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39 Dante e Averroè: la visione di Dio Paradiso XXXIII ANTONIO GAGLIARDI Università di Torino La lettura di ogni tema particolare o parte significativa della Commedia ha sempre bisogno di una ricomposizione della totalità perché soltanto nel tutto la parte è comprensibile. Il modo in cui Dante, nell’Epistola XIII a Cangrande pone il problema mostra il piano di un’ermeneutica essenziale in grado di determinare la leggibilità di ogni opera del tempo. Volendo dunque comporre un accessus che riguardi una parte di un’opera, bisogna prima dare qualche notizia del tutto di cui essa è parte (1979: 6o9). Il cammino di Dante dalla selva oscura alla visione di Dio è una totalità che condiziona tutti gli altri eventi interni e si offre come orizzonte necessario per la comprensione del senso complessivo del poema. Prima l’itinerario personale e poi l’oggetto finale della visione configurano una trama molteplice in grado di rappresentare la totalità uomo Dio in un divenire, la cui verità può essere cercata nella scrittura e nella storia. Il tutto e il fine sono i fondamenti di una razionalità che ordina e unifica la molteplicità delle situazioni e degli eventi interni alla Commedia e pone una direzione al cammino dell’uomo. Tra il principio e la fine Dio diventa il garante della verità e l’uomo può conoscere lo stato delle anime dopo la morte perché un principio di giustizia e di salvezza pone ognuna di loro dinanzi alla pena o alla beatitudine. Dante effettua un cammino di scienza e deve essere garantito nella sua conoscenza perché ciò che conosce deve diventare la verità dell’uomo sulla terra. Verità morale e spirituale in grado di motivare le

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Dante e Averroè: la visione di Dio Paradiso XXXIII

ANTONIO GAGLIARDI Università di Torino

La lettura di ogni tema particolare o parte significativa della Commedia ha sempre bisogno di una ricomposizione della totalità perché soltanto nel tutto la parte è comprensibile. Il modo in cui Dante, nell’Epistola XIII a Cangrande pone il problema mostra il piano di un’ermeneutica essenziale in grado di determinare la leggibilità di ogni opera del tempo.

Volendo dunque comporre un accessus che riguardi una parte di un’opera, bisogna prima dare qualche notizia del tutto di cui essa è parte (1979: 6o9).

Il cammino di Dante dalla selva oscura alla visione di Dio è una totalità che condiziona tutti gli altri eventi interni e si offre come orizzonte necessario per la comprensione del senso complessivo del poema. Prima l’itinerario personale e poi l’oggetto finale della visione configurano una trama molteplice in grado di rappresentare la totalità uomo Dio in un divenire, la cui verità può essere cercata nella scrittura e nella storia. Il tutto e il fine sono i fondamenti di una razionalità che ordina e unifica la molteplicità delle situazioni e degli eventi interni alla Commedia e pone una direzione al cammino dell’uomo. Tra il principio e la fine Dio diventa il garante della verità e l’uomo può conoscere lo stato delle anime dopo la morte perché un principio di giustizia e di salvezza pone ognuna di loro dinanzi alla pena o alla beatitudine.

Dante effettua un cammino di scienza e deve essere garantito nella sua conoscenza perché ciò che conosce deve diventare la verità dell’uomo sulla terra. Verità morale e spirituale in grado di motivare le

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scelte religiose e intellettuali. Lo statuto di verità della Commedia deve essere posto come apriori perché soltanto a queste condizioni può assolvere la funzione profetica e di sollecitazione della coscienza individuale e collettiva. Mutano gli statuti della scrittura dantesca ed è necessario comprendere la dialettica delle forme letterarie nel passaggio da opera a opera. Dante vede e la visione è principio e fondamento della scienza. La conoscenza sperimentale dell’oltretomba, dall’inferno all’Empireo, può diventare scienza dell’uomo, attraverso la parola, soltanto se è assicurato il fondamento di verità di ciò che si vede e nel modo in cui viene detto.

La verità deve passare attraverso l’esperienza conoscitiva dell’uomo e non può essere soltanto conoscenza mediata dai libri. Una nuova scienza della verità attribuisce all’uomo la capacità di conoscere secondo verità e di significare attraverso le parole. Una scienza dell’uomo, proveniente dal mondo arabo, diventa anche scienza della verità. Dio garantisce soltanto come principio assoluto come fine del cammino dell’uomo e nell’ordine dell’universo. Ma chi è Dio? Anche su questa domanda bisogna entrare nella storia e nella biblioteca nuova della filosofia greco- araba. C’è ormai un Dio doppio, uno Dio dei filosofi e uno della dottrina cristiana. Nell’unicità del nome il Dio dei filosofi e della metafisica deve trovare l’accordo con il Dio cristiano. Quest’altro Dio si deve ritrovare nel luogo e nei fini del Dio cristiano. Nell’esperienza ultima di Dante la differenza non deve essere visibile e un unico cammino, attraverso la biblioteca filosofica e quella cristiana, deve mostrare tutte le forme di conciliazione in sapienza e in escatologia.

La differenza si è costituita in conflitto e in conciliazione e ha una forma storica nei libri scritti dall'uomo. Tommaso d’Aquino si è assunto il compito di confutare e di conciliare perché questa biblioteca non è più costituita dalla sola sapienza cristiana, accumulata per secoli. Una nuova biblioteca è giunta dall’Oriente, scritta in arabo ma contenente anche la sapienza dei greci. Un universo intellettuale nuovo entra in contesa con la sapienza cristiana opponendo una propria immagine dell’uomo e dei

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suoi fini ultimi. E’ in questione l’escatologia della visione di Dio e della beatitudine. A questa guerra tra filosofia e cristianesimo Dante cerca di porre rimedio portando a compimento la conciliazione oltre l’aquinate. Questo è il fine della Commedia come prima del Convivio. La soluzione dantesca dei conflitti è conoscibile soltanto confrontando le differenze tra il poema e questa biblioteca storica. Scrittura e storia sono complementari e specularmente efficaci nel determinare il piano della verità dell’opera.

Che ci sia il problema di individuare il piano di verità nella Commedia dantesca si può comprendere dal lungo dibattito sulla natura della sua scrittura. E’ allegoria? Di quale allegoria si tratta? La diversa attestazione dell’allegoria nel Convivio e nell’Epistola a Cangrande mostra già la capacità di Dante di mutare i propri punti di vista sulla produzione letteraria nel mutare della conformazione intellettuale. Di questa diversità dantesca è necessario tenere conto per non omologare in un’unica stagione intellettuale e poetica l’inquieta ricerca di un approdo, fatta di progetti e silenzi, di fallimenti e nuovi inizi.

Il tema dell’allegoria apre l’officina del poeta e mostra come una diversa riflessione sulla propria opera separa il Convivio dalla Commedia e come non è possibile sovrapporre l’uno all’altra neanche in questi problemi. Se si accettasse l’allegoria così come è teorizzata nel Convivio verrebbe meno il fondamento di verità della Commedia. Nella prima opera l’allegoria dei poeti investe la natura stessa della scrittura, imponendole un dualismo di fatto, tra materia e forma e tra verità e menzogna.

Ancora è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l’oro è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e apparecchiata […] (1988: 117).

La scrittura, nel Convivio, ha una doppia natura come per ogni cosa naturale composta di materia e forma. E’ necessario prestare la massima attenzione a questo dato perché costituisce la vera differenza

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con la formulazione dell’ Epistola. Dante ha bisogno di fondare scientificamente, secondo la scienza della natura, la poesia per sfuggire all’anatema lanciato dai filosofi contro la scrittura poetica, il sermo fabulosus, la scrittura mitico- allegorica. Riportando la poesia dentro la razionalità della natura può riproporre il mito di Orfeo legittimato filosoficamente. Il significato del mito ha soltanto una funzione intellettuale. Rifondando l’allegoria nella filosofia viene meno l’estraneità della poesia (Gagliardi 1999: cap. II).

Non è così per la Commedia. L’allegoria, com’è chiaro nell’Epistola, si pone soltanto al livello dell’interpretazione e non sulla costituzione intima della scrittura. Non soltanto, l’evento narrato si pone sotto il segno della verità e non sulla tradizione favolosa di miti antichi. Si può condurre sotto l’allegoria dei teologi? Certamente nell’allegoria dei teologi c’è un presupposto storico nella tradizione biblico- cristiana. E’ questo il caso del viaggio di Dante fino alla visione di Dio? Il punto critico è proprio questo. Se il cammino che porta alla visione di Dio, nel poema dantesco, è soltanto una variante dell’ascesa di s. Paolo o di altri non c’è problema. Si tratterebbe di un’invenzione analoga a una tradizione teologica consolidata. La tradizione cristiana viene ricordata come strumento di legittimazione e non come costituzione di verità. Bisogna sempre fare i conti con la storia e la biblioteca araba. Un’altra dottrina riscrive l’ascesa a Dio dell’asceta cristiano e ne ripete l’escatologia di beatitudine. Non tutto si risolve nell’ambito del cristianesimo e l’altro libro ha una sua forza in grado di mettere in crisi la storia cristiana della salvezza. Per questo motivo è necessario trovare il fondamento di verità e storia che permette di sperimentare un cammino comune tra filosofia e cristianesimo.

