Dalai Lama - La Compassione e La Purezza

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I CLASSICI DELLO SPIRITO... IL DALAI LAMA: LA COMPASSIONE E LA PUREZZA... CONVERSAZIONI CON JEAN-CLAUDE CARRIERE. TRADUZIONE DI LAURA DELEIDI FRATELLI FABBRI EDITORI LA COMPASSIONE E LA PUREZZA PREMESSA Queste conversazioni si sono svolte nel febbraio 1994 a McLeod Ganj, vicino a Dharamsala, nel nord dell'India, e più precisamente nel monastero di Thekchen Choeling, dove risiede il Dalai Lama. Essendovi arrivato il 10 febbraio, ho potuto assistere alle feste dell'anno nuovo tibetano, che inizia l'11 febbraio verso le cinque del mattino. Sono rimasto due settimane a McLeod Ganj. L'idea del libro, così come l'organizzazione del viaggio, è di Laurent Laffont. Avevo incontrato il Dalai Lama in due riprese, brevemente, nel corso dei suoi due ultimi viaggi in Francia. Mi misi da principio in contatto con i responsabili dell'Ufficio del Tibet a Parigi, e grazie a loro tutto si svolse facilmente. Quando ripenso a questo viaggio, a parte il lavoro di preparazione c he mi fu evidentemente necessario, e che durò mesi, conservo il ricordo di giornat e molto piacevoli. In particolare l'atmosfera del monastero mi parve al tempo st esso seria e sorridente, senza affanno né tensione. Prima del viaggio, su richiesta del Dalai Lama, gli scrissi diverse lettere in c ui precisavo i temi che desideravo affrontare, tutti concernenti, come si può imma ginare, il possibile ruolo del buddhismo nel mondo d'oggi e l'attrazione sempre più forte che esercita. Volevamo parlare del buddhismo nei suoi rapporti con la v ita di ogni giorno, con la politica, con le altre religioni o tradizioni, ponendo particolare attenzione alla violenz a, all'ambiente e all'educazione. Mi accorsi ben presto e d'altra parte la dot trina afferma che nulla può essere separato da tutto il resto che ogni nostra pa rola era compresa in una trama di relazioni che si estendeva all'infinito. Impos sibile isolare questo o quel soggetto dall'insieme dell'atteggiamento buddhista. A dire il vero dovevo parlare di tutto, evitando di entrare nei complessi dettag li della dottrina, della mitologia, del rituale. Poiché non disponevamo di molto tempo (d'altra parte basterebbe una vita?), propos i al Dalai Lama fin dal nostro primo incontro, ben sapendo che egli è uno degli uo mini al mondo più impegnati, di non interrogarlo su quei punti della dottrina o d ella pratica da lui già sviluppati in numerose opere, e di fare, all'occorrenza, q ualche riferimento a quei libri. Accettò subito e questo ci consentì di procedere più speditamente. A settembre, ci rivedemmo una volta a Parigi, per precisare alcuni punti. Fu immediatamente chiaro che il problema principale sarebbe stato quello del liv ello di lettura. A chi ci saremmo rivolti? Poiché entrambi non volevamo interessar e solo specialisti (ciò che io non sono assolutamente) ma rivolgerci con questo li bro al grande pubblico, ritenni indispensabile fare delle pause nel nostro dialo go. Bisogna dire che il mio interlocutore conosceva in modo ammirevole gli insegname nti cui faceva riferimento, io non ne avevo che qualche vaga nozione e la maggio ranza dei nostri lettori rischiava o di ignorarli, o di comprenderli in modo sup erficiale, cioè falso.

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I CLASSICI DELLO SPIRITO...IL DALAI LAMA:LA COMPASSIONE E LA PUREZZA...CONVERSAZIONI CON JEAN-CLAUDE CARRIERE.TRADUZIONE DILAURA DELEIDI

FRATELLI FABBRI EDITORI

LA COMPASSIONE E LA PUREZZA

PREMESSA

Queste conversazioni si sono svolte nel febbraio 1994 a McLeod Ganj, vicino aDharamsala, nel nord dell'India, e più precisamente nel monastero di ThekchenChoeling, dove risiede il Dalai Lama. Essendovi arrivato il 10 febbraio, hopotuto assistere alle feste dell'anno nuovo tibetano, che inizia l'11 febbraioverso le cinque del mattino. Sono rimasto due settimane a McLeod Ganj.

L'idea del libro, così come l'organizzazione del viaggio, è di Laurent Laffont.Avevo incontrato il Dalai Lama in due riprese, brevemente, nel corso dei suoidue ultimi viaggi in Francia. Mi misi da principio in contatto con iresponsabili dell'Ufficio del Tibet a Parigi, e grazie a loro tutto si svolsefacilmente. Quando ripenso a questo viaggio, a parte il lavoro di preparazione che mi fu evidentemente necessario, e che durò mesi, conservo il ricordo di giornate molto piacevoli. In particolare l'atmosfera del monastero mi parve al tempo stesso seria e sorridente, senza affanno né tensione.

Prima del viaggio, su richiesta del Dalai Lama, gli scrissi diverse lettere in cui precisavo i temi che desideravo affrontare, tutti concernenti, come si può immaginare, il possibile ruolo del buddhismo nel mondo d'oggi e l'attrazione sempre più forte che esercita. Volevamo parlare del buddhismo nei suoi rapporti con la vita di ogni giorno, con la politica,con le altre religioni o tradizioni, ponendo particolare attenzione alla violenza, all'ambiente e all'educazione. Mi accorsi ben presto e d'altra parte la dottrina afferma che nulla può essere separato da tutto il resto che ogni nostra parola era compresa in una trama di relazioni che si estendeva all'infinito. Impossibile isolare questo o quel soggetto dall'insieme dell'atteggiamento buddhista. A dire il ve �ro dovevo parlare di tutto, evitando di entrare nei complessi dettagli della dottrina, della mitologia, del rituale.

Poiché non disponevamo di molto tempo (d'altra parte basterebbe una vita?), proposi al Dalai Lama fin dal nostro primo incontro, ben sapendo che egli è uno degli uomini al mondo più impegnati, di non interrogarlo su quei punti della dottrina o della pratica da lui già sviluppati in numerose opere, e di fare, all'occorrenza, qualche riferimento a quei libri. Accettò subito e questo ci consentì di procedere più speditamente.

A settembre, ci rivedemmo una volta a Parigi, per precisare alcuni punti.

Fu immediatamente chiaro che il problema principale sarebbe stato quello del livello di lettura. A chi ci saremmo rivolti? Poiché entrambi non volevamo interessare solo specialisti (ciò che io non sono assolutamente) ma rivolgerci con questo libro al grande pubblico, ritenni indispensabile fare delle pause nel nostro dialogo.

Bisogna dire che il mio interlocutore conosceva in modo ammirevole gli insegnamenti cui faceva riferimento, io non ne avevo che qualche vaga nozione e la maggioranza dei nostri lettori rischiava o di ignorarli, o di comprenderli in modo superficiale, cioè falso.

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Presi dunque la decisione, in accordo col Dalai Lama, di interrompere le nostre conversazioni ognivolta che io lo ritenessi necessario per precisare questo o quel punto; cosa che feci con l'aiuto delle opere che cito a fine volume, fermo restando che l'insie�me del libro è stato rivisto dal Dalai Lama e dai suoi collaboratori.

A tale proposito, sono particolarmente grato ai responsabili dell'Ufficio del Tibet di Parigi, Dawa Thondup e Wangpo Bashi. A McLeod Ganj, in più incontri con il Dalai Lama, ho potuto precisare alcuni punti con il suo assistente e interprete Lhakdor e con Kelsang Gyaltsen, entrambi molto gentili e competenti. Voglio ringraziare Nahal Tajadod, sinologo e specialista di storia delle religioni dell'Asia centrale, per la sua preziosa assistenza.

I nostri incontri si sono svolti nella sala delle udienze di Thekchen Choeling. Duravano ogni volta circa tre ore. Parlavamo in inglese, ma sovente il Dalai Lama passava bruscamente al tibetano, e domandava allora a Lhakdor di tradurmi quanto aveva detto. Registravo tutto ciò che dicevamo e alla sera trascrivevo la conversazione della giornata.

A Parigi, nei mesi seguenti il mio ritorno, ho scritto il libro. L'ordine generale delle nostre discussioni è rispettato, anche se a volte ho ritenuto preferibile unire alcuni temi e articolare meglio domande e risposte. Trattandosi tuttavia di una conversazione, non ci si stupirà di vedervi ripetute talune frasi. Se mi è parso necessario conservare queste ripetizioni, è stato per non privare il libro di un certo disordine vivo, che disegna un cammino sinuoso, dapprima semplice, e che va a poco a poco ampliandosi in tutte le direzioni.

Né lui né io desideravamo pubblicare un nuovo catechismo. Volevamo, al contrario, cercare di stabilire un vero dialogo, costantemente aperto e imprevisto, addentrandoci in territori solitamente poco frequentati. Ho cercato di evitare sia il rispetto paralizzante sia l'inutile irriverenza. Se mi capita di prendere la parola molto frequentemente e a lungo, ciò avviene perché il mio interlocutore lo sollecitava. Egli mi interrogava e fatto ben più raro mi ascoltava.

Questo libro va preso quindi per ciò che è: una sorta di passeggiata a due, ordinata e disordinata a un tempo, molto attenta, con il migliore compagno possibile e non per uno studio o un saggio. Lo ripeto, molti punti della dottrina sono appena sfiorati, l'estrema complessità speculativa del Mahayana vi è soltanto accennata. L'essenziale mi è parso, a proposito di problemi umani che ci toccano oggi come ieri, e talvolta più acutamente di ieri, ascoltare una voce che parla con semplicità, appoggiandosi a ogni istante su più di venti secoli di riflessione e di esperienza.

J. C.C.

Chi pone la domanda sbaglia, Chi risponde sbaglia.

IL BUDDHA

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1IL MONDO IN CUI VIVIAMO

Incomincio con la domanda che ci poniamo tutti (o quasi):

"Siamo nel Kali Yuga?".

Cioè: viviamo in un'epoca di distruzione? È persa ogni speranza? Il Kali Yuga, secondo la tradizione induista, è in effetti questa epoca nera, che ebbe inizio più di tremila anni fa, all'indomani della mor�te di Krishna.

È la grande oscurità, la fine di ogni virtù, la scomparsa del dharma, cioè del corretto ordine del mondo, il trionfo dell'ambizione, della falsità, del commercio. Inutile opporsi: tutto deve scomparire. È così. Un ciclo si compie nella siccità, nelle carestie, nelle battaglie, nella distruzione dei legami sociali. Come già è detto nel Mahabharata, ecco il tempo degli uomini senza forza, senza coraggio, spietati. La terra, morta e calda, diviene allora preda del fuoco. Tutto si compie in una lenta apocalisse. Dopo di che il sonno di Vishnu avvolge il ritrovato nulla e il dio sogna le bellezze di questo mondo, perché non vengano dimenticate. Più tardi, molto più tardi, Brahma il creatore scaturirà dal suo ombelico e a un tratto avrà vita un altro mondo.

Seduto accanto a me, colui che tutti qui chiamano Sua Santità, Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, mi guarda e mi ascolta.

È calmo e molto attento.

Completo la mia domanda:

"Tuttavia un'altra tradizione, credo buddhista, afferma esattamente il contrario. Noi viviamo senza saperlo un'epoca di virtù, di aiuto vicendevole, di migliore osservanza delle Scritture, un periodo definito fortunato. Fra queste due tradizioni, quale scegliere?".

"Senza esitazione, la seconda."

"Per quali motivi?"

"Ne vedo almeno tre. Anzitutto mi sembra che il concetto di guerra si sia recentemente modificato. Nel XX secolo, fino agli anni Sessanta Settanta, pensavamo ancora che la decisione finale e indiscutibile dovesse venire da una guerra. Si tratta di una legge antichissima: il vincitore ha ragione. La vittoria è il segno che Dio, o gli dèi, sono dalla sua parte. Di conseguenza, il vincitore impone la propria legge al vinto, sovente per mezzo di un trattato, che non si rivelerà che un pretesto di rivincita. Di qui l'importanza degli armamenti, e soprattutto degli armamenti nucleari, elemento centrale del Kali Yuga. Questa corsa alla bomba ha fatto pesare sulla terra una veraminaccia di annientamento."

"Le sembra che questa minaccia vada scomparendo?"

"Sì, ne sono convinto. La guerra fredda sembrerebbe cessata. Gli arsenali nucleari si riducono. Chi se ne potrebbe lamentare?"

"Si contano attualmente, proprio nel momento in cui parliamo, più di cinquanta guerre nel mondo."

Ricordiamo quelle vicine a noi, in Afghanistan, nel Kashmir, gli scontri fra musulmani e induisti sul territorio indiano, e altre lotte di cui i giornali occidentali non parlano quasi mai, la guerriglia del Manipur, o quella che oppone i la

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voratori immigrati nepalesi alle forze del re del Bhutan.Gli parlo del turbamento profondo che guerre, "epurazioni" e bombardamenti a tappeto, nella ex Jugoslavia, hanno portato all'Europa esitante. In buo�na fede, nessuno oserebbe sostenere che si sia meno crudeli di un tempo.

"Lo so bene" mi dice. "Queste guerre locali sono veramente crudeli. Ed evidentemente nefaste. Ogni guerra, piccola o grande che sia, è negativa. Rivela ciò che di peggio abbiamo, e non porta che a nuovi conflitti. Ma sotto la minaccia nucleare, nessun luo�go è sicuro sulla faccia della terra. Perlomeno, le piccole guerre sono limitate. Qui, oggi, a Dharamsa�la, mi pare che si stia tranquilli."

Sorride per un attimo e aggiunge:

"È vero che molte di queste guerre sono sorte a causa dell'allontanamento della minaccia nucleare".

"Ha altri motivi di ottimismo?"

"Sì. Ecco il secondo: credo, malgrado certe ap �parenze, che il concetto di ahimsa, di non violenza, guadagni terreno. Al tempo del Mahatma Gandhi, uomo che venero, la non violenza passava più spesso per debolezza, per rifiuto di agire, quasi per vigliac�cheria. Non è più così. La scelta della non violenza è oggi un atto positivo, che evoca una vera forza. Guardi il Sudafrica, e anche ciò che hanno fatto Arafat e Rabin. Per molti decenni, palestinesi e i �sraeliani non hanno visto, proclamato, usato che la forza. Le due parti sono giunte ora ai negoziati paci�fici."

"Non senza forti remore degli uni e degli altri. E si arriva fino all'assassinio. Fino al massacro tra la folla. Fino ai canti di sterminio che si insegnano ai bambini, di entrambe le parti: prendi il fucile e vai a uccidere l'altro."

"Certo. Non occorre dirmi di quali orrori siamo capaci. Ma l'esempio dato dai palestinesi e dal governo ebraico è ugualmente un buon esempio, ben accoltonel resto del mondo [nota : Quando ci rivedemmo, in settembre, mettemmo l'accordo tra l'IRA e il governo inglese nella colonna delle "buone notizie", e il dramma del Ruanda dall'altra parte.] . E ho un'altra sensazione. Credo che, grazie alla stampa, ai media, a tutto ciò che si chiama comunicazione, i gruppi religiosi si incontrino più spesso, si conoscano meglio d'un tempo."

"Questo non vale per certi paesi musulmani, che hanno, al contrario, la tendenza a chiudersi in se stessi, come se volessero cacciare ogni influenza del�lo straniero, soprattutto se occidentale. In Algeria, gruppi di attivisti giungono a uccidere chi è stranie�ro. Azione assurda e sanguinosa, in contrasto con lo spirito del tempo. E che fa nascere altri gruppi, radi�calmente opposti, che uccidono coloro che sono so�spettati di aver ucciso, e così via, senza sosta."

"L'isolamento non è mai un bene per un paese. Ed è diventato impossibile. All'inizio del secolo, il Tibet aveva pochissimi contatti con altri popoli, con altre tradizioni, e la cosa fu molto dannosa. Il tempo lo lasciava indietro, e questo ci procurò un brusco risveglio. Quanto ai paesi musulmani, anche se talu�ni conservano e anzi rafforzano la loro chiusura, nel�l'insieme, se si guarda il mondo nel suo complesso, l'isolamento perde terreno. In una ventina di anni, ho visitato molti paesi. Mi dicono ovunque: ci conosciamo meglio."

Sotto la tollerante dinastia dei Tang, dal VII al X secolo, esisteva nel nord ovest della Cina, a Dunhuang, nella regione di Turfan, un centro di ricerche dove le religioni dell'Asia centrale, il taoismo, il buddhi�smo, il nestorianesimo, il manicheismo (queste ulti�me due giunte dall'Iran) si incontravano, si scam �biavano testi, si sforzavano di conoscersi meglio.

"La regola" ricordo "era di sottolineare i punti comuni e di sorvolare sulle dif

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ferenze."

"Senza dubbio noi manchiamo di tali centri" af�ferma il Dalai Lama. "E sarebbe ottima cosa crear�ne. Da parte mia, per quanto mi è possibile, incon�tro altri capi religiosi, passeggiamo insieme, visitia�mo questo o quel luogo sacro, qualunque sia la tra�dizione alla quale si collega, e là meditiamo insieme, condividiamo un attimo di silenzio. Io ne ricavo un grande senso di benessere."

In marzo, qualche settimana dopo i nostri collo�qui, si è recato in Israele, dove ha incontrato ebrei, musulmani, cristiani, drusi, anche bahai. Ha visitato le chiese cristiane, la moschea di Omar, il muro del pianto e altri luoghi. Ha anche parlato molto ma separatamente con palestinesi e israeliani, in favo �re della pace necessaria. Egli reputa che il fossato sia ancora profondo, ma sostiene tuttavia di avere colto, da una parte e dall'altra, significative "vibrazioni".

"Continuo a credere" dice "che sul piano reli �gioso siamo in progresso rispetto all'inizio di questo secolo."

"Molti commentatori affermano il contrario. Si sente ovunque parlare, anche all'interno del cristia�nesimo e dell'induismo, dell'avanzata degli integralismi religiosi."

"È un'avanzata reale, e inquietante" mi dice. "Ta �luni vogliono scorgervi una reazione agli antichi ter�rori della fine del millennio."

"O qualche segreta compensazione al crollo del �le ideologie. Alcuni si domandano per quale motivo le speranze ecumeniche degli anni Cinquanta sem�brino avere ceduto il posto a una parcellizzazione crescente delle fedi. Ovunque le sette proliferano, le differenze si inaspriscono. L'anno scorso, un visio�nario americano ha preferito morire nel fuoco con i suoi adepti, piuttosto che consegnarsi alla poli �zia. "

Aggiungo un esempio personale:

"Mi trovavo nel dicembre 1993 a Bombay per as �sistere a una serie di conferenze tenute da specialisti francesi. Si parlava della storia dello zoroastrismo, un tempo religione dell'Iran, rappresentata oggi da circa ottantamila persone, abitanti per la maggior parte nel Maharashtra, in India".

"Sì, i parsi. Li conosco."

"Una delle conferenze verteva sulle influenze su�bite dallo zoroastrismo al tempo del suo esilio verso la Cina, dopo l'invasione dell'Iran da parte degli A �rabi nel VII secolo. Una di queste influenze fu eser�citata dal manicheismo, altra religione già bandita. Le due tradizioni, per adattarsi ai nuovi territori forte �mente penetrati dal buddhismo, furono obbligati ad adottare un vocabolario e alcune nozioni buddhiste."

"Accade sovente."

"Si trattava di una analisi meramente linguistica, basata sulle iscrizioni di quel tempo. Al termine del�la conferenza, si vide alzarsi un uomo corpulento, con l'aspetto di uomo d'affari, che dichiarò ad alta voce, in un inglese eccellente, che lo zoroastrismo non aveva potuto modificarsi né subire alcuna in �fluenza, che comunque Ahura Mazdah era il solo vero dio e Zoroastro il solo profeta. Affermazioni unite a qualche considerazione razziale e politica, come ad esempio: noi siamo i soli veri Ariani. Ero stupefatto. Avevo appena scoperto, oggi, un fonda�mentalismo zoroastriano. Non sapevo come rispon�dere a quest'uomo."

Il Dalai Lama si china leggermente verso di me e mi domanda:

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"Che percentuale di parsi rappresentava?".

"Da quello che mi hanno detto, circa l'otto per cento."

"Ebbene, la risposta è novantadue per cento!"

Ride per la prima volta: un riso diretto, sponta�neo, che tornerà sovente. Si direbbe un'altra perso�na che lo abiti segretamente e che si manifesti all'improvviso.

Poi aggiunge:

"L'umanità è così. È sempre stata così. Non pren�diamo in considerazione quest'uomo irritato. Lascia�molo in pace. E se la maggioranza dei parsi rifiuta di seguirlo, diciamo semplicemente: tanto meglio".

"Il buddhismo è salvaguardato dall'integralismo?"

"I principi stessi del buddhismo sono l'opposto del fondamentalismo. Sostengono al contrario che un grande flutto ci trasporta, che nulla è stabile per sempre. Ciò non impedisce che in questo momento, in Inghilterra, un lama di buona formazione si com�porti come un vero capo di setta."

"Un lama integralista?"

"Ad ogni modo, proibisce tutte le mie opere, o �gni contatto con me, ogni immagine del Dalai La�ma. Mi accusa di questo e di quello. I suoi fedeli, qualche migliaio, hanno il permesso di leggere solo i suoi libri, di affiggere e venerare solo la sua foto �grafia. E così via. Ma cosa volete? È umano. Siamo tutti simili, e tutti diversi. Se la differenza prevale, ciascuno può così scoprire il suo piccolo territorio di verità, e aggrapparvisi con tutte le sue forze."

"Talvolta fino alla morte, la propria o quella de�gli altri."

"Ma sì. Siamo così. A questo si aggiunge il gusto del potere, infaticabile corruttore."

Gli dico che conosciamo il medesimo fenomeno in altri ambiti, che la storia dell'arte e dell'estetica ricorda la storia delle religioni: stessi proclami, e�sclusioni, conventicole, visionari.

"Ad esempio quando esce un film, o un libro, o un'opera teatrale, accade che si sappia in anticipo ciò che scriverà questo o quel critico. Inutile leggere il suo articolo, sia esso favorevole od ostile. Questo articolo non dipende dall'opera in sé, ma dalla per �sonalità di colui o di colei che l'ha scritto. E questo sovente a sua insaputa".

Ripete ancora una volta, calmo:

"Sì, l'umanità è così".

