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    Aesthetica Preprint

    Derridae la questione dello sguardodi Marcello Ghilardi

    Centro Internazionale Studi di Estetica

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    Il Centro Internazionale Studi di Estetica un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppodi studiosi di Estetica. ConD .P .R . del 7 gennaio 1990 stato riconosciuto EnteMorale. Attivo nei campi della ricerca scientica e della promozione culturale,organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavolerotonde, Conferenze; cura la collana editorialeAesthetica e pubblica il perio-dicoAesthetica Preprint con i suoiSupplementa . Ha sede presso lUniversitdegli Studi di Palermo ed presieduto n dalla sua fondazione da Luigi Russo.

    Aesthetica Preprint

    il periodico delCentro Internazionale Studi di Estetica. Afanca la collanaAesthetica (edita da Aesthetica Edizioni ) e presenta pre-pubblicazioni, ineditiin lingua italiana, saggi, e, pi in generale, documenti di lavoro. Viene inviatoagli studiosi impegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliograci,alle maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.

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    91Aprile 2011

    Centro Internazionale Studi di Estetica

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    Il presente volume viene pubblicato col contributo delM IUR (PRIN 2009, responsabile scien-tico prof. Luigi Russo) Universit degli Studi di Paler mo, Dipartimento Fieri Aglaia.

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    Marcello Ghilardi

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    Indice

    Introduzione 7

    I Vedere, toccare 1. Una domanda impossibile 11 2. Ottico, tattile, aptico 16 3. Visibile e invisibile 21 4. Il ritrarsi del fenomeno 27 5. Il differire del visibile 32II Visione e cecit 1. La cecit nel disegno 35 2. Due pensieri del disegno 45 3. Il velo degli occhi 49III La bellezza (in)attesa 1. Ritrarsi dallopera 53 2. Lo spazio analogico dellimmagine 58 3. Incroci di sguardi 64Bibliograa 75

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    In unintervista rilasciata nel 1970, Derrida rispose a una domandasul senso generale del suo lavoro, esplicitando in tale occasione il valo-

    re che per la sua opera rivestivano le dimensioni della visione e dellospazio: Un po paradossalmente posso dire che i concetti con cui holavorato sono, per un certo verso, almeno ispirati alle arti visuali (eintendo dire sia la pittura che le arti sceniche, il teatro, ecc.): ho cer-cato, in sostanza, di rendere conto di una funzione di spazializzazionedella scrittura. Potevo fare ci solo considerando la scrittura come unqualcosa che non si riducesse alla traduzione di una parola, e comequalcosa che avesse un campo, uno spazio suoi propri e una visibilitspecica: cio una concettualizzazione della scrittura fa appello a unaproblematica pittorica o scenograca o plastica 1. Non quindi pre-testuoso o forzato un approccio al suo pensiero che ponga al centrodella riessione una tematica di tipo estetico, legata in questo caso alladimensione del vedere, travagliata per dalla dimensione oppostadella cecit. La pratica decostruttiva di Derrida si rivolge alla questionedello sguardo, del rapporto tra visione e cecit, tra visibile e invisibilein diversi testi, e informa da capo a fondo la trama concettuale diun libro in particolare, dal titolo programmatico Memoires daveugle. Lautoportrait et autres ruines, pubblicato nel 1990. Decostruire lavista il senso tradizionalmente privilegiato dallatheoria occidenta-le 2 signica innanzitutto pensarla insieme al suo rovescio, la cecitappunto. Che cosa signica vedere, quando la visione si scopre coin-volta, co-implicata, addirittura costituita nel suo intimo da un fattore,da un aspetto di cecit? Si vede davvero, quando si vede? E che cosasi vede, quando si crede di vedere? C forse un aspetto anche di fede,di ducia, di abbandono quando si cerca o si pensa di vedere? Lavista e la molteplicit dei sensi, lo sguardo e il contatto, la prossimite la distanza sono solo alcune delle gure che costellano la riessionedi Derrida sul tema del visibile e dello sguardo. Come spesso accade

    nelle pagine del losofo francese, molti termini apparentemente sino-nimi fanno emergere in realt linee di fuga inattese, trame complessee intricate; mentre altri concetti o esperienze, considerati distanti, siscoprono collegati in una tta rete di connivenze. Sguardo, occhio,

    Introduzione

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    vista, visione: questi termini dicono e non diconolo stesso, si incon-trano e coniggono. Da essi partono prospettive e scenari sui qualiinsiste il lavoro decostruttivo di Derrida. Vedere non solo vedere:ogni sguardo necessit di un occultamento, di un velo che in parte loostruisce. Ogni luce, che veicola la vista, partecipa di una dimensionedi notte, di ombra; e non soltanto come il suo risvolto complementare,ma come intimo sdoppiamento che impedisce di ssare e di ssarsi suunesperienza che sia pura, primigenia, incondizionata.

    Le indagini, le scritture sullo sguardo sono per Derrida altrettantiritorni sul tema della traccia, delladiffrance, della cosiddetta archi-scrittura, come modi per dire linnita disseminazione del senso, lanecessit di riconoscere in ogni sforzo di intendere lorigine, leventopuro, il rivelarsi di un rovescio, di unombra insopprimibili. ancheun modo per rimettere in causa, con Kant e Husserl, e oltre il lorostesso pensiero, la possibilit di unestetica trascendentale. La cosastessa resta inafferrabile, per Derrida, eccedente rispetto al compitoche la fenomenologia si assegna. La cosa in s resta inattingibile, per-ch ogni atto che cerca di coglierla la cela, la cancella, la sopprime,per quello sguardo che vorrebbe ambire a una visione diretta. Nonresta che una visione indiretta, un tentativo di avvicinamento obliquoche rimette in questione ogni risalita allorigine, ogni dire che pretendadi cogliere il signicatooltre il signicante. In tal modo il discorso si

    declina in una forma prossima a quella assunta dalla teologia negati-va, impegnata a cogliere Dio oltre ogni nome, ma consapevole che ilpensiero tratta sempre con dei nomi, con dei signicati. Senza appro-dare a esiti mistici pur lambendo alcuni punti focali del pensiero diCusano o di Silesio Derrida fa apparire insieme al cuore teoreticodel proprio discorso anche la sua dimensione pi intima, di carattereetico. La tensione allaltro, la pienezza dellincontro e il dramma dellaseparazione sono momenti dellumano che percorrono le pagine deitesti di Derrida in cui il pensiero pi esposto alla ricchezza e allafatica della sensazione, del corpo, della sicit dellessere.

    Certo, non si intende qui fornire una chiave interpretativa di Der-rida nel suo insieme, ma leggerne alcune trame, seguire il dipanarsi dialcuni li del suo pensiero. Come ha insegnato lo stesso losofo france-se, la decostruzione difda dei nomi propri: non si dir Heidegger ingenerale dice questo o quello; si tratteranno, nella micrologia del testo[], momenti diversi, diverse applicazioni, logiche concorrenti, dif-dando di ogni generalit, di ogni congurazione solida e data 3. Nonsoltanto di logiche concorrenti o di diverse applicazioni si tenter dimostrare la presenza, ma anche di logiche ricorrenti e di trame concet-tuali coerenti che percorrono un discretocorpus di scritture. I testi quipresi in considerazione vengono affrontati in una sorta di movimento aritroso: partendo da uno pi recente ( Le toucher, Jean-Luc Nancy, pub-blicato nel 2000) si passa attraverso Mmoires daveugle. Lautoportrait

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    et autres ruines (del 1990), per terminare con alcune pagine tratte da La verit en peinture (del 1978).

    In questi testi, come un ume sottile che passa attraverso i conni elambisce territori diversi, trascorre esplicita o implicita una gura, chesi intreccia e si distacca dallo sguardo. quella della lacrima, delloc-chio che piange e che quindi non vede. Lo sguardo che si scopre ve-lato, offuscato, impedito, diviene segno di uno spazio mediano, di unframmezzo,tra presenza ed assenza,tra pienezza e mancanza, unicoluogo in cui sembra aprirsi la possibilit di un incontro autentico conlaltro, per vedere o intravvedere il mondo e partecipare ad esso, allasua vita, nella difcile condizione di assenza-e-presenza di colei o dicolui che si ama.

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    I Vedere, toccare

    1. Una domanda impossibileIl complesso testo che nel 2000 Derrida dedica al suo collega e

    amico Jean-Luc Nancy verte come si evince gi dal titolo: Le toucher,

    Jean-Luc Nancy sul senso e sulla dimensione del tatto, della tattilit,della relazione. Gi la traduzione del titolo in italiano unimpresadelicata, poichtoucher in francese signica sia tatto che toccare,e le sia articolo che pronome. Dunque Il tatto, Jean-Luc Nancye Toccarlo, Jean-Luc Nancy sarebbero entrambe versioni corrette,che rendono lambiguit delloriginale e limplicazione della sensorialitin un rapporto che vuole essere di coinvolgimento, di vicinanza, direlazione intima con un autore e un amico4. un testo importante,per la mole e per la qualit dei riferimenti e degli autori richiamati;ma anche perch segna un momento di passaggio nella parabola deidue protagonisti coinvolti lautore, Derrida, e il pensatore al centrodellindagine, cio appunto Nancy. Il primo ha settantanni, il secondosessanta. Per entrambi la relazione con il corpo, con la percezione dis e del mondo, tra salute e malattia, tra soggettivit e alterit sonosegnati dalla fatica e da una necessit di attenzione e cura. La scritturadi Derrida intorno a Nancy si dipanata nellarco di pi anni: la primaversione di un saggio sullamico risale al 1992, intorno allepoca in cuiNancy dovette sottoporsi a un trapianto di cuore. Il tema del corpo,del toccare e dellessere toccati, tema che si estende alle questionidellintersoggettivit, dellapertura al mondo, del problema dellalteritsono anche fortemente autobiograci, senza cadere mai in forme dipensiero autoreferenziale o in descrizioni emotive di esperienze private.

    Il toccare come forma dellessere al mondo, come struttura origina-ria dellessere corporeo e dellumano, come fondamento non solo delsentire e del percepire, ma anche del pensare, dunque il lo condut-tore scelto da Derrida per sviluppare la sua riessione. Tuttavia questasi apre con una domanda diversa, spiazzante. Derrida mette a temaun problema vicino, ma non identico a quello del puro senso del

    tatto, e lo fa quasi come se non fosse tanto lui a porre la questione, mafosse questa a venire da s, spontaneamente, a invaderlo, prenderlo,toccasserlo. una questione che, innanzitutto, riguarda laltro 5.Dopo aver avvertito il lettore su questo punto, Derrida la scrive, tra

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    virgolette come se la trascrivesse da qualcosa, o la citasse da qual-cuno, come se la volesse obiettivare meglio, e (si) chiede: Quando inostri occhi si toccano, giorno o notte?6.

