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DANTE: LA DIVINA COMMEDIA Nome COMMEDIA: perché finisce bene e ha un linguaggio popolare (umile) a differenza della tragedia che finisce male e ha un linguaggio ricercato (alto) DIVINA: nome aggiunto dal poeta Boccaccia in seguito Tempo 15 anni (dal 1306 al 1321, data della sua morte) Lingua volgare fiorentino Forma inferno A imbuto. Si restringe andando in giù. Più grave è la pena, meno gente l’ha commessa, più stretto è il cerchio (girone). Nel cerchio più piccolo, sul fondo, c’è Lucifero, il diavolo che ha sfidato Dio dopo la creazione dell’uomo. Dio aveva lasciato all’uomo la libertà di amarlo o negarlo. Lucifero (Satana) pensava invece che Dio dovesse imporre all’uomo con la forza di seguirlo e si ribella al volere di Dio. Dio allora manda l’Arcangelo S. Michele a combattere contro Satana. S. Michele lo sconfigge e lo fa precipitare dal cielo. Cadendo provoca un enorme buco a forma di imbuto, l’inferno. Stile La Divina Commedia è un racconto allegorico (cioè ogni avvenimento reale si descrive attraverso un simbolo) e didascalico (cioè ha come scopo insegnare qualcosa). Egli va all’Inferno per capire il peccato suo e nostro (Nel mezzo del cammin di nostra vita) e insegnarci quale sia il destino di chi segue o non segue Dio Struttura della Divina Commedia Un’introduzione + tre cantiche di 33 canti per un totale di 100 canti Introduzione 1 canto 100 canti totali Inferno 33 canti Purgatorio 33 canti Paradiso 33 canti I versi sono di 11 sillabe (endecasillabi), raggruppati in gruppi da 3 (terzine). La rima è incatenata (aba – bcb – cdc – ecc.) I numeri sono simbolici. Dio è in 3 persone (Padre, Figlio e Spirito Santo), ma è 1. Per questo i numeri 1 e 3 si ripetono Il racconto Dopo la morte di Beatrice, la donna che Dante amava, egli vive un periodo di dolore che si accompagna ad un periodo di peccato, cioè lontananza da Dio (rappresentato dalla selva, il bosco oscuro in cui si perde). Ad un certo punto capisce che per superare questa difficoltà deve passare attraverso il sacrificio (simbolo: scalare una montagna) per ritrovare Dio (rappresentato dal sole e in altre parti dalle stelle). Ma trova sulla sua strada delle difficoltà (tre animali selvaggi) e chiede aiuto ad un suo amico, Virgilio (che rappresenta la ragione). Egli dice che per ritrovare Dio, dovrà passare dal dolore (inferno e Purgatorio). Poi attraverso Beatrice (che rappresenta la Grazia di Dio) si avvicinerà a Dio, cioè in Paradiso. Quindi: 1. per ricongiungerci a Dio Dante ci dice che abbiamo bisogno di amici (Virgilio e Beatrice) che ci accompagnano 2. Per raggiungere Dio ci vuole prima di tutto la RAGIONE (rappresentata da Virgilio) e la GRAZIA DI DIO) rappresentata da Beatrice.

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DANTE: LA DIVINA COMMEDIA

Nome

COMMEDIA: perché finisce bene e ha un linguaggio popolare (umile) a differenza della tragedia che finisce male e ha un linguaggio ricercato (alto) DIVINA: nome aggiunto dal poeta Boccaccia in seguito

Tempo

15 anni (dal 1306 al 1321, data della sua morte)

Lingua

volgare fiorentino

Forma inferno

A imbuto. Si restringe andando in giù. Più grave è la pena, meno gente l’ha commessa, più stretto è il cerchio (girone). Nel cerchio più piccolo, sul fondo, c’è Lucifero, il diavolo che ha sfidato Dio dopo la creazione dell’uomo. Dio aveva lasciato all’uomo la libertà di amarlo o negarlo. Lucifero (Satana) pensava invece che Dio dovesse imporre all’uomo con la forza di seguirlo e si ribella al volere di Dio. Dio allora manda l’Arcangelo S. Michele a combattere contro Satana. S. Michele lo sconfigge e lo fa precipitare dal cielo. Cadendo provoca un enorme buco a forma di imbuto, l’inferno.