"Mi pare che il buddhismo offra una via diversa, una forma particolare di tolleranza. Può, più facil�mente che altre tradizioni, adattarsi all'evoluzione dei tempi e dei costumi? Può anche porgere un aiu�to a uomini e donne meno preparati di altri, meno colti, meno intelligenti?"

Riflette a lungo prima di rispondere.

Siamo comodamente seduti intorno a una gran�de tavola bassa, nella stanza luminosa dove riceve, ogni giorno, visitatori giunti da tutto il mondo. Di fronte a me,

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una immagine del Buddha Sakyamuni, circondato da altre immagini e piccole statue, di cui alcune salvate dal Tibet, al tempo della drammatica partenza del 1959. Fra queste statuette, quella di Padmasambhava, il grande predicatore del Kashmir che fu il vero apostolo del buddhismo nel Tibet, nel � VIII secolo della nostra era.

Al centro della stanza, una stufa. Fuori, attraver�so le finestre, alberi e le cime innevate delle prime catene dell'Himalaya. Sovente, grida di corvi. Il Da�lai Lama è sempre in compagnia di due assistenti di cui uno, Lhakdor, svolge le funzioni di interprete quando il mio interlocutore passa all'improvviso dal�l'inglese al tibetano.

All'inizio di ogni incontro il Dalai Lama scioglie i lacci, leva le scarpe e si siede nella posizione del loto sulla sua poltrona. Indossa, come Lhakdor, la sem �plice veste rossa dei monaci, dei bhiksu, che lascia scoperto il braccio destro.

Dopo un'ora di conversazione, ogni giorno, un monaco sorridente ci serve il tè, su un vassoio. Più tardi, quando il Dalai Lama calza di nuovo le scarpe, è chiaro che la conversazione si avvia alla fine. Tuttoè calmo e cordiale. Non si avverte alcuna tensione. In effetti, le guerre che scuotono il mondo non han �no eco qui.

"Nel buddhismo" mi dice "tutto è spesso una que�stione di livelli, di angolazione. Ogni affermazione generale e definitiva ci sembra pericolosa, probabil �mente falsa. Lei mi domanda: può il buddhismo, in questa fine del secolo, offrire un rifugio a tutti? Di�pende dal vostro atteggiamento e dai vostri bisogni. In ogni caso, bisogna distinguere: fare parte della struttura, o esserne al di fuori."

"Fare parte della struttura, significa appartenere a una comunità buddhista?"

"Esattamente. Appartenere al sangha, accettare uno studio e una disciplina particolari."

"È possibile per tutti? E non soltanto in Asia?"

"Ma certo. A differenza dell'induismo, il buddhi�smo ha sempre avuto vocazione di universalità. Si è opposto agli dei protettori di un solo popolo, dei il cui potere si arresterebbe a certe frontiere. Il bud �dhismo si rivolge a tutte le donne, a tutti gli uomini, a tutti gli esseri, ma attenzione: non allo stesso livel�lo, non allo stesso modo. Coloro che desiderano a�derire al sangha devono agire con grande prudenza. Si tratta di una decisione molto importante, che im �pegna una vita, e anche più vite. Non si rinuncia impunemente al proprio passato, alle proprie radici. Comunque noi non facciamo nulla per converti�re. Non è il nostro fine."

"La nozione stessa di missione apostolica, di que �ste vaste opere di conversione, condotte con risolu�tezza nel XIX secolo e ancora nel XX, sembra stia scomparendo."

"Non bisogna soprattutto dolersene."

"È il secondo livello?"

"Il secondo livello è accessibile a tutti. Lezioni e insegnamenti di ogni sorta possono essere tratti dalbuddhismo senza che questo richieda un'adesione completa. Si può imparare in effetti la tolleranza, senza la quale nessuna vita è sopportabile, e anche il cammino della pace dello spirito, indispensabile per ogni azione giusta. Questa pace dello spirito è al centro delle nostre ricerche. Essa governa il nostro atteggiamento nei confronti del mondo di cui fac �ciamo parte, nei confronti del nostro prossimo, e anche dei nostri nemici."

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"Esistono delle tecniche per giungere a questo?"

"Sì. La principale è la meditazione, che è al cen �tro della nostra pratica, e fa parte del nostro inse�gnamento."

"Sappiamo tutti che un momento di riflessione tranquilla può aiutarci a risolvere un problema che sembrava senza soluzione. E questo vale per il lavoro di gruppo. Qualche minuto di silenzio comune por�ta più coesione che ore di agitazione. Ma nella pre�parazione di uno spettacolo, non ci si può acconten �tare di meditare. Bisogna passare alla recitazione, all'improvvisazione, all'espressione della vitalità."

"È vero sempre."

Aggiunge sorridendo:

"Bisogna meditare e agire a un tempo! E tutti insieme! E anche mangiare! Tante cose ci sono co�muni! L'acqua, l'ossigeno!".

Cessa di ridere e riflette un istante prima di ri �prendere:

"Una delle cose che la meditazione ci insegna, quando scendiamo lentamente in noi stessi, è che il senso della pace esiste in noi. Ne abbiamo tutti il desiderio profondo anche se è sovente nascosto, ma�scherato, contrastato. I buddhisti credono che la na �tura umana, se esaminata attentamente, sia buona, ben disposta, servizievole. E mi sembra, sempre per rispondere alla sua prima domanda, che oggi que�sto spirito d'armonia si estenda, che il nostro desi�derio di vivere insieme tranquillamente sia sempre più forte, sempre più condiviso".

"L'Occidente, in questa fine di secolo, constata, piuttosto, un fallimento. Una grande speranza era nata due o tre secoli fa, all'inizio di questa epoca che noi chiamiamo "moderna". Filosofi come Rousseau e altri proclamavano anch'essi la bontà, l'inno �cenza della natura umana. E ne attribuivano la cor�ruzione alla "società". Questa corruzione che i bud�dhisti chiamano "contaminazione"."

"Per altri motivi."

"Essi hanno creduto, e affermato, che mutando le condizioni della società per mezzo di riforme, di leggi, di rivoluzioni se necessarie avrebbero resti �tuito alla natura umana le sue qualità originarie e avrebbero condotto gli uomini a una vita migliore, addirittura alla felicità. Sono passati più di due seco�li. Vaste lotte sociali e politiche hanno permesso, senza dubbio, di migliorare in modo considerevole i rap�porti legali, giuridici, la durata media della vita, il suo tenore. In linea di principio, nelle nostre demo �crazie, ognuno ha ora la propria possibilità di scelta. Lo Stato si è separato dal potere religioso, e il potere giuridico da quello politico. Ciò non accade senza difficoltà, viviamo in questo momento una forte cri�si economica, ma nel complesso viviamo meglio, net �tamente meglio di un tempo."

"Senza dubbio."

"Tuttavia la natura umana non sembra essere cambiata di una virgola."

"E forse meglio conosciuta."

"Forse. E meglio disciplinata da regole. Ma alla prima occasione si rivela la stessa. Le religioni han�no perso, almeno da noi, ogni preminenza, le ideo�logie politiche si sono deteriorate. Ma la felicità è ancora lontana e, in fin dei conti, noi siamo esatta�mente, e tristemente, gli stessi."Anche qui, riflette. Aggiunge che, in questo di�sordine, gli anatemi razzisti e gli integralismi di ogni sorta trovano un terreno fertile e che d'altra parte, qua

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ndo si distrugge una ideologia, si assiste al sorge�re e all'imporsi del culto esclusivo del denaro.

"Chiunque esclude gli altri si troverà escluso a sua volta" mi dice. "Ogni disputa è folle. Colui che afferma che il proprio dio è l'unico dio commette un'azione pericolosa, nefasta, perché è sulla strada di imporre il proprio credo ad altri, con ogni mezzo."

"E di proclamarsi il popolo eletto."

"Che è la cosa peggiore."

"La democrazia, come la conosciamo noi, crede �va di avere eretto una solida barriera mettendo in pratica l'idea molto importante di separazione."

"Se allude alla separazione di Stato e Chiesa, mi parrebbe un ottimo principio."

"Tuttavia lei, che riunisce tutto il potere nelle sue mani, rappresenta l'esempio contrario."

"No. Il concetto di potere è molto diverso. Lo stesso titolo, l'istituzione del Dalai Lama può scom�parire da un giorno all'altro. Non è stabilito per sem�pre da qualche forza esterna agli uomini e alla terra. Non vi è contraddizione fra buddhismo e democra �zia."

"L'altra separazione" gli dico "la conosce. È quella che definisce e che separa i poteri all'interno dello Stato. È stato detto che la decisione di fare della giustizia un potere, un vero potere, fu un colpo di genio dell'Occidente. Anche se questa separazione dei poteri suscita molteplici attriti."

"Per ritornare all'integralismo," riprende "al fra�zionamento delle credenze, all'auto proclamazio�ne dei "popoli eletti", questo è uno dei motivi, senza dubbio, per i quali il buddhismo si è sempre guarda�to dall'affermare l'esistenza e l'onnipotenza di un dio creatore. Quando lo si interrogava su questopunto, e su qualche altro, il Buddha Sakyamuni ta �ceva."

"Non ha detto che si deve evitare di "fare la corte a dèi stranieri"?"

"L'ha detto. E tutte le scuole buddhiste sono og�gi d'accordo su questo. Il che non vuole dire, però, che noi abbiamo razionalizzato le nostre credenze, nel senso che voi date a questa parola."

"Cioè?"

"Bene, noi riconosciamo l'esistenza di esseri su�periori, in ogni caso di un certo stato superiore del�l'essere; crediamo agli oracoli, ai presagi, all'inter�pretazione dei sogni, alla reincarnazione. Ma queste credenze, che per noi sono certezze, non cerchiamo in alcun modo di imporle agli altri. Lo ripeto: non vogliamo convertire. Il buddhismo si applica anzi �tutto ai fatti. È un'esperienza, un'esperienza persona�le. Si rammenti del famosissimo detto di Sakyamuni: "Non aspettatevi nulla se non da voi stessi"."

Evochiamo per un istante la grande figura del Risvegliato, e la sua raccomandazione che ha attra�versato venticinque secoli: "Come si saggia l'oro sfre�gandolo, spezzandolo e fondendolo, così fatevi un giudizio della mia parola. Se l'accettate, che non sia per semplice rispetto".

Parliamo allora dell'aggressività, di Karl Lorenz e di alcuni altri. Si può estrapolare da un lungo e paziente lavoro sul comportamento animale? Si può dire che l'aggressività sia una componente della no �stra natura? Faccio presente che questa nozion

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e è sovente presentata come una forza positiva, come un elemento di sopravvivenza, forse addirittura a li�vello di specie. Senza questa, probabilmente, sarem �mo scomparsi.

"L'aggressività fa intimamente parte di noi stessi" dice. "È proprio per questo che bisogna lot�tare."

In un altro libro [nota: Ainsi parle le Dalai Lama, Colloqui con Claude B. Levensen Bal �land, 1990.], il Dalai Lama ha parlato di alcuni dei drammi che nel XX secolo hanno insan�guinato l'Asia, e particolarmente l'Asia buddhista, da Pol Pot in Cambogia a Sukhe Bator in Mongolia.

"Uomini cresciuti in un ambiente rigorosamen�te non violento" mi dice "hanno potuto diventare i più crudeli massacratori. Segno che l'aggressività più insensata continua a vivere nel fondo di noi stessi. Su questo non c'è alcun dubbio."

Sottolinea queste parole con un gesto reciso del�le mani. E aggiunge subito:

"Ma la nostra vera natura è pacifica. Per questo Sakyamuni ci raccomanda di cercare nel nostro inti �mo più profondo: perché vi troveremo alla fine il desiderio di pace. Tutti sappiamo che lo spirito u�mano è sconvolto, in balia di sussulti che fanno pau�ra. Ma questa agitazione non è la forza dominante. È possibile e indispensabile padroneggiarla. Nel suo lavoro, quando immagina storie, scene, lei non ha bisogno di calma?".

"Ho bisogno di calma e di agitazione."

"Nello stesso momento?"

"Quasi nello stesso momento."

"Una certa agitazione e necessaria all'invenzione?"

"Molti scrittori del XX secolo hanno amato lavo�rare per esempio nei caffè, tra il rumore e la confu �sione, a contatto con una vita differente. Il camerie �re passa, viene urtato, rovescia una tazza di tè: que�sto incidente può fare scaturire un'idea, che altrimenti dormirebbe per sempre. Dopo di che, certo, sono ne�cessari lunghi momenti di tranquillità e di riflessione. La calma giudica l'agitazione. A dire il vero, ciascuno trova il proprio schema, il proprio ritmo, il proprio modo di esprimersi. Non c'è una regola assoluta"

"Lei ha dunque bisogno di trambusto?"

"In un certo senso. Tutto comincia sul nostro pic �colo palcoscenico interiore, ove compaiono dei per�sonaggi. Noi siamo a volta a volta attori e spettatori. E anche già critici. Ogni tanto bisogna gettarsi senza riserve nella scena, quasi alla cieca. In altri momenti bisogna allontanarsene, guardarla da lontano, come se l'avesse scritta un altro."

Mi ascolta e mi guarda scrollando piano il capo. Aggiungo che, come sceneggiatore, come autore, mi è impossibile vivere continuamente nei buoni senti �menti. Devo cercare in me il vizioso e il criminale. Come diceva Luis Bunuel, il bravo sceneggiatore de�ve ogni giorno uccidere suo padre, violare sua ma�dre e tradire la sua patria. Nel suo lavoro, il peccato d'intenzione non esiste, e quando cerca nel fondo di se stesso, non è la calma che trova, ma al contrario il tumulto, la competizione, la violenza, sovente il san�gue. Egli è, per necessità, un inventore di crimini.

"Però non li commette."

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"Alcuni sostengono che istighi gli spettatori a commetterli."

"Conosco questo problema" mi dice. "Non è sem �plice risolverlo. La stupirò forse, ma non sono rigo�rosamente contrario allo spettacolo della violenza e del crimine. Tutto dipende dall'insegnamento che se ne trae."

Precisa sorridendo che al centro della tradizione buddhista, l'atteggiamento costantemente raccoman�dato nei nostri rapporti con una realtà sovente qualifi �cata come "relativa" ("Conoscete la sofferenza benché non vi sia nulla da conoscere...") assomiglia molto a una rappresentazione. Obbligato, dalla sua stessa condizione, a vivere in un mondo la cui realtà non è garantita e che forse è solo una illusione, l'uomo è come un attore che si identifichi, almeno apparente �mente, con un ruolo, effimero come tutti i ruoli.Il Dalai Lama, nonostante le nostre digressioni, segue un piano ben preciso. E mi presenta un terzo motivo di ottimismo:

"Quando incontro dei giovani, soprattutto in Eu�ropa, credo anche che il concetto dell'umanità come unicum sia assai più forte oggi rispetto a ieri. È un sentimento nuovo, che esisteva solo molto raramen �te nel passato. L'altro era il barbaro, il diverso".

"Colui che non si può riconoscere come simile."

"Esatto. E vedo che questa reazione di diffidenza e di ostilità lentamente scompare. Si attribuisce una importanza sempre minore alle nazionalità, alle frontiere. L'unificazione di gran parte dell'Europa, la scomparsa, per esempio, delle atroci battaglie tra francesi e tedeschi, la moltiplicazione dei matrimo�ni tra donne e uomini di paesi diversi, di diverse lingue e diverse culture, tutto questo mi pare positi �vo. Si diffonde una visione globale delle cose, non le pare?"

Ciò che dice è indiscutibile. Tuttavia, come non ricordare le nostre persistenti inquietudini, tutti i paradossi che ci assalgono? Mai abbiamo prodotto tanti beni, e la miseria è alle nostre porte. Mai abbia�mo moltiplicato così freneticamente la nostra spe�cie, e i deserti guadagnano terreno ogni giorno. Mai ci è parso di avvicinarci tanto all'età dell'oro, all'o �zio che ritempra, e la disoccupazione diventa la no�stra prima calamità. Mai abbiamo mostrato così lar �gamente i nostri corpi nudi e le nostre unioni cosiddette libere, e mai la morte è stata così vicina al sesso. Mai abbiamo inventato tecniche così prodigiose per entrare in contatto gli uni con gli altri, e mai la solitudine ha trovato accenti più amari.

E così via. L'elenco è lungo. Ciascuno può por�tarvi il proprio timore.

E ancora, con la stessa convinzione, con la stessa perseveranza, il Dalai Lama risponde:

"Tutto questo è vero. Ma nulla può aggiustarsi all'improvviso, come per magia. È necessario del tempo, è necessario un lento cammino nello spirito. Guardi per esempio: gli abitanti della terra, nella prima metà del nostro secolo, non avevano alcun senso di responsabilità nei confronti del loro piane�ta. Fabbriche coprivano a poco a poco il suolo, so �prattutto in Occidente, riversando i loro rifiuti nei quattro elementi. Nessuno, stranamente, se ne cura�va".

"Si comincia a studiare questo accecamento sto�rico. "

"Che aveva per risultato" continua "un'ondata gigantesca di estinzione delle specie, la più terribile che si sia conosciuta da sessantacinque milioni d'an�ni. Il che è per un buddhista un vero abominio."

"L'estinzione continua impunemente."

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" Lo so. Ma almeno, oggi, abbiamo preso in qual�che modo coscienza di questo pericolo. Si sono an�che visti nascere partiti politici, che sovente si chia �mano Verdi, il cui programma poggia sulla difesa dell'ambiente. Trenta o quaranta anni fa questo pri�mo passo sarebbe stato inconcepibile. Ancora: in�contro sempre più frequentemente gruppi di uomi�ni d'affari che fino a poco tempo fa, lei lo sa, non manifestavano alcun interesse per il buddhismo, e che oggi vengono a trovarci, a interrogarci. Essi mo�strano un'attenzione molto viva per i nostri valori. Cercano persino dei luoghi ove riunirsi, ove andare in ritiro, per condurre sotto la nostra guida una vita spirituale, almeno per una settimana o due."

"Non è troppo tardi?"

"Spero di no. E, comunque, è meglio di niente. Noi corriamo sempre un rischio maggiore: quello di perdere il contatto col resto dell'universo. Dobbiamo invece fare di tutto per conservarlo, e anche per raffor�zarlo.""Si può talvolta mettersi la coscienza a posto in una settimana o due di ritiro, e lanciarsi, subito do �po, in uno sfruttamento forsennato della terra. "Lo so bene." "Avremmo dunque bisogno di un risveglio?" Sorride rispondendomi: "È la parola. È la parola giusta".

2EDUCAZIONE E CONTAMINAZIONE

Quando il principe Siddharta, all'età di ventinove anni, già sposato e padre di famiglia, lasciò lo splen�dido palazzo in cui viveva dalla nascita, circondato da fiori, profumi, uomini e donne accuratamente scelti dal padre per la loro giovinezza e bellezza, e s'incamminò per le strade della città chiamata Kapi�lavastu, incontrò da principio un vecchio curvo per l'età, poi un uomo divorato dalla peste nera, poi un cadavere portato al rogo.

Questi tre incontri una scena decisiva nella sto�ria del mondo , l'improvvisa scoperta della vecchia �ia, della malattia e della morte, calamità comuni a tut�ti, portarono poco tempo dopo alla partenza del prin�cipe. Impressionato da un religioso che mendicava il proprio nutrimento, Siddharta Gautama abban�donò segretamente il palazzo, la famiglia e i doveri regali che l'attendevano. Decise di consacrare tutte le forze della sua vita alla ricerca di una luce nuova, fino ad allora sconosciuta, che permettesse agli uo �mini di liberarsi dalla sofferenza.

La sofferenza è la rivelazione del buddhismo. Sofferenza fisica, certo, ma anche sofferenza morale, senso di impotenza, di frustrazione, di inutilità in que�sto mondo. Soffrire, per il Buddha, "è nascere, in �vecchiare, ammalarsi, essere uniti a ciò che non si ama, essere separati da ciò che si ama, non poter realizzare i propri desideri".

Per cercare un rimedio a questa sofferenza es�senziale che si chiama in sanscrito duhkha, Siddhar�ta percorse una parte dell'India, interrogò uomini reputati saggi, trascorse sei anni su una montagna, giungendo a un ascetismo estremo. Tutto questo in �vano.

Fu in se stesso che trovò la risposta, seduto sul �l'erba, ai piedi di un fico. Questo mondo che invec�chia e che muore, e poi rinasce per invecchiare e morire ancora, è misero. Fu la prima verità. Cercan�do la causa di questa miseria il buddhismo, fin da principio, si afferma come una ricerca dei fatti, e delle cause all'origine di questi fatti , trovò la nasci�ta, e il desiderio di nascita: "All'origine di questo dolore universale è la sete di esistere, la sete di pia�ceri che provano i cinque sensi esterni e il senso interno, la stessa sete di morire".

La sofferenza proviene dunque dal desiderio. Fu la seconda verità. Questo desiderio è come un fuo�co, che infiamma colui che desidera. Tutto è fuoco, dice ancora il Bud

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dha, l'occhio è fuoco, ciò che esso vede è fuoco, ciò che l'orecchio ode è fuoco, tutto ciò che colpisce i sensi è fuoco. L'illusione ci divora come una fiamma perenne. E questo fuoco della vita, acceso dalla cupidigia, dalla collera e dall'igno�ranza, dev'essere spento.

Più tardi, Siddharta Gautama, divenuto il Bud �dha, cioè il Risvegliato, completò queste due verità con due altri insegnamenti. È possibile, disse, spe�gnere questo fuoco e giungere così alla cessazione di ogni sofferenza. Infine, quarta rivelazione, esiste una via precisa per giungere a questa cessazione. E indicò questa via.

L'insieme costituisce "le quattro nobili verità", chesono il punto di partenza, il fondamento stesso di tutta la ricerca buddhista.

Questo risveglio incomparabile, questa rivelazio�ne tratta dall'interno di se stesso (e non ricevuta grazie a un intervento divino o angelico) da un uo �mo la cui intelligenza e tenacia ci appaiono oggi prodigiosi (anche se i racconti della sua vita sono tutti disseminati di leggende, nessuno sembra met�tere in dubbio la sua esistenza storica e l'autenticità della sua lunga predicazione), suppone che tutti gli altri uomini ai quali il Buddha, durante quarantacinque anni, svela il suo insegnamento, vivano nel �l'ignoranza e di conseguenza nella sofferenza. An �che se ci crediamo felici, anche se cantiamo a squar�ciagola che la vita è bella, anche se crediamo di sa �pere qualcosa del mondo, anche se abbiamo impa�rato dall'uno o l'altro maestro, anche se insegniamo agli altri, finché il risveglio interiore, frutto di una esperienza strettamente personale, non ci sarà ac �cordato, vivremo nell'ignoranza. Questa è la nostra natura e la nostra prigione. Si deve fare di tutto per distruggerla.