    Domanda impossibile, fuori-senso la Derrida, si sarebbe ten-tati di dire. Si tratta forse di una domanda insensata, mal posta, malformulata? Sembra, certo, una domanda che d sui nervi, una domandapriva di denotazione. In ogni caso, una domanda per nulla losoca,che apre alla ridda di obiezioni riconducibili a uno schema ricorrente:Derrida non procede argomentando, o, se argomenta, cade nella classi-ca contraddizione performativa, la stessa rivolta da Aristotele allamphi-sbetn, lavversario che non riconosce la validit del principio di noncontraddizione e che non accetta la non-aporeticit del senso7. Cosapu mai voler dire una domanda simile? Quale signicato losocopu mai avere? Ma Derrida non si ritrae di fronte a una questione chesembra impossibile da porsi, gi per la sua stessa struttura logica. Illosofo francese prova a farsi strada in essa, attraverso di essa, formu-landola di nuovo e riformulandola in modo nuovo. Scrive: Vediamo,prima di tutto, possono degli occhi venire a toccarsi, premersi comedelle labbra? A quale supercie dellocchio paragonare le labbra? Sedue sguardi si guardano negli occhi, si pu dire che in quel momentosi toccano? Che vengono a contatto luno dellaltro? 8. Nel testo,una voce interviene a fare da controcanto, mimando una sorta di dia-

    logo platonico. Questi occhi o questi sguardi?, domanda. Tu passidalluno allaltro. Spesso sono necessari pi di due occhi per fare duesguardi. Inoltre ci sono occhi che non vedono pi, e occhi che nonhanno mai veduto. Poco oltre, la prima voce riprende: Non si devescegliere fra guardare, perno scambiare o incrociare degli sguardi, evedere, semplicemente vedere? E innanzitutto fra vedere il vedente evedere il visibile? Perch se i nostri occhi vedono delvedente piuttostoche delvisibile, se credono di vedere uno sguardo piuttosto che degliocchi, [] allora non vedono nulla, nulla che si veda, nulla divisibile.Affondano nella notte, lungi da qualunque visibilit.

    La questionesul tatto edel tatto si intreccia da subito con quelladella vista, della visione, dello sguardo e dellocchio. Vista, visione,sguardo, occhio non sono usati come sinonimi. Non sono termini inter-cambiabili, ma elementi o movimenti interconnessi, legati luno allaltro,condizioni di possibilit per unorganizzazione pi ampia della sensibili-t umana. Toccare e vedere si presentano n dallinizio dallinizio delpensiero che li pensa come inestricabilmente connessi, si rimandanolunoallaltro, lunonellaltro. Certo, qui il rischio di confondersi o,peggio, di affondare in una sorta di idioletto che imita o scimmiotta lafraseologia di Derrida forte. Luso insistito e continuamente variatodelle preposizioni, il ritorno continuo sugli stessi giri di frase da ango-lazioni leggermente differenti possono diventare una maniera, uno stilepedissequo. Eppure, per penetrare nella sostanza dellinterrogazione

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    derridiana, necessario seguirne e svolgerne le forme tanto quanto icontenuti, per sondare da vicino le molteplici pieghe, le variazioni inat-tese, le impennate e le focalizzazioni. Se si seguono le strade talvoltamolto tortuose del discorso di Derrida, dopo un iniziale disorienta-mento si capisce che le divagazioni o gli apparenticalembours linguisticisottolineano alcune asperit della lingua, attivando al suo interno unasorta di reagente per evidenziare laspetto aporetico di alcuni concettio categorie.

    Visione e tattilit, distanza e prossimit si incrociano dunque comeun chiasmo, per Derrida. Ilcon-tatto degli occhi si d come condi-zione non soltanto perch vi sia sguardo, ma perch vi sia incontrocon laltro; ma un simile contatto emerge n da subito come ci chefa problema, in ogni interrogazione circa il rapporto di s con s, edi s con laltro da s. I nostri occhi puntano non solo a vedere altriocchi, ma anche ad incontrare un altro sguardo, che a noi si rivolge,ma essi affondano nella notte, lungi da qualunque visibilit. Si acce-cano per vedere uno sguardo, evitano di vedere la visibilit degli occhidellaltro per rivolgersi esclusivamente al suo sguardo, alla sua vistasolamente vedente, alla sua visione 9. Lambizione dellocchio umanonon tanto vedere un altro occhio, ma incrociare uno sguardo. Loc-chio, da cui si proietta lo sguardo, vuole incontrarne un altro nonun altro occhio, ma un altro sguardo ed essere incontrato da esso.

    Ma sono proprio gli occhi ad incontrarsi, o piuttosto gli sguardi? Unosguardo va al di l degli occhi e della loro potenza. Ci possono essereaddirittura sguardi senza che vi siano occhi vedenti, od occhi veduti.Ci sono occhi ciechi che sanno guardare, che lanciano sguardi, e cisono occhi vedenti, ma privi di sguardo. Derrida si avviluppa intornoa questioni sensoriali, legate al tatto, alla vista, alla meccanica dellavisione e del contatto, ma in realt porta gi il discorso intorno a temidi natura etica, che riguardano il nostro modo di essere e di porci difronte allaltro, che ci chiama e ci provoca. Non si tratta soltanto dellostatuto e della condizione di possibilit di uno sguardo, di un occhioche guarda, oppure di un occhio, di una mano che tocca; si trattadellincontro tra un io e un tu.

    Ripetiamo la domanda. Epper spostiamola, prendendo atto dicome si modica: giorno, allora, in quel momento? notte?. Se larisposta notte, non si direbbe che nella costanza di questo contatto,nellinterruzione accettata che li tiene insieme, gli occhi allora si toccanoda ciechi? Tuttavia, mi obiettava quella che io chiamo la questione,oppure mi obiettavo io stesso a me stesso: A meno che non comincinoin tal modo a intendersi, per lappunto10. La domanda modicata,spostata, ma continua ad appartenere ad una logica distinta da quelladi unaratio aristotelica. La dimensione a cui fa capo non tanto logica,quantoanalogica, nel senso che dei concetti messi in campo non si pudenire il signicato in modo univoco giorno, notte, occhi,

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    sguardo sono qui termini aperti, concetti metaforici. Accostati gli unicon gli altri, messi in contatto, essi evidenziano linevitabilit di alcunedicotomie logiche giorno/notte, visibilit/invisibilit, contiguit/sepa-razione, prossimit/distanza e la possibilit di una loro trasformazio-ne, attraverso la dis-identicazione dei termini stessi. Il concetto perdein esattezza, in denitezza, per guadagnare in disponibilit, apertura,capacit inclusiva. I suoi conni si sfrangiano e si mostra meno adattoad una tassonomia dellesistente, ma acquista una maggiore plasticitper evidenziare le ambivalenze delle relazioni tra gli enti, lambiguitdegli eventi che costituiscono il mondo. Tramite lidea di una dimensio-ne analogica nella quale i concetti vengono impiegati in questo modo,si passa da una segmentazione netta, che esclude, secondo una logicadellaut-aut, a una continuit circolare, relazionale, in cui le identitdei termini non sono elementari ma funzionali. Entrare nel solco deldiscorso derridiano, per poterlo intendere ed eventualmente anchecontraddire o confutare signica in primo luogo accettare e compren-dere il movimento di unlogos che, mettendosi in discussione ad ognipasso, revoca ogni presunta univocit della propria struttura sintatticae semantica.

    Gli occhi allora si toccano da ciechi?, una domanda che appar-tiene a una logica non irrazionale, ma distinta da quella abitualmenteimpiegata dal discorso losoco. Non per nemmeno una formu-

    lazione poetica, dal momento che si inscrive allinterno di un proce-dere argomentativo. Se notte, se gli occhi cercano di incrociareuno sguardo, di incrociarsi in quanto sguardi, allora essi puntano aqualcosa di non visibile. Un occhio, degli occhi sono visibili; ma unosguardo non si vede. Per questo gli occhi diventano ciechi, affondanonella notte: una notte che esprime limpossibilit di accedere a unvisibile denito, oggettivo, ma che insieme testimonia la possibilit dicogliere un altro ordine di visibilit, la possibilit di vedere altrimenti.Vedere, si pu obiettare, assume qui signicati diversi. In un caso ilverbo indica lattivit scopica, oculare, tramite la quale appunto degliocchi mettono a fuoco un oggetto, lo guardano, lo osservano, lo indi-viduano. In un secondo caso vedere acquista un senso metaforico,per cui se si dice vedere uno sguardo si intende di fatto la capacitdi incontrarlo, di accoglierlo, di rendersi conto che c uno sguardo,cos come lespressione Vedi?, o Hai visto?, signica Capisci?,Intendi?, Hai inteso?. Il sovvertimento di senso non contraddit-torio sarebbe cos scongiurato. Ma non si possono liquidare in modosemplice o frettoloso queste locuzioni, che mirano a una continua ri-messa in discussione delle modalit lineari, progressive, del tradizionalelinguaggio logico-argomentativo.Cosa signica, poi, il fatto che degli occhi comincino a intender-si? In chesenso si intendono nellipotesi di Derrida si guardano,si toccano, magari addirittura si ascoltano (dal momento cheenten-

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    dre in francese vuol dire non solo intendere, capire, comprendere,ma anche ascoltare, udire)? Ma, per lappunto, quando incrocio iltuo sguardo, io vedo sia il tuo sguardo sia i tuoi occhi [] e i tuoiocchi non sono solo vedenti, ma visibili. Ora per il fatto che sonotantovisibili (cose oppure oggetti nel mondo) quantovedenti (allori-gine del mondo), io potrei toccarli, per lappunto, con le dita, con lelabbra o anche con gli occhi, con le ciglia e con le palpebre 11. Gliocchi sonovedenti e visibili insieme, danno luogo al (a un) mondo einsieme sono oggetti del (nel) mondo, allocati in esso. Paradosso econtraddizione del visibile, sempre vedente-veduto, toccante-toccato,come ha insegnato Merleau-Ponty, sulla scorta di Husserl12. Locchio,sorgente del vedere e del visibile, occasione e luogo del prodursi di unpossibile incontro di sguardi e di persone, anche parte di un corpo.In quanto tale supercie sensibile, supercie da sorare, spessoreda toccare, premere, tastare. Locchio, che proietta il suo sguardo eanche ne riceve, si rivela come appartenente anche alla dimensionesensibile, tattile, anchessa propria della corporeit. Ma se locchio visibile, come si diceva, tuttavia proietta uno sguardo che visibile non. Per poter vedere, locchio resta cieco e invisibile a se stesso; nonsi vede se non allo specchio, e anche allora si vede difforme, diversoda come lo vede un altro occhio. Contraddizione insita nellocchio,contraddizione dello sguardo e del visibile stesso: si vede, ma anche si

    resta ciechi; ci si incontra, si incrociano gli sguardi, eppureci si manca,ci si attraversa, si rimane invisibili a se stessi, in attesa di un riscontroche si vorrebbe pitangibile.

