanto segue. In primo luogo, che al cospetto della deduzione di parte ricorrente secondo cui "proprio l'apertura dei portelli (...) era idonea a mostrare adeguatamente lo stato del condotto e la sua occupazione" (così ricorso, pag. 10), ben può ragionevolmente opinarsi (siccome prospetta il controricorrente e ciò, ben vero, nonostante il vizio - di cui si dirà - che inficia la procura dal condominio rilasciata ai propri difensori) nel senso che le caratteristiche costruttive non consentissero una normale ispezione del condotto e che gli sportelli di accesso posti su tutti i ballatoi fossero stati bloccati per motivi pratici e di sicurezza, sicché non vi era possibilità di un agevole controllo. Tale rilievo, si badi, è più che sufficiente, ex se, a dar ragione del difetto di univocità della rappresentazione

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dell'intenzione della D.M. di possedere la porzione del condotto in maniera esclusiva. In secondo luogo, in ordine alla prospettazione della ricorrente secondo cui la corte di merito non avrebbe motivato l'affermazione "secondo cui al condotto per cui è causa si aveva accesso da ciascun appartamento adiacente ad esso" (così ricorso, pag. 18), che, al di là, appunto, dell'affermazione di cui all'incipit della motivazione del dictum della corte distrettuale ("nel condominio per cui è causa esiste, dal momento della costruzione dell'edificio, un condotto di scarico dei rifiuti, di proprietà comune, ma con accesso da ciascun appartamento adiacente ad esso": così sentenza d'appello, pag. 4), il passaggio motivazionale qualificante è piuttosto quello secondo cui "unico modo per effettuare l'accertamento era la verifica dello stato di fatto all'interno dell'abitazione D.M., unica possibilità per constatare l'indebita occupazione dello spazio di condotto adiacente appunto a tale abitazione" (così sentenza d'appello, pag. 5). Orbene, individuato in tal guisa il passaggio motivazionale saliente che sostiene la statuizione di seconde cure, segnatamente l'affermata "clandestinità" del possesso, è ben evidente che specificamente il secondo motivo di censura è del tutto astratto, è del tutto avulso dalla effettiva ratio decidendi. Ai difensori del condominio controricorrente - se ne è dato atto in epigrafe - la procura speciale è stata rilasciata in calce alla copia notificata in data 25.9.2009 del ricorso. Si osserva, al contempo, che la procura speciale per resistere al ricorso per cassazione redatta in calce o a margine della copia notificata del ricorso non è valida per la proposizione del controricorso (né per la formulazione di memorie), non offrendo alcuna certezza della anteriorità del conferimento del mandato rispetto alla notifica dell'atto di resistenza (cfr. Cass. 28.1.2005, n. 1826). Conseguentemente la costituzione nel presente grado di legittimità del condominio di via (OMISSIS) deve considerarsi invalida e tamquam non esset. Ne discende ulteriormente che, nonostante il rigetto del ricorso, nulla compete al condominio controricorrente a titolo di rimborso delle spese del presente grado. Ovviamente e del pari nessuna statuizione in ordine alle spese va assunta in relazione all'intimato B.M..

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 febbraio 2015. Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2015

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DIRITTO PENALE

IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ

I corollari

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Dottrina

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IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ

Sommario: 1. Il principio di legalità. – 1.1. Il principio di legalità delle pene. – 2. I corollari. – 3. La determinatezza, la precisione e la tassatività. – 3.1. Gli elementi descrittivi e normativi della fattispecie. – 4. Il divieto di analogia in materia penale. – 4.1. L’interpretazione estensiva. – 5. Il principio della riserva di legge. – 5.1. L’ambito di operatività. – 5.2. Le c.d. norme penali in bianco. – 5.3. I limiti degli interventi della Consulta.1. IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ Il principio di “stretta legalità” o anche semplicemente di “legalità”, già sancito dallo Statuto Albertino del 1848 (art. 26), è affermato dall’art. 1 del codice penale secondo cui “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, ne con pene che non siano da essa stabilite”. La necessità che il precetto penale sia consacrato in una legge entrata in vigore prima del fatto commesso è di derivazione illuministica, e risponde all’idea di tutelare le libertà dei cittadini di fronte allo Stato: gli individui devono avere la possibilità di conoscere prima quali sono i fatti penalmente rilevanti. La garanzia del principio di legalità si lega storicamente all’avvento dello stato liberale di diritto che si caratterizza per la separazione dei poteri: in questo modello di ordinamento, il monopolio sulla creazione dei reati e sulla fissazione in astratto delle pene spetta al potere legislativo, in modo da evitare i possibili abusi dell’esecutivo e dei giudici. L’elaborazione teorica del principio della separazione dei poteri può farsi risalire a Montesquieu, il quale pose in risalto l’esigenza di tenere distinti i tre poteri, al fine di garantire le libertà del cittadino. Il primato della legge in materia penale fu ribadito da Beccaria, il quale aggiunse pure che le leggi dovessero essere chiare, in modo da evitare ogni incertezza da parte dei cittadini su ciò che costituisce reato e in guisa da limitare la discrezionalità del giudice nella fase applicativa. I principi invocati dagli illuministi furono poi consacrati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) e nelle Costituzioni francesi del 1791 e del 1793. L’origine del brocardo latino nulla poena sine lege può farsi risalire al penalista tedesco Feuerbach: l’inflizione di una pena deve presupporre sempre una legge penale e può esservi reato soltanto in quanto ci sia una pena stabilita in una legge (nullum crimen sine poena legali). L’importanza di tali enunciazioni verrà successivamente consacrata nel brocardo nullum crimen, nulla poena sine lege. Oltre che nella Costituzione della Repubblica, il principio di legalità viene ribadito dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 7, comma primo, l. 4 agosto 1955, n. 848), nonché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 49). A sua volta il codice penale del 1930 (art. 1), come anticipato, prevede che “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”: come può evincersi da una lettura della norma, la disposizione utilizza l’avverbio “espressamente” e fa riferimento anche alla legalità delle pene (v., a tal proposito, il § 1.1.). Nella legge, quindi, deve essere indicato non solo l’illecito penale, ma anche la misura della pena. Normalmente si suole distinguere il principio di legalità formale (che afferma che l'amministrazione e i giudici non hanno altri poteri se non quelli conferiti dalla legge) e il principio di legalità sostanziale (secondo cui l’amministrazione e i giudici devono tenere in esercizio i loro poteri in corrispondenza con i contenuti prescritti dalla legge). Anche la Carta Costituzionale consacra il principio di legalità affermando che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” (art. 25). La diversa formulazione letterale della norma costituzionale rispetto alla disposizione codicistica non deve trarre in inganno: come osservato dalla più autorevole dottrina, muovendo dalla ratio che vi è sottesa, la disposizione della Carta Fondamentale non può non avere un contenuto significativo corrispondente a quello della disposizione del codice penale: se è vero che il legislatore costituente del 1948 si proponeva di reintrodurre tutte le garanzie politiche dei diritti di libertà proprie della tradizione liberal-democratica, sarebbe contraddittorio ritenere che, nel procedere alla costituzionalizzazione del nullum crimen sine lege egli non intendesse recuperarne tutte le dimensioni garantistiche. Nel senso della loro perfetta coincidenza, del resto, si è espressa la stessa Consulta con la sentenza n. 27 del 1961. L’aver sancito tale canone nella Carta fondamentale ha comportato un potenziamento della sua funzione garantistica sul piano dello fonti: invero, finché il principio di legalità si trovava enunciato in leggi ordinarie, com’é il codice penale, poteva essere sempre derogato dal legislatore; una volta affermato in Costituzione, invece, è diventato vincolante per lo stesso legislatore, il quale, nel formulare le fattispecie incriminatrici, non può spogliarsi del suo monopolio, rinviando ad atti normativi emanati dal potere esecutivo.

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1.1. IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ DELLE PENE Il principio di legalità delle pene comporta la necessità di una predeterminazione legale del tipo di sanzione penale, ma anche della misura della pena: il legislatore individua, di regola, una cornice edittale per consentire al giudice di individualizzare la pena, in omaggio agli altri principi posti dall’art. 27 Cost. La responsabilità penale è, infatti, “personale” (art. 27, comma primo, Cost.): il che impone al giudice di scegliere, tra il minimo e il massimo stabilito dalla fattispecie, la pena adeguata al caso concreto, tenuto conto delle eventuali circostanze attenuanti o aggravanti. Ne deriva l’incostituzionalità delle pene indeterminate nel massimo, ma anche il divieto di cornici edittali imprecise o troppo ampie. Peraltro, sia il principio posto dal primo comma dell’art. 27 Cost., sia il finalismo rieducativo (comma terzo) dovrebbero comportare l’inammissibilità delle pene fisse, in quanto non consentono al giudice di adeguare la pena al fatto e alla colpevolezza dell’autore. Per quanto concerne, invece, il tipo di sanzione, la Costituzione vieta la pena di morte e i trattamenti contrari al senso di umanità (es. tortura, pene infamanti o disumane ecc.) ai sensi dei commi terzo e quarto dell’art. 27.

2. I COROLLARI Dalla lettura combinata dell’art. 1 del codice penale e dall’art. 25 della Costituzione si rinvengono le seguenti conseguenze: 1) un fatto non può considerarsi reato né sottoporsi a pena, se una legge non lo prevede come tale (principio di riserva di legge); 2) al fatto preveduto dalla legge come reato non si possono applicare che le pene fissate dalla legge nei singoli casi e nessuno potrà essere punito da una legge che non sia entrata in vigore prima della commissione del reato (principio di irretroattività); 3) il fatto, che dà luogo all’applicazione della pena, deve essere previsto dalla legge in modo “espresso” e quindi mentre esso non può desumersi implicitamente da norme che concernono fatti diversi (divieto di analogia), la fattispecie che lo descrive deve essere formulata con sufficiente determinatezza (principio di tassatività). Occorre precisare che il principio di legalità sarebbe rispettato (solo) nella forma ma eluso nella sostanza se la legge, che eleva un dato fatto a fattispecie di reato lo configurasse in termini generici da non lasciare individuare con sufficiente precisione il comportamento penalmente sanzionato; appartiene, quindi, alla stessa ragione ispiratrice del principio di legalità l’esigenza della tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale. Ne deriva che, quando non risulti con precisione che un comportamento sia colpito da una determinata norma incriminatrice, va esclusa l’incriminabilità della condotta.

3. LA DETERMINATEZZA, LA PRECISIONE E LA TASSATIVITÀ Dibattuto è l’esatto valore semantico ascrivibile alle espressioni “determinatezza e tassatività”. Una parte della dottrina vuole tenere separate le due espressioni: - la determinatezza, concernerebbe la verificabilità empirica e processuale del fatto delineato dalla norma incriminatrice; - la tassatività, invece, atterrebbe alla proiezione esterna della norma penale. Altra parte della dottrina distingue tra determinatezza, precisione e tassatività. Secondo tale corrente di pensiero: 1) il principio di precisione impone al legislatore di disciplinare con precisione il reato e le sanzioni penali, in modo da delimitare l’ambito di discrezionalità dell’autorità giudiziaria e assicurare i diritti di libertà del cittadino; 2) il principio di determinatezza impone la descrizione di fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo attraverso i criteri messi a disposizione dalla scienza e dall’esperienza attuale; 3) il principio di tassatività esprime il divieto per il giudice e per il legislatore di estendere la disciplina contenuta nelle norme incriminatrici oltre i casi in esse espressamente previsti. Il principio di tassatività si impone al legislatore sotto un duplice aspetto: da un lato, richiede precisione e univocità nella descrizione del precetto in modo da evitare che lo stesso risulti ambiguo nel significato; dall’altro, impone che i concetti in tal modo descritti abbiano un riscontro nella realtà empirica e possano essere realmente accertati dal giudice. Quindi il principio di tassatività è essenzialmente deputato ad evitare arbitrarie ingerenze nelle norme penali da parte del potere giudiziario. La determinatezza della fattispecie incriminatrice rappresenta una condizione indispensabile perché la norma penale possa efficacemente fungere da guida del comportamento del cittadino. L’inserimento della tassatività nell’ottica del rapporto norma-cittadino ne esalta la valenza di principio penalistico proprio di uno stato democratico: quanto più il cittadino è posto in condizione di discernere senza ambiguità tra le zone del lecito e dell’illecito, tanto più cresce il suo rapporto di fiducia partecipativa nei confronti della Stato e delle sue istituzioni.

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Il principio di tassatività vincola da un lato il legislatore ad una descrizione il più possibile precisa del fatto di reato e, dall’altro il giudice ad una interpretazione che rifletta il tipo descrittivo così come legalmente configurato.

3.1. GLI ELEMENTI DESCRITTIVI E NORMATIVI DELLA FATTISPECIE Gli strumenti di tecnica legislativa atti a garantire la tassatività della fattispecie sono i cosiddetti elementi descrittivi, elementi cioè che traggono il loro significato direttamente dalla realtà e dall’esperienza. Evidenti esempi di fattispecie costituite in forma descrittiva sono i delitti di omicidio (art. 575 c.p.), lesioni personali (art. 582 c.p.) o di danneggiamento (art. 635 c.p.). Quanto agli elementi normativi, cioè agli elementi che necessitano per la determinazione del loro contenuto di una integrazione mediante rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice, occorre operare una precisazione: se si tratta di elementi normativi giuridici, l’esigenza di tassatività è per lo più rispettata perché la norma giuridica richiamata è solitamente individuale senza incertezza; se si tratti invece di elementi normativi extra-giuridici cioè rinvianti a norme sociali o di costume (ad esempio atti osceni, la determinazione dei quali rinvia al comune sentimento del pudore), il parametro di riferimento diventa inevitabilmente incerto.

4. IL DIVIETO DI ANALOGIA IN MATERIA PENALE Quanto, poi, alle ragioni sottese al divieto di ricorrere all’analogia in ambito penale giova puntualizzare che lo stesso affonda le sue radici nell’esigenza di tassatività della fattispecie. Infatti ciò che non viene rispettato è il principio di determinatezza e più precisamente di tassatività della fattispecie, riconoscendosi al giudice la possibilità di applicare le disposizioni ad ipotesi non puntualmente contemplate. Va dunque riconosciuto il fondamento costituzionale del principio del divieto di analogia nell’art. 14 delle preleggi e nel art. 1 e 199 c.p.. Ne discende, dunque – in estrema sintesi – che il precetto penale, e la relativa sanzione, debbano trovare fonte in una previsione legislativa entrata in vigore anteriormente al fatto commesso (e adeguatamente pubblicizzata per garantirne la conoscibilità in capo ai destinatari: art. 73, comma terzo, Cost.), debbano essere formulati con precisione e con pregnanza descrittiva rispetto a dati empiricamente verificabili, e debbano altresì essere applicati tassativamente ai casi indicati, con relativo divieto di estensione analogica in capo al giudice. L’analogia consiste nel dare una regolamentazione ad una caso non disciplinato, ne esplicitamente, né implicitamente dalla legge, confrontandolo con altro caso simile oggetto di una norma di legge. Ha dunque funzione integratrice delle norme giuridiche. Per analogia legis, si intende, quindi, l’operazione intesa ad assegnare alla previsione normativa un significato più ampio rispetto a quello risultante dalla portata letterale della stessa. Lo stesso procedimento sorregge l’analogia iuris che si differenzia dalla prima perché come parametro di somiglianza utilizza i principi generali dell’ordinamento. Il principio di stretta legalità vigente in diritto penale impone al giudice di attenersi alla precisa disposizione della norma incriminatrice, senza indulgere a interpretazione analogiche. Ne consegue che la sanzione da applicare a una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica. Il divieto di analogia è violato in tutti i casi nei quali il legislatore fa ricorso a tecniche di tipizzazione di tipo casistico, accompagnate dall’aggiunta di formule di chiusura quali “in casi simili”, “in casi analoghi”. Controversa è l’ampiezza del divieto in esame. Secondo un indirizzo minoritario il divieto di analogia avrebbe carattere assoluto, nel senso che riguarderebbe sia le norme incriminatrici, sia le norme di favore (che prevedono cioè cause di non punibilità o di estinzione del reato). A giustificazione di tale assunto così rigoroso si adduce il primato dell’esigenza di certezza. Infatti, la certezza del comando penale, in questo caso, verrebbe meno non solo se si estendesse analogicamente la disposizione incriminatrice, ma anche se fossero resi incerti, in conseguenza del procedimento analogico, i limiti della sua applicazione. Contro la concezione assoluta del divieto di analogia è da obiettare, con la dottrina dominante, che l’art. 25, comma 2, Cost. sancisce il primato non dell’esigenza di certezza ma della libertà del cittadino: proprio muovendo dal presupposto che la “libertà” è la regola,e la sua limitazione l’eccezione, risulta del tutto conforme all’art. 25 Cost. un'interpretazione analogica che abbia come obiettivo di estendere la portata delle norme più favorevoli al reo. Riconosciuto che il divieto di analogia ha carattere relativo perché concerne soltanto l’interpretazione delle norme penali sfavorevoli, si tratta di precisare in che limiti sia consentita un interpretazione analogica in bonam partem. L’ammissibilità di un siffatto procedimento analogico potrebbe, infatti, trovare ostacolo nel citato art 14 delle disposizioni preliminari, a tenore del quale “le leggi che fanno eccezioni a regole generali o ad altre leggi non si

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applicano oltre i casi e i tempi in essa considerati”. Occorre dunque stabilire il significato del concetto di leggi eccezionali insuscettivo di applicazione analogica sia in malam partem che in bonam partem. Secondo un orientamento ormai consolidato sono da considerare regolari le norme che disciplinano situazioni generali in cui può versare “chiunque” al ricorrere di determinati presupposti; mentre ci si trova di fronte a norme eccezionali tutte le volte in cui viene introdotta una disciplina che deroga rispetto a particolari casi all’efficacia potenziale generale di uno o più disposizioni applicando questi criteri distintivi. Non tutte le norme, però, che prevedono cause di non punibilità hanno carattere eccezionale ad esempio le cause cosiddette di giustificazione o di esclusione della colpevolezza, appaiono suscettibili di applicazione analogica, ad esempio il caso di un ragazzo sequestrato che, per riconquistare la libertà ferisce il guardiano dormiente sapendo che non sarà pagato il riscatto (legittima difesa cosiddetta anticipata). Il ricorso al procedimento analogico è invece precluso rispetto a quelle cause di non punibilità che fanno riferimento a situazioni particolari. Pertanto l’analogia risulta di conseguenza inammissibile rispetto alla cosiddette immunità le quali derogano al principio della generale obbligatorietà della legge penale rispetto a tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato; alle cause di estinzione del reato e della pena che derogano alla normale disciplina dell’illecito penale; alle cause speciali di non punibilità che rispecchiano valutazioni politico-criminali legate alle caratteristiche specifiche della situazione presa in considerazione e perciò non estensibili ad altri (come, ad esempio, il rapporto di famiglia nei reati contro il patrimonio).

