DI REPUBBLICA DOMENICA MAGGIO NUMERO 428 CULT...

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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 MAGGIO 2013 NUMERO 428 CULT La copertina ROBERTO ESPOSITO e FABIO GAMBARO “Egoaltruismo” Fare del bene al prossimo non è generoso Il libro LEONETTA BENTIVOGLIO L’amicizia da Dolce vita di Carol e Silvana All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Nico Naldini “Le mie ossessioni tra letteratura e omosessualità” L’opera ANGELO FOLETTO Evgenij Onegin lezione sull’amore per i giovani che leggono troppo L’arte MELANIA MAZZUCCO Il Museo del mondo La stiratrice di Degas Quei soldati italiani che morirono per Cecco Beppe La storia PAOLO RUMIZ Da casa a scuola il viaggio dei bambini L’attualità MARCO LODOLI U na volta il testo arrivava alla stampa lungo un pro- cesso di produzione fatto di ripensamenti, cancella- ture, false partenze, scatti di nervi che riempivano il cestino e svuotavano i calamai o esaurivano i nastri delle macchine da scrivere. Pare di ricordare che Moravia, all’uscita del suo romanzo 1934(pubblicato nel 1982) dichiarava di averne fat- to sette stesure, per licenziare l’ultima, poiché risultava coincidente con la penultima. Allora il testo poteva essere considerato invarian- te perché idealmente il suo autore aveva già esperito ogni alternati- va. Il che significa che il Libro veniva alla luce da un ruvido amnio di brogliacci e fogli biffati. Erano quelli che Croce chiamava «scarta- facci» per farsi beffe della scienza filologica, che invece ne andava e ne andrebbe ancor oggi ghiotta, secondo i precetti della “varianti- stica” portata al massimo acume critico da Gianfranco Contini. (segue nelle pagine successive) STEFANO BARTEZZAGHI LONDRA G adda detestava rileggersi, il risultato lo deprimeva: non era più soddisfatto di quello che aveva scritto. Hemingway sosteneva che uno scrittore potrebbe continuare a correggere, cambiare, riscrivere un proprio testo all’infinito, se l’editore a un certo punto non glielo to- gliesse dalle mani. Ma che succede se un gruppo di autori è proprio costretto a rileggere le proprie opere più famose e poi accetta l’im- pegno a corredarle di un commento, un ricordo, una confessione? È quasi un esperimento a metà strada fra la letteratura e la psica- nalisi, quello lanciato in questi giorni dal Pen (oltre a richiamare la parola “penna” in inglese, è l’acronimo di Poets, Essaysts, Novelists, cioè poeti, saggisti, romanzieri), la più antica associazione di lette- rati, fondata a Londra nel 1921, quando tra i suoi membri c’erano Jo- seph Conrad, George Bernard Shaw e H.G. Wells. (segue nelle pagine successive) ENRICO FRANCESCHINI DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI DISEGNO DI GIPI Correzioni Le Cosa succede se a uno scrittore celebre viene chiesto di rileggere e commentare il suo primo best seller? Ecco la risposta di McEwan, Ishiguro, Rowling...

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 19MAGGIO 2013

NUMERO 428

CULT

La copertina

ROBERTO ESPOSITO e FABIO GAMBARO

“Egoaltruismo”Fare del beneal prossimonon è generoso

Il libro

LEONETTA BENTIVOGLIO

L’amiciziada Dolce vitadi Carole Silvana

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Nico Naldini“Le mie ossessionitra letteraturae omosessualità”

L’opera

ANGELO FOLETTO

Evgenij Oneginlezione sull’amoreper i giovaniche leggono troppo

L’arte

MELANIA MAZZUCCO

Il Museodel mondoLa stiratricedi Degas

Quei soldati italianiche morironoper Cecco Beppe

La storia

PAOLO RUMIZ

Da casa a scuolail viaggiodei bambini

L’attualità

MARCO LODOLIUna volta il testo arrivava alla stampa lungo un pro-

cesso di produzione fatto di ripensamenti, cancella-ture, false partenze, scatti di nervi che riempivano ilcestino e svuotavano i calamai o esaurivano i nastri

delle macchine da scrivere. Pare di ricordare che Moravia, all’uscitadel suo romanzo 1934(pubblicato nel 1982) dichiarava di averne fat-to sette stesure, per licenziare l’ultima, poiché risultava coincidentecon la penultima. Allora il testo poteva essere considerato invarian-te perché idealmente il suo autore aveva già esperito ogni alternati-va. Il che significa che il Libro veniva alla luce da un ruvido amnio dibrogliacci e fogli biffati. Erano quelli che Croce chiamava «scarta-facci» per farsi beffe della scienza filologica, che invece ne andava ene andrebbe ancor oggi ghiotta, secondo i precetti della “varianti-stica” portata al massimo acume critico da Gianfranco Contini.

(segue nelle pagine successive)

STEFANO BARTEZZAGHI

LONDRA

Gadda detestava rileggersi, il risultato lo deprimeva:non era più soddisfatto di quello che aveva scritto.Hemingway sosteneva che uno scrittore potrebbecontinuare a correggere, cambiare, riscrivere un

proprio testo all’infinito, se l’editore a un certo punto non glielo to-gliesse dalle mani. Ma che succede se un gruppo di autori è propriocostretto a rileggere le proprie opere più famose e poi accetta l’im-pegno a corredarle di un commento, un ricordo, una confessione?

È quasi un esperimento a metà strada fra la letteratura e la psica-nalisi, quello lanciato in questi giorni dal Pen (oltre a richiamare laparola “penna” in inglese, è l’acronimo di Poets, Essaysts, Novelists,cioè poeti, saggisti, romanzieri), la più antica associazione di lette-rati, fondata a Londra nel 1921, quando tra i suoi membri c’erano Jo-seph Conrad, George Bernard Shaw e H.G. Wells.

(segue nelle pagine successive)

ENRICO FRANCESCHINI

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CorrezioniLeCosa succede se a uno scrittore celebre viene chiestodi rileggere e commentare il suo primo best seller?

Ecco la risposta di McEwan, Ishiguro, Rowling...

LA DOMENICA■ 26DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

“Orribile!” si fustiga Tom Stoppard. “La prima frasenon mi è mai piaciuta” confessa l’autore di “Vita di Pi”. “Febbre a 90° è come se appartenesse a un altro”ammette Nick Hornby. Il londinese Pen Club ha chiesto a scrittori famosi di commentare con note a margine le prime edizionidei loro best seller. Per vedere l’effetto che fa (e poi venderle all’asta)

La copertinaLe correzioni

(segue dalla copertina)

Cinquanta scrittori bri-tannici hanno riletto laprima edizione di un lo-ro libro e vi hanno verga-to a mano le proprie an-notazioni a margine.

Dopodomani, il 21 maggio, quelle co-pie commentate e riscritte sarannomesse all’asta da Sotheby’s. L’incassodi First editions, second thoughts(“Pri-me edizioni, secondi pensieri”), comesi intitola l’asta, andrà al Pen medesi-mo, che si batte per diffondere e di-fendere la scrittura e la libertà di

espressione in tutto il mondo. La listadei partecipanti è un gotha della mo-derna narrativa anglosassone: IanMcEwan, Alan Bennett, Kazuo Ishigu-ro, Julian Barnes, Nick Hornby, Nadi-ne Gordimer, Tom Stoppard, HilaryMantel, J.K. Rowling, P.D. James, Fre-derick Forsyth, Margaret Atwood,John Banville, Yann Martel. In tutto,sedici vincitori del Booker, il più pre-stigioso premio letterario del RegnoUnito, e due Nobel.

«Non abbiamo messo un prezzo dipartenza per nessuno dei volumi»,spiega Philip Errington, curatore del-l’asta e direttore del dipartimento ma-noscritti di Sotheby’s, «perché sareb-be stato spiacevole indicare una certa

cifra per uno scrittore e una più alta opiù bassa per un altro. Non sta a noi di-re quale libro vale di più, lo deciderà ilmercato». La casa d’aste ha rinunciatoalla propria commissione, che avreb-be potuto essere cospicua: ci si aspet-tano cifre folli per aggiudicarsi perlo-meno alcune delle opere. Quando seianni fa Sotheby’s mise all’asta, ancheallora per beneficenza, una delle settecopie esistenti di The tales of Beedle theBard, libretto scritto e illustrato a ma-no dalla Rowling come nota a piè di pa-gina dei suoi romanzi su Harry Potter,Amazon la acquistò per circa 2 milionie 300 mila euro. Stavolta è verosimileche la prima edizione di Harry Potter ela pietra filosofale, completata da ven-

tidue disegnini fatti dall’autrice, nonsia venduta per molto meno.

Erano un po’ di anni che la Pen in-glese pensava a un’iniziativa del gene-re. Per realizzarla ha avuto bisogno chenel suo comitato direttivo entrasse unmercante e collezionista di libri rari,Rick Gekoski, che si è appassionato al-l’idea e si è preso la responsabilità direalizzarla. In primo luogo serviva tro-vare, per motivare gli autori, le primeedizioni dei loro libri più famosi, volu-mi che già hanno di per sé un certo va-lore. Quindi bisognava convincere gliscrittori. Nel caso della Rowling non èstato facilissimo, perché lei ha sfidatoGekoski a compiere un prodigio degnodel suo maghetto: pretendeva una pri-

ma edizione del suo primo libro, cioèuna delle sole cinquecento copie chefurono inizialmente stampate nel1997, prima che Harry Potter prendes-se il volo e conquistasse il mondo. Tre-cento erano finite nelle biblioteche diuniversità e fondazioni. Il commer-ciante di libri rari doveva trovare unadelle rimanenti duecento. «La Rowlingera piuttosto sorpresa, quando le ho te-lefonato due giorni dopo dicendo chene avevo una pronta per lei», ha rac-contato al Financial Times. Aveva sbor-sato ventimila sterline (ventiquattro-mila euro) per procurarsela e quei sol-di gli saranno restituiti dopo l’asta: tan-to per dare un’idea della somma a cuiSotheby’s si aspetta di venderla.

