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Dipartimento di Scienze della Formazione Università di Roma Tre Anno accademico 2017/2018 Corso di laurea in “Formazione e sviluppo delle risorse umane” Insegnamento Politica economica e gestione delle risorse umane Docente Prof. Aldo Gandiglio Seconda parte LEZIONE 4 ECONOMIA DELLISTRUZIONE E CAPITALE UMANO OVEREDUCATION, MISMATCH E SKILL-BIAS

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Dipartimento di Scienze della Formazione Università di Roma Tre

Anno accademico 2017/2018

Corso di laurea in “Formazione e sviluppo delle risorse umane”

Insegnamento Politica economica e gestione delle risorse umane

Docente

Prof. Aldo Gandiglio

Seconda parte

LEZIONE 4

ECONOMIA DELL’ISTRUZIONE E CAPITALE UMANO OVEREDUCATION, MISMATCH E SKILL-BIAS

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Capitale umano – approcci teorici (cenni) Che cosa è il capitale umano? In termini generali potremmo definirlo come il patrimonio di abilità, capacità tecniche e conoscenze di cui sono dotati gli individui; vi sono incluse la forza fisica, la resistenza alla fatica, l’abilità manuale, la capacità di comunicare. L’importanza di queste doti nel determinare la quantità di prodotto ottenibile, per esempio, in un’ora di lavoro non è fissa nel tempo e nello spazio, ma è storicamente determinata, in primo luogo dal paradigma tecnologico prevalente. In agricoltura, nella fabbrica fordista o nel settore delle costruzioni la forza fisica e la resistenza alla fatica sono forse le doti più importanti nel determinare la produttività del lavoro; queste stesse caratteristiche sono meno vitali nelle parti del mondo ove prevalgono le economie avanzate e terziarizzate.1 Questa definizione è tratta dal lavoro di Cipollone P., Visco I., Il merito nella società della conoscenza, Il Mulino, n. 1/2007, pp. 21-34, riportato nell’ Allegato n. 1 lezione n. 4, cui si rimanda per un approfondimento (LEGGERE) Alcuni precedenti storici Per molto tempo gli studiosi che si sono avvicinati ad analizzare i fenomeni economici hanno trascurato una variabile fondamentale per la crescita e lo sviluppo di ogni paese quale il capitale umano. Verso la fine del ‘600 viene osservato come la crescita demografica costituisca uno dei fattori per l’aumento del benessere della popolazione, in quanto la singola persona è un fattore produttivo di ricchezza; nella seconda metà del Settecento, filosofi/economisti italiani (l’abate Galiani, 1 Cipollone P., Visco I. Il merito nella società della conoscenza, “il Mulino, n. 1/2007, pp. 21-34

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Genovesi) individuano nell’educazione delle persone la modalità più efficace per raggiungere la pubblica felicità. Ma è con Adam Smith e la scuola classica inglese (a cavallo del 1800) che si mettono in luce l’importanza dell’istruzione e della formazione: la prima ha il compito di trasmettere nozioni e insegnamenti elementari nella prospettiva dell’introduzione nel mondo produttivo, mentre la seconda deve essere finalizzata alla specializzazione settoriale, per massimizzare i benefici derivanti dalla divisione del lavoro. Di più ancora, Smith approfondisce le cause che possono dar origine ai differenziali salariali, individuandole nelle difficoltà per imparare un mestiere, nei livelli di responsabilità raggiunti nell’esercizio di una professione, sino alla compensazione dei costi sostenuti per acquisire una qualificazione finalizzata all’esercizio di professioni. Alla base di tali argomentazioni pone l’assimilazione dell’investimento nella formazione a quello delle macchine per la produzione: “Quando viene montata una macchina costosa, ci si deve aspettare che il lavoro straordinario che essa eseguirà prima che sia logora, rimpiazzi il capitale in essa investito con almeno i profitti ordinari. Un uomo istruito a costo di molto lavoro e tempo in una qualsiasi di quelle occupazioni che richiedono straordinaria destrezza e abilità può essere paragonato a una di queste macchine costose. Ci si deve aspettare che il lavoro ch’egli impara ad eseguire, oltre ai salari usuali del lavoro ordinario, lo ripaghi dell’intero costo della sua istruzione almeno al profitto ordinario d’un capitale di uguale valore. E questo deve avvenire in un tempo ragionevole, tenuto conto della durata assai incerta della vita umana, alla stessa stregua che si tiene conto della durata più certa della macchina”2. Infine, la scuola neoclassica inglese (1870-1890) considera la cultura uno strumento per promuovere il protagonismo dei cittadini, la stabilità sociale, l’aumento della ricchezza e la mobilità nel mercato del lavoro. 2 Smith A. (1987), La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino, p. 198.