    Qualcuno ripete ancora, insistendo instancabilmente: nel momentoin cui i miei occhi toccano i tuoi, come labbra, giorno o abitiamo gila nostra notte? [] C ancora posto, luogo, spazio o intervallo,cho-ra, per il fenomenico del giorno e per la sua visibilit trasparente? 13.Chora un termine che attraversa in pi punti la riessione di Derrida,almeno a partire dal suo saggio pubblicato nel 1993 e dedicato allam-biguo concetto che si trova nelTimeo di Platone14. In questo casoDerrida si chiede se si dia di fatto un luogo, uno spazio, unaperturaper laccadere del fenomeno, che si rende visibile alla luce del giorno.Ma che cosa un siffatto luogo? E in che modo pu dare luogo?Dove propriamente si d questo accadere, questo manifestarsi, questoaver luogo? Nella lingua giapponese il frammezzo, linterstizio, lo Zwi-schenraum che segna la contiguit e la distinzione tra due cose, o tradue eventi, dettoma. Non solo uno spazio, un intervallo, maanche unesperienza, una dimensione sica, psichica, intellettuale, maessenzialmente intuitiva. Ma indica anche un vuoto, uno spazio di so-spensione e di pausa, un ritmo, la percezione di una distanza e insiemedi una prossimit modulata. Dunque non appartiene solo alla formaspaziale, ma anche a quella temporale. Implica una lacerazione, unadi-scontinuit che segna linsorgere di una coscienza percettiva ed emotiva,

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    di una coscienza estetica15. Tra due occhi cma, e cos pure tra duesguardi. Ma una distanza non solo sica, misurabile, quanticabile:implica un rapporto qualitativo con lo spazio e con il tempo, con il no-stro sentirci immersi nel mondo, con il nostro far parte della sua stessastoffa. Lo sguardo, il tatto sono intessuti di mondo, e insieme con-tribuiscono a intesserne la trama, a comporne il tessuto. Derrida nonha presente il potenziale losoco della lingua giapponese, n le tramecomplesse e intricate che il pensiero losoco ha assunto in Giapponedopo lincontro con la concettualit europea. Eppure, il travaglio a cuiDerrida sottopone la lingua francese e, per mezzo di essa, il linguaggiodella losoa occidentale, viene esaltato e rilanciato dal contatto conaltre forme di pensiero e di linguaggio. Dal momento che il pensierosi esprime sempre in una lingua determinata, soltanto uscendo da s,incrociando lo sguardo con un altro, che ci si espone anche ad altrecategorie e ad altre forme di incontro col mondo. Il proprio occhioresta cieco a se stesso, la propria lingua resta opaca alle istanze che nemuovono e ne realizzano i concetti. Aporia dellocchio e dello sguar-do, aporia del pensiero che vuole pensare la propria stessa origine, lapropria condizione di possibilit revocando in dubbio tutto, anche sestesso e che invece necessariamente parte da un punto cieco, da unfondo indiscusso, perch non discutibile se non con categorie che gigli appartengono e ne derivano. Derrida consapevole di questo pro-

    blema, che anzi uno dei problemi fondamentali che animano la sualosoa. Ma non ne trae no in fondo tutte le conseguenze, o meglionon sfrutta tutte le risorse che si potrebbero dare al pensiero, poichresta al di qua dei suoi conni occidentali, al massimo giungendo ainterrogare illogos losoco a partire dalla presunta esteriorit giudai-ca in realt anchessa legata a doppia mandata con la concettualitsviluppata in Occidente, dalla lingua indo-europea.

    2. Ottico, tattile, apticoA Derrida interessa per portare alla luce il carattere aporetico del

    logos losoco, spingendo alle estreme conseguenze le facolt dialetti-che, argomentative, logico-razionali di quello stessologos. In questotti-ca risulta pi chiaro il fatto che la sua scrittura non sia affatto priva dilogica. Al contrario, come se quella scrittura cercasse di far girare ilmotore della logica al massimo delle sue capacit, per metterne in evi-denza le qualit e i limiti. Non si tratta di mostrare alcune aporie, po-che o tante che siano, ma laporeticit costitutiva del discorso losoco.

    Con le aporie degne di questo nome, per denizione, non si niscemai. Non sarebbero quello che sono, delle aporie, se se ne vedesse ose fosse possibile toccarne il fondo. [] Bisogna lasciarsi trattare daloro in uncerto modo, piuttosto che in un altro, senza mai sperare dioltrepassarle, n di uscirne dallaltro o dal basso o con un passo di lato,n tanto meno di indietreggiare o fuggire davanti a loro16. Ecco una

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    grande dichiarazione di intenti, espressione di una intenzione losocache non vuole indietreggiare, che vuole invece prendere sul serio ilpensiero. Derrida non si accontenta di un confronto superciale con ladimensione problematica dellessere, ma si lancia in un corpo a corposerrato, senza remore, con essa. In queste poche righe viene implicatauna pratica losoca molto esigente, che non ammette soluzioni faci-li o consolatorie. Il philosophein viene davvero inteso come originatoda un thauma che sgomento e inquietudine, prima ancora di esseremeraviglia di fronte alle cose del mondo. La losoa coltivata comepratica trasformativa del s, un s che accoglie e si lascia penetrare dallaquestione, dalla domanda che resta aperta, perch non c mai unarisposta univoca o denitiva. Le aporie che si incontrano nella praticalosoca riettono e sottolineano le aporie dellesistenza, che spessodifetta della logica che le si vorrebbe poter attribuire. Tali aporie nonsi possono oltrepassare, ma soltanto attraversare. La losoa, in quantolotta, confronto, attraversamento e produzione di concetti, diviene alcontempo poiesis e praxis, senza essere mai solo unatechne. Non si trat-ta tanto di costruire formule conseguenti, che da un assunto derivinoconseguenze quanto pi solide e meno confutabili, quanto di scavareal di sotto di quella stessa logica che permette di costruire formule,argomentazioni, esclusioni o inclusioni, operando quindi con la logica,oltre la logica, accanto alla logica. Quelli che appaiono spesso come

    paralogismi sono pi realisticamente, in Derrida, deilogoi che stannoaccanto ( par) alla logica tradizionale, che la afancano o la investonoai lati, obliquamente. Non si tratta nemmeno di aumentare la quantitdi dati in nostro possesso, per consentire una crescente elaborazionedi informazione; questo pu essere un momento di passaggio, ma utilee fondato solo allinterno di una dimensione pi ampia, formativa piche informativa. Lansia di denire la losoa, il suo ambito propriodi legittimit e la logica di funzionamento riette quella di colui chela pratica, alla ricerca di una propria identit personale, di una lineadi demarcazione che lo possa individuare legittimandone il lavoro. Mala rappresentazione di una chiusura lineare e circolare intorno a unospazio omogeneo appunto unauto-rappresentazione della losoanella sua logica onto-enciclopedica 17, e questa logica proprio quellache Derrida vuole scalzare, o per lo meno inquietare. Ogni losofema considerato dal losofo francese come un resto, una traccia. Non chiaramente identicabile, de-nibile, determinabile, ma si apre a pos-sibilit sempre nuove, a interpretazioni inedite, a movimenti inniti; una metafora usurata, logorata, cancellata (efface) 18.

    La volont metasica che secondo Derrida nisce per risolversi inimpasse teoretico di separarelogos e mythos, losoa e non-losoa segnalata anche nel rimando reciproco, nella circolarit che lega visionee cecit, visibile e invisibile, giorno e notte, prossimit e distanza. Lapo-retica che si spalanca per il pensiero come un frammezzo, uno spazio

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    di indecidibilit tra luno e laltro, tuttavia ancheinsieme alluno eallaltro. Ma questo spazio, che pu bloccare lo sviluppo dellattivitteoretica, invece la riapre se viene assunto in modo radicale e se si tra-muta in una pratica. Sopportando il peso dellaporia, la si vede attivareuna conversione nel modo di considerare il mondo e il pensiero chead esso si rivolge. La pratica dellaporia laporia insita nel travagliodel concetto, dello sguardo, del tatto, dellincontro con altri divie-ne un movimento, cos come accade quando si accede a una praticasimbolica. Siamo cio di fronte a una situazione tipica di quelloche il movimento proprio del simbolo: quello che sembra un esito in qualche modo un principio, ma il principio non sta esclusivamenteafdato, anzi, non sta afdato affatto ad una posizione interna al tem-po del percorso che stato necessario per raggiungerlo, ed invece ilprincipio abolisce in un certo senso la temporalit progredente versoil suo conseguimento 19.

    La vista, la visione, lo sguardo sono concetti metaforici per eccellen-za, n da quando nel terminetheoria si sono fusi laspetto siologico eottico del vedere e quello, gurato, della conoscenza intellettiva. In gre-co antico, come noto,oida signica allo stesso tempo ho visto e so,conosco: conosco in quanto ho visto, sono stato testimone. La visione condizione e garanzia del sapere, dunque metafora della conoscenza.La vista diviene per i Greci il senso teoretico principale, e la luce la

    metafora pi usata e abusata per esprimere laccesso alla conoscenza ealla salvezza. Anche Bergson raccomanda il moltiplicarsi delle metafore,come ricorda Derrida, per eccedere lingannevole rigore dei concetti,delle idee astratte, o generali o semplici20. Nel discorso losocodi Derrida, nel testo in questione, la visione oculare tende spesso aconfondersi o a sconnare nella visione intellettuale. Il losofo parladel vedere e della visione, e il lettore deve ritornare pi volte sugli stessipassaggi per cercare di capire, ove sia possibile, se si stia trattando dellosguardo dellocchio o dellintuizione dellintelletto. Lambiguit rimanequando la visione si intreccia con il tatto: Quando la visione tende anon distinguersi pi dal visto o dal visibile, come se locchio toccasse la cosa stessa. Meglio, come se, nellevento di questo incontro, locchiosi lasciasse toccare dalla cosa. La visione intuitiva non giunge soltanto alcontatto, come si dice, essadiventa contatto 21. Il discorso prosegue, sidipana nel corso delle pagine e dei capitoli, insistendo sugli stessi temio trascorrendo da una citazione, da un riferimento allaltro. Derridamostra cos come la pratica losoca resti essenzialmente una praticadialogica, per quanto i dialoghi nel testo scritto siano silenziosi, muti.Dove la scrittura sostituisce la voce, unonest tanto maggiore richie-sta a colui che convoca un altro autore e lo cita, lo chiama in causa.Soltanto se la losoa, anche quando pratica di interpretazione e dicommento, non diviene mai mera glossa, ripetizione sterile, dossogra-a, si d la possibilit di una creazione di concetti, secondo la felice

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    denizione di Deleuze. Soltanto cos nelle pagine in cui le citazioni siinnestano luna sullaltra e il discorso intreccia scritture molteplici cipu essere un incontro di sguardi, una Auseinanderstezung di pensieri,o di esperienze di pensiero, e non di semplici opinioni. Nel testo de-dicato a Nancy, per esempio, Derrida incontra e riscopre le scritture diAristotele e Bergson, di Merleau-Ponty e Deleuze, l dove si incidonoil solco che a lui stesso preme seguire.