Singleton opta per l’allegoria dei teologi perché pensa a una costruzione tutta personale di Dante in sintonia con la tradizione biblico-cristiana. Il suo discorso è importante perché individua un fondamento storico alla verità della Commedia anche se tutto interno alla tradizione teologica. Tutta la storia viene sigillata nella storia sacra che diventa esemplare deposito di verità. Non è così. C’è una storia che viene

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trasformata in verità proprio dall’esperienza di Dante. La Commedia non è ripetizione ma viaggio nuovo che deve sigillare nuove verità e sostituire l’unificazione al conflitto. E’ progetto tutto personale che deve trovare in Dio la legittimazione. A questo serve la visione. E’ necessario far venire fuori questa storia dalla scrittura. Il viaggio a Dio è di per sé esperienza di verità e non per analogia con la scrittura sacra. Non è allegoria ma nuova realtà. Non allegoria dei teologi ma poema storico. Poema storico che si pone come frontiera tra il passato e il futuro narrando come dal punto di vista dell’eterno le guerre tra gli uomini hanno già trovato una soluzione.

E’ necessario cercare la ragione storica di questa visione e comprendere come filosofi e teologi sono attestati su una frontiera reciprocamente ostile. E’ necessario comprendere la verità storica di questo viaggio e la sua assoluta opposizione alla tradizione biblico-cristiana. Questa nuova storia dimostra che il viaggio a Dio della Commedia non può essere allegoria dei teologi perché proprio i teologi, a cominciare da Tommaso d’Aquino, ne contrastano la verità e la possibilità. L’uomo non può ascendere all visione di Dio in questa vita mentre Dante giunge fino a quest’atto supremo. Non è allegoria ma evento in un’altra dimensione fattuale la cui spiegazione è nella nuova biblioteca greco-araba giunta nell’Occidente cristiano e nella coscienza intellettuale da essa prodotta. Questa verità nuova che si trova nei libri deve essere sancita dai fatti. La visione di Dio che si trova nei libri deve trovare la sanzione nell’esperienza concreta. Soltanto a queste condizioni, nella verità del cammino fino alla visione di Dio, la filosofia è vera. Ed è vera anche nella dimensione cristiana.

Questa storia, utopicamente realizzata e conciliata con cristianesimo, si incontra soprattutto alla fine, quando tutto il cammino giunge al fine, la visione di Dio. Allora si ci renderà conto quanto questa storia contemporanea è prevalente. Singleton si sforza di trovare la ragione di questa visione.

Ma chi è che vuole vedere al modo di Dante? Non il teologo, non il filosofo dell’epoca, non il mistico il quale, più che vedere,

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cerca di perdersi in una diretta e momentanea unione con Dio. E allora perché vedere al modo in cui vide Dante? (Singleton 1978: 94-95)

Invece è proprio il filosofo a mettersi in cammino per andare a vedere Dio. Sono i filosofi arabi, soprattutto Averroè, ad aver portato questa escatologia alternativa nell’Occidente cristiano. Un viaggio laico verso un Dio laico. Il Dio della metafisica. Cambia la natura della visione. Si vede per conoscere perché l’intelletto umano è pervenuto all’altezza della perfezione divina. Il vedere rimanda alla conoscenza intellettuale. Dio intelletto viene conosciuto dall’intelletto umano. Nella visione l’uomo diventa Dio, parte integrante della sostanza divina, perché gli intelletti si assimilano o si congiungono. L’analogia tra gli occhi e l’intelletto trasforma in visione ogni forma di conoscenza. Alla visione si aggiunge la beatitudine. In questo modo anche questa biblioteca parla la lingua della sapienza cristiana mentre ne contesta i fondamenti.

L’uomo può raggiungere la beatitudine della visione di Dio non per Cristo e nell’altra vita ma in questa e tramite la scienza. L’essere vivente può vedere Dio per una sua capacità naturale, la scienza. Questo è il momento più traumatico. La scienza porta alla visione di Dio e alla beatitudine escludendo Cristo e l’istituzione terrena, la chiesa. Tutta la storia della salvezza viene cancellata per permettere soltanto al filosofo che si dedica integralmente alla conoscenza di poter giungere alla congiunzione con Dio in questa vita. La biblioteca cristiana non è sufficiente per leggere la Commedia. L’esegeta della Commedia deve trasformarsi in storico per raggiungere la pienezza di una verità che passa dalle scritture alle coscienze e viceversa. Se viene esclusa la contemporaneità dall’indagine dello storico la visione dantesca rimane un evento unico e personale. Letteratura e non storia, non verità.

Di questa verità storica e personale è necessario indagare lo statuto nel modo in cui il lettore di Dante può cercare nella biblioteca e nel tempo. Poi ci pensa lo stesso poeta a portare le differenze dentro l’opera, storicizzando se stesso e offrendo le alternative al proprio

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cammino oltre la frontiera imposta all’uomo da Dio. Oltre le frontiere poste dalla teologia cristiana. Per questo motivo è necessario comprendere come per tutta la strada il cristianesimo e la filosofia si accordano per permettere il felice esito del cammino. Questo viaggio ripete quello di Ulisse, è la cristianizzazione di quel cammino oltre la frontiera che separa dal divino. Ma con altro esito. Ulisse diventa la chiave ermeneutica per comprendere i conflitti e i modi diversi di incamminarsi verso Dio. Non la sfida a Dio, tramite l’acquisizione della scienza e la pratica della virtù, può portare alla visione finale e alla beatitudine ma l’assimilazione tra Cristo e la scienza, nella figura di Beatrice.

La visione di Dio è evento reale, fondato su una premessa dottrinale che per i filosofi è vera e rende realizzabile quel fine. Non è allegoria poetica o teologica, costruzione poetica buona per edificare moralmente e spiritualmente. Poi il Dio cristiano si mette d’accordo con il Dio dei filosofi e unifica in sé tutti i fini e tutti i conflitti. Tutto ritorna circolarmente in una concorde armonia di conoscenza umana e grazia divina. Quando Dante inizia il viaggio con la guida di Virgilio c’è già predisposto un piano provvidenziale che costruisce la strada fino alla fine.

Nell’Epistola a Cangrande si legittima la verità della scrittura, nella verità dell’esperienza vissuta dal protagonista, distinguendola dall’applicazione sul piano morale e spirituale. Quel cammino è verità e come tale bisogna intenderlo per chi si appresta alla lettura dell’opera. La lettera è vera. Qui interviene l’allegoria, nel modo della fruizione. Il lettore diventa il fruitore di quella verità purché sia in grado di interpretarla correttamente e di applicare su di sé la conoscenza implicita nell’opera. La scrittura non è altro dalla verità perché dipende dall’esperienza di verità. Nella Commedia non esistono verità nascoste da menzogne più o meno belle. Possono essere verità difficili ma non nascoste. Quando Dante scrive per enigmi avvisa il lettore. La poesia diventa lingua propria della filosofia e della teologia dissolvendo ogni pretesa di separazione e di diversità tra la materia e la forma. Dante e la

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sua opera devono ritornare sulla terra perché la verità del divino deve diventare la verità del mondo.

Dalla storia alla storia. In mezzo, l’esperienza della trascendenza diventa lo specchio nel quale conviene un’immagine compiuta dell’uomo. Il cammino a Dio è anche verso una condizione umana sulla terra più adeguata ai principi religiosi e alle condizioni politiche. Non soltanto Dio è fine ma anche l’uomo. Perché il nascondimento della verità? La menzogna, per quanto bella, impedisce la conoscenza. Soltanto una parola chiara può trasferire il conosciuto in una nuova pratica terrena. L’invito a far conoscere la visione nella sua interezza riserva a Dante anche il ruolo di profeta. Ma non si tratta più della concezione eroica dei tempi biblici. Questa profezia non è molto lontana dalla pratica magistrale nei confronti di una moltitudine di allievi. Chi apprende è in grado di insegnare e chi ha visto di narrare. La Commedia è il libro scritto per ordine divino affinché gli uomini siano edotti della propria prospettiva dopo la morte. Nello stesso tempo lo stato delle anime insegna il modo di abitare la terra.

Se i filosofi hanno abolito il linguaggio mitico-allegorico in filosofia, adatto soltanto a intelligenze imperfette, la poesia deve trovare la lingua propria per educare alla verità. Da Aristotele ad Averroè a Sigieri di Brabante sono tutti d’accordo: i poeti mentiscono. Ora, invece, tutte le forme del discorso devono convenire a formare la lingua della verità.

La forma o maniera del modo della trattazione è poetica, fittiva, descrittiva, digressiva, transuntiva e insieme definitiva, divisiva, probativa, improbativa ed esemplificativa (Epistola XIII: 615).