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Ma è con Schultz nel 1960 che, attraverso alcune stime statistiche, si inizia esplicitamente ad affermare che il capitale umano è un fattore della crescita economica americana. A seguire, la prima vera indagine sulla rilevanza del capitale umana è di Denison (intorno alla meta degli anni ’70) che, attraverso la strutturazione di una funzione di produzione3, che ha come input il capitale e il lavoro (espresso con gli anni di istruzione della forza lavoro), stima un contributo dell’istruzione alla crescita del prodotto di un valore pari al 15% -25%; inoltre, con l’aumento della scolarizzazione verifica che il contributo è aumentato nel tempo. Denison dimostra tale positiva relazione attraverso l’analisi del PIL degli Stati Uniti tra il 1929 e il 1957, dove rileva un “residuo” non imputabile ai parametri tradizionali, e che tale parte di reddito nazionale sia attribuibile all’aumento del livello dell’istruzione nella popolazione. In aggiunta l’economista precisa: «Più istruzione dovrebbe contribuire alla crescita in due modi diversi. Primo, dovrebbe aumentare la qualità della forza lavoro […] ciò dovrebbe generare un incremento della produttività lavorativa […] Secondo, un maggiore livello culturale della popolazione dovrebbe accelerare il tasso di accumulazione dello stock di conoscenza nella società». Ancora, sul finire del secolo passato, altri economisti come Mankiw, Romer e Weil hanno ancora affinato il modello di Solow, includendovi esplicitamente il capitale umano (misurato dei tassi di iscrizione alla scuola secondaria) e riuscendo a spiegare una quota di circa 2/3 della variabilità dei tassi di crescita fra le diverse economie nazionali messe a confronto. 3 E’ una applicazione del c.d. modello di Solow, modello classico nella teoria della crescita economica. Con tale modello, parte della crescita non trova spiegazioni nella tradizionale quota di capitale fisico, ed appare imputabile a fattori contenuti in una sorta di “scatola nera”. Il capitale umano avrebbe così tutte le caratteristiche per essere assimilato al capitale fisico da un punto di vista economico.

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Il tema dell’accumulazione dell’istruzione nelle risorse umane viene visto come un investimento vero e proprio. Il capitale umano si forma progressivamente nel tempo mediante il sostenimento di costi reali e figurati (costi-opportunità), come un investimento a ritorni differiti Il capitale umano si differenzia dagli altri stock di risorse unicamente per la sua incorporazione strutturale nell’individuo. Ne deriva la valutazione dell’essere umano in termini di costi/benefici, danni/vantaggi, perdite/guadagni. Per l’istruzione, si considerano il pagamento delle tasse scolastiche, l’impiego di anni di studio, il dispendio di energie e la mancata percezione di redditi. Lo strumento del tasso di rendimento attualizzato sembra essere il più adeguato per individuare l’economicità delle scelte alternative. Questo approccio microeconomico ha avuto una formalizzazione nella celebre opera di Becker intitolata “Human Capital: A Theoretical and Empirical Analysis, with Special Reference to Education”, (1964 e sviluppi successivi). Lo schema di analisi riprende il pionieristico lavoro di Mincer del 1958, in cui si dimostra che la differenza tra retribuzioni diverse, sotto la condizione di pari abilità dei lavoratori, dipende dal numero di anni di istruzione. Queste indicazioni relative ai differenziali retributivi si fondano su analisi che spiegano come il capitale umano accresca il prodotto pro-capite sia direttamente, sia attraverso miglioramenti organizzativi, gestionali e un più alto tasso di innovazione tali da innalzare il trend di crescita della produttività del complesso dei fattori utilizzati nella produzione. Le implicazioni di tale aumento della produttività sono quindi di due tipi: - macroeconomiche, il sistema cresce di più grazie al contributo positivo dell’istruzione, - microeconomiche, in quanto il lavoratore riesce ad ottenere un reddito maggiore.

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E da ricordare come la teoria del capitale umano (almeno nelle formulazioni più neoliberiste) abbia ricevuto, e riceva, forti critiche. Riporto alcune frasi di Luciano Gallino4, che ne sintetizzano gli aspetti più critici. “…il neoliberismo propone altresì una teoria dell’occupazione, della distribuzione del reddito e della persona di fronte al lavoro. In conformità a detta teoria, il mercato stabilisce automaticamente quale sia il tasso di occupazione più consono al benessere generale. A sua volta la distribuzione del reddito viene determinata esclusivamente dalla remunerazione dei fattori di produzione…Infine, il disoccupato è definibile come un individuo cui capita di non possedere la formazione professionale più adatta, oppure uno che non accetta il lavoro disponibile o il salario che lo accompagna, o semplicemente non desidera lavorare…Il neoliberismo contiene anche una esauriente teoria dell’istruzione. Il fine ultimo e unico di questa in ogni suo grado e comparto…risiede nel conferire all’individuo competenze professionali tali da renderlo produttivamente occupabile.” Inoltre, si ricorda ancora quanto riportato nelle precedenti lezioni (quando si è approfondito il concetto e contenuti del PIL) nel determinare il capovolgimento di angolo visuale legato al concetto di “eguaglianza di capacità” proposto da Sen, dove le “capacità (capabilities) rappresentano ciò che un individuo riesce a fare o essere nel corso della propria vita”. Amartya Sen ricomprende, ampliandolo, il concetto di capitale umano nella sua analisi delle capabilities, affermando che5: “se l’istruzione rende un individuo più efficiente come produttore di merci, questa è, chiaramente una crescita del capitale umano. Ciò può far aumentare il valore economico della produzione della persona che è stata istruita, e quindi anche il suo reddito. Ma 4 Gallino L. (2011), Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, pagg. 28-29. 5 Sen A. (2000), Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondatori Editore, Milano (pag. 293).