    La visione si fa tatto, lo sguardo diventa contatto. Il rapporto conlaltro decostruisce il movimento tra prossimit e distanza, la loro pre-sunta dualit, la loro separazione netta. Locchio, che pu vedere dalontano, diventa un organo tattile. Nella vicinanza estrema, locchionon vede pi, punta e tocca come un dito. La sua funzione diventaquasi digitale, non pi ottica, maaptica. Aptico un termine cheDeleuze e Guattari preferiscono a tattile, poich non oppone dueorgani di senso, ma lascia supporre che locchio stesso possa avere unafunzione che non sia visiva22. Derrida torna a questo incrocio di sen-si, a questo scambio di funzioni ottica e aptica dopo aver citato unbrano di Hlne Cixous. La collega e amica, che aveva riacquistato lavista dopo un delicato intervento chirurgico, scrive una pagina a mettra la riessione losoca e la testimonianza personale:

    Ma in quellalba senza sotterfugi vedeva con i propri occhi il mondo, senza inter-mediari, senza le lenti di non-contatto. La continuit della sua carne e della carnedel mondo, il toccare, dunque, era lamore, e l era il miracolo, la donazione.Ah! Non sapeva ancora, il giorno prima, che gli occhi sono mani miracolose,non aveva mai goduto del tatto delicato della cornea, delle ciglia, le mani pipotenti, quelle mani che toccano imponderabilmente i qui prossimi e lontani.Non sapeva che gli occhi sono le labbra sulla labbra di Dio.Aveva appena toccato il mondo con locchio, e pens: Sonoio a vedere. Io sarebbe dunque i miei occhi? Io sarebbe lincontro, il punto dincontro tra la miaanima vedente e te? Violenta dolcezza, brusca apparizione, solleva la palpebree: il mondo le dato nelle mani degli occhi. E ci che le fu dato in quel primogiorno fu il dono stesso, la dazione23.

    La carne, il toccare, la donazione; gli occhi, le labbra, prossimit elontananza, lincontro, la violenza, la dolcezza. Il brano citato da Derri-da contienein nuce gran parte dei temi su cui si concentrato tutto ilsuo pensiero. Ma ci che qui viene sottolineato soprattutto il rapportonuovo, ricostituito con la vista, con lapertura degli occhi sul mondo,per poterlo ricevere in dono. la scoperta di un contatto intimo conil mondo per mezzo dello sguardo, che grazie a questa intimit puuscire dalla notte per entrare nel giorno, e si dispone al contatto. Ilsoggetto vedente-e-visibile, che nalmente di nuovo vede, si chiede aquesto punto se possa o se debba identicarsi con gli occhi, con quellaparticolare modalit di incontro col mondo consentita dagli occhi. Ilmovimento, lapertura degli occhi recano con s una domanda relativaallidentit. La questione dello sguardo anche una questione di identit.

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    Lo sguardo infatti apertura verso laltro, incontro con laltro, e si an-nulla se non c niente che gli si offra, che venga donato allo sguardo,tanto quanto si annulla se esso stesso non si offre a un altro sguardo,a un altro occhio. Lo sguardo incontro e relazione. Locchio riceveci che si d a vedere, cos come la mano riceve ci che le si offre datoccare e da tenere: il mondo [] dato nelle mani degli occhi 24.

    Ma che concetto mai questo, dellottico/aptico, in relazione alle-sperienza dellincontro? Si pu mai dare o dire veramente il con-cetto di unesperienza? O il concetto di un vedere e di un toccarecome attivit che non si esaurisce, non si compie una volta per tutte,ma ha il suo ne nel suo stesso continuo attuarsi25? Si incontra maidavvero uno spazio del visibile, o quello del tangibile? Tali domanderiecheggiano quelle emerse in precedenza, a proposito della possibilitautentica di vedere il vedente, o della possibilit che un vedente possavedere se stesso. Limpossibilit dellincontro con ci che condizionedi possibilit di ogni incontro, limpraticabilit di una risalita alloriginedi ci che nomina e intende quellorigine stessa, un fatto contingen-te, che non impedirebbe n il diritto al concetto n il diritto al deside-rio? O, al contrario, unimpossibilit fenomenologica essenziale, unaleggeeidetica dellesperienza e dellevento, una condizione stessa deldesiderio, di cui dovrebbe tenere conto ogni costruzione concettua-le, ogni creazione, se si vuole, di concetto? [] Una decostru-

    zione comincia in questa esperienza stessa. Essa , essa sperimenta,innanzitutto, questa aporia26. Ogni decostruzione prende spunto daunesperienza di dissidio, di blocco, di impossibilit a percorrere unadeterminata strada teorica. In altri termini, ha inizio con una aporia,ha origine nella consapevolezza di uno scacco. Il termine aporia dal grecoaporos allude proprio a una impraticabilit di percorso, aunassenza di strada, di cammino, assenza che rende nulla ogni volonto tentativo di prosecuzione. La decostruzione infatti non n unacritica, n unanalisi, innanzitutto perch non pretende di risalire adalcun elemento od origine semplice e non disarticolabile27. Compitodel pensiero decostruttivo non opporre a un elemento, a un cen-tro o fondamento, un altro fondamento come la notte al giorno,per esempio, o linvisibile al visibile, il tatto alla vista ma mostrareil terzo dellopposizione, quel terzo che viene sistematicamentee strutturalmente escluso da ogni logica dialettica. Pur volendo inte-grare il negativo, lAltro, il differente, la struttura dialettica tende ainglobarlo nel gioco del proprio stesso discorso, depotenziandolo edissolvendone la portata sovversiva, eversiva, disseminativa.

    Nel suo discorso intorno al tema del tatto e della vista, dellocchioe del contatto e intorno allopera di Nancy, Derrida giunge a toccarediverse vette del pensiero occidentale, da Aristotele a Merleau-Ponty, daMaine de Biran a Husserl, attraverso continue deviazioni. Convocandotutte queste voci, ne mostra gli intrecci e le differenze, le contaminazioni

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    tende invece a sottolinearne la comune origine in uno sfondo carna-le indifferenziato. Troppo irenica e conciliante, questa prospettiva cheintende unacon-fusione originaria tra corpo mio e corpo altrui risultaper Derrida falsa anche circa il rapporto che lindividuo intrattiene conil proprio corpo, tra s e s. Merleau-Ponty si allontana da Husserlper due motivi essenziali, nella pretesa di risolvere la questione dellarelazione empatica ad altri (Einfhlung): da una parte disconosce ladifferenza irriducibile tra lintuizione originaria e diretta del mio corpoproprio toccantesi (senzaEinfhlung, dice almeno Husserl) e lappre-sentazione indiretta che, con la vista (e conEinfhlung, questa volta),mi d accesso a quelluomo laggi,in quanto vede, a quelluomo chevede. Dallaltra, [] riduce la differenza irriducibile, secondo Husserl,tra la vista e il tatto34, come se tra questi due sensi non sussistessedistinzione di piano. Secondo Derrida, dunque, Merleau-Ponty tendea privilegiare in modo eccessivo il contatto primigenio e la coincidenzarispetto alla irriducibile alterit che lega-e-separa, contiene-e-distingues e altro da s.

    Limplicazione reciproca di sguardo e (con)tatto, di giorno e notteapre cos a una problematizzazione ulteriore. Ci che veduto si in-scrive in ci che, pi in generale, pertiene allambito del visibile; ma ilvisibile mantiene uneccedenza nei confronti del veduto, perch altri-menti si risolverebbe interamente in esso. Si apre cos un primo dissi-

    dio interno allambito del visibile, dal momento che il veduto cadesempre allinterno del visibile, attinge al suo campo, senza risolverlo maiinteramente in tal caso non ci sarebbe pi visibile, ma soltanto vedu-to. Secondo dissidio: linsieme di visibile (come contenente) e veduto(come contenuto, ovvero parte dellinsieme pi ampio che il visibile)si trova in una relazione di complementarit con ci che si trovaoltre il visibile, cio linvisibile35. Ma quale invisibile? Quello che denisceci che non ancora visibile, perch sottratto alla vista, o celato dietroun oggetto, o non pi esposto alla luce, ecc., in realt anchesso partedel visibile; non fa parte del veduto non pi o non ancora ma fapur parte del visibile, se non altro in potenza. Per riprendere le pa-role sopra citate di Derrida, linvisibile in senso proprio allora unfatto contingente, che non impedirebbe n il diritto al concetto n ildiritto al desiderio? O, al contrario, unimpossibilit fenomenologicaessenziale?. Il losofo francese punta direttamente verso la necessitdi pensarein uno visibile e invisibile, visione e cecit, potenza e impo-tenza dello sguardo. Linvisibile ci che sta sempre oltre il visibile,oltre lo sguardo e le sue facolt; ma anche oltre il tatto, oltre ludito,il gusto, lolfatto. Che ci sia o non ci sia invisibile, questo il punto,non questione di un difetto della vista, non centra con una capacitottica pi o meno sviluppata. Se linvisibile potesse essere visto, primao poi, a qualche condizione, non sarebbe pi un invisibile in s; rica-drebbe allinterno di un visibile potenziale. La questione sembra allora

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    disporsi in questo modo: da un lato c il visibile, che mantiene al suointerno, come sottoinsieme, il veduto; dallaltro c dellinvisibile, che sipone in una relazione complementare con il visibile e cos lo denisce,venendo a sua volta denito da esso. Ma ci non basta. Dalle pagine diDerrida appare che perch vi sia visibile, perch il visibile non si ridu-ca o si schiacci addosso al veduto, vi deve essere dellinvisibile al suointerno, un invisibile ad esso costitutivo, non solo complementare. Inaltri termini: se c del visibile, allora c necessariamente dellinvisibile,non soltanto come un visibile in potenza, o come un complementareche gli resta esterno, estraneo. Il visibile reca in s, entro s linvisibile,altrimentinon sarebbe.