Se il Risveglio, per definizione, non può essere insegnato, la via che può condurvi deve esserci mo�strata. Per questo, lungo tutta la storia del buddhi �smo, l'insegnamento occupa un posto decisivo, cen �trale. Oggi, a Dharamsala, i tibetani sono fieri delle loro scuole, a buon diritto, e le fanno visitare. Il Da�lai Lama ha accuratamente presieduto alla creazio�ne di una università tibetana. Da un lato, i monaci forniscono agli allievi, giunti da ogni parte, un insegnamento buddhista. Dall'altro, il Dalai Lama stesso si aggiorna sulla ricerca scientifica contemporanea, è anche avido di informazioni. Egli dice di imparare ogni giorno.

Qui potrebbe apparirci una lieve contraddizio �ne: la natura umana è buona, tuttavia è sottomessaall'ignoranza e misera, senza avere fatto nulla per meritarlo. Per un buddhista, non è una semplice contraddizione. È l'espressione stessa della nostra condizione. Sta a noi uscirne.

Moderando un po' il proprio ottimismo, il Dalai La�ma ammette ora che stiamo attraversando un perio �do critico, molto critico. E insiste sull'educazione.

"Tutto il nostro sistema educativo è in crisi. Gli è impossibile adeguarsi. A dire il vero, questa crisi si estende all'attività industriale, alla politica. Tutto sem�bra sfuggire al nostro pensiero, e di conseguenza al nostro controllo."

"Come reagire?"

"Come sempre, in due modi. Possiamo lasciarci andare allo scoraggiamento, e molto presto all'egoi �smo. Possiamo dire a noi stessi: tutto è perduto, i tempi diventano duri, il mondo non sa più dove va, è in effet�ti il Kali-Yuga che prevale. Allora ritiriamoci nel nostro cantuccio, godiamoci i pochi beni che possiamo avere accumulato, dimentichiamo il resto, e si vedrà."

"Conosco persone che vivono così."

"Oh, anch'io!" dice ridendo.

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"E l'altro atteggiamento?"

"È una presa di coscienza molto semplice e un impegno preciso. Coscienza della nostra condizio�ne, dei mille pericoli che ci assediano. Impegno chia �ro a uscirne. Un atteggiamento che mi sembra oggi più necessario che mai. Gli uomini devono svegliarsi."

"Che cosa aspettano?"

"Nulla avverrà all'improvviso" mi risponde. "I veri cambiamenti sono lenti e impercettibili. Per esempio, mi pare che la nuova attrazione per il buddhismo, pro�vata dall'Occidente da qualche anno a questa parte, dipenda da due concetti particolari, che non hanno nulla di spettacolare, ma sono profondamente senti�ti. Il primo è l'ahimsa, la non violenza, che prende posto a poco a poco come una forza. Il secondo è questa nozione di interdipendenza, presente già anti�camente nel pensiero buddhista."

"E che si ricollega alle nostre preoccupazioni e�cologiche?"

"Direttamente."

Il concetto di una esistenza indipendente degli esseri viventi e delle cose è sempre stato rifiutato dalla quasi totalità delle scuole buddhiste fin dal�l'origine, dalle parole stesse del fondatore. Nulla esiste separatamente. Tutto, al contrario, è unito a tutto. Tutto è collegato, nell'immensa rete di Indra, il re degli dèi nella mitologia indu.

Questa interdipendenza di tutte le cose com �preso il nostro sguardo sulle cose è la prima sor�presa che ci attende sul cammino buddhista. Essa si oppone direttamente a tutto ciò che noi crediamo di sapere, a una visione analitica del mondo, divisa in oggetti separati: la mia mano, la penna che essa regge, la carta sulla quale scrivo, il tavolo ove posa la carta, la casa nella quale si trova il tavolo... Nessuno di questi oggetti, ci ripete instancabilmente il buddismo, ha esistenza separata, può essere considerato in sé.

L'interdipendenza, che porta in sanscrito il no�me di pratitya samuttada, è stata insegnata dal Bud�dha stesso, più precisamente nell'Avatamsaka Sutra. Impossibile, ci dice questo sutra, trovare un oggetto che non abbia rapporto con tutti gli altri. Un mae �stro contemporaneo dello Zen, Thich Nhat Hahn, in una raccolta di testi recenti, prende ad esempio un foglio di carta. Per non parlare della penna e dell'inchiostro, tutto ha un rapporto con questo fo�glio di carta. Esso è costituito da elementi non carta. Se noi rinviamo tutti questi elementi alla loro fonte, la fibra al legno, il legno alla foresta, la foresta al boscaiolo, il boscaiolo a suo padre e a sua madre, e così via, constatiamo che, in realtà, il foglio di carta è vuoto. Non ha un sé separato. È costituito da tutti gli elementi non sé, non carta. Se li si esclude, il foglio è vuoto di un sé si potrebbe dire di un essere indipendente.

Thich Nhat Hahn aggiunge: "Vuoto, in questo senso, significa che la carta è piena di tutte le cose, di tutto il cosmo".

Ciò che vale per un foglio di carta vale, natural �mente, per un individuo. Noi siamo costituiti di ele�menti non individuo. Il maestro zen dice allora che quando uno fra noi medita, non si separa in alcun modo dal resto del mondo. La sofferenza che porta nel suo cuore è la società stessa. Quando medita, lo fa per tutti gli esseri. Lo fa anche per tutte le cose incapaci di meditare. Siamo qui, in questa eco d'una parola antica, al centro stesso dell'ecologia di oggi.

"Nessuna specie," mi dice il Dalai Lama "la spe�cie umana non più di un'altra, può po

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rsi fuori dal mondo, fuori dalla ruota dell'universo. Noi siamo uno dei denti di questa ruota."

"Una ruota che cigola sempre più forte."

Gli rammento i lamenti di Bhumi, la Terra, nel Mahabharata "Ogni giorno sono calpestata da passi di uomini arroganti... Sono ferita, soffro e mi do�mando: domani, che cosa mi faranno ancora?".

Mi approva scrollando la testa. Conosce Bhumi e i suoi timori. Gli comunico che fui senza dubbio uno dei primi, in Francia, a pubblicare un libro su quel che a torto viene chiamato l'ambiente (a torto, perché la parola sembra indicare che noi siamo al centro delle cose, circondati da queste, mentre in verità ne facciamo parte). Siamo su un terreno che interessa entrambi, anche se l'affrontiamo ciascuno a proprio modo.

"Lei ha detto che stiamo attraversando una crisi, e ha anche detto che il tempo stringe. È sensibile all'esplosione demografica cui sta assistendo il XX secolo?"

"Molto sensibile. È un problema di estrema importanza."

"Forse il problema numero uno."

"Sì. Lo credo."

Ricordiamo l'enorme balzo che ha fatto la popo �lazione della terra nei cinquanta anni passati.

"Dal 1987" mi dice "ha superato i cinque miliardi. Sette o ottocento milioni vi si sono aggiunti dopo questa data. In meno di trent'anni, questa cifra complessiva può essere raddoppiata."

Aggiungo che una previsione molto precisa dell'UNESCO, pubblicata nel 1992, mostra progressioni spettacolari. La Cina e l'India raggiungeranno il miliardo e mezzo di abitanti. La Nigeria diventerà il terzo paese più popolato del mondo. In questo momento, la popolazione della terra aumenta di più di novanta milioni di individui all'anno. Un Messico ogni dodici mesi.

Gli domando:

"Che fare?".

"Per prima cosa" mi dice "bisogna informare chia�ramente, senza ipocrisia, senza preconcetti. Bisogna dire: sei miliardi di abitanti, è troppo. Dal punto di vista morale è un grave errore, a causa del forte squi�librio fra paesi ricchi e paesi poveri. E da quello pra�tico è un dramma."

"I sette miliardi sono vicini, e andranno aumen�tando. Per frenare in modo sensibile una crescitademografica, sono necessari almeno sessanta anni di sforzi continui."

"È un punto veramente critico, tanto più che gli esperti annunciano che le risorse della terra non saranno sufficienti."

"Questo punto è discusso" gli dico "perché tutto dipende da quello che si intende per "risorse". Gli esperti (ma "esperti" in cosa?) possono in effetti cal�colare che la terra è capace di nutrire dieci o dodici miliardi di abitanti. Alcuni parlano anche di cinquanta miliardi. L'agricoltura biogenetica ci promette mari e monti, insalate giganti, carote inesauribili."

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"Sì," conferma "se ne parla ovunque. Possiamo arrivare a dare da mangiare, se riusciamo a ridurre l'onnipotenza del commercio, cosa tutt'altro che sem�plice. Dare da bere, è meno sicuro. Ma è comunque sufficiente, per definire la vita, dire che consiste nel mangiare e bere?"

"No, di certo."

"Dove trovare lavoro? Occupazioni? Svaghi? Tem�po e spazio per l'isolamento, la meditazione?"

"Gli esperti non se ne curano affatto. Non se ne curano di più quando parlano di cinquanta miliardi di uomini, dei mezzi per arrestarsi a cinquanta mi �liardi. A una tale cifra di popolazione, il tasso di cre�scita diviene incredibile. Non è più un Messico al�l'anno, è un continente intero."

"E che dire, lo ripeto, dei crescenti scarti fra pae �si ricchi e poveri?"

"All'inizio del XVIII secolo," gli dico "la data più lontana cui possiamo retrocedere, questo scarto già esisteva. Era, si calcola, di 1 a 5. Alcuni paesi euro�pei, come l'Olanda, erano cinque volte più ricchi dei regni africani o asiatici. Negli anni Sessanta del nostro secolo, questo scarto era di 1 a 80. Oggi sa�rebbe di 1 a 300, o 400, sempre in favore dell'Occi�dente, al quale si è aggiunto il Giappone."

"E non cessa di allargarsi. Ai ricchi più ricchezza, ai poveri più povertà."

"In proporzioni intollerabili."

"I due problemi sono strettamente connessi" di�ce. "La crescita della popolazione è fortemente col�legata alla povertà, e la povertà a sua volta saccheg�gia la terra. Quando gruppi umani soffrono la fame, mangiano qualsiasi cosa, erba, insetti. Abbattono gli alberi, lasciano la terra secca e nuda. Ogni altra pre �occupazione sparisce. È per questo, senza dubbio, che nei prossimi trent'anni i cosiddetti problemi del�l'ambiente saranno i più gravi che l'umanità dovrà affrontare."

Insiste. Ripete a più riprese: "Assolutamente". È molto fermo su questo punto.

"Le faccio un semplice esempio. Fino a poco tem�po fa, andando all'aeroporto o altrove, non vedevo polli per le strade, nelle vetrine dei negozi, dei risto �ranti. Ora ne vedo ovunque. Benché sia inattuabile, in Tibet, un'alimentazione completamente vegeta�riana, mi ripugna uccidere gli animali. Per quanto possibile, mi nutro di verdura e frutta. Perché que�ste file di polli massacrati? Perché, se non a causa di una popolazione umana in eccesso? Più gli uomini sono numerosi, più uccidono."

"Creano vite per distruggerle."

"Un altro punto chiave è evidentemente il denaro, la ricerca ostinata del denaro, per gli uni come per gli altri: per i ricchi a causa dell'avidità, per i poveri a causa della necessità. È anche per denaro che si mas�sacrano gli animali. Ma all'origine di tutte le nostre difficoltà, di tutte queste minacce di cui parliamo, pri�ma ancora del denaro, metto la sovrappopolazione."

"Lei è dunque a favore del controllo delle nascite?"

"Assolutamente. Bisogna farlo conoscere e pro �muoverlo."

"Alcune tradizioni religiose vi si oppongono."

"È vero, anche all'interno del buddhismo. Ma è ora di spezzare queste barriere."

Riflette un istante e si china verso di me. È chiaro che questo problema lo preocc

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upa profondamente.

"Consideriamo il nostro atteggiamento nei con �fronti della vita umana, perché è di questo che si tratta. Benché sottoposta alla sofferenza, la vita uma�na, ai nostri occhi, è un fenomeno prezioso, a causa dell'intelligenza che ci anima, e che può elevarsi qua�litativamente. Da questo punto di vista, il controllo delle nascite è nefasto, perché impedisce a vite uma�ne di esistere."

"Da un punto di vista individuale."

"Esattamente. Ogni individuo è una possibile me�raviglia. E l'aborto è un atto violento, che noi rifiu �tiamo. Ma se si guardano le cose da una certa distan�za, se ci sforziamo, cosa non facile, di giungere a un punto di vista globale, allora vediamo semplicemen�te che siamo troppo numerosi su questo pianeta, e che domani questo eccesso si aggraverà. Così, non è più una questione morale, non è più questione di fascino beato della complessa bellezza del nostro spirito, è veramente una questione di sopravvivenza. Contiamo in questo momento, sulla terra, più di cin �que miliardi di vite preziose. Questi cinque miliardi di vite preziose si trovano sotto la diretta minaccia di altre vite preziose, che aggiungiamo a milioni."

"Non è solo la vita umana ad essere minacciata."

"Naturalmente. Gli animali selvatici, gli alberi, tutto deve cedere di fronte alle nostre vite preziose. Nel Tibet, il diboscamento è stato feroce, da trent'an�ni in qua. Con un conseguente impoverimento del�la terra, come ovunque. E la maggior parte degli animali selvatici che guardavo con stupore nella mia infanzia è scomparsa. Lo sa bene: quante specie si sono estinte a causa dell'espansione della nostra vita preziosa! "

"E senza speranza di rinascita."

"Se dunque vogliamo difendere la vita e, più in particolare, i cinque miliardi di vite preziose che si affollano in questo momento sul pianeta, se voglia �mo donare loro un po' più di prosperità, di giusti�zia, di felicità, dobbiamo proibirci di accrescerci nu �mericamente. Non è logico?"

Rimpiango oggi che questa voce che non si può accusare né di maltusianesimo, né di libertinaggio �non abbia potuto farsi ascoltare alla conferenza del Cairo, nel settembre 1994, dove non era stata invita�ta. In occasione di questo congresso, che il Dalai Lama giudica "molto importante", le posizioni tradi�zionalmente rigoriste si sono, una volta di più , mani�festate assai chiaramente: rifiuto di vedere il mondo così com'è, silenzio e sottomissione imposti alla don�na, apologia della fedeltà e dell'astinenza, vale a di �re dell'assenza dell'amore.

Ma almeno e questo è anche il parere del Dalai Lama, espresso nel nostro incontro di settembre il problema è stato posto pubblicamente, frasi giuste sono state pronunciate. Pochi sono coloro che po �tranno dire: io non sapevo.

Non dimentichiamo nemmeno per un attimo il bud�dhismo. Non più che il foglio di carta, la vita umana, agli occhi del Dalai Lama, non ha esistenza indipen�dente.

"Essa è composta da elementi non vita," mi dice " non è in alcun modo separabile dal resto del mon�do. Non è "altra". Se presenta ai nostri occhi qual �che valore, questo non può essere che relativo, e sempre legato allo spirito. È un errore ancora mag�giore, un "errore di fondo" isolare la vita umana, attribuirle una essenza, un in sé."

A ciò si aggiunge il timore che, in seguito a undeclino sempre possibile della coscienza, gli indivi�dui non trovino più la forza, la qualità di spirito ne�cessaria a una prossima reincarnazione.

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Gli parlo delle inondazioni che abbiamo cono�sciuto in Europa, nel 1993 e nel 1994.

"Uscivamo da diversi anni di siccità. Il regime delle piogge ridiventava normale. Mai avevamo così ostinatamente, così ciecamente ricoperto la terra di cemento (autostrade, aeroporti, parcheggi, costru�zioni di ogni sorta), e d'altro canto così radicalmen �te abbandonato, soprattutto in montagna, gli anti�chi metodi di distribuzione delle acque, cosicché queste non possono ormai che scorrere sul terreno senza attardarvisi, senza penetrarvi. Di qui, tutta u�na serie di catastrofi. È ridicolo accusare il cielo. Noi siamo, qui come altrove, i soli colpevoli."

Approva. Gli racconto allora un aneddoto che mi colpì, una quindicina di anni fa. Mi trovavo in Messico al tempo della prima visita di papa Giovan �ni Paolo II. La sera del suo arrivo, un amico medico mi aveva invitato a cena. Giunsi, con un mazzo di fiori in mano, e suonai alla porta. Una donna venne ad aprirmi e vidi che piangeva. Entrai, molto sorpre�so. Diverse persone si trovavano lì, uomini e donne (tra cui molti medici), con l'aria afflitta. Due o tre erano in lacrime. Chiesi loro il motivo di tanta tri�stezza. Il mio amico mi disse: "Non hai udito ciò che ha proclamato nel suo primo discorso?". "Chi?" gli domandai. "Il papa!"

"Che cosa aveva detto?" mi domanda il Dalai Lama

"Quel che dice ovunque "Messicani, messicane,dovete accettare tutti i figli che Dio vi manda!".Con poche frasi, questo uomo anziano, celibe per vocazione, aveva appena distrutto dieci anni di sforzi pazienti, da parte di uomini e donne volenterosi, perqualche cenno di contraccezione in un paese direttamente colpito da quella che gli ecologi�sti americani chiamano "la bomba P". P sta per po�polazione. Per questo gruppo di medici, bisognava ricominciare tutto da capo."

Il Dalai Lama conosce meglio di chiunque altro la responsabilità dei capi religiosi, oggi come ieri. Anche se l'influenza del papa è ridotta in Europa, e più particolarmente in Italia, resta considerevole nei paesi cattolici del Terzo Mondo. Ora, egli non perde occasione di mostrarsi intransigente su questo punto, condannando a una esistenza miserabile milioni di "vite preziose" che egli chiama a nascere a ogni costo.

"Al contrario," proseguo "mi trovavo nel 1992 in Iran, paese islamico, che noi definiamo integralista, e con mio grande stupore vidi alla televisione, sul canale ufficiale, una trasmissione, condotta da don �ne, che spiegava e consigliava la contraccezione."

"In Iran?"

"Ma sì. E credo che in Egitto esista la stessa cosa. È un genere di informazioni che l'Occidente non ama diffondere. Perché su questo punto siamo in ritardo."

"Si assiste anche," mi dice "negli Stati Uniti così come in Europa, a un ritorno di quello che voi chia �mate l'ordine morale."

"Esatto. Un ritorno della censura, dell'agitazio�ne convulsa di coloro che, ad esempio, si oppongo�no all'aborto, un atto violento, con ancora più vio�lenza. Come se volessero l'impossibile, cioè tornare indietro."

Smetto a mia volta di parlare, restiamo un mo �mento in silenzio, poi gli domando:"La vita è diventata nemica della vita?"."La vita umana sì. Perché minaccia ogni vita.""Le riflessioni tradizionali, su questo punto, non ci aiutano affatto.""No," mi dice "perché risalgono a un'epoca in cui la vita umana era rara, ricercata. Numerosi peri�coli la minacciavano. I bambini morivano in tenera età. Oggi tutto è

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cambiato, soprattutto da una cin�quantina di anni a questa parte."

"Che dire di quel che ci promette la genetica del secolo venturo? La clonazione, cioè la riproduzione facile, e all'infinito, dell'essere umano, impeccabil�mente simile a se stesso. E, come ultimo sogno, l'im �mortalità."

"Ma questa riproduzione facile e fedele suppone che noi poniamo un limite alle nostre possibilità di evoluzione. Sosteniamo di essere perfetti e ci fer�miamo lì. E d'altra parte, se raggiungeremo l'im �mortalità, cioè se sopprimeremo la morte, dovremo nel contempo sopprimere la nascita. Poiché la terra diventerebbe troppo rapidamente sovrappopolata."

"Un po' ovunque" continuo "il semplice prolun �gamento della durata media della vita pone dei pro�blemi insolubili. Come trattare i nuovi vecchi? Co�me tenerli occupati? Come pagare la loro pensione?"

"Sì" mi dice. "Che fare allora dell'immortalità? Nel nostro rapporto con la vita, il cambiamento è radicale. Anche il cambiamento del nostro pensie�ro, e di conseguenza del nostro atteggiamento, de �v'essere radicale."

Affronta per la prima volta questa necessità contemporanea di un cambiamento nei confronti della tradizione, e vi ritornerà spesso. Benché porti, d'al�tra parte con disinvoltura, il titolo di "Sua Santità", si mostra sorprendentemente aperto alla flessibilità, e anche ai rivolgimenti dell'epoca.

"Non è strettamente vincolato alla lettera delle Scritture?"

"Al contrario. Bisognerebbe essere folli per con�servarle inalterate a ogni costo in un mondo che comporta il movimento del tempo. Ad esempio, se la scienza mostra che le Scritture si ingannano, biso �gna modificare le Scritture."

"Per secoli, la Chiesa cattolica ha perseguito una lunga e sterile battaglia per salvaguardare la verità storica della Bibbia di fronte alle scoperte scientifi�che. Le pare irrilevante?"

"Inutile, in ogni caso. Perché il buddhismo ci dice tutto il contrario. Ed è un tema centrale, che tutte le scuole accettano: noi siamo, nostro malgra �do, immersi nella caducità. Proprio come l'essenza degli esseri, la loro stabilità è un'illusione. La realtà ci sfugge dalle dita, senza che noi possiamo tratte�nerla."

"Questo sentimento dipende dalla certezza che abbiamo della nostra morte?"

"No, perché la morte è un semplice passaggio da uno stato a un altro. Si tratta di una dissoluzione e di una ricomposizione di ogni istante. Il mondo si muo �ve. Nulla di fisso, nulla di stabile vi dimora. Le Scrit�ture, anche se venerabili e sacre, sono relative e ca�duche, come ogni cosa."

Vi è certamente, nel buddhismo, un punto che dapprima ci sorprende, e che poi ci attira. Nelle reli �gioni monoteistiche che costituiscono la nostra tra�dizione, siamo abituati a scritture rivelate, ora da Dio, ora da uno dei suoi angeli o dei suoi profeti. Tutte provengono dall'esterno. L'uomo che le pro�clamò, o che le scrisse, non era che l'ambasciatore di un ipotetico aldilà. Era, ed è ancora in molti casi, fuori discussione o inimmaginabile modificare, an �che solo di poco, una parola considerata rigorosa�mente divina.

Nulla di tutto questo nel buddhismo. Fu dal pro�fondo di se stesso, bisogna ripeterlo, che il Buddha trasse le sue quattro verità fondamentali e tutto l'in �segnamento che ne seguì. Non cessò di ripetere che questo insegnamento doveva essere, in ogni momen�to, meticolosamente verificato dall'esperienza, addi �rittura da un'esperienza personale. Sebbene in cer�te correnti buddhiste, e anche nell'induismo (che volle

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riconoscere in Siddharta il nono avatara di Vish�nu, dopo Krishna), il Buddha sia stato talvolta consi�derato come una divinità, resta oggi un uomo.