L’allegoria come menzogna viene cancellata dalla molteplicità dei modi di comunicare. Questa poesia parla tutte le lingue della verità terrena affinché niente rimanga nascosto. La sfida di Dante nella Commedia nell’usare tutte le forme dell’argomentazione intellettuale, pur nell’unicità del testo poetico, risponde a questo conflitto tra poeti e filosofi. La poesia è in grado di gestire le forme parziali del discorso

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perché non è possibile rinunciare ad alcuna specificità linguistica. Questo è il primo livello di storicità nel commutare il conflitto in progetto di conciliazione. E’ il conflitto a generare la lingua molteplice del poema rendendo compatibili la metafora e il sillogismo, unificando la visione con la didattica della parola. Il poeta può aggiungere anche qualche maschera mitico-allegorica per ridurre il tasso di trasparenza e limitare la comprensibilità soltanto a chi ha l’intelletto sano. Questo, però, non impoverisce la verità ma impone al lettore la soluzione degli enigmi come ricerca aggiuntiva della stessa verità che non può uscire allo scoperto.

Su questa doppia condizione può agire l’allegoria. L’allegoria prima mostra il piano della verità e poi i modi dell’agire e consegna a ciascuno un fine da realizzare per poter raggiungere la beatitudine. La storicità dell’allegoria è funzionale all’agire dell’uomo. Modificare e adeguare il mondo, a cominciare da quello personale, dopo aver appreso la verità. Tale è il significato morale o anagogico dopo quello allegorico.

Infatti, il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico (ivi: 611).

Si hanno soltanto significati diversi mentre la natura della lettera è univoca. Il significato della lettera è autonomo e autosufficiente. La lettera è storia, evento. E’ necessario mantenere la differenza tra la lettera e l’interpretazione. La verità dell’interpretazione può essere accolta per fini altri, secondo i bisogni etici o spirituali.

E benché questi significati mistici siano definiti con diversi nomi, generalmente si possono tutti definire allegorici, in quanto si differenziano dal significato letterale ossia storico (ivi).

Si può comprendere come questa concezione dell’allegoria sia totalmente diversa da quella del Convivio. Ora si tratta soltanto di

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interpretazione diversa. La lettera è salva ed è portatrice di verità. C’è un subiectum, una materia, e una forma.

E’ dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’opera. Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina (ivi: 613).

La differenza non è molta perché lo stato delle anime dopo la morte dipende dal libero arbitrio usato in vita. La forma non è di diversa natura rispetto al soggetto ma riguarda semplicemente la disposizione del testo. “La forma poi è duplice: la prima riguarda la trattazione, la seconda il modo della trattazione” (ivi). Poi nella storicità della scrittura dantesca entrano tutti gli altri problemi. A cominciare da quello fondamentale. Può l’uomo conoscere Dio in questa vita? Non dovrebbe essere questo il soggetto vero della Commedia? Si tratta di un’idea tutta personale, su modelli tradizionali biblico- cristiani, di un aspirante teologo in esilio oppure, nella contemporaneità di Dante, è parte integrante della cultura e dei problemi che un intellettuale, filosofo o teologo cristiano, deve affrontare per affermare o negare? Anche qui il conflitto deve essere la guida per comprendere i modi di una dottrina che scuote dalle fondamenta l’escatologia cristiana. Quando Dante afferma di essere stato nell’Empireo, faccia a faccia con Dio, conferma uno dei gesti più tragici per la religione cristiana. Almeno secondo i teologi del tempo. Il poeta vide anche se dimenticò.

E se queste autorità non bastano a chi vuol criticare il poeta, lega il Della contemplazione di Riccardo di San Vittore, il Della considerazione di Bernardo, legga il Della quantità dell´anima, e cesserà di criticare (ivi: 639-641).

La tradizione biblico-cristiana serve soltanto a legittimare questa nuova visione. Chi vede Dio non è S. Paolo o Ezechiele. La loro testimonianza serve a costituire un precedente per un’ascesa a Dio che

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ha fondamenti nuovi e conflittuali. Il conflitto penetra dentro le parole e le parole diventano storia. Dante si iscrive dentro la stessa invidia che subì Sigieri di Brabante. Anche i suoi sono <<invidiosi veri>> e soltanto informandosi i suoi critici <<non invidebunt>>. I suoi antagonisti, veri o virtuali, probabilmente proprio i teologi come per Sigieri, sono invitati a leggere e a informarsi per comprendere come anche nella tradizione cristiana è possibile per l’uomo vivente giungere fino alla visione di Dio. Dante cita gli scrittori della tradizione cristiana ma tace sui filosofi. Averroè è assente. Per lui c’è la parola e la storia. Se la visione di Dio è possibile per gli uni deve essere possibile anche per gli altri purché accettino il principio cristiano della salvezza, la redenzione operata da Cristo.

[…] dovunque si procederà salendo di cielo in cielo e si parlerà delle anime beate incontrate in ciascuna sfera, e che la vera beatitudine consiste nel sentire il principio di verità […]. E poiché, dopo aver incontrato Colui che è principio cioè primo, vale a dire Dio, non è possibile cercare oltre […] in Dio termina la trattazione, in Dio che è benedetto nei secoli dei secoli (ivi: 643).

C’è un fine di felicità che si può acquisire seguendo la strada indicata nel poema.

[…] si può dire in breve che il fine di tutta l’opera e della sua parte consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità (ivi: 625).

Il fine fornisce il senso a tutta l’opera e la sua funzione morale e anagogia è già visibile. Questa è la via della perfezione cristiana e della perfezione filosofica. Felicità o beatitudine è un vocabolo polisemico (Corti 2003). La felicità del filosofo si può ricondurre alla felicità del beato? Per l’uno e per l’altro la visione di Dio è felicità.

Bisogna prendere atto che l’Epistola è un testo ambiguo o reticente che parla in un mondo in conflitto. Soltanto uscendo dalla scrittura si può comprendere il senso del cammino e della visione, del conflitto con i teologi, di una felicità che non è soltanto quella cristiana. Se si legge la Commedia nella sola dimensione cristiana si perde il

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senso della storia e della cultura del tempo e viene meno il progetto di Dante. Bisogna cercare l’altra verità che parla la stessa lingua del cristianesimo. La polisemia e l’ambiguità nascono anche dalla traduzione della filosofia greco-araba nella lingua della sapienza cristiana. Prendendo atto della polisemia si può recuperare la tridimensionalità e la profondità storica ed intellettuale della scrittura.

Dante si pone contro la teologia ufficiale, e di questo antagonismo l’Epistola è prova palese, e compone dottrina cristiana della salvezza e via filosofica alla perfezione intellettuale e alla beatitudine. Ma soltanto la storia può offrire tutte le spiegazioni. La simmetria tra il conflitto e la soluzione di Dante fa vedere come in cielo giunge quella biblioteca che sta devastando l’unicità della sapienza cristiana e viene legittimata nel modo in cui la storia della salvezza può appropriarsi anche di una biblioteca filosofica per attuare i piani provvidenziali di Dio. L’uomo può vedere Dio salendo per la scala dei cieli, attraversando i luoghi eterni della pena e della purgazione, trasformando il proprio cammino in una scuola filosofica e teologica, in compagnia di un maestro pagano e di una donna dalle ambigue connotazioni simboliche.

Il poema raccoglie i problemi e i conflitti e li risolve in questa prospettiva facendo da ponte tra la teologia cristiana e la filosofia, tra l’escatologia cristiana e quella filosofica. Assolto il compito storico della verità, è possibile iniziare il camino della salvezza nella visione di Dio. Per Dante la visione è finale, rispetto al cammino, ma non ultima, poiché su quella strada dovrà ritornare. L’aver posto il viaggio a Dio nell’anno giubilare è garanzia di una grazia operativa nella storia dell’uomo oltre i suoi meriti, intervento provvidenziale per risolvere tutti i problemi sulla terra.

Dopo aver sperimentato il molteplice luogo della dannazione e della beatitudine, Dante attraversa l’ultima soglia sulla quale sta Maria, madre di Cristo e di Dio, e giunge al cospetto di Dio senza essere distrutto dalla sua luce abbagliante. Questa ultima parte del viaggio racchiude le premesse perché il fine attuato rende vero il cammino e

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permette di trasformare in rivelazione l’esperienza personale. L’uomo può vedere Dio in questa vita e questo fine deve essere annunciato come vero a tutti quelli che finora hanno lottato per annullare questa prospettiva dalle possibilità dell’uomo. Il cristianesimo, per Dante, è in perfetta sintonia con questo fine. Ma è necessario ricostruire, per sommi capi, la dottrina e la storia altrimenti il testo rimane muto.

Non ci sono dubbi che la visione di Dio in questa vita entra nell’Occidente cristiano per opera di Averroè. Il terzo libro del De anima di Aristotele con il commento di Averroè è la scrittura che scardina l’antropologia cristiana e la sua escatologia. Nel quarto commento viene presentata la dottrina dell’unicità dell’intelletto per tutta la specie umana. Non solo. Il bambino appena nato non ha un intelletto personale. Per questo motivo è simile al bruto, l’animale senza ragione. L’intelletto personale si forma acquisendo gli intelligibili che gli forniscono la propria sostanza. Quando quell’intelletto si sarà formato (commento 36), poiché ha acquisito tutti gli intelligibili, si salderà con l’intelletto agente, la prima delle sostanze separate. Questa è la beatitudine dell’uomo anche secondo tutta la tradizione filosofica araba.