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l’essere istruiti può dare dei benefici anche a reddito invariato – nel leggere, nel comunicare, nel discutere – in quanto si è in grado di scegliere con maggiori cognizioni di causa, in quanto si è più presi sul serio dagli altri e così via; dunque i benefici vanno al di là del ruolo di capitale umano nella produzione di merci. Ora, il più generale dei due approcci, quello basato sulle capabilities, tiene conto anche di questi ruoli addizionali e sa dar loro il giusto valore; dunque i due punti di vista sono strettamente legati ma diversi”.

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I RENDIMENTI NELL’ISTRUZIONE E NELLA FORMAZIONE In numerosi studi condotti a livello internazionale si stima che un anno di istruzione in più per la media dei lavoratori comporti un aumento del prodotto pro capite del 5%. Ma un elevato stock di capitale umano permette altresì l’adozione di metodi di produzione più efficienti, favorendo la crescita più rapida del prodotto pro-capite. Per la media dei paesi dell’OCSE si stima che questo effetto comporti un aumento del tasso di crescita pari a circa mezzo punto percentuale all’anno, ma l’intensità si attenua via via che si riduce il ritardo tecnologico. Per misurare l’intensità degli incentivi individuali a investire in capitale umano, gli economisti usano in genere un parametro che, pur approssimativo, indica in quale misura un anno in più di istruzione accresca i benefici netti individuali; questi derivano dai maggiori redditi da lavoro e dalla più alta probabilità di essere occupati tenendo conto naturalmente dei maggiori costi che occorre sostenere per acquisire l’anno in più di istruzione. Nella maggioranza dei paesi dell’OCSE le persone con un titolo di istruzione equivalente alla laurea specialistica guadagnano almeno il 50% in più di quelle che hanno ottenuto il diploma di scuola secondaria. I differenziali retributivi tra questi ultimi diplomati e quelli della scuola media, meno accentuati, sono comunque compresi tra il 15% e il 30%. Negli ultimi vent’anni queste differenze si sono ampliate in quasi tutti i paesi dell’OCSE, sebbene in modo asincrono e con intensità diverse. Questo fenomeno è riconducibile, in parte, a una maggiore valorizzazione del lavoro più qualificato a seguito della diffusione di innovazioni tecnologiche che aumentano la domanda di capitale umano. L’altra causa è stata individuata nel forte aumento

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dell’offerta di lavoro a basso livello di istruzione, attraverso la crescente partecipazione al commercio mondiale dei paesi meno sviluppati. In Italia i differenziali retributivi per livelli di istruzione sono prossimi a quelli medi dei paesi dell’OCSE per quanto riguarda il rapporto tra diplomati di scuola secondaria e di scuola media, ma generalmente inferiori a quelli degli altri principali paesi nel confronto tra laureati e diplomati di scuola secondaria. (con valori medi del 43% per l’Italia contro 60% della media OCSE6. Tuttavia, l’Italia si distingue anche rispetto ai Paesi che registrano quote altrettanto piccole di laureati, a contraddire – in qualche modo – la relazione tra prezzo e domanda/offerta di beni. Nel nostro caso: ad un minore numero di laureati dovrebbe corrispondere una maggiore retribuzione. Nel 2016, in Italia, solo il 18% degli adulti (25- 64enni) era titolare di una laurea, il 4% con una laurea di primo livello e il 14% con una laurea magistrale (secondo livello) o un livello equivalente, percentuale simile a quelle del Brasile, del Messico e della Turchia. Tuttavia, in questi tre Paesi la differenza tra i redditi dei laureati e quelli degli adulti che hanno conseguito solo un diploma della scuola secondaria superiore come livello massimo d’istruzione, è più alta rispetto alla media dell’OCSE, mentre in Italia i redditi rispettivi sono inferiori. Nel confronto con gran parte dei paesi europei, con percentuali di laureati di gran lunga più elevati (35-40%) corrispondono differenziali tra laureati e diplomati non molto lontani da quelli italiani (a volte anche minori, come in Svezia o Danimarca, o di poco superiori, come Austria e Francia); ma in quasi tutti questi paesi la vera differenza è nel livello retributivo sempre più elevato di quello italiano (per tutti titoli di studio) più che nel differenziale.

6 OECD, Education at a Glance 2017 (Summary in Italian), Paris, September, 2017

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Ma come si potrà rilevare dalle tavole successive al grafico, nella situazione italiana, oltre al differenziale salariale, le dinamiche successive ai primi anni di ingresso nel lavoro premiamo decisamente i possessori dei titoli di studio più elevati.

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I rendimenti del titolo di studio più elevato (nel nostro caso, la laurea nel confronto del diploma) sono legati anche ai tempi di ingresso nel mercato del lavoro, e quindi a quanto il titolo di studio favorisca l’occupabilità. In Italia, già a pochi anni dalla laurea il tasso di occupazione (62%) è pari a quello dei diplomati, per poi distanziarsi con il passare degli anni, anche in considerazione del fatto che 30-35 anni fa (ciò vale per i 55enni e 64enni) la laurea aveva sicuramente una maggiore “spendibilità” sul mercato del lavoro. Tuttavia, nella tabella che segue, sempre ricavata dalla pubblicazione OECD richiamata, appare evidente lo svantaggio della situazione italiana a riguardo dei tassi di occupazione per laureati e diplomati, in modo particolare per le leve dei laureati più giovani.