    Il rapporto tra ottico e aptico non viene lasciato cadere da Derri-da, che non si sottrae alle difcolt e alle obiezioni che insorgono difronte a un apparentamento troppo rapido o ingenuo dei due ambitisensoriali. Sono infatti citate pagine importanti e famose di Husserl,l dove il fenomenologo tedesco parla proprio delle differenze tra vi-sione e tattilit, in Idee II . Chi si lascia tentare da uninterpretazionetattilista della vista si rifugia in realt in una pigrizia intellettiva chescambia una metafora con un dato di fatto. Per lo meno questa laconvinzione di Husserl, quando scrive che certo, diciamo: Locchioche guarda loggetto, insieme lo palpa. Ma notiamo subito la differenza.Locchio non si manifesta visivamente [] Io vedo me stesso, vedo il

    mio corpo, ma ci non avviene nello stesso modo di quando mi tocco.Quello che chiamo corpo vivo visto, non una cosa che vista e chevede, mentre il mio corpo vivo, quando lo tocco, qualcosa che toccaed toccato36. Se il linguaggio corrente abbina la vista e il tatto, econsidera la vista una forma di tatto a distanza, il rigore fenomenologicomarca la differenza tra i due sensi, richiamandosi allevidenza. A questopunto Derrida inserisce una nota importante al proprio testo Unavolta di pi, Husserl, per scrupolo fenomenologico, ritiene di doverescludere o ridurre unimmensa riserva di signicati che, dipendendoanche da altre analisi intenzionali fondate su una base intuitiva, sonoinseparabili dalla cultura e dal linguaggio, dal mondo dello spirito.Ma nel momento in cui, nel nome della riduzione e dellintuizione, siripiega in tal modo verso una zona pre-linguistica, ha bisogno di esporreil risultato delle sue descrizioni [], in verit di lasciarsi implicitamen-te guidare dai tagli, distinzioni, partizioniirriducibilmente marcate dacultura e linguaggio37. Levidenza osservativa mostra che locchio nonsi vede, cieco a se stesso, mentre la mano che tocca anche manochesi tocca, che tocca se stessa. La reciprocit del tatto non la stessache c per la vista. Vedere il proprio occhio allo specchio signica inrealt vedere unimmagine, che soloin modo indiretto si giudica iden-tica al proprio occhio che vede. Husserl tiene a precisarlo in una nota:Naturalmente non si dir: vedo il mio occhio nello specchio; perchio non percepisco il mio occhio, il qualcosa che vede in quanto tale; io

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    vedo qualche cosa di cui giudico indirettamente, attraverso lentropa-tia (Einfhlung), qualcosa di identico con la mia cosa occhio (che peresempio si costituisce attraverso il tatto), cos come vedo locchio di unaltro 38. Largomentazione husserliana si sviluppa cos in favore di unprimato della tattilit. Per lui il corpo tattile come tale pu costituirsioriginariamente soltanto nellambito tattile e in tutto ci che si localizzainsieme con le sensazioni tattili []. Naturalmente, il corpo vivo vieneanche visto, come ogni altra cosa, ma diventa corpo vivo solo attraversolaggiungersi delle sensazioni tattili, delle sensazioni di dolore, ecc.39. Api riprese compare in apertura delle frasi di Husserl lavverbio natu-ralmente, ma proprio questa naturalezza intuitiva che fa problema aDerrida. Quanto sono effettivamente naturali gli assunti e le descrizionidel losofo tedesco? Quanto, invece, sono costruiti e strutturati dallinguaggio o dalla cultura? Non a caso Derrida, commentando questepagine, sottolinea il fatto che la fenomenologia stessa, senza essere im-potente, squalicata o semplicemente contraddetta, incontra la maggioreresistenza allautorit del suo principio di principi intuizionista 40.

    a partire dal problema del corpo e del suo essere immerso nonsolo nel registro della temporalit, ma anche in quello della spazialit,che Didier Franck citato a pi riprese inToccare, Jean-Luc Nancy costruisce la sua analisi critica della fenomenologia husserliana41. Nel-le pagine di Franck vengono presentati la necessit e il compito di

    unanalitica dellincarnazione 42

    , sulla base di unipotesi interpretativae critica che sar poi estesa anche al pensiero heideggeriano diEsseree tempo. Secondo Franck il privilegio assegnato al tempo rispetto allospazio, prima da Husserl e poi da Heidegger, impedisce una piena ecorretta comprensione dellatrascendenza dellaltro, inibendo ogni tenta-tivo di fondare seriamente lintersoggettivit. Se la trascendenza trova lapropria origine nella temporalit, si tratta allora di riaprirne la questio-ne, scrive Franck, aggiungendo che il fulcro di tale questione si trovernellanalisi e nella elaborazione del concetto dicarne, proseguendo intal modo lungo la strada tracciata da Merleau-Ponty. Questo rapportodifcile, questa trama che vede intrecciati i li della temporalit e dellaspazialit percorre anche le pagine del testo di Derrida. Nel primo ca-pitolo dopo quella domanda apparentemente a-logica circa il contattodegli occhi aveva esordito con una citazione tratta da Freud: Psycheist ausgedehnt: wei nichts davon, La psiche estesa, non ne sa nul-la 43. Il tema del visibile e del tattile connesso anche alla strutturadella realt psichica. Una zona di spazialit, se non di estensione della psiche 44 interviene e impedisce di schiacciare lanalisi esclusivamentesullambito della supercie corporea, come se il corpo potesse esseretrattato meramente comeres extensa, somma di parti esterne le unealle altre, partes extra partes, senza che questa giustapposizione spazia-le di elementi contigui non presenti n dallorigine ulteriori problemi.Lincrocio di visibile e tattile, linterferenza reciproca che si attua tra

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    occhio e mano perturbano liniziale separatezza dei rispettivi ambiti,introducendo la differenza nellidentit e identicando alcuni aspetti inapparenza del tutto eterogenei. La vista non solo una prensione delmondo a distanza, il tatto non solo un contatto ravvicinato e intimo.Ci vuole del visibile per garantire anche la funzionalit, la possibilitstessa del darsi del tattile: che una certaesteriorit, unesterioriteterogenea rispetto allimpressione sensibile anche reale [] fa parte,unesteriorit percepitacome realedeve anche far parte dellesperienzadel toccante-toccato45. Proprio in virt dellestensione, della visibilit,della possibilit trascendentale di esser vista, la mano che si tocca non intesa soltanto come una parte del corpo proprio, di un corpo inte-ramente presente a se stesso, che ha la percezione di s tramite questosuo atto di auto-affezione. Senza dubbio il toccante e il toccato sonoio, ancora io, nellimpressione sensibile, ma se tra il toccante e il toc-cato non venisse a insinuarsi del non-io (cosa materiale, spazio reale,estensione, in opposizione a sviluppo e propagazione fenomenologica,ecc.), non potrei pormi come io, non potrei dire (come dice Husserl),questo non sono io, questo sono io, io sono io 46. La possibilit di unaduplice apprensione di toccante-toccato, che non pertiene alla coppiavedente-visto, ci su cui Husserl fonda il primato del tatto sulla vista.Ma questa possibilit, che dipende dalla mano o in ogni caso da unaparte visibile del mio corpo, presuppone una supercie, la sua visibilit

    []. Non bisogna forse che n dal principio, nellinteriorit psichicadellatto cos presunta, la visibilit, lesposizione al fuori, il giro ap-presentativo, lintrusione dellaltro, ecc., sia gi al lavoro e condizioni,co-condizioni almeno ci da cui sembra dipendere e che sembrerebbeseguire?47. Dal fatto che abbiamo un corpo, che siamo corpo, derivauna corporeit dellesperienza. Ma vero anche il contrario: proprioperch c,ab origine, una corporeit dellesperienza che possiamo rico-noscere il nostro corpo, e dire di avere o di essere un corpo. A questolivello non si pu costruire una causalit lineare e univoca, propriocome non si pu affermare che si vede poich si hanno occhi, senza direal contempo che si hanno occhi poich il nostro essere in se stessovisivo48. La corporeit in quanto tale esposta allaltro, rimanda adesso. E lalterit non un accidente che capita, in modo contingente.Non che ci sia, ma che possa anche non esserci. Senza alterit, senzaesteriorit, non ci sarebbe corpo, e viceversa. Il corpo sfugge allo schemadualistico cartesiano, che distingue nettamente sostanza estesa, corporea,e sostanza pensante, immateriale e spirituale. Da una parte, il corpo entrambe le cose in una: vedente e veduto, udente e udito, toccante etoccato, moventesi e mosso. Dallaltra parte, il vedente e il veduto noncoincidono mai come, invece, viene presupposto nel caso dicogito ecogitatum. Questa non-coincidenza non da intendersi come un decit,essa piuttosto caratterizza il modo dessere del nostro corpo in quantoente che si rapporta a s e allo stesso temposi sottrae 49.

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    dellaltro nel tessuto del s anche linterferire dellalterit nel senodellidentit, uno sparigliare le forme e i meccanismi apparentementessi e organizzati del nostro modo di incontrare il mondo. Di con-seguenza, possiamo assumere che il nostro corpo anche qui funga daluogo di transizione; [] non soltanto nel senso che agire e patire,cultura e natura sconnano luno nellaltro, bens anche nel senso che il proprio a tramutarsi in estraneo e lestraneo in proprio 58.

    Attraverso la lettura di alcune pagine di Idee II Derrida mette in dub-bio che possa sussistere realmente una forma di esperienza immediatadel corpo proprio (corps propre) 59. La domanda che si pone se esistadavvero una pura auto-affezione nellambito tattile, del toccante-toccato,a conferma del privilegio di questa dimensione sensoriale su quella dellavista, o se, al contrario, questa esperienza non giabitata, almeno, macostitutivamente abitata dal fantasma di qualche etero-affezione connessaallo spaziamento, poi alla spazialit visibile60. Questo il punto: ilcontatto di s con s, che si presume originario ed testimoniato dallaoriginaria auto-affettivit del tatto, della mano che si tocca, si scopredifferente gi in se stesso, presenta un dissidio, uninterferenza interna. abitato dalla differenza, da quella differenza che immette nella carnetoccata-toccante uno spaziamento, uno spazio inteso come soglia di unavisibilit irriducibile al tatto, ma senza la quale il tatto e lauto-affezionenon potrebbe essere. La lunga deviazione intrapresa da Derrida, lun-

    go le pagine husserliane dedicate al privilegio del tatto, si rivelatanecessaria in forza del seguente paradosso: anche quando [tale privi-legio] era destinato a meglio illustrare la pura auto-affezione psichicadel toccante-toccato, la mano, pi di qualunque altra parte del corpoproprio, imponeva la deviazione attraverso la visibilit61.

    La visibilit, per quanto non possa ambire ad essere condizione pri-ma dellessere nel mondo, perch a sua volta intessuta di una corporeittattile, tangibile, ora posta al centro del discorso sul tatto, che Derridacontinua a svolgere a partire dallopera di Nancy e in dialogo con Hus-serl, Franck, Merleau-Ponty. Limpossibilit di risalire pienamente allecondizioni trascendentali del conoscibile, del nominabile e del visibile riaffermata e ripresa da Derrida non solo nel libro dedicato a Nancy; infatti uno dei motivi di fondo che animano tutto il suo lavoro. Il fe-nomeno del tatto e del contatto, cos come quello del visibile e dellin-visibile che ne costituisce la trama segreta, appaiono qui come unadelle pieghe attraverso le quali il lavoro della decostruzione si palesa,rivelandosi come il tessuto stesso che compone la trama del reale. Perquesto si pu affermare che la decostruzione ci che accade62, eche il differire in quanto fenomeno, o il fenomeno che si d a partire daun differire originario e sempre sfuggente, sottratto allo sguardo, nonsono mai un fenomeno puro; si d a vedere, per cos dire, solo se non puro 63. Ha ragione dunque Vincenzo Costa nel cercare di inten-dere la nozione didiffrance come una trasformazione della nozione