YANN MARTELVita di PiNon mi è mai piaciutala prima frase

ENRICO FRANCESCHINI

‘‘Libro mio non ti conoscoNICK HORNBYFebbre a 90°Come sarebbe diverso questo libro, se lo scrivessi oggi! Eccetto che, naturalmente, oggi non potrei scriverlo Sono troppo vecchio. Sono troppovecchio per appassionarmi a quelle cose allo stesso modoSi sono messe di mezzo la vita e il lavoro e i figli e tutto il restoNon scarico il mio libro, ne sono ancora orgogliosoDico solo che è il libro di un giovane uomo, e funzionava per questo

HELEN FIELDINGIl diario di Bridget JonesOh dio mio, adesso dovrei criticareil mio libro sostenendoche lo scriverei molto meglio se potessi riscriverlo ora?Il guaio è che temo di averegià raggiunto il mio apiceE poi la vita da singleè diventata estremamentepiù complicata,con i messaggini telefonici,le email e Facebook

KAZUO ISHIGUROQuel che resta del giornoA 15 anni feci una lunga gitain bicicletta con un amicodella mia etàdal Surrey al Dorset,e passammo la notte a SalisburyEra la prima volta che vedevouna simile Arcadia inglesee quel luogo continuaa occupare un posto specialenella mia mente

■ 27DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

Messi di fronte alla prima edizionedi un libro scritto molti anni prima, gliautori hanno reagito con lieve scon-certo, prendendo però strade diverseper portare a termine il compito. AlanBennett si è limitato a fare un autori-tratto, una caricatura di se stesso, sul-la prima pagina del suo romanzo La so-vrana lettrice. La Rowling, che daquanto ha fatto vedere in questo casoe nel libro dell’asta precedente forsepensa a un futuro nei panni di pittriceo illustratrice, ha aggiunto mille paro-le sul suo modo di scrivere, incluso ilmomento fatale del suo inizio, ormaientrato nella leggenda: «Ho scrittoquesto libro in ore rubate, in caffè ru-morosi o nel cuore della notte». Anche

Kazuo Ishiguro ha fatto un disegnosulla prima edizione di Quel che restadel giorno, una casa di campagna, unastrada, un cameriere che serve da be-re; e più avanti ha ricordato una gita inbicicletta a Salisbury, uno dei luoghidel romanzo, «che avrà sempre un po-sto speciale nelle mie memorie».Qualcuno scrive tanto, come HilaryMantel, vincitrice quest’anno delBooker e del Costa con il suo romanzostorico su Enrico VIII, su cui traccia pa-gine di appunti in una calligrafia mi-nuziosa. Qualcuno scrive poco, comeJulian Barnes, che vinse il Booker l’an-no prima con Il senso della fine e ha of-ferto al Pen la prima edizione del suoprimo romanzo, Metroland, spiegan-

do: «Era la copia che avevo regalato aimiei genitori», infatti vi si legge anco-ra, «la copertina è bella, quello che c’èdentro, giudicate voi». È telegraficoanche Ian McEwan, che su una copiadi Amsterdam esprime il dispiacere di«violare con una penna un libro rilega-to, su cui normalmente consentireisolo di fare qualche appunto a matita».

Molti si ritrovano nel disagioespresso da Gadda o da Hemingway.«Che esagerazione! Troppo complica-to! Orribile! Non riconosco più questefrasi come mie», scrive il commedio-grafo Tom Stoppard. «La prima frasenon mi è mai piaciuta», annota YannMartel, autore del best-seller La vita diPi, dal quale è stato tratto il film di Ang

Lee che quest’anno ha fatto incetta diOscar. L’irlandese John Banville, ri-leggendo Il mare, con cui vinse ilBooker nel 2005, è ancora più perples-so: «I lettori sono sempre delusi quan-do parlo del mio lavoro, per loro si trat-ta di libri che amano, mentre per me,una volta pubblicati, sono libri cheaborrisco. Non hanno più niente a chefare con me. Ho dato un’occhiata a Ilmare e qui e là intravedo una frase chemi fa pensare, “questa non è male”,ma niente di più. Non posso dire one-stamente che è come se fosse scrittoda un altro, ma certo è scritto da un’al-tra versione di me».

Più ironico e più pragmatico, NickHornby riassume il senso dell’esperi-

mento commentando Febbre a 90°, illibro sull’amore per il football con cuisi è fatto conoscere e che ancora oggi èil suo romanzo più amato dai lettori:«Come sarebbe diverso questo libro,se lo scrivessi oggi! Ma naturalmenteoggi non potrei scriverlo. Sono troppovecchio. Sono troppo vecchio per ap-passionarmi a quelle cose allo stessomodo. Si sono messe di mezzo la vita eil lavoro e i figli e tutto il resto. Non losto scaricando, sia chiaro, ne sono an-cora orgoglioso. Dico solo che è il librodi un giovane uomo e funzionava perquesto». Era la “prima edizione” diuno scrittore, che poi col tempo è di-ventato qualcun altro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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(segue dalla copertina)

Non serve invece spulciare archivi e assediare eredi per conoscere le varianti apportate do-po la pubblicazione, con risultati più o meno felici. Due esempi illustri della letteratura ita-liana: il Canzoniere di Francesco Petrarca (che per anni e anni ne ha cercato la configura-

zione migliore, variando la sequenza delle poesie); il percorso che ha portato Alessandro Manzo-ni da Fermo e Lucia ai Promessi sposi. Il grado minimo è la riedizione (con integrazioni, sposta-menti, ritocchi vari); il massimo è la riscrittura vera e propria, spesso ma non sempre segnalata daun cambiamento anche nel titolo. Nelle sue tre edizioni dell’Orlando Furioso (1516, 1521, 1532)Ludovico Ariosto lo ha progressivamente aumentato e soprattutto ne ha riformulato l’espressio-ne, da una lingua fortemente radicata nella parlata padana a una lingua più influenzata dal tosca-no e più prossima a un modello nazionale. Di maggiore radicalità, poiché interessava anche la con-cezione generale dell’opera, il cambiamento impresso da Torquato Tasso dalla Gerusalemme li-berata (conclusa nel 1575) alla Gerusalemme conquistata (pubblicata nel 1593).

Negli anni italiani recenti si sono segnalati soprattutto due riscrittori. In un trentennio AlbertoArbasino ha pubblicato tre versioni, e una revisione, del suo Fratelli d’Italia. All’epoca dell’ultimaedizione (1993) ha spiegato che «le freccette della cosiddetta ispirazione creativa» ancora una vol-ta andavano tutte a «disporsi qua e là sulla vecchia struttura», invece di formarne una nuova; perdirsi poi infastidito dai confronti fra le tre scritture (e mezza) di un romanzo che nel 1963 era «inpresa diretta», parlando dell’Italia coeva, e trent’anni dopo era fatalmente divenuto un’operastrutturalmente diversissima. Più recentemente Aldo Busi ha rimesso mano a più romanzi, fra cui

quello pressoché leggendario d’esordio, Seminario della gioventù che è rimbalzato più volte fradue editori, sempre rivisto o riscritto e che già prima della pubblicazione originale aveva avuto di-verse stesure.

Già il caso di Tasso dimostra che l’idea per cui ogni stesura migliora la precedente è un pregiu-dizio. Ma è un pregiudizio tenace e così quando, l’altr’anno, Umberto Eco ha pubblicato una re-visione del Nome della rosaha avuto un bel da dichiarare sin da subito di avere solo tradotto un po’di latino in più e corretto qualche errore marginale: l’evento ha fatto notizia come se si trattasse diuna vera e propria riscrittura. Ha ora fatto la stessa cosa con Il Pendolo di Foucault, e forse questavolta nessuno confonderà una revisione con una riscrittura.

In passato non sempre la revisione, se modesta, veniva dichiarata. Oggi spesso si battono i tam-buri anche quando la differenza è questione di ritocchi. Dal punto di vista del marketing le nuoveversioni dei libri più amati dal pubblico rispondono a quella legge che lo stesso Eco anni fa avevariassunto nella formula:more and more. Ti è piaciuto? Te ne diamo di più. La stessa logica, insom-ma, dei sequel e dei prequel, degli spin off e dei remake o cover. Inoltre, nell’epoca della funzione“trova e sostituisci” e dell’enciclopedia collettiva Wikipedia, ci siamo abituati a non consideraremai uno scritto come veramente definitivo, ne varietur. Basta un clic per modificare un testo, pri-ma che sia stampato: al fin della licenza, io ritocco, direbbe oggi Cyrano. Persino un testo stampa-to non appare mai fissato del tutto. Probabilmente è stato scritto al computer, e forse mandato difretta, magari verrà poi corretto e ritoccato: la sua nativa instabilità continua a farlo leggermentevibrare. Ecco dunque che il gioco First editions, second thoughtsdel Pen Club oggi si inscrive sottol’ombra di un antico detto latino, ovviamente rivisto e corretto: verba volant, scripta variant.

Ma chi l’ha detto che riscrivendo si migliora?STEFANO BARTEZZAGHI

J. K. ROWLINGHarry Pottere la pietra filosofaleHo scritto questo libro in ore rubate,in caffè rumorosi o nel cuore della notte La storia di come l’ho scritto è vergatacon inchiostro invisibilesu ogni pagina, leggibile soltanto da meSedici anni dopo che è stato pubblicato,il ricordo è ancora vividomentre sfoglio le sue pagine

JULIAN BARNESMetrolandA beneficio del Pen,ecco la dedica originaleche fecisu questa prima edizione,di mia proprietà,ai miei genitori: “Cari Mà e Pà,ebbene, eccolo qui!La copertina è assolutamentebellissima, qualsiasi cosavoi vogliate pensaredi quello che c’è dentro”

IAN MCEWANAmsterdamLa sensazione di scrivere su un libro rilegato mi sembra sempre trasgressiva, a meno che non sia a matita, nei margini. E invece in questo caso sto usando inchiostro nero, così ho l’impressione di violare il mio stesso libroRileggerlo mi fa venire in menteche ho sempre preferito le prove al concerto vero e proprio, perché ti consentono di conoscereogni passaggio in profondità, un concetto al cui interno si nasconde forse un altro romanzo

JOHN BANVILLEIl mareNon sopporto di rivisitarei miei libri. Non ce la faccioproprio fisicamente Non hanno più niente a che fare con meHo dato un’occhiata al mio libro,e qua e là trovo una frase che mi fa pensare, “questa non è male”In tutta onestà non posso direche sia come se fosse scrittoda un’altra persona,ma è come se fosse scrittoda un’altra versione di me

TOM STOPPARDRosencrantz e Guildenstern sono mortiContiene frasi da cui devo distoglierelo sguardo, come a pagina 49,

che esagerazione! Orribile! Sono frasi in cui non mi riconosco per niente!