Vi sono alcuni testi particolarmente significativi perché diventano gli emblemi intellettuali nella tradizione filosofica e nella Commedia. La visione di Dio, nella comprensione della verità, è l’oggetto vero del primo commento al secondo libro della Metafisica.

[... ] quia comprehensio veritatis non est impossibilis in multis rebus credimus enim necessario nos scire veritatem in multis rebus. [...]. Et, quia dispositio intellectus de re intelligibili est sicut dispositio sensus de re sensibili, assimilavit virtutem intellectus in comprehendendo intellecta abstracta a materia modo debilissimo visui in sentiendo, sicut vespertilionis, non comprehendendo maximum sensibilium, sicut Solem. Sed hoc non demostrat res abstractas intelligere esse impossibile nobis: sicut inspicere Solem est impossibile vespertilioni quia fecit illud quod est in se naturaliter intelligibilem non intellectum ab alio, sicut si fecisset Solem non comprehensum ab aliquo visu 1.

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Il pipistrello diventa il simbolo della debole capacità di guardare il sole. Così l’uomo nei confronti delle sostanze separate e di Dio. L’abbagliamento mostra la debolezza dell’occhio umano dinanzi allo splendore divino e mentre lo stesso sole diventa simbolo di Dio. Dio è l’essere maggiormente intelligibile e sarebbe irrazionale non giungere alla sua incomprensione. Nello stesso testo c’è una dottrina fondamentale per comprendere il paradigma averroista nella sua forma storica e nei conflitti che ne derivano. L’uomo può comprendere Dio e le altre sostanze separate perché nella sua natura c’è questo desiderio.

Et signum eius est quod habemus desyderium ad sciendam veritatem quoniam si comprehensio esset impossibilis; tunc desyderium esset ociosum et concessum est ab omnibus quod nulla res est ociosa in fundamento naturae et creaturae [...] (ivi).

L’uomo può giungere alla conoscenza della verità perché nella sua natura c’è radicato questo desiderio. L’intelletto umano può guardare la luce abbagliante della verità perché la natura, che niente fa senza motivo e fine, lo ha concesso come prerogativa propria. Si tratta di una dimostrazione secondo ragione naturale. Per Dante questo teorema averroista è fondamentale perché costituisce buona parte della sua biografia intellettuale. Nel Convivio il desiderio viene cancellato dimostrando la sua irrazionalità. Questa negazione diventa la fonte dell’errore e assume la forma della tragedia nello smarrimento personale. Nella Commedia viene ripristinato e diventa il motore del cammino dell’uomo fino alla visione di Dio (Gagliardi 1994, 2002 b, i.c.s.).

Con l’immagine dell’abbagliamento dell’uomo pipistrello si devono fare i conti continuamente nell’ascesa di Dante fino a Dio. Bisogna anche tenere conto del modo in cui Dio può essere conosciuto dall’intelletto umano. Il vocabolo continuatio denota il modo della congiunzione tra i due e di ogni contatto tra enti metafisici, come tra l’intelletto umano e quello agente. Il commento 38 del XII libro della Metafisica mostra la congiunzione, la continuatio tra l’intelletto umano e l’intelletto agente e con Dio.

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[...] cum tali principio continuum est coelum et natura sicut in nobis bona dispositio parvo tempore. Iam declaratum est quod coelum et naturalia continuantur cum primo, quod est intellectus, qui est in fine gaudii et voluptatis, sicut nostra dispositio in continuatione cum intellectu, qui est principium, parvo tempore. Ista igitur dispositio in illo est semper, nobis vero est impossibile sed continuatio coeli cum hoc principio semper est, nostra autem continuatio cum principio, quod est in nobis, impossibile est ut sit semper. Illud autem quod continuatur de nobis est generabile et corruptibile, in corpore vero coelesti est aeternum. […]Et si omnis motus necesse est ut continuetur cum eo, a quo sit secundum finem, necesse est ut in postremo continuetur cum hoc intellectu abstracto, ita quod erimus dependentes a tali principio a quo coelum dependet, quanvis hoc sit in nobis modico tempore, sicut dixit Aristoteles (L. XII, comm. 38).

Questa è la mistica averroista.

Quando la mente umana, per via d’astrazione, si sarà procacciato il possesso di tutti gl’intelligibili con l’acquisto di tutte le scienze, allora l’intelletto agente si troverà unito totalmente come forma all’intelletto in potenza;[...] E’ possibile un’ulteriore ascesa, fino al congiungimento con le intelligenze che muovono i corpi celesti e con la prima intelligenza motrice (Nardi 1958: 136).

La conferma delle dottrine di Averroè si trova in Tommaso d’Aquino. Il testo esemplare nel quale si trova l’esposizione e la confutazione della visione di Dio è il terzo libro della Contra gentiles . Per la natura della presente scrittura si possono dare soltanto gli elementi essenziali di confronto. Viene elaborato un trattato sulla felicità e affrontato il problema della visione di Dio. “E questa è la sentenza della nostra fede circa la nostra conoscenza delle sostanze separate, però dopo la morte, non già nella vita presente (1975: 650). Da questa negazione si passa all’impossibilità della visione di Dio.

Ora, se in questa vita non possiamo avere l’intellezione delle sostanze separate, per la connaturalità del nostro intelletto con i

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fantasmi, meno che mai potremo vedere l’essenza divina, la quale trascende tutte le sostanze separate (ivi: 654).

Il desiderio naturale di vedere Dio, teorizzato da Averroè, viene fatto proprio da Tommaso anche se la sua realizzazione si avrà soltanto nell’altra vita.

Ora, un desiderio naturale sarebbe inutile, se non si potesse mai attuare. Perciò il desiderio naturale dell’uomo è attuabile. Ma non lo è in questa vita, come abbiamo dimostrato. Quindi è necessario che si attui dopo questa vita (ivi: 660).

L’ultima felicità non si può raggiungere in questa vita come ritennero Alessandro d’Afrodisia e Averroè.

Per queste ragioni e per altre consimili Alessandro[di Afrodisia] e Averroè ritennero che l’ultima felicità dell’uomo non consistesse nella conoscenza umana dovuta alle scienze speculative, ma a una saldatura con sostanza separata, che essi credevano possibile all’uomo in questa vita (ivi: 661).

La risposta definitiva rimanda la felicità ultima dell’uomo nell’altra vita. Perciò l’ultima felicità dell’uomo consisterà nella conoscenza che ha di Dio l’anima umana dopo questa vita, nel modo in cui lo conoscono le sostanze separate (ivi).

Tommaso pone una frontiera invalicabile tra l’uomo e Dio. La stessa frontiera viene ripetuta nella condanna del 1277, segno che il problema ha messo radici nell’Occidente cristiano.

8.Quod intellectus noster per sua naturalia potest pertingere ad cognitionem Primae Causae. 9.Quod Deum in hac vita mortali possumus intelligere per essentiam. 172.Quod felicitas habetur in ista vita et non in alia (Hissette 1977).

Questa situazione dottrinale ci fa comprendere il fondamento di verità e di storia della Commedia e come il suo fine non sia che la verità

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e la storia. Si cammina verso Dio per dimostrare che Dio è visibile in questa vita anche se per un privilegio eccezionale dato da Dio medesimo. Si tratta di un poema storico nel quale si sciolgono tutti i nodi della crisi. Non resta che verificare sul testo di Dante il modo in cui la storia diventa esperienza personale e nello stesso tempo progetto divino.

Su questa sinopia di scritture la poesia si estende per riscrivere un affresco che restituisce la pienezza di verità del cammino alla visione di Dio. Il poema traduce nell’esperienza personale e unica la molteplicità e l’incompatibilità della via dottrinale che conduce a Dio. Dopo tutto il cammino per i tre regni, l’uomo pipistrello si trova dinanzi all’ultima soglia che lo separa dal cospetto di Dio. Questa soglia può essere superata soltanto per la preghiera e la mediazione della madre di Cristo e di Dio.

Bisogna rendere conto di una lingua interna a questi problemi. Si chiama visione anche la conoscenza intellettuale. Ne rende conto Tommaso d’Aquino.

Dovendo noi uomini raggiungere la conoscenza delle cose intelligibili partendo dalle cose sensibili, applichiamo anche i termini della conoscenza sensitiva a quella intellettiva: specialmente quelli che si riferiscono alla vista, che tra tutti i sensi è quello più nobile e più spirituale, e quindi più affine all’intelligenza. Ecco perché denominiamo visione la conoscenza stessa dell’intelletto (1975: 673).

L’occhio umano, ormai si sa, non può resistere per sua natura alla luce abbagliante di Dio anche se un poco riesce a penetrare attraverso le sue deboli pupille. Durante l’ascesa Beatrice ha adeguato la capacità visiva di Dante al livello di intensità luminosa dei diversi cieli (Gagliardi 1991). Ora la preghiera alla Vergine ripropone i limiti dell’uomo e chiede per lui l’adeguamento della capacità visiva totale al proprio oggetto e la conservazione della sensibilità anche dopo la visione. Riuscirà il pipistrello a guardare Dio come l’aquila il sole?