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Nelle tabelle precedenti sono state offerte informazioni su tali differenziali di reddito, ma è da rilevare che nel generale arretramento, dovuto all’attuale crisi economica, del valore del salario netto mensile, passato da 1.318 euro del 2008 a 1.264 euro nel 2012 (euro a prezzi del 2012), non si sono salvate le retribuzioni dei lavoratori in possesso dei più elevati titoli di studio (vedi figura successiva). In generale, le dinamiche salariali complessive sono state influenzate, da un lato, dall’ampliamento del divario domanda/offerta di lavoro (con freno della dinamica salariale) e, dall’altro, dai mutamenti della composizione della forza lavoro con una minore incidenza delle figure professionali a più bassa remunerazione (con possibile aumento della media salariale).

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Tale fenomeno ha interessano con specifiche modalità i giovani con più elevato titolo di studio; per quelli in possesso di diploma e, ancor più, con la laurea. Le cause possono essere ascrivibili al deterioramento della qualità del lavoro: tra i giovani laureati, la quota di occupati in mansioni a bassa o nessuna qualifica è in continua crescita, raggiungendo il 25,3% del totale, con più intensi aumenti nel Mezzogiorno, mentre minore è risultato il fenomeno per i giovani in possesso del diploma, che tocca solo il 15% del totale dei giovani diplomati. Tale fenomeno è definito overeducation e viene identificato sulla base della classificazione internazionale delle professioni. LE ESTERNALITÀ PRODUTTIVE Si è detto cpme la teoria e l’analisi economica individuino l’istruzione come elemento in grado di generare esternalità positive accrescendo la produttività totale dei fattori della produzione. Le fonti di esternalità sulla produzione sono molteplici: esiste un effetto del capitale umano indotto dal fatto che la conoscenza aumenta la possibilità di sviluppare o adottare nuove tecnologie i cui benefici non sono direttamente goduti dall’individuo; esistono effetti di diffusione della conoscenza tra individui

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perché le persone imparano anche sul posto di lavoro, amplificando la capacità del singolo di adattarsi al mutare del contesto lavorativo. Inoltre, l’istruzione accresce i benefici netti individuali, che derivano dai maggiori redditi da lavoro e dalla più alta probabilità di essere occupati tenendo conto naturalmente dei maggiori costi che occorre sostenere per acquisire i più elevati livelli di istruzione. Ma vi sono altri canali attraverso cui il capitale umano influenza il benessere individuale e collettivo. La letteratura empirica ne ha individuati almeno altri quattro. a) Il campo più studiato è quello dei cosiddetti peer effects nella scuola, cioè la circostanza per cui gli studenti sono influenzati dai rendimenti scolastici dei propri compagni di scuola. b) Il secondo campo di indagine è quello del rapporto tra istruzione e probabilità di delinquere; l’istruzione riduce gli incentivi a delinquere aumentandone il costo opportunità sia innalzando il rendimento relativo delle attività legali sia aumentando il costo dei periodi di detenzione. c) Il terzo riguarda il legame tra livelli di istruzione e salute ed è basato sulla constatazione che il valore della prevenzione è maggiore per le persone più istruite per le quali il costo monetario della malattia è più elevato. d) Il quarto aspetto è in qualche misura più astratto e attiene al legame tra livello di istruzione e grado di liberta politica.

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Overeducation7, mismatch, skill-bias Tra i laureati, si considerano overeducated gli occupati nelle professioni a bassa o nessuna qualifica, mentre tra i diplomati è definito overeducated un lavoratore che è impiegato in professioni prive di qualifica. Inoltre, al problema dell’overeducation tra i laureati si cumula sovente un altro fenomeno, che si riscontra con un indicatore di mismatch. Una analoga procedura, come quella già seguita per l’overeducation, definita da Eurostat, identifica i lavoratori mismatched sulla base di una classificazione delle lauree cui si associano i codici delle professioni considerate good match; in tal caso i corrispondenti lavori rientrano nell’ambito tematico del percorso di studi seguito e, al contrario, gli occupati di ciascuna classe di laurea che lavorano al di fuori di queste professioni sono considerati mismatched. Con riferimento al mismatch, in Italia, nel triennio 2009-2011, il 32,3 per cento dei giovani occupati in possesso di una laurea svolgeva mansioni che non riflettevano l’ambito tematico del corso di studi di provenienza. Queste informazioni sono tratte da uno studio della Banca d’Italia8, che ha effettuato interessanti approfondimenti sull’occupazione dei giovani, di cui si danno di seguito alcune informazione di sintesi. 7 Si ricorda che esiste anche il fenomeno opposto “undereducation”, cioè presenza di un livello di istruzione inferiore a quello richiesto 8 Banca d’Italia, L’occupazione dei giovani in Italia, in L’economia delle regioni italiane, “Economie regionali”, n. 2, novembre 2012.