LA DOMENICA■ 28DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

Ogni mattina, in ogni pezzo di mondo, milioni di bambiniaffrontano un viaggio. Pochi minuti a piedi o in bus. Ma anche,come racconta questo fotoreportage voluto dall’Unesco, in battello, a dorso di mulo o su una motoslittaper fiumi da guadare, deserti da percorrere, fiordi da costeggiare, trincee da attraversareEd è proprio qui, lungo questo tragitto, che cominciano a imparare

L’attualitàOn the road

Il tragitto tra casa e scuola, cento metri o chilometri, in una città tranquilla o in un pae-saggio difficile, per ogni ragazzino è comunque un viaggio meraviglioso. Noi italianisiamo purtroppo spaventati da tutto, vediamo a ogni angolo siringhe e pedofili, te-miamo la furia delle macchine e i rapimenti, la nostra immaginazione si è distorta ele preoccupazioni hanno spazzato via ogni fiducia, così imbacucchiamo i nostri fi-gli, portiamo giù per le scale del palazzo i loro zaini perché sono troppo pesanti, e poi

quasi sempre si sale in macchina per fare prima, perché èsempre tardi, perché quel viaggio è un puro e semplice spo-stamento. Pensiamo che in ogni bambino c’è un Pinoc-chio, pronto a deviare dal suo tragitto obbligato verso scuo-la e a imboccare le traverse oscure del rischio, della disob-bedienza, della catastrofe. Così facendo, neghiamo ai no-stri figli un’esperienza formativa, quel senso di libertà cheeduca lo sguardo, il ritmo dei passi, la responsabilità. Ep-pure il bambino sa che deve andare a scuola, lo sa e in fon-do gli piace, quello è il suo posto, lì ci sono gli amici, le mae-stre, il cortile, i libri su cui imparare cose nuove. In tutto il

mondo ogni mattina milioni di bambini compiono quel viaggio, traversano il bosco incan-tato della realtà, si rinforzano sulla strada.

Queste fotografie raccontano bene la bellezza e la volontà, il desiderio di diventare grandeche ogni scolaro ha dentro di sé. La casa è la protezione assoluta, a scuola ci sono regole preci-se, banchi e lavagne, orari e compiti: in mezzo c’è un percorso obbligato eppure libero, una se-

Tulle le stradeportano a scuola

Kibera è il secondo slum più grande del mondo, si trova alla periferia di Nairobi, Kenya. Frequentare le lezioni è un lungo viaggio per tanti bambiniCome Elizabeth Atenio, 6 anni, due ore a piedi tutti i giorni

Nairobi, KENYAElizabeth Atenio

È un canoa-bus quello che accompagna gli studenti della Guyana francese ogni mattina. Unisce i vari villaggi e, proprio come uno scuolabus, è a carico dallo Stato

Maripasoula, GUYANA FRANCESEAlicia e Kelly

Zainetto rosa in spalla, capo coperto, mani in tasca, Amal Al Torchiani, 11 anni,cammina fra i carri armati di Misurata, in Libia, la sua città Mine e armi abbandonate sono una minaccia continua per gli studenti

A scuola a dorso d’asino: i fratellini Mateus, Marcia, Fabricio e Maiara attraversano i campi riarsi della regione del Sertao, in Brasile, dove è in corso una delle siccità più violente registrate negli ultimi quarant’anni

Sertao, BRASILEMateus, Marcia, Fabricio e Maiara

Misurata, LIBIAAmal Al Torchiani

MARCO LODOLI

■ 29DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

quenza di rettilinei e di svolte, di abitudini e piccole sorprese che sono già un insegnamento. Aimiei studenti romani del primo anno faccio sempre scrivere un componimento su quella mi-nima odissea quotidiana, da Tor Bella Monaca o da Giardinetti o da Torre Gaia fino all’edificioscolastico di via Olina, a Torre Maura. Sono chilometri macinati su autobus affollatissimi, tram-vetti, e poi a piedi, dall’ultima fermata fino alla classe, sono pagine e pagine di un diario inte-riore, è un ago che traversa un pagliaio. «Professore, ma è sempre la stessa cosa — mi rispon-dono —. Tutti i giorni è la solita fatica, non c’è niente da raccontare». Io però insisto, so che ognigiorno è diverso dall’altro, che quel viaggio è già un viaggio di conoscenza del mondo e di sestessi. E così gli studenti iniziano a prestare più attenzione a quanto accade sull’autobus, alleimmagini che si srotolano fuori dal finestrino, agli incontri occasionali, ai pensieri che piovo-no insieme alla pioggia e al sole. Sono resoconti bellissimi, cronache che valgono quanto quel-le dei grandi viaggiatori, di Marco Polo o Chatwin. C’è la fatica dell’andare ma anche la deter-minazione di raggiungere la meta, perché nonostante gli sbuffi e le proteste ogni bambino sache la scuola è la fabbrica di una vita migliore, che vale sempre la pena partire per arrivare finoa qui. La casa è un laghetto, la scuola è il mare: in mezzo scorre il fiume del viaggio.

Come nelle favole, ogni mezzo è buono per raggiungere il castello, perché in fondo è la vo-glia di arrivare il vero motore: in queste fotografie vediamo bambini dell’Alaska che vanno ascuola con la motoslitta, zingari che in Francia prendono la metro, studenti thailandesi in ri-sciò e brasiliani sul mulo, e bambini africani che coprono a piedi lunghe distanze. Il peso deilibri paradossalmente alleggerisce il viaggio, sono ali che rendono più lieve il cammino.

In Italia il problema dell’abbandono scolastico è terrificante soprattutto nelle zone più de-presse economicamente: quante volte mi è capitato di provare a convincere studenti disa-

morati, avviliti, demotivati, di spiegare loro che la scuola è la possibilità più grande che han-no per trasformare la vita. E spesso questi ragazzini mi hanno risposto che alzarsi la mattinaalle sei o alle cinque e mezza, per lavarsi, vestirsi e poi affrontare un viaggio fatto di mezzi pub-blici che non arrivano, e che quando arrivano sono stracarichi di persone, e poi di chilometria piedi, di ansie e ritardi, è una impresa insopportabile. E allora io cerco di rigirare la frittata:ogni fatica rafforza, ogni sacrificio prepara un futuro migliore, ogni autobus scassato e stra-colmo può contenere una scoper-ta. Sono discorsi da professore, chenon sempre riescono a persuadere.Contano di più la mia Vespa scassa-ta e i venti chilometri che anche ioogni mattina mi cibo per raggiun-gere la scuola. Sono fatti, non chiac-chiere vuote. Pioggia, tempesta osolleone, io parto e arrivo, la stradaè sempre la stessa, ma il viaggiocambia ogni mattina. Mi piace tra-versare la città, lasciare il mio quartiere e trovarne un altro, lontano. Mi piace il baretto in cuimi fermo per un caffè, l’edicola dove compro il giornale. Il mondo si schiude attorno a un per-corso, questo i ragazzi lo capiscono e lo apprezzano. E qualcuno allora mi dice: «Va bene, pro-fessò, domani ci riprovo, domani vediamo se ce la faccio a venire a scuola».

Ha 5 anni e così pure i suoi compagni di scuola. Sono tutti figli di immigrati birmani nella regione del Mae Sot: vanno a scuola a bordo dei somlotIl risciò-bicicletta che li accompagna è per molti di loro l’unico mezzo possibile

Mae Sot, THAILANDIAEl Sanda Soi

A bordo di una motoslitta. È così che vanno a scuola ogni mattina Dana,Hannah e Kyle insieme a mamma e papà. Vivono in Alaska, nel villaggio di Kivalina, minacciato dalla crescita del livello del mare

Kivalina, ALASKADana, Hannah e Kyle

Papà Virgil accompagna i figli a scuola in metropolitana, nella regione dell’Essonne, in Francia. È un rom e ci tiene molto, perché, spiega, vuole dare ai suoi bambini occasioni che non ha avuto

New York, USAAntonio MuñozDal Queens al Bronx prima in bus poi in metropolitana,quattro ore ogni giorno. È il lungo viaggio di Antonio Muñoz, 14 anni, che frequenta il primo anno dell’High School of Science

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Essonne, FRANCIAVirgil e figli

L’INIZIATIVAJourneys to School è il titolo del fotoreportage da tredici paesi del mondo realizzato sotto la direzione delle Nazioni Unite con Unesco, Sipa Press e l’azienda pubblica franceseVeolia. Da qui sono trattele fotografie pubblicate in queste pagine

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LA DOMENICA■ 30DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

“Il secondo da sinistra è mio nonno, disperso in Russia”. “Ecco mio zioin ospedale a Graz...”. Triestini, goriziani, istriani, sudditi e soldatidi Cecco Beppe. Cancellati da libri di scuola e monumenti solo ora,in vista del centenario, escono dai bauli di famiglia. E tra foto ingiallitee lettere da fronti lontani finalmente si raccontano

La storiaDi frontiera

onorificenze, medaglie portate da figli o nipoti. Èsuccesso che improvvisamente, a un anno dalcentenario del ’14, Trieste svuota gli armadi di fa-miglia e, in un impressionante outing collettivo, fagiustizia del silenzio patriottico imposto sul pas-sato austriaco della città “italianissima”, piena dipiazze, scuole, vie e monumenti dedicati a irre-dentisti, coloro cioè che passarono all’Italia, mache in guerra furono meno del cinque per centodei maschi in età di leva.

È successo quando Il Piccolo, quotidiano difrontiera, ha rotto il tabù sulla storia dei “vinti”,parlando delle migliaia di caduti in divisa austria-ca rimasti senza monumento. Da quel momento,la redazione è stata sommersa da lettere, telefo-nate e segnalazioni al punto da dover aprire dellepagine speciali. Storie, quasi sempre, di una guer-ra vista dalla parte “sbagliata”: la disfatta di Capo-retto vista come trionfo, fanti in marcia al suonode La marcia di Radetzky, voci disturbate divecchi Schuetzen registrate dainipoti, cartoline allamorosa da una basenavale di Pola pavesa-ta di bandiere giallone-re, truci racconti di te-ste mozzate dai cosac-chi sui Carpazi.

«Hai già pensato, pic-cina cara, ove andremo adormire? — scrive, bra-mando una licenza, unsoldato istriano alla mo-glie — ciascuno a casa suaoppure tutti e due in unastanza? Devi provvederetu... In un hotel certamenteno!». E ancora, uno slovenodel Carso: «Ho avuto una bre-vissima licenza perché mi eramorta la moglie. Non mi sononemmeno tolto la montura(divisa, ndr), le ho fatto la cassae l’ho portata al cimitero. Zainoin spalla sono ripartito subitoverso Kozina per prendere latradotta. Mio figlio Toncic, quel-lo di otto anni, non voleva stac-carsi da me. Mi ha seguito a piediper un po’, poi, dopo Oscurus, è ri-masto indietro».