4.1. L’INTERPRETAZIONE ESTENSIVA Altro problema che si è posto la dottrina e la giurisprudenza e che non è sempre agevole distinguere tra analogia e interpretazione estensiva. Secondo parte della dottrina maggioritaria non si travalicano i limiti di un interpretazione estensiva della fattispecie incriminatrice allorché la soluzione proposta rientra in ogni caso nell’ambito dei possibili significati letterali dei termini impiegati nel testo di legge. Si ricade quindi nel divieto di applicazione analogica delle legge penale se l’interpretazione ermeneutica và al di la della massima estensibilità interpretativa del testo di legge. Anche la Suprema corte ha ben accolto, in qualche pronuncia il discrimine teorico tra interpretazione estensiva e procedimento analogico, ribadendo che l’interpretazione estensiva è sempre legata al testo della norma esistente, il procedimento analogico è, invece, creativo di una nuova norma che prima non esisteva. Ciò spiega perché il procedimento per analogia sia incompatibile con il principio di legalità sancito legislativamente dall’art. 1 c.p. e costituzionalmente garantito dal comma 2 dell’art. 25 Costituzione.

5. IL PRINCIPIO DELLA RISERVA DI LEGGE Il principio della riserva di legge nel diritto penale esprime il divieto di punire un determinato fatto in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato; intende, in particolare, sottrarre la competenza in materia penale al potere Esecutivo. Detto principio, concretizzandosi nella necessità che il precetto e la sanzione che formano oggetto della fattispecie incriminatrice siano individuati dalla legge, è posto a garanzia delle libertà individuali delle persone. La riserva di legge non si riferisce solo ai provvedimenti normativi emessi dal Parlamento ma anche agli atti aventi forza di legge, come i decreti legislativi e i decreti legge anche se, con riferimento a questi ultimi, i presupposti di necessità e di urgenza che ne costituiscono il fondamento, mal s'attagliano con la necessità di ponderazione sottesa alle scelte di criminalizzazione delle condotte umane. In linea di massima occorre rilevare che la riserva di legge nel diritto penale si riferisce solo alla legge statale con esclusione di quella regionale che può, tuttavia, produrre effetti scriminanti, riconoscendo, nelle sue materie di competenza esclusiva, diritti ai propri cittadini. L’orientamento della giurisprudenza costituzionale, in merito al mancato riconoscimento della titolarità di potestà punitiva in capo alle Regioni, non ha subito alterazioni a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione che, come è noto, ha rimodulato il riparto di competenze tra Stato e Regioni. In dottrina si è posta la questione dei rapporti tra la consuetudine ed il principio della riserva di legge nel diritto penale; esclusa la possibile operatività della consuetudine incriminatrice ed abrogatrice (desuetudine), una corrente di pensiero ha ammesso la possibilità che la consuetudine crei nuove esimenti o cause di non punibilità (consuetudine integrativa). Con riferimento al diritto comunitario, deve escludersi che lo stesso possa stabilire nuove fattispecie incriminatrici e ciò, sia alla luce dell'art. 25 Cost. che riserva la materia al Legislatore statale, sia alla luce dell'art. 189 del Trattato di Roma che limita l'intervento normativo comunitario al campo dei rapporti economici e ad alcune libertà fondamentali. Posto, però, il principio generale del primato del diritto comunitario, esso potrà integrare alcuni elementi della fattispecie incriminatrice o determinarne la disapplicazione qualora contrastante con norme poste da regolamenti comunitari.

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5.1. L’AMBITO DI OPERATIVITÀ

Oggetto di notevoli contrasti in dottrina e giurisprudenza è, poi, la portata della riserva di legge nel diritto penale se, cioè, essa vada intesa in senso assoluto o relativo. La riserva di legge, intesa in modo assoluto, implica che tutti gli elementi della fattispecie penale siano individuati dal legislatore; qualora la si intenda in senso relativo, al legislatore spetterà la definizione delle linee fondamentali della fattispecie incriminatrice ed alla normativa secondaria l'individuazione delle specifiche tecniche o, con riferimento alle c.d. norme penali in bianco, anche la concreta individuazione della condotta vietata. L'ammissibilità di un'integrazione del precetto penale sotto il profilo tecnico è comunemente riconosciuta (si pensi al reato di vendita o cessione di stupefacenti, laddove la concreta individuazione delle sostanze da considerare stupefacenti è rimessa ad un decreto del Ministero della Salute che istituisce ed aggiorna la tabella contenente l'indicazione delle sostanze stupefacenti medesime).

5.2. LE C.D. NORME PENALI IN BIANCO Con riferimento alle norme penali in bianco, invece, è lo stesso precetto penale che viene ad essere individuato dalla fonte di rango secondario, sicché il rischio di violazione del principio della riserva di legge si pone in maniera più evidente (si pensi al reato di cui all'art. 650 c.p. che punisce chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragioni di sicurezza pubblica o di giustizia o d'ordine pubblico o d'igiene). La Consulta ha, al riguardo, affermato, in via generale, che le norme penali in bianco non violano il principio della riserva di legge ove i provvedimenti che concretizzano il precetto siano adottati sulla base di una legge ordinaria, anche diversa da quella incriminatrice, che ne indichi i presupposti, il contenuto ed i limiti (Corte Cost. sent. n. 168 del 1971). Secondo la Suprema Corte, invece, la norma extrapenale entra a far parte della norma penale essendo da questa incorporata con la conseguenza che lo stesso errore su norma extrapenale, a mente dell'art. 5 c.p., non escluderà, se non entro i limiti indicati dalla Consulta con la nota sentenza n. 384 del 1988, la colpevolezza e la punibilità dell'agente. Con riferimento alle norme penali integrate da norme poste da fonti di rango secondario, si è posta la questione degli effetti che originano dall'eventuale abrogazione o modificazione della norma secondaria sotto il profilo della successione delle leggi penali nel tempo; secondo l’orientamento maggioritario, la valutazione deve essere effettuata caso per caso essendo indispensabile verificare se la modificazione o l'abrogazione della norma secondaria abbia fatto venir meno il disvalore del fatto commesso in precedenza. Analogo discorso, con riferimento alla successione delle leggi penali nel tempo, va fatto in relazione agli elementi normativi della fattispecie penale, a quegli elementi, cioè, che, per la loro portata semantica, si riferiscono a norme desumibili da altri campi del diritto (si pensi al concetto dell'altruità nel delitto del furto) o dal sentimento sociale (si pensi al comune senso del pudore). In caso di abrogazione o modificazione della norma extrapenale o di modificazione della norma extragiuridica, la problematica è quella di stabilire gli effetti sulle condotte poste in essere in precedenza in violazione della norma penale così come integrata dalla norma abrogata o modificata; per orientamento maggioritario, anche in questo caso, la valutazione andrà effettuata caso per caso occorrendo verificare se l'abrogazione o la modificazione della norma extrapenale abbia fatto venir meno il disvalore del fatto.

5.3. I LIMITI DEGLI INTERVENTI DELLA CONSULTA Per giurisprudenza costante, infine, il secondo comma dell’art. 25 Cost., nell’affermare il principio che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti (Corte Cost. n. 161 del 2004). Nondimeno, il limite posto dal divieto di pronunce con effetti in malam partem registra una singolare eccezione nell’ipotesi in cui oggetto di sindacato siano cc.dd. “norme penali di favore”, ossia le norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni: tali norme – irragionevolmente discriminatorie in melius – possono essere censurate, per contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., facendo rivivere, dunque, l’eventuale disciplina più generale, applicabile nel giudizio in corso ancorché più sfavorevole.

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Confisca per equivalente e reati tributari Sommario: 1. Premessa. – 2. Orientamento estensivo. – 3. Orientamento restrittivo. – 4. Indicazioni della Suprema corte a Sezioni Unite. – 5. Il divieto dell’analogia in malam partem.1. PREMESSA In tema di reati fiscali e di confisca nei confronti dei beni della società, vi è sempre stato un contrasto giurisprudenziale determinato dalla possibilità o meno di estendere il sequestro anche ai beni della persona giuridica, e tanto in considerazione del fatto che il reato fiscale viene posto in essere dal legale rappresentante/amministratore.

2. ORIENTAMENTO ESTENSIVO Orbene, un primo orientamento (Cass. pen. 29 settembre 2009; n. 41488; Cass. pen. 30 novembre 2010, n. 42462; Cass. pen. 7 giugno 2011, n. 28731) ritiene applicabile il sequestro e la confisca per equivalente anche alle società, in virtù sia del rapporto di immedesimazione organica esistente tra autore del reato e società, sia di quanto espressamente previsto dall’art. 1, lettera e), del d. Lgs. n. 74/2000: “riguardo ai fatti commessi da chi agisce in qualità di amministratore, liquidatore o amministratore di società, enti o persone fisiche, il ‘fine di evadere le imposte’ ed il ‘fine di sottrarsi al pagamento’ si intendono riferiti alla società, all’ente o alla persona fisica per conto della quale si agisce”. Tale tesi, in relazione al fatto che la società avvalendosi del profitto del reato posto in essere dalla persona fisica non può considerarsi estranea al reato, insiste sulla possibilità che è data al giudice di applicare la confisca per equivalente anche ai beni appartenenti alla persona giuridica.

3. ORIENTAMENTO RESTRITTIVO Un secondo orientamento (Cass. pen. 15 ottobre 2013, n. 42530; Cass. pen. 4 luglio 2012, n. 25774; Cass. pen. 29 agosto 2012; Cass. pen., 10 gennaio 2013, n. 1256), invece, esclude nella maniera più assoluta l’applicazione del sequestro e della confisca per equivalente anche ai beni della società a causa del reato posto in essere dal rappresentante legale/amministratore della stessa. Le motivazioni poste a fondamento di tale tesi si basano innanzitutto sul carattere personale della responsabilità penale, ragion per cui non può rispondere del reato un soggetto diverso da chi ha commesso il reato, senza avere alcuna rilevanza l’ipotesi dell’immedesimazione organica. Ed ancora, si sottolinea come il D.Lgs. n. 231/2000, in materia di “Responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, che prevede all’art. 19, comma 2, la confisca per equivalente, non può applicarsi ai reati tributari in quanto gli stessi non sono inclusi tra i reati presupposto che determinano la responsabilità dell’ente. L’unica eccezione, ed in tal senso si è espresso anche l’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione con la relazione n. 30/13 del 2 luglio 2013, si ha nel caso in cui la struttura societaria costituisca un apparato fittizio, utilizzato dal reo proprio per porre in essere i reati di frode fiscale o altri illeciti, cosicché ogni cosa fittiziamente intestata alla società sia immediatamente riconducibile alla disponibilità dell’autore del reato.

4. INDICAZIONI DELLA SUPREMA CORTE A SEZIONI UNITE Con la sentenza del 5 marzo 2014, n.10561, le Sezioni Unite sono invitate a pronunciarsi sulla seguente questione di diritto: "se sia possibile o meno aggredire direttamente i beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante della stessa". La risoluzione di tale questione presuppone una disamina della disciplina della confisca del profitto di reato (e del sequestro preventivo finalizzato alla confisca stessa) nei reati tributari. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato. In motivazione la Corte ha precisato che l'integrale rinvio alle disposizioni di cui all'articolo 322-ter cod. pen., contenuto nell'art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007, consente di affermare che, con riferimento ai reati tributari, trova applicazione non solo il primo ma anche il secondo comma della norma codicistica. La terza Sezione ha successivamente precisato che il principio rimane valido anche dopo le modifiche apportate all'art. 322-ter cod. pen. dalla legge n. 190 del 2012 stante l'espresso richiamo, contenuto nell'art. 322-ter cod. pen. alla confisca diretta, è all'evidenza applicabile altresì la confisca di cui all'art. 240 cod. pen. al profitto di reato. Quanto alla determinazione del profitto in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario. Nello stesso senso è stato chiarito che, in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nelle forme per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all'art. 11 d.lgs. n. 74 del

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2000, va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all'erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di pericolo del reato. Ciò posto, va anzitutto sottolineato che la confisca diretta del profitto di reato è istituto ben distinto dalla confisca per equivalente. Deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta. La giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che, nel caso in cui il profitto del reato di concussione sia costituito da denaro, è legittimamente operato in base alla prima parte dell'art. 322-ter, comma primo, cod. pen. il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell'imputato. Qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare. É pertanto ammissibile il sequestro preventivo, ex art. 321 cod. proc. pen., qualora sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di nascondere con il più semplice degli artifizi. Infatti, in tema di sequestro preventivo, nella nozione di profitto funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa. La trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa. La confisca del profitto di reato è possibile anche nei confronti di una persona giuridica per i reati commessi dal legale rappresentante o da altro organo della persona giuridica, quando il profitto sia rimasto nella disponibilità della stessa. A tale riguardo va infatti rammentato che, a norma dell'art. 6, comma 5, d.lgs. n. 231 del 2001, anche nei confronti degli enti per i quali non sia applicabile la confisca-sanzione di cui all'art. 19 dello stesso decreto per essere stati efficacemente attuati i modelli organizzativi per impedire la commissione di reati da parte dei rappresentanti dell'ente, è “comunque disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente”. Si tratta, come è evidente, di una previsione di carattere generale che impone la confisca, diretta o per equivalente, del profitto derivante da reato, secondo una prospettiva non di tipo sanzionatorio, essendo fuori discussione la "irresponsabilità" dell'ente, ma di ripristino dell'ordine economico perturbato dal reato, che comunque ha determinato una illegittima locupletazione per l'ente, ad "obiettivo" vantaggio del quale il reato è stato commesso dal suo rappresentante. Nel rimarcare la peculiarità di tale figura di confisca, infatti, la Corte non ha mancato di sottolineare che “in questo specifico caso, dovendosi - di norma - escludere un necessario profilo di intrinseca pericolosità della res oggetto di espropriazione, la confisca assume più semplicemente la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti, appunto economici, sono comunque andati a vantaggio dell'ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire (sia pure incolpevolmente) un profitto geneticamente illecito” Si deve invece ritenere che non sia possibile la confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi da suoi organi, salva l'ipotesi in cui la persona giuridica stessa sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l'amministratore agisca come effettivo titolare. In ogni caso il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti conseguente a reato, non contempla i reati tributari fra quelli per cui è prevista tale responsabilità amministrativa della persona giuridica. La confisca per equivalente sui beni della società non può fondarsi neppure sull'assunto che l'autore del reato ne abbia la disponibilità in quanto amministratore (salva sempre l'ipotesi in cui la società sia un mero schermo fittizio), essendo tale disponibilità nell'interesse dell'ente e non dell'amministratore. Sul punto è sufficiente rilevare che l'eventuale appropriazione indebita di beni della persona giuridica da parte di un amministratore può integrare il reato di cui all'art. 646 cod. pen. aggravato ai sensi dell'art. 61, n. 11, cod. pen. e quindi perseguibile d'ufficio, stante la distinzione fra il patrimonio della persona giuridica e quello dei suoi amministratori. Una volta esclusa la fondatezza di tali argomenti, è necessario verificare se vi sia una base normativa per la confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per i reati tributari commessi dai suoi organi. Anzitutto, come già notato, tale confisca (ed il sequestro alla stessa finalizzato) non può avvenire ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale

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rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato d.lgs. non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento, con esclusione dell'ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti. L'art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, non contiene una previsione autonoma di confisca per equivalente, ma si limita a richiamare l'art. 322-ter cod. pen.. La confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica non può fondarsi neppure sull'art. 322-ter cod. pen., dal momento che la citata disposizione si applica all'autore del reato e, come si è detto, la persona giuridica non può essere considerata tale. L'art. 11 della legge 16 marzo 2006, n.146, che prevede la confisca obbligatoria, anche per equivalente, per i reati di cui all'art. 3 della stessa legge, cioè i reati transnazionali, non riguarda l'ipotesi della quale ci si occupa nel presente procedimento.

5. IL DIVIETO DELL’ANALOGIA IN MALAM PARTEM Si deve altresì escludere che sia possibile una interpretazione analogica delle citate disposizioni. L'analogia sarebbe in malam partem e come tale non consentita in sede penale. Infatti le Sezioni Unite hanno già chiarito che la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall'art. 1, comma 143, legge 27 dicembre 2007, n. 244, ha natura eminentemente sanzionatoria. Pertanto, il Supremo Consesso, riunito nella sua più alta composizione, denuncia che la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalità, oltre che per gli aspetti già segnalati nell'ordinanza di rimessione, anche perché il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rischia di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali è stato introdotto l'art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007. Infatti è possibile, attraverso l'intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all'ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato. Dovendosi anche sottolineare come la stessa logica che ha mosso il legislatore nell'introdurre la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare non poco compromessa proprio dalla mancata previsione dei reati tributari tra i reati-presupposto nel d.lgs. n. 231 del 2001, considerato che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a quei reati non può che aver operato proprio nell'interesse ed a vantaggio dell'ente medesimo. Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale il secondo comma dell'art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all'adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. Il Supremo Collegio non può quindi che segnalare tali irrazionalità ed auspicare un intervento del legislatore, volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità amministrativa dell'ente ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Alla luce di questa premessa, le Sezioni Unite elaborano i seguenti principi di diritto: 1.“É consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”. 2. “Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio”. 3. “Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato”. 4. “La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato”.