"A tale titolo" dico "è anch'egli dipendente da tutto quello che lo ha circondato?"

"Naturalmente. Non ha beneficiato, solo fra tut�ti, di una vita miracolosamente autonoma. Era an �che lui composto di elementi non Siddharta. E fu così, è così per il suo pensiero."

"Per questo c'è flessibilità nella tradizione bud �dhista?"

"Questa flessibilità, come dice lei, proviene anzi�tutto dall'esperienza. È vero, la nostra esperienza è antica e molto ricca. Ci ha permesso, a più riprese, di valutare i pericoli dell'isolamento, l'inutilità del�l'autorità dogmatica, la vanità dell'integralismo. Le ripeto, noi accertiamo dapprima i fatti, quelli in ogni caso indiscutibili, come la crescita della popolazio�ne. Poi cerchiamo di analizzare le cause che hanno prodotto questi fatti, e le condizioni nelle quali essi si sono verificati. Senza perdere di vista un solo i �stante l'interdipendenza e la transitorietà. Infine, se necessario, cambiamo atteggiamento."

Senza dubbio per queste ragioni, il Dalai Lama, immagine stessa della gentilezza, della tolleranza, dà comunque l'impressione di essere attento, avido di apprendere, di conoscere, pronto a cambiare da cima a fondo se necessario. Può consapevolmente parlare della fascia di ozono e dell'effetto serra. Im�magina spesso, lui che proviene da altipiani molto elevati, un innalzamento del livello dei mari, e i disa �stri che ne seguirebbero. Ritorna costantemente al�l'attenzione indispensabile, attenzione a se stesso, agli altri, al mondo intero.

Dice ad esempio:

"Riflettere partendo da un punto di vista anticopuò esserci di aiuto. Oltre all'esperienza, questo of �fre al contempo una dottrina e una distanza. Molto spesso ci perdiamo nell'attualità disordinata. A for�za di guardare il nostro mondo troppo da vicino, non lo vediamo più . È bene, ogni giorno, ripartire da lontano".

"Ma questo ricorso costante alla tradizione può anche chiuderci gli occhi?"

"Certo. Può paralizzarci. Dobbiamo anzitutto re�stare aperti e sensibili. Poi, se ne abbiamo i mezzi, dobbiamo mostrare agli altri ciò che bisogna fare. È appurato che le vecchie proibizioni religiose si rive �lano talvolta un male. Ma come modificarle? Con quali armi?"

Le numerosissime rappresentazioni del Buddha, che si sono succedute in diversi paesi, attraverso i secoli, poggiano su un complicato simbolismo. La posizio�ne del corpo, i suoi cinque diversi livelli, le particola�ri caratteristiche fisiche del personaggio, come le o�recchie allungate, le spalle larghe, la protuberanza cra �nica, tutto ha un significato. Gli scultori e i pittori han �no prestato attenzione soprattutto alle posizioni delle mani, dette mudra, che sono otto. Tra queste otto posizioni, ve n'è una detta "di predicazione" (dhar�maciakra mudra): le due mani, una col palmo girato verso l'esterno, l'altra verso l'interno, con gli indici e i pollici che si toccano, mostrano la ruota del Dhar�ma, cioè dell'ordine del mondo. Si tratta di una ruo �ta (ciakra) che non smette di girare. Inutile lottare contro la forza universale che la muove. Per forti che siano la nostra ostinazione a costruire, la nostra passione per la stabilità, il nostro "tenace desiderio di durare", questo gesto sta a ricordare il movimen�to, signore delle cose. Contemporaneo di Eraclito, il Buddha ha perfettamente avvertito ed espresso que �sto principio. L'immobilità è illusione, e il nostro corpo ne è il primo esempio. Non cessa, a ogni fra�zione di secondo, di degradarsi. Le ultime parole del Risvegliato furono accompa

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gnate da un gesto che mostrava il suo corpo rovinato, vittima di una feroce dissenteria: "Tutto ciò che è composito è de�stinato alla distruzione".

I suoi successori hanno ricamato a volontà su que �sto tema, influenzando nel contempo vicine correnti di pensiero. In un inno shivaico del VI secolo, ad esem�pio, si trovano alcuni termini pienamente buddhisti:

Ciò che è immobile si disperde e ciò che si muove perdura.

Il Dalai Lama stesso si è sovente espresso sulla transitorietà, sui continui cambiamenti che subisco�no i fenomeni. Ne trova anche la conferma nel movimento incessante delle "particelle subatomiche". Anche le nostre coscienze non esistono che tempo�raneamente. Ciò che resta fermo, ciò che è sempre fisso, è quello che i buddhisti chiamano la sesta co�scienza mentale, la più profonda, che non ha né inizio né fine, e che sfugge anche alle coordinate abituali dello spazio e del tempo. Ritorneremo am �piamente su questa "coscienza sottile" quando par�leremo dello spirito.

Anche se questa coscienza sottile può provviso�riamente cambiare, anche se essa non riesce a sfug �gire, secondo le scuole più radicali, all'illusione uni�versale che ci culla, in un certo senso "la sua conti�nuità perdura". Ugualmente, nei molteplici rivolgi�menti che subisce la nostra esistenza quotidiana, u�na sorta di continuità sussiste, quella della società uma �na Ma tale continuità è il supporto del cambiamento, che senza questa sarebbe per noi impercettibile.

"Mi pare talvolta che il papa" gli dico "voglia fer�mare la ruota di questo mondo. La vera risposta non può essergli data dal gesto silenzioso del Buddha?"

"Senza dubbio. Il papa, come è normale, è di �rettamente influenzato dalle tradizioni religiose che rappresenta. Così, si aggrappa a un principio: essen �do la vita umana un bene prezioso, il più grande numero di individui deve beneficiarne. Ma a questo si oppone un altro principio, che rappresenta un'al�tra forma di rispetto per la vita. In base a questo secondo principio, si tratta di difendere ogni vita, e non soltanto la vita umana. Di quest'ultima, che è in effetti preziosa, si tratta di difendere la qualità. È dunque un principio contro un altro principio. Per noi, nessuna scelta si compie nell'assoluto, per ob�bedienza servile a un principio. La nostra intelligen�za c'è, mi sembra, proprio perché possiamo diventa �re più flessibili, adattabili. Tutto è relativo. Un'intel�ligenza bloccata non è un'intelligenza."

Mi mostra le mani e aggiunge:

"Se, per salvare nove dita, bisogna tagliarne uno, io non esito, lo taglio".

Ricordiamo per un momento paesi che conoscia �mo, l'Algeria in particolare, la cui popolazione è tri �plicata in trent'anni, e vediamo un gruppo di fanati�ci scegliere il peggio, assassinare gli stranieri, man�dare deliberatamente in rovina la propria nazione.

"Si vedono qua e là uomini" mi dice il Dalai La�ma "compiere sforzi disperati, e sovente anche cri �minali, per arrestare il movimento del tempo, per ritagliare e proteggere uno spazio che noi riteniamo inscindibile."

"Al quale si uniscono brame di ogni sorta."

"Questo va da sé."

"Dal punto di vista della limitazione delle nasci �te, la Cina non è il solo paese ad aver tentato, su grande scala, una politica sistematica?"

"Sì, e da molto tempo. Disgraziatamente, dopo l'occupazione del Tibet, questa politica fu estesa ai territori occupati, dove la popolazione indigena era ancora as

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sai rada. Furono prese misure molto rigo�rose, che giunsero fino alla sterilizzazione forzata delle donne tibetane. Intanto si perseguiva una poli�tica di occupazione del suolo, con la deportazione in Tibet di popolazioni cinesi."

"Una colonizzazione mascherata?"

"Esatto. Il preteso controllo della popolazione, obbligatorio in Tibet come, dicono, nel "resto della Cina", dissimula una colonizzazione forzata e molto efficace. Sul territorio dell'antico Stato indipendente del Tibet, gli occupanti cinesi sono oggi più nume �rosi dei tibetani d'origine."

Mi viene alla mente una frase di Nietzsche, che non so citare esattamente, secondo la quale la terra è un essere vivente. Questo essere vivente ha una pelle, questa pelle è colpita da una malattia mortale, questa malattia mortale si chiama specie umana.

"È certamente" gli dico "una visione estremamen�te pessimistica. Si può curare questa malattia?"

"Lo spero" risponde con una grande risata. "Ma senza eliminare tutta la specie umana! "

All'inizio degli anni Settanta, già più di vent'anni fa, un medico e ingegnere americano, James Love �lock, lanciò l'ipotesi Gaia. Portatore, da diversi mi�liardi di anni, di un fenomeno rarissimo, e forse an�che unico, che si chiama vita, il nostro pianeta reagi�rebbe a questo fenomeno in modo singolare, con una sorta d'interattività. Esso potrebbe avere, se non una vita personale, almeno reazioni che gli sarebbe �ro proprie.

Accolta senza entusiasmo dalla maggioranza degli scienziati, la teoria Gaia ha suscitato, presso i lettori, echi molteplici, spesso eccessivi. All'origine di que�sto successo, al di là della distruzione del pianeta alla quale assistiamo (e partecipiamo) in ogni mo�mento della nostra esistenza, bisogna cercare, come diceva lo stesso Lovelock, ragioni antichissime. La personificazione della terra, sovente al femminile, si incontra ad ogni pagina dei nostri racconti mitolo�gici. In India l'abbiamo già visto si chiama Bhumi. Essa è, come altrove, nostra madre.

Nel Mahabharata, immenso poema epico delle o�rigini in cui tutta l'India si riconosce, una grande battaglia, che oppone ferocemente tutti i popoli co�nosciuti, mette in gioco la sopravvivenza della terra stessa, e persino dell'intero universo. Da ambo le parti, infatti, i combattenti sono in possesso dell'ar �ma suprema, chiamata Parasurama, arma ardente e luminosa, capace di annientare in pochi istanti ogni vita. Per questo le piante tremano di paura, come le rocce, come gli dèi.

Ed è per lo stesso motivo che in un dato mo�mento, malgrado la sua natura pacifica, Bhumi la Terra - prende parte alla battaglia. Essa afferra, nelle "mani fangose", la ruota del carro di Karna, uno di questi "uomini arroganti" che può chiamare in cau�sa la temibile arma. Blocca il suo carro, oltre ogni sforzo umano, e manda così a morte il guerriero.

Questa partecipazione della terra alle nostre bat �taglie è, ancora oggi, auspicata quanto temuta. Alcu�ni assicurano, non senza ingenuità, che il virus del�l'AIDS sia una risposta della "natura" alla nostra trion�fante proliferazione, e che altri virus dagli effetti in �immaginabili siano in questo momento in prepara�zione, nei crogioli più segreti.

Se vi è qualcosa di infantile in queste fantastiche�rie, esse rivelano comunque le nostre preoccupazio �ni e, in uno strano modo, le nostre speranze.

"Ma la chiave è nelle nostre mani" mi dice il Da�lai Lama. "Non bisogna cercarla alt

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rove. È vero che la specie umana è la sola a poter distruggere la ter �ra. Gli uccelli, i conigli non hanno questo potere. Ma se ha il potere di distruggere la terra, ha anche quello di proteggerla."

"Ma non intraprende questa strada."

Gli narro del fiume del mio paese, nel Midi della Francia, un tempo luogo di svago, di incontri, di bagni, di pesca, d'irrigazione oggi sporco e abban�donato, da trent'anni ormai, avvilito e inquinato, as�sassinato.

"Anche qui," gli dico "a Dharamsala, mi ha sor�preso, passeggiando per le foreste, vedere ovunque mucchi di cartacce, scatole di conserva, plastica Sem �bra che gettino tutto ovunque."

Dice ridendo:

"È il contributo della comunità tibetana!".

"Ieri, vicino al mio albergo, ho visto un gruppo di bambini tibetani che giocavano rumorosamente. Il loro divertimento consisteva nell'estrarre i rifiuti da un bi�done delle immondizie e nello sparpagliarli per terra Mi fermai e mi domandai: che cosa fanno? Perché?"

"Hanno sette o otto anni," mi dice "sono nati in un mondo spazzatura, per loro la natura è piena di plastica, è così, non l'hanno conosciuto prima. Non sanno che il mondo era bello. Il concetto stesso di bellezza, non lo conosceranno forse mai."

Ricordiamo Malthus, naturalmente, e altri perso�naggi più radicali, come il profeta iraniano Maniche, nel III secolo della nostra era, voleva proibire ogni procreazione umana. Desiderio di morte, co �me diceva il Buddha, desiderio oscuro che Mani pa�gò con la vita.

Ripeto la domanda:

"Che fare, allora?".

"Non abbiamo che l'educazione" mi dice. "È la nostra sola arma, insieme all'esempio che possiamo dare. E questa educazione, dal punto di vista bud�dhista, comincia con la nozione di interdipendenza Tutto dipende da tutto. La vita di questi fanciulli che giocano è direttamente collegata alle cartacce che estraggono dalla spazzatura. Bisogna dirlo, spie�garlo, e soprattutto farlo sperimentare."

"È un compito lungo."

"Sì, un compito quotidiano, che non terminerà mai. Ma la nostra sopravvivenza, e la qualità della nostra sopravvivenza, hanno questo prezzo. La con�divisione di questa presa di coscienza è essenziale se vogliamo migliorare, sia pure di poco, il nostro at �teggiamento, il nostro rapporto col mondo. Dobbia �mo vincere l'isolamento del nostro spirito, dobbia�mo rinnovare i nostri contatti con il resto dell'uni�verso. Altrimenti, davvero, siamo perduti. Perduti perché separati. Bisogna mostrare, instancabilmen�te, che il nostro interesse è l'interesse degli altri, che il nostro futuro è il futuro degli altri. E quando dico "gli altri", non penso solamente agli altri esseri uma�ni, evidentemente uguali a noi. Penso ad ogni al�tra forma di vita, su questa terra e fuori di questa terra."

"Non è dunque una questione di sentimento, né di morale?"

"È anzitutto un fatto."

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Tutti coloro che, da vicino o da lontano, si sono interessati al buddhismo, sono stati colpiti dall'affer �mazione secondo la quale la compassione, fonda�mento stesso della condotta, non dipende in alcun modo da quello che noi chiamiamo sensibilità. An�che se non possiamo evitarlo, non serve praticamen �te a nulla piangere sui nostri mali o sulle sventure altrui. La compassione buddhista non ha nulla a che vedere con questo o quel caso particolare. Si basa su un senso molto preciso della nostra appartenenza alla totalità del mondo. Testi venerabili dicono che essa è senza causa, senza calore, senza passione, in�stancabile, immutabile. Come ricordava Jacques Ba�cot nel 1925, "è del tutto obiettiva, fredda e legata a una concezione metafisica. Non è spontanea, ma con �seguente a lunghe meditazioni... Abbraccia tutti gli esseri trasportati dalle passioni nel ciclo delle rina�scite. È universale mentre la nostra è particolare".

Anzitutto un fatto. Il Dalai Lama insiste sull'evi�denza:

"Ora, il fatto è che non abbiamo che una terra, nostra madre comune, e che ogni danno che le pro�vochiamo si ritorce necessariamente contro di noi. Se non prestiamo attenzione alla terra, distruggia�mo il nostro stesso futuro".

"Possiamo ancora salvarlo?"

"Certo. Cominciando dal controllo delle nascite, che bisogna promuovere al più presto. Parallelamen�te, possiamo ripulire i fiumi, e il suolo, e quest'aria che respiriamo. Sì, possiamo farlo! Spetta solo a noi. E non è una questione di sensibilità o di morale. È il nostro futuro a essere in gioco!"

Gli ricordo allora altre radici, le nostre, che chia�miamo giudaico cristiane, e questo mito dell'inizio della Genesi ove il Dio creatore dà all'uomo il pote�re su tutto ciò che è vivente, i pesci dell'acqua, gli uccelli dell'aria, il bestiame, anche sugli animali chestrisciano sul suolo. A cui s'aggiungono i frutti della terra, gli alberi. In un racconto decisivo, che sappia �mo ora essere stato scritto tardivamente (al ritorno dall'esilio degli Ebrei a Babilonia, verso il V o IV secolo avanti Cristo), l'uomo si attribuisce, in poche righe, il possesso senza riserve dell'intero pianeta. Lo fa in buo�na fede, certo, e in nome di un Dio ormai unico.

"È difficile valutare" dico "fino a che punto que �sta parola antica ci influenzi ancor oggi. Sono porta�to a credere che questa influenza, sottilmente pro �fonda, sia presente in ognuno dei nostri gesti."

"Davvero?"

"Gli occidentali si sono ripetuti, per secoli, di es�sere la meraviglia del creato, fatti a immagine stessa di Dio. Hanno finito per crederlo. Gli sforzi per libe�rarci da questo mito, che il buddhismo non ha mai conosciuto, sono lenti e pesanti, si deve sempre rico�minciare da capo. Soltanto vent'anni fa, in Occiden �te, erano pochissimi coloro che si sentivano parte integrante della ruota."

"La maggioranza di noi, ed è ancora così, si con�sideravano al contrario coloro che fanno girare la ruota."

"Certamente. Lei parlava di alcuni gruppi di uomi �ni d'affari che vengono qui a fare ritiri, e che le chiedo�no consiglio. Che cosa sono al confronto di tanti mi�lioni di executives organizzati, armati di ventiquattr'ore e di computer portatili, il cui progetto non è che di sfruttare, che di prostrare anzitutto Bhumi?"

"È vero che l'Occidente è affascinato dall'effi�cienza. E senza dubbio, in molti campi, questa effi �cienza strappa l'ammirazione. Allora pongo una do�manda che mi sembra naturale: questa efficienza tec�nica, perché non applicarla alla salvaguardia di ogni forma di vita? Sarebbe un compito entusiasmante per l'umanità, che sembra appunt

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o mancare di un grande progetto, di un ideale."

"È difficile. La certezza della nostra supremazia ha radici così lontane..."

"È difficile, ma indispensabile! Se non si risolve il problema della sopravvivenza, non resterà nessu�no nemmeno per sollevare il problema! E il buddhi �smo può aiutarvi. Dapprima, come ho già detto, gra�zie all'estrema attenzione che presta al concetto di interdipendenza. Non lo si ripeterà mai abbastanza. Poi, per l'atteggiamento che adotta nei confronti della verità dottrinale."

Abbiamo già ricordato questo punto, ma vi tor �niamo (la nostra conversazione è come intrecciata, i temi scompaiono e ricompaiono): se la scienza con�traddice le Scritture, bisogna cambiare le Scritture. Il Dalai Lama riconosce che questo non è facile, an�che all'interno del buddhismo. Ma bisogna farlo. Anche noi dobbiamo cominciare di qui.

Importante è risanare. Spesso Sakyamuni si è pre�sentato come un medico: "Come l'oceano intero è impregnato dal sapore del sale, così tutto il mio mes�saggio non ha che un sapore, la liberazione".

"D'altro canto poco importa" mi dice il Dalai La�ma "l'identità del medico e il rimedio che prescrive. Il Buddha ha fornito l'esempio celebre dell'uomo colpito da una freccia avvelenata. Non vuole farsi medicare prima di aver conosciuto il nome dell'uo�mo che l'ha colpito, prima di sapere a quale casta appartiene, a quale famiglia, se è di costituzione ro�busta o minuta, in quale legno la freccia è stata inta �gliata. E muore prima che lo si possa curare."

Questo atteggiamento positivo, pragmatico, che sup�pone una verifica costante del modo di pensare e di agire, è la spina dorsale del buddhismo dove si ritro�vano rigore e flessibilità.

Pur affermando che ogni evento procede da unacausa e comporta delle conseguenze, nella grande ruota dove tutto è collegato a tutto, il buddhismo sa mettere da parte, quando è necessario, la specula�zione teorica, che può ritardare le cure che ogni ferita esige. Al limite, il buddhismo riconosce anche l'oscurità che avvolge alcuni ambiti. È senza dubbio meglio non addentrarvisi mai, come ha raccoman�dato il Buddha: "Non cercate di misurare l'Incom�mensurabile a parole, e nemmeno di affondare la lama del pensiero nell'impenetrabile...".

L'insegnamento dipende anche dal livello di com�prensione dei discepoli. Il mio interlocutore torna ad ogni occasione sui concetti di livello, di misura, di adattamento. Sakyamuni sembra avere sempre dif �fidato delle posizioni estreme, che possono essere interpretate in un senso volto all'eternità (esiste per sempre un'anima indipendente) o, al contrario, ni�chilista (non esiste nulla). Le sue preoccupazioni di pedagogo ci sono state tramandate da uno dei suoi continuatori, Maitreya. Vi si vede che il Risve�gliato diffidava del proprio prestigio, raccomandan�do di confidare nell'insegnamento propriamente det�to, e non nella persona del maestro, e che metteva in guardia anche dalla dolcezza persuasiva delle pa �role, in altri termini di un bel discorso, preferendo la parola esatta e diretta.

Infine, a certe domande, è noto come egli rispon�desse col silenzio. Queste zone lasciate nell'ombra, ove la lama del pensiero non penetra, si chiamano "le quattordici viste inesplicate".

Per noi, ricercatori occidentali che scaviamo o�vunque, che non vogliamo lasciare alcun territorio di conoscenza inesplorato (anche se le conseguenze della ricerca possono spesso sembrare temibili), questiquattordici punti indiscutibilmente impenetrabili so �no un mistero e quasi uno scandalo. Dio ci ha affida�to tutto, anche l'oscurità da illuminare.

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Al mistero di questo atteggiamento lontano, di queste domande in sospeso fin dall'origine, si ag�giunge per noi l'enigma del buddhismo stesso. Ai nostri occhi avidi di un ordine chiaro, di una defini �zione precisa, il buddhismo appare spesso come un atteggiamento ambiguo, al limite della contraddi�zione, ove tutte le tendenze possono convivere. È una religione? È una filosofia, o una morale? Doman�de senza risposta, quasi inopportune. Esso resiste osti�natamente a ogni classificazione, conservando in ulti�ma analisi qualcosa di inafferrabile. Alcuni spiriti pos�sono provarne ripugnanza (ha senso concepire pro�blemi senza soluzione?), altri, al contrario, vi si muovo�no a loro agio. Tutti coloro che lo praticano insistono sulla necessità dell'esperienza, che risolve le indecisio�ni teoriche con la grazia della vita stessa, inesplicabile.