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I valori più elevati dei tassi di overeducation e di mismatch hanno un riflesso negativo anche nei livelli stipendiali, come è confermato anche dalla più recente indagine ISTAT. Vedi Lezione 4 –allegato 2 - 2016 09 29- ISTAT – I percorsi di studio e lavoro dei diplomati e laureati – (prospetto 7, pag. 13)

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Una ricerca del Cedefop ha evidenziato possibili effetti negativi nel medio periodo (scarring effects) associati al mismatch. In particolare, la overeducation nel primo impiego potrebbe mandare segnali negativi sulla produttività del lavoratore ai futuri datori di lavoro, rendendo difficile ai giovani ottenere miglioramenti occupazionali per il futuro lavoro. Inoltre, un periodo prolungato di lavoro non corrispondente al livello di qualifica posseduto (o alle competenze acquisite con la formazione) potrebbe portare all’obsolescenza delle stesse competenze. Passando ad analizzare l’incidenza dell’overeducation per diplomati e per laureati riferita a tutte le età, la quota appare più contenuta di quella ristretta alla sola età giovanile, ad indicare un peggioramento del fenomeno negli ultimi anni. Il confronto con i principali paesi europei segna, sempre in riferimento a tutte le età, valori minori per l’Italia (vedi tabella seguente).9 Le quote di overeducation per i diplomati di scuola secondaria superiore e per i laureati sono rispettivamente pari al 28,2% e 16,9% per l’Italia e 39,6% e 21,2% nella media dell’UE.

9 Cascioli R,, Il fenomeno della sovraistruzione in Italia. Spunti di riflessione; Paper for the Espanet Conference, Roma, 20-22 settembre 2012.

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Un ulteriore, interessante approfondimento risulta dall’indagine sulla consapevolezza da parte dei lavoratori relativa alla qualificazione/istruzione necessarie a svolgere il lavoro. Tali prime valutazioni permettono di spostare il baricentro dell’analisi dai percorsi formativi ai processi produttivi e alle prospettive economiche. L’indagine evidenza come l'incidenza di qualificazione non corrispondente al lavoro svolto (o richiesto), sia nel caso di over-qualification, sia di under-qualification varii in modo significativo tra i paesi, ma come ancora una volta l’Italia si distingua per trovarsi in situazioni marginali: la quota di persone che si ritiene dotata di una qualificazione superiore a quella richiesta è la più bassa, pari al 15%, in Italia e all’opposto con punte superiori al 30% in Gran Bretagna e Giappone; al contrario, in Italia si riscontra una incidenza più elevata (22%) di persone che hanno un livello di istruzione/qualificazione ritenuto inferiore a quello richiesto dal proprio lavoro, mentre meno del 10% si rileva nella Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca, Giappone, Polonia e Spagna.

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Incidenza di over-qualification e di under-qualification

Incidence of over-qualification Incidence of under-qualification Percentage of workers whose highest qualification is higher than the qualification they deem necessary to get their job today

Percentage of workers whose highest qualification is lower than the qualification they deem necessary to get their job today

Fonte: OECD, Skills Outlook 2013: First Results from the Survey of Adult Skills

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Le variabili che determinano l’incidenza più bassa dell’overeducation in Italia appaiono ascrivibili alla struttura produttiva, con conseguente articolazione di tipologie professionali tradizionali, che richiedono titolo di studio meno elevati, e contemporaneamente, ai livelli di istruzione relativamente più spostati verso i titoli di studio meno elevati. Il confronto con i paesi più avanzati dell’Unione Europea evidenza nel nostro paese una minore incidenza dei knowledge workers sul totale dei lavoratori dipendenti, a causa dalla prevalenza di piccole imprese, tradizionalmente meno disponibili ad investire in formazione, e con una minore propensione del nostro sistema produttivo ad assorbire le competenze maturate nei percorsi di studio più elevati. L’overeducation risulta così relativamente più contenuta a causa, principalmente, dei più bassi livelli di istruzione degli occupati italiani; al contrario, negli anni più recenti, il riferimento alle leve giovanili più scolarizzate fa segnare un aumento del fenomeno in quanto trovano occupazione in attività poco coerenti col percorso di studi seguito a causa della debole dinamica delle attività ad “alto contenuto di conoscenza”. Per i giovani può verificarsi il cosiddetto “effetto coorte”, dovuto all’affacciarsi sul mercato del lavoro di un elevato numero di persone altamente qualificate che determina un eccesso di offerta di lavoro qualificato, ed in tal caso il mercato assorbe queste persone in posti di lavoro che richiedono minori skill. Queste situazioni potrebbero avere caratteristiche transitorie, in presenza di mobilità nel mercato del lavoro, tale da permettere alle persone coinvolte in attività sottoqualificate di cambiare agevolmente lavoro e di ottenerne un altro più coerente con il percorso di studio. Al contrario, tale fenomeno può acquistare una valenza strutturale laddove il sistema economico sia caratterizzato da un alto livello di disoccupazione, con minori possibilità di scelta anche per i lavoratori altamente qualificati, cui si offrono poche scelte se non accettare lavori sottoqualificati, e poco retribuiti.

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Si ricorda che un approfondimento della situazione attuale dei fenomeni di overeducation e skill mismatch in Italia è riportato in ISTAT RAPPORTO ANNUALE 2014 al capitolo 3.3 L’adeguatezza delle competenze nel mercato del lavoro, pagg. 117-222.