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    di trascendentale64. Il movimento generale del differire si pone allabase della costituzione genetica del mondo, che non esiste come realtgi data, come struttura originaria nella quale e a partire dalla quale sid un sistema di differenze. proprio questo darsi originario che faproblema a Derrida, ed il motivo per cui si pone la domanda sullagenesi dellaccadere di una struttura e di un senso. Il suo lavoro de-costruttivo non quindi altro che un perenne tentativo di riformularela domanda circa lorigine del mondo, per lasciar emergere il fatto chenon vi mai origine pura, che si possa cogliere in s. Lorigine sempreuna traccia che si cancella e si riscrive, e il trascendentale appuntoquesto differire originario di s con s, che in quanto tale non si pumai ssare in unidea anteriore al processo che la dice, che la scrive,che la traccia, appunto65. La nozione di traccia indica il fatto che ilmondo un insieme differenziale di segni in reciproco rimando, privoper di un fondamentointelligibile assoluto, incondizionato, a montedi questo intreccio o gioco di rimandi. Ogni elemento del mondo esistee trae senso da questo innito sistema di differenze, di strutture diffe-renti e differenzianti che si formano e si disfano. Anche le nozioni diente ed essere, come quelle di sensibile e intelligibile, si trovano in unadifferenza derivata, non primigenia. Anche la distanza e il dissidiodel visibile,nel visibile, sono la traccia delladiffrance. Tuttavia, questa non da cogliersi come ulteriore fondamento ontologico; non neppure

    un concetto, piuttostoil fatto che vi sia un differire, un differire cheil logos losoco non pu pretendere di ricondurre una volta per tuttein una unit superiore, poich anchessa verrebbe gi automaticamentericompresa allinterno di questo differire66. Ciascuno di questi sistemiorganizzati e coordinati quello del sensibile o quello dellintelligibile,quello del linguaggio o quello dellinsieme stesso di una cultura sipu intendere come un sistema olistico, tuttavia in quanto tale essonon una struttura, ma un usso regolato. [] Ogni sistema e ognimondo una struttura aperta e indenitamente instabile67. Anche ladistinzione traapparire ed essere soggetta a questo differire del senso,dunque si tratta di unopposizione derivata, cos come quella tranatura e cultura, le quali, se sconnano di continuo luna nellaltra, lo fannoproprio in virt di un differire anteriore anche se non originario,come si visto: non si pu mai ssare come fondamento ontologicodi un essere che non , a sua volta, se non come continuo differimen-to del senso, e quindi anche del senso del suo differimento e del suofondamento. Il differire sempre anteriore e ulteriore, ma maiassolu-tamente, incondizionatamente originario. Bisogna, cio, riconoscere undifferire nel differire stesso, per evitare di ipostatizzarlo e di ergerlo anuovo assoluto, o fondamento inconcusso. Ogni elemento dellessere edellapparire si d come gi inscritto in questa struttura di rimandi, incontinua trasformazione: non appena c, c differenza68.

    Questordine di discorsi viene in parte rintracciato in alcune pagi-

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    ne Merleau-Ponty, l dove si sofferma sulla tematizzazione di un in-visibile che non sia linvisibile come un altro visibile possibile, oun possibile visibile per un altro69. Noi vediamo il mondo, scriveMerleau-Ponty, eppure al tempo stesso dobbiamo imparare a vederlo,dobbiamo imparare ogni giorno. Essere nel mondo signica appuntoimparare a vederlo sempre e di nuovo. Il problema cruciale quellodi una esistenza invisibile, di un altro invisibile, dove linvisibile qui senza essereoggetto, la trascendenza pura, senza maschera ontica. Ein n dei conti anche i visibili stessi sono solo centrati su un nucleodassenza 70. Questo nucleo dassenza implica proprio quel ritrarsi delvisibile nel momento in cui appare, si offre allo sguardo. Questa tema-tica su cui bisogner tornare affrontata da Derrida nel suo testo Memorie di cieco, che precedente di una decina danni la pubblicazionedel libro su Nancy; anche in quelle pagine vengono analizzati diversipassi merleau-pontyani, in riferimento al rapporto tra occhio e mano,tra visibile e tattile. Quando diciamo che noi vediamo il mondo, oviceversa quando diciamo che il mondo ci che noi vediamo, comeprima cosa in questione il senso di questo noi e di questo vedere;e, in conseguenza a una tale messa in questione, il motivo del rapportotra visibile e invisibile invade tutto, penetra nelle bre del rapportotra io e mondo, tra s e altro da s, tra identico e diverso. In questorapporto il vedere si congura come una singolare forma di spazia-

    mento, perch il ricevere unimmagine gi un dar luogo a qualcosa,farsi luogo per accogliere un accadere. Il corpo percepito attraverso iltatto, attraverso lo sguardo, anche immagine, e come immagine nonsolo richiede un luogo per essere accolto, ma a sua volta luogo di unaccogliere e di un accadere. Il luogoha luogo ed luogo a sua volta,e con esso lintera complessit dei suoi sensi, che hanno luogo in unospazio e sono spazio, fanno e danno spazio allaccadere, al donarsidellapparire e dellesperienza71.

    Ma gi dire lo spaziamento, intendere il senso del visibile apertotramite lo sguardo, il senso del tattile che viene aperto tramite un con-tatto, signica sempre aprire una fessura, una frattura nel senso stesso,esibirne il differire interno. Secondo Derrida questa la legge del phainesthai . Limpossibilit di cogliere insieme il contatto e il suo sen-so, lo sguardo immediato e lesperienza che faccio del guardare, apri-rebbe lo spaziamento di una distanza, di unadiffrance allinternostesso dellaptico e dellaisthesis in generale. Senza questadiffrance,non ci sarebbe contattocome tale, il contatto non apparirebbe, manemmeno con essa apparirebbe mai nella sua piena purezza, mai inalcuna pienezza immediata72. Un retaggio kantiano alberga in questalegge inderogabile del fenomenico. Esso pu donarsi alla percezione,ma celando il suo essere in s, puro e integro. La percezione semprespuria, lincontro con il mondo sempre secondo, mai primigenio.Ed pure unistanza ineliminabile dellestetico, o come scrive Derrida,

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    dellestesico: la partecipazione dellaisthesis al mondo contiene un risvol-to anestesico, linsensibilit nella e come sensibilit. Lanestesia comelestasi stessa al cuore del godimento73. Non c mai sensibilit piena,pura, totale; solo a questa condizione che pu esserci sensibilit.

    5. Il differire del visibileQuesto anche il paradosso che tocca il rapporto, inscindibile e

    contraddittorio, tra intuizione e riessione. Nel momento in cui rietto,nel momento in cui ritorno concettualmente sullintuizione sensibile dacui sono stato affetto, gi lho perduta; lattribuzione del giudizio allim-pressione sensibile, mentre mi fa rendere conto di essa e mi permettedi annoverarla tra le mie esperienze, me la allontana implacabilmente.Come Orfeo che si volta per sapere che Euridice c, che l pressodi lui, e cos facendo la perde, cos la riessione che si volge allintui-zione per appropriarsene, mentre la vede la allontana da s. Latto dellaprensione concettuale al tempo stesso un atto di separazione, diallontanamento. Ma se non ci fosse questo ritorno, questo volgersi in-dietro della riessione, non si potrebbe nemmenodire che ci sia stataunintuizione, unesperienza sensoriale. Ma allora laisthesis non esiste-rebbe, senza un atto noetico che se ne appropria e che la fa diventarepropriamente esperienza? O ci sarebbe anche indipendentemente daogni atto noetico che la riconosce? E per chi ci sarebbe? Il losofo

    giapponese Kitaro_

    Nishida, nella sua opera prima,Uno studio sul bene (pubblicata nel 1911), scioglie la contraddizione in favore di un primatodellintuizione (chokkan) sulla riessione (hansei ). Ma ci gli possibileperch ledicazione del suo sistema parte dallidea secondo la qualefare esperienza signica conoscere il reale concreto cos com [].Puro in senso proprio lo stato dellesperienza cos com, senza nes-suna aggiunta del discernimento riessivo74. Non c unesperienzapura accanto, o prima, di una ipotetica esperienza impura. Lespe-rienza pura ( junsui keiken) lesperienza libera da condizionamenti edallintervento del giudizio logico, unesperienza priva di mediazioniintellettuali. In questo tipo di contatto con il mondo, il soggetto sitrasfonde totalmente nel gesto percettivo, prima dellintervento della ri-essione concettuale lesperienza oltre il tempo, lo spazio e il singoloindividuo []. Non che essendoci il singolo individuo c lesperien-za, ma essendoci lesperienza c il singolo individuo 75. Se si intendecon il termine esperienza la capacit di collegare tra loro ussi disensazioni e percezioni, riconducendoli a un io penso che permetteallesperienza di farsi proprio tramite la mediazione dei concetti puri epoi dei giudizi, una simile concezione di esperienza non regge; lideastessa di unesperienza immediata risulta una sorta di contraddizionein termini. Ma nella prospettiva di Nishida le distinzioni tra io e altro,soggettivo e oggettivo, singolare e universale vengono trascese in unadimensione a-duale, considerata originario luogo di accoglienza per

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    ogni manifestazione, sensibile o intelligibile. questo il luogo (basho)di tutte le determinazioni dialettiche, identiche-e-differenti, il luogo incui si d il differire stesso di ogni identit e differenza: Ci che deveessere in qualcosa []. Poich lio si pu pensare in rapporto al non-io, deve esserci qualcosa che avvolge al suo interno la contrapposizionedi io e non-io e che fa s che si costituiscano al suo interno i cosiddettifenomeni di coscienza 76.

    Il discorso di Derrida punta invece a mostrare lindecidibilit dello-rigine, leffetto didiffrance che ogni posizione automaticamente esibi-sce, proprio in quanto posizione determinata. Se in un losofo comeNishida prevale lorizzonte di possibilit quale luogo indenibile, fontedi ogni possibile denizione, in Derrida prevale la continua messa inquestione della condizione trascendentale che, non appena viene af-fermata, anche solamente accennata, allusa, gi cade nellempirico esi intreccia con esso. Anche a volerla circoscrivere, preservare in unaipotetica originaria purezza, tale condizione trascendentale per il fattostesso di essere distinta da ci di cui condizione si rivela un effettodi quel gioco di differimento che va appunto sotto il nome, il quasi-concetto didiffrance. Per questo il sensibile e lintelligibile, lempiri-co e il trascendentale, la condizione e il condizionato, il nominabile elinnominabile restano le gure di un dire che si colloca gi allinternodi un innito e indenitodifferirsi del senso senza che questo ri-

    cada allinterno di una piega meramente linguistica, poich non illinguaggio la condizione prima dellapparire del mondo, e del luogoin cui il mondo appare. Il linguaggio, pur consentendo al differire divenire espresso, ne gi una gura; il linguaggio ospita la differenzache ospita il linguaggio 77. Si pu conoscere e dire la differenza solo apartire dal linguaggio, ma questo gi affetto dal differire, che punominare in quanto ne fa gi da sempre parte78.