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Giurisprudenza

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INDICE 1. Legalità della pena: sostanze stupefacenti 2. Maltrattamenti in famiglia 3. Omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina 4. Sottrazione o danneggiamento di cose pignorate o sequestrate 5. Reati tributari - confisca per equivalente beni società 6. Sospensione del termine di prescrizione 6.1. Interruzione del termine di prescrizione 6.2. Avviso di conclusione delle indagini 7. Molestia o disturbo alle persone 8. Diffamazione a mezzo stampa (responsabilità del direttore) 8.1. Diffamazione a mezzo stampa (giornale telematico) 9. Favoreggiamento personale

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1. Legalità della pena: sostanze stupefacenti MASSIMA In ordine al trattamento sanzionatorio degli illeciti in materia di sostanze stupefacenti, pur in presenza di un ricorso manifestamente infondato, la Corte di cassazione deve rilevare di ufficio ex art. 609 c.p.p. la questione attinente alla "legalità della pena" conseguente alle modifiche normative determinate dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e dalla l. n. 79 del 2014, di conversione del d.l. n. 36 del 2014, con la quale è stata ribadita la natura di reato autonomo nell'ipotesi di cui al comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 per tutti i tipi di stupefacenti e rimodulata la pena da sei mesi a quattro anni di reclusione e da euro 1.032 a euro 10.329. (Da queste premesse, la Corte, pur rilevando la manifesta infondatezza del ricorso avverso la sentenza di condanna per l'illecito di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, commesso in epoca anteriore alle richiamate modifiche normative, ha annullato con rinvio la sentenza per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio). Cass. pen., sez. IV, 24 giugno 2014, n. 30479 SENTENZA PER ESTESO

CONSIDERATO IN DIRITTO

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati. Quanto all' A. per mancata presentazione dei motivi (art. 581 c.p.p., lett. c e art. 591 c.p.p., lett. c). Quanto all' O., relativamente al giudizio di responsabilità, perché la doglianza, a fronte di una duplice affermazione di responsabilità, congruamente motivata, nei termini suddetti, si risolve in una opinabile censura di puro merito. In realtà, il giudice ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui il concorso di persone nella detenzione illecita di sostanze stupefacenti, secondo i principi generali, è da ritenere solo in presenza di un contributo partecipativo, morale o materiale, alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dall'elemento psichico del reato che si commette (qui, la coscienza e volontà di detenere la droga) e dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'illecito. Tale contributo partecipativo può essere di qualsiasi genere: è certamente ravvisabile, quindi, finanche, nella semplice presenza, purché non meramente casuale, sul luogo dell'esecuzione del reato, quando essa sia servita a fornire all'autore del fatto stimolo all'azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta. Al contrario, deve ritenersi la connivenza non punibile in presenza di un comportamento "meramente passivo", privo di qualsivoglia efficacia causale in ordine alla realizzazione della condotta detentiva altrui, ovverosia in presenza della semplice consapevolezza della condotta criminosa altrui, non caratterizzata da alcun contributo, morale o materiale, volto a favorirla (Sezione 4^, 15 aprile 2009, Lahsoumi ed altro). Tale principio è stato esattamente applicato attraverso una puntuale disamina del ruolo collaborativo del prevenuto "palo". E' motivazione incensurabile perché vale il rilievo che, in tema di ricorso per cassazione, allorquando si prospetti il difetto di motivazione, l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente alla Corte di legittimità una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di cassazione il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori (Sezione 6^, 6 maggio 2009, Esposito ed altro). Ciò valendo a fortiori quando ci si trova dinanzi ad una "doppia conforme" e cioè ad una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), giacché l'eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sezione 4^, 10 febbraio 2009, Ziello ed altri). Ciò che qui non risulta, né è dedotta dal ricorrente in modo specifico. Occorre tuttavia tener conto, quanto al trattamento sanzionatorio e ciò vale anche per l' A. ex art. 587 c.p.p., ma anche per quanto attiene l'ulteriore doglianza dell' O., assorbita, delle modifiche normative conseguenti alla sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014 e della L. 16 maggio 2014, n. 79, di conversione del D.L. n. 36 del 2014, con la quale è stata ribadita la natura di reato autonomo dell'ipotesi di cui il D.P.R. n. 309 del 1990, comma 5, per tutti i tipi di stupefacenti e rimodulata la pena da 6 mesi a 4 anni di reclusione e da Euro 1.032 ad Euro 10.239 di multa. Ritiene il Collegio che alla applicazione della nuova normativa nei processi in corso, in quanto più favorevole, non sia di ostacolo la manifesta infondatezza del ricorso, in quanto la questione di legalità della pena deve essere rilevata di ufficio ex art. 609 c.p.p., non potendosi considerare preclusiva la formazione del giudicato in senso sostanziale (v. Sezioni unite 25 febbraio 2004, n. 24246, Chiasserini), atteso che l'intervento normativo è intervenuto successivamente alla data di proposizione del presente

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ricorso e non era, pertanto, possibile tenere conto di esso nella formulazione dei motivi proposti. Si impone, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio alla Corte di appello competente, con la precisazione che il capo concernente la responsabilità penale è divenuto irrevocabile ai sensi dell'art. 624 c.p.p..

P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia sul punto alla Corte di Appello di Roma. Rigetta nel resto i ricorsi. Così deciso in Roma, il 24 giugno 2014. Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2014

2. Maltrattamenti in famiglia MASSIMA Per il principio di tipicità dell'illecito penale, ed il divieto di analogia, nella constatata mancanza di recepimento delle sollecitazioni delle autorità europee competenti tendenti alla configurazione quale fattispecie penale delle condotte persecutorie del datore di lavoro, inquadrabili nel mobbing, per sussumere tale comportamento vessatorio e discriminatorio nella fattispecie di maltrattamenti ex art. 572 c.p. è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura parafamiliare. Tale rapporto parafamiliare, pur essendo in astratto riconducibile in strutture complesse, è essenziale che si sviluppi con l'isolamento del lavoratore e non per effetto della mera frequentazione o confidenza. Cass. pen., sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31713 SENTENZA PER ESTESO

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile, risultando fondato sulla mera riproposizione di elementi di fatto, già valutati dal giudice di merito, con i quali il ricorrente non si confronta. 2. In particolare risulta ampiamente condivisa, anche dall'autorità impugnante che, per il principio di tipicità dell'illecito penale, ed il divieto di applicazione analogica, nella constatata mancanza di recepimento delle sollecitazioni delle autorità Europee tendenti alla configurazione quale fattispecie penale delle condotte persecutorie del datore di lavoro, inquadrabili nel mobbing, a cui allo stato è limitata la tutela risarcitoria, sia possibile rapportare a tale fattispecie l'ipotesi di lavoratore perseguitato dal datore di lavoro a cui questi sia legato da un rapporto personale, parificabile a quello familiare, che ne comporti, proprio come in tutte le strutture familiari, da un canto il pieno affidamento alla figura autorevole di riferimento, dall'altro il sostanziale isolamento rispetto all'esterno, con l'effetto, da un canto, di una incapacità di individuazione delle mortificazioni, che risultano quasi accettate con il rischio di autosvalutazione, proprio per il rapporto fiduciario a monte, e l'amplificazione del rischio di lesione nell'autostima, derivante dal richiamato isolamento. Perfettamente coerente con tali caratteristiche tipiche risultano le fattispecie astratte ritenute sussumibili in tale categoria, quale quella del collaboratore domestico e dell'apprendista affidato al ed maestro d'arte, cui il primo risulta legato, prima ancora che da un vincolo contrattuale, spesso neppure tipizzato, da un completo affidamento per la sua formazione, personale e professionale. Premessa tale comune ricostruzione, non appare fondato il rilievo di violazione di legge formulato con il primo motivo, sulla base dell'illegittima individuazione di un rapporto esclusivo quale elemento fondante la fattispecie concreta, poiché in senso contrario, da un canto gli esempi ripetutamente richiamati dai precedenti di questa Corte, dall'altro il necessario parallelismo con la formazione familiare che il riferimento normativo testuale impone, confermano la necessità di un rapporto diretto tra le parti ed escludente intromissioni esterne, che renda più difficile il disvelamento e l'affrancamento da tali pratiche da parte della vittima. 3. Proprio l'accettazione di tale premessa metodologica, la cui correttezza si ricava dal testo della disposizione giustifica l'esclusione della fattispecie da rapporti quali quelli in esame, in cui, al di là del numero dei dipendenti e dell'ampiezza degli spazi lavorativi, la sottoposizione di questi ad ingiurie e minacce, comprendenti la svalutazione della loro capacità lavorativa, avveniva per un verso dinanzi a tutti, per altro nei confronti di più persone, così da escludere l'effetto dell'isolamento sopra richiamato, ma anche da evitare nella vittima la possibilità di una singola autosvalutazione che costituisce uno degli aspetti più insidiosi della condotta di cui all'art. 572 c.p., nella specie preclusa dalla palmare constatazione di una politica aziendale di relazioni personali estremamente discutibile, attuata nei confronti di molti lavoratori, e realizzata anche da chi non rivestiva posizioni apicali nell'azienda.

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Ed in tal senso nello specifico motivo di ricorso con il quale si contesta il difetto di motivazione si confonde il rapporto di parafamiliarità con quello di confidenza, dimenticando che quest'ultimo, potenzialmente sussistente anche in strutture complesse, non è per ciò solo produttivo di minorata difesa del sottoposto, che discende invece solo nel caso in cui tale confidenza trasmodi in rapporto parafamiliare, con tutte le limitazioni della lettura critica da esso derivante. 4. Sotto tale profilo non sussiste neppure la violazione di legge che si assume, ancora una volta, incentrata sulla confusione tra rapporto parafamiliare e rapporto uno ad uno, inconciliabile in strutture complesse, laddove invece pur ammesso in astratto che in strutture complesse tale dipendenza sia riproducibile, è però essenziale che questa si sviluppi con l'isolamento del lavoratore, e non per effetto della mera frequentazione e confidenza, per quanto già esposto, e direttamente derivante dal limite insito nella fattispecie contestata. La circostanza che indiscutibilmente, sulla base di quanto esposto nel ricorso, oltre che direttamente emergente dalla formulazione dei capi di imputazione, tale rapporto non si sia realizzato rispetto a nessuno dei dipendenti ed in relazione ad alcuno dei resistenti evidenzia la manifesta infondatezza del rilievo. 5. Sotto tale profilo è manifestamente insussistente l'eccepito vizio di motivazione, sotto il profilo della mancanza di logicità e completezza, con il quale si lamenta la mancata valutazione degli elementi d fatto denotanti confidenza e familiarità tra le parti, genericamente intesa, oltre che irrilevanza della dimensione numerica della composizione aziendale, poiché nessuno degli elementi portati alla cognizione della Corte risulta idoneo a superare il difetto probatorio sull'elemento costitutivo della parafamiliarità sopra tratteggiato, risultando i riprovevoli comportamenti assunti nei confronti dei dipendenti espressi platealmente alla presenza degli altri, e per ciò solo non denotanti una volontà persecutoria nei confronti del singolo, e l'assenza di un rapporto esclusivo con questi limitante la potenzialità di reazione della vittima. 6. Il ricorso risulta generico anche sotto l'ulteriore profilo del mancato inquadramento delle condotte nel reato di violenza privata, poiché non risulta, neppure nell'odierno ricorso, individuata la condotta imposta ai lavoratori con la minaccia del licenziamento, se non quella dell'adesione alle modalità esecutive dell'attività richieste dal datore di lavoro, secondo un'ordinaria contrapposizione contrattuale degli interessi, sia pure esercitata a cura dei resistenti con modalità incivili. É bene rimarcare sotto tale profilo che non è ravvisabile vizio di motivazione neppure in rapporto alla difformità della valutazione rispetto a decisioni analoghe di questa Corte (ed in particolare a quella Sez. 6, n. 31413 del 08/03/2006 - dep. 21/09/2006, Riva e altri, Rv. 234854) atteso che, contrariamente a quanto rilevato nella specie, in quel procedimento risulta pienamente individuata la finalità della condotta costrittiva, identificabile nell'accettazione di condizioni contrattuali penalizzanti, particolari di fatto la cui sussistenza non è ravvisabile nel caso concreto, mentre nelle ulteriori fattispecie considerate in precedenti sul punto vi è un richiamo ad accertamenti di situazioni concrete di costrizione intervenute nelle fasi di merito, escluse da quanto verificato dal giudice dell'appello e non emergenti da elementi di prova di cui si assume travisamento nel proposto ricorso. In definitiva la pretesa coartazione della volontà, come indicata nell'atto di impugnazione, non risulta espressa quale alternativa concreta, idonea a connotare la finalità della minaccia del licenziamento, ma risulta implicita nei rapporti di forza sussistenti tra le parti e conseguentemente non appare idonea ad integrare la fattispecie autonoma prospettata, quale unica ipotesi di reato procedibile di ufficio rinvenibile nei comportamenti tenuti dai resistenti. 7. Il difetto degli elementi di sostegno dei rilievi proposti impone l'accertamento di inammissibilità del ricorso.

P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. Così deciso in Roma, il 26 giugno 2014. Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2014

3. Omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina MASSIMA Il reato di cui all'art. 677 comma 3, c.p. è integrato, nella sua materialità, dalla minaccia di rovina da cui derivi pericolo per le persone di un "edificio" o di una "costruzione" imponendo, per il principio di tipicità, il divieto di analogia in malam partem per ciò che non attiene a edifici e costruzioni che possano rovinare, come avvenuto nella fattispecie ove viene messa in evidenza la mera non corretta edificazione di una canna fumaria comportante, non il pericolo di crollo della medesima, ma solo una paventata dispersione di fumi non consentiti. Cass. pen., sez. I, 11 giugno 2014, n. 28128 SENTENZA PER ESTESO

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MOTIVI DELLA DECISIONE 3. - Il ricorso è fondato e merita accoglimento: la sentenza impugnata va annullata senza rinvio con le determinazioni di cui in dispositivo. 3.1 - Deve rilevarsi che il reato contestato, pur nella scarsa chiarezza del capo di imputazione e ancor più della sentenza gravata, parrebbe attenere a una problematica di possibile inquinamento atmosferico derivante dal fatto che le canne fumarie sarebbero risultate prive della parte terminale onde assicurare il separato deflusso dei fumi. Se così è, non poteva allora essere contestato il reato di cui all'art. 677 c.p., comma 2, previsto specificatamente per l'ipotesi della rovina di un edificio o di una costruzione come si evince chiaramente dal tenore della norma. La giurisprudenza è consolidata sul punto, avendo avuto modo di chiarire più volte che la contravvenzione in parola sussiste solo nel caso in cui chi ha l'obbligo di intervenire per scongiurare il pericolo di rovina di un edificio o costruzione, totale o parziale, omette di farlo. Sul punto, in termini, va richiamato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui non integra la contravvenzione di omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina colui che non provvede a rimuovere o mettere in sicurezza la parte di un fabbricato (Sez. 1, 6 aprile 2011, n. 16512, Scicolone, rv. 250425). 3.2 - E molto chiaramente nella sentenza di legittimità citata si afferma che è del tutto certo che il contestato reato di cui all'art. 677 c.p., comma 3, è integrato, nella sua materialità, dalla minaccia di rovina da cui derivi pericolo per le persone di un "edificio" o di una "costruzione" imponendo, per il principio di tipicità, il divieto di analogia in malam partem per ciò che non attiene a edifici e costruzioni che possano rovinare, come avvenuto nella fattispecie ove viene messa in evidenza la mera non corretta edificazione di una canna fumaria comportante, non il pericolo di crollo della medesima, ma solo una paventata dispersione di fumi non consentiti (circostanza peraltro su cui il primo giudice nulla argomenta). Le argomentazioni di cui sopra (di non sussistenza del reato) pone in secondo piano l'eccezione prescrittiva sollevata in ricorso e fatta valere anche dal Procuratore Generale in udienza, eccezione peraltro di cui non ricorrerebbero gli estremi. 4. - Ne consegue che deve adottarsi pronunzia ai sensi dell'art. 620 c.p.p., come da dispositivo.

P.Q.M. annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 giugno 2014. Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2014

4. Sottrazione o danneggiamento di cose pignorate o sequestrate MASSIMA Il reato di cui all'art. 334 c.p. non sussiste qualora la condotta di sottrazione riguardi beni sottoposti a provvedimento di fermo amministrativo a norma dell'art. 214 del Codice della Strada, ostandovi il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, che, per il divieto di analogia in "malam partem", esclude la riconducibilità del fermo amministrativo nella nozione di sequestro amministrativo. Cass. pen., sez. VI, 29 aprile 2014, n. 21625 SENTENZA PER ESTESO

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato. Ed invero, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il reato di cui all'art. 334 c.p., non sussiste qualora la condotta di sottrazione riguardi beni sottoposti a provvedimento di fermo amministrativo a norma dell'art. 214 del Codice della Strada, ostandovi il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, che, per il divieto di analogia in "malam partem", esclude la riconducibilità del fermo amministrativo nella nozione di sequestro amministrativo (Cass. Sez. 6, n. 2162 del 28/11/2007, Rv. 238409; Cass. Sez. 6^, n. 47342 del 27/11/2009, Rv. 245491). Ebbene, la fattispecie concreta, così come delineata nel capo d'imputazione, risulta in tutto sovrapponibile a quella oggetto del costante orientamento sopra ricordato. E' invero contestato ad U.G. di avere condotto il mezzo sottoposto a fermo amministrativo e affidato in custodia al medesimo, di tal che si tratta di ipotesi punita in via soltanto amministrativa. Ne discende che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al capo A) in quanto il fatto non è previsto dalla legge come reato. 2. Deve pertanto essere disposta la trasmissione degli atti al Tribunale di Milano per un nuovo giudizio in ordine al

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capo B), non potendo questa Corte procedere alla rideterminazione della pena a norma dell'art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l). Va invero evidenziato come, nell'accordo ex artt. 444 c.p.p. e segg., pen. ratificato dal giudice di prime cure, la pena base fosse stata fissata con riguardo al reato di cui all'art. 334 c.p. e su essa fosse stato applicato solo un aumento per la continuazione con il reato ex art. 116 C.d.S., commi 13 e 18. Ne discende che la determinazione della pena da infliggere con riguardo al residuo reato contravvenzionale non si riduce ad un mero calcolo matematico ma implica valutazioni in ordine agli elementi di cui all'art. 133 c.p., che fuoriescono dalle competenze di questo giudice. La possibilità, riconosciuta alla Corte di cassazione dall'art. 620 c.p.p., lett. l), di procedere direttamente alla determinazione della pena, deve infatti ritenersi circoscritta alle ipotesi in cui alla situazione da correggere possa porsi rimedio senza accertamenti e valutazioni discrezionali su circostanze e punti controversi, suscettibili di diversi apprezzamenti di fatto, che rimangono in quanto tali operazioni incompatibili con le attribuzioni del giudice di legittimità (Cass. Sez. 4^, n. 41569 del 27/10/2010, Rv. 248458).