Come richiamato nella precedente Lezione n. 3, nel cap.2 del Rapporto annuale 2018 dell’ISTAT, un paragrafo tratta de I canali di accesso al lavoro dei giovani laureati e, da ultimo, L’ingresso nel mondo del lavoro e il rischio di “sovraistruzione” (da leggere).

https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2018/capitolo2.pdf

Come riportato nel Rapporto: “…La misurazione del fenomeno della sovraistruzione attraverso un’autovalutazione, risente delle aspettative, più o meno elevate, del soggetto rispondente riguardo la posizione lavorativa che con la sua formazione dovrebbe ricoprire. A loro volta le aspettative sono sensibili al contesto nel quale il giovane vive e opera. D’altro canto, questa misurazione integra i risultati di un’attribuzione del connotato della sovraistruzione attraverso una corrispondenza a priori tra livello di istruzione e gruppo di professioni”. Tale corrispondenza è alla base di molte indagini su tali fenomeni come ricordato all’inizio di questo capitolo. L’indagine, effettuata attraverso la Rilevazione sulle forze di lavoro, riporta che il 38,5 per cento dei diplomati e laureati di età compresa tra i 15 e i 34 anni (circa 1,5 milioni) ritiene che per svolgere adeguatamente il proprio lavoro sarebbe sufficiente un livello di istruzione più basso rispetto a quello posseduto: quattro giovani diplomati e tre giovani laureati su dieci (il 41,2 e il 32,4 per cento, rispettivamente). Inoltre, approfondisce come si differenzino tali valori a seconda del

- tipo di diploma o indirizzo del titolo di studio - tipologia del lavoro

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- titolo di studio più alto dei genitori - modalità di ingresso nel mercato del lavoro.

Queste considerazioni d’insieme ci permettono di avanzare ancora con qualche dettaglio, riportando alcune distinzioni, come da letteratura, tra più tipologie di mismatch, di cui almeno:

- educational mismatch, mancata corrispondenza tra il titolo di studio posseduto da un individuo e quello richiesto per una posizione organizzativa/attività;

- skill mismatch, mancata corrispondenza tra le competenze e le abilità di cui è dotato un individuo e quelle richieste per lo svolgimento di una attività.

Tra di esse, e la letteratura economica lo ha ampiamente analizzato e approfondito, il cambiamento tecnologico skill-biased è considerato un processo rilevante nel contribuire a generare skill mismatch. L’idea sottesa è che l’innovazione tecnologica favorisca l’assorbimento di persone con elevato livello di istruzione, in quanto generi posti di lavoro a maggior contenuto di competenze; al contrario, l’assenza di innovazione tecnologica e il permanere di attività produttive di carattere più tradizionale generi overeducation e skill mismatch, con le persone con livelli di istruzione più elevati inserite in attività che richiedono skill ridotti. Tuttavia, se tale approccio ha alla base la complementarietà tra nuove tecnologie e la più elevata qualificazione dei lavoratori, ciò comporta anche una sostituibilità tra nuove tecnologie e lavoratori non qualificati. Accanto al cambiamento tecnologico skill-biased si è affermata la rilevanza del cambiamento organizzativo skill-biased, alla cui base analitica vi è l’idea che i processi di riorganizzazione interni all’impresa determinino un aumento della domanda di lavoro qualificato. Anzi, si rileva l’esistenza di forti relazioni tra cambiamento tecnologico e cambiamento organizzativo: l’impresa che voglia

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adottare le nuove tecnologie, soprattutto quelle informatiche, non può prescindere dall’introduzione di rilevanti cambiamenti nella propria struttura organizzativa. Di più, l’interazione tra tecnologia e organizzazione potrebbe generare effetti “superadditivi”, accrescendo ulteriormente la domanda di lavoro qualificato e riducendo il fabbisogno di lavoro non qualificato. La letteratura manageriale mette in rilievo che le politiche di reclutamento di manodopera qualificata appaiono così funzionali ad una piena valorizzazione degli incrementi di produttività indotti dall’adozione di nuove tecnologie, e, nel contempo, generano nuove opzioni di design organizzativo e pratiche di lavoro flessibili e innovative, quali:

- impiego di team di produzione (team-based production); - self-directed work teams: i lavoratori supervisionano il loro stesso lavoro, prendendo decisioni

autonome in merito a tempi e flussi; - job rotation (esemplare quella delle banche): - problem-solving groups/circoli di qualità(QC); - sino al Total quality management (TQM); - nuovi sistemi di sistema di incentivi rivolti ai team; - nuove pratiche di screening pre-occupazionali; - innovative modalità di inserimento (tirocini, ecc.).

Vedi il contributo del Prof. Cocozza riportato nell’Allegato 4, Lezione 3 - Innovazione, sviluppo organizzativo e knowledge worker.