Il nostro rapporto con la terra rappresenterebbe uno di questi problemi senza soluzione? Si trattereb �be di una quindicesima "vista inesplicata"?

"Quello che più mi stupisce" gli dico "è che alcuni miei amici, intelligenti e colti, sembrano incapaci di vedere. Sembra anche, per alcuni di loro, che un accumulo di conoscenze rafforzi la fiducia in se stes�si e li accechi anziché metterli in guardia. Nulla è più sconcertante dei dibattiti tra scienziati che rifiu�tano sempre, poniamo si citi la fascia d'ozono, di pronunciarsi. Manca sempre loro un ultimo detta�glio, un piccolo calcolo. Il tempo stringe, come dice lei, il veleno della freccia produce i suoi effetti, ed essi non si pronunciano. Mentre la cosa è chiara: non si corre alcun rischio a proteggere la terra, an�che supponendo che essa non corra alcun pericolo."

"In caso contrario, se non facciamo nulla, ogni timore è giustificato."

"È la logica stessa. È di primaria necessità fare una scommessa sul peggio. Ma la gente ascolta, scuote la testa, dice: sì, sì, avete ragione..."

"E subito dimentica."

"Quanto ai partiti politici che si dichiarano soste�nitori dell'ecologia, e ai quali lei alludeva, capita lo �ro di dividersi."

"Sì. Il gusto del potere s'intrufola ovunque."

"Anche questo è uno dei problemi che ci inquie�tano: l'ecologia deve accontentarsi di un'azione sul campo oppure innalzarsi, col rischio di corromper �si, fino al piano politico dove si prendono le decisio�ni? Non abbiamo tutti la stessa risposta."

"Né, senza dubbio, la stessa domanda."

"Ho letto con piacere, in uno dei suoi libri, che lei spegne la luce quando lascia la stanza di un albergo."

"È vero."

"Io faccio la stessa cosa, per abitudine. Durante l'infanzia, quando l'elettricità era ancora un lusso, mi hanno educato in questo modo."

"So bene" mi dice "che questo gesto non giova alla terra se non in proporzione infima. È necessa�rio, comunque, iniziare da qui. Cominciare da se stessi, sperando che qualcun altro, intorno a noi, ci imiti, e che il cerchio vada allargandosi."

"Tuttavia le generazioni che ci seguono, nate nella seconda metà del secolo, hanno altre abitudini. L'elettricità, che fa dimenticare l'antica paura della notte, è diventata loro familiare. Rarissimi sono i giovani, in Europa, negli Stati Uniti, che spengono la luce uscendo da una stanza."

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"Non hanno conosciuto la notte, il mondo oscu �ro, il chiarore prezioso di una candela."

"Sono come quei bambini che non hanno cono�sciuto la terra pulita e bella."

"E non dimentichi" mi dice " che quest'ignoranza fa gli interessi di coloro che producono l'elettricità"

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"E di coloro che la vendono."

Abbiamo altri punti in comune. Come lui, io so�no nato in un piccolo paese. Ho abbandonato la pesca e la caccia, che praticavo nella mia infanzia come ogni fanciullo di campagna. Nato nel 1931, ho quattro anni più di lui. Il Dalai Lama racconta nelle sue memorie che la seconda guerra mondiale passò per lui quasi inosservata, mentre fu il grande avveni�mento della mia infanzia. Egli viveva allora in un altro mondo, ancora isolato e organizzato da riti, bambino misteriosamente designato alla funzione che esercita oggi. Tuttavia, in alcuni momenti, ho l'im�pressione che questo uomo che mi parla, ora serio, ora allegro, e che spesso mi stringe amichevolmente la mano, abbia due o tremila anni più di me. Porta in sé tutto un continente di pensieri, immagini, suoni, sentimenti che giungono da un lontano passato, conservati da una meditazione quotidiana, e per que�sto sempre vivi.

Riprende la parola:

"Non sono un esperto dell'educazione. Sono an �zi ignorante in questo campo. Ma so che la vera ri�sposta è qui. I nostri sistemi educativi cambiano no�stro malgrado. In Occidente è chiaro che la televi�sione sta prendendo il posto dei maestri di un tem�po. È un bene? È un male?".

"Comunque, tutti ne discutono. E vivacemente."

"Mi dicono che le nuove generazioni, negli Stati Uniti e anche in Europa, hanno un comportamento sempre più egoista e crudele, mi parlano della giun �gla delle periferie, di bande di giovani teppisti dro�gati, di pietre omicide gettate dai cavalcavia sulle automobili, e anche di crimini commessi da bambi�ni. È conseguenza d'una decadenza generale, della crisi economica? Oppure lo spettacolo quotidiano della violenza fa emergere la nostra stessa violenza?"

"È un altro problema all'ordine del giorno."

"Un fatto curioso, ad esempio: trovo che i giova �ni tibetani, nati e cresciuti in India, siano più miti di quelli del Tibet. Fanno parte dello stesso popolo, della stessa cultura, parlano la stessa lingua, e tutta�via sono diversi. A causa dell'ambiente, immagino."

"Però l'India non è un paese particolarmente pacifico."

"Chi lo può sapere?" mi dice. "Rifletta. So bene che ci sono problemi, in India, e anche sangue ver �sato! Ma nell'insieme, in India, popoli diversi, che parlano quasi sessanta lingue e che praticano reli�gioni di ogni genere, riescono a convivere. Non è questo un esempio che tutto il pianeta potrebbe se �guire? Non esageri nel dipingere negativamente il quadro. Lei, venendo qui, ha attraversato il Punjab. Sconvolto di recente da lotte, questo Stato è ora pa�cifico. Ha ritrovato la propria ricchezza. E pensi ai giovani tibetani che in questo momento, in Tibet, devono fare fronte ogni giorno alla pressione degli occupanti cinesi. Ecco indubbiamente la ragione prima della loro aggressività: una vita senza felici�tà, una vita costantemente messa in discussione. Un'oppressione sistematica porta all'insoddisfazio �ne e ben presto all'aggressività."

Riflette un istante senza che io lo interrompa e aggiunge:

"A tutti noi manca qualcosa. Non so bene cosa, ma lo sento. In Occidente, avete tutto. O almeno lo pensate. Anche se state attraversando in questo mo�mento una crisi, non manca ogni sorta di beni mate�riali, senz'altro meglio distribuiti che in passato. Voi ne andate comunque sovente fieri. Ma mi sembra che viviate in una tensione, in una competizione e in un timore incessanti. Coloro che crescono in que�sta atmosfera mancheranno, per tutta la vita, di qual�cosa".

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"Di cosa mancheranno?"

"Della nostra dimensione più profonda, e anche più gradevole, e più feconda. Resteranno sulla su �perficie agitata del mare, senza conoscere la calma sulla quale posano."

Il Dalai Lama è venuto per la prima volta in Occi�dente nel 1973. La conoscenza che ha potuto avere delle nostre condizioni di vita, e del livello del no�stro pensiero, è forse limitata così come lo è la no�stra quando ritorniamo da un viaggio in India o in Cina. Ogni realtà è complessa e mutevole. Quando parla brevemente dell'Occidente meccanicistico e mercantile, non sempre egli sa evitare i luoghi comu�ni. Non è affatto vero che tutti coloro che vivono in Occidente beneficino di tutte le presupposte como�dità, di tutte le meraviglie della tecnica. Questa tensione di cui s'è parlato, questa fretta, questa competizione spietata, non sono senza vaste schiarite, senza ampie zone di serenità. Anche noi abbiamo ricercatori disinteressati, benefattori, sognatori. Anche da noi Ci sono anacoreti.

Inoltre, quando egli parla dell'Occidente, si ac�contenta talvolta, per comodità, di un'immagine senza sfumature. Noi facciamo lo stesso, regolar �mente, quando parliamo dei paesi arabi, dell'Africa, del Giappone: non cogliamo che il tratto saliente, semplificatore. E il buddhismo ci insegna senza so�sta che ogni semplificazione, sempre che pretenda di descrivere una società, è falsa e, di conseguenza, pericolosa.

Quando arriviamo a parlare dei cambiamenti che abbiamo potuto osservare nel corso della nostra vita, gli cito il celebre libro dell'antropologa ameri �cana Margaret Mead, Generazioni in conflitto, che fu uno dei manifesti della fine degli anni Sessanta.

Non sembra conoscere questo libro.

"Perché dunque era celebre?"

"Perché riprendeva, con chiarezza, le idee più diffuse in quegli anni, e anche perché poneva un vero problema. Nelle società tradizionali, diceva Mar�garet Mead, il mondo non cambiava da una genera�zione all'altra, o cambiava di poco. Anche i vecchi potevano trasmettere ai giovani, ai nuovi venuti nel gruppo, ogni loro conoscenza sull'ambiente, sul mo�do di vita, sugli utensili, sui racconti, sui legami so �ciali. In un mondo immutabile, le nuove generazio�ni avevano bisogno di questo sapere. Quando le co�se sono cominciate a cambiare, sempre più veloce �mente con i tempi moderni, lo scarto fra generazio�ni si è fatto evidente e, in seguito, si è aggravato. È diventato un fossato. I nuovi venuti si domandavano perché i vecchi si ostinassero a trasmettere loro que�sta o quella tecnica, a far leggere l'uno o l'altro auto �re, quando quell'autore li annoiava e quella tecnica non aveva più alcuna utilità.

Mi ascolta scrollando la testa, con lo sguardo molto attento.

"Ad esempio," gli dico "dall'età di sette o otto anni, mio padre mi ha insegnato ad arare con il ca �vallo. Fra le altre cose Dovevo conoscere tutto sul�l'ambiente contadino. Oggi, supponendo di non a �verlo dimenticato, sono probabilmente uno dei po�chissimi autori europei a saper arare in questo modo."Quest'immagine lo fa ridere. Aggiungo:

"In compenso, nel 1945, quando si è saputo dell'esplosione di Hiroshima, le persone del paese più vecchie di me (avevo quattordici anni) sono venute a chiedermi cosa fosse questa bomba straordinaria, ca�pace di distruggere una città in un sol colpo. Anda�vo a scuola, e loro pensavano che io avessi conoscen �ze che del resto, in questo campo, non avevo. Il sa �pere cambiava generazione. Accade la stessa cosa,oggi, per quanto riguarda l'elettronica. A mia volta, spesso, chiedo consiglio su questo argomento a mia figlia".

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Cerco di illustrargli brevemente come, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il nostro sistema edu�cativo sia rimasto in uno stato d'incertezza. Da un lato gli antichi baluardi del sapere si sgretolavano. Tutto un passato ci sembrava all'improvviso inutile. Il latino cadeva nel dimenticatoio, a favore della ma �tematica. L'insegnamento si proclamava aperto, flessibile, superficiale, quasi facoltativo. In alcuni ca�si si giungeva a chiedere agli studenti che cosa desiderassero imparare. Atteggiamento che condusse a una pedagogia strana, quasi alla rovescia, e che cor �se il rischio di formare una o due generazioni di ignoranti. Dopo di che si ebbe la solita reazione, e così via.

"In questo momento esitiamo ancora. Come lei dice, avvertiamo chiaramente che l'intero sistema deve cambiare. Ma per andare in quale direzione?Le opinioni divergono."

La sua risposta è sorprendente:

"Negli aeroporti e nelle stazioni," mi dice "quan�do la polizia vuole individuare carichi clandestini di eroina, si giova di cani addestrati. E spesso questo funziona, perché i cani hanno narici molto più fini di quelle dei poliziotti. Ma ciò non significa che i poliziotti debbano considerare i cani come profes�sori".

Non posso che approvarlo. Dopo una lunga ri�flessione aggiunge:

"Mi domando veramente se il cambiamento ab �bia accelerato il suo corso. Quale cambiamento? Il cambiamento di che cosa? Della tecnica, sì. Tutti i nostri strumenti si sono perfezionati, alcuni sono nuovi, esigono una nuova abilità. Gli abiti cambiano in funzione della moda, per lo meno i vostri, i mezzidi trasporto si perfezionano, la nostra percezione del mondo, le nostre convinzioni cambiano, perché viviamo tutti nella transitorietà. Esteriormente, in ef�fetti, le cose cambiano, si modificano in continuazio�ne".

Scuote piano la testa prima di aggiungere:

"Ma noi, però, non siamo cambiati".

3NÉ IO NÉ DIO

Basato su una esperienza personale, al di là di ogni rivelazione divina, il buddhismo, secondo le parole stesse del suo fondatore, nega ogni esistenza indi �pendente dell'io. Paradosso unico nella storia del pensiero: quello che tutte le tradizioni chiamano "a�nima", in sanscrito atman, questa entità permanente che sopravviverebbe a noi per conoscere un'altra vi�ta, o diverse altre vite, questa realtà distinta dal cor �po, resistente alla morte, al sonno, alla perdita di coscienza, il buddhismo la cerca senza trovarla.

Anche i concetti contemporanei di un "io", di un "ego", che non presuppongono la sopravvivenza del�l'anima dopo la morte ma che stabiliscono un sé tangibile, un essere io definito e durevole, sono e�nergicamente confutati. Quando diciamo "il mio cor�po" o "il mio spirito", supponiamo l'esistenza di un essere, di una persona che possederebbe questo cor �po e questo spirito e che, di conseguenza, ne sareb�be caratterizzato. Lo stesso quando diciamo "i miei desideri", "i miei rimpianti", "il mio passato", "il mio coraggio". Ora, questo essere, questo sé, il buddhi�smo non lo trova da nessuna parte.

E addirittura lo condanna, perché vede in que �sto credo illusorio l'origine dell'egoismo, dell'attac�camento ai beni, della gelosia, dell'orgoglio, della malevolenza

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nei confronti degli altri, che vivono nel medesimo errore. Dai conflitti fra individui alle guer�re di sterminio fra nazioni, ogni sventura che ci in�quieta nasce in questa illusione assurda, in questa sensazione di un essere distinto, particolare, forte.

Noi siamo, come il foglio di carta, in rapporto con tutte le cose. Possiamo scomporci in un certo numero di elementi: le nostre membra, le parti del�le nostre membra, gli atomi che ci costituiscono, l'attività del nostro pensiero, ma nessuno di tali ele �menti può aspirare alla totalità di un io. Questo con�tinua a sfuggirci.

Per lottare contro questa inconsistenza, che i poe�ti hanno talvolta magnificamente espresso, gli uomi�ni ci dice il buddhismo hanno inventato due concetti, l'uno di protezione, l'altro di conservazio�ne. Il concetto di protezione si chiama Dio, padre onnipresente e onnipotente, che ci rassicura nella nostra debolezza. Il concetto di conservazione si chia�ma anima, destinata a vivere in eterno, elemento di consolazione nel cammino della vita.

Altri "errori di fondo", profondamente inscritti in noi da noi stessi, l'idea di Dio e l'idea dell'anima sono il segno stesso della nostra ignoranza. Queste idee sono false e vuote. Esse sono "proiezioni men�tali sottili i, abilmente avvolte da parole. Hanno una potenza quasi irresistibile, perché sono nate dalla nostra angoscia e dal nostro bisogno di vivere. L'uo�mo vi si aggrappa così fortemente da non voler nem �meno sentire una parola che vi si opponga. Pertan�to, per giungere al risveglio, è indispensabile libe �rarcene.

Il Buddha Sakyamuni si è perfettamente reso con�to dell'aspetto rivoluzionario, e assai difficilmente accettabile, di questa critica dei sentimenti e dei pre �giudizi. Ha detto: "Gli uomini sommersi dalle pas�sioni e circondati da una massa di oscurità non pos�sono vedere questa verità che va contro corrente, che è sublime, profonda, sottile e difficile da comprendere".

Andare "contro corrente" è il minimo che si pos�sa dire, perché noi siamo intimamente persuasi di essere individui particolari e permanenti. La mag �gioranza delle nostre frasi cominciano con io. Tutto ci dice che siamo fatti delle nostre azioni passate, della nostra condizione presente, dei nostri progetti per il futuro, che le nostre modificazioni non sono che superficiali, che l'essenziale, in ciascuno di noi, sussiste. "Non sei cambiato" è una delle frasi che ascoltiamo più spesso intorno a noi.

È sufficiente entrare in una grande libreria e con�tare le opere esplicative e dimostrative dedicate ai problemi dell'io. Gli scaffali ne traboccano. Opere molteplici quanto deludenti, quando capita di im�mergervisi, perché nessuno dei casi descritti, strana�mente, sembra applicarsi al nostro.

Comunque, non è vicina la fine di questo accu �mularsi di analisi. Tutta la struttura del diritto occi�dentale moderno è basata principalmente sull'indi�viduo distinto dalla massa, tanto minacciato quanto prezioso: un individuo percepibile e definibile.

Il buddhismo afferma ostinatamente il contra�rio. Nessuna traccia di sostanza rimane, in noi, im�mutata. Viviamo al centro di una corrente ininter�rotta di relazioni, che condizionano a ogni istante la nostra esistenza. Non abbiamo alcuna possibilità di parlare del nostro io, del nostro essere. I buddhisti non possono seguire Cartesio e il suo famoso "dun �que". Nulla ci autorizza a passare dal pensiero all'es�sere, due elementi in pari grado mutevoli. Invece di affermare "penso, dunque sono", tutt'al più po �tremmo dirci, nel momento in cui parliamo: "penso, quindi penso", oppure, come Nietzsche, "qualcosa pensa".Questa disgregazione dell'ego si accompagna, naturalmente, a una viva critica della memoria e del concetto di passato. Questo senso di continuità, che ogni vita dona, è una illusione supplementare, un compiacente gioco dello spirito. Tutto quel

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lo che concerne il nostro passato che ricomponiamo e modifichiamo col pensiero in ogni istante è un'astrazione, una costruzione mentale, come il fu�turo. Possiamo a malapena parlare del momento presente, e con prudenza.

Poiché bisogna comunque ammettere che esi �stiamo (altrimenti la ricerca del risveglio diventa in�comprensibile), il Buddha ammette che siamo costi �tuiti da "cinque aggregati". Senza entrare nei parti�colari, che sono complessi, elenchiamo questi cin �que aggregati che ci compongono, e che sono il fon�damento della nostra presenza nel mondo: il corpo (o carattere materiale), la sensazione, la percezione, la formazione mentale (o le costruzioni) e la co�scienza.

Ma il Buddha dice anche, parlando ai suoi primi cinque discepoli: "Il corpo non è il Sé, la sensazione non è il Sé, la percezione non è il Sé, le costruzioni non sono il Sé, nemmeno la coscienza è il Sé...".

Nessuno degli aggregati che ci compongono (an �che se certe scuole sostengono il contrario) può dun�que pretendere di essere noi stessi. Ma se bisognasse scegliere? Se avessimo bisogno a tutti i costi di un supporto, di un punto d'appoggio? Allora, dice il Buddha, senza dubbio conviene scegliere il corpo, perché almeno sussiste per un momento, mentre "quel che voi chiamate spirito si produce e si disper �de in un perpetuo cambiamento".

Diffidenza, dunque, nei confronti del nostro pen�siero. Diffidenza totale nei confronti della nostra "ani�ma".

Tutti i successori del Risvegliato, a qualsiasi scuo �la buddhista si rifacessero, hanno insistito su questo punto: l'io è un'illusione, e la vera fonte della soffe �renza. Anche il Dalai Lama ha parlato di questa illu�sione persistente come di un "demone interiore, il più radicato in noi". E aggiunge: "... Il vero pratican�te dev'essere un soldato che combatte senza sosta inemici interiori, il cui capo è questa convinzione dell'io che tutti gli altri attorniano e seguono.

Stabilito questo, ripenso alla sua ultima frase:

"Ma noi, però, non siamo cambiati".

Se non siamo che caducità e illusione, qual è il flusso costante, inafferrabile, che non cambia in noi? Su quali elementi, fra quelli che ci compongo �no, possono poggiare i nostri sforzi? Che cosa possia�mo modificare in noi?

Riprendiamo la conversazione da dove l'abbiamo la�sciata. Oggi è un altro giorno. Da ieri il tempo è trascorso, miliardi di eventi sono successi, sulla su�perficie della terra e senza dubbio altrove, di cui noi portiamo segni invisibili.

Da ieri contiamo qualche milione di vite in più sul pianeta. Il Dalai Lama ritorna sull'argomento e mi domanda:

"Se un cattolico sincero, preoccupato per la sovrappopolazione come lei e me, incontra un ostaco�lo nella tradizione, un notevole ostacolo autentico, che non può trascurare a cuor leggero, che cosa può fare?".

"Intende dire: se crede veramente alla forza di verità delle Scritture?"

"Sì."

"È un caso abbastanza raro."

"Cioè?"

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"Ho visto recentemente alla televisione francese un servizio su una famiglia sinceramente cattolica. Una delle figlie, pur professandosi credente, ammette�va apertamente di fare l'amore con un giovane al di fuori del matrimonio e di prendere la pillola per non avere figli. Esistono ovunque accomodamenti col cielo. Le Scritture cristiane, nella maggioranza dei casi, sembrano ormai sorpassate ai cristiani di oggi. Parlo dell'Europa, dove la crescita della popo�lazione è, in ogni modo, molto limitata. In Africa, o in America Latina, il problema è completamente di�verso."

"Ma comunque, all'interno del cattolicesimo, esi�ste una via d'uscita?"

"Senza dubbio, ma resta ben nascosta. Il cammi�no è ancora molto lungo. Quando il papa, rivolgen�dosi agli africani, proclama, come faceva con i mes�sicani e con altri, che devono accettare tutti i figli che Dio manda loro (un modo di parlare che il bud �dhismo non ammette), lusinga forse la virilità dei maschi africani e, in un certo modo, mitiga la loro paura d'invecchiare. Molte famiglie sono convinte che un figlio in più un maschio di preferenza, se Dio lo concede costituirà un appoggio supplemen �tare per la loro vecchiaia."

"Lo so bene," mi dice "in India e in Cina è la stessa cosa: si ha l'impressione che, se una famiglia è numerosa, resisterà meglio alla povertà."

"Mentre l'esperienza europea prova evidentemen�te il contrario. Per lottare contro questa idea, un francese che lei conoscerà sicuramente, il coman �dante Cousteau..."

"Come dice?"

I suoi assistenti mi hanno già prevenuto: Sua Santi�tà ricorda molto bene i volti, ma dimentica facilmentei nomi.

Lhakdor, in tibetano, gli ricorda chi è Cousteau.

"Ah, sì!" esclama. "Lo conosco."

"...ha proposto, per lottare contro l'insicurezza che minaccia tutti gli uomini del terzo mondo nella vecchiaia, di garantire a ogni capofamiglia una pen �sione sufficiente. Così, forse, rinuncerebbero ad ac�cumulare figli, ipotetici sostegni della vecchiaia."