P.Q.M. annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto di cui al capo A) non è previsto dalla legge come reato e ordina la trasmissione degli atti al Tribunale di Milano per l'ulteriore corso. Così deciso in Roma, il 29 aprile 2014. Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2014

5. Reati tributari - confisca per equivalente beni società MASSIMA Nei confronti di una persona giuridica è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica. Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio. Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato. La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato. Cass. pen., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561 SENTENZA PER ESTESO

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso, secondo il quale nella sua originaria domanda il Pubblico Ministero si era limitato a chiedere genericamente il sequestro preventivo e che solo con l'atto di appello aveva fatto riferimento al sequestro per equivalente, così mutando l'originaria domanda, è manifestamente infondato. Nella richiesta di sequestro preventivo avanzata dal Pubblico Ministero al Giudice per le indagini preliminari era precisato che l'I.V.A. sottratta al fisco costituiva il profitto del reato, “in ordine al quale è possibile la confisca per equivalente” (p. 2 richiesta del 18 gennaio 2013). Non vi è stato quindi alcun mutamento della domanda cautelare da parte del Pubblico Ministero nel successivo appello, rispetto a quella contenuta nella iniziale richiesta di sequestro. 2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato, ma nell'esaminarlo per dar conto di tale manifesta infondatezza è necessario chiarire la questione rimessa all'esame delle Sezioni Unite che può così riassumersi: “Se sia possibile o meno disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei confronti di beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante o da altro organo della stessa”. 2.1. La risoluzione di tale questione presuppone una disamina della disciplina della confisca del profitto di reato (e del sequestro preventivo finalizzato alla confisca stessa) nei reati tributari. 2.2. Va ricordato che il reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto (art. 10-ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74), che si consuma con il mancato pagamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore ad Euro cinquantamila, entro la scadenza del termine per il pagamento dell'acconto relativo al periodo di imposta dell'anno successivo, non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con l'art. 13, comma primo, d.lgs. n. 471 del 1997, che punisce

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con la sanzione amministrativa l'omesso versamento periodico dell'imposta entro il mese successivo a quello di maturazione del debito mensile I.V.A., con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, Rv. 255757). 2.3. L'art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244 prevede: “Nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all'art. 322-ter del codice penale”. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato. (Sez. 3, n. 35807 del 07/07/2010, Bellonzi, Rv. 248618. In motivazione la Corte ha precisato che l'integrale rinvio alle disposizioni di cui all'articolo 322-ter cod. pen., contenuto nell'art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007, consente di affermare che, con riferimento ai reati tributari, trova applicazione non solo il primo ma anche il secondo comma della norma codicistica). La stessa Terza Sezione ha successivamente precisato che il principio rimane valido anche dopo le modifiche apportate all'art. 322-ter cod. pen. dalla legge n. 190 del 2012 (Sez. 3, n. 23108 del 23/04/2013, Nacci, Rv. 255446). Stante l'espresso richiamo, contenuto nell'art. 322-ter cod. pen. alla confisca diretta, è all'evidenza applicabile altresì la confisca di cui all'art. 240 cod. pen. al profitto di reato. 2.4. Quanto alla determinazione del profitto in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario. (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036 in tema di reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all'art. 11 d.lgs n. 74 del 2000). Nello stesso senso è stato chiarito che, in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nelle forme per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all'art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all'erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di pericolo del reato. (Sez. 3, n. 33184 del 12/06/2013, Abrusci, Rv. 256850; conf. nn. 33185, 33186, 33187, 33188 del 2013 non massimate). 2.5. Va anzitutto sottolineato che la confisca diretta del profitto di reato è istituto ben distinto dalla confisca per equivalente. Deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta. La giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che, nel caso in cui il profitto del reato di concussione sia costituito da denaro, è legittimamente operato in base alla prima parte dell'art. 322-ter, comma primo, cod. pen. il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell'imputato. (Sez. 6, n. 30966 del 14/06/2007, Puliga, Rv. 236984). Qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare. (Sez. 3, n. 1261 del 25/09/2012, dep. 2013, Marseglia, Rv. 254175. Fattispecie in tema di reati tributari). É pertanto ammissibile il sequestro preventivo, ex art. 321 cod. proc. pen., qualora sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di nascondere con il più semplice degli artifizi. (Sez. 6, n. 23773 del 25/03/2003, Madaffari, Rv. 225757). Infatti, in tema di sequestro preventivo, nella nozione di profitto funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa. (Sez. 2, n. 45389 del 06/11/2008, Perino, Rv. 241973). La trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa. (Sez. 6, n. 4114 del 21/10/1994, dep. 1995, Giacalone, Rv. 200855. Affermando siffatto principio la Cassazione ha ritenuto che legittimamente fosse stato disposto dal g.i.p. il sequestro preventivo di un appartamento che, in base ad

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elementi allo stato apprezzabili, era risultato acquistato con i proventi del reato di concussione). Le Sezioni Unite avevano, del resto, ritenuto che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall'art. 322-ter cod. pen., costituisce 'profitto' del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l'impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all'autore di quest'ultimo. (Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, Rv. 238700: fattispecie in tema di concussione nella quale il danaro era stato richiesto da un ufficiale di p.g. per l'acquisto di un immobile). In tutte le ipotesi sopra richiamate non si è in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto di reato, possibile ai sensi dell'art. 240 cod. pen. ed imposta dall'art. 322-ter cod. pen., prima di procedere alla confisca per equivalente del profitto di reato. 2.6. La confisca del profitto di reato è possibile anche nei confronti di una persona giuridica per i reati commessi dal legale rappresentante o da altro organo della persona giuridica, quando il profitto sia rimasto nella disponibilità della stessa. A tale riguardo va infatti rammentato che, a norma dell'art. 6, comma 5, d.lgs. n. 231 del 2001, anche nei confronti degli enti per i quali non sia applicabile la confisca-sanzione di cui all'art. 19 dello stesso decreto per essere stati efficacemente attuati i modelli organizzativi per impedire la commissione di reati da parte dei rappresentanti dell'ente, è “comunque disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente”. Si tratta, come è evidente, di una previsione di carattere generale che impone la confisca, diretta o per equivalente, del profitto derivante da reato, secondo una prospettiva non di tipo sanzionatorio, essendo fuori discussione la 'irresponsabilità' dell'ente, ma di ripristino dell'ordine economico perturbato dal reato, che comunque ha determinato una illegittima locupletazione per l'ente, ad 'obiettivo' vantaggio del quale il reato è stato commesso dal suo rappresentante. Nel rimarcare la peculiarità di tale figura di confisca, infatti, questa Corte non ha mancato di sottolineare che “in questo specifico caso, dovendosi - di norma - escludere un necessario profilo di intrinseca pericolosità della res oggetto di espropriazione, la confisca assume più semplicemente la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti, appunto economici, sono comunque andati a vantaggio dell'ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire (sia pure incolpevolmente) un profitto geneticamente illecito” (cfr. Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti s.p.a., Rv. 239925). 2.7. Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, sia pure transitoriamente, ovvero quando gli stessi non siano aggredibili per qualsiasi ragione. (Sez. 3, n. 30930 del 05/05/2009, Pierro, Rv. 244934). Sotto questo profilo è necessario tuttavia chiarire che, versandosi in materia di misura cautelare reale, non è possibile pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato, giacché, durante il tempo necessario per l'espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente, così vanificando ogni esigenza di cautela. Infatti, quando il sequestro interviene in una fase iniziale del procedimento, non è, di solito, ancora possibile stabilire se sia possibile o meno la confisca dei beni che costituiscono il prezzo od il profitto di reato, previa loro certa individuazione. É perciò legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni costituenti profitto illecito anche quando l'impossibilità del loro reperimento sia anche soltanto transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell'adozione della misura. (Sez. 2, n. 2823 del 10/12/2008, dep. 2009, Schiattarella, Rv. 242653). Del resto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, ex art. 322-ter cod. pen., del profitto del reato può essere disposto anche solo parzialmente nella forma per equivalente, qualora non tutti i beni costituenti l'utilità economica tratta dall'attività illecita risultino individuabili. (Sez. 2, n. 11590 del 09/02/2011, Sciammetta, Rv. 249883). 2.8. Si deve invece ritenere che non sia possibile la confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi da suoi organi, salva l'ipotesi in cui la persona giuridica stessa sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l'amministratore agisca come effettivo titolare, come affermato in numerose pronunzie (Sez. 3, n. 42476 del 20/09/2013, Salvatori, Rv. 257353; Sez. 3, n. 42638 del 26/09/2013, Preziosi; Sez. 3, n. 42350 del 10/07/2013, Stigelbauer, Rv. 257129; Sez. 3, n. 33182 del 14/05/2013, De Salvia, Rv. 255871, già citata; Sez. 3, n. 15349 del 23/10/2012, dep. 2013, Gimeli, Rv. 254739; Sez. 3, n. 1256 del 19/09/2012, dep. 2013, Unicredit s.p.a., Rv. 254796; Sez. 3, n. 33371 del 04/07/2012, Failli; Sez. 3, n. 25774 del 14/06/2012, Amoddio, Rv. 253062; Sez. 6, n. 42703 del 12/10/2010, Giani). In una simile ipotesi, infatti, la trasmigrazione del profitto del reato in capo all'ente non si atteggia alla stregua di trasferimento effettivo di valori, ma quale espediente fraudolento non dissimile dalla figura della interposizione fittizia; con la conseguenza che il denaro o il valore trasferito devono ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del soggetto che ha commesso il reato, in 'apparente' vantaggio dell'ente ma, nella sostanza, a favore proprio.

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Le Sezioni Unite non ritengono fondato il diverso orientamento espresso in talune pronunzie. La tesi della possibilità di procedere alla confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per reati tributari attribuiti al legale rappresentante è stata sostenuta sull'assunto che tale possibilità “deriva proprio dal rapporto organico esistente tra il soggetto indagato [...] e detta società” (così Sez. 3, n. 26389 del 09/06/2011, Occhipinti, Rv. 250679), ovvero sull'assunto che “nei rapporti tra... la persona fisica, alla quale è addebitato il reato, e la persona giuridica, chiamata a risponderne, non può che valere lo stesso principio applicabile a più concorrenti nel reato stesso, secondo il quale a ciascun concorrente devono imputarsi le conseguenze di esso” (così Sez. 3, n. 17485 del 11/04/2012, Maione, n.m.). Inoltre è stato affermato che è possibile la confisca per equivalente dei beni della società, allorché l'autore del reato ne abbia la disponibilità (Sez. 3, n. 28731 del 07/06/2011, Società cooperativa Burlando, n.m.). Il primo argomento trascura che il rapporto fra ente ed un suo organo, di per sé, non è suscettibile di fondare l'estensione della confisca per equivalente, che si basa su specifiche disposizioni di legge, tanto più che è persino possibile che la persona giuridica, attraverso altri organi, promuova azione di responsabilità verso il suo amministratore che l'ha esposta a responsabilità (civile) conseguente a reato. Il secondo argomento da per presupposto quello che dovrebbe essere dimostrato e cioè che la società sia concorrente nel reato. Nel vigente ordinamento, è prevista solo una responsabilità amministrativa e non una responsabilità penale degli enti (ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), sicché comunque la società non è mai autore del reato e concorrente nello stesso. In ogni caso il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti conseguente a reato, non contempla i reati tributari fra quelli per cui è prevista tale responsabilità amministrativa della persona giuridica. La confisca per equivalente sui beni della società non può fondarsi neppure sull'assunto che l'autore del reato ne abbia la disponibilità in quanto amministratore (salva sempre l'ipotesi in cui la società sia un mero schermo fittizio), essendo tale disponibilità nell'interesse dell'ente e non dell'amministratore. Sul punto è sufficiente rilevare che l'eventuale appropriazione indebita di beni della persona giuridica da parte di un amministratore può integrare il reato di cui all'art. 646 cod. pen. aggravato ai sensi dell'art. 61, n. 11, cod. pen. e quindi perseguibile d'ufficio, stante la distinzione fra il patrimonio della persona giuridica e quello dei suoi amministratori. Una volta esclusa la fondatezza di tali argomenti, è necessario verificare se vi sia una base normativa per la confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per i reati tributari commessi dai suoi organi. Anzitutto, come già notato, tale confisca (ed il sequestro alla stessa finalizzato) non può avvenire ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato d.lgs. non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento, con esclusione dell'ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti. (Sez. 3, n. 1256 del 19/09/2012, dep. 2013, Unicredit, Rv. 254796). L'art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, non contiene una previsione autonoma di confisca per equivalente, ma si limita a richiamare l'art. 322-ter cod. pen.. La confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica non può fondarsi neppure sull'art. 322-ter cod. pen., dal momento che la citata disposizione si applica all'autore del reato e, come si è detto, la persona giuridica non può essere considerata tale. L'art. 11 della legge 16 marzo 2006, n.146, che prevede la confisca obbligatoria, anche per equivalente, per i reati di cui all'art. 3 della stessa legge, cioè i reati transnazionali, non riguarda l'ipotesi della quale ci si occupa nel presente procedimento. Si deve altresì escludere che sia possibile una interpretazione analogica delle citate disposizioni. L'analogia sarebbe in malam partem e come tale non consentita in sede penale. Infatti le Sezioni Unite hanno già chiarito che la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall'art. 1, comma 143, legge 27 dicembre 2007, n. 244, ha natura eminentemente sanzionatoria (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037). 2.9. Le Sezioni Unite sono consapevoli che la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalità, oltre che per gli aspetti già segnalati nell'ordinanza di rimessione, anche perché il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rischia di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali è stato introdotto l'art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007. Infatti è possibile, attraverso l'intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all'ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato. Dovendosi anche sottolineare come la stessa

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logica che ha mosso il legislatore nell'introdurre la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare non poco compromessa proprio dalla mancata previsione dei reati tributari tra i reati-presupposto nel d.lgs. n. 231 del 2001, considerato che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a quei reati non può che aver operato proprio nell'interesse ed a vantaggio dell'ente medesimo. Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale il secondo comma dell'art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all'adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244189). Le Sezioni Unite non possono quindi che segnalare tali irrazionalità ed auspicare un intervento del legislatore, volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità amministrativa dell'ente ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. 2.10. Devono pertanto essere affermati i seguenti principi di diritto: “É consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”. “Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio”. “Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato”. “La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato”. 2.11. Tutto ciò premesso, si deve rilevare che, nel caso in esame, è lo stesso ricorrente ad evidenziare che il profitto del reato fu utilizzato dalla Trento Pack s.r.l. per il pagamento dei dipendenti e per mantenere l'impresa in vita (p. 8, 9, 17 e 19 del ricorso) e l'assenza del profitto o comunque di adeguate disponibilità finanziarie in capo alla predetta società è confermata dalla ulteriore affermazione, contenuta nel ricorso, dell'essere intervenuto un accordo con l'Agenzia delle Entrate per un rientro rateale delle somme ancora dovute (p. 1, 2, 15 e 16 del ricorso). Appare pertanto priva del presupposto di fatto, sulla scorta delle stesse deduzioni del ricorrente, la doglianza relativa alla mancata ricerca del profitto presso la società. Anche a prescindere dalla considerazione che, in materia di misure cautelari reali, il ricorso per cassazione è consentito solo per violazione di legge e non per vizio di motivazione (rilevando soltanto la assoluta mancanza o apparenza della motivazione ai sensi dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen.), la motivazione da parte del Tribunale, sul punto della impossibilità della confisca diretta, è implicita, posto che la impossibilità non era controversa ed anzi dedotta dallo stesso ricorrente nella memoria presentata in sede di giudizio di appello il cui contenuto è richiamato nell'ordinanza impugnata anche in punto di sottoscrizione di un piano di rientro (p. 2 ordinanza impugnata). Nessuna rilevanza ha il fatto che il Tribunale non abbia motivato in punto di non applicabilità della confisca per equivalente su altri beni della società perché il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza. (Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri, Rv. 247123). Non sussiste alcuna violazione di legge nel caso in esame, per le considerazioni esposte sulla non applicabilità della confisca per equivalente ai beni della persona giuridica in materia di reati tributari commessi dagli organi della stessa. 3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti. Il sequestro disposto ai sensi dell'art. 322-ter cod. pen., a differenza del sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., ha ad oggetto l'equivalente del profitto del reato, e quindi anche cose che non hanno rapporti con la pericolosità individuale del soggetto, e non sono collegate con il singolo reato; in tal caso, il periculum coincide con la confiscabilità del bene. (Sez. 2, n. 1454 del 11/12/2007, dep. 2008, Battaglia, Rv. 239433). Le doglianze svolte nel terzo motivo di ricorso riguardano circostanze diverse dalla necessità di prevenire il rischio di sottrazione del bene sequestrato alla confisca e non sono idonee ad inficiare l'orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.

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Nella richiesta di sequestro preventivo il Procuratore della Repubblica ha decurtato dall'ammontare del profitto individuato le somme già corrisposte all'Agenzia delle Entrate, secondo il piano di rientro, determinandolo non nell'intera imposta non versata, ma in quella minore di Euro 332.228,52 e per tale ammontare il Tribunale ha disposto il sequestro preventivo, sicché neppure sotto tale profilo può ritenersi che l'intervenuto accordo tra la società Trento Pack e l'erario per un piano di rientro rateale impedisca la confisca del bene ed il sequestro alla stessa finalizzato. Ha correttamente osservato il Tribunale che le ragioni del sequestro possono venire meno solo con il completamento del pagamento rateale concordato (p. 2 ordinanza impugnata). 4. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato. La destinazione ad altro impiego di somme incassate, a titolo di I.V.A., per conto dell'erario ed a questo spettanti, è avvenuta consapevolmente, per stessa ammissione del ricorrente. Del resto la giurisprudenza di legittimità ha osservato, quanto al reato di omesso versamento, da parte del sostituto d'imposta, delle ritenute operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti che esso si consuma alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione annuale anche per i versamenti omessi, antecedentemente all'entrata in vigore dell'art. 1, comma 414, della legge n. 311 del 2004, introduttiva dell'art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000, nel periodo di imposta 2004 e per i quali le scadenze periodiche mensili siano già maturate, senza con ciò venirsi a violare il principio di irretroattività della norma penale, (v. Sez. U, n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, Rv. 255760). Il Tribunale ha anche correttamente segnalato che la crisi economica o l'inadempimento di terzi non sono elementi idonei ad integrare lo stato di necessità (p. 4 ordinanza impugnata). 5. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro 1.000 alla cassa delle ammende.