Poco o nulla si sa di quei pove-racci: né quanti partirono, né quanti morirono, nédove sono sepolti. La ragion di Stato, dopo il ’18, havietato ai parenti la ricerca di quelle tombe e se-cretato il numero dei Caduti. Un silenzio perdura-to nel secondo dopoguerra, quando l’italianitànon doveva vacillare di fronte alla stella rossa di Ti-to. Ma ancora oggi, mentre negli archivi di guerraviennesi puoi muoverti liberamente, i fondi foto-grafici dello stato maggiore italiano restano pocovisibili su questi argomenti.

Nel silenzio ufficiale, ora è la gente a muoversi.

Un noto medico consegna un pacco con i diplomiincorniciati delle medaglie d’oro e d’argento con-segnate a suo padre Mario Slavich dall’imperato-re. Ignoti lasciano in redazione lo spartito dellaKarl von Ghega Marsch, dedicata al costruttoredella prima ferrovia Vienna-Trieste. Succede dientrare in uno studio radiografico e di essere ar-pionati dal titolare che ti apre le segrete carte di unafamiglia ungherese di nome Felszegi, il cui capo-stipite fece meraviglie con un cantiere che poi fuchiuso per ordine romano.

Trieste si svela, si addentra senza timori nelle

sue radici multiple, fa i conti con un dialetto farci-to di germanismi, dove il sorso si dice sluc, la bat-tuta viz e la spinta ruc. Un mondo dove nulla è co-me appare: perché qui puoi chiamarti Botteri edessere di lingua-madre slovena, o fare Biloslavo dicognome ed essere italiano nel midollo. Dopo lefoibe e i forni crematori, ci sono altre tombe da sco-perchiare per fare i conti con la storia. C’è l’Austria,la madre di tutte le rimozioni.

Negli archivi del Piccolo trovo un “nonno Willyfotografato con pipa all’ospedale militare diGraz”, la rocambolesca storia di uno “zio dal gril-letto facile nello See-Bataillon” o la lettera di ungiovane che promette scherzando alla madre di

portarle in regalo “l’orecchio di un serbo”. Il diariodi un istriano che finisce prigioniero dei russi e sela spassa suonando il clarinetto nella steppa; maanche l’orrore dei prigionieri italiani restituiti dal-l’Austria a fine conflitto: napoletani o lombardiche la patria lascia morire di stenti in un lazzarettoper poi buttarli in fosse senza nome.

È una tempesta identitaria che fa i conti con l’og-gi: con la marginalità che aumenta, i posti di lavo-ro che saltano, i treni cancellati, i cantieri chiusi, lelinee di navigazione svendute. Lo smantellamen-to, in definitiva, di una dote che era stata Vienna adonare alla città. «È tempo che si capisca che cin-que secoli e mezzo di storia austriaca sono più lun-

PAOLO RUMIZ GrandeVinti

Guerra La

dei

“Mio padre Jagodic Giovanni ha fatto partedell’esercito austro-ungarico e mandato in GaliziaAll’avvento del fascismo gli fu ordinato di cambiarecognome e di iscriversi al P.n.f. il quale rifiutòNel frattempo nacqui io (1924). Per non aver ubbidito fu trasferito. Nel 1945 tornammo a Trieste finalmente liberi”

Jagodic Giovanni

Gli italiani caduti per l’Austria

TRIESTE

Tornano a migliaia dalle prime lineedella Grande Guerra, ma non canta-no Il testamento del capitano o Ventigiorni sull’Ortigara. Le loro canzoni

hanno il ritmo cadenzato della marcia e dicono co-se come: “Maledetta sia la sveglia/ sia la sveglia delmattino/ si riposa un pochettino/ per marciare unpoco ben”. Sono ragazzi che parlano italiano, manon portano il Tricolore: hanno per simbolo un’a-quila a due teste e vengono da fronti sconosciuti aifanti del Piave: Ucraina, Polonia, Montenegro.Orizzonti scorticati dal vento e dalla neve.

Sono loro, i triestini, i goriziani e gli istriani, queisoldati “un po’ così” che furono sudditi dell’Impe-ro d’Austria fino al ’18, e ora rientrano a battaglio-ni da cimiteri ignoti, armata perduta senza fanfa-re, con la forza di una memoria che riemerge dopouna rimozione troppo lunga. Tornano su una va-langa di documenti inediti, messaggi di parenti,fotografie sbiadite, diari, registrazioni, lettere dat-tiloscritte o calligrafate, cartoline d’epoca, cimeli,

■ 31DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

ghi di un secolo di italianità», sorride la studiosaMarina Rossi. I palazzi sul fronte mare sono al no-vanta per cento viennesi. E poi c’è il calendario, l’e-catombe che inizia un anno prima, nel ’14.

«Grazie, grazie che mi ha permesso per la primavolta di ricordare mio padre» dice commosso unottantenne al telefono di Livio Missio, il giornali-sta incaricato di smaltire quella montagna di do-cumenti. «Molti — racconta Missio — sono venu-ti di persona e hanno pianto di commozione». Il re-gista Franco Però sente «il sollievo di una città cherespira, si libera e recupera il tempo perduto», e ve-de nella freschezza di quegli inediti un grande te-sto teatrale in potenza. Roberto Todero, che da an-

ni fruga nelle trincee del Carso, dell’Isonzo e dellalontana Ucraina, ha già fatto il pieno di adesioniper un pellegrinaggio ai cimiteri dimenticati deiCarpazi. C’è un ritardo da recuperare, perchéTrento è più avanti. È da anni che la provincia sul-l’Adige si prepara senza reticenze alle celebrazio-ni: ricorda l’impiccagione di Cesare Battisti, macensisce i morti di parte opposta con l’aiuto dei re-gistri viennesi, delle anagrafi e delle parrocchie su-balpine. A Trieste il risveglio è più tardivo. Troppoa lungo il teorema della città-bastione contro i bar-bari è stato strumento di scontro politico e ha ri-tardato la riconciliazione di Trieste con se stessa.«Fino a ieri — racconta Todero — l’Austria era evo-

cata solo come barzelletta o marcette militari se-miserie», mentre i soldati triestini erano degrada-ti a polentoni, e chi ne celebrava la memoria deri-so come ridicolo austriacante.

Con la storia in ostaggio, i musei cittadini —quello della marineria in prima fila — sono rima-sti elusivi pur di non testimoniare glorie palese-mente non italiane. La Venezia Giulia dice poco disé: non sbandiera di aver inventato l’elica navale ol’esplorazione artica con largo anticipo sui norve-gesi; non dice che qui l’aviazione mondiale hacompiuto passi decisivi nel primo Novecento. Re-sistono, in compenso, falsi storici come il Leone diSan Marco appiccicato dal Fascio al castello di unacittà che fu sempre avversaria di Venezia.

Da una mostra nel piccolo museo di Tarnova sulCarso emergono foto inedite di un mondo pre-bellico e felice. La stazione di Aurisina, bivio fraTrieste e Lubiana oggi dimenticato da Trenitalia,si mostra nereggiante di personale e con ristoran-ti di lusso sotto un ombrello in ferro stile Torre Ei-fel. Ed ecco alberghi e ristoranti popolati di nobiliviennesi o ricchi cecoslovacchi; belle ungheresi inveletta portate a cavallo da stallieri serbo-croati. Epoi le cave di marmo, con più di tremila addetti efiliali a Londra, Calcutta, Alessandria d’Egitto. «Ilpresidente Napolitano ci ha esortato a rileggere lastoria» dice il promotore Joze Skerk, «e noi lo ab-biamo ascoltato».

In un tripudio di eroi italiani in bronzo e pietraattorno a San Giusto oggi a Trieste c’è solo una pic-cola lapide ai Caduti in divisa austriaca, messaquasi “in castigo” sul retro del castello. Pochissimi,tra cui gli Alpini, vi depongono corone d’alloro. Ilresto è silenzio. Un silenzio che sembra ritorcersisui vincitori, persino sui ragazzi di Redipuglia o diOslavia, i cui sacrari versano in stato di scandalo-so abbandono. Nel più grande cimitero di guerrad’Italia cammini tra erbacce e pietre sconnesse super scalinate dove il vento fa da padrone.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

“Il secondo da sinistraè mio nonnoResinovic Francesco,inviò questa cartolinadal fronte alla mogliee ai 4 figli, l’ultimo avevasolo 2 anni quando nel 1915a 42 anni fu dichiaratodisperso in Russia”

“Pola, agosto 1914. Seduto: zio Attiliodetto Nini Crozzoni. In piedi a sin: Javerìo Crozzo

dagli amici detto Selìn. Citava spessoin tedesco il suo numero di matricola

In casa raccontava delle disavventuredi alcuni triestini che erano andati in Galizia

(a uno avevano tagliato le braccia...)È stato un padre molto amato”

“Un bel ragazzo, mio zio,arruolato nell’esercitodi sua maestàFrancesco GiuseppeEra però di nazionalitàslovenaAvrà certamenteconsiderato l’Austriacome sua patria, ma dove,lui che si consideravasloveno, poteva frequentarele scuole sloveneA differenza dei ragazziniche con l’annessionedi questi territori dovetteroimmediatamente passarealle scuole italiane”

Resinovic Francesco

“Al fronte aveva sempre fame. Un mattinoscorge un altro militare che gli sembra di conoscere. Si accorge essere niente menoche suo padre, che non vedeva da anni,militare di carriera. Felice e pregustandola soluzione di tutti i suoi problemi, gli correincontro ma quello lo fermò e in tedesco gli intimò: “Soldato, attenti”. Toni capì subitoche non c’era altro da fare che ubbidireSolo in serata si salutarono veramenteCose d’altri tempi, dei tempi dell’Austria”

Toni “Bombardier”

Ivancich

Javerio Crozzo “Selìn”

“Mi hanno salvato il tempo, il teatro e i vecchi amici”

confessa la star concedendosiin questa rara intervista

“Ma sia chiaro: è solo perchésta per uscire un mio film”

Vengo dalla strada, dal Bronxe la mia infanzia è statatutto un inseguirsi sui tettiIl Bronx era il paradiso dei tetti

‘‘Io sono un uomo divertenteNasco come attore comicoÈ tutta colpa del “Padrino”se la gente pensa il contrario

‘‘

LA DOMENICA■ 32DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

LOS ANGELES

Una star al di sopra del bene e del male o, piùsemplicemente, un uomo trasandato? Hale unghie nerastre, la giacca di cuoio lisa el’aria un po’ sciatta. Eppure quel tipo at-

taccato al cellulare nel Four Seasons di Los Angeles, cuoredi Beverly Hills, è Al Pacino. Indigente, quindi, no di sicu-ro. Star indiscutibile, una delle più grandi della sua gene-razione. Bohémiensempre, e ancor di più adesso, con queicapelli che sembrano non vedere un pettine da anni e chesicuramente cercano di coprire la calvizie, ultimo tentati-vo di conservare quell’aria di gioventù disinvolta che i suoisettantatré anni si sono lasciati indietro.