"Immagino."

"È una soluzione indiretta, scaltra, con effetti a lungo termine, molto difficile da mettere in atto."

"Dove trovare il denaro? Come distribuirlo?"

"Molte altre idee vengono proposte qua e là. E molti volonterosi vi si prodigano. Cominciamo a in�serire l'ecologia nelle fabbriche (timidamente), a uti �lizzare la benzina senza piombo, a esercitare un con�trollo sugli apparati di scarico dei veicoli, ad acqui �stare detergenti biodegradabili, carta riciclata, ortaggi e frutta coltivati senza prodotti chimici. Usciamo a fatica dalla dittatura spietata dell'industria, che i no�stri genitori e nonni hanno subito con il sorriso sul�le labbra per più di un secolo. Ma in realtà resta tutto da fare. E non si potrà costruire nulla di rassi �curante se la popolazione non viene controllata. Questo è evidente, mi sembra."

"Lo credo anch'io. Ma deve capire che i grandi capi religiosi sono per così dire incapaci di modifi�care le proprie idee."

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"È evidente."

"Soprattutto" mi dice "se questo cambiamento deve essere brusco. Il papa, ad esempio, in tutti i testi che distribuisce ai fedeli cattolici, ripete inces �santemente lo stesso discorso. Discorso che si basa su convinzioni molto antiche. Anche se lui, perso�nalmente, fosse favorevole a qualche cambiamento (noi non ne sappiamo nulla), le istituzioni cui è a capo gli proibiscono di dirlo pubblicamente. Cerchi di comprendere: è impossibile."

"Che cosa si può sperare?"

"Tutto deve partire" mi risponde "da quella che si chiama la base. So perfettamente, per averne par�lato con loro, che esistono nelle comunità religiose cattoliche, presso i monaci e anche presso le mona�che, individui che avvertono il pericolo, che condivi�dono le nostre idee, che affermano la necessità di fare qualcosa, al più presto. È da loro, e anche dai fedeli, che deve partire l'idea di un cambiamento. In altre parole, essi dovrebbero creare un'atmosfera che renda possibile questo cambiamento. Le deci �sioni indispensabili diventerebbero così, per i loro capi, molto più facili."

"Vi sono anche gli scienziati."

"Sì. Lo sforzo principale deve venire da loro."

"Ma anch'essi appartengono a istituzioni. La mag�gior parte vive in mezzo ad agi materiali e culturali. Fanno molta fatica a prendere la parola, e i migliori fra loro lo riconoscono."

"Devono tuttavia parlare, e parlare a voce alta. Stabilire statistiche chiare, e diffonderle. Devono dirci e ripeterci a quali cifre dobbiamo attenerci."

"L'hanno fatto. A dire il vero, abbastanza rara�mente. Ma noi leggiamo e dimentichiamo subito. Che la Nigeria conti più di seicento milioni di abitan �ti fra una trentina di anni, a noi oggi cosa importa?"

"Ma il compito degli scienziati non è soltanto quel�lo di ricercare. È anche quello di informare, o la ricerca non ha senso. Quel che vale per la popolazio �ne vale anche per l'ambiente. Altrimenti lei ha altre idee? Conosce altri mezzi per aiutarci a superare gli ostacoli?"

Non so che cosa rispondergli. Gli ripeto che pos�siamo unicamente fare proposte, che decide soltan�to il potere politico.

Mi domanda ancora:

"L'Occidente potrebbe veramente cambiare vita? È pensabile?".

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"Per ora, vediamo chiaramente che gli occhi di tutti sono puntati sulla disoccupazione, e questo pro�blema immediato nasconde facilmente tutti gli altri. Vediamo anche che i rimedi proposti qua e là giun �gono tutti dal passato. Non parlano che di crescita e di ripresa economica, cosa che per di più presuppo�ne un aumento di sfruttamento di un pianeta quasi esaurito. Nessuna idea nuova ed efficace ci sostiene. Parlare di un cambiamento di vita sembra un viag �gio nell'isola di Utopia."

"Vede l'Europa unita" mi domanda "come una speranza?"

"Da questo punto di vista, sì, forse."

"Le minacce dell'ambiente non si arrestano alle frontiere."

"Nemmeno i movimenti di popolazione. Schiere di mendicanti percorrono ormai l'Europa, che ha il suo terzo mondo in casa. Ogni paese occidentale conta oggi una seconda e anche una terza popola�zione clandestina. Negli Stati Uniti si contano più di venti milioni di indocumentos, immigrati senza per �messo, che vivono alla giornata, spostandosi da un luogo all'altro. Anche in questo caso, che fare? Le soluzioni che prevedono misure di polizia non sono né moralmente auspicabili, né efficaci. Ogni frontiera ha innumerevoli varchi."

"Dobbiamo insistere, giorno dopo giorno. Senza mai perderci d'animo. Dobbiamo affermare: siamo troppo numerosi."

Mi stupisco e mi rallegro dell'insistenza con la quale il Dalai Lama ritorna sui problemi della popola�zione, dell'ambiente. Non avrei immaginato che que�ste preoccupazioni fossero tanto vive. Così forse si deli�nea una prima risposta al paradosso del non sé. Cer�cando invano il proprio io permanente, il Buddha scopre l'uguaglianza di tutte le cose esistenti, senza alcun posto privilegiato, e le relazioni che le uniscono.Non si tratta di negare l'esistenza del mondo, né di noi stessi. All'opposto di una visione volta all'eter �nità (permanenza dell'essenza degli esseri al di là della corrente dell'esistenza), questo atteggiamento di dubbio radicale condurrebbe al nichilismo, a con�cepire il mondo come una semplice costruzione del �lo spirito.

L'idea non manca di seduzione. Ha anche attrat�to alcuni filosofi occidentali, come l'irlandese Ber �keley (Tre dialoghi tra Hylas e Philonous, 1712). Il mondo non avrebbe un'esistenza se non tramite la nostra percezione.

La netta maggioranza delle scuole buddhiste ri�fiuta tuttavia questa negazione radicale della realtà, basandosi su una frase molto categorica di Sakyamu�ni: "Esiste certo un non nato, non diventato, non- �fatto, non composto, e se non esistesse, non ci sareb�be scampo possibile a ciò che è nato, diventato, fatto e composto".

Il Dalai Lama lo dice a suo modo: "Quando dubi�to di esistere, mi dò un pizzicotto".

"Dunque, nessuna preoccupazione: esistiamo?"

"Sì. Anche se la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi è illusoria, un "non nato", un "non di�ventato" esistono, senza loro non esisteremmo. Ma noi esistiamo in un modo al contempo relativo (al �l'attività del nostro spirito) e condizionato (da tutte le altre esistenze)."

"Impossibile trovare l'io al di fuori del corpo e dello spirito?"

"Impossibile" mi risponde. "Ma impossibile è ugualmente percepire e descrivere la nostra esisten�za relativa rigorosamente imprigionata in una tra �ma di cause e di effetti senza percepire nello stesso tempo l'esistenza di tutte le cose."

"Dalle quali siamo inseparabili?"

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"Esatto. La nostra esistenza non è in alcun modoindipendente. Ma essa è, in se stessa, ogni esisten�za."

E questo vale anche per il corpo soltanto, come dice ancora Sakyamuni: "È all'interno del nostro cor �po stesso, mortale e lungo soltanto sei piedi, che esistono il mondo e l'origine del mondo, e la fine del mondo, e similmente il cammino che conduce al nirvana".

Così, le prese di posizione "ecologiche" del Da�lai Lama non sono un fenomeno di moda, il frutto di una rivelazione tardiva di fronte all'evidenza di una distruzione (come è stato per noi). Esse sono inscritte da molto tempo in quel che il buddhismo ha di più profondo, forse anche di più originale con il giainismo, un'altra tradizione indiana com �parsa nel medesimo momento, quasi nello stesso luogo del buddhismo e fedele fino a oggi agli insegna �menti del suo fondatore, Mahavira. Fra questi inse�gnamenti figura, come punto essenziale, il rispetto per ogni forma di vita. Qua e là per le strade dell'In�dia (mi è capitato andando da Dharamsala a Delhi) si incontrano gruppi di uomini e donne vestiti di bianco, che camminano e mendicano senza sosta, e che portano sulla bocca una sorta di benda per evi �tare di inghiottire per sbaglio qualche zanzara. Ugualmente, prima di sedersi, spolverano il sedile con un leggero scacciamosche per allontanare i pic�coli insetti che rischierebbero di schiacciare.Senza avventurarsi in questi atteggiamenti estre�mi, il buddhismo condivide lo stesso sentimento. Noi non siamo una parte separata del mondo, siamo il mondo.

Dicendomi "ma noi, però, non siamo cambiati", il Dalai Lama non alludeva ad alcun territorio irridu �cibile che conserveremmo e proteggeremmo in noistessi. La sua frase aveva un senso apparentemente più semplice, ma in effetti più sottile e più ampio. Quello che non è cambiato, mi diceva, è il nostro rapporto col mondo. Dopo due secoli di fucilate, di barricate, di scioperi, di conquiste sociali, di vertigi�ni tecniche, di furori ideologici, di rivolgimenti scien �tifici, di guerre piccole e grandi, ci scopriamo gli stessi, sempre intimamente legati a quello che ab�biamo preteso di conoscere e di dominare. E vediamo sorgere con stupore il pericolo che non ci aspettavamo, quello dell'autodistruzione, tanto più diffi �cile a scongiurarsi in quanto scaturisce, continua�mente, dalla nostra persistente illusione.

Lo ascolto in altro modo quando riprende, con un'energia, una convinzione sempre più marcate:

"Il vero problema del terzo mondo è l'ignoran �za. Insieme al desiderio di possesso e all'odio, l'i�gnoranza è uno dei tre klesha, uno dei tre veleni del�lo spirito, che sono la fonte di ogni malattia menta�le. Nel terzo mondo, è senz'altro il più potente. In Occidente, per forza di cose, cominciate a rendervi conto che qualcosa non va. E, a modo vostro, vi or �ganizzate, lottate".

"Una lotta che non servirà a nulla se non diventa mondiale."

"Esatto. Bisogna dunque educare le popolazioni del terzo mondo. Poiché esse non sanno nulla, lo vedo qui intorno a me. E bisogna farlo energica �mente, senza reticenza sentimentale. È una necessi�tà immediata, un'urgenza. Bisogna dire loro, con tutto ciò che questo comporta di ambiguo: state sba �gliando, la vostra eccessiva crescita demografica vi conduce a una miseria ancora più terribile. Voi desi�derate, com'è ovvio, che il vostro tenore di vita mi�gliori. Ma questo non è possibile per tutti. Al contrario."

Gli ricordo le argomentazioni di qualche espertodi demografia: alcuni paesi, è il caso dell'India e forse anche del Messico, sembrano vivere meglio da quando le loro popolazioni hanno raggiunto livelli che non molto tempo fa sembravano inimmaginabili. Le rese agricole sono raddoppiate, si

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creano nuove attività. L'India arriva al punto di esportare cereali.

Tuttavia questa situazione apparentemente fa�vorevole al commercio non è che l'impressione di un momento. Quando si pensa di aver raggiunto l'equilibrio, subito si spezza. Nulla arresta, intorno a noi, e nemmeno in Cina, l'espansione demografica; nulla, salvo i meccanismi collettivi poco conosciuti legati al miglioramento del livello di vita: vivete me�glio, vivrete meno numerosi. Ma si tratta evidente�mente di un circolo vizioso. La torta non si può in�grandire all'infinito. E la divisione di questa torta non è più equa oggi di ieri. Le bidonvilles di Bombay traboccano, i marciapiedi di Delhi sono ricoperti da una popolazione capitatavi per caso, eterogenea e senza risorse. La disoccupazione diventa un flagello per l'intero pianeta, insieme all'accattonaggio, suo vecchio compagno. Gli indiani abbandonati del Chia�pa si sollevano, armi alla mano. I popoli del Ruanda si massacrano. Presto coloro che avranno "la fortu�na" di lavorare lavoreranno per due, o per tre. A ciò si aggiunge conseguenza praticamente inevitabile, e nella maggioranza dei casi incontrollata lo sfrut�tamento sistematico del pianeta.

Prosegue:

"I paesi del Nord (è così che chiama general�mente l'Occidente: the Northerners) non sono mai sod�disfatti. Hanno tutto, e vogliono ancora di più . Altri paesi, come l'Etiopia, soffrono di carestia croni �ca. Non hanno niente, e domani avranno meno di niente. Dobbiamo lottare contro questo scarto crescente".

Insiste sulle seguenti parole:

"Questo dovrebbe essere il nostro traguardo. Av�vicinare i due mondi l'uno all'altro fino a renderli paragonabili e, se possibile, uguali. Sì, questo do �vrebbe essere il nostro traguardo. È moralmente nobi�le, e praticamente tutto lo giustifica".

"Non è un po' facile a dirsi?"

"Certo. Ma bisogna cominciare col dirlo, e dirlo chiaramente. Tutti i problemi che lei e io ricordia �mo, e che ogni individuo incontra nella propria vita di tutti i giorni, fame, disoccupazione, delinquenza, insicurezza, deviazioni psicologiche, epidemie diverse, droga, follia, disperazione, terrorismo, tutto è lega�to a questo fossato che va allargandosi fra i popoli, e che si ritrova, beninteso, all'interno stesso delle na �zioni ricche. Il buddhismo è assolutamente categori �co su questo punto, e la nostra antica esperienza ce lo conferma a ogni istante: tutto è strettamente col�legato, tutto è inseparabile. Di conseguenza, biso�gna ridurre questo scarto."

"Come fare?"

"Bisogna dire, con argomenti persuasivi e buona volontà, ma anche con precisione scientifica, ai po �poli del terzo mondo: volete che il vostro livello di vita sia paragonabile a quello dei paesi del Nord? Bene, cominciate a limitare le nascite. Altrimenti, è inutile provarci."

"Torniamo dunque al concetto di educazione."

"Di informazione anzitutto, e di educazione poi. Non possiamo evitarlo."

"Ma gli emarginati sono così numerosi. Senza al�cuna possibilità di parlare. Li dimentichiamo così facilmente. E poi sappiamo bene che il prezzo delle materie prime, sulle quali si basano tutte le econo �mie vacillanti dei paesi del Sud, sappiamo bene che questi prezzi si decidono in Occidente!"

"Non ho detto che sia facile. Ne sono ben lontano. Dico solo da dove credo che bisognerebbe cominciare."

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"Diversi etnologi e pensatori occidentali, in par �ticolare uno dei più prestigiosi fra loro, Claude Levi �Strauss, si sono chiesti se la nostra forma di civil�tà non possieda in se stessa un fascino fatale, irresi�stibile."

"Cioè?"

"A partire dal XVIII secolo, da quando l'Europa, caratterizzata dall'industria, si è lanciata alla conqui �sta del globo, ogni cultura che entra in contatto con la nostra sembra esserne ben presto sedotta. Deside�ra acquisire immediatamente le nostre conoscenze, la nostra competenza tecnica, il dominio che osten �tiamo su una natura sottomessa, e soprattutto gli og �getti che fabbrichiamo. Levi Strauss si domanda se questa seduzione, che tende a uniformare il mondo, non sia fatale per gli uni come per gli altri. Una civiltà mondiale gli sembrerebbe inimmaginabile e in ogni caso pericolosa. Dice anche, ed è lungi dal�l'essere il solo, che le culture non vivono che per la loro diversità, confrontandosi e scontrandosi. L'in�fluenza universale di una di queste culture a detri�mento delle altre significherebbe forse la scompar �sa, dal punto di vista antropologico, del concetto stesso di cultura."

Mi chiede di essere più preciso. Gli racconto al �cuni ricordi personali, immagini di indiani del�l'Amazzonia pressoché nudi, adorni di piume, che maneggiavano con destrezza cineprese. Ci sembra di vedere che tutti i popoli, da circa un secolo, hanno adottato la nostra "meccanica". Come dice il filosofo iraniano Daryusch Shayegan, i popoli non europei, che fino al XIX secolo utilizzavano oggetti di cui controllavano la fabbricazione (e questo vale per le armi da fuoco), hanno dovuto all'improvviso, a par�tire dalla macchina a vapore e dalla comparsa del�l'energia attiva, indipendente e controllabile, abituarsi a motori, a strumenti, a oggetti che sfuggivano alle loro conoscenze, di cui non erano più i padroni, che ricevevano da un altro paese.

"Ho l'impressione" gli dico "che questa tendenza continui, e anche che si aggravi. Tutto il sapere ap �partiene all'Occidente, che lo protegge e lo affina senza sosta."

Riflette piuttosto a lungo in silenzio. Mi sembra, a ognuno di questi silenzi, di poter sentire la profon�dità della sua riflessione, come se secoli di altri pen�sieri, prima del suo, si accumulassero in lui, aiutan �dolo a esprimersi.

Dice con semplicità:

"Non sono sicuro di essere del suo parere".

"In che senso?"

"Abbiamo evidentemente l'impressione che ogni tecnica venga dall'Occidente, e dai paesi collegati all'Occidente, come il Giappone. Ma questa civiliz�zazione meccanicistica è intimamente legata all'Occi�dente? Non credo."

Aggiunge:

"Gli indiani dell'Amazzonia vogliono una cine �presa: hanno ragione! Questa si addice loro così co�me a un francese, a un tedesco! Per il fatto di non essere stata inventata e fabbricata da loro, la cine �presa non è loro estranea! Non portano abiti: que�sto non significa che manchino loro abiti! È così, e basta".

Ritrovo l'aspetto concreto, fattivo del buddhismo di tutti i tempi. Vorrei sottolineare che alcuni india�ni imitano anche i nostri abiti. Ci chiedono una ca�micia e la indossano senza mai toglierla. Se piove, continuano a portarla bagnata, non senza rischio di raffreddore o di polmonite.

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Ma non ne ho il tempo. Il Dalai Lama prosegue:

"Certo, dobbiamo rispettare le tradizioni locali, e non imporre nulla con la forza. Ma l'indigenza che ovunque incontriamo ci sollecita certi gesti. Dob�biamo dare cibo, medicinali, anche tecnologia. Impos�sibile fare altrimenti. In se stessa, la tecnica non ha nulla di negativo. Nata in Occidente, ha ricoperto rapidamente tutta la terra. L'Est vi si adatta con faci �lità. Su alcuni punti, ad esempio in quel che concer �ne i costi di produzione, è anche più efficiente. Franca�mente, non credo che la meccanica possa identificarsi con l'Occidente. Essa è il nostro bene comune. Chi lo sa? Potrebbe anche avvicinarci e unirci".

"Sarebbe pericoloso dividere l'umanità in due unicamente da un punto di vista tecnico?"

"Evidentemente. D'altra parte ogni separazione umana è pericolosa. Il criterio tecnico non è miglio �re di un altro. Quello che un uomo inventa è positi�vo per tutti gli uomini."

"Resta" gli dico "l'atteggiamento mentale. Il sen �so di superiorità."

"Questo senso esiste, è vero. Nessuno può negar�lo. Questo atteggiamento mentale, come ha detto lei, è anche, senza dubbio, occultamente legato al giudeo cristianesimo, al pieno potere sulla natura dato all'uomo dall'uomo stesso, servendosi di Dio come tramite. In questa impresa di dominio, che funzionava a meraviglia fino ai recenti pericoli di contaminazione, la tecnica è l'arma senza pari."

"Per dominare la natura, per dominare anche gli altri uomini."

"È evidente. E la tecnica è senza pari semplice�mente perché ottiene dei risultati. Risultati imme �diati. Non è come la preghiera!"

Ride, poi aggiunge:

"Se la preghiera dà dei risultati, sono per lo più invisibili! Può ben aspettare!".

Toglie per un momento gli occhiali. Il suo viso, bello, dominato da una fronte molto alta, sembra a un tratto più asiatico, come quello che si potrebbe attribuire a un maestro zen.

Resta così per un attimo, tenendo gli occhiali in mano. Continua, smettendo di ridere all'improvviso così come ha iniziato:

"La gente è attratta dai risultati immediati. Cosa c'è di più normale? Perché privarla di questi? Anche sinceri praticanti del buddhismo hanno cineprese e orologi. Anch'io ne ho uno. Guardi".

"So anche che amava ripararli in gioventù."

Sorride a questo ricordo. Nel suo libro di memorie ha raccontato come la scoperta di un carillon rotto, regalo dello zar al suo predecessore, avesse destato in lui, dall'infanzia, una viva passione per il bricolage. Più tardi cominciò a smontare gli orologi. Alcuni capi di Stato, come Roosevelt, gliene manda �vano da riparare. Non sempre vi riusciva.

"D'altra parte," mi dice "se un individuo possie�de una base spirituale sufficiente, non si lascerà so�praffare dalla tentazione tecnologica e dalla smania del possesso. Saprà trovare il giusto equilibrio, senza troppo chiedere, e dire: ho una cinepresa, mi basta, non ne voglio altre. Il pericolo costante è di aprire la porta all'avidità, uno dei nostri nemici più accaniti. Ed è qui che si compie il vero lavoro dello spirito."

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"Questa base spirituale di cui parla non è la cosa meglio distribuita al mondo."

"Per niente. Ma noi operiamo per una migliore spartizione. Ci impegniamo tutti i giorni, anche in questo momento. Perché coloro cui manca questoequilibrio, nato da una riflessione, da un lavoro se�reno dello spirito, sono gli schiavi designati della tecnica e dell'avidità."

"Essi giungono anche a credere che il vero lavo�ro dello spirito consista nel produrre questi oggetti meccanici. Vi vedono il trionfo del pensiero, la no�stra opera più bella. Si distribuiscono fra loro diplo �mi e medaglie nei concorsi, incassano i loro profitti, sono soddisfatti."

"Lo ripeto: la tecnica non ha nulla di negativo in sé. Non è peccato, come dite voi (il concetto di peccato è estraneo al buddhismo). Non lo è nem�meno il progresso, nel senso di progresso materiale e di progresso delle conoscenze. Ma lo spirito uma�no, così come ci appare, è capace di adattarsi a que �sta tecnica, di accontentarsi, di non lasciarsi ine�briare?"

"Ogni tecnica è affascinante. Un giorno o l'altro giungerà a proclamare, per bocca di coloro che la dominano, che essa basta a se stessa, che può fare a meno del pensiero."

"Ragione di più per insistere" dice. "Un equili�brio è indispensabile. Ma questo equilibrio non bi �sogna cercarlo abbassando forzatamente il livello della realizzazione tecnica. Bisogna cercarlo elevando il livello dello spirito."