Stile

La Divina Commedia è un racconto allegorico (cioè ogni avvenimento reale si descrive attraverso un simbolo) e didascalico (cioè ha come scopo insegnare qualcosa). Egli va all’Inferno per capire il peccato suo e nostro (Nel mezzo del cammin di nostra vita) e insegnarci quale sia il destino di chi segue o non segue Dio

Struttura della Divina Commedia

Un’introduzione + tre cantiche di 33 canti per un totale di 100 canti Introduzione 1 canto

100 canti totali Inferno 33 canti Purgatorio 33 canti Paradiso 33 canti

I versi sono di 11 sillabe (endecasillabi), raggruppati in gruppi da 3 (terzine). La rima è incatenata (aba – bcb – cdc – ecc.) I numeri sono simbolici. Dio è in 3 persone (Padre, Figlio e Spirito Santo), ma è 1. Per questo i numeri 1 e 3 si ripetono

Il racconto

Dopo la morte di Beatrice, la donna che Dante amava, egli vive un periodo di dolore che si accompagna ad un periodo di peccato, cioè lontananza da Dio (rappresentato dalla selva, il bosco oscuro in cui si perde). Ad un certo punto capisce che per superare questa difficoltà deve passare attraverso il sacrificio (simbolo: scalare una montagna) per ritrovare Dio (rappresentato dal sole e in altre parti dalle stelle). Ma trova sulla sua strada delle difficoltà (tre animali selvaggi) e chiede aiuto ad un suo amico, Virgilio (che rappresenta la ragione). Egli dice che per ritrovare Dio, dovrà passare dal dolore (inferno e Purgatorio). Poi attraverso Beatrice (che rappresenta la Grazia di Dio) si avvicinerà a Dio, cioè in Paradiso. Quindi:

1. per ricongiungerci a Dio Dante ci dice che abbiamo bisogno di amici (Virgilio e Beatrice) che ci accompagnano

2. Per raggiungere Dio ci vuole prima di tutto la RAGIONE (rappresentata da Virgilio) e la GRAZIA DI DIO) rappresentata da Beatrice.

Immagine tratta da: http://webpage.pace.edu/abelardo/italyweb/DanteItaliano/Dante.html

LA FINE DELL’INFERNO LA FINE DEL PURGATORIO

LA FINE DEL PARADISO

Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d’alcun riposo,

salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch’i’ vidi de le cose belle che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Io ritornai da la santissima onda rifatto sì come piante novelle rinnovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire alle stelle

A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

COSA NOTI DI PARTICOLARE LEGGENDO LA FINE DELLE TRE CANTICHE?

INFERNO - CANTO I [Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virtù. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opra.]

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!

Tant' è amara che poco è più morte;

ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,

dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Io non so ben ridir com' i' v'intrai,

tant' era pien di sonno a quel punto

che la verace via abbandonai.

Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,

là dove terminava quella valle

che m'avea di paura il cor compunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle

vestite già de' raggi del pianeta

che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta,

che nel lago del cor m'era durata

la notte ch'i' passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata,

uscito fuor del pelago a la riva,

si volge a l'acqua perigliosa e guata,

così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,

si volse a retro a rimirar lo passo

che non lasciò già mai persona viva.

L’ENTRATA ALL’INFERNO – CANTO III

"PER ME SI VA NE LA CITTÀ DOLENTE,

PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE,

PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE:

FECEMI LA DIVINA PODESTATE,

LA SOMMA SAPIENZA E ’L PRIMO AMORE.

DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE

SE NON ETTERNE, E IO ETTERNO DURO.

LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH’INTRATE".

Queste parole di colore oscuro

vid’io scritte al sommo d’una porta;

per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

Ed elli a me, come persona accorta:

«Qui si convien lasciare ogne sospetto;

ogne viltà convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto

che tu vedrai le genti dolorose

c’hanno perduto il ben de l’intelletto».

E poi che la sua mano a la mia puose

con lieto volto, ond’io mi confortai,

mi mise dentro a le segrete cose.

Quivi sospiri, pianti e alti guai

risonavan per l’aere sanza stelle,

per ch’io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,

parole di dolore, accenti d’ira,

voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira

sempre in quell’aura sanza tempo tinta,

come la rena quando turbo spira.

E io ch’avea d’error la testa cinta,

dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?

e che gent’è che par nel duol sì vinta?».

Ed elli a me: «Questo misero modo

tegnon l’anime triste di coloro

che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro

de li angeli che non furon ribelli

né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

Caccianli i ciel per non esser men belli,

né lo profondo inferno li riceve,

ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».