6. Sospensione del termine di prescrizione MASSIMA Il corso della prescrizione non rimane sospeso per la pendenza di altro procedimento penale relativo all'accertamento di un fatto logicamente pregiudiziale, quando si versa fuori dei casi di sospensione del processo penale espressamente previsti dalla legge, poiché la disciplina della prescrizione, incidendo sull'efficacia nel tempo della norma penale sostanziale, è soggetta al rispetto del principio di stretta legalità. (Fattispecie in cui è stata confermata la sentenza che aveva dichiarato la prescrizione del delitto di calunnia computando anche il tempo occorso per la definizione del processo relativo al reato presupposto di violenza sessuale, sebbene il pubblico ministero avesse esercitato l'azione penale solo all'esito del giudizio relativo al primo reato). Cass. pen., sez. VI, 18 giugno 2013, n. 44261 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. All'esito di preliminari indagini M.D., commerciante di (OMISSIS), era tratto a giudizio per rispondere del reato di tentata violenza sessuale, per avere - nella notte tra il (OMISSIS) - compiuto atti idonei diretti a costringere la quindicenne S.D. ad eseguire atti sessuali sulla sua persona, non riuscendo nell'intento per la reazione della ragazza, divincolatasi dalla presa e fuggita. Il Tribunale di Pistoia, al termine di estesa istruttoria dibattimentale, con sentenza del 18.12.2008 ha assolto il M. dal reato ascrittogli per insussistenza del fatto. 1.1. Decisione cui il Tribunale è giunto sulla base dei molteplici elementi valutativi emersi in dibattimento, ivi incluse le pur tardive e in parte reticenti dichiarazioni testimoniali di V. G., convivente di P.M., costituitasi parte civile nell'interesse della denunciante figlia minore S.D.. Elementi asseveranti la falsità della denuncia-querela presentata dalla minore e dalla madre contro l'imputato, rimasto vittima di una vera e propria "trappola" giudiziaria (simulante una "finta aggressione a sfondo sessuale" della minore), connessa ai burrascosi rapporti insorti tra il M. e il V. dopo la cessata relazione tra questi e la figlia del M., da cui era nato un bambino rimasto affidato alla madre (sentenza, p. 25: "Il Tribunale ritiene che il fatto contestato non sia avvenuto, che non vi sia stata nessuna aggressione, che la denuncia con il contorno di graffi e

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strappi sia frutto di un'accusa infondata ideata dal V. ed eseguita da S.D., all'epoca minorenne, su istigazione della madre P.M."). In coerenza con tali conclusioni il Tribunale ha trasmesso gli atti relativi alle testimonianze rese dalla S., dal V. e dalla P. al pubblico ministero per quanto di competenza in ordine ai reati di calunnia e di simulazione di reato ravvisabili nei loro confronti. 1.2. La sentenza assolutoria del Tribunale di Pistoia è stata appellata dal pubblico ministero e dalla parte civile. La Corte di Appello di Firenze con sentenza resa il 21.9.2010 ha rigettato gli appelli e confermato l'assoluzione del M., divenuta definitiva. Soltanto alla luce di tale esito decisorio il competente pubblico ministero ha esercitato l'azione penale, con richiesta di rinvio a giudizio del 5.12.2011, nei confronti di V.G. e P.M., contestando ad entrambi il delitto di concorso in calunnia commesso il (OMISSIS) (per la falsa accusa di violenza sessuale mossa al M. con la mendace denuncia-querela fatta proporre alla minore S.D.) ed alla V. altresì i delitti - in concorso formale - di falsa testimonianza e di calunnia commessi con la deposizione resa il 24.3.2006 (per aver falsamente attestato in dibattimento l'avvenuto tentativo di abuso sessuale del M. in danno della figlia). 2. Nella susseguente udienza preliminare, in cui si è costituito parte civile M.D., il G.U.P. del Tribunale di Pistoia ha emesso l'8.54.2012 sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p., nei confronti dei due giudicabili, con cui: a) ha dichiarato improcedibile il reato di calunnia contestato ad entrambi, in esso assorbito l'ulteriore reato di calunnia ascritto alla sola P. (non avendo costei nella sua falsa testimonianza del (OMISSIS) addotto elemento nuovi o diversi rispetto alla mendace esposizione dei fatti oggetto dell'originaria querela), perché estinto per prescrizione fin dal 5.6.2010, essendo decorso il termine ordinario di sei anni previsto dall'art. 157 c.p., in assenza di atti interruttivi (richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal p.m. il 5.12.2011; interrogatorio dell'indagata P. avvenuto il 24.11.2011); b) ha dichiarato la P. non punibile per il reato di falsa testimonianza in applicazione della causa esimente prevista dall'art. 384 c.p., comma 1, (la falsità della testimonianza dibattimentale dell'imputata correlandosi all'anteriore calunnia commessa con la querela del 5.6.2004 ed essendo stata resa, quindi, per evitare la possibile incriminazione per tale reato). Facendosi carico di specifici rilievi formulati dalla parte civile M., il giudice di merito ha evidenziato come non possa ritenersi, in pretesa applicazione analogica del disposto dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 2) -, sospeso il termine di prescrizione del reato di calunnia attribuito ai due imputati in pendenza del procedimento per il reato presupposto (la tentata violenza sessuale contestata al prosciolto M.). Vuoi perché non si è in presenza di un caso di "deferimento di una questione ad altro giudice", fattispecie (ex art. 159 c.p., comma 1, n. 2) di c.d. questione pregiudiziale espressamente prevista dagli artt. 3 e 479 c.p.p., (pregiudiziali di natura civile o amministrativa), non prefigurando l'ordinamento processuale casi di pregiudiziale penale (ad un processo penale), tanto più che nel peculiare caso della calunnia il procedimento per detto reato può essere instaurato anche in assenza di un separato procedimento sul reato presupposto (sì che potrebbe non esservi un procedimento sospendibile). Vuoi perché l'unico caso assimilabile di sospensione di un procedimento penale in pendenza di altro procedimento penale è quello, considerato "eccezionale" dalla giurisprudenza della S.C. e insuscettibile di applicazione analogica, previsto dall'art. 371 bis c.p., comma 2, (sospensione del procedimento per il reato di false informazioni al p.m. finché quello in cui sono state assunte le dichiarazioni non venga archiviato o definito in primo grado). 3. Avverso la sentenza di non luogo a procedere ha proposto, limitatamente al reato di calunnia dichiarato prescritto, ricorso il difensore della parte civile M., prospettando un unico motivo di censura per erronea applicazione dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 2). Motivo diffusamente articolato nei passaggi argomentativi di seguito sintetizzati. 3.1. Non può ritenersi decorrente il termine di prescrizione per il reato di calunnia fin tanto che la questione dell'innocenza o colpevolezza dell'accusato-calunniato resti deferita ad altro giudice penale, deputato a decidere sulla innocenza o non dell'accusato. La soluzione negativa del decidente g.u.p. è frutto di una interpretazione riduttiva, perché l'art. 159 c.p., comma 1, n. 2), individuando in linea generale i casi di sospensione del corso della prescrizione in tutte le situazioni definite da particolari disposizioni di legge, elenca una casistica esemplificativa ("oltre" detti casi) delle circostanze in cui si fa luogo alla sospensione della prescrizione che include l'ipotesi del deferimento della questione ad un altro giudizio. Ne discende che la disposizione prevede qualcosa di più e di diverso rispetto ai limiti normativi indicati dal g.u.p., la cui interpretazione trascura il rilevante inciso formato dall'avverbio "oltre". Sicché il problema di stabilire se l'ipotesi di deferimento della questione ad altro giudizio sia ravvisabile anche nella necessità di risolvere il dubbio (cioè la "questione") sull'innocenza o meno dell'accusato "prima di procedere contro il calunniatore" non può che rinvenire una soluzione positiva e conforme alla giustizia sostanziale. 3.2. Nessun magistrato inquirente, in vero, procederebbe mai contro il potenziale calunniatore fin quando la posizione dell'accusato sia sub iudice ed esposta al rischio di una eventuale condanna. Ritenendosi inapplicabile ai reati di calunnia il disposto dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 2) -, non troverebbero nel caso dell'incolpevole M., ingiustamente accusato di un reato grave e infamante e che lo ha visto subire tre mesi di custodia cautelare domiciliare, plausibile risposta una serie di rilevanti interrogativi processuali. Quesiti su chi avrebbe dovuto e in quale forma interrompere la prescrizione del reato di calunnia nel periodo dal 2004 al 2010,

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non essendo immaginabile che la Procura della Repubblica di Pistoia (che ha appellato la sentenza di primo grado assolutoria del M.) potesse assumere iniziative a carico dei presunti calunniatori, se non dopo la definizione del processo contro il M.. E ancora se sia ipotizzabile, sul piano logico, che - pur sussistendo il fatto di calunnia (falsità della denuncia- querela) ed essendo esso a conoscenza del p.m. (atti trasmessi dal Tribunale che ha assolto M.)- la pendenza del processo contro il calunniato M. possa precludere anche al più solerte magistrato del p.m. di interrompere un termine che corre inesorabilmente a iniquo vantaggio del calunniatore. A meno di prospettare la paradossale eventualità che il p.m. - a fronte del deposito di una denuncia o querela- debba iscrivere nel registro delle notizie di reato, oltre alla persona del denunciato, anche la persona del denunciante quale virtuale calunniatore, impegnandosi ad impedire la prescrizione su entrambi i fronti processuali. 3.3. La norma di carattere generale dettata dall'art. 159 c.p., comma 1, n. 2)-, cui non fa velo lo specifico caso di cui all'art. 371 bis c.p., richiamato dal g.u.p., va interpretata alla stregua dell'art. 12 preleggi, al codice civile. La corretta chiave interpretativa è offerta dall'inciso avverbiale "oltre", che impone la riferibilità della fattispecie ad altre ipotesi, da ricercarsi a cura dell'interprete, tra le quali una lettura razionalmente e costituzionalmente orientata impone di includere il caso della sospensione della prescrizione del reato di calunnia, quando il reato falsamente attribuito sia oggetto di separato giudizio per accertare la responsabilità dell'accusato. Si è in presenza di una questione pregiudiziale penale ad un processo penale compatibile con il sistema. L'errore interpretativo del g.u.p., che annovera tra i casi di deferimento di questioni sorte in sede penale ad altro giudice le sole ipotesi previste dagli artt. 3 e 479 c.p.p., (pregiudiziali civili e amministrative), appare chiaro quando si osservi che una cosa è la sospensione della prescrizione (o dei termini di custodia cautelare) imposta da particolari norme, altra cosa (avverbio "oltre") è la sospensione della prescrizione nei casi di deferimento di una questione ad un altro giudizio. Soltanto nella prima ipotesi ricadono i casi di cui agli artt. 3 e 479 c.p.p.. Porre sullo stesso piano le due situazioni equivarrebbe, infatti, a rendere superflua la previsione dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 2), che di fatto non troverebbe mai applicazione. L'ipotesi dell'art. 371 bis c.p., richiamata dal g.u.p. (ma lo stesso è a dirsi per le false informazioni rese al difensore di cui all'art. 371 ter c.p.) conferma a ben vedere la tesi di parte civile. Si tratta di casi, infatti, in tutto assimilabili a quelli disciplinati dagli artt. 3 e 479 c.p.p., e ricadenti - quindi - nella prima parte dell'art. 159 c.p., comma 1. 4. Il ricorso proposto nell'interesse della parte civile M. D. non può trovare accoglimento, perché gli argomenti censori, pur pregevolmente enunciati nell'articolata impugnazione, non sono fondati. 4.1. Non è revocabile in dubbio che l'innocenza del calunniato costituisce un presupposto del delitto di calunnia, di tal che l'accertamento di essa è pregiudiziale al giudizio sulla sussistenza della calunnia. Ma tale pregiudizialità afferisce soprattutto, sul piano logico, al sillogismo della decisione sull'imputazione di calunnia e non richiede necessariamente, sul piano processuale, l'accertamento in un separato procedimento contro il calunniato per verificare l'inconsistenza o infondatezza dell'accusa indirizzatagli dal calunniatore. Il giudizio sul reato di calunnia è, infatti, del tutto autonomo da quello concernente il reato ascritto al calunniato. Di guisa che la sentenza, pur se definitiva, pronunciata nel processo (eventuale) instaurato nei confronti dell'incolpato non fa stato nel processo contro il calunniatore, in cui è consentito al giudice di rivalutare - ai fini della constatazione della falsità o meno della notizia di reato proveniente dal calunniatore - i fatti che hanno già formato oggetto di esame nel giudizio contro l'incolpato. Diversamente da quanto stabilito dal previgente codice di procedura penale (artt. 18 e 458 c.p.p. 1930: questioni penali pregiudiziali a procedimento penale: sospensione e rinvio facoltativi in attesa della definizione del giudizio presupposto), nell'attuale ordinamento processuale non è configurata alcuna specifica disciplina della efficacia del giudicato penale nell'ambito di un altro procedimento penale, a differenza di quanto avviene per i rapporti con il giudizio civile, amministrativo o disciplinare, l'art. 238 bis c.p.p., consentendo l'acquisizione in dibattimento di sentenze penali irrevocabili, ma imponendone la valutazione ai sensi dell'art. 187 c.p.p., e art. 192 c.p.p., comma 3, (cfr. ex plurimis: Cass. Sez. 6, 16.1.2007 n. 14096, Iaculano, rv. 236142; Cass. Sez. 3, 13.1.2009 n. 8823, Cafarella, rv. 242767; Cass. Sez. 6, 12.11.2009 n. 47314, Cento, rv. 245483). 4.2. Erroneamente il ricorso sembra confondere i casi di sospensione della prescrizione obbligatoria o automaticamente prodotta ope legis (particolare disposizione di legge che preveda tale effetto), disciplinata dall'art. 159, comma 1, con i casi di sospensione della prescrizione facoltativa (il giudice "può" sospendere il processo) tra cui rientrano quelli relativi alle pregiudiziali civili o amministrative disciplinati dagli artt. 3 e 479 c.p.p.. Né la scelta del legislatore della riforma processuale di non prevedere (ex art. 3 c.p.p.) che il procedimento penale possa essere sospeso per la pendenza di un altro procedimento penale può reputarsi illogica o in contrasto con i principi dettati dagli artt. 3 e 111 Cost., rivelandosi la stessa frutto di una razionale opzione ispirata all'intento di garantire la massima autonomia di giudizio in ogni procedimento penale (nell'ambito del quale deve sempre e comunque ricercarsi la verità senza condizionamenti derivanti da dati raccolti in altri procedimenti penali). Nel vigente sistema processuale, dunque, la sospensione del processo penale è un mezzo eccezionale, cui il giudice deve fare ricorso solo quando la legge espressamente lo imponga in modo automatico ovvero lo consenta nei soli casi in cui la decisione dipenda dalla risoluzione di una questione pregiudiziale costituzionale o civile o amministrativa (art. 3 c.p.p.) Al di fuori di tali casi il giudice penale è

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tenuto a risolvere ogni altra questione pregiudiziale seppure con efficacia non vincolante oltre quel processo. 4.3. E' necessario osservare, d'altro canto, che il regime dell'istituto della prescrizione, incidendo sull'efficacia nel tempo della norma penale sostanziale, è necessariamente sottoposto alla riserva assoluta di legge di cui all'art. 25 Cost.. Con la conseguenza di non potersi consentire che su tale regime interferiscano interventi non specificamente disciplinati dal legislatore. E' allora da escludere che la casistica prevista dall'art. 159 c.p., comma 1, n. 2), secondo quanto ex adverso si sostiene in ricorso, riguardi ipotesi atipiche di deferimento di questioni penali (con coeva sospensione della prescrizione nel processo in cui si è posta la questione) di mancato o impedito esercizio dell'azione penale per ragioni di opportunità. Al contrario deve ritenersi che anche tale disposizione faccia riferimento alle sospensioni del processo tipizzate dal legislatore, comprendendo anche quelle c.d. non obbligatorie che sono invece menzionate nel primo periodo della norma codicistica. Ciò vale a dire che l'art. 159 c.p., quando fa riferimento a sospensioni imposte da una particolare disposizione di legge (primo periodo del comma 1), richiama le ipotesi obbligatorie di questioni di legittimità costituzionale, di discussione sulla rimessione del processo (art. 45 c.p.p. e ss.), di interventi straordinari in casi di calamità e simili. Quando menziona il deferimento di una questione ad un altro giudizio (comma 1, n. 2) richiama i casi previsti dagli artt. 3 e 479 c.p.p., in cui la sospensione è soggetta a valutazione del giudice di merito sia nell'an che nel quantum della sua durata temporale. 4.4. Il collegio decidente non disconosce che il caso in esame mostri il possibile verificarsi di concrete incongruenze in punto di efficace perseguibilità degli autori di un reato di calunnia, ove - come nella specie è accaduto per la ricorrente persona offesa costituita parte civile - si procrastini l'esercizio dell'azione penale al proscioglimento irrevocabile del calunniato. Né può sottacersi che simile possibilità è senz'altro favorita dall'intervenuta riduzione normativa dei termini di prescrizione di tale specifico reato, passati (nel computo massimo o c.d. prorogato) da quindici anni a sette anni e mezzo. Nondimeno simili incongruenze non rendono costituzionalmente illegittima la disciplina legislativa della sospensione, in quanto la stessa - come detto - si muove nel rispetto del principio di stretta legalità ed è comunque volta a contemperare la durata della pretesa punitiva dello Stato con le libertà individuali. In altri termini appartiene alla piena discrezionalità del legislatore intervenire nella materia con opportuni correttivi alla disciplina vigente ovvero creando appositi nuovi istituti (come è avvenuto per i reati di ci agli artt. 373 bis e 373 ter c.p., inclusi nella dinamica della sospensione obbligatoria ex art. 159 c.p., comma 1, p.p., subordinata alla definizione del procedimento presupposto nel quale siano state rese le presunte false dichiarazioni al p.m. o al difensore). Al rigetto dell'impugnazione segue per legge la condanna della ricorrente parte civile al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 18 giugno 2013. Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2013

6.1. Interruzione del termine di prescrizione MASSIMA L'atto con il quale il p.m. modifica la imputazione ex art. 516-517 c.p.p., non ha efficacia interruttiva della prescrizione, poiché esso non è compreso nell'elenco degli atti espressamente previsti dall'art. 160, comma 2, c.p., i quali costituiscono un "numerus clausus" e sono insuscettibili di ampliamento per via interpretativa, stante il divieto di analogia "in malam partem" in materia penale. Cass. pen., sez. V, 30 gennaio 2015, n. 9696 SENTENZA PER ESTESO