Ci avviciniamo sempre di più all'ambito nel qua�le il buddhismo, sin dall'origine, concentra l'essen �za del suo sforzo, della sua ricerca: il territorio delle operazioni dello spirito. Inevitabilmente, tutto ci con�duce qui. Ma non voglio affrettare il passo. Sento che il mio interlocutore indugia, sviluppa il suo pensie�ro. Anche se si è già espresso su questo punto, mi piace che egli si ripeta, cerchi formulazioni nuove che ci riconducono alle porte dell'utopia, di questo sogno di educazione planetaria che sembra impossibi�le e senza il quale, tuttavia, tutto sembra impossibile.Insiste sull'idea che la tecnica, opera umana ine �vitabile, non sia mai da biasimare. Essa si presta però a impieghi nefasti, e sovente. Ma in questo caso sol�tanto chi la usa è colpevole. Non si condanna il fiammifero al posto dell'incendiario.

"Una cosa mi colpisce" dice. "I paesi tecnicamente molto evoluti, come il suo, devono spesso affrontare altre mancanze, una sorta di vuoto di cui mi si parla spesso. Un vuoto dello spirito, della vita spirituale."

"Questa espressione mi sembra ambigua. Nessu�no può dire che l'Occidente non faccia lavorare i propri cervelli. Giungiamo a comprarceli, a rubar�celi, da un paese all'altro."

"Non è di questo che parlo. I cervelli occidentali lavorano, lavorano anche molto, ma sempre nel sen�so dell'efficienza. Lo spirito si mette così al servizio del risultato. Come ogni servitore, rinuncia alla pro �pria indipendenza. Parlo di un'altra forma di vita spirituale, più distaccata e più profonda, libera dal�l'ossessione del fine da raggiungere. In un certo mo �do, l'invasione universale della tecnologia, ovunque essa passi, sminuisce questa vita dello spirito."

"Bisognerebbe dunque ripristinarla?"

"Sì. Ed è urgente. Anche da un semplice punto di vista egoistico: abbiamo più bisogno di un aumento di spiritualità che di un aumento di tecnica. La bra�ma del concreto è nella natura umana. Ed è norma �le. Vogliamo vedere, toccare, ottenere. Sotto questo aspetto, il XX secolo, per ciò che ha realizzato, ha probabilmente superato i nost

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ri sogni più antichi. Gli uomini hanno creato oggetti che li hanno sor�presi. Ogni campo del desiderio è stato esplorato e sovente soddisfatto."

"Perlomeno in teoria. Bisogna ancora che questi oggetti possano essere acquistati."

"Naturalmente. E si deve aggiungere che nulla è mai stabilito per sempre, che nulla è immobile. Il bud �dhismo è prezioso per questo punto. Ci aiuta a pre�pararci al crollo degli imperi, dei preconcetti. Al ri�volgimento, anche, dei nostri desideri."

"Alla fine degli anni Sessanta abbiamo creduto che l'amore fisico si fosse, come per miracolo, sba�razzato delle antiche remore. La medicina permet�teva di lottare contro le malattie veneree e, nel con �tempo, di eliminare, per le donne, il rischio di una gravidanza. Poi è arrivato l'AIDS, uscito non si sa da dove. La morte legata al sesso è ricomparsa, più ter�rificante che mai."

"Esiste una ebbrezza di questo potere che ci dia �mo sulle cose. Questa ebbrezza ci porta a non poter più controllare i nostri desideri. Vogliamo di più , e ancora di più . Invece di smorzare il fuoco, lo ravvi �viamo. Invece di cercare il disarmo interiore, il solo che importi, noi perfezioniamo, moltiplichiamo i no�stri strumenti di conquista. Dimentichiamo addirit �tura di verificare se il compimento del nostro desi�derio è proprio quello che abbiamo auspicato."

"Si, questo concetto di verifica è importante, e generalmente poco considerato. Ci accontentiamo spesso di qualunque cosa. È sufficiente che l'immagi�ne dell'oggetto sperato corrisponda ai nostri deside �ri. Ne dimentichiamo la vera qualità."

"Dimentichiamo anche che il desiderio del pros�simo non è necessariamente il nostro."

"Sì," gli dico "il nostro mondo, in apparenza, è sempre più uniforme, e tuttavia è difficile, più diffi �cile che mai, forse, trovarvi qualcosa di universale..."

"Come il buddhismo!"

E ride.

Parliamo per un momento dell'Africa, continente che ad alcuni sembra oggi quasi perduto, alla deri�va. Oltre a una dipendenza economica cui è legatala sua sopravvivenza, l'Africa è minacciata nella sua stessa cultura. Ricordo brevemente le difficoltà che un cineasta africano, ad esempio, deve superare per fare un film. Un difficile percorso iniziatico, che giun�ge raramente a buon fine. Questo continente dove, in ogni tempo, il posto della parola e della storia, per bocca dello stregone, è stato preponderante, in �dispensabile, fa una grande fatica a raccontarsi oggi le proprie storie con i mezzi contemporanei, cioè la radio, la televisione, il libro. Gli abitanti dei paesi africani, almeno quelli che possono guardare la tele�visione, non vi vedono che serials americani, storie inventate in altri paesi e che non parlano mai loro di loro stessi. Una delle forme di esclusione moderna: l'assenza di specchio. Esclusione tanto più pericolosa in quanto l'immagine che ricevono dagli Stati Uniti è doppiamente ingannevole. Il mondo non si riduce alla California, lo sanno tutti, ma la stessa Califor�nia, regione complessa, piena di contrasti e mutevo�le (il numero degli homeless, dei senza fissa dimora, è più rilevante a Los Angeles che a Dakar), non può in alcun modo ridursi ai perpetui conflitti sentimentali che oppongono due bionde sul bordo di una pisci�na, o alle avventure sempre vittoriose di un paio di poliziotti seduttori e disinibiti.

L'Africa si trova nell'incapacità - senza dubbio accuratamente salvaguardata dall'Occidente di fab�bricare i propri oggetti di oggi, cineprese, trattori, aerei, computer. Impotenza che si può temere dura �tura. Essa almeno può dare qualcosa in cambio? Una parte della propria saggezza, della propria fantasia, e anche della propr

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ia vita spirituale, più profonda di quanto noi pensiamo? Non sono sicuro, e il mio in�terlocutore non lo è più di me, che questo scambio sia ancora possibile. Riceviamo sempre di meno dal �l'Africa. Molte voci tacciono, non potendosi espri�mere. Un intero continente sembra condannato a tacere e ad essere cancellato. Alla miseria fisica si aggiungono, altrettanto duri, l'isolamento e il bava �glio.

"Che cosa possiamo aspettarci dall'Asia?"

Vedo che la mia domanda non può avere una risposta precisa. È vaga. Potrei anche domandare: quali sono oggi i rapporti fra Asia ed Africa? Non esiste nessuno al mondo che possa rispondere a questa domanda.

Mentre il Dalai Lama mi guarda in silenzio, gli dico ancora:

"Siamo onesti: in Occidente, la religione cristia �na non è che di superficie. Una sorta di obbligo o di convenienza sociale"

"È una parte del problema" mi dice allora. "La religione non svolge più il proprio ruolo."

"Supponendo che l'abbia mai svolto. Tutta la sua storia la mostra più preoccupata dei problemi mon�dani, e anche dell'esercizio del potere, che dell'am�bito più intimamente spirituale."

"Questo ambito chiamato spirituale" mi dice "si accontenta spesso della lettura e del commento del�la Scrittura, qualsiasi sia la tradizione, come se ogni verità dello spirito, enunciata duemila anni fa, potesse accontentarsi di essere costantemente ripetuta."

"Mentre la natura stessa dello spirito, se compren�do quel che lei mi dice, sembra interrogarsi perpe�tuamente."

"In ogni caso, ha la possibilità di farlo."

So bene che questa forza delle scritture antiche è ancora chiaramente presente nel buddhismo, ma l'uomo che mi ascolta mi ha già detto, a due riprese, che se una scoperta contemporanea contraddice le Scritture, bisogna subito modificarle.

"Vorrei spesso ricevere" gli dico "quel che non posso trovare da noi, nelle nostre religioni, tradizio �ni e testi. Se leggo san Tommaso o sant'Agostino, non mi parlano mai di me. Il presupposto divinocondiziona e schiaccia ogni pagina. Ora, mi è im�possibile aderire al nostro credo."

" Credo?"

Non sembra conoscere questa parola. Lhakdor, il suo assistente, gli dà una spiegazione, con il mio aiuto.

Continuo:

"Non posso credere, nemmeno in forma allego�rica, che Dio abbia creato il cielo e la terra, poi la luce, poi il giorno e la notte, gli astri eccetera...".

Sorride ascoltandomi.

"Mi chiedo: che cosa sarebbe dunque il cielo senza gli astri? Cosa sarebbe la luce senza il giorno? Cono �sco i milioni di interrogativi che questi testi mitici, considerati a lungo e da alcuni ancora oggi come testi storici, hanno suscitato. Ma questo non mi inte �ressa. Non vedo in questo laborioso decifrare nulla che mi sembri degno di quella che lei chiama la vita dello spirito. D'altra parte, l

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e pongo la domanda: non è un grave errore, un "errore di fondo", con�fondere vita spirituale e vita religiosa?"

"Sono separate. Non c'è alcun dubbio. Ho avuto sovente l'occasione di dirlo. Le nostre Scritture af �fermano che la luna si trova cento miglia sopra la terra, e che il centro della terra è il monte Meru. Se questo monte esistesse, avremmo dovuto trovarlo da tempo, o tutt'al più scoprire indizi della sua esisten�za. Poiché non è così, dobbiamo allontanarci dal senso letterale delle Scritture."

"E se alcuni rifiutano?"

"È affare loro. Inutile perdere tempo a discutere con loro."

Un anno fa, alla televisione francese, ho visto un servizio piuttosto inquietante su una scuola rabbini�ca, nel centro di Parigi. I professori insegnano agli allievi, conformemente alle Scritture ebraiche, che la terra è stata creata da Dio poco più di seimila anni fa, e che tutti i reperti paleontologici, che gli specia�listi ricercano e studiano, sono stati posti dal Diavo �lo al solo fine di traviarci. Strano insegnamento per il XXI secolo. Che cosa ne penserebbe Margaret Mead? Poveri giovani, che dovranno passare una parte della vita a disimparare quel che avevano creduto di sapere.

Contrariamente alla quasi totalità delle religioni, soprattutto delle religioni monoteistiche, costruite su una fede che non sollecita il ragionamento, so�vente chiamata "cieca", il buddhismo si concentra sui fenomeni che possiamo vedere, toccare e com�prendere. Il termine sanscrito sraddha, che traducia�mo generalmente con fede, significa in primo luogo "fiducia nata dalla convinzione".

"La fede, o il credo" mi dice il Dalai Lama "nel senso che lei dà a queste parole, hanno nel buddhi �smo un posto limitato. Il fondatore stesso ci ha ri�mandato senza ambiguità alla nostra verifica perso�nale, e il suo insegnamento ci invita sempre a "veni�re a vedere". Lungi dal bendarci gli occhi ordinan�doci di credere, si sforza al contrario di eliminare in noi ogni punto oscuro, di aguzzare, di allungare il nostro sguardo. La fede non comincia che nel mo �mento in cui la vista si arresta."

Rispondendo un giorno a un giovane discepolo che lo interrogava sulle basi antiche della verità, tra�smessa dai bramini di generazione in generazione, Sakyamuni lo portò ad ammettere che nessuno di questi bramini aveva, personalmente, visto e toccato la verità. Tutti si accontentavano di ripeterla come una lezione ben appresa. E il Buddha paragonavaqueste generazioni di bramini a una lunga fila di uomini ciechi: ognuno si appoggia a colui che pre�cede, e nessuno vede.

Naturalmente, è necessaria qualche sfumatura a questo quadro. Si è costituita e perpetuata una tale "fiducia", nei confronti delle parole del Risvegliato, che possiamo ben dire che la verità di questa parola sia l'autentico oggetto di una fede, almeno nella devo �zione popolare. D'altra parte il buddhismo ha analiz�zato e chiarito il concetto di fede, come fa per tutti i concetti. Ma al più alto livello, laddove la speculazio �ne, il dubbio metodico e le contese oratorie più ac�canite sono usuali, il principio di autorità a poco a poco scompare. Nel corso delle nostre conversazio�ni, mai il Dalai Lama mi ha presentato una sola af�fermazione che potremmo definire dogmatica. Mai mi ha detto: è così perché è così, o perché l'ha detto il Buddha, o perché si trova in questo o quel testo.

Mai, salvo forse su un punto, che riguarda la reincarnazione.

Ci arriveremo.

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4È DALL'INTERNO CHE TI ASSOMIGLIO

Nel numero 3 della rivista "La Révolution surréa�liste", dell'aprile 1925, si trova questo articolo, re �datto da più autori, dal titolo Petizione al Dalai Lama:

Siamo fedelissimi servitori, o Grande Lama, do�naci, volgi verso di noi i tuoi lumi, in un lin�guaggio che i nostri contaminati spiriti europei possano comprendere e, se occorre, cambia il nostro Spirito, donaci uno Spirito pienamente volto verso queste cime perfette dove lo Spirito dell'Uomo non soffre più .

Donaci uno Spirito privo di abitudini, uno Spi�rito tutto congelato nello Spirito, o uno Spirito con le abitudini più pure, le tue, se esse vanno bene per la libertà.

Siamo circondati da papi rugosi, da letterati, da critici, da cani, il nostro Spirito è in mezzo a cani, il cui pensiero è direttamente legato alla terra, il cui pensiero è incorreggibilmente im�merso nel presente.

Insegnaci, o Lama, la levitazione materiale dei corpi e come non essere più vincolati alla terra. Perché tu sai bene a quale liberazione traspa�rente delle anime, a quale libertà dello Spirito nello Spirito, o Papa gradito, o Papa in spirito di verità, noi alludiamo.

È con l'occhio interiore che ti guardo, o Papa,nel punto più elevato della mia interiorità. È dall'interno che ti assomiglio, io, impulso, idea, labbro, levitazione, sogno, grido, rinuncia all'i�dea, sospeso fra tutte le forme e non sperando altro che il vento.

Questo testo giovanile (Breton, Aragon, Artaud, Eluard, Desnos, i redattori, e gli altri componenti del gruppo avevano allora dai venticinque ai trent'an �ni) mostra chiaramente, ancor oggi, quel che può affascinare nel buddhismo: non un cambiamento del credo, né l'abbandono di un rituale per un al�tro, ma una vera metamorfosi dello spirito, che fu il grido del cuore surrealista. "È dall'interno che ti as�somiglio" è, in questo senso, la frase più chiara.

Se non riusciamo a immaginarci i componenti del gruppo surrealista intenti a far girare mulini da preghiera, possiamo in compenso immaginarli alla ricerca di "abitudini più pure" e di una qualità sem �pre più alta dello spirito che li conduce "nel punto più elevato dell'interiorità". È proprio in questo campo che il buddhismo non cessa di lanciare ilproprio richiamo.

Mi ritrovo accanto a questo "Papa gradito" e insieme riprendiamo il cammino.

Questo cammino passa e ripassa attraverso i temi dell'ignoranza e dell'educazione. Lontano da ogni illuminazione magica, il Dalai Lama insiste sulla pazienza, sulla difficoltà e sul lungo lavoro quo�tidiano.

Parliamo ancora del grande disordine di idee che sembra colpire l'Occidente, che egli vede privato di una dimensione, abbandonato alla supremazia in�contrastata della materia. I nostri papi sono effetti�vamente rugosi. Mancano di sorriso e di cordialità.

Respingono i cambiamenti. I sogni e le grida, evidentemente, li infastidiscono.

Dico al Dalai Lama che non solo la nostra religio �ne ci sembra monotona e sterile, ma che, d'altro canto, nelle tradizioni più recenti, come quelle re�pubblicane, un certo numero di insegnamenti civici sono scomparsi dalle nostre scuole. Tutto c

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iò che pote�va fornire un supporto alle nostre esistenze, lo elimi �niamo a poco a poco, a vantaggio del sapere concre�to e utilitaristico. Forse si pensa che la repubblica e la democrazia siano tanto solidamente impresse in ciascuno di noi da non avere bisogno di questo sup �porto scolastico. Ma dubito di questa solidità. Vedo, al contrario, la democrazia sottoposta a una costan�te minaccia. Credo che la sua forza sia reale e che l'esperienza provi questa forza. Ma non tutti sono del mio parere. Anch'io ho la tendenza a pensare talvolta che il nostro sistema politico abbia bisogno di miti, di simboli, forse persino di un catechismo. Dopo mi dico che, come in altri campi, questi ele�menti sono inevitabilmente minacciati, a breve sca �denza, da una forma di caducità implacabile. Ed è per questo che, come la maggioranza dei miei con �temporanei, mi rassegno a vederli scomparire.

Il Dalai Lama torna alla mia domanda su vita spi�rituale e vita religiosa:

"Il problema che ha sollevato è di grande importanza. Bisogna riprenderlo. Molti ritengono che que�ste due attività ne costituiscano una sola. I capi religio�si, qua e là, proclamano a gran voce che occupano questo campo spirituale, che è loro prerogativa. E per questo, a sentire loro, se qualcuno rifiuta la reli�gione, rifiuta nel medesimo tempo ogni esperienza spirituale".

"Cosa del tutto impropria. Perché la vita spiritua�le dovrebbe essere necessariamente legata a qual�che credenza sovrannaturale? Potremmo addirittu �ra affermare il contrario: che la fede sia l'abbando�no dello spirito."

"In effetti, si potrebbe affermarlo. Ma non cerco di distogliere nessuno dalla propria fede, se la prati�ca con tolleranza. Guardi tuttavia dove può condur�re la confusione fra religioso e spirituale: immagi �niamo un uomo che parli del concetto di benevo�lenza o di perdono, o ancora di compassione, un atteggiamento che, lo sa, è uno dei fondamenti del buddhismo. Un altro uomo, che non abbia alcun interesse religioso, ascolta il primo e dice, alzando le spalle: tutto ciò riguarda la religione, non mi inte�ressa."

"Ha torto, evidentemente."

"Ha assolutamente torto! È caduto in una trap �pola grossolana di vocabolario. Le parole "compas�sione", o "carità", l'hanno accecato. Ma si tratta di qualità umane, puramente umane. Non abbiamo a �vuto bisogno di una rivelazione divina per acquisirle o scoprirle. Beninteso, in teoria, tutte le religioni raccomandano la compassione, e anche la tolleran�za, la generosità, il gusto della conoscenza, tutte le buone qualità umane."

"Ma le religioni non possono impadronirsene."

"In nessun caso. È un atteggiamento ingiustificato. Guardi gli animali: si può dire che manifestino fra loro un certo aiuto reciproco, una certa tolleranza, ed anche che mostrino compassione. Ma è chiaro che, in questo campo, i sentimenti umani sembrano più profondi e più tenaci. Gli uomini possono an�che, quando raggiungono un punto di più alta virtù, mostrare disinteresse, cosa che fra gli animali mi sembra molto più rara, se non totalmente assente. Su questa base specificamente umana, abbiamo a poco a poco costruito alcuni concetti, che variano da una cultura all'altra, come il Dio creatore, il para�diso, l'inferno..."

"La vita eterna..."

"... il nirvana, la moksa, cioè la liberazione dai nostri impedimenti, ed altro ancora. Questi concetti possono essere proclamati universali, validi per tutti gli esseri umani, senza distinzione di razza, di tradi�zione, di carattere."

"Proclamati, e sovente imposti con la forza."

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"Sì, purtroppo. Ma si può dire anche, ed è il caso del buddhismo, che sono tenuti a rispettare rigoro�samente questi precetti solo i veri praticanti. Si può proporli agli altri, ma non imporli. Anche se noi li riteniamo universali, rispettiamo negli altri tutte le caratteristiche che impediscono loro di accettarli. Ciascuno deve essere libero di accettare o di rifiuta �re una certa credenza o un certo concetto."

"L'uomo resta padrone del proprio assenso?"

"Ovviamente."

"L'Occidente si è interrogato a lungo su questa pretesa libertà. Non siamo condizionati dall'ambiente in cui siamo nati, dalle opinioni che ci circondano, dalla nostra infanzia, da tutti gli elementi più o me �no chiari che Ci compongono?"

"Certo. Per questo il compito è difficile. Ma pos�so dire che a un certo livello di riflessione, l'uomo ha sempre la possibilità di scelta. Può acquistare que�sta libertà, staccarsi da tutto quello che lo blocca. E deve farlo. Ho detto un giorno che, a quel che mi sembra, Dio si è addormentato da qualche parte. Scherzavo, come può immaginare, perché noi non crediamo in un dio creatore. Ma è vero che, se Dio si è addormentato, noi dobbiamo svegliarci."

"Non si possono riversare tutte le nostre sventu�re su Dio."

"Né sul destino, né sul karma, la nostra legge diconcatenazione delle cause, dei fatti e degli effetti. Tutto questo denota un atteggiamento piuttosto vi�le. Se è vero come credo che la diversità degli atteggiamenti religiosi è un fedele riflesso della di�versità umana, non è in un credo che dobbiamo ri�cercare la nostra unità."

"È nell'azione?"

"Nell'azione responsabile e ponderata. Su un argo �mento come quello dell'ambiente, di cui abbiamo parlato a lungo, mi sembra, per semplice buon sen�so, che tutti dovremmo essere d'accordo, come a dei bambini preme la vita della mamma."

"Si può anche vivere senza religione?"

"Ma naturalmente. Faccia il conto: siamo più di cinque miliardi sul pianeta. Tre miliardi non hanno alcuna forma di religione. Sui due miliardi che si dicono religiosi, un miliardo solo di fedeli, che si proclamano di questa o quella religione, mi sembra sincero. Un miliardo su cinque, il che significa una minoranza. È evidentemente per gli altri quattro mi�liardi che dobbiamo oggi lavorare!"

"Lavorare come?"

"Tutto parte da noi. Da ciascuno di noi. Le quali �tà indispensabili sono la pace dello spirito e la com�passione. Senza di queste, è inutile anche tentare. Queste qualità sono indispensabili, sono anche ine �vitabili. L'ho detto: le incontriamo sicuramente in noi, se ci prendiamo la pena di cercarle. Possiamo respingere ogni forma di religione, ma non possia�mo rigettare fuori di noi la compassione e la pace dello spirito."

"Tuttavia, alcuni individui sembrano riuscirci fa �cilmente."

"Naturalmente, e per più ragioni, di cui una è l'ignoranza. Non parlo mai della totalità degli esseri umani, so bene che presentano differenze che giun�gono talvolta fino a squilibri estremi. Parlo di uomi�ni e donne di buona volontà che desiderano fare qualcosa della propria vita."