I suoi discorsi sono infarciti di citazioni. Perché Al Paci-no, figlio del Bronx e del dopoguerra, è soprattutto un at-tore che nasconde la sua timidezza dietro le parole altrui.Lì trova rifugio dalla fama che lo ha perseguitato suo mal-grado per tutta la vita. Perché uno non può interpretare Ilpadrino, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Serpico oProfumo di donna e passare inosservato. Non ama le in-terviste e di solito fa di tutto per evitarle, ma oggi è di umo-re allegro. Il suo ultimo lavoro, un film piccolo e quasi in-dipendente intitolato Stand Up Guys (in Italia uscirà inagosto, ndr), lo diverte tanto da portare sul petto il tatuag-gio del suo personaggio, una testa di leone che affiora sot-to le catenine con crocifissi. Oggi Pacino ha voglia di par-lare, di raccontare le cose che ha vissuto, e il suo ultimo la-voro è la scusa migliore per gettare anche uno sguardo in-dietro, su una vita intera. «È vero, non amo le interviste, main questo caso mi fa piacere. Però mi raccomando: come ilmio tatuaggio, niente è permanente».

Che cos’ha di tanto speciale Stand Up Guys da averlaspinta a tornare al cinema?

«Non saprei risponderle con esattezza. Dicono che cer-ti ruoli sono il tuo centro di gravità, il tuo timone. E poi, sepure mi sono dimenticato di tutto quello che ho fatto pri-ma, sono ormai abituato a leggere copioni. E il ritmo diquesta storia di persone, la sua autenticità… insomma, èfacile che un attore come me si innamori di un’opera delgenere».

Facciamo un salto indietro. Cosa hanno avuto gli anniSettanta che oggi non c’è? Furono davvero migliori o è so-lo nostalgia?

«Me lo chiedo anch’io. Furono fantastici o siamo sol-tanto dei nostalgici sentimentali? È faci-le pensare che il passato sia migliore, maè indubbio anche che esistono momen-ti in cui confluiscono fattori che propi-ziano la nascita di qualcosa di nuovo. Egli anni Settanta furono una rinascita,successero cose su cui si sono versati fiu-mi di inchiostro. Io ho avuto la fortuna diesserci, e di prendere parte a un paio difilm di quelli che hanno cambiato tutto.Quello che facevamo nel cinema, dareuna visione sociopolitica del nostromondo, o come la vuoi chiamare, oggi si fa in televisione.O sulla stampa. Allora eravamo noi al centro degli eventi».

Era consapevole del momento che stava vivendo?«Probabilmente sì. Mi ricordo quando abbiamo girato

Quel pomeriggio di un giorno da cani. Sentivamo tutti cheera l’inizio di qualcosa. Ricorda la scena del ragazzo dellepizze, il circo mediatico che lo circonda e lui che esce di-cendo quella battuta, “Sono una star”? In quel momentoSydney Lumet si avvicinò e mi disse all’orecchio: “Ci sfug-ge dalle mani. Ci scappa via”. Sì, la vedevamo meglio dichiunque altro la smania di essere famosi anche solo perun minuto, l’invasione dei mezzi di comunicazione. Lo ve-devamo con chiarezza perché lo stavamo vivendo».

Lumet le fece ottenere la prima candidatura all’Oscarcon Serpico, ma prima ci fu Il padrino, che la mise sotto iriflettori anche se gli studios non avevano fiducia in lei, alcontrario di Francis Ford Coppola.

«Come dico di solito, mi piace il rischio ma non il suici-dio. Per questo mi prendo rischi con registi esordienti, per-ché per me chi fa cinema è il regista. È la figura più impor-

SpettacoliAnni Settanta più tre

tante. Puoi avere bravi attori, puoi avere un buon copione,ma alla fine quello che conta è la mano del regista. E a mepiace capitare con i migliori».

Spesso e volentieri torna al teatro. Che cosa le dà il pal-coscenico che non può trovare nel cinema?

«Probabilmente lo faccio perché è lì che ho cominciato:in teatro. Mi sento più libero, più vicino a quell’ambiente,e alla fin fine mi dà un piacere maggiore al momento diesprimermi. È solo un po’ più stancante. Insomma, sì, unbel po’ più stancante. Sei sempre sul filo del rasoio, ma titiene la mente occupata.Il mercante di Veneziaè stato par-ticolarmente sfiancante. Avevo già girato il film, poi l’ho in-terpretato a Central Park, e poi a Broadway. Proprio comeun tempo, quando gli attori interpretavano due o tre per-sonaggi e li ripetevano spesso e volentieri nel corso dellaloro carriera. Anzi, diventavano famosi proprio per la lorointerpretazione di quel ruolo. Mi è sempre piaciuta que-st’idea, ed è uno dei grandi vantaggi del teatro: più inter-preti una parte, più la rendi interessante. Mentre a Hol-lywood tutto va sempre di corsa, non c’è mai tempo».

Però il film con cui finalmente riuscì a vincere l’Oscarfu una commedia e non un dramma: Profumo di donna.

«Credo di essere una persona divertente. Lo spero al-meno. Cominciai come comico, fu dopo che rimasi in-trappolato nel dramma. Colpa del mio personaggio nelPadrino, che si è imposto su tutti gli altri ruoli della mia car-riera, sul modo in cui mi ha visto il pubblico o l’industriadel cinema da quel momento in poi. Ma io continuo a pen-sare di essere un tipo divertente. Guardi De Niro. In que-sta seconda parte della sua carriera si è reinventato comeattore comico. È una cosa incredibile e che succede rara-mente, ma è molto interessante».

E la pensione? Le passa mai per la testa di andarsene inpensione? Un po’ di anni fa, dopo Revolution, per un cer-to periodo prese le distanze da Hollywood.

«Quel film segnò un momento interessante nella mia vi-

ta. Avevo rotto con una persona che amavo e mi attirò l’i-dea di un film che parlasse di sopravvivenza. Fu un tale fia-sco! Non è che mi ritirai, ma mi sentivo deluso dall’indu-stria cinematografica. Però ero troppo giovane per la pen-sione».

E ora? Che cos’è che tiene viva la fiamma della recita-zione?

«Me lo domando anch’io. Parafrasando Oscar Wilde,ogni volta che ci penso mi siedo e aspetto che mi passi. Pro-babilmente mi piace vedermi nel contesto che rende pos-sibile una buona interpretazione. Quanto alla pensione,non so che cosa significhi questa parola. Ritirarmi? E per-ché? Se un lavoro mi interessa, perché non farlo? Anche seè vero che faccio sempre più fatica a trovare lavori che miinteressino».

Al Pacino è uno dei più illustri esponenti del metodoStanislavskij. Lui non è né una bella faccia né un gioco dabambini. Però la sua iniziazione fu questa, una facezia dabambino per scappare da una famiglia a pezzi, con suo pa-dre che era andato via; per fuggire da una casa con troppagente, divisa con i nonni, la madre e qualche altro paren-te, e come via d’uscita da un carattere timido e solitario. Fuil film Giorni perduti di Billy Wilder, che vide un giorno alcinema con sua madre, a catturare la sua attenzione, e fula sua imitazione di un Ray Milland ubriaco che gli fruttòun pubblico e – anni dopo – una carriera.

Che cosa ricorda della sua infanzia, ovvero di AlfredoJames prima che diventasse Al Pacino?

«Io vengo dalla strada, dal Bronx, e la mia infanzia è sem-pre stata un’avventura. Un miscuglio di Tom Sawyer,Huckleberry Finn e uno stile di vita uscito da un romanzodi Dickens. Passavamo il tempo a inseguirci per i tetti. Aquell’epoca il Bronx era il paradiso dei tetti, territorio ver-gine e mescolanza di lingue e cultura. Dovevo sentirmimolto sicuro di me, perché facevamo dei salti di distanzaconsiderevole. Ma preferisco non parlare dei miei ricordi,mi sembrerebbe di stare sul divano del mio analista».

Con gli anni l’ego scompare?«C’è una grande differenza fra l’avere successo e l’esse-

re famoso. Nella Bibbia non si dice che il denaro è la radi-ce di tutti i mali, ma che l’amore per il denaro è la radice di

ROCÌO AYUSO

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tutti i mali. C’è una differenza. Io non ho mai creduto allafama. Al contrario, ne sono fuggito. In seguito ho impara-to ad accettarla, un processo che richiede anni. O che ha ri-chiesto anni a me, perché ora è diverso da quando comin-ciai. Ora la fama è qualcosa di accettabile. La gente vuoleessere famosa anche per nessun motivo, che per me è co-me mettere il carro davanti ai buoi. Ma nel mio caso la fa-ma era un onere, una pressione che mi impediva di tirarefuori il meglio da me, di liberare la mia recitazione, perchédovevo rispondere a quell’immagine artefatta di me cheportava il nome di Pacino».

Marlon Brando parlava negli stessi termini, ma sem-bra che non sia mai riuscito a superare il peso del suo no-me. Qual è stato il suo rimedio?

«Il tempo, il teatro, gli amici. Brando non è mai tornatoal teatro. Io ho sempre potuto contare intorno a me su per-sone di cui mi posso fidare. Sento questa vicinanza. Ancheil teatro è stato importante, perché quando lavori su unpalcoscenico si crea un legame più difficile da ottenere suun set cinematografico. E anche l’infanzia è stata impor-tante, per una cosa che mi piacerebbe che avessero i mieifigli, quel giro di amicizie di strada che cresce insieme a te.Senza i miei amici oggi non sarei seduto qui, sarei quel per-fetto cliché di alcol e droga che è tristemente reale».

A quali amici in particolare si riferisce?«Al mio grande amico Charlie Laughton, che purtroppo

si ammalò di sclerosi multipla e visse gli ultimi anni dellasua vita paralizzato. Gli scrissi tutti i giorni e resta nel miocuore. A Francis Ford Coppola, al quale ogni volta che pas-so dalle sue parti telefono per incontrarci. A Sydney Lumet.Lo amo, avevamo un rapporto speciale. Lo vidi poco pri-ma che morisse: mi misi seduto con lui e parlammo. E an-che ai miei compagni di bisbocce. O a gente con cui avreipotuto sposarmi e con cui ora sono in rapporti di amicizia.“Non è amore l’amore che cambia quando un cambia-mento incontra, o che si adatta alla distanza distanzian-dosi” (Shakespeare, ndr)».