    Derrida conclude il libro su Nancy ritornando allincipit , alla que-stione impossibile e insituabile del bacio degli occhi, del contattotra occhi e tra sguardi, in un tempo che giorno o notte. C onon c contatto tra gli occhi, quando gli occhi si incrociano, si guar-dano intensamente? C ancora del visibile, o non si vede in realtpi niente, e allora come se fosse notte, ed come se ci si toccasselun laltro nelloscurit? Se [] non ci sono giorni e notti possibiliche a partire dalla possibilit dello sguardo e dunque nello sguardoscambiato nellastinenza e nello scongiuro del tatto, [] allora, nelli-stante di quel bacio degli occhi, ci si pu chiedere se c gi il giornoe la notte. E comincia allora laptico79. Laptico non il tattile hainizio con lo scambiarsi di uno sguardo, che gi vorrebbe essere unbacio. Il discorso sembra sbilanciarsi dalla parte del letterario; ma,come ammonisce Derrida, qui non ci si accontenta di sdolcinatureretoriche, per quanto siano interessanti o necessarie 80. Il bacio degliocchi, lestremo e necessario esito di uno sguardo non distratto o su-

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    perciale, di uno sguardo che prometta, che offra contatto, attraver-sato dal tatto. Non tanto dalla dimensione tattile, come si visto, madallaptico, da ci che insito in ogni contatto ma che allude anchea una possibilit pi ampia, di un contatto che non si attua soltantocon le mani, con le dita, con la supercie del corpo. C contatto ginello sguardo, anche nella distanza, e allo stesso modo, inversamentee altrettanto necessariamente, c distanza nel contatto, c lontananzaanche nella prossimit pi intima. Si palesa un tratto tipico della ri-essione derridiana nella sua ampiezza. Il differire si apre a unistanzaetica, relazionale, in cui laltro al cuore del medesimo. Una poesiadel maestro Zen Dait Kokushi (1282-1337), un poeta molto amatoda Nishida, sembra evocare e riassumere in pochi versi questo tipodi istanza, che vede una co-implicazione di prossimit e di distanza:

    Separati da uneternitE mai un solo istante distinti;faccia a faccia tutto il giornoe mai un solo istante di fronte luno allaltro.Tutti gli uomini esistono in virt di questo principio81 .

    Tra esseri umani si insieme, si prossimi luno allaltro, e al tempostesso distinti, distanti Si altri, divisi, separati, eppure si appartiene auna medesima carne, a una medesima umanit. Si differenti nellu-

    nit, in uno spazio e in un tempo che non sono quanticabili, perchco-implicati nel vissuto e coinvolti nel movimento deldiapherein. Nelpeculiare contatto che il bacio degli occhi, in special modo, nonfa ancora giorno, non fa ancora notte. Non c n giorno n notte,non c possibilit di distinguere i due aspetti. Entrambi sono implicati,si appartengono luno allaltro, si ritrovano luno nellaltro. Unit nelladifferenza e differenza nellunit. Se la losoa ha parlato poco del ba-cio, bisogna farlo, e come?82, si domanda Derrida. Quando il pensierolosoco si accosta a temi sfuggenti e complessi, quali quelli delletica,della relazione, del rapporto intimo allaltro, sente di doversi esporre,lasciandosi attraversare da altre forme del dire, da altre modalit delnominare, in cui illogos concettuale possa accogliere altre forme, altreparole; non solologoi , ma ancheepea, anchemythoi . E dimythoi , diracconti, di leggende, di trame e di esistenze intessuto Memorie dicieco: il testo in cui, pi che in tutti gli altri, Derrida si confronta conla cecit, linvisibile, limpossibilit della visione, laporia dello sguardo.

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    la complessit e lintreccio delle questioni evocate: Louvre o ne pasvoir . Pronunciando la frase, si pu intendere Louvre [il museo] in cuinon vedere; ma anche Aprirlo [locchio] o non vedere, cio: o si aprelocchio, o non si vede85.

    A essere interrogati, dunque, sono locchio e la sua facolt di aprirsie di chiudersi; il rapporto tra visibile e invisibile, tra veduto e non ve-duto (invu), tra visione e cecit. Anche qui sono in questione la luce eil buio, la chiarezza e loscurit, il giorno e la notte. Nelloscurit vivonomolti dei personaggi rafgurati nelle tavole e nei quadri che Derridafa esporre e che costellano le pagine del suo libro. Nelloscurit, odalloscurit emergono per delle forme, dei gesti, degli indizi, delletracce. La notte, loscurit sono la possibilit informe di ogni forma,sono ci che perturba e interferisce con la luce, con il giorno, comeideale origine di ogni formativit. Lipotesi dellinterferenza tra visionee cecit si lega a quella secondo cui il buio interferisce e si combinacon la chiarezza, con la pura luminosit come sorgente dello sguardo,del segno, del disegno. Ma loscurit si presenta anche, attraverso lacitazione di Diderot, come ci che accoglie il darsi e insieme il ritrar-si di un sentimento, di un afato, di unesposizione di s, oltre chedellorigine invisibile e inafferrabile di quel sentimento. Lorigine non mai chiara, non mai netta, non maiuna. Nel momento in cui lasi ssa, la si sdoppia, la si espone al suodiapherein. Cos anche per

    lorigine di un sentimento, che sfugge non appena la si voglia nominare.Diderot scrive nelle tenebre, senza sapere se forma dei caratteri, o seinvece stia tracciando solo scarabocchi, tracce confuse e invisibili nelbuio. Si immerge nelle tenebre, si afda al caso, perch nessuna norma-tivit, nessun controllo potrebbero comunque garantirgli una scritturaperfetta, compiuta, ineccepibile. L dove si tocca il cuore, dove ci silascia toccare il cuore, nessun carattere pu dire con precisione. Alcontrario, anche dove nulla appare pu celarsi un senso. Lidentitdella scrittura, del tratto che descrive, che indica, che allude o disegna tutta nel suo rinvio, nel suo essere in rapporto a: ad altri tratti, adaltre visioni cieche. [] Il ritrarsi della linea, il suo differirsi nel suostesso tracciarsi, infatti analogo al ritrarsi della parola. ripreso, inquesto modo, il tema della traccia e della scrittura come archi-traccia,traccia originaria, in cui svanisce lidea stessa di origine, di presenzao identit originaria 86.

    Per uscire dai viluppi dellogos losoco, dunque per meglio arti-colarlo e sfruttarne le risorse, Derrida adotta anche in queste pagineuno stile bastardo, ibrido, che riecheggia a tratti lo stile letterario.Per aderire meglio al tema, al contenuto, la forma della scrittura vi siadatta. I rimandi a grandi ciechi della tradizione letteraria Omero,Milton, Joyce, Borges servono anche per riportare le atmosfere delleloro opere, o alle atmosfere evocate dalle gure che percorrono lepagine. Derrida parte con unipotesi relativa ai disegni che ha selezio-

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    nato, anzi relativa al disegno in generale, di cui quelli esposti sono casiparticolari ma emuleatici. Si tratta di una ipotesi doppia, a rigore, tantocritico-ermeneutica quanto propriamente losoca. Ecco una primaipotesi : il disegno, se non il disegnatore o la disegnatrice, cieco. Inquanto tale e nel momento in cui si compie, loperazione del disegnareavrebbe qualcosa a che vedere con laccecamento. [] Seconda ipotesi []: un disegno dicieco un disegnodi cieco. Doppio genitivo87.

    Secondo Derrida il disegnare, il tracciare segni che per denizionedovrebbero esibire del visibile, mostrando il modo in cui uno sguardosi posato su di esso, collegato a unimpossibilit di vedere, a unaforma di cecit. Il disegnatore vede, altrimenti non disegnerebbe. Mail disegno cieco o, per lo meno, il prodotto di una singolare formadi cecit. Nel momento in cui traccia dei segni sul foglio, o sulla tela,il disegnatore non vede il soggetto reale, il modello. proprio nei suoiconfronti che rimane preda di una cecit quasi totale; se lo guardassetutto il tempo la sua mano non si muoverebbe, non potrebbe tracciarealcun segno. Conclusione: per disegnare bene, per esporre e dispiegaresul foglioci che si visto, e come lo si visto, bisogna anchenon ve-dere. La cecit presente al fondo della vista, al fondo del disegno. Uneccesso di vista, di visione, intralcerebbe il corretto e buono svolgimentodel segno e del disegno. Ne risulta un paradosso, consistente nel fattoche non si pu non essere ciechi, non si pu eludere una forma di cecit

    per quanto parziale e minima, quasi impercettibile se si vuole vederedavvero. Se non si accoglie in s il difetto, la contraddizione, il differireinterno alloperazione del vedere, allora non si vedr mai davvero, siproietter sul modello uno sguardo sso, stolido, incapace di vedere.

    Nella sua seconda ipotesi Derrida insiste sulla duplicit di un ge-nitivo, da intendersi come oggettivoe soggettivo. Un disegno dicieco (genitivo oggettivo), un disegno che rafgura un personaggio non ve-dente, anche un disegnodi cieco (genitivo soggettivo), cio eseguitoda un cieco. Lipotesi consiste nel ritenere ciechi sia il personaggiorafgurato che lautore del disegno, pur se in modi diversi. Le imma-gini che rappresentano ciechi diventano cos anche degli autoritratti,qualunque sia il disegnatore che li realizza, perch cieco non solo ilpersonaggio dellimmagine, ma pure lartista che lha prodotta. In ogniesercizio gurativo presente una componente di cecit; non si pudisegnare se non essendo in qualche misura ciechi.

    Le due ipotesi vengono cos correlate, dal momento che nella se-conda compare implicitamente lassunto della prima. La cecit intesacome motivo del disegno, come qualcosa che rimane al suo centro, chelo ossessiona88. Essa motivo in una duplice accezione, poich daun lato allude al soggetto dellopera gurativa, nel senso in cui parladi un motivo pittorico; dallaltro, esprime anche il tema ispiratore,il fattore motivante, ci che mette in moto il processo del disegno.

    Questa caratteristica di cecit, che tocca il disegno da vicino, che

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    visione solo oculare a far entrare in contatto con il modello, o conpaesaggio da gurare; non in questione uno sguardo che si proietta,di un occhio che pu vedere o non vedere. Lo sguardo deve piuttostocedere il posto a una forma diraccoglimento: non bisogna ssare congli occhi, consumare la vista nello sforzo di catturare le forme che lanatura offre alla percezione visiva, bisogna invece ascoltare il paesag-gio, intenderlo con il proprio intimo, con la mente-cuore-spirito (tuttisignicati racchiusi nel caratterexin) che vibra in risonanza con esso89.Il pittore cinese, dopo aver fatto esperienza di molti paesaggi, di moltecongurazioni naturali, si ritira nella sua casa. L inizia a dipingere,raccolto in un atteggiamento rilassato e contemplativo, lontano dalmodello. Il modello infatti penetrato in lui, si fatto corpo, si fattorespiro. Lo sguardo, la vista sono serviti in un momento iniziale, madevono essere abbandonati per poter lasciar apparire una vitalit chenon dipende pi dallocchio o dalla mano, ma da una circolazione piampia e profonda.