E io: «Maestro, che è tanto greve

a lor, che lamentar li fa sì forte?».

Rispuose: «Dicerolti molto breve.

Questi non hanno speranza di morte

e la lor cieca vita è tanto bassa,

che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.

Fama di loro il mondo esser non lassa;

misericordia e giustizia li sdegna:

non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna

che girando correva tanto ratta,

che d’ogne posa mi parea indegna;

e dietro le venìa sì lunga tratta

di gente, ch’i’ non averei creduto

che morte tanta n’avesse disfatta.

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,

vidi e conobbi l’ombra di colui

che fece per viltade il gran rifiuto.

Incontanente intesi e certo fui

che questa era la setta d’i cattivi,

a Dio spiacenti e a’ nemici sui.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,

erano ignudi e stimolati molto

da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,

che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi

da fastidiosi vermi era ricolto.

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,

vidi genti a la riva d’un gran fiume; (...)

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: «Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:

i’ vegno per menarvi a l’altra riva

ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo. (...)

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,

cangiar colore e dibattero i denti,

ratto che ’nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti,

l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme

di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,

forte piangendo, a la riva malvagia

ch’attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia,

loro accennando, tutte le raccoglie;

batte col remo qualunque s’adagia. (…)

DAL CANTO V DELL’INFERNO: PAOLO E FRANCESCA I' cominciai: «Poeta, volontieri

parlerei a quei due che 'nsieme vanno,

e paion sì al vento esser leggieri».

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno

più presso a noi; e tu allor li priega

per quello amor che i mena, ed ei verranno».

Sì tosto come il vento a noi li piega,

mossi la voce: «O anime affannate,

venite a noi parlar, s'altri nol niega!».

Quali colombe dal disio chiamate

con l'ali alzate e ferme al dolce nido

vegnon per l'aere, dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov' è Dido,

a noi venendo per l'aere maligno,

sì forte fu l'affettüoso grido.

«O animal grazïoso e benigno

che visitando vai per l'aere perso

noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l'universo,

noi pregheremmo lui de la tua pace,

poi c'hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,

noi udiremo e parleremo a voi,

mentre che 'l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui

su la marina dove 'l Po discende

per aver pace co' seguaci sui.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,

prese costui de la bella persona

che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.

Caina attende chi a vita ci spense».

Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand' io intesi quell' anime offense,

china' il viso, e tanto il tenni basso,

fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,

quanti dolci pensier, quanto disio

menò costoro al doloroso passo!».

Poi mi rivolsi a loro e parla' io,

e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri

a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,

a che e come concedette amore

che conosceste i dubbiosi disiri?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

Ma s'a conoscer la prima radice

del nostro amor tu hai cotanto affetto,

dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto

di Lancialotto come amor lo strinse;

soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse

quella lettura, e scolorocci il viso;

ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso

esser basciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.

Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante».

Mentre che l'uno spirto questo disse,

l'altro piangëa; sì che di pietade

io venni men così com' io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

ULISSE ED IL FOLLE VOLO (DAL CANTO XXVI)

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando,

pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,

come fosse la lingua che parlasse,

gittò voce di fuori e disse: "Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse

me più d’un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né ’l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola da la qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,

e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov’Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;

da la man destra mi lasciai Sibilia,

da l’altra già m’avea lasciata Setta.

"O frati," dissi, "che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperïenza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

de’ remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo

vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,

che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto da la luna,

poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

ché de la nova terra un turbo nacque

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;

a la quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

PARADISO, XXXIII CANTO

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d'etterno consiglio,

tu se' colei che l'umana natura

nobilitasti sì, che 'l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l'amore,

per lo cui caldo ne l'etterna pace

così è germinato questo fiore.

Qui se' a noi meridïana face

di caritate, e giuso, intra ' mortali,

se' di speranza fontana vivace.

Donna, se' tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz' ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s'aduna

quantunque in creatura è di bontate

Codice Fontanini 200, Incipit, Biblioteca Guarneriana di S. Daniele del Friuli

Come si presenta un CODICE MINIATO

Qui comincia il primo Canto della Commedia di Dante, nella quale si di- mostra Come voleva pervenire alla cognitione delle virtu`, Et perciò co- noscere gli appariscono le tre furie.

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura

Tratto da http://www.dantepoliglotta.it/en/premessa-friulano/codice-fontanini-200-incipit-biblioteca-guarneriana-di-s-daniele-del-friuli/