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è fondato e comporta l'assorbimento del secondo. 2. Dagli atti risulta che i reati in contestazione sono stati commessi il (OMISSIS), che il decreto di citazione a giudizio è stato emesso il 29 novembre 2005 e che la sentenza di primo grado è stata pronunziata il 16 giugno 2011. 2.1 Posto che i fatti per cui si procede sono anteriori alla data di entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 e che la sentenza di primo grado è invece successiva a tale data, all'imputata - ai sensi del combinato disposto dell'art. 10 della menzionata legge e art. 2 c.p. - deve applicarsi la disciplina della prescrizione che risulta più favorevole. Ed

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in tal senso, nel caso di specie, indubbiamente deve ritenersi tale quella prevista dall'art. 157 c.p. nella sua previgente formulazione, che contemplava un termine ordinario più breve in relazione ai reati per cui si procede (cinque anni invece di sei). 2.2 Successivamente all'emissione del decreto di citazione a giudizio e fino alla pronunzia della sentenza di primo grado non si sono dunque registrati altri atti interruttivi della prescrizione, non potendosi ritenere tale la modifica dell'imputazione effettuata dal pubblico ministero all'udienza del 5 febbraio 2007, come invece erroneamente ritenuto dal Tribunale. 2.3 Secondo l'insegnamento di questa Corte, infatti, l'elenco degli atti espressamente identificati dall'art. 160 c.p., comma 2, quali cause di interruzione della prescrizione, costituisce un numerus clausus ed è dunque insuscettibile di ampliamento per via interpretativa, stante il divieto di analogia in malam partem in materia penale (Sez. Un., n. 21833 del 22 febbraio 2007, P.M. in proc. Iordache, Rv. 236372; Sez. Un., n. 33543 del 11 luglio 2001, P.G. in proc. Brembati, Rv. 219222). 2.4 Pertanto la mancata menzione degli atti di modifica dell'imputazione ai sensi degli artt. 516 e 517 c.p.p. nel suddetto elenco impedisce di annoverarli tra quelli che determinano l'interruzione del corso della prescrizione. 2.5 Conseguentemente deve trovare applicazione il consolidato principio per cui, in presenza di più atti interruttivi, perché possa ritenersi non verificata l'estinzione del reato, è necessario, non solo che non sia superato il termine massimo previsto nell'ultima parte del comma 3 dell'art. 160 c.p., ma anche che, tra un atto interruttivo ed un altro, non sia superato il termine ordinario previsto dall'art. 157 c.p. (ex multis Sez. 2^, n. 20654 del 23 aprile 2014, Ndiaye, Rv. 259583). Nel caso di specie, invece, il tempo trascorso tra il decreto di citazione a giudizio e la sentenza di primo grado - anche tenendo conto dei periodi di sospensione succedutisi per diverse cause nel corso del dibattimento - è superiore a quello necessario al compimento della prescrizione "intermedia", calcolata sulla base del termine ordinario di cinque anni che come si è visto è quello applicabile all'imputata. 3. In definitiva deve essere annullata senza rinvio non solo la sentenza impugnata, ma altresì quella di primo grado, atteso che i reati si erano già estinti prima della sua pronunzia e conseguentemente devono essere revocate anche le statuizioni civili.

P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e quella di primo grado senza rinvio per essersi i reati estinti per prescrizione e revoca le statuizioni civili. Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2015. Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2015

6.2. Avviso di conclusione delle indagini MASSIMA L'avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p.p. non ha efficacia interruttiva della prescrizione, poiché esso non è compreso nell'elenco degli atti espressamente previsti dall'art. 160, comma 2, c.p., i quali costituiscono un numerus clausus e sono insuscettibili di ampliamento per via interpretativa, stante il divieto di analogia in malam partem in materia penale. Cass. pen., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 21833 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

Per risolvere la questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è necessario ricordare che, come è stato efficacemente rilevato dalla giurisprudenza (vedi sentenza delle Sezioni Unite Penali Brembati già citata) e dalla dottrina, l'istituto della prescrizione trova il suo fondamento razionale nell'interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno o notevolmente attenuare l'allarme della coscienza comune e con esso ogni istanza di prevenzione generale e speciale. In questa ottica la prolungata inerzia dei pubblici poteri rende manifesta la volontà dello Stato di non avere più interesse a perseguire penalmente un determinato fatto - reato, con la inevitabile conseguenza della estinzione del reato sancita dall'art. 157 c.p.. Per altro verso le norme sulla prescrizione dei reati costituiscono l'espediente di carattere formale escogitato dal nostro legislatore per realizzare quella finalità di carattere sostanziale, costituita dalla durata ragionevole del processo penale, che è tutelata dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo nonché oggi, a seguito delle modifiche introdotte dalla Legge Costituzionale 14 marzo 2001, n. 89, anche dall'art. 111 Cost. e che è da tali norme riconosciuta all'imputato, quale suo diritto soggettivo perfetto (così, con riferimento al solo art. 6 del CEDU Cass. Pen., 2 aprile 1986, Colussi, in CP. 87, 1339). Il legislatore ha ritenuto, però, che fosse opportuno interrompere il corso della prescrizione, con un

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sostanziale aumento dei termini prescrizionali secondo lo schema previsto dall'art. 157 c.p., u.c., quando fossero stati posti in essere atti fondamentali del procedimento penale che rendessero manifesto il persistere, nonostante il tempo trascorso dalla commissione del fatto, dell'interesse statuale alla attuazione della pretesa punitiva. É interessante notare che il testo del progetto preliminare del nuovo codice penale prevedeva all'art. 161 c.p., comma 1 che il corso della prescrizione è interrotto da qualsiasi atto del procedimento, perché, sosteneva il guardasigilli nella sua relazione, ognuno di essi manifesta l'interesse dello Stato alla attuazione della legge penale. La rigorosa impostazione originaria fu abbandonata proprio perché anche il compimento di un semplice atto del procedimento, quale ad esempio la formazione materiale del fascicolo processuale da parte del cancelliere, avrebbe finito con il vanificare un vero e proprio diritto dell'imputato. Si ritenne opportuno, perciò, contemperando diverse e spesso opposte esigenze, di restringere la cerchia degli atti del procedimento penale idonei ad interrompere la prescrizione a quelli veramente fondamentali del procedimento stesso, che, in considerazione del loro carattere obiettivo, per sé, dimostra(va)no la persistenza dell'interesse dello Stato a punire. In base a tale impostazione, ed alla considerazione che la giurisprudenza sotto la vigenza del codice penale precedente aveva smisuratamente allargato la cerchia di tali atti, il legislatore ritenne di dovere individuare ed indicare specificamente, in base ad un razionale uso della discrezionalità legislativa, gli atti fondamentali del processo ai quali si sarebbe dovuto riconoscere effetto interruttivo del corso del termine prescrizionale. Il legislatore del 1930 introdusse, inoltre, una altra novità rilevante; mentre, infatti, il codice precedente prevedeva che l'inutile decorso del tempo comportasse la prescrizione dell'azione penale, quello attualmente vigente prevede all'art. 157 c.p. la estinzione del reato. É del tutto evidente allora il passaggio da un istituto di diritto processuale ad uno di diritto sostanziale. Del resto anche gli Autori che sostenevano la natura processuale dell'istituto della prescrizione attribuivano, poi, rilievo sostanzialistico al suo effetto estintivo, con la conseguenza che in tale argomento prevaleva) sempre ciò che più torna(va) in favore dell'accusato. La valenza sostanziale attribuita dal legislatore all'istituto della prescrizione ha fatto, quindi, ritenere applicabile in tale materia anche l'art. 2 c.p., comma 3 (vedi Cass. Pen., Sez. 2^, 26 novembre 1992, Barbagallo, rv. 193159). La genesi dell'art. 160 c.p., ed in particolare la predisposizione di un minuzioso catalogo delle cause interruttive della prescrizione, dimostra chiaramente come il legislatore ritenesse detto elenco come tassativo, proprio perché una delle finalità dichiarate, come si è rilevato, era proprio quella di evitare, a garanzia dell'imputato, che la giurisprudenza allargasse a dismisura la cerchia degli atti capaci di interrompere il corso della prescrizione. Scelta, peraltro, resa necessaria anche dalla dichiarata natura di diritto sostanziale dell'istituto della prescrizione, rispondendo ad un evidente criterio di legalità individuare con precisione gli atti ai quali veniva riconosciuta la capacità di evitare che l'inutile passaggio del tempo determinasse la estinzione del reato. L'esame del testo originario dell'art. 160 c.p. del 1931, ed in particolare del catalogo, dimostra che effettivamente tale norma abbia in concreto costituito manifestazione di discrezionalità legislativa sorretta da razionalità perché l'elenco comprende davvero atti fondamentali del processo in quanto adempimenti necessari, in quel contesto processuale, per la progressione del processo stesso verso il momento conclusivo. L'originario art. 160 c.p. è stato, come è noto, modificato dal D.Lgs. n. 271 del 1989, art. 239 recante norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, perché era necessario modificare il catalogo degli atti interruttivi in conseguenza del radicale mutamento del contesto processuale di riferimento, dovuto alla adozione nel 1989 del nuovo processo penale. La ratio fondante la nuova elencazione degli atti interruttivi della prescrizione, secondo molti Autori, risulta coincidere con quella sottesa, e di cui si è già detto, alla originaria formulazione dell'art. 160 c.p.. Ciò è certamente vero non solo perché nella prospettiva del legislatore delegato del nuovo testo della disposizione si doveva assicurare il necessario coordinamento fra gli istituti cui il codice abrogato attribuisce efficacia interruttiva della prescrizione e i corrispondenti istituti del nuovo codice processuale rispettando lo spirito della precedente disciplina, ma anche perché l'analisi del nuovo testo dimostra che effettivamente, al di là di alcune omissioni, di cui si dirà, il legislatore ha individuato gli atti fondamentali del processo, ovvero quegli atti che manifestano in modo chiaro l'interesse dello Stato alla attuazione della legge penale. Gli atti interruttivi della prescrizione, come è stato efficacemente precisato dalla dottrina, si distinguono, invero, in quattro categorie a seconda che abbiano natura decisoria, come la sentenza di condanna, cui viene assimilato il decreto penale di condanna, coercitiva, come l'applicazione di misure cautelari,

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probatoria, come l'interrogatorio dell'imputato, propulsiva, come il decreto di citazione a giudizio. Ora se si esamina il catalogo previsto dall'art. 160 c.p. nella sua nuova formulazione, non vi è dubbio che tutti gli atti processuali indicati rientrino nello schema classificatorio richiamato e possano essere ritenuti atti fondamentali del processo, dai quali è possibile desumere il perdurare dell'interesse dello Stato alla celebrazione del processo. Parte della dottrina ha, però, rilevato che alcuni atti indicati nell'elenco pongono dei problemi di compatibilità tra la scelta operata dal legislatore e le ragioni poste a fondamento dell'opzione del 1930, perché con difficoltà gli stessi potrebbero essere considerati atti fondamentali del processo, tanto che si potrebbe affermare che il loro inserimento nell'elenco sarebbe il frutto di un mancato approfondimento legislativo sui caratteri di fondo della classe atti veramente fondamentali. Ciò dimostrerebbe la non assoluta razionalità delle scelte operate dal legislatore e, sembra di comprendere, la conseguente necessità di correggere ed integrare l'elenco stesso. La tesi non è fondata. In effetti a ben vedere come esempio di non razionalità delle scelte operate dal legislatore si cita la inclusione tra gli atti interruttivi della prescrizione della convalida del fermo e dell'interrogatorio reso al pubblico ministero su richiesta dell'indagato. Ora è certamente vero che la convalida del fermo di indiziato di delitto, così come disciplinata dagli artt. 384 c.p.p. e ss., è ininfluente ai fini del legittimo avanzamento del procedimento penale, qualunque sia il rito attivato, ma ciò dimostra soltanto che l'ordinanza di convalida non può essere inquadrata tra gli atti interruttivi cd. propulsivi, ma deve essere valutata alla stregua di un atto di natura coercitiva, che rende manifesta la volontà punitiva dello Stato. Quanto all'interrogatorio reso dinanzi all'Autorità Giudiziaria è certo vero che specie allorquando il ricorso a tale strumento venga sollecitato dalla parte privata al fine di esporre quanto utile per la propria difesa - art. 65 c.p.p., comma 2 - esso si caratterizza essenzialmente come strumento di difesa, ma è pure vero che l'Autorità Giudiziaria prima di raccogliere le dichiarazioni dell'indagato deve, a norma dell'art. 65 c.p.p., comma 1, contestare allo stesso il fatto che gli è attribuito rendendogli noti gli elementi di prova esistenti contro di lui e, ai sensi dell'art. citato, comma 2 gli pone direttamente domande. Pur non volendo disconoscere che l'interrogatorio dell'indagato, specialmente quando sia richiesto dalla parte, abbia importanti finalità difensive, non vi può essere dubbio che si tratti anche di uno strumento che consente all'Autorità Giudiziaria di contestare i fatti e di porre domande all'indagato al fine di accertare la verità, che è il fine principale del processo penale. Si tratta senz'altro, quindi, di un atto da annoverare tra quelli fondamentali del processo, perché rende manifesta la volontà degli organi dello Stato di perseguire l'illecito. Infine si tratta di un atto che, se pure a richiesta di parte, viene compiuto dal pubblico ministero o dal giudice, ovvero da soggetti dell'atto interruttivo, che, secondo autorevole dottrina, non possono che essere gli organi statali che hanno il potere di far valere la pretesa punitiva dello Stato, dal momento che ciò che si perde per prescrizione del reato sono i pubblici poteri di far valere la pretesa punitiva. Il legislatore ha, inoltre, conferito capacità interruttiva del corso della prescrizione anche al decreto di fissazione dell'udienza in camera di consiglio a seguito di richiesta di archiviazione del pubblico ministero. E' in verità un po´ difficile ritenere che tale provvedimento possa essere sintomatico della persistenza dell'interesse statuale alla irrogazione della sanzione, che nel caso di specie sembrerebbe addirittura negata in radice. Bisogna però anche considerare che, evidentemente, il legislatore ha tenuto conto che in ipotesi siffatte il Giudice per le indagini preliminari non adotta un provvedimento di archiviazione de plano accogliendo la richiesta del pubblico ministero, ma crea, con la fissazione dell'udienza in camera di consiglio, i presupposti per l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 409 c.p.p., commi 4 e 5 - formulazione di imputazione coatta o richiesta di nuove specifiche indagini -. Certo desta perplessità, come molti Autori non hanno mancato di rilevare, il fatto che nell'elenco di cui all'art. 160 c.p. non risultino indicati come atti interruttivi della prescrizione la richiesta di giudizio immediato e la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, perché appare innegabile che tali atti integrino altrettante forme di esercizio dell'azione penale al pari della richiesta di rinvio a giudizio, del decreto di citazione a giudizio e della presentazione o citazione per il giudizio direttissimo, atti questi ultimi espressamente richiamati dall'art. 160 c.p.. Trattasi di una evidente incompletezza dell'elenco che i giudici ordinari hanno tentato di colmare sollecitando una pronuncia additiva della Corte Costituzionale, che, però, in numerose pronunce concernenti proprio il problema della mancata inclusione nell'elenco della richiesta di emissione del decreto penale di condanna ha ripetutamente osservato che la richiesta di una pronuncia additiva in materia penale volta ad integrare la serie degli atti che tassativamente l'art. 160 c.p. enumera come i soli idonei a produrre l'effetto di interrompere il corso della prescrizione doveva essere dichiarata inammissibile ostandovi il principio di legalità sancito dall'art. 25 Cost. e fuoriuscendo una tale pronuncia

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dai poteri spettanti alla Corte (da ultimo vedi CC n. 315/96). É appena il caso di notare che, però, non basta segnalare una incompletezza dell'elenco o una sua incongruenza per ritenere la scelta del legislatore non caratterizzata dalla dovuta razionalità. Infatti si può anche ritenere che l'elencazione di cui all'art. 160 c.p. sia per alcuni versi incompleta e per altri versi eccessiva e sovrabbondante e che mentre vi sia menzionato qualche atto processuale che con molta difficoltà è possibile classificare come atto fondamentale del processo, ne sia stata omessa la indicazione di alcuni che tale qualifica certamente meritavano, ma è innegabile, però, che l'esame complessivo del catalogo dimostra una sostanziale coerenza del legislatore che ha rispettato l'opzione del 1930 e si è limitato a realizzare il necessario coordinamento fra gli istituti cui il codice abrogato attribuisce efficacia interruttiva della prescrizione ed i corrispondenti istituti del nuovo codice processuale. La scelta legislativa è, perciò, connotata da sicura razionalità e non consente interventi correttivi ed integrativi da parte del giudice. Ma le sentenze che si sono discostate, consapevolmente o meno, dagli indirizzi della sentenza delle Sezioni Unite Brembati, già richiamata, hanno rilevato che l'elenco non potrebbe ritenersi completo anche perché l'art. 160 c.p. non è stato integrato in seguito alle modifiche, talvolta anche rilevanti, al nuovo processo penale introdotte con numerose leggi approvate successivamente alla sua entrata in vigore nel 1989. La mancata inclusione nel catalogo dell'avviso di deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p., sarebbe, quindi, frutto non di una razionale scelta legislativa, ma di un imperfetto coordinamento legislativo, cosicché, sembra di comprendere, la interpretazione adeguatrice dell'art. 160 c.p., sostanzialmente effettuata dalle citate sentenze, sarebbe secundum costitutionem. Anche siffatta impostazione non è fondata perché, come ha già rilevato la citata sentenza Brembati, in assenza di alcun indizio ermeneutico, è davvero difficile ritenere che l'omesso aggiornamento del catalogo di cui al secondo comma dell'art. 160 c.p. sia frutto di imperfetto coordinamento e non già di consapevole scelta da parte del legislatore, tenuto conto del fatto che alcune leggi successive al 1989 (vedi ad esempio il D.L. n. 306 del 1992, convertito in L. n. 356 del 1992), oltre a rilevanti modifiche al nuovo codice di procedura penale, ha apportato anche sul terreno del diritto penale sostanziale incisive modifiche al codice penale. Inoltre non è vero che il legislatore non abbia mai ampliato il catalogo degli atti interruttivi a seguito di modifiche procedurali, tanto è vero che il corso della prescrizione risulta interrotto anche dalla citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria e dal decreto di convocazione delle parti emesso dal Giudice di pace per effetto del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 61, nonché dal verbale di constatazione o dall'atto di accertamento delle violazioni relative ai delitti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto per effetto del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 17. Anzi la introduzione di queste due norme costituisce una prova ulteriore del fatto che la individuazione degli atti interruttivi è di esclusiva competenza legislativa e che l'elenco di cui all'art. 160 c.p. costituisca un numerus clausus. Infine è necessario ricordare che recentemente il legislatore è intervenuto con la L. 5 dicembre 2001, n. 251, che, pur apportando rilevanti modifiche all'istituto della prescrizione, ha lasciato inalterato il catalogo degli atti di cui all'art. 160 c.p., comma 2. Da tutto quanto detto risulta evidente che sia l'interpretazione letterale della norma in discussione - art. 160 c.p. - con la sua analitica elencazione della cause interruttive, sia l'interpretazione logico - sistematica degli istituti della prescrizione e della interruzione della stessa, sia la individuazione della intentio legis consentono di affermare, conformemente all'orientamento nettamente maggioritario della giurisprudenza e della dottrina, che la prescrizione del reato è un istituto di diritto penale sostanziale, fondato sull'interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno l'allarme sociale e con esso ogni istanza di prevenzione generale e speciale (così SS. UU. Penali, Brembati, citata, e Cass. Pen., Sez. 2^, 26 novembre 1992, Barbagallo, già citata, che ha specificamente ritenuto applicabile alla prescrizione l'art. 2 c.p., comma 3). Soltanto gli atti veramente fondamentali del processo, secondo la definizione del Guardasigilli contenuta nella relazione al codice penale del 1930, specificamente indicati dall'art. 160 c.p., o da altre leggi penali che ab externo abbiano integrato tale norma, possono interrompere la prescrizione perché denotano il persistere dell'interesse dello Stato a perseguire l'illecito. Tali atti costituiscono senz'altro un numerus clausus, non solo perché ciò si desume dai lavori preparatori del codice penale, ma principalmente perché il venir meno della tassatività dell'elenco comporterebbe, con la violazione della riserva di legge in materia penale, la negazione del principio di legalità e la garanzia di determinatezza della fattispecie penale di cui all'art. 25 cpv. Cost.. Infine l'elenco di cui all'art. 160 c.p. non può essere ampliato per effetto di una interpretazione analogica perché evidentemente si tratterebbe di una analogia in malam partem non consentita dall'art. 14 disp.