Non mi ha detto niente riguardo al successo.«Il successo è relativo, come tutto. Bukowski diceva che

il denaro è magico, perché non lo vedi mai, ma puoi usar-lo per pagare. Un miracolo. Il successo è fantastico. La co-sa brutta è che si accompagna e si confonde con la fama.Ma, come diceva Lawrence Olivier, qual è la cosa più belladella recitazione? “Il bicchiere che mi bevo quando finiscela finzione”».

Gli anni pesano?«Chiaro. Ma dopo lo shock iniziale, una ventina d’anni

fa, cominci ad abituarti e non significanopiù nulla. Non mi vedo diverso per il mo-do in cui parlo. Energie? Finché ne ho tut-to va bene. Forse mi sbaglio. Sette anni facorrevo coi miei figli sulle spalle, ora nonriuscirei a farlo neanche se avessero dueo tre anni. Al parco mi chiedo continua-mente perché gli alberi vanno più lenti.Che sta succedendo agli alberi?».

Ha letto la biografia della sua ex com-pagna, Diane Keaton?

«So del libro, ma ovviamente non l’holetto… Non mi decido a farlo. Però ho sentito cose buonee ho sentito che mi tratta bene. Ho sempre pensato che erauna ragazza straordinaria e questa è la conferma, no? Mipiacciono le biografie. Qui con me ho quella di Edward Ro-binson, e sto leggendo anche quella di Richard Burton. Hoavuto il piacere di conoscerlo. È stata una persona che hoammirato tanto, come Marlon Brando. Lo vidi in Camelotche era già anziano, e mi disse che gli sarebbe piaciuto par-lare con me un giorno, e di lasciargli il mio numero di te-lefono. E io ero talmente nervoso che invece del mio nu-mero di telefono gli scarabocchiai un autografo: “Con af-fetto, Al Pacino”».

Ha mai pensato di scrivere la sua biografia?«Finché potrò continuare a esprimermi con il mio lavo-

ro, a che scopo? Preferisco continuare a raccontare le miestorie così. Sono una persona fortunata e non voglio rovi-narmi il ballo».

© El Pais Semanal 2013 (Traduzione di Fabio Galimberti)

“Quelli come menonvannoin pensione”

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I PERSONAGGI

Degli anni non mi frega nientePerò al parco gli alberimi sembrano ogni giorno più lentiChe diavolo gli sta succedendo?

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■ 33DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

1972 Michael Corleone ne Il Padrino

1993 Frank Slade in Profumo di donna

1983Tony Montana in Scarface

1973 Frank Serpico in Serpico

2004 Shylock ne Il mercante di Venezia

2013Val in Stand up guys

1993 Carlito Brigante in Carlito’s way

LA DOMENICA■ 34DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

NextExtralarge

Se ne avete abbastanza delle stam-panti 3D e dei piccoli oggetti cheescono fuori in qualche modo daquesti strani strumenti, la storia chestiamo per raccontare è fatta pervoi. Perché qui non parliamo più di

stampare fischietti, giocattolini, bicchieri, vio-lini o altre cose simili: non è più una novità. Par-liamo invece di stampare vere automobili, veriaereoplani, vere barriere coralline e vere case.Parliamo delle maxi stampanti 3D e di come laloro improvvisa ascesa, in Cina e negli Stati Uni-ti, non modifica soltanto il modo in cui d’ora inpoi si potranno fare le cose. Ma modifica le co-se stesse: la loro forma, il peso, la resistenza.Stampare una casa infatti non vuol dire fare lastessa casa che si faceva prima. Vuol dire co-struire, fisicamente ma anche esteticamente,un altro mondo, proprio come questa storiasembra arrivare da una galassia lontana e inve-ce è iniziata in Italia, in provincia di Pisa. A Bien-tina, vicino a Pontedera per la precisione.

Qui Enrico Dini nel 2009 ha realizzato unamega stampante 3D in un anno in cui del feno-meno dell’additive manufacturing non parlavaquasi nessuno. Ma Dini è l’archetipo dell’in-ventore come lo vedevamo nei fumetti: laureain ingegneria, un passato nell’industria calza-turiera dove si era segnalato per alcuni brevettiutili ma non memorabili come “il levastivali” e“il siliconatore di suole”, a 45 anni a Dini era ri-

masto il sogno di quando era bambino. Ovverofare castelli di sabbia. E così aveva fondato laDShape mettendosi a produrre manufatti spa-rando dagli ugelli un composto di sabbia e clo-ruri da lui stesso mirabilmente accroccato. InItalia naturalmente non se lo fila nessuno: loscoprono a Londra, prima il Financial Times loincorona come “lo stampatore di case”, poi l’ar-chistar Norman Foster accetta di parteciparecon DShape a un bando dell’Agenzia SpazialeEuropea per stampare case sulla Luna, nel casodi una improbabile colonizzazione. Il prototipoin scala di una casa lunare viene esposto a Tori-no nel 2011 in occasione delle celebrazioni peri 150 anni dell’unità d’Italia, ma ancora una vol-ta nessuno prende sul serio Dini e l’idea che conle stampanti 3D si possa fare altro che piccoli

oggetti. Sono passati due anni e il mondo è cam-biato. Tre mesi fa, per esempio, Jim Kor, un bar-buto ingegnere americano che ha al suo attivola progettazione di trattori e autobus, ha pre-sentato la Urbee2. Ha tre ruote, ospita due pas-seggeri ed è la prima vettura prodotta da unastampante 3D: «Resistente come l’acciaio, pe-sa la metà ed è pronta per andare in commer-cio» ha detto fiero l’ingegner Kor. Come ha fat-to? Ha progettato l’auto al computer, ha spedi-to il progetto a un centro che affitta stampanti3D e ha aspettato che il materiale utilizzato, nonsolo plastica, si indurisse secondo una tecnicachiamata Fused Deposition Modeling. Ci sonovolute 2500 ore per stampare i 50 pezzi di cui èfatta Urbee2. È sicura? «Vogliamo che passi i te-st di sicurezza per partecipare alle gare di Le

Mans» ha detto Kor, che ha già ricevuto i primiordini e pianifica un giro degli Usa battendo ilrecord di consumo di carburante.

Può sembrare folklore rispetto a certe notizieche arrivano dalla Cina. Ad Haidian, per esem-pio, un distretto di Pechino, c’è un fabbrica sen-za operai: al lavoro ci sono solo otto grandistampanti 3D. Si chiama AFS, che sta per Auto-mated Fabrication System: se serve un prototi-po di aereo o di automobile, in due settimane lostampano (contro i due mesi di un metodo tra-dizionale). Ma la stampante più grande, dodicimetri, sta nei Laboratori nazionali per aeronau-tica e astronautica della Beihang University. Se-condo quanto emerso recentemente in un se-minario, è qui che il governo cinese punta percompetere un giorno con i colossi della aviazio-

Non solo tazze e violini, grazie all’“additivemanifacturing” oggi si possono creare dal nullaanche scogliere e colline. Una tecnologiache ci obbliga a ripensare il nostromodo di costruire.E ci permette di sognarein grande. Molto grande

Scusi, mi stampa una casa?

BUNGALOWUn’abitazionemonobloccostampatadalla DShapedi Enrico Dini(come gli altriesempiaccanto)

CORALLOUna partedi barrieracorallinaIl progettoEmergentReefverrà testatoin Bahrein

CASAAlcunicomponentidi una casache sarannoassemblatiin un secondomomentosul posto

ESEMPI

RICCARDO LUNA

■ 35DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

Processodi realizzazionedi oggetti soliditridimensionalidi qualsiasi formapartendoda un modellodigitale

3Dprinting

GLO

SSA

RIO

ne commerciale Airbus e Boeing. Per riuscirciquesta mega stampante 3D usa titanio e ac-ciaio, ma pare che non abbiano ancora risoltoil problema di controllare la cristallizzazionedei metalli dopo che sono stati fusi da un laser.

Intanto anche Dini è andato avanti. Ha gira-to il mondo per trovare interlocutori. E ci è riu-scito. Grazie alla collaborazione con i designerdi Co-De-It e Disguincio, ha varato il progettoEmergent Reef, per realizzare moduli per il re-stauro costiero e il ripopolamento ittico (test incorso in Bahrein e in Australia; concorso vintoper il recupero dei pali del molo di New York; inattesa di risposta da Savona e dall’Argentario);sta lavorando per stampare le montagne di unparco divertimenti in Cina; sta negoziando conun paese arabo la stampa di alberi di pietra in

modo da fare ombra nel deserto; ed è pronto apartire con la prima casa stampata. A Rotter-dam, in Olanda. La sua DShape adesso ha uffi-ci in quattro continenti, collaborazioni avviatecon una dozzina di università e lui, l’ex inven-tore pazzo, è diventato una autorità in materia.Non solo non c’è studente di architettura chenon ne abbia sentito parlare, ma qualche setti-mana fa a New York è stato accolto come unastar alla prima grande expo delle stampanti 3De in Olanda gli hanno dedicato un documenta-rio: The Man Who Prints Houses. Il suo obietti-vo adesso naturalmente è farne un business, in-tanto per rientrare degli investimenti. Ma nonsolo. Lui parla sempre di rivoluzionare l’archi-tettura per trasformarla in archinatura. E se ilconcetto sembra strambo assai, dice, pensateal Grand Canyon o alle rocce sarde, alla gran-diosa meraviglia che ci ispira qualcosa che èstato modellato dalla natura e non dal piccone.«È questo che cerco di applicare a DShape. Hofinalmente lo strumento per esprimere il lin-guaggio della natura. Gli algoritmi». Si chiamadesign computazionale e non è una sua inven-zione, ma in questo caso funziona al contrario.La natura infatti modella, in millenni di anni,scavando rocce e canyon; la stampante 3D diEnrico Dini modella, in decine di ore, aggiun-gendo strati di sabbia fino ad arrivare all’erageologica giusta. Per questo a Bientina non c’èsolo il cantiere di un sognatore: c’è una mac-china del tempo.