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supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con gli occhi levarsi più alto verso l’ultima salute.

Paradiso, XXXIII, 25-25

Quel pipistrello del secondo libro della Metafisica è giunto fino in paradiso per fissare i propri occhi deboli sull’oggetto più luminoso e intelligibile massimo, Dio. Dio sole permetterà che un essere vivente apra gli occhi davanti a lui per godere di un attimo di felicità? La materia mortale dell’uomo è un impedimento vero.

perché tu ogni nube li disleghi di sua mortalità co’ preghi tuoi, sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.

Ancor ti priego, regina, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi.

ivi, 31-36

Soltanto Maria è in grado di togliere il velo della materia mortale dell’uomo per fargli vedere completamente la somma felicità (sommo piacer). Ma non basta. E’ necessario che gli occhi, dopo la visione suprema, rimangano intatti, non sia bruciati dall’intensità della luce. Tutta la sua sensibilità deve restare integra. La memoria della debolezza umana precede la visione come vero atto di umiltà, per ricordare che l’uomo non è in grado di giungere a Dio con le sua forze e che un eccesso di luce può sempre accecare.

Nel momento in cui l’uomo giunge al termine del viaggio e ottiene il fine desiderato anche il desiderio cessa perché realizzato.

E io ch’al fine di tutt’ i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii.

ivi, 46-48

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Il desiderio si compie in Dio. La specificità di questo desiderio mette in sintonia unica l’uomo e Dio così com’è nella dottrina originaria. Dante non avverte più dentro sé quel desiderio di visione che lo aveva accompagnato per tutto il viaggio. Il segno sensibile viene meno e si trasforma in un segno ulteriore che il desiderio ha trovato il proprio oggetto. La natura del desiderio è tale che cessa nel momento in cui si compie. Si desidera ciò che non si ha e nel momento in cui termina il viaggio termina anche il desiderio. Finire ha doppio significato, di cessare e di raggiungere il fine. D’altra parte è evidente che <<ardor del desiderio>> si riferisce a quel desiderio particolare che porta l’uomo dalla mancanza alla sua realizzazione. E la realizzazione è la visione. Il fine e la fine si corrispondono. Dante cerca di rappresentare una condizione limite tra la fine del desiderio e l’atto della visione, un momento di sospensione per preparare anche il lettore all’evento supremo.

Bernardo m’accennava, e sorridea, perch’io guardassi suso; ma io era già per me stesso tal qual ei volea:

ché la mia vista, venendo sincera, e più e più intrava per lo raggio de l’alta luce che da sé è vera.

ivi, 49-54

S. Bernardo invita a guardare interpretando l’ultimo assenso alla visione. E’ importante quel <<già>> perché determina la sincronia tra il venir meno del desiderio e l’atto della visione. Gli occhi diventano ulteriormente trasparenti e penetrano nel raggio divino.

Dante ora sospende la narrazione della visione per guardarsi dentro nel tempo del ritorno sulla terra. Ha bisogno di mettere a fuoco ancora una volta i limiti dell’uomo e la differenza tra la visione intellettuale e la capacità di memorizzare.

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Qual è colui che sognando vede, che dopo ‘l sogno la passion impressa rimane, e l’altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visione, e ancora mi distilla nel core il dolce che nacque da essa.

ivi, 58- 63

L’analogia del sogno e la visione intellettuale è funzionale soltanto all’esito differente della memoria dei due eventi. L’intelletto non ha reminiscenza della propria esperienza mentre il ricordare è la facoltà propria della memoria e dell’immaginazione. L’analogia con il sogno mostra come si trasferisce l’esperienza da una facoltà all’altra. Chi sogna difficilmente riesce a ricordare perfettamente il contenuto onirico. Al risveglio rimane soltanto un’impressione sensibile, di piacere o dolore. Nello stesso modo della visione intellettuale di Dio rimane poco o nulla mentre è più forte la dolcezza rimasta impressa nel cuore. Il passaggio dall’intelligibile al sensibile mette in atto la doppia natura dell’uomo. L’intelletto non ricorda mentre trasferisce alle facoltà sensibili, che hanno sede nel cuore, quella felicità provata trasformandola nel modo in cui le facoltà sensibili possono percepirla, la dolcezza. La dolcezza, in altri termini, è soltanto il corrispondente sensibile della felicità intellettuale.

Poi c’è l’altra immagine che indica la relazione tra l’intelletto umano e Dio. Nella conoscenza c’è assimilazione tra le due nature? La risposta è negativa. L’imprimere è termine strategico in questa esperienza. L’impressione, sulla natura passiva, non modifica sostanzialmente il proprio oggetto, non le fa mutare natura, agisce nel modo in cui il sigillo si imprime sulla cera. Il sigillo (Dio) non muta la natura dell’uomo, non c’è tra i due scambio sostanziale. L’uomo non diventa Dio ma partecipa della sua natura per un atto di impressione sul proprio intelletto. Quell’impressione poi si trasferisce alla memoria e al cuore.

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Si tratta di un momento importante nel quale si vede, nel modo in cui funziona, la doppia natura dell’uomo, quella intellettuale e quella sensibile. Viene fuori l’originaria dottrina averroista e il compromesso che Dante cerca con la dottrina cristiana dell’anima. Si può vedere in Purgatorio, XXV, 66-75 il rapporto tra l’intelletto e l’anima. La doppia origine dell’anima biologica e dell’intelletto.

Il ritorno all’atto supremo della visione, anche se attraverso la memoria debole di chi sta scrivendo gli eventi, riporta il momento in cui si ha la congiunzione (la continuatio) tra gli occhi e la virtus infinita di Dio.

Io credo, per l’acume ch’io soffersi del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi.

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi l’aspetto mio col valore infinito.

ivi, 76-81

Nel momento in cui la luce divina fa dolere gli occhi, come chi è colpito da una forte luce solare è tentato di rivolgere gli occhi altrove per proteggersi, anche Dante ha un momento di esitazione e la tentazione di distogliere gli occhi dalla luce di Dio. Ma non è possibile pena lo smarrimento, la perdita di Dio. La memoria del proprio smarrimento, dal quale inizia il viaggio, gli dà più forza e coraggio, fino all’ardimento. Il pellegrino ritorna con la mente al peccato originario nel quale c’è stata la perdita di Dio, lo smarrimento nella selva oscura, e questa memoria permette di non distogliere gli occhi anche se comporta sofferenza fissare lo sguardo nella luce divina. L’uomo pipistrello, per quanto sorretto dalla grazia divina, rimane sempre un essere limitato dinanzi a Dio sole e la sofferenza è il segno di una materia non eliminabile in vita.

A queste condizioni la vista può congiungersi con la virtus infinitadi Dio, la potenza infinita di una sostanza infinita. La visione

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oculare comporta la reale congiunzione intellettuale. Gli occhi ormai sono soltanto la metafora dell’intelletto. L’intelletto vede e conosce le altre sostanze intellettuali per assimilazione o per congiunzione. Nell’istante supremo Dio e l’intelletto dell’uomo si congiungono, continuano. Si tratta proprio della continuatio dei filosofi. Ma la continuatio non è l’assimilazione, la fusione tra le due nature. C’è sempre la dualità tra il sigillo e la cera a impedire che avvenga l’assimilazione (come la goccia d’acqua e l’oceano, secondo una metafora frequente nei secoli successivi). Anche questo verbo, giunsi, che parla della congiunzione tra l’uomo e Dio è strategico nel lessico intellettuale e soltanto nella biblioteca propria può avere senso.

Tommaso d’Aquino la pensa diversamente sulla possibilità che l’intelletto/occhio umano possa vedere Dio.

Una virtù finita non può eguagliare nella sua operazione un oggetto infinito. Ora, l’essenza divina in confronto a qualsiasi intelletto creato è una realtà infinita; poiché ogni intelletto creato rientra nei limiti di una data specie. Perciò è impossibile che la visione di un intelletto creato veda adeguatamente l’essenza divina, ossia così da vederla in tutta la sua visibilità (1975: 678).

Ciò che viene portato ad effetto per timore di perdere Dio viene ripetuto nella consapevolezza della grazia divina.

Oh abbondante grazia ond’io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi.

ivi, 82-84

La vista dell’uomo, che si logora nella luce eterna di Dio, è sempre in sintonia con la sua natura limitata. La memoria di questa fragilità diventa il vero atto di umiltà. Questa memoria della natura umana si pone di fronte allo sguardo che osa penetrare nella profondità della luce divina. La presunzione, quasi un atto d’arroganza, ricorda il rimprovero di Dio ad Adamo dopo il peccato: <<et secundum opera Adae et secundum praesumptionem illius>> (Sirach 35, 24). Ora quella

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presunzione diventa un atto ardito in armonia con la grazia divina. Il peccato di Adamo nell’aver voluto diventare simile a Dio, secondo la tentazione del serpente, è stata ripetuta dal filosofo. Il commento 36 di Averroè al terzo libro del De Anima di Aristotele culmina proprio con la promessa di questa somiglianza.