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gen.. Sul punto la giurisprudenza costituzionale, come già rilevato, ha costantemente affermato che il principio di legalità preclude di pronunciare sentenze additive in malam partem del tipo di quelle volte ad integrare la serie di atti che producono effetti interruttivi o sospensivi del corso della prescrizione ed ha dichiarato inammissibili le relative questioni per il semplice fatto che il loro accoglimento condurrebbe ad esiti incompatibili con la riserva di legge in materia penale (sulla introduzione di nuove ipotesi di sospensione della prescrizione vedi sentenza n. 114 del 1994 e sulla introduzione di nuove ipotesi di interruzione del corso del termine prescrizionale ex plurimis ordinanze nn. 245 e 337 del 1999; n. 412 del 1998; n. 178 del 1997 - sull'interrogatorio della polizia giudiziaria -; n. 315 del 1996; n. 144 del 1994 - sulla richiesta del pubblico ministero di emissione del decreto penale di condanna, già citata -; nn. 193, 188, 391 e 489 del 1993; n. 315 del 1996; n. 7 del 1990; n. 114 del 1983 - sulla richiesta del pubblico ministero di citazione a giudizio -). Non solo al giudice delle leggi ma anche, ed anzi a maggior ragione, come già rilevato dalla sentenza Brembati, al giudice di legittimità deve intendersi, pertanto, preclusa ogni operazione diretta comunque ad integrare in malam partem la serie di quegli atti che incidono direttamente in modo sfavorevole nei confronti dell'imputato, siccome inerenti ai tempi ed ai limiti e per ciò alla effettività dell'esercizio del diritto punitivo dello Stato. Ma le tre sentenze che si sono poste in contrasto con l'indirizzo giurisprudenziale delineato ritenendo la efficacia interruttiva del deposito degli atti di cui all'art. 415 bis c.p.p. hanno precisato che non si tratterebbe di interpretazione analogica o estensiva e nemmeno, per la sentenza Cameli, di difetto di aggiornamento del catalogo da parte del legislatore. Si tratterebbe, invece, di evidenziare per la sentenza Goegan, di constatare per la sentenza Cameli che un atto nominato dall'art. 160 c.p., quale quello previsto dall'art. 375 c.p.p., è ontologicamente, in sostanza contenuto anche nell'avviso di cui all'art. 415 bis c.p.p., quindi, anche in un atto diverso e non menzionato dal predetto art. 160 c.p.. Cosicché sarebbe necessario un coordinamento dell'art. 160 c.p. a seguito della introduzione del nuovo istituto non previsto al momento della revisione dell'art. 160 c.p.. L'indirizzo in questione nega anche di avere fatto ricorso al concetto, costantemente ripudiato dalla quasi unanime dottrina, di atto equipollente, nel senso cioè che l'avviso di deposito degli atti sarebbe riconducibile alla eadem ratio di quelli analiticamente enumerati dall'art. 160 c.p., e precisa che nell'art. 415 bis c.p.p. sarebbe individuabile quell'invito a presentarsi per rendere interrogatorio previsto dall'art. 160 c.p., che originariamente era disciplinato soltanto dall'art. 375 c.p.p.. Gli argomenti posti dall'indirizzo giurisprudenziale in contrasto con i principi enunciati dalla sentenza Brembati però non sono in grado di mettere in difficoltà le conclusioni alle quali si è pervenuti, perché alla fine, sia pure per via di evidenziazione e di constatazione, finiscono per compiere una operazione additiva e manipolatoria in malam partem del catalogo di cui all'art. 160 c.p. violando, per quel che si è detto in precedenza, i principi di legalità e di riserva di legge in materia penale nonché il divieto di analogia in malam partem delle norme penali. In effetti l'indirizzo minoritario, che ha dato luogo al contrasto in esame, ripropone argomenti e censure già esaminati e superati con la decisione Brembati e, quindi, non è idoneo a mettere in discussione il dictum delle Sezioni Unite espresso con la sentenza Brembati, che deve, invece, come chiarito in precedenza, essere confermato. Infine va detto che l'indirizzo minoritario deve essere disatteso non solo per le ragioni generali esposte, ma anche perché il ritenere l'avviso ex art. 415 bis c.p.p. atto equipollente o analogo ad altri atti processuali contenuti nell'art. 160 c.p. è frutto di errore. É in primo luogo davvero difficile ricondurre l'avviso di deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p. tra gli atti aventi efficacia interruttiva se si tiene presente la classificazione degli stessi dinanzi menzionata. Escluso infatti che si tratti di un atto avente natura decisoria, coercitiva o probatoria, esso dovrebbe avere natura propulsiva del procedimento, come ad esempio il decreto di citazione a giudizio. Non è così perché il deposito degli atti segnala soltanto la fine della attività investigativa del pubblico ministero e serve essenzialmente a verificare il grado di resistenza del materiale investigativo dell'accusa rispetto alle sollecitazioni - deposito di memorie e documenti, richieste al pubblico ministero di compimento di atti di indagine, deposito di documentazione relativa ad indagini difensive - in senso opposto formalizzate dalla difesa. Proprio per tale ragione l'avviso predetto ha un contenuto meramente informativo, del resto in attuazione dell'art. 111 Cost., secondo il quale la persona accusata di un reato deve nel più breve tempo possibile, essere informata ... della natura e dei motivi dell'accusa, e svolge la essenziale funzione di porre l'indagato in condizione di prospettare, nell'ambito della sua strategia difensiva, le proprie posizioni difensive, prima che un atto davvero propulsivo del procedimento - ad esempio richiesta di rinvio a giudizio -, questo sì avente natura interruttiva del corso della prescrizione del reato ai sensi dell'art. 160 c.p., possa essere adottato dal pubblico ministero.

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É anche errato equiparare l'invito a rendere interrogatorio previsto dall'art. 375 c.p.p. alla facoltà di presentarsi al pubblico ministero per rendere dichiarazioni o per essere sottoposto ad interrogatorio previsto dall'art. 415 bis c.p.p.. Si tratta, invero, di due istituti assai diversi. Nel primo caso è il pubblico ministero che invita l'indagato a presentarsi, con possibilità anche di accompagnamento coattivo per l'indagato che non ottemperi all'invito, quando è necessario procedere ad atti di indagine che richiedono la presenza della persona sottoposta alle indagini. Si tratta all'evidenza di un atto che è funzionale allo svolgimento delle indagini, che lo stesso organo dell'accusa ritenga indispensabile, e che rientra tra gli atti processuali aventi natura probatoria ai quali correttamente viene riconosciuta capacità interruttiva della prescrizione perché testimoniano la volontà dello Stato di perseguire l'illecito. Nell'art. 415 bis c.p.p. è, invece, prevista la facoltà dell'indagato di chiedere di presentarsi per rilasciare dichiarazioni o rendere interrogatorio. Si tratta di atto, pertanto, non provocato da una iniziativa del pubblico ministero, ma ricondotto ad una volontà dell'indagato che ritenga attraverso quello strumento di poter far valere le proprie ragioni. É un atto che si inserisce, perciò, nella strategia difensiva dell'indagato e che proprio per tale ragione non può assumere alcun rilievo ai fini della volontà dello Stato di perseguire l'illecito. Le brevi considerazioni che precedono dimostrano che anche i presupposti argomentativi sui quali si fonda la pretesa necessità di una integrazione e di un aggiornamento dell'elenco di cui all'art. 160 c.p. e, quindi, di una revisione dei consolidati principi in materia enunciati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità non sono fondati. 5) Conclusioni. In conclusione per tutte le ragioni illustrate deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale l'avviso di conclusione delle indagini di cui all'art. 415 bis c.p.p. non costituisce atto interruttivo della prescrizione del reato ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 160 c.p.. La sentenza impugnata ha fatto, quindi, corretta applicazione di tale principio dichiarando non doversi procedere nei confronti di I.C. per estinzione del reato contestatogli per prescrizione e disconoscendo, sia pure implicitamente, efficacia interruttiva della prescrizione all'avviso di conclusione delle indagini preliminari. Ne consegue che il ricorso del Pubblico Ministero, fondato, come già rilevato, su un unico motivo di impugnazione, è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Penali, il 22 febbraio 2007. Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2007 7. Molestia o disturbo alle persone MASSIMA Ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 660 c.p., al termine "telefono" (che costituisce la tassativa modalità di trasmissione della molestia, rilevante per la sussistenza del reato, alternativa a quella, di carattere topografico, del luogo pubblico o aperto al pubblico in cui si svolge la condotta costitutiva del reato), deve essere equiparato qualsiasi mezzo di trasmissione, tramite rete telefonica e rete cellulare, di voci e di suoni imposti al destinatario, senza possibilità per lui di sottrarsi all'immediata interazione con il mittente. Ne deriva, che può integrare il reato la trasmissione di posta elettronica su un telefono attrezzato che, con modalità sincrona, consenta di segnalare l'arrivo di mail con un avvertimento acustico. Diversamente, non sussiste il reato nel caso di invio di mail realizzato tramite computer, giacché, in tal caso, la posta elettronica inviata può essere letta dal destinatario, per nulla avvertito dell'arrivo, solo se e in quanto questi decida di aprirla, realizzandosi una situazione del tutto simile alla ricezione della posta per lettera, cui il destinatario accede per sua volontà (da queste premesse, la Corte ha annullato senza rinvio, con la formula "perché il fatto non è previsto come reato", la sentenza che, invece, aveva ravvisato la contravvenzione nella condotta sostanziatasi nell'invio di messaggi molesti tramite internet sul computer del destinatario). Cass. pen., sez. I, 27 settembre 2011, n. 36779 SENTENZA PER ESTESO

OSSERVA

-1- Con atto di impugnazione congiunto, presentato alla corte di appello di Firenze e da questa qualificato come ricorso per cassazione, B.A. e F.P. contestavano la sentenza 4.2/3.5.2010 del tribunale di Grosseto in composizione monocratica che condannava ciascuno alla pena di Euro 300,00 di ammenda - interamente condonata - per averli riconosciuti colpevoli del delitto di molestia e disturbo a tali G.E. e A.L. attraverso l'invio di

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numerosi messaggi alla loro posta elettronica. -2- Quattro i motivi di ricorso, i primi due in rito, il terzo ed il quarto per vizi di motivazione in ordine, rispettivamente, alla configurazione del reato ed in ordine alla valutazione di colpevolezza. I seguenti: a) Nullità, ex art. 169 c.p.p., comma 4, del decreto di irreperibilità emesso nella fase delle indagini per non essere stato il decreto preceduto dalle ricerche all'estero, risultando dagli atti che gli indagati erano partiti per il Brasile; b) Nullità, ex art. 179 c.p.p., della notifica del decreto di citazione per entrambi, nonché nullità, per il solo F. della dichiarazione, in data 28.6.2007, di contumacia per essere lo stesso rientrato in Italia il 15.2.2008 e per essergli stato nella stessa data notificato l'avviso di conclusione delle indagini,con invito a dichiarare o eleggere il domicilio; c) mancanza di prova in ordine alla riferibilità dei messaggi molesti all'uso del computer nella disponibilità degli imputati, in specie con riferimento al F. di cui non si indicano gli elementi probatori del suo concorso, materiale o morale; d) insussistenza del fatto di reato per il fatto che le molestie erano avvenute tramite internet e tale modalità sfuggirebbe alla tipizzazione della condotta come descritta dall'art. 660 c.p.. -3- Il ricorso deve accogliersi per la fondatezza del quarto motivo di ricorso che è assorbente di ogni altro e che preclude la analisi critica delle ragioni difensive peraltro infondate,quelle in rito, inammissibile, perché censura nel merito, quella sulla solo asserita carenza di motivazione in ordine alla attribuibilità dei messaggi molesti agli indagali. La Corte richiama il precedente giurisprudenziale in senso contrario di questa stessa Sezione (Sez. 1, 17/30.6.2010, D'Alessandro, Rv 247558) che esclude l'ipotizzabilità del reato de qua nel caso di molestie recate con il mezzo della posta elettronica, perché in tal caso nessuna immediata interazione tra il mittente ed il destinatario si verificherebbe né veruna intrusione diretta del primo nella sfera delle attività del secondo. Contrariamente alla molestia recata con il telefono, alla quale il destinatario non può sottrarsi, se non disattivando l'apparecchio telefonico, nel caso di molestia tramite posta elettronica una tale forzata intrusione nella libertà di comunicazione non si potrebbe, secondo il predetto precedente, verificare, come di certo non si verifica nel caso di molestia trasmessa tramite lettera. Il principio deve, ad avviso della Corte, essere condiviso ma con la necessaria precisazione, con riferimento alla posta elettronica, imposta dal progresso tecnologico nella misura in cui esso consente già fin d'ora con un telefono "attrezzato" la trasmissione di voci e di suoni in modalità sincrona,che avvertono non solo l'invio e la contestuale recezione di sms (short messages System) - in tal senso già, Sez. 3, 26.6.2004, Modena, Rv 229464 - ma anche l'invio e la recezione di posta elettronica, con l'alta probabilità in un prossimo futuro della medesima trasmissione, di suoni in modalità sincrona, tramite computer, collegalo per necessità alla linea telefonica, che costituisce la tassativa, per la espressa indicazione dell'art. 660 c.p., modalità di trasmissione della molestia, alternativa a quella, a carattere topografico, del luogo pubblico o aperto al pubblico in cui si svolge la condotta costitutiva del reato. Invero l'attuale tecnologia è in grado di veicolare, in entrata ed in uscita, tramite apparecchi telefonici, sia fissi che mobili, anche di non ultimissima generazione, sia sms (short messages system) sia e- mail. Il carattere sincronico o a-sincronico del contenuto della comunicazione, elemento distintivo secondo una tesi più restrittiva dal quale si dovrebbe ricavare il criterio per espungere dalla previsione dell'art. 660 c.p., per l'appunto, le comunicazione asincrona, non è affatto dirimente. Invero entrambe le comunicazioni sono sempre segnalate da un avvertimento acustico che ne indica l'arrivo, e che può, specie nel caso di spamming, costituito dall'affollamento indesiderato del servizio di posta elettronica con petulanti e-mail, recare quella molestia e quel disturbo alla persona che di questa lede con pari intensità la libertà di comunicazione costituzionalmente garantita. In tal caso è palese l'invasività dell'avvertimento al quale il destinatario non può sottrarsi se non dismettendo l'uso del telefono, con conseguente lesione, per la forzata privazione, della propria tranquillità e privaci ,da un lato, con la compromissione della propria libertà di comunicazione, dall'altro. Nella specie, però, il carattere invasivo, senza possibilità di sottrarsi al suono molesto, dell'avvertimento dell'arrivo della posta elettronica non può dirsi realizzato perché gli imputati comunicavano con le persone offese tramite computer ed in tanto la posta elettronica con questo mezzo inviata poteva essere letta in quanto i destinatari di essa, per nulla avvertiti dell'arrivo, avessero deciso di "aprire" la posta elettronica pervenuta. Situazione del tutto simile alla recezione della posta per lettera, che viene riposta nella cassetta, per l'appunto, delle lettere ed alla quale il destinatario accede per sua volontà, senza peraltro essere stato condizionato da segni o rumori premonitori. In definitiva il principio rigoroso della tipicità, espressione delle ragioni di stretta legalità che devono presiedere all'interpretazione della legge penale, nella specie l'art. 660 c.p., impone che al termine telefono, espressivo dell'instrumentum della contravvenzione de qua, venga equiparato qualsiasi mezzo di trasmissione, tramite rete telefonica e rete cellulare delle bande di frequenza, di voci e di suoni imposti

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al destinatario, senza possibilità per lui di sottrarsi alla immediata interazione con il mittente. P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non previsto dalla legge come reato. Così deciso in Roma, il 27 settembre 2011. Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2011

8. Diffamazione a mezzo stampa (responsabilità del direttore) MASSIMA In tema di diffamazione a mezzo stampa, il direttore responsabile, assumendo la paternità di ciò che viene pubblicato, si pone, ex art. 57 cod. pen., in una posizione di garanzia, in virtù dell'obbligo di controllo diretto ad impedire che, con la pubblicazione, siano commessi reati, mentre il direttore editoriale detta le linee di impostazione programmatica e politica del quotidiano - in rappresentanza dell'azienda editrice del giornale - successivamente elaborate e realizzate dal direttore responsabile, senza, tuttavia, condividerne la responsabilità di cui all'art. 57 cod. pen., prevista espressamente solo per il direttore responsabile. Ne deriva che un'estensione al direttore editoriale dei doveri di controllo e di siffatta responsabilità comporterebbe l'applicazione dell'analogia in "malam partem", vietata dalla legge penale. Cass. pen., sez. V, 11 luglio 2011, n. 42125 SENTENZA PER ESTESO