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È la versioneindustrialedel 3D printingMenopubblicizzatama con un impattonotevolmentesuperiore

Additivemanufacturing

Consentedi progettareoggetti in basead algoritmiche riduconol’errore e semplificanoi processi

Designcomputazionale

Sistemadi costruzioneche permettedi ridurreconsiderevolmentei tempi necessaricoi metoditradizionali

Rapidbuilding

FDM: tecnologiadi produzioneadditiva basatasul rilascioa stratidi un filamentoplastico o un filometallico

Fused depositionmodel

DALLA ROCCIA ALLA CASALe fasi della progettazionedi una casa ispirataa una roccia: da sinistra,si parte dal modello realeper poi disegnare digitalmenteprima la sezione, poi la strutturanel suo complessoSotto il progetto completo

BASE LUNAREL’architettoFosterha progettatouna basestampabile,nel caso,direttamentesulla Luna

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LA DOMENICA■ 36DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

Lo conosciamo da poco, e ancora lo associamo alla colazione del mattino. Mentre dal Nord Europa ai Caraibi passando per Balcani e Medio Oriente il mondo abbonda di ricette che lo utilizzanocome ingrediente base. Eccone alcune

I saporiEsotici

Vade retro marmellata. E anche frutta, cereali zuccherati,miele, sciroppi e qualsivoglia minutaglia dolce, chips dicioccolata comprese, ovvero tutto quello che si aggiungeallo yogurt per promuoverlo da bicchierino acidulo a cre-mosa golosità. Una prigione glicemica a cui non si sottrag-gono nemmeno i prodotti che la pubblicità ci racconta co-

me panacea di quasi tutti i piccoli guai fisici connessi a età, sesso, stili di vi-ta: un quid di dolce non si nega a nessuno, naturale o artificiale che sia.

Siamo così abituati a pensare lo yogurt solamente formato en travesti,da considerarlo poco o nulla nella sua dimensione nature, lontano daitrucchi dei bar-pasticcerie e dagli incantamenti degli spot, dismessi final-mente i panni di supporto ruffiano a colazioni più o meno salutiste per as-surgere a ingrediente puro della cucina salata. Non siamo tipi da yogurt, oalmeno non lo siamo stati per lungo tempo, confinandolo nella prima par-

te della giornata. Al contrario, in mezzo mondo (abbondante) le ricette chelo utilizzano come elemento fondante sono migliaia, trasversali a menù,tipologie, stili gastronomici, perfino continenti, dalle zuppe acide delNord Europa alle cotture caraibiche. È la cucina tradizionale italiana adaver marcato la differenza, preferendo a lungo il precario bilico di gustodell’agrodolce o l’acidità scoperta, ma profumata e sensuale, dei limoni diSorrento e di quelli isolani, fino alla scontrosa grazia dell’aceto di vino (an-ch’esso sempre più virato agli accenti morbidi di lamponi&affini).

Abbiamo imparato le delizie dell’altro yogurt negli ultimi anni, grazie al-le cucine del mondo, arrivate fin qui insieme aturisti e migranti: una sorta di escalation di no-te acidule figlie di culture alimentari differen-ti, eppure egualmente sensibili ai guizzi di fre-schezza nei piatti, dal latte acido al kefir, mo-dulati secondo le virtù degli animali di prove-nienza: mucca, capra, pecora... Gli indiani,per esempio, si dividono tra appassionati dibirra e cultori del lassi, bevanda rinfrescante abase di latte fermentato non dolce. I russi cicondiscono le verdure, accendendo il saporeche le bolliture (ma anche il poco sole delle

coltivazioni) deprimono. Le preparazioni di carni alla griglia di Grecia, Bal-cani e Medio Oriente hanno nella salsa a base di yogurt, abbinato con men-ta o cetriolo, il corrispettivo sano e stuzzicante di ketchup e maionese. Ifrancesi, che amano perdutamente latte e latticini, meglio se nella versio-ne più sontuosa, sostituiscono lo yogurt con la sua sorella grassa, se è veroche la crème fraîche si ottiene da panna non pastorizzata addizionata dilactobacilli e termizzata alla fine del processo di acidificazione.

In caso vi siate invaghiti di ricette salate con lo yogurt, una gita dolomi-tica tra Varna — dove opera Hansi Baumgartner, eccellente selezionatoredi latticini — e Vipiteno (sede di una virtuosissima latteria sociale) vi per-metterà di scoprire tutta la magia del latte di pascolo fermentato. Gli aman-ti della crème fraîche formato casalingo se la caveranno aggiungendoneuna cucchiaiata alla panna montata, bilancia permettendo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Fermentimolto più vivi

OkroshkaMinestra di verdure,

con salsa a base di tuorli sodi, senape,

yogurt, acqua gassataAggiungere

i bianchi tritati e servire fredda

KeftaPolpette di carned’agnello impastatacon noce moscata,cumino, paprika,cannella. A parte, salsa di yogurt e mentafresca tritata

TzatzikiPer la salsa acidula

che accompagna le carni allo spiedo

(gyros), yogurt grecomescolato con olio,

e poi limone, aglio e cetriolo

LICIA GRANELLO

salatoYogurt

Pollo biryaniPetto di pollo a fettine,spadellato nel soffritto di zenzero e scalogno,insaporito con spezie,uvetta e yogurt, Portato a cottura con riso Basmati

KartoffelsalatPatate novelle bollite,

condite con una crema a base di yogurt,

cipolla, erba cipollina,senape, sale grosso,

pepe bianco e un poco di zucchero

LA ZUPPA Zuppa di cetriolo con noci, pane e yogurt LA VERDURA Melanzana ripiena con yogurt

■ 37DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

LA RICETTA

Ingredienti per 4 persone800 gr. di salmerino sfilettato50 gr. di yogurt greco amalgamato con radice di rafano150 gr. di cavolo cappuccio tagliato sottilissimo2 cucchiai di aceto di mele passato in legno500 gr. di sale grosso500 gr. di zucchero4 bacche di ginepro7 grani di pepe bianco macinati insieme1 buccia d’arancia bio un pezzetto di zenzero fresco grattugiatiuna foglia di alloro spezzettataSale, pepe, extra vergine d'oliva delicato (ligure o del Garda)

Mescolare sale, zucchero, arancia, zenzero, spezie e alloroAdagiare su circa un quarto della marinata il salmerino,ricoprirlo con la parte restante Far riposare per un paio d’ore, risciacquare sotto l’acquafredda, asciugare, tagliare in quattroSpennellare di extravergine e infornare 10 minuti a 80 gradiSpadellare il cavolo con un filo d’olio, aggiustare di sale,aggiungere l’aceto e far caramellare per 2 minutiServire, appoggiando sui singoli piatti i filetti di salmerino, le striscioline di cavolo, lo yogurt a cucchiaini e decorando con briciole di scorza grattugiata

A Sappada,Fabrizia Meroigestisce con il maritoRoberto il “Laite”,ristorante dove i sapori vengono declinaticon sapienza,come nella ricettaideata per i lettoridi Repubblica

Salmerino marinato alle spezie,yogurt al rafano e cavolo cappuccio

SchweinelendeMele e prugne secche macerate nel Cognac, per intridere il rotolo di lonza da infornare Il fondo della cottura deve essere tirato con yogurt e zenzero

MantiRavioli di carne tritata

con cipolla,prezzemolo e pepe

Dopo la bollitura, condire con yogurtprofumato all’aglio

e salsa di pomodoro

GazpachoZuppa estiva a base di cetrioli,pomodori, peperoni,sedano, cipollotto,basilico, pane raffermo e peperoncino. A côté,extravergine e yogurt

LabnehYogurt salato,

colato in un panno e composto in palline,fatte riposare in frigo,

avvolte in un trito di erbe aromatiche

e servite con crackers

Il mio amico e tassista di riferimento, Abu Shain, palestinese con passaportoisraeliano, diceva che il vero labneh è quello che fanno i beduini, con il lattedi capra, quando, all’inizio della bella stagione, dopo aver risalito il wadi

Aravà, piantano le loro tende sulle gobbe del deserto della Giudea, a metà stra-da tra Gerusalemme e il Mar Morto. Per lui, andare a comprare il «vero Labneh»era una sorta di pellegrinaggio.

La famiglia beduina di Mahmud, che una volta siamo andati a visitare insie-me, era composta, all’apparenza, di maschi e di bambini; invisibili ai visitatori,le donne adulte erano riunite in un’altra tenda. Mahmud, il pastore, ci ha fattoaccomodare sulla stuoia, ha versato il tè dolce e caldo nei bicchieri e da un pic-colo barile di legno ha cominciato a estrarre con un mestolo le candide pallinedi labneh immerse nell’olio. Poi le ha schiacciate con le dita in un recipiente daibordi alti, formando una piccola conca di formaggio e vi ha versato dentro olioe foglie di menta. A parte, ha composto un piatto con l’accompagnamento diogni colazione araba, cipolla tagliata a fette, ravanelli, olive verdi, cetrioli, altramenta. Voleva che prima di tutto, assaggiassimo il labneh. Poi, prima di riparti-re, Mahmud ci ha mostrato il suo piccolo laboratorio dove il latte, raccolto nel-le pelli di capra, era messo a filtrare per liberarlo della sua parte acquosa. Unatecnica antica appresa dal padre il quale, a sua volta, l’aveva ereditata dagli avi.

Alcuni anni dopo, a Beirut ho visto il labneh industriale, fatto con latte di muc-ca, trionfare sulle tavole libanesi: con un profumo di zatar (timo), con il miele,come dessert, con una sfumatura di aglio. Ma Abu Shain aveva ragione: quellodi Mahmud, sotto la tenda di ruvido sacco resta imbattibile.