L’uomo, in questo modo, come afferma Temistio, è assimilato a Dio in quanto è tutti gli enti in qualche modo e in qualche modo li conosce; infatti gli enti non sono altro che la sua scienza, né la causa degli enti è altro che la sua scienza. Quanto mirabile è questo ordine, quanto straordinario è questo modo dell’essere! (Illuminati 1996: 168)

[…] aperiuntur oculi vestri et eritis sicut dii scientes bonum et malum (Genesis, 3, 5)

Vedere Dio fa diventare simili a Dio. Ma ora è la grazia e non la scienza a portare l’uomo a questa somiglianza. Adamo ora vede Dio e diventa simile a lui per concessione divina. In questo modo è possibile portare a termine tutto il processo di conoscenza. In Dio è possibile vedere tutto ciò che è in lui.

Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

ivi, 85-90

Perché in Dio si può vedere tutto l’esistente? Perché tutto l’esistente è in Dio. Tommaso d’Aquino contesta questa possibilità perché l’uomo vedendo tutte le cose in Dio vede anche tutta l’essenza divina.

Questo perché la sostanza divina può essere veduta, senza che se ne abbia la <<comprensione>> perfetta; mentre non si possono

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conoscere in essa, come sopra abbiamo visto, tutte le cose in essa conoscibili, senza la sua <<comprensione>> (1975: 681)

In Averroè un residuo platonico pone in Dio tutte le forme universali in atto mentre in potenza stanno nella materia prima. Anche Dante, nella Quaestio de aqua, conosce questo principio: “Omnes proportiones et formae sunt in potentia in prima materia et in actu in primo Motore” (Metafisica, XII, comm. 18).

C’è una lettura prima, più ovvia, per la familiarità di termini come volume dal quale può derivare anche <<squaderna>>. In Dio sono non soltanto le forme universali ma anche gli accidenti e il modo in cui stanno tra di loro. Il <<volume>> in quanto libro può essere detto per analogia, perché nel libro stanno parole e non enti. Questo libro si divide in quaderni, le parti del libro, secondo la natura propria di ogni ente, attraversando l’universo per terminare nel luogo proprio.

Può esserci però un altro significato nel modo del concetto averroista precedente. In Dio, sostanza infinita, c’è uno spazio limitato, come un volume geometrico, nel quale il mondo finito sta nel modo in cui stanno le cose finite. Le sostanze e gli accidenti stanno nel luogo interno a Dio, in uno spazio limitato e chiuso rispetto all’infinità sostanza divina. Il <<conflati>>, uniti assieme dal soffio divino, mette in relazione cose e non parole. Per questo motivo è da ritenersi che Dante vede la molteplicità degli enti, nell’unità di Dio, posti uno spazio geometrico chiuso su se stesso. Anche il legame d’<<amore>> tiene assieme enti e non parole. Quel legame d’amore che unisce tutte le cose è il principio che permette a ogni ente di stare nel tutto del volume secondo un principio di attrazione reciproca.

Chi vede tutto l’esistente nell’attualità di Dio può vedere anche il modo in cui gli enti singoli stanno nella potenzialità della materia e si generano. Dio crea in quanto in lui stanno i principi universali delle cose ma è la natura a generare. Con un’ardita costruzione verbale che pone i quattro elementi (acqua, aria terra e fuoco) come fondamento della generazione universale, Dante mostra il modo in cui tutte le cose si

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generano dalla materia dei quattro elementi secondo la dottrina di Aristotele (De generatione et corruptione, libro II, ma anche in altri testi) attraverso l’azione dei cieli. Il << si squaderna>>, uscire dalla (ex) quaternità, attraverso l’universo, è semplicemente il modo in cui ogni ente sorge dalla materia formata dai quattro elementi o corpi in corrispondenza della creazione divina. In questo modo si unisce ciò che è in potenza con ciò che è in atto, la natura e Dio. Il canto XIII del Paradiso mostra sistematicamente il modo in cui derivi da Dio tutto l’universo in una ricerca affannosa per tenere assieme emanazione e creazione, l’unità del creatore e la molteplicità delle creature (Guglielminetti 2003). Dante deve fare fronte a molteplici fonti e a conflitti irrisolvibili se non attraverso la semplificazione delle differenze, con un atto di forza che porta alla coesistenza di ciò che è conflittuale tra filosofia e cristianesimo. Questo si accorda con quanto viene detto nella Quaestio de aqua et terra (XVIII, 23-27) dove tutto il procedimento della creazione viene ripetuto. Anche in Monarchia (II, ii, 2) il problema della creazione mediante i cieli comporta un’uscita degli enti (explicatur come si squaderna) dalla materia mobile.

Sempre in Paradiso VII, 124-138 il modo in cui i quattro elementi producono la generazione e la corruzione è in sintonia con la creazione divina e la funzione dei cieli.

Creata fu la materia ch’elli hanno; creata fu la virtù informante in queste stelle che ‘ntorno a lor vanno.

Paradiso, VII, 135-138

Questa interpretazione è sorretta anche da una presenza di <<quaderno>> che non dovrebbe lasciare alcun dubbio nel senso della quaternità formata dalla materia.

<<La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta è dipinta nel cospetto etterno;

Paradiso, XVII, 37-39

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Il riferimento del quaderno alla materia, senza alcuna relazione di scrittura ma come inerenza propria, lascia comprendere che il quaderno è la materia medesima in quanto formata da quattro parti. Il quaderno e la materia sono un’unica realtà. C’è un’evidente ambiguità di quaternus anche per quel che riguarda il fascicolo delle scritture, la sua forma di quattro pagine. E’ quaterno tutto ciò che è formato da quattro parti. Le parole hanno una loro autonomia e si adattano al molteplice bisogno di forgiare significati da parte di Dante per un volgare che non è all’altezza della lingua filosofica. In questo ultimo canto del Paradiso si può vedere come la lingua filosofica diventa sempre più necessaria quanto più si innalza alla conoscenza suprema. Quando si toccano i temi più inquietanti, dal punto di vista dottrinale, Dante cerca una lingua in grado di riprodurre la scrittura originaria.

Come nello squadernarsi precedente anche qui è in discussione la materia quale principio del nascere e perire della natura. La materia è il principio della contingenza, del mutevole della natura umana biologica mentre è presente alla vista di Dio secondo un unico sguardo che la comprende tutta nel passato come nel futuro. L’uomo è, dinanzi a Dio, come una pittura, la sua storia è fissa, senza tempo e mutamento, come una rappresentazione pittorica ma è non necessitata dallo sguardo divino. La conoscenza di Dio della vicenda umana non la rende necessaria (Contra gentiles, I, 85: 233). Il problema dei futuri contingenti è in questo tempo dantesco al centro di un dibattito complesso.

Dante cerca di rendere conto dell’unità dell’universo e la visione della forma universale comporta anche quella del nodo che tiene unito l’universo e mostra come in Dio l’universo è un unico ente.

La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento che godo.

ivi, 91-93

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Questo nodo che tiene assieme tutto l’universo in Dio conferma che si tratta di un volume geometrico, di uno spazio chiuso.

Si passa contemporaneamente al senso storico della felicità. Vi sono due forme diverse di felicità, quella della visione di Dio e quella della visione della natura universale nella quale tutti gli enti sono contenuti. C’è una gioia nella conoscenza della natura, anche se non è la felicità della visione di Dio, e la gioia continua ancora nel presente della scrittura. Dante cerca di separare gli effetti di felicità prodotti dalla scienza da quelli prodotti da Dio. La conoscenza del tutto (e la forma universale è il contenitore del tutto), secondo Averroè (De Anima, III commento 36), porta alla perfezione e alla felicità. La differenza tra la visione di Dio e la conoscenza delle cose rimanda a tutta l’esperienza del filosofo che pone nella scienza l’ultima perfezione e l’ultima felicità, come nel Convivio:

[…] onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti (I, i).

Pur nella diversità di lingua è possibile trovare l’organicità concettuale che unisce testo a testo. La felicità della conoscenza delle cose non è comparabile a quella di Dio. Ora è possibile sperimentare la differenza tra la visione di Dio e la scienza delle cose che stanno in lui.

Dall’esterno della visione ora Dante passa a raccontare ciò che succede nel proprio interno, nelle facoltà sensibili come l’immaginazione e la memoria.

Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa.

ivi, 97-99

Per comprendere come la mente sia l’immaginazione (assieme alle altre facoltà interne) è necessario ricostruire la sua fenomenologia secondo il De Anima. I quattro aggettivi dipendenti dal <<mirava>>:

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<<sospesa, fissa, immobile e attenta>>, sono in negativo e mostrano come si rovescia, dinanzi a Dio, la consuetudine di una facoltà che si comporta, nella normalità, in modo opposto. Anche quel << sempre di mirar faceasi accesa>> rimanda a un desiderio la cui sorgente è proprio nell’immaginazione poiché può aumentare o diminuire e temere di venir meno nel tempo o mutare oggetto.