    Da questo breveexcursus si pu comprendere come il lavoro de-costruttivo di Derrida, utile a smascherare molti assunti impliciti delpensiero occidentale, per far lavorare ancor pi intensamente la con-cettualit losoca portandola alle sue estreme possibilit, non escatuttavia dallambito concettuale a cui appunto deve aderire, per poterlomettere in crisi. Nel quadro opposizionale della logica che distingue

    nettamente vero e falso, sico e metasico, immanente e trascendente,visione e cecit, Derrida cerca costantemente uno scarto, un terzo cheesca dal circuito dialettico, ma non sconna oltre Atene e Gerusalem-me. Non si spinge al di l di un ambito di pensiero e di linguaggioche, per provare a scorgere il proprio impensato, dovrebbe decentrar-si ulteriormente e sporgersi verso ci che proviene da una esterioritradicale pi radicale di quella costituita dal pensiero giudaico, peresempio, nei confronti di quello greco. Anche per quanto riguarda iltema del rapporto tra visibile e invisibile, Derrida si muove sempre frail mito e la concettualit greci e la tradizione giudaica. In Memorie dicieco si confronta con numerosi esempi: Narciso, Edipo, Tiresia, Perseoe la Gorgone vengono citati in quanto si muovono tutti allinterno disituazioni legate a un eccesso di visione, connessa daltronde a una spe-culare forma di cecit. Dalla tradizione giudaica sono richiamati Tobit eTobia, Sansone, langelo Raffaele, Anania, Paolo e Ges, anche questegure la cui missione determinata da un peculiare rapporto vista ececit. Quando cita lesempio dellarcangelo Raffaele, che ridona la vistaa Tobit tramite il glio Tobia, Derrida indaga la differenza di piani,visibile e invisibile, che eccezionalmente, angelicamente si toccanoe si compenetrano. La visione dellinvisibile concessa dallangelo segno che richiama al compito di osservare una legge al di l dellavista, di ordinare la verit al debito, di rendere grazie nel contempo aldono e alla mancanza90. Questatto sacricale, che letteralmente ren-

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    de sacro il rapporto con la vita, con ci che ha di visibile e ci cheha di invisibile, si ritrova anche nellatto dello scrivere e del disegnare,intrecciati con la sovrabbondanza e il venir meno del visibile, il troppoe il troppo poco, leccesso e il fallimento. Ci che guida la punta gra-ca, la penna, la matita o lo scalpello, losservazione rispettosa di uncomandamento, il riconoscimento prima della conoscenza, la gratitudinedi ricevere prima di vedere, la benedizione prima del sapere91.

    Anche in questo caso un passaggio attraverso lesteriorit cinesepermette di inquadrare in modo inedito le categorie articolate dal pen-siero occidentale. Nel pensiero classico cinese il rapporto tra visibilee invisibile non si congura come una distinzione di piani sensibilee intelligibile, sico e metasico ma come una continuit processuale,uida, trasformativa che permette un continuo scambio e passaggio trai due diversi ambiti. Uno semplicemente laforamento sensibilee tangibile che emerge dal fondo costituito dallaltro, che a sua volta la riserva di senso e di energia latente, impercettibile. Se vi dellinvisibile, bisogna quindi cercarlo in questa dimensione animante,che continuamente realizza e porta il mondo a divenire, a trasformarsisenza posa. [] O, per dirlo a termini invertiti, il visibile concepitocome il divenire manifesto di questa processivit discreta, che ripren-de costantemente, e che, senza smettere di esercitarsi, accumularsi esvilupparsi, nisce per formare, su una scala pi ampia, il cielo e la

    terra, le montagne e gli oceani 92

    . Al di l di ogni caso particolare,la considerazione di un ordine concettuale come quello del pensierocinese pu fungere come un ulteriore movimento de costruttivo. Os-servando dal di fuori il pensiero europeo se ne riscopre loriginalit,rispetto ad altri percorsi, e insieme si colgono altri modi di intellegibili-t. La Cina, nella sua complessit storica e culturale, con tutte le dif-ferenze e le sfaccettature interne che la costituiscono e la travagliano,non dovrebbe essere accolta secondo una forma utopica da parte delpensiero occidentale, ma piuttosto come intesa come una forma di ete-rotopia. Passando dal pensiero europeo al pensiero cinese vi semprequesto cambiamento di quadro da operare e quindi una discontinuitdel pensiero da assumere [] una sorta di scomodit teorica, comeuna sfasatura, undcalage del pensiero93. Restando allinterno dellatradizione losoca occidentale che comprende anche quella araba equella ebraica si rischia di rimane allombra del proprio impensato,di cia partire da cui ci si interroga, ci si pone ogni domanda. Il tra-scendentale della domanda occidentale, per cos dire, non viene maiilluminato da quella stessa domanda, appunto perch le resta sempreanteriore, a monte. Una cosa decostruire la metasica dellessere,unaltra passare attraverso un ambiente di pensiero in cui le nozionidi essere e di essenza non hanno preso consistenza94. Per quanto lalosoa abbia scritto la propria storia attraverso una serie continua dirinnovamenti e anche di critiche da parte di un losofo nei confronti

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    diffrance archi-originaria che abita nellintimo di ogni concetto formu-lato dallogos losoco. Nel suo pensiero vige tuttavia la consapevolezzache questa inaggirabile appartenenza alla dimensione della grecit ilsegno distintivo della radicale nitezza alla quale si consegnati. Il fattodi pensare in una lingua, determinata storicamente e geogracamente, indice di un limite ineludibile; e per Derrida la domanda losoca sempre greca, parla lidioma greco. Non si pu pensareassolutamente,in modo incondizionato. A questo si potrebbe obiettare che anche lastoricit e la contingenza del linguaggio, a cui da addebitare il caratterenon assoluto del pensiero che in esso si esprime, sono presupposti nonassoluti e non originari. Non forse unmythos dellOccidente lattac-camento alla Storia e alla storicit delle lingue, delle forme culturali edartistiche? Non questo lorizzonte di senso all'interno del quale si strutturato il suologos? Se ci si sapesse disporre ad intendere la strut-tura di fondo dellessere, oltre il linguaggio questa la conseguenzadecisiva dellobiezione si comprenderebbe che anche la lingua, chesi ritiene relativa e diveniente, non altro che frammento di una realtuna e immutabile. Ma a partire da quale linguaggio, da quale posizionesi pu formulare una tale affermazione? Ci potr mai essere una po-sizione assoluta in grado di uscire da s e osservarsi in modo neutro,distaccato, non relativo? Attraverso giochi di rimandi incrociati e co-implicazioni interne, Derrida mostra che ogni posizione a partire dalla

    quale si cerchi di fornire una visione complessiva e incontrovertibile delfondamento e dellorigine rimane coinvolta nel movimento di contami-nazione reciproca fra empirico e trascendentale. Nessun linguaggio, enessuna lingua naturale, pu trascendere se stesso e le proprie specicitcontingenti; in quanto determinato da regole particolari, e diverso daaltri codici, ogni linguaggio si presenta come una prospettiva peculiaree determinata. Le stesse regole logiche che presiedono alla costituzionedi un discorso ne inciano la possibilit di nominare e di signicarelinnominabile. Volendo accogliere e incorporare lalterit nel cuore dellostesso, illogos greco lha neutralizzata, si protetto per sempre controogni convocazione assolutamentesorprendente 100. Nulla mai prendealla sprovvista il pensiero che pretende di dire lintero, di coinciderecon la verit. Laltro, il differente, ci che sorprende perch irrompe espezza la circolarit chiusa del discorso, viene gi da sempre incorporatonella identit di un pensiero che non pu uscire da se stesso, e dunquenon pu rispettare davvero lalterit: volendo dirla e comprenderla, laaddomestica, la riconduce al proprium. Nel momento in cui lo nomino,e dico semplicemente lAltro, lho gi incorporato, ho gi tolto la suaalterit, riconducendolo nel cerchio delle mie categorie.

    importante rilevare come alcuni studi sul pensiero di Derridaabbiano aperto, gi dagli anni Novanta, alcune piste di ricerca cheintersecano ladmarche decostruzionista con linee di fuga che portanoin direzione di forme concettuali esterne alla tradizione occidentale. In

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    un saggio notevole, per acume teorico e originalit, David R. Loy hamesso in luce il logocentrismo sotteso al discorso dello stesso Derrida,a partire da una prospettiva buddhista: Grazie alla sensibilit che itesti di Derrida hanno aiutato a sviluppare, possibile comprendere latradizione buddhista come una storia di questa lotta tra delimitazionedecostruttiva e riappropriazione metasica, tra un messaggio che scalzaogni certezza indebolendo il senso del s, che cerca appunto certezze,e una tendenza contrapposta a dogmatizzare e istituzionalizzare questasda. [] Lapproccio di Derrida ancora logocentrico, dal momentoche ci che deve essere decostruito non soltanto il linguaggio, ma ilmondo in cui viviamo e il modo in cui viviamo in esso 101.

    Questa allora la scommessa, o la sda di Derrida: come lasciareche lAltro venga accolto, senza con ci stesso imbrigliarlo allinternodelle proprie categorie? In relazione allo sguardo, questo problemaviene denunciato in alcune pagine centrali dellopera di Sartre Lesseree il nulla. Per il losofo esistenzialista lo sguardo prima di tutto unintermediario che mi rimanda da me a me stesso102. La difcolt, iltirocinio dello sguardo consiste nel riuscire a passare dalla reicazionedellaltro, inteso al modo di un oggetto tra oggetti, alla sua accoglienzain quanto soggetto. Ebbene, in Memorie di cieco Derrida si muove inuna direzione analoga per quanto attiene alla riduzione, se non proprioalla messa in scacco, della pretesa dellocchio di ssare e individuare il

    suo oggetto in un modo esente da cesure e da ombre. Nessuno sguardoillumina o svela soltanto, perch al tempo stesso vela, occulta, ottunde.Nessun pensiero, nessun linguaggio dice lintero, esaurisce la verit dels e dellaltro, perch ne mostra sempre solo una parte, quella parte cheil suo dire, il suo nominare mette in luce di volta in volta, a partire dalproprio angolo prospettico. Non si tratta di unaevidenza, di unideachiara e distinta: levidenza proprio ci che Derrida mette continua-mente in questione, esibendone gli intrecci, i legami con ci che laprecede, la circonda, la avvolge, la condiziona, con quei presuppostiimpliciti che la vogliono presentare appunto come una evidenza. Lostesso discorso di Derrida non ha, n pu avere, pretese di assolutezzao di originariet. anchesso un discorso tra altri, appartiene alla disse-minazione del senso che, lungi dal voler inibire lintenzione di verit cheanima la losoa, tenta di riattivarne le risorse e le possibilit di azione.Pensare altrimenti la metasica non signica distruggere illogos meta-sico, pretesa irragionevole, ma decostruire la metasica per riattivarela possibilit pi propria dellogos losoco, per riportare alloriginela voce del losofo, nel non-luogo della genesi di tale voce, non-luogoin cui nessuna voce padrona di se stessa 103. Il lavoro di scavo e dirottura degli atavismi di un pensiero o di unidea dello sguardo, anco-ra interno a una ontologia della presenza, si offrono come un duplicepercorso per una indagine decostruttiva. Da un lato, come si visto,Derrida rimette in discussione alcuni luoghi