Un labneh nel desertoSulla strada

ALBERTO STABILE

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Gli indirizzi

TORINOLA TAVERNA GRECAVia Monginevro 29Tel. 011-337334

MILANOMYTHOSVia Quadrio 23Tel. 02-29001851

GENOVABOMBAY PALACE Via Caffa 7/RTel. 010-3106190

BOLOGNARISTORANTE INDIAVia Nazario Sauro 14/ATel. 051-271095

FIRENZELA VALLE DEI CEDRIBorgo Santa Croce 11Tel. 055-2346340

ROMAIPPOKRATESVia Piave 30 Tel. 06-64824179

NAPOLIKOSAZKA SABAVAVia Generale Carrascosa 11Tel. 08-3417578

BARIYANNISVia Re Manfredi 22Tel. 080-5283094

PALERMOTAJ MAHALViale Praga 41Tel. 091-513610

CAGLIARIARISSAVia D'Arborea 29Tel. 070-658416

Ensalada de remolacha

Barbabietole lessate,tagliate a dadini, condite

con zucchero, aceto, sale, pepe, erba cipollina,

uova sode a fettine, yogurt e formaggio fresco LA CARNE Spiedini di agnello, zucchine, cipolla e salsa di yogurt

LA DOMENICA■ 38DOMENICA 19 MAGGIO 2013

la Repubblica

Con la Socìetas Raffaello Sanzio firmada trent’anni spettacoli che sfidanoil senso comune. Da Tokyo a Parigi

è incoronato maestro del teatro contemporaneoE mentre sta per riceveredalla Biennale di Veneziail Leone d’Oroalla carriera,l’Italia lo consideraancora un autore off:

“Ho sempre la valigiapronta, mi sentocome fossi in esilio”

PARIGI

Lo lodano a Berlino, Bruxel-les, Vienna. Il sovrinten-dente Lissner lo ha già pre-notato per il 2018 all’Ope-

ra di Parigi con due titoli in cartellone.Da Amsterdam a Tokyo, è stato incoro-nato come uno dei registi teatrali piùimportanti. E questo dovrebbe garan-tirlo in termini di successo, fama, popo-larità. Soprattutto dovrebbe suggerireche Romeo Castellucci è un maestro delteatro contemporaneo a chi ancora logiudica stravagante, indecifrabile. Spe-cie in Italia dove da vent’anni non met-te piede in un teatro “ufficiale”, dovecontinua a essere considerato un arti-sta off che costringe al pensiero, all’at-tenzione, dunque astruso, e dove perfi-no la recente notizia del Leone d’Oro al-la carriera della Biennale di Venezia hasuscitato sorprese. E a pensarci fa im-pressione: non tanto per lui, timido e ri-servato regista cinquantatreenne, cheda più di trent’anni con la sua compa-gnia, la Socìetas Raffaello Sanzio, firmalavori (Amleto, Genesi, Tragedia Endo-gonidia, Divina Commedia...), macchi-ne stupefacenti di sottile violenza alsenso comune, di oscurità, magia, nonoffuscate dalla spettacolarità volgare,fa impressione per l’Italia. «L’Italia? Ilmio sentimento è quello di chi vive inesilio. Se fossi francese mi avrebbero af-fidato un teatro. E per come sono fattonon so nemmeno se sarebbe stata unabuona idea».

Romeo Castellucci è seduto in uncamerino del Théâtre de la Ville di Pa-

rigi. Sembra più giovane in jeans e ma-glione scuro, i capelli quasi rasati a ze-ro, un po’ rannicchiato sulle gambelunghe e lo sguardo, spesso altrove,dietro la grossa montatura nera degliocchiali che gli danno quell’aria un po’da nerd. A Parigi ha presentato da po-co, “tutto esaurito” sempre, Four Sea-sons Restaurant, che arriverà per la pri-ma volta in Italia, al Teatro Argentina diRoma, dal 30 ottobre grazie a FabrizioGrifasi direttore di Romaeuropa Festi-val: è l’unica struttura che in Italia lo in-vita con continuità. Il suo è uno spetta-colo maturo, affascinante che sta traLa morte di Empedocle di Hölderlin,declamato da quattro attrici e sei bal-lerine con toni e gesti ipnotici e in abi-ti amish, e gli abissi oscuri del protago-nista de Il velo nero del pastore, la no-vella di Hawthorne che già gli ispiròl’omonima rappresentazione chel’anno scorso finì sulle prime pagineper le contestazioni degli integralisticattolici irritati da una gigantografiadel volto di Cristo in scena. «Hölderline Hawthorne sono due autori per mepotenti, pregnanti, perché in questinostri tempi così saturi di immagini dadiventare un deserto in cui non c’è piùniente da vedere, entrambi ci mostra-no la via per sottrarci, la via del rifiuto».

Questa ossessione iconoclasta l’hasempre avuta, nonostante gli studi distoria dell’arte a Bologna. Santa Sofia,il primo spettacolo, nell’85, era una ri-volta carica di odio verso le immagini,compresa l’immagine dell’attore, e divis polemica verso la “nuova spettaco-larità” di quel periodo impregnata dilinguaggi pop a cui Castellucci con-trapponeva i miti sumeri. E da quali let-ture, visioni, educazione, incontri sianato il suo stravagante talento è diffici-le dirlo. «Sono nato e cresciuto a Cese-na e rivendico il mio provincialismo. Lamia è una vita normale. L’artista chevuol fare l’originale è estremamentenoioso. A me piace la vita, direi, picco-lo borghese. Quanto al teatro, lo faccioda quando ero bambino. Mia sorellaClaudia, più grande di due anni, mi ob-bligava a fare spettacoli con lei nel ga-rage di casa e io obbedivo». Proprio conClaudia e con Chiara Guidi, sua com-pagna, sempre a Cesena nell’81 fondala Socìetas Raffaello Sanzio. «Era suc-cesso che qualche anno prima avevoaccompagnato Chiara a Roma per far-le da spalla all’esame di ammissioneper l’Accademia. Non fu presa: l’inse-gnante, Anna Miserocchi, le disse: “Il

tuo è un punto di arrivo, non di parten-za. Vai da Memè Perlini”. Andammo,ma Perlini scelse me. Non avevo anco-ra diciott’anni e del teatro amavo Car-melo Bene e i libri di Jerzy Grotowski. ARoma vidi però Punto di rottura, unospettacolo del Carrozzone, il gruppo diFederico Tiezzi che ha caratterizzato ilnuovo teatro degli anni Settanta, chemi colpì enormemente. Sospettavo delteatro, lo consideravo e talvolta ancoraoggi lo considero un’arte priva di ten-sione, di nerbo. Punto di rottura mi di-mostrò che invece il teatro può averepiù energia di un concerto punk, esse-re qualcosa che ti muove le viscere, chescuote il tuo corpo, che è non solo unasedia legata a un abbonamento».

La Socìetas all’inizio è formata dasei-sette persone. Poi si aggiungono ifigli di Chiara e Romeo, sei in pochi an-ni. «Non ci siamo mai posti il problemadella famiglia, della casa, del lavoro...Semplicemente i bambini ce li portava-

mo dietro, ed è stata la parte più belladella nostra storia. Partecipavano ai no-stri spettacoli. Non avrei mai potuto af-frontare Auschwitz, il secondo atto diGenesi, se non con figli miei». Ma visti glispettacoli spesso terrorizzanti dellaSocìetas, la presenza dei bambini all’e-poca suscitava anche parecchia indi-gnazione. «I nostri bambini vivevanodentro il teatro, ci sono cresciuti, du-rante le prove mi stavano appiccicati al-le gambe. Il teatro per loro era consue-tudine, e spesso anche noia». Ma intan-to si racconta che Teodora, la primoge-nita, oggi apprezzatissima attrice-bal-lerina con la sorella Agata nel gruppoDewey Dell, raccontasse bugie allemaestre per non dire cosa facevano i ge-nitori. «Ah sì, raccontava che ero un ve-terinario. Aveva capito che ci sarebbestato troppo da spiegare. Alle spiega-zioni pensavamo Chiara ed io, peresempio quando ci facevamo dare icompiti se i ragazzi venivano intournée. Non avrei mai potuto rinun-ciare a loro. I bambini, come gli anima-li, sono presenze forti a teatro, oggetti-ve, sono un anticorpo del teatro perchénon sono finzione, ammaestramento...Ecco perché nei miei spettacoli ci sonostati anche orsi, cavalli, uccelli, pecore,scimmie. Si potrebbe fare una storiadella Socìetas attraverso gli animali».

Oggi Romeo Castellucci vive con lavaligia e lavora come un matto. DopoParigi Vienna e dopo Vienna Avignone,dove al festival, il 25 luglio, firmaSchwanengesang di Schubert, un con-certo con Valérie Dréville, Kerstin Ave-mo e il pianista Alain Franco — «im-percettibili deragliamenti, mi piace-rebbe far piangere lo spettatore». Nel2014 al Teatro La Monnaie di Bruxellesfarà Orfeo e Euridice, ma prima, a Man-chester, per il centenario della Sagadella primavera, ne farà un allestimen-to shock: seguendo l’idea della musicadi Stravinsky, del rituale, del sacrificio,riempirà la scena con trenta tonnellatedi polvere di ossa («un fertilizzante pro-dotto industrialmente, ma che simbo-leggia milioni di animali sacrificati inun’epoca in cui il sacrificio non esistepiù») che grazie a una serie di macchi-nari danzerà nell’aria «come ballerinipolverizzati». La cosa può non essereconsolante. «Fà niente, come non èimportante capire per forza un’opera.Se di un libro, uno spettacolo, un filmcapisco tutto ne resto deluso. L’enigmanon è fare cose strane, è un nodo logi-co, una forza dell’arte. Non a caso il tea-

tro è uno dei pochi edifici che non con-templa le finestre ma le porte sì: se unoesce da un mio spettacolo perché lotrova astruso mi provoca dolore, ma èun suo diritto».

Il Leone d’Oro che riceverà a Veneziaai primi di agosto alla Biennale ha l’ariadel risarcimento da parte dell’Italia,dopo che già la Francia lo ha insignitodel cavalierato delle Arti. «Sono onora-to, ma anche confuso. Un premio allacarriera costringe a guardarsi indietro,a rivedere con senso di responsabilità iltuo lavoro specie di fronte alle nuovegenerazioni». Perciò ha deciso che daVenezia partirà anche la prima fase delnuovo lavoro sul tema del vitello d’oro:ancora una volta l’immagine e l’idola-tria. «È un’altra spinta che ricevo dalleriflessioni sul Velo nero del pastore, per-ché trovo che quella novella sul pasto-re protestante che si vela il volto sia untema di una potenza difficile da esauri-re. Stavolta mi piacerebbe metterlo inscena in senso letterale, come un film.E ho capito che il pastore deve essere unvolto riconoscibile, come lo è nel rac-conto il protagonista di fronte alla co-munità dei paesani. Dunque sarà unattore famoso, una star. Ma non so an-cora chi». Non è temerario lavorare co-sì tanto, saltare tra lirica, prosa, musi-ca? «Mi sento nel pieno della tensionecreativa, lontano dal vivere il teatro co-me una casa, un’abitudine. Artaudparlava di forsennare il teatro, scuoter-lo. Risvegliarlo ogni volta. Ed è così chelo sento, anche a costo di spingermisempre di più verso ciò che non è visi-bile, che è intangibile. Ma solo quello èteatro».

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L’incontroMistici

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In questi tempisaturi di immagini,Hawthornee Hölderlinci mostranola viaper sottrarci,quella del rifiuto

Romeo Castellucci

ANNA BANDETTINI

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