Ormai il desiderio intellettuale si è attuato nella visione di Dio. Rimane inappagata la parte biologica dell’uomo e su queste facoltà sta concentrando la sua attenzione per mostrare il dualismo dell’uomo. Anche in queste facoltà c’è desiderio. Si tratta di quel desiderio sensibile che è la sorgente dell’amore erotico. Ora quel desiderio si rivolge all’oggetto più alto e diventa, a sua volta, desiderio di conoscenza. L’accensio, che generalmente brucia l’immaginazione fino alla malattia e alla follia, ora si rivolge allo spettacolo del divino aumentando sempre più la propria intensità. Poiché l’immaginazione è mobile e passa da immagine a immagine è necessario fermare questo movimento. La sospensione inizia la stasi interiore. Gli altri tre aggettivi sono funzionali alla definizione propria dell’immaginazione: <<ymaginatio videtur esse virtus mobilis et passiva ab alio>> (De Anima: 372). Qui la fissità (rispetto all’oggetto) e l’immobilità (senza essere attirata da altro), nell’attenzione (dell’autocontrollo) unica all’oggetto unico, riconoscono che non c’è altro da guardare. Anche il desiderio sensibile dell’immaginazione cresce per superare i limiti della natura propria e giungere alla perfezione della conoscenza. La conferma viene nei versi successivi.

A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta;

ivi, 100-102

In Dio si ricompone il dualismo dell’uomo. Non è possibile distogliere lo sguardo da Dio perché non è possibile desiderare altro. Nell’unità dell’uomo il desiderio dell’immaginazione sorregge lo sguardo mentre il desiderio intellettuale è giunto al compimento e tace.

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Soltanto il mistero dell’incarnazione e il modo in cui la sostanza umana e quella divina coesistono rimangono negati alla visione.

dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

………………………………….… veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ivi, 130-132; 137-138

Anche la volontà è ancora operante. Dante cerca di comprendere come la natura umana di Cristo si accorda con la pura essenza divina della Trinità. Il divino e l’umano di Cristo hanno il medesimo colore segno che non c’è differenza. Ma l’occhio cerca di vedere oltre e di comprendere come <<l’imago al cerchio>>, la natura umana, si accordò, nell’incarnazione, con quella divina e come ora, in paradiso, è nel luogo proprio, trova il proprio ubi, nella sostanza divina. L’<<effige>> dell’uomo è <<l’imago al cerchio>>. Bisogna risalire al testo di Aristotele con il commento di Averroè per comprendere il significato di questa formula. Nel De coelo (libro II) viene proposta l’iscrizione dell’uomo nell’universo per definirne le coordinate secondo le quattro parti geografiche. L’universo è rappresentato dall’ultimo cielo (orbis), il suo cerchio massimo, mentre l’uomo è posto all’interno con la testa, le mani e i piedi tangenti il cerchio.

Tx -[…] sed oportet ut imaginetur homo habens dextrum et sinistrum diversa in figura qui super circundatur ab orbe quapropter ille orbis habebit virtutem diversam necessario, dextrum et sinistrum quia habet loca principii et finis ex operatione sui agentis.

Comm.13- Iste ergo homo necessario habebit caput suum apud polum meridionalem et pedes apud polum septentrionalem et eius facies ad superiorem partem terrae habitabilis sed dextrum est in oriente et sinistrum in occidente.

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Viene in questo modo disegnata la figura umana all’interno dell’universo. Si può vedere il disegno nell’edizione cinquecentesca. E’ l’uomo di Leonardo.

Anche quel <<s’indova>> deriva dal testo aristotelico- averroista della Fisica.

[…] essentia gravis et levis facit ut leve ubitetur superius et gravis inferius, et haec ubitatio aut collocatur in definitione gravis[…] (De physico auditu, VIII, comm.32).

L’ubi è specifico e fa sentire nel suo interno la radice semantica della categoria (De ubi) mentre locus è più generico. Il luogo proprio di Cristo, nella sintonia tra umano e divino, ha bisogno di rendere la sostanzialità del modo in cui la figura umana è collocata nella sostanza divina.

L’uomo però, non ha la forza di raggiungere la conoscenza del mistero. Soltanto l’intervento divino è in grado di portare a compimento il desiderio dell’uomo.

ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne.

ivi, 139-141

L’uomo non può volare così in alto perché le sue ali sono limitate. L’illuminazione divina interviene a colmare i limiti conoscitivi dell’uomo. Il desiderio, che tende in alto, si incontra con la luce divina che giunge fino all’uomo. Come un lampo quella luce è eccesso rispetto alla capacità dell’immaginazione umana di contenerne la forza. Quella luce è improporzionale alla natura materiale dell’uomo.

A l’alta fantasia qui mancò possa;

ivi, 142

Vengono meno le forze dell’immaginazione non in grado di sorreggere la potenza di quella luce e del mistero in essa contenuto. Nel

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momento in cui viene meno la forza dell’immaginazione cessa anche il viaggio a Dio. Quel lampo mentre porta a compimento il desiderio estremo interrompe anche il legame di conoscenza che unisce a Dio e Dante ridiscende dal cielo allontanandosi dal fine raggiunto (Pinto 2003). Quale segno si può avere di questo allontanamento da Dio? Il desiderio intellettuale e l’amore si rimettono in movimento.

ma già volgea il mio disio e il velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle.

ivi, 143-145

L’uomo è il mosso e Dio il motore immobile. La ruota, nella sua analogia profonda, segna prima il cammino dell’uomo per una strada faticosa e mostra il peso della materia nel risalire fino alla luce divina e, poi, il precipitare verso la terra mentre l’amore e il desiderio ritentano il cammino opposto. Il desiderio rinasce segno che Dio si sta allontanando. Con il desiderio rinasce l’amore poiché il legame è venuto meno. Si può comprendere tutta la differenza con la ruota dei beati, in un’analogia tutta intellettuale, quando la leggerezza della beatitudine continua all’infinito la propria danza (Varela-Portas 2002). Colui che si allontana da Dio non ha ancora raggiunto la beatitudine dei santi e la sua esperienza è soltanto momentanea.

Dio, l’amato e il desiderato da tutto l’universo e in quanto tale fonte del movimento circolare universale, nuovamente mette in movimento il desiderio e l’amore (che è atto della volontà, secondo S. Agostino e i francescani. Storicamente si chiama volontarismo) dell’uomo come una ruota che è mossa con intensità uguale. Dio muove per attrazione divina e l’uomo diventa come la ruota e corrisponde con pari intensità in amore e desiderio di visione. Si può vedere ancora come Tommaso d’Aquino presenta il conflitto tra l’intelletto, nel quale c’è il desiderio, e la volontà.

Ora, l’ultimo fine delle sostanze intellettive è Dio. Dunque beatitudine o felicità dell’uomo è essenzialmente quell’operazione

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con la quale egli raggiunge Dio. Ora, questa è l’intellezione; poiché non è possibile volere ciò che ancora non si conosce. Perciò l’ultima felicità dell’uomo sta essenzialmente nel conoscere Dio con l’intelletto, non già in un atto della volontà (Contra gentiles: 611).

Per comprendere il senso di questa ruota e l’equilibrio tra amore e desiderio, è necessario ritornare sulla terra e rendersi conto come, qui, la ruota non è mossa <<igualmente>> 2(2), anzi vi sono due ruote che portano a Dio ognuna con un suo principio di movimento. Sull’amore e sul desiderio francescani e domenicani si fanno la guerra. Alla guerra dell’amore e del desiderio sulla terra corrisponde in cielo un’unica funzione, per esperienza personale. L’insegnamento è palese. Dante prende idealmente francescani e domenicani e li costringe a rappacificarsi su questo problema mettendo sullo stesso piano le due forze che fanno giungere l’uomo a Dio.

Nell’ultimo verso, <<il sole e l’altre stelle>>, ancora una citazione dal testo averroista. Siamo nella Metafisica aristotelica con il commento di Averroè.

Et ideo Sol et aliae stellae sunt principium vitae cuiuslibet vivi in natura […] virtutes quae fiunt in elementis a motibus Solis et aliarum stellarum (L.XII, comm. 18). […] non rectum dicit dicens Solem et alias stellas esse finitas (L.XII, comm. 41).

Queste parole finali chiudono circolarmente il Paradiso con il primo verso del primo canto.

La gloria di colui che tutto move

[…] et est illud quod movet omne. Hoc igitur est Deus (L. XII, comm.39).

Il materiale grezzo di una scrittura filosofica viene elevato alla poesia più sublime. Pur nella sintesi estrema, la biblioteca che Dante attraversa per giungere a Dio ci ha messo nelle condizioni di comprendere la portata dottrinale e storica del problema della visione di Dio introdotto in Occidente dai testi averroisti. Così è possibile

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comprendere come la storia, con i suoi conflitti, giunge fino in paradiso per trovare quelle soluzioni che gli uomini non riescono ad ottenere. La verità è in questa esperienza che mette alla prova la natura dell’uomo nella sua molteplice composizione. L’uomo può vedere Dio in questa vita. Dante fa propria la verità di Averroè contro quella di Tommaso d’Aquino. Nello stesso tempo limita le possibilità dell’uomo. Per Averroè soltanto l’intelletto individuale sale fino a Dio per Dante è l’uomo intero anche se composto da due nature. Individuando nell’immaginazione il punto più fragile della natura umana Dante restituisce a Dio quella capacità di elevare l’uomo a sé contro la pretesa assoluta dei filosofi di giungere fino al divino con le sole proprie forze.