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. - Con il primo motivo d'impugnazione parte ricorrente lamenta violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) per erronea applicazione della legge penale, in relazione alla condanna di F.V., direttore editoriale, imputato di omesso controllo ex art. 57 c.p. in concorso con il direttore responsabile, in mancanza di qualsivoglia elemento di prova a sostegno di un benché minimo contributo causale dell'imputato nella consumazione del reato. Il secondo motivo deduce violazione dello stesso art. 606, lett. e) per mancanza e illogicità di motivazione in relazione alla conferma della condanna al risarcimento del danno liquidato nella somma di Euro 50.000,00. 2. - Il primo motivo del ricorso, relativo esclusivamente alla posizione del F., è fondato e merita, pertanto, accoglimento. É, infatti, dato pacifico in processo che direttore responsabile del quotidiano Libero, all'epoca dei fatti, era il S., mentre F.V. aveva la mera qualità di direttore, e precisamente di direttore editoriale. Sennonché le figure di direttore responsabile e direttore editoriale non sono affatto assimilabili, rispondendo a modelli antitetici nella struttura imprenditoriale giornalistica. Il direttore responsabile è, infatti, il soggetto che assume la paternità di quanto venga pubblicato, ponendosi per l'art. 57 c.p. in posizione di garanzia, siccome tenuto ad esercitare il controllo atto a impedire che, con la pubblicazione, vengano commessi reati. Il direttore editoriale detta, invece, le linee di impostazione programmatica e politica del quotidiano, in rappresentanza dell'azienda editrice del prodotto giornalistico, poi elaborato e realizzato dal direttore responsabile, senza condividerne, tuttavia, la responsabilità esterna nella logica dell'art. 57 c.p.. Un'estensione al direttore editoriale dei doveri di controllo e delle conseguenze penali comporterebbe, quindi, applicazione di analogia in malam partem, che l'ordinamento penale, notoriamente, ripudia. In un errore siffatto sono, però, incorsi i giudici di appello, che, peraltro, hanno malamente interpretato l'unico precedente relativo al direttore editoriale (cfr. Cass. sez. 4^, 16.6.1981, n. 8716, rv. 150398). Nell'occasione, questa Corte aveva precisato che il direttore editoriale può essere ritenuto colpevole del delitto di diffamazione, ove sia accertato che lo stesso abbia compiuto atti diretti a ledere l'altrui reputazione ovvero abbia concorso, consapevolmente, a raggiungere tale evento. Siffatta affermazione, del tutto ovvia alla stregua dei pacifici principi in tema di concorso di persone nel reato, non autorizza, però, l'estensione al direttore editoriale della specifica responsabilità di cui all'art. 57 c.p., espressamente prevista solo per il direttore responsabile. 3. - Per quanto precede, risultando evidente che il F. non ha commesso il fatto contestato, va pronunciata nei suoi confronti sentenza di proscioglimento, a mente dell'art. 129 c.p., previo annullamento nei suoi confronti della sentenza impugnata. 4. - La seconda censura, riguardante specificamente la posizione del S., è palesemente infondata, posto che il giudice di appello ha, compiutamente, indicato le ragioni della ritenuta congruità della somma liquidata a titolo di danno morale, avuto riguardo alle peculiarità della fattispecie. Si tratta di apprezzamento squisitamente di merito, che, in quanto adeguatamente argomentato, si sottrae al sindacato di legittimità. L'impugnazione è, quindi, inammissibile e tale va, dunque, dichiarata, con le consequenziali statuizioni espresse

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in dispositivo. P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di F. V., per non aver commesso il fatto. Dichiara inammissibile il ricorso del S. che condanna al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 luglio 2011. Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2011

8.1. Diffamazione a mezzo stampa (giornale telematico) MASSIMA Il dettato dell'art. 57 c.p. non è applicabile al cd. giornale telematico: la lettera della legge e la sua ratio fanno riferimento al concetto di stampa, nel quale non può essere ricompresa l'informazione on line, né può pensarsi ad una interpretazione analogica, trattandosi di analogia "in malam partem"; perché possa parlarsi di stampa in senso giuridico occorrono due condizioni che certamente il nuovo medium non realizza: che vi sia una riproduzione tipografica ("prius") e che il prodotto di tale attività sia destinato alla pubblicazione e quindi debba essere effettivamente distribuito tra il pubblico ("posterius"); se pur, dunque, le comunicazioni telematiche sono, a volte, stampabili, esse certamente non riproducono stampati. Cass. pen., sez. V, 16 luglio 2010, n. 35511 SENTENZA PER ESTESO

FATTO E DIRITTO

La Corte di appello di Milano, con sentenza 25.9.2009, in riforma della pronunzia di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione a carico di B.C., imputato del reato di cui all'art. 57 c.p.; ha confermato le statuizioni civili in favore delle costituite parti civili, C. R. e M.G.. B. era direttore del periodico telematico Merateonline, sul quale risultava pubblicata una lettera ritenuta diffamatoria nei confronti del ministro della Giustizia ( C.) e del suo "consulente per l'edilizia penitenziaria" ( M.). Ricorre per cassazione il difensore dell'imputato e deduce: 1) difetto di motivazione, sua contraddittorietà e illogicità in ordine alla esistenza della prova della sussistenza del fatto. Nel corso del dibattimento, l'imputato sostenne e dimostrò come fosse possibile e facile ottenere una pagina "a stampa" di un giornale telematico, non corrispondente all'originale. Egli ebbe a dichiarare, che, informato della querela proposta dal C. e dal M., eseguì un controllo nell'archivio informatico del giornale, non rinvenendo la lettera in questione. Detta lettera dunque non esiste nell'originale del documento informatico ed è stata evidentemente "prodotta", con il sistema c.d. "taglia e incolla" da ignoto autore. Sarebbe stato facile per gli inquirenti verificare l'autenticità della lettera (scil. il suo effettivo inserimento nel "numero" del quotidiano on line cui apparentemente si riferisce), disponendo, innanzitutto, il sequestro del "sito", e quindi incaricando una persona esperta di accertare se esso conteneva la missiva in questione e incaricando quindi un PU o un notaio di certificare l'esito dell'accertamento. E' talmente semplice creare e stampare ex novo una pagina mai diffusa in rete, che tale mezzo di prova (la pagina stampata, asseritamene "estratta" dal web) non può ritenersi ammissibile, perché il documento è di incerta paternità. In tal senso d'altra parte si sono orientate le sezioni civili della S.C. (Cass sez. lav. 16.2.2004 n. 2912). Fatta tale premessa, l'imputato ebbe ad affermare che, se effettivamente le lettera de qua fosse stata ospitata sul suo giornale telematico, egli altro non avrebbe potuto fare che presentare le sue scuse alle parti civili. Ebbene, la Corte milanese, equivocando sul senso delle parole, ha ritenuto che tale affermazione, meramente congetturale, fosse una ammissione di responsabilità. 2) violazione di legge, erronea applicazione dell'art. 57 c.p. e carenze dell'apparato motivazionale. Il dettato dell'art. 57 c.p. non è applicabile al c.d. giornale telematico. La lettera della legge e la sua ratio fanno riferimento al concetto di "stampa", concetto nel quale non può essere ricompresa l'informazione on line. Né può pensarsi a una interpretazione analogica, trattandosi, evidentemente di analogia in malam partem. Sul punto, dottrina e giurisprudenza sono concordi. D'altra parte, il solo fatto che siano state presentate più proposte di legge per estendere la portata dell'art. 57 c.p. anche al direttore di un giornale telematico, rappresenta ulteriore riprova del fatto che, allo stato, al predetto direttore non è attribuita alcuna posizione di garanzia. Ciò a voler poi trascurare che il delitto ex art. 57 c.p. è fattispecie colposa e dunque andrebbe individuato un qualche profilo di colpa da attribuire al B.; altrimenti ci si troverebbe nell'ambito della responsabilità oggettiva, ritenuta ormai costituzionalmente incompatibile. Tanto premesso, osserva il Collegio che la censura sub 2) deve necessariamente essere esaminata per prima in quanto con essa si nega in radice che la condotta in ipotesi addebitata al B. sia riconduci bile a una fattispecie

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astratta di reato; quella appunto ex art. 57 c.p.. La censura è fondata. L'art. 57 c.p. punisce, come è noto, il direttore del giornale che colposamente non impedisca che, tramite la pubblicazione sul predetto mezzo di informazione, siano commessi reati. Il codice, per altro, tra i mezzi di informazione, distingue la stampa rispetto a tutti gli altri mezzi di pubblicità (art. 595 c.p., comma 3) e l'art. 57 si riferisce specificamente alla informazione diffusa tramite la "carta stampata". La lettera della legge è inequivoca e a tale conclusione porta anche l'interpretazione "storica" della norma. In dottrina e in giurisprudenza si è comunque discusso circa la estensibilità del concetto di stampa, appunto agli altri mezzi di comunicazione. E così una risalente pronunzia (ASN 198900259-RV 180713) ha escluso che fosse assimilabile al concetto di stampato la videocassetta preregistrata, in quanto essa viene riprodotta con mezzi diversi da quelli meccanici e fisico-chimici richiamati dal la L. n. 47 del 1948, art. 1. D'altra parte, è noto che la giurisprudenza ha concordemente negato (ad eccezione della sentenza n. 12960 della Sez. feriale, p.u. 31.8.2000, dep. 12.12.2000, ric. Cavallina, non massimata) che al direttore della testata televisiva sia applicabile la normativa di cui all'art. 57 c.p. (cfr, ad es. ASN 200834717 - RV 240687; ASN 199601291 - RV 205281), stante la diversità strutturale tra i due differenti mezzi di comunicazione (la stampa, da un lato, la radiotelevisione dall'altro) e la vigenza nel diritto penale del principio di tassatività. Analogo discorso, a parere di questo Collegio, deve esser fatto per quel che riguarda la assimilabilità di internet (rectius del suo "prodotto") al concetto di stampato. L'orientamento prevalente in dottrina è stato negativo, atteso che, perché possa parlarsi di stampa in senso giuridico (appunto ai sensi della ricordata L. n. 47 del 1948, art. 1), occorrono due condizioni che certamente il nuovo medium non realizza: a) che vi sia una riproduzione tipografica (prius), b) che il prodotto di tale attività (quella tipografica) sia destinato alla pubblicazione e quindi debba essere effettivamente distribuito tra il pubblico (posterius). Il fatto che il messaggio internet (e dunque anche la pagina del giornale telematico) si possa stampare non appare circostanza determinante, in ragione della mera eventualità, sia oggettiva, che soggettiva. Sotto il primo aspetto, si osserva che non tutti i messaggi trasmessi via internet sono "stampabili": si pensi ai video, magari corredati di audio; sotto il secondo, basta riflettere sulla circostanza che, in realtà, è il destinatario colui che, selettivamente ed eventualmente, decide di riprodurre a stampa la "schermata". E se è, pur vero che la "stampa" - normativamente intesa - ha certamente a oggetto, come si è premesso, messaggi destinati alla pubblicazione, è altrettanto vero che deve trattarsi - e anche questo si è anticipato - di comunicazioni che abbiano veste di riproduzione tipografica. Se pur, dunque, le comunicazioni telematiche sono, a volte, stampabili, esse certamente non riproducono stampati (é in realtà la stampa che - eventualmente - riproduce la comunicazione, ma non la incorpora, così come una registrazione "domestica" di un film trasmesso dalla TV, riproduce - ad uso del fruitore - un messaggio, quello cinematografico appunto, già diretto "al pubblico" e del quale, attraverso la duplicazione, in qualche modo il fruitore stesso si appropria, oggettivizzandolo). Bisogna pertanto riconoscere la assoluta eterogeneità della telematica rispetto agli altri media, sinora conosciuti e, per quel che qui interessa, rispetto alla stampa. D'altronde, non si può non sottolineare che differenti sono le modalità tecniche di trasmissione del messaggio a seconda del mezzo utilizzato: consegna materiale dello stampato e sua lettura da parte del destinatario, in un caso (stampa), irradiazione nell'etere e percezione da parte di chi si sintonizza, nell'altro (radio e TV), infine, trasmissione telematica tramite un ISP (internet server provider), con utilizzo di rete telefonica nel caso di internet. Ad abundantiam si può ricordare che il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, art. 14 chiarisce che non sono responsabili dei reati commessi in rete gli access provider, i service provider e - a fortiori - gli hosting provider (cfr. in proposito ASN 200806046 - RV 242960), a meno che non fossero al corrente del contenuto criminoso del messaggio diramato (ma, in tal caso, come è ovvio, essi devono rispondere a titolo di concorso nel reato doloso e non certo ex art. 57 c.p.). Qualsiasi tipo di coinvolgimento poi va escluso (tranne, ovviamente, anche in questo caso, per l'ipotesi di concorso) per i coordinatori dei blog e dei forum. Non diversa è la figura del direttore del giornale diffuso sul web. Peraltro, anche nel caso oggi in esame, sarebbe, invero, ipotizzarle, in astratto, la responsabilità del direttore del giornale telematico, se fosse stato d'accordo con l'autore della lettera (lo stesso discorso varrebbe per un articolo giornalistico). A maggior ragione, poi, se lo scritto fosse risultato anonimo. Ma - è del tutto evidente - in tal caso il direttore avrebbe dovuto rispondere del delitto di diffamazione (eventualmente in concorso) e non certo di quello di omesso controllo ex art. 57 c.p., che come premesso, non è realizzabile da chi non sia direttore di un giornale cartaceo. Al B., tuttavia, è stato contestato il delitto colposo ex art. 57 c.p. e non quello doloso ex art. 595 c.p.. Sul piano pratico, poi, non va trascurato che la c.d. interattività (la possibilità di interferire sui testi che si leggono e si utilizzano) renderebbe, probabilmente, vano - o comunque estremamente gravoso - il compito di controllo del direttore di un giornale on line. Dunque, accanto all'argomento di tipo sistematico (non assimilabilità normativamente determinata del

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giornale telematico a quello stampato e inapplicabilità nel settore penale del procedimento analogico in malam partem), andrebbe considerata anche la problematica esigibilità della ipotetica condotta di controllo del direttore (con quel che potrebbe significare sul piano della effettiva individuazione di profili di colpa). Da ultimo, va considerata anche la implicita voluntas legis, atteso che, da un lato, risultano pendenti diverse ipotesi di estensione della responsabilità ex art. 57 c.p. al direttore del giornale telematico (il che costituisce ulteriore riprova che - ad oggi - tale responsabilità non esiste), dall'altro, va pur rilevato che il legislatore, come ricordato dal ricorrente, è effettivamente intervenuto, negli ultimi anni, sulla materia senza minimamente innovare sul punto. Invero, né con la L. 7 marzo 2001, n. 62, né con il già menzionato D.Lgs. del 2003, è stata effettuata la estensione della operatività dell'art. 57 c.p. dalla carta stampata ai giornali telematici, essendosi limitato il testo del 2001 a introdurre la registrazione dei giornali on line (che dunque devono necessariamente avere al vertice un direttore) solo per ragioni amministrative e, in ultima analisi, perché possano essere richieste le provvidenze previste per l'editoria (come ha chiarito il successivo D.Lgs.). Allo stato, dunque, "il sistema" non prevede la punibilità ai sensi dell'art. 57 c.p. (o di un analogo meccanismo incriminatorio) del direttore di un giornale on line. Rimanendo pertanto assorbita la censura sub 1), deve concludersi che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

P.Q.M. La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Così deciso in Roma, il 16 luglio 2010. Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2010

9. Favoreggiamento personale MASSIMA Anche la stabile convivenza "more uxorio" può dar luogo per analogia al riconoscimento della scriminante prevista dall'art. 384 c.p. (Fattispecie relativa ad imputata la quale invocava la non punibilità per il favoreggiamento personale commesso per aiutare il convivente). Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2004, n. 22398 SENTENZA PER ESTESO

IN FATTO E DIRITTO

Con sentenza del 12 marzo 2001 n. 2333 il Tribunale di Napoli dichiarava M. E. colpevole del reato ascrittole - perché, dopo che L. F. aveva commesso il delitto di calunnia per il quale era stato colpito da ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP del Tribunale di Napoli il 7 agosto 1997, lo aiutava a sottrarsi alle ricerche dell'Autorità ospitandolo nella propria abitazione - e la condannava con le attenuantì generiche, alla pena di sei mesi di reclusione. Contro tale decisione proponeva appello il difensore dell'imputato, chiedendone l'assoluzione ai sensi dell'art. 530, 1° o 2° o 3° comma, c.p.p.; in subordine, la riduzione della pena inflitta dal primo Giudice. A seguito del giudizio la Corte d'appello di Napoli con sentenza n. 5099 del 1° luglio 2002 confermava la decisione di primo grado. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi: • contraddizioni e incongruenze logiche perché da un lato la Corte si serve degl'innumerevoli riscontri estrinseci per fondare l'assunto secondo il quale la E. non poteva non sapere che il F. (suo convivente) fosse ricercato per il reato di calunnia; dall'altro invece nega che possa ritenersi provata la convivenza ai fini dell'applicazione dell'esimente di cui all'art. 384 c. 1 c.p.. L'impugnazione è infondata. La motivazione della sentenza impugnata si basa sulla considerazione che la convivenza tra il F. e la E. non fosse una convivenza more uxorio, instaurata prima e indipendentemente dal reato di calunnia per il quale il F. era ricercato, ma che la E. abbia dato ospitalità al F. in casa sua, dando luogo a un rapporto di convivenza occasionale, finalizzato al favoreggiamento dell'imputato. I Giudici di merito hanno trovato riscontro nel fatto che il F. aveva la propria residenza nei Quartieri Spagnoli, in una parte della città notevolmente distante dalla dimora dell'imputata. Secondo la ricostruzione dei fatti eseguita in primo e secondo grado esisteva, quindi, il presupposto per ritenere commesso il reato di favoreggiamento. Non vi era prova, invece, della convivenza stabile tra i due, more uxorio, che avrebbe potuto dar luogo per analogia al riconoscimento della scriminante dell'art. 384 c.p.. La valutazione appare in tal senso univoca e insuscettibile di determinare la presunta contraddittorietà della motivazione allegata dalla ricorrente.

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Il vizio denunciato pertanto non sussiste. P.Q.M.

La Corte Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 22 gennaio 2004. Depositata in cancelleria l'11 mag. 2004