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STRUTTURA PRODUTTIVA E DOMANDA DI CAPITALE UMANO Dai pochi accenni riportati in precedenza, le cause che possono determinare un mismatch tra domanda e offerta di capitale umano possono essere molte, e non tutte facilmente individuabili, né tantomeno rimuovibili, almeno nel breve/medio periodo. Si sono ricordate: la struttura economica, la presenza di professioni ad alto contenuto di capitale intellettuale, le produzioni più innovative a più alto valore aggiunto, la Ricerca scientifica, le innovazioni di prodotto e processo, ecc. In Italia, la crisi ha accentuato un ritardo in relazione alle dinamiche settoriali che possono determinare più elevati livelli di occupazione qualificata: l’attività produttiva è rimasta concentrata in settori tradizionali, pur rimanendo un ruolo determinate svolto dalla struttura industriale del nostro paese, ancora in fase di profonda ristrutturazione. Per esempio, raggruppando i tre settori produttivi a più alto valore aggiunto nella classificazione statistica ufficiale (ISCO), l’Italia raccoglie in queste categorie circa il 30% degli occupati contro il 50% degli Stati Uniti e il 38% della Germania. Allo stesso modo, la percentuale di occupati nel settore dei servizi è ancora in Italia minore che in altri paesi come gli Stati Uniti, Germania, paesi scandinavi, e con minor presenza di servizi alle imprese. Complessivamente, l’occupazione appare distribuita in modo più rilevante che negli altri paesi su impieghi dove l’utilizzo delle competenze è minore. Tali circostanze non possono, di riflesso, che aver determinato una flessione delle professioni a più elevata qualificazione (un milione in meno nel settennio) e - essenzialmente per la crisi che ha coinvolto i settori industriali - la perdita di professioni impiegatizie e operaie specializzate (un altro milioni di posti di lavoro), mentre sono aumentate le professioni nei settori dei servizi più tradizionali (1,2 milioni) ed in misura minore le posizioni professionali elementari e meno qualificate (+350mila).

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Ancora un riferimento all’Europa ci porta a considerare come, anche in questo caso, il complesso delle dinamiche nel settennio si sia determinato in modo difforme nei confronti dell’Italia: aumentano le professioni a più elevato contenuto di conoscenza (da noi in diminuzione), aumentano in Europa con solo 1/3 della dinamica italiana le professioni impiegatizie del terziario, scendono come in Italia le professioni operaie specializzate e altrettanto in discesa sono quelle elementari e meno qualificate (da noi invece in aumento). Andamento dell'occupazione 2008-2015 per grandi gruppi professionali (20-64 anni al netto delle forze armate)

Valori assoluti in migliaia Variazioni 2008-2015

2008 2015 Assolute %

Unione Europea (28 paesi) Cognitive altamente qualificate 83.319 87.161 3.842 4,6 Impiegati commercio e servizi 51.335 55.779 4.444 8,7 Manuali specializzate/qualificate 56.491 47.945 - 8.546 - 5,1 Elementari 20.218 19.081 - 1.137 - 5,6 Totale 211.363 209.966 - 1.397 - 0,7 Italia Cognitive altamente qualificate 8.923 7780 - 1.143 - 12,8 Impiegati commercio e servizi 5.174 6428 1.254 24,2 Manuali specializzate/qualificate 6.038 4977 - 1.061 - 17,6 Elementari 2.110 2461 351 16,6 Totale 22.245 21.646 - 599 - 2,7 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro ed EUROSTAT SVIMEZ, Rapporto 2016 sull’economia del Mezzogiorno, Roma, novembre 2016 Ritardi, e difformità, presenta inoltre la situazione italiana a riguardo dell’andamento dell’occupazione per struttura delle attività a diversa intensità tecnologica, seguendo l’articolazione Eurostat/NACE10. 10 L’intensità tecnologica viene classificata in: High Technology, Medium High technology, Medium Low technology and Low technology. Per l’aggregazione delle imprese è stata seguita la classificazione “Eurostat Indicators in High tech industry and knowledge – intensive services: Annex 3 – High-tech aggregation of manufacturing based on NACE Rev.2”

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L’incidenza dell’occupazione in settori ad alta tecnologia (HTC) è pari in Italia a solo il 3,4% degli occupati, valore che si è mantenuto stabile nel tempo e che risulta inferiore di meno di un punto percentuale (-0,7%) a quello di Francia e Germania. Come già ricordato, il dato riflette anche una caratteristica strutturale del nostro paese, ossia una maggiore specializzazione in attività tradizionali, a più basso contenuto tecnologico. Rimanendo al settore industriale, anche le altre partizioni (medio bassa e bassa tecnologia) non hanno difeso i posti di lavoro dall’incedere della crisi, ad eccezione dei comparti a medio-alta tecnologia, ove l’occupazione (1,1 milione di addetti) risulta costante nel settennio. Nel settore dei servizi, l’articolazione per intensità di conoscenza risulta premiare i settori a bassa intensità (+288mila occupati nel settennio). E’ da rilevare che in Europa sono stati più dinamici i settori del terziario a più elevata intensità di conoscenza, come già segnalato in precedenza a riguardo della struttura per professioni, mentre la minore caduta di occupazione generata dalla crisi nel comparto industriale è avvenuta nei comparti a più elevato contenuto tecnologico, anche i primi a riprendersi dopo la crisi. Infine, se consideriamo il titolo di studio posseduto, limitando l’analisi al solo personale in possesso di una laurea, il differenziale negativo con l’Europa torna a riemergere. La distanza è rilevante per tutti i settori caratterizzanti l’intensità tecnologica, con punte che si avvicinano sovente alla metà (a volte 1/3) delle percentuali degli altri paesi messi a confronto, ma anche nel resto dei settori che più sono orientati alla innovazione (tecnologica, organizzativa, ecc.) e più necessitano di assorbire capitale umano a più alta qualificazione come il settore manifatturiero e il terziario.

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Occupati in possesso di istruzione universitaria (levels 5-8) -% sul totale dell’occupazione dei settori di riferimento; anno 2015

High-technology sectors (*) Manufacturing High-technology

manufacturing Italy 39,4 10,5 30,0 France 71,4 30,4 54,5 Germany 48,0 25,6 38,9 Spain 76,9 35,8 65,5 United Kingdom 65,6 31,6 55,5 Finland 69,5 34,9 63,1 Sweden 58,5 23,6 47,2 (*) high-tech. manifatturiero e servizi di alta tecnologia ed intensità di conoscenza (**) Servizi ad alta intensità di conoscenza Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat “Regional statistics by NUTS classification/Regional science and technology statistics” Infine, la ridotta presenza in Italia di personale qualificato all’interno delle imprese industriali e nei servizi più avanzati contrasta con la crescente importanza che la dotazione di capitale umano ha assunto come fattore strategico per competere all’interno di sistemi economici orientati alla conoscenza (le knowledge economy). Tali carenze, insieme alla scarsa esperienza nell’uso delle tecnologie, sia nel complesso degli occupati sia anche tra i più giovani, presentano un quadro negativo per sfruttare le stesse potenzialità nei nuovi scenari delineati dagli interventi rivolti a Industria 4.0. e, nel contempo, confermano l’importanza della formazione continua, già a partire dalle immissioni dei giovani nel mercato del lavoro.

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INDUSTRIA 4.0 L’espressione rimanda ad un insieme di tecnologie che concorrono ad innescare una nuova rivoluzione nel modo di produzione che diventa sempre più digitale, grazie a stampanti 3D, a robot, ecc. I prodotti stessi cambiano, in quanto sono sempre più interconnessi con l’ambiente esterno; la direzione aziendale è ancora più supportata da strumenti intelligenti che permettono di prendere decisioni sempre più complesse.

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Fonte: OECD - Rapporto Economico ITALIA, 2017, febbraio (pag. 17) Per un aggiornamento sull’andamento del Piano Industria 4.0 e sull’ampliamento degli interventi rivolti alla formazione delle competenze legate alle nuove tecnologie, unitamente a considerazioni di ordine più generale sulle trasformazioni che stanno interessando il mondo della produzione e del lavoro, si rimanda ad un intervento a due voci (Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo economico, e Marco Bentivogli, Segretario generale metalmeccanici FIM-CISL) (da leggere): Lezione 4 – Allegato 4 - 2018 01 12 - Il Sole 24 ore - Un Piano industriale per l’Italia delle competenze

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Qualche cenno conclusivo Una pubblicazione della Banca d’Italia11, (di cui si consiglia di leggere, almeno il capitolo “Perché investire in capitale umano?”, pagg. 6-12) approfondisce attraverso una ripresa complessiva le problematiche qui riportate: “… le indicazioni di policy non possono non tener comunque conto delle interazioni tra domanda ed offerta di capitale umano, per superare quello che appare essere una sorta di circolo vizioso. La scarsa dotazione di capitale umano – in termini sia quantitativi sia qualitativi – condiziona il modello di specializzazione produttiva delle imprese italiane e contiene i ritorni dell’investimento in capitale umano, disincentivandone l’accumulazione. Gli investimenti e l’attenzione sono spesso rivolti più verso l’ottenimento d’un titolo di studio che verso l’acquisizione delle competenze che tale titolo in teoria dovrebbe certificare e “incorporare”, in ciò giocando un ruolo le diverse regole di funzionamento dei settori pubblico e privato. La stessa flessibilità introdotta nel mercato del lavoro, in assenza in molti comparti di una spinta al rinnovamento delle imprese e di una crescita della concorrenza nei mercati del prodotto, ha spesso favorito un utilizzo poco innovativo dei laureati, impiegati in funzioni e con salari non all’altezza. …occorre beninteso considerare tutte le aree di confine, superando in particolare la serie di regole che governano l’ordinamento scolastico e il mercato del lavoro e che creano una discrasia tra questi due mondi. Uscire da un simile circolo vizioso richiede perciò anche di collegare meglio il mondo scolastico col mondo esterno, evitando una sorta di autoreferenzialità di stampo accademico che contribuisce a ridurre il rendimento 11 Cipollone, Montanaro, Sestito, Il capitale umano per la crescita economica - possibili percorsi di miglioramento del sistema d’istruzione in Italia, Questioni di Economia e Finanza, n.122, Roma, aprile 2012.

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economico della scolarità. Al tempo stesso paiono essenziali interventi che favoriscano l’accesso al mercato del lavoro e la situazione relativa, nello stesso, dei più giovani, superandone il dualismo, e che, favorendo il rinnovamento e la crescita dimensionale delle imprese italiane, sostengano la domanda di lavoratori con skills più elevati. Un forte segnale di rinnovamento e rafforzamento da parte della filiera dell’offerta può però avviare una più complessiva svolta. Esso potrebbe condizionare le scelte non coordinate del sistema delle nostre imprese, in prevalenza di piccolissime dimensioni, che finirebbero prima o poi per adeguarsi e reagire, anche per effetto della possibile nascita di nuove imprese come diretta emanazione di università o altri enti di ricerca.” (op. cit., pag 16) Da ultimo, di grande interesse è il contributo del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che riprende molti temi dei temi sin qui trattati: Lezione n. 4 - Allegato 5 - IL MULINO - XXX lettura - PERCHE' I TEMPI STANNO CAMBIANDO (Ignazio Visco)