L’Epistola XIII mette in risalto questo dualismo e la natura divina dell’intelletto, simile a quella delle intelligenze superiori.

Per capire questo bisogna notare che l’umano intelletto in questa vita, a cagione dell’affinità naturale che ha con la sostanza intellettuale separata, quando s’eleva, s’eleva a tal punto, che la memoria, dopo il ritorno, vien meno per aver trasceso il limite concesso all’uomo (p. 639).

La natura dell’intelletto è affine alle sostanze separate, le intelligenze che muovono e cieli. La sua sostanza è diversa da quella delle altre facoltà interne come la memoria e l’immaginazione. Le colonne d’Ercole, la frontiera tra l’umano e il divino, sono poste all’interno dell’uomo. Si può trascendere il modo proprio dell’uomo e fare esperienza della trascendenza ma la memoria, essendo di natura biologica, non può raccogliere quell’esperienza se non nel modo proprio e secondo la propria natura.

Dante non si libera dello statuto averroista dell’intelletto, sostanza separata anche se personale. Non accetta l’unicità dell’intelletto di Averroè ma soltanto la diversità di natura rispetto all’anima. Da questa differente natura deriva la fragilità e la limitatezza dell’uomo dinanzi alla luce divina quando l’immaginazione non è più in grado di resistere all’intensità di quella luce che attraverso gli occhi passa all’intelletto. Posta tra gli occhi e l’intelletto la sua capacità viene meno

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e, come una resistenza attraversata da un corrente troppo forte, cede quando deve accogliere la luce del mistero divino più alto.

A questa natura diversa dell’intelletto è necessario ricondurre ciò che viene detto all’inizio del Paradiso.

perché appressando sé al suo desire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire.

Veramente quant’io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto.

ivi, I, 7-12

L’intelletto è diverso dalla memoria. L’intelletto giunge dove la memoria non può per la sua natura biologica. La memoria, nella quale vengono raccolte, come un tesoro (specialmente in Avicenna), tutte le conoscenze, è potenza passiva mentre l’immaginazione, nell’atto della rimemorazione, attiva i processi interiori della conoscenza. Questo andare in profondità dell’intelletto non ha niente in comune con l’estasi dei mistici cristiani. Lo stesso uso di mente (nella lingua agostiniana è l’intelletto), per designare due facoltà diverse, mostra come la lingua dei filosofi ha ormai sostituito quella della tradizione cristiana perché l’antropologia filosofica ha sostituito quella cristiana.

Non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole. La visione di Dio, per analogia tra gli occhi e l’intelletto, è soltanto atto intellettuale. Dio sostanza intellettuale può essere visto soltanto da una sostanza intellettuale. La connaturalità dell’intelletto umano con le sostanze separate è connaturalità con Dio, la prima delle sostanze separate. Nel sistema averroista degli intelletti Dio è l’intelletto più alto e più perfetto mentre l’intelletto possibile è il più basso e il più imperfetto perché costretto a convivere con la materia. Tra di loro c’è una natura comune che permette la conoscenza nel modo dell’unione, la continuatio.

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Il dualismo dell’uomo pone una doppia possibilità. L’uomo ascende alla visione di Dio e nello stesso tempo avverte drammaticamente quanto è condizionato dalla materia mortale. Il filosofo si affida alla scienza per salire fino a quella visione. Il cristiano sa che soltanto attraverso Cristo si può giungere alla beatitudine e alla riconciliazione con Dio. Dante non soltanto ha percorso un cammino di conoscenza per i tre mondi ma si è sottoposto anche alla verifica della propria condizione di peccatore. Il filosofo si accorda con il cristiano per una visione nella quale c’è anche il compimento della storia della salvezza.

Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sostanza in tre persone.

State contenti, umana gente al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria;

Purgatorio, III, 34-39

Qui il testo averroista è assolutamente trasparente nell’indicare la conoscenza di tutti gli intelligibili come unico mezzo per giungere alla visione di Dio. L’antitesi è evidente. La scienza da sola, il conoscere tutto, non può permettere di attraversare la via infinita che separa l’uomo da Dio uno e trino. E’ necessario Cristo e Maria che l’ha partorito. In queste parole c’è tutta la storia della redenzione e la necessità dell’umanizzazione del figlio di Dio. Dante ordina filosofia e cristianesimo e giunge vivente al cospetto di Dio dimostrando che hanno ragione i filosofi nel fine ma che non si può negare la funzione di Cristo per portare a termine la via infinita che separa la terra dalla Trinità. Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante stanno in mutuo dialogo per confermare l’accordo tra teologi e filosofi su questo punto (Gagliardi 2002 a). Ciò che è stato negato sulla terra diventa possibile in paradiso. Anche per questo accordo un Ulisse cristiano può attraversare le colonne d’Ercole e giungere al cospetto di Dio.

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Da questo felice esito finale, da commedia, si può comprendere il travaglio di Dante in tutta la sua biografia intellettuale. Sia nella Vita Nova che nel Convivio viene negata la possibilità, per l’uomo vivente, di giungere alla visione di Dio e delle sostanze separate.

Nella quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitate, che io no.llo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale nella qualità di costei in grado che lo mio intellecto nol può comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intellecto s’abbia a quelle benedecte anime sì come l’occhio debole al sole: e ciò dice lo Phylosopho nel secondo della Metafisica (Alighieri 1996: 226-227).

Il concetto è chiaro l’intelletto umano non può conoscere la sostanza (qualità) di Beatrice morta, trasformata in una nuova intelligenza. La stessa cosa al termine del terzo trattato del Convivio. Non solo viene negata la possibilità di conoscere le sostanze separate e Dio ma viene cancellato quel desiderio di conoscenza.

Dov’è da sapere che in alcun modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose affermano essere, che lo ‘ntelletto nostro guardare non può, cioè Dio la etternitate e la prima materia […] Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere (III, XV, 6- 10).

Nella Commedia tutto si rovescia e Dante scrive anche la propria autobiografia intellettuale come viaggio nei propri errori. Viene ripristinato il desiderio di vedere Dio e il pipistrello diventa l’aquila che può stare a occhi aperti dinanzi a Dio fino a quando la sua natura materiale glielo permette. Poi ritorna a terra e racconta questo viaggio. Verità e storia coincidono nell’identità del libro e del mondo e il poema ripete un’esperienza di verità a beneficio del mondo del quale il lettore è il simbolo più immediato.

Soltanto accettando come preminente il momento in cui il pipistrello apre i suoi occhi deboli nella luce accecante di Dio, in quanto

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luogo originario della verità, è possibile ripercorrere il cammino di Dante per ricostruirne il senso. Da questa verità ultima nasce anche la verità storica. La Commedia rimane un poema storico anche se la storia non è più visibile essendo stata portata a compimento. Poi si può vedere un uomo chino sulle proprie scritture nella fatica di trovare le parole più adatte per rendere trasparente il significato della propria esperienza. Può costui sottrarsi al dovere di verità per restare nel gioco delle allusioni letterarie?

Un tempo nuovo ha scardinato l’unicità della verità cristiana. La sapienza e l’escatologia cristiana devono fare i conti con un’altra verità in sapienza e in escatologia. Per questo motivo la Commedia non è allegoria dei poeti né allegoria dei teologi. Non ha la natura duale dell’allegoria. Non si tratta più di interpretare i miti del mondo classico affidando loro nuovi significati né di adattare gli eventi del Vecchio Testamento a nuovi significati. Il presente è molto più urgente e reclama l’intervento di Dio e dell’uomo per trovare la pace delle intelligenze e dei cuori, dell’istituzione cristiana e di quella politica. Il progetto interno della Commedia è visibile per differenza con le condizioni reali della terra, nei luoghi e nei libri dove questi problemi sono trattati. Dante presta a Dio la propria coscienza intellettuale e religiosa affinché riordini il mondo e ponga fine ai conflitti. Di questo nuovo ordine diventa il profeta per comando divino parlando la lingua del mondo, il volgare, e traducendo la filosofia e la teologia nella lingua dei poeti.

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NOTE 1 Aristotelis Opera cum Averrois commentarii, vol. IV, Edizione anastatica, Minerva G.m.b.H., Frankfurt am Main, 1962. Anche altre opere aristoteliche son citate da questa edizione escluso il De anima: Averrois Cordubensis, Commentarium magnum in Aristotelis De anima libros, recensuit F. Stuart Crawford, Cambridge, Massachussetts, The Medieval Academy of America, 1953. 2 Il vocabolo deriva direttamente da Aristotele.<<Et in quolibet motu est aequalitas et inaequalitas quoniam quandoque alteratur res aequaliter et transferetur ex aliquo aequaliter, verbi gratia, per circulum aut per lineam rectam, et similiter etiam in augmento et diminutione (De physico auditu, L. V, tex comm. 43).

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