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"Aggrapparsi a un dio inconoscibile, irraggiun�gibile, non significa scaricarsi di questa responsabili�tà di cui lei parla?"

"In alcuni casi, forse. Ma non necessariamente. L'idea di Dio può anche condurre a meravigliosi atti di compassione."

"E a divieti, emarginazioni, assassinii."

"Rischi di ogni fede."

"Quest'obbligo interiore di far partecipare gli al�tri, forzatamente, a ciò che si considera verità uni�versale, e che non è mai che relativa..."

"Come ogni verità!"

Nel suo modo tollerante, e tuttavia convinto, ri �torna ogni volta, con una digressione impercettibi �le, a una constatazione buddhista, come se nel labi�rinto in cui procediamo parlando, delle lampade fis �se fossero state poste a intervalli. Ora passiamo da�vanti alla lampada della relatività. Questa ci rischia�ra per un momento.

Si può ricordare brevemente che l'affermazione di una certa relatività del mondo contribuisca alla scomparsa di Dio. In un contesto religioso, l'esisten�za garantita dell'universo, indifferente al nostro sguar�do, dominatore e impenetrabile, ci porta a doman �darci perché e da chi questa massa sia stata creata. Dio è evidentemente la prima risposta.

Gli ripeto la mia ammirazione per la frase di Sa�kyamuni: "Non aspettatevi nulla se non da voi stes �si". Vi ritrovo un modo di sentire che mi aveva colpi�to, una quindicina di anni fa, lavorando a un'opera dal titolo La Conference des oiseaux, ispirata a un poe�ma persiano di Farid od din Attar e messa in scena da Peter Brook. Stanchi della propria esistenza me�diocre e inutile, gli uccelli si lanciano alla ricerca del loro re mitico, di nome Simorgh. La maggior parte di loro, spossata, delusa, o sedotta dalle sorprese del viaggio e dagli idoli che incontra, si ferma per stra �da. Un piccolo gruppo di uccelli ostinati, guidati dal�l'upupa, attraversano il deserto e le sette valli del �l'incanto e del terrore. Esausti, con le ali bruciate, giungono infine alla presenza dell'uccello re. Cento tende si scostano, una viva luce brilla, ma essi non vedono che uno specchio. Una voce dice loro che questo specchio è la sola verità. Questo Simorgh che hanno cercato, è loro stessi. Non bisogna attendere altro. La voce aggiunge una frase magnifica, l'eco della quale risuonerà a lungo nella poesia persiana: "Avete compiuto un lungo viaggio per giungere al viandante".

Penso talvolta che il principe Siddharta, nel cor�so dei sei anni di ricerca febbrile e di privazioni e�streme, abbia fatto lo stesso viaggio e ricevuto la stes�sa rivelazione, da parte di una voce proveniente dal suo intimo. Rivelazione molto pesante da accettare, rivolta solo a un limitato numero di individui, diffi�cile a comprendersi, ad ammettersi (il Buddha non ha cessato di ripeterlo), ma impossibile da rinnega�re o snaturare, a meno di non tradire se stessi.

"C'è forse un dio," mi dice sorridendo "ma non bisogna aspettarsi nulla da lui."

"In altre parole, che Dio esista o non esista, non esiste comunque?"

"Sì," e il suo sorriso si trasforma in un largo riso "ma è forse lui ad averci riunito qui!"

"Sì, chi lo può sapere?"

"Ah, l'ha detto lei!"

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Mi prende le mani e ride ancora più forte, come per dirmi: gliel'ho fatta!

È consuetudine scrivere che il buddhismo è nato e si è sviluppato in India, due secoli dopo la morte delBuddha, e soprattutto durante il regno dell'impera�tore Asoka (273 232 a.C.), in reazione al brahmane�simo, la religione tradizionale. Ma noi sappiamo poco sul brahmanesimo nel V secolo prima della nostra era. La storia parallela di queste due tradizio �ni, che terminò più tardi, a partire dal VII secolo della nostra era, con l'indebolimento progressivo e la quasi scomparsa del buddhismo in India, e la sua espansione in tutta l'Asia, questa storia è fatta di con�trapposizioni ma anche di influenze, di scambi reci�proci.

Senza addentrarsi in un'analisi comparata, che richiederebbe diversi e ponderosi volumi, è bene sottolineare qualche differenza. Il brahmanesimo, chiamato anche induismo, ammette una moltitudi�ne di dèi e di racconti mitologici. A seconda delle tradizioni, la creazione del mondo vi è narrata in più versioni. Senza possedere l'onnipotenza del dio delle religioni monoteistiche, gli dèi indiani sotto �messi ai grandi cicli del tempo, agli yuga possono intervenire nelle faccende umane, e sono talvolta considerati mortali. Oggi, le trentaseimila divinità del pantheon indiano, senza contare il mondo dei culti popolari, sono sovente utilizzate come una sor�ta di immenso vocabolario, che ci aiuta a parlare del mistero del mondo.

La vita umana deve fare i conti con quattro concetti o attività fondamentali, chiamate in sanscrito Dharma, Artha, Kama, Moksa

Il Dharma è la grande legge dell'universo, l'or�dine al quale dobbiamo piegarci. La peculiarità del�la tradizione induista è quella di affermare che que �sta legge universale si trova anche in ciascuno di noi,che tutti noi possediamo un dharma individuale, che dobbiamo seguire con perspicacia e rigore. In al �tre parole, è necessario sapere chi siamo (l'idea di una permanenza dell'io è qui presente) e restare fedeli a quel che siamo. Se i nostri dharma particola�ri vengono rispettati, il Dharma universale sarà pre�servato. L'induismo introduce così una sorta di soli�darietà fra l'essere umano e il cosmo. Interrogato sui motivi che l'hanno spinto a comporre il Maha�bharata, il grande poema del mondo, Vyasa, l'autore leggendario, risponde: "Per incidere il Dharma nel cuore degli uomini".

Il buddhismo ha conservato questo concetto ca �ratteristico dell'India. Il Dharma buddhista costitui�sce l'insieme dei fenomeni, sottoposti alla legge. Ma il termine ha assunto, più precisamente, il significa�to di "dottrina, insegnamento del Buddha, doveri prescritti". Anche se l'aspetto cosmologico si è un po' attenuato, a favore di una osservanza umana, il Dharma resta la guida di ogni vita, la conoscenza in�dispensabile.

Il secondo concetto è quello dell'Artha, termine che significa generalmente i beni, le cose buone del�la terra. Contrariamente alle dottrine che insistono sulla rinuncia, l'induismo ha piuttosto tendenza ad affermare che i beni di questo mondo ci sono stati dati per essere goduti, che la rinuncia non significa nulla se non sappiamo a cosa rinunciamo. Così, l'in�duismo consiglia di non lasciare la società per diven�tare un sadhu, un asceta errante che pratica la rinun �cia, prima di aver conosciuto i figli dei propri figli. Nel buddhismo, succede che dei bambini vengano desi�gnati fin dalla più tenera età e votati alla vita monastica (che possono, comunque, abbandonare senza difficoltà).

Il terzo concetto fondamentale è quello di Kama, l'amore, motore dei mondi, e più in particolare l'amore sessuale. Il dio Kama è una sorta di Cupido,sovente rappresentato con un arco, ali e nell'atto di lanciare frecce fiorite. È l'azione di Kama che deter �mina il più delle volte il ciclo delle nostre rinascite, il samsara. È colui "che avvelena", "che agita lo spiri�to", "il conquistatore invincibile". Nell'induismo, que�sta forza può estendersi al movimento dell'universo. Il

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buddhismo resta, in generale, più cauto salvo nella tradizione tantrica.

Il quarto concetto, infine, è quello di moksa, la liberazione, lo scioglimento finale del ciclo delle ri�nascite, situato nel più alto grado della coscienza. Nell'induismo, questa liberazione conduce alla fu�sione col Brahman, l'essere universale. Nel buddhi �smo, dove viene usato il medesimo termine, essa pre�figura il nirvana. Al più alto livello concepibile della coscienza, là dove lo spirito diventa sottile, essa può raggiungere il risveglio, lo stato di buddha, che si può tradurre, anche se in modo un po' infelice, con "buddhità".

Fra gli esseri perfetti, che aspirano vivamente a questo risveglio e che hanno ogni possibilità di giun�gervi, la tradizione buddhista detta del Grande Vei �colo (Mahayana) quella che ci interessa qui, giac �ché il buddhismo tibetano vi si richiama - pone i bo�dhisattva. Questi esseri, specie di intermediari fra noi e la buddhità, e che potrebbero ambire alla bea�titudine eterna del nirvana, preferiscono rinunciar �vi per poter venire ancora in nostro aiuto. Fino a quando durerà la sofferenza umana, potremo conta �re su di loro. Essi operano anche per pura com�passione nei nostri confronti.

"Bodhisattva, lo conosce?" mi domanda.

"Non personalmente."

Ride sonoramente, poi verifica in breve le mie conoscenze (non si tratta di un esame, vuole sempli �cemente sapere a quale livello debba parlare quan�do dovrà trattare del buddhismo).Prima della sua incarnazione nella persona del principe Siddharta, il Buddha, nel corso delle sue precedenti esistenze, fu il Bodhisattva per eccellenza. Altri, in gran numero, gli sono succeduti. Il più ve�nerato fra loro, l'essenza stessa della compassione (al punto che gli altri bodhisattva vengono talvolta considerati come suoi discendenti, sue manifestazio �ni) si chiama Avalokitesvara. È "colui che dà da bere agli assetati", il "signore splendente che guarda in basso", "la voce e la luce del mondo", "colui che porta il loto", il più popolare degli intercessori. Le sue raffigurazioni sono molteplici. Può assumere u�na grande varietà di aspetti. In questo momento, a Dharamsala, nessuno dubita che abbia assunto le sem �bianze di quest'uomo che sta al mio fianco, che mi parla, mi guarda e mi stringe talvolta le mani.

Fra le diverse immagini che si possono vedere nella stanza ove avvengono le nostre conversazioni, alcune sono antiche, salvate dal Tibet al momento dell'esilio nel 1959, altre sono state fatte qui. Presenze dorate, rassicuranti, circondate da piccoli mazzi di fiori artifi�ciali. Fra queste, assai stranamente, non figura alcuna immagine di Avalokitesvara. È vero che è qui, vivente.

"Se mettiamo da parte" mi dice "l'idea inverifi�cabile di un dio creatore e sommo giudice, giungia �mo alla nozione di ciò che si potrebbe chiamare "u�na religione umana" (talvolta dice anche "umani �sta"), cioè nata dalla riflessione umana per rispon�dere a un bisogno umano. In questo senso, il con�cetto di bodhisatthva è forse più scientifico di tutte le costruzioni teologiche."

La scienza, nel senso più contemporaneo del ter�mine (che indica spesso più una ricerca che un sape�re), s'insinua sempre più nel nostro dialogo. Nulla di più normale, giacché il buddhismo parla costantemente di esperienza, di verifica. Per quanto riguarda i bodhi �satthva, questa esperienza resta estranea alle tradizioninon buddhiste, e in particolare per gli occidentali. Qui, è il frutto di accuratissimi studi. Considerata come dato di un fatto, è inscindibile dalla vita quotidiana.

Mi dice ancora:

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"La nozione vissuta del bodhisattva è senza dub�bio uno degli elementi che, oggi, attrae sempre più spiriti curiosi verso il buddhismo. Credo sinceramente che il buddhismo sia più profondo, più sofisticato rispetto ad altre religioni o scuole di pensiero".

Aggiunge subito, diffidando sempre di ogni tipo di propaganda:

"Ciò non significa che il buddhismo sia superio�re, e neanche migliore. Né, soprattutto, che sia vali�do per tutti. Per alcuni credenti, il dio creatore è un concetto più potente, forse anche più accessibile, più adatto a certi popoli, a certe culture".

"Perché?"

"Per la forza stessa dell'abitudine, della tradizio�ne. È assurdo pensare che d'un sol colpo tutta una tradizione crolli, che tutti gli uomini, come per mi�racolo, nutrano le stesse speranze, si appoggino alla stessa fede, allo stesso pensiero. Quando incontria�mo un credo molto diverso, e persino opposto, ma profondamente e autenticamente consolidato, dob �biamo rispettarlo."

Mostra il vassoio posato sul tavolo e dice:

"È come per il cibo. Non si può dire che questo o quel cibo sia adatto a tutti. Dipende dal clima, dalle abitudini alimentari, dall'altitudine, anche dalla no�stra età, forse".

"Dalle nostre malattie."

"Sì, da una grande varietà di circostanze."

Parlando dell'alimentazione vegetariana, che con�tinua a essere ideale per i buddhisti, racconta che in India, all'inizio dell'esilio, ha cercato anche lui di diventare vegetariano, il che lo fece ammalare. Dovette adattarvisi molto gradualmente."Lo stesso per il concetto di bodhisattva. Credo sinceramente che sia più razionale, più adatto al mon�do d'oggi che molte altre concezioni religiose. Nu�merosi sono i visitatori che me ne parlano, che si sentono molto vicini a questa forza della compassio�ne, che noi troviamo al livello più costante della no�stra incostante natura, e che il bodhisattva, in un qual�che modo, impersona. Fra questi visitatori, incontro abbastanza sovente scienziati. Ma questo interesse non ci dà alcun diritto di giudicare gli altri in base al nostro particolarismo. Non deteniamo la verità uni�versale, non abbiamo da offrire che i frutti di una lunghissima riflessione: la nostra."

"Anche il concetto di bodhisattva sarebbe dunque relativo?"

"Certamente. Non abbiamo alcun diritto di ap�plicarlo in generale, di farne un dogma universale. Quando fornisco un insegnamento, prendo sempre molte precauzioni, dico: "Siate molto attenti, non prendete alla leggera una decisione cruciale. È una frattura molto seria cambiare religione, modo di vivere, di pensare. Riflettete molto bene"."

Questo atteggiamento abbastanza ecceziona�le si rifà ancora una volta a un episodio tratto dalla vita di Sakyamuni. Al tempo della sua predicazione, nel nord dell'India, insegnava anche il fondatore del giainismo, Mahavira, persona degna di rispetto, senz'altro più vecchia di Siddharta.

Accadde che Mahavira, avendo sentito parlare de�gli insegnamenti del nuovo venuto, diversi dai suoi, inviò uno dei suoi discepoli, un ricco laico di nome Upali, ad incontrare Sakyamuni e sfidarlo a un pub �blico dibattito sul concetto di Karma.

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Nel corso di questa controversia, Upali fu con�vinto rapidamente dagli argomenti di Sakyamuni. Nello stesso tempo, gli parve che l'insegnamento ri�cevuto da anni per bocca di Mahavira fosse erroneo.

Così chiese al Buddha di accoglierlo come discepo �lo laico.Sakyamuni gli rispose che questa decisione eratroppo affrettata. Gli consigliò di riflettere a fondo.Quando Upali tornò alla carica, il Buddha rifiutò ditenerlo con sé e lo rinviò al suo vecchio maestro,chiedendogli di rispettarlo, di sostenerlo.Il buddhismo non cessa di ripetere che la veritànon ha etichette. L'esempio viene da lontano, dalRisvegliato stesso, che rifiutava ogni forma affrettatadi adesione, ed anche dall'imperatore Asoka, primosovrano dell'India a convertirsi al buddhismo, senzaper questo smettere di manifestare la propria tolle�ranza nei confronti delle altre fedi.

Quando, dopo Costantino, gli imperatori roma �ni si convertirono al cristianesimo, il loro atteggia�mento nei confronti dei pagani e degli ebrei fu com�pletamente diverso. Presero a loro volta la via della persecuzione.

Le asserzioni buddhiste di oggi non stanno a si�gnificare che la storia del buddhismo fu esente da ogni forma di violenza. La Cina, in particolare, co �nobbe nel Medioevo duri scontri. Malgrado la rico�nosciuta tolleranza dei sovrani Tang, alcuni fra loro, come l'imperatrice Wu (681-705), non esitarono a utilizzare il buddhismo per brutali scopi politici.

L'umanità è fatta così, direbbe il Dalai Lama. Di qui, malgrado la tolleranza ufficiale, una severa vigi�lanza, e principalmente nei confronti di noi stessi.

Da dove viene l'intolleranza? Dall'interno o dal di fuori?Da un attaccamento ferocemente sincero a una convinzione, o da un gusto della pompa, del potere, dell'adulazione che si leva da grandi folle prosternate?Come sbarazzarci da queste tentazioni, come riprendendo le parole surrealiste crearci "uno Spi�rito privo di abitudini", come "non essere più vinco�lati alla terra"?

5VERSO UNA SCIENZA DELLO SPIRITO

Destreggiarsi fra i concetti buddhisti e induisti non è cosa agevole, non soltanto a causa dei termini, dif �ficili da tradurre, ma della nostra volontà di conferi�re loro un significato preciso in altre lingue, di tro �vare parallelismi negli altri sistemi di pensiero. Così il termine dharma, il termine bodhisattva, non sono traducibili nelle lingue occidentali. Le radici di que�ste parole non destano in noi alcuna eco. Il signifi�cato che diamo loro è secco, scarno e senza colore. Se li conserviamo nella lingua originale, in sanscrito o in pali, ci è necessaria molta pazienza prima di comprenderli e farli nostri. Anche un concetto apparentemente universale come quello della compas �sione assume nel buddhismo una valenza particolare. Lungi dall'apparire come un sentimento naturale, fat�to di dolcezza e d'amabilità, sentimentale, abbastanza banale in fondo e talvolta un po' kitsch (per molti lettori frettolosi, il buddhismo può riassumersi in una frase: "è meglio essere gentili che cattivi"), la compassione è oggetto di studi precisi. Per ripren�dere un'espressione di Sogyal Rinpoché, esiste "una logica della compassione", le cui tappe, operazioni e risultati (sugli altri ma anche su noi stessi), possono essere studiati in modo quasi scientifico.

Quando abbiamo cominciato a parlare del con�cetto di bodhisattva, il mio interlocu

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tore si è reso conto della crescente inadeguatezza del vocabola�rio. Ho cercato di rassicurarlo, spingendolo a non indietreggiare di fronte a ciò che può sembrare complicato, persino inaccessibile in un semplice li �bro. Ricordiamo i problemi molto simili che incon�trano gli scienziati, quando vogliono rivolgersi al grande pubblico. Gli parlo di un libro che ho scritto insieme a due astrofisici, Jean Adouze e Michel Cassé, in cui si presentavano le stesse difficoltà. Come, ad esempio, rappresentare un atomo? E le particelle in questo atomo?

Descrivo un'immagine suggeritami da questi due studiosi. Prendiamo un'arancia, ingrandiamo que�sta arancia fino a giungere alle dimensioni della ter�ra. Dopo, riempiamo questa gigantesca arancia di ciliegie: abbiamo circa il numero di atomi di cui è costituita un'arancia. Si tratta di una cifra considere �vole, intorno a 10 elevato 20.

Ora, se vogliamo giungere al livello dimensiona�le delle particelle, prendiamo una di queste ciliegie. Immaginiamo di darle le dimensioni della cupola della basilica di San Pietro, a Roma Poniamo in que �sta cupola un granello di riso. Abbiamo così la di �mensione relativa del nucleo stabile dell'atomo, composto da protoni e da neutroni, intorno al qua�le (nel vuoto della cupola) ruotano gli elettroni. E in questo granello di riso risiede una delle forze es �senziali dell'universo, la forza nucleare.

"Non è che un trucco per cercare di abituare lo spirito a immaginare l'inimmaginabile, in questo ca�so l'infinitamente piccolo. E poi, questo ci mostra che la scienza più avanzata, così come il buddhismo, in ultima analisi trova il vuoto."

Mi segue attentamente, e ride.

"Un'altra cosa lo prova" gli dico. "L'astrofisica ci insegna che noi siamo attraversati a ogni istante da una corrente continua, fatta di miliardi di particelle infinitamente piccole, chiamate neutrini."

"Da dove vengono?"

"Dal sole e da altre stelle. Passano attraverso la nostra materia con la più totale indifferenza, come se non esistessimo. Attraversano anche le rocce più dure, la terra intera e altri corpi celesti, senza essere arrestate né frenate."

Molto interessato, chiede al suo assistente di an�notare l'esatta grafia della parola "neutrino" (che deriva da "neutro"). Gli dico che Michel Cassé a vol�te li chiama "angeli".

Fantastichiamo un istante su questo punto d'in�contro, su questo vuoto enigmatico che siamo ai no�stri stessi occhi, anche sulla caducità che sembra tra �volgere ogni cosa, anche quest'onda di particelle in�vincibili che viaggiano senza fatica nell'universo. Penso ad alcune frasi di uno dei più bei testi del buddhismo giapponese, il Kègonkyo, sutra della dottri�na Kegon: "Illuminato dalla sua stessa luce, il Bud �dha rischiara tutti gli universi. Il suo sguardo puro conosce tutto, e penetra ovunque. Si rivela nell'infi �nito, e l'infinito è lui...".

Poco più avanti, nello stesso testo, è detto che egli "risiede al centro dell'atomo più minuscolo". Qui, un'antica e duratura intuizione ci parla da vici�no. Dapprima, contrariamente alle concezioni limi �tate dell'Occidente, e in particolare di Aristotele, che ha condizionato la nostra visione del cosmo almeno fino a Galileo, l'Oriente ha sempre concepito l'uni�verso come illimitato, esteso ovunque. I mondi che esso contiene sono innumerevoli. Il buddhismo lo descrive come una lunga serie di anelli giganteschi infilati su un asse invisibile, il famoso monte Meru.

L'induismo chiama quest'asse il Dharma, e lo imma �gina sostenuto da Vishnu. Anche qui l'universo, lun�gi dall'essere limitato alla volta celeste, è di dimen �sioni grand

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iose, che i poeti si affaticano a descrive�re. Indra, il re degli dèi, abita in una splendida capi�tale, Amaravati, sempre in movimento nello spazio.

In secondo luogo, dicono i più antichi testi bud �dhisti, la materia del mondo è costituita da particel�le molto leggere, dagli anu, termine che si traduce generalmente con "atomo". Queste particelle han�no una massa e sono indivisibili. Alcune scuole giun �gono a dire che questi atomi non si toccano e sono tenuti in relazione, formando degli insiemi, solo dalla forza dell'elemento ventoso. Il vento assicura così la coesione degli aggregati di particelle, nozione gene�ralmente tradotta con "molecola". Queste molecole, in perpetua instabilità (come tutti i corpi composti) contengono tutte le sostanze elementari, e tutte le qualità che ne derivano (il gