dicembre buone feste

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numero speciale dicembre

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Sommario:

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La Riforma Gelmini

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La Riforma Gelmini e la fine della

Storia dell’Università di massa

Ha ragione Mariastella Gelmini a celebrare l’approvazione della sua riforma dell’Università come “la fine del Sessantotto”. Con questa e-spressione però la ministro non intende quello che ogni buon conserva-tore associa al cosiddetto Sessantotto: antiautoritarismo, antimilitarismo, liberazione sessuale, rottura della morale borghese, equilibrio nel con-flitto tra capitale e lavoro. No, per Mariastella Gelmini il Sessantotto rappresenta innanzitutto un aborrito “egualitarismo”, da combattere con le armi dello sfuggente con-cetto di “meritocrazia” che la nuova legge si propone di incarnare. La Riforma di oggi è “la fine del Sessantotto” in quanto fine di quel fattore cardine di coesione e perequazione sociale rappresentato dall’Università di massa che Berlusconi e Tremonti, attraverso Gelmini, si erano pro-messi di eliminare. di Gennaro Carotenuto L’equilibrio tra capitale e lavoro raggiunto dalle socialdemocrazie euro-pee si protrasse per tutto il decennio successivo finché il primo, con la spallata thatcheriana, non prevalse sul secondo. La svolta neoliberale e neoconservatrice, che in Italia prese la forma simbolica della “marcia dei 40.000” prima e del berlusconismo poi, oggi, trent’anni dopo, è tra i fattori che stanno determinando la caduta di coesione sociale che è alla base dell’eclisse dell’Occidente. La Riforma Gelmini approvata oggi dal Senato è quindi epocale perché è il compimento di un lungo percorso che rompe in Italia un altro equilibrio fondamentale: quello tra la Costi-tuzione, che ancora elementi, come il diritto allo studio, di forte pere-quazione sociale in un’economia di mercato, e gli interessi delle classi dirigenti. Gli ottimati pensano di incarnare il “merito” per censo e con Gelmini hanno l’occasione, nel tardo neoliberismo incarnato dal gover-no Berlusconi, di rafforzare e rinnovare privilegi antichi. Quindi, al con-trario di quanto dice il ministro, solo i figli dei farmacisti continueranno a fare i farmacisti, i figli degli architetti gli architetti e i figli dei baro-ni… i baroni. Ciò perché la riforma Gelmini rappresenta la caduta dell’architrave democratico della nostra società rappresentato dall’Università di massa come percorso di ascensione sociale prima pre-cluso ai più, poi dalla fine degli anni ‘60 aperto a tutti (che roba Contes-sa!), da oggi di nuovo ristretto. I numeri parlano chiaro. Alla metà degli anni ‘60 gli studenti universitari in Italia erano 400.000. Oggi sfiorano i due milioni. Riscontriamo dati simili per tutti i nostri paesi di riferimento, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna. Nell’Europa occidentale, nel quarantennio che ci separa dal “maggio francese” il numero delle persone che hanno potuto spende-re sul mercato del lavoro un titolo universitario è quadruplicato. Ovvero: con l’Università di massa i figli del popolo vanno all’Università, senza Università di massa i figli del popolo, anche i capaci e i meritevoli, ne sono esclusi. Prima di proseguire, allora, è bene che il lettore si interroghi se i propri studi universitari sarebbero stati possibili se fosse nato una generazione prima. Basta interrogarsi sulla propria classe sociale di provenienza e sul percorso formativo dei propri genitori per avere un’approssimazione di risposta. Basta dare un’occhiata al registro del personale docente univer-sitario, in particolare dei 27.000 ricercatori. Altro che “parentopoli”! Nella maggior parte dei casi troverete cognomi umili (vogliamo dire proletari?) che per la prima volta nella storia accedono alla docenza uni-versitaria. Lo stesso l’Università di massa ha garantito in altri campi, dalla medicina all’avvocatura. Che l’operaio abbia visto il proprio figlio dottore non vuol dire che i dottori di oggi siano migliori di quelli di ieri. Vuol dire che lo studiare come privilegio elitario, sia pure in un contesto dove permangono mille problemi, è stato abbattuto da quell’Università egualitaria della quale oggi Gelmini rivendica lo scalpo. L’Università di massa della quale si celebra il funerale era figlia della lotta generazionale e di classe per permettere ai molti di sfuggire sia a un lavoro subalterno che a una subalternità culturale. Tale destino subal-terno aveva cominciato ad essere superato quando la costruzione delle

l’educazione di massa come passaggio ineludibile per il benessere della società. In Italia però, con la riforma Gentile, della quale Gelmini si con-sidera erede, in epoca fascista, l’avviamento al lavoro subalterno di chi non apparteneva alla classe dirigente era rigidamente incanalato fin dalla pre-adolescenza e solo nel periodo dell’odiato Sessantotto le masse rup-pero gli argini e conquistarono il diritto a studi e carriere superiori. Certo, l’ultimo quarantennio ha mostrato tutte le difficoltà della costru-zione di un modello democratico di Università. Gli studenti che proven-gono dalla classe lavoratrice beneficiano di meno opportunità e stimoli di quelle offerte dalle famiglie borghesi. Hanno in casa biblioteche meno capienti, hanno fatto meno viaggi, visitato meno musei. Sono stati meno sorretti nelle difficoltà e più portati all’abbandono degli studi. Allo stesso modo un’Università che ha bisogno di circa centomila docenti tra struttu-rati e precari non può garantire lo stesso livello medio di didattica di un’università elitaria. I saperi di massa si sono per loro stessa natura massificati e in qualche caso sviliti. Arrivano alla laurea studenti con ba-si culturali traballanti che faranno ben poco con il “pezzo di carta”. Ciò non è un bene ma l’unica alternativa sostenibile, come sa per esempio il cancelliere Angela Merkel, è continuare a investire in educazione, borse di studio, aiuti, che permettano di liberare le forze di ragazzi altrimenti destinati all’abbandono. Alla logica del “merito” teorizzato da Gelmini e supportato dal taglio del 90% delle borse di studio, che comporta lo stig-ma del “demerito”, va contrapposta la logica del sostegno a chi ne ha bi-sogno come unica possibilità di progresso della società. E’ vero, l’Università di massa è piena di sclerosi e di malfunzionamenti, difetti, sprechi e si basa su un modello piramidale dove il servilismo ren-de di più del pensiero critico. Ma la risposta non può essere quella neo-elitaria della Gelmini e di Francesco Giavazzi, mai osteggiata seriamente dal centro-sinistra. Valgano due dettagli per tutti: il citato taglio antico-stituzionale del 90% delle borse di studio e l’allungamento di ulteriori sei anni del precariato per accedere ai ruoli universitari. Questo domani por-terà ad un ingresso molto oltre la soglia dei 40 anni. Chi ne sarà colpito non saranno i figli della classe medio-alta, che possono con crescente difficoltà pagare, o quelli della classe dirigente, che già oggi vanno a stu-diare all’estero come nella miglior tradizione dei paesi sottosviluppati. Chi ne sarà naturalmente colpito saranno quegli studenti vittime del “demerito indotto” dalle loro condizioni sociali e che si interrogano quo-tidianamente se vale la pena continuare a studiare rispetto ai sacrifici che ciò comporta. Chi si beneficerà dell’allungamento ulteriore del precaria-to universitario voluto dalla Gelmini con i contratti da ricercatore a tem-po determinato, saranno i figli di professori, i figli della classe dirigente. E’ questa la vera parentopoli! La vera parentopoli, la parentopoli sociale rafforzata dalla Gelmini, è quella del classismo del quale è i intrisa la

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La Riforma Gelmini

Riforma GelminiRiforma GelminiRiforma GelminiRiforma Gelmini 5555

universitaria a ogni livello e del quale se ne comprendono i mecca-nismi solo dall’interno. Lo scandalo non si gioca sui cento metri piani di un concorso più o meno combinato. Si gioca sulla lunga distanza di una maratona dove i capaci e i meritevoli, anche se in testa alla corsa, vengono costretti ad abbandonare per mancanza di acqua prima di un traguardo posto ogni giorno più lontano. Sbagliano dunque gli studenti che temono la “privatizzazione” dell’Università. In Italia tutte le privatizzazioni si sono sempre fatte con soldi pubblici e non è questo il caso. Il progetto continentale, che possiamo far partire dal “processo di Bologna” del 1999 è quel-lo della dismissione dell’Università di massa per preservarne solo gli spazi elitari. E’ quello di un’Università che autoriducendosi esce dalla sfera del diritto allo studio per entrare nel mercato come “public company” e dalla quale pertanto sono espulsi quelli che nell’Università cercavano un luogo per sfuggire ad un destino so-ciale di subalternità. Nel 2020, quando la riforma Gelmini sarà a pieno regime e il blocco del turn-over avrà impedito la sostituzione dei quadri entrati in ruolo nei primi anni ‘80, l’Università pubblica avrà docenti solo per 5-600.000 studenti con la conseguente espul-sione dei tre quarti degli studenti attuali. Un bel risparmio per il

quale oggi incroceranno i calici Gelmini, Giavazzi e Tremonti. È un risparmio che nasconde il disinvestimento nel paese nel suo complesso che torna ad essere identificato nella propria classe diri-gente escludendo tutte le altre. La riforma Gelmini accelera dunque un processo che costituisce un salto indietro (graduale, mascherato) di 50 anni, ai numeri dei primi anni ‘70, nel quale un numero limi-tato di clienti-studenti troveranno soddisfazione alle loro esigenze di imprenditoria individuale. Tutto il resto, tutto quanto non smer-ciabile, sapere critico, cultura, dovranno essere marginalizzati in piccole nicchie perché, per i criteri di economicità e di profitto con i quali funzionerà l’Università “public company” non c’è posto per loro come non c’è posto per quelle classi popolari e medio-basse che in questi 40 anni avevano beneficiato dell’Università in un pro-cesso di ascensione sociale. Il problema è che se il modello su cui si basa la Riforma Gelmini poteva essere vendibile 15 o 20 anni fa, al momento di auge del modello neoliberale, è palesemente antistorico oggi che la crisi ne mette a nudo l’impraticabilità. Oggi chiunque ha avuto occasione di confrontarsi con gli studenti sa che questi non lottano per sfuggire solo ad un destino subalterno ma anche per sfuggire ad un modello di sviluppo capitalista che ha eretto la precarietà come nuova, più avanzata e più pervasiva forma di costringerli a tale subalternità nonostante gli studi universitari. Se oggi un titolo universitario non garantisce più progressione sociale la risposta del governo è quella di indurre a rinunciare all’educazione superiore chi acquisirebbe un titolo svalutato. Al contrario la richiesta degli studenti è di una poli-tica che riqualifichi e renda nuovamente spendibili tali titoli.

Venti anni fa si poteva ancora far finta di non esserne coscienti, ma oggi è evidente che la precarietà non è solo un miglior modo di controllo so-ciale, di coercizione sindacale e di massimizzazione degli utili ma anche l’unica maniera di creare lavoro che questo modello di sviluppo riesce a concepire. Paesi come l’India, in grado di laureare 700.000 ingegneri l’anno, sanno che dai grandi numeri si può scremare l’eccellenza. L’Italia (e pezzi dell’Europa) sta scegliendo un cammino opposto, con-vogliando decrescenti risorse su numeri via via più ristretti che tornano a coincidere con le élite tradizionali. Dal rifiuto della riforma Gelmini all’ “intuizione” di un destino subalterno e precario che ha portato gli stu-denti, a Londra come a Parigi come a Roma, a scendere in piazza, all’elaborazione di un modello alternativo di Università e di società che rimetta al centro, in una società dei saperi rivalorizzati, la lotta all’esclusione, il passo è ancora lungo. Per colmarlo ci vorrebbe la poli-t i c a . Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it

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“Dobbiamo inventare il nuovo socialismo del XXI sec. Il capitalismo non è un modello di sviluppo sostenibile.” [Hugo Chavez, “Dobbiamo inventare il nuovo socialismo del XXI sec. Il capitalismo non è un modello di sviluppo sostenibile.” [Hugo Chavez, “Dobbiamo inventare il nuovo socialismo del XXI sec. Il capitalismo non è un modello di sviluppo sostenibile.” [Hugo Chavez, “Dobbiamo inventare il nuovo socialismo del XXI sec. Il capitalismo non è un modello di sviluppo sostenibile.” [Hugo Chavez, 4 4 4 4 marzo 2005]marzo 2005]marzo 2005]marzo 2005]

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A chi ama dormire ma si sveglia sempre di buon umore.

A chi saluta ancora con un bacio.

A chi lavora molto e si diverte di più.

A chi va di fretta in auto, ma non suona ai semafori.

A chi arriva in ritardo ma non cerca scuse.

A chi spegne la televisione per fare due chiacchiere.

A chi è felice il doppio quando fa a metà.

A chi si alza presto per aiutare un amico.

A chi ha l’entusiasmo di un bambino ma pensieri da uomo.

A chi vede nero solo quando è buio.

A chi non aspetta Natale per essere piu’ buono.

AUGURI

I NOSTRI auguri di UN FELICE ANNO NUOVO vanno alle famiglie degli operai caduti sul lavoro, agli studenti ed ai lavoratori in lotta, a tutti quei lavoratori che si guadagnano il pane one-stamente, a tutti i sindacalisti che hanno ancora le palle e non si vendono ai padroni, agli a-mici della rete e dei blog, a tutti quelli che lottano veramente contro la mafia e il malaffare nel nostro paese, a tutti quei pensionati che sono sempre più soli, a tutti quei giovani (e ahi-mè anche non più giovani) lavoratori precari e in cassa integrazione che tirano a campare e sono costretti ad accettare l'elemosina di governanti sempre più insensibili e bastardi, a tutti i gay e transessuali che chiedono diritti, a tutti i lavoratori stranieri ricattati e usati come a-nimali, a tutti i senza tetto, a tutti i lavavetri, a tutti i bambini che amo profondamente, a tutti i venditori abusivi , a chi non ce la fa a pagare il mutuo, a chi non ce la fa a pagare le medicine e le cure , a chi si arrabatta per non finire sul lastrico, a chi e‘ malato,

a tutti I COMPAGNI di sempre e a chi mi ha regalato emozioni ...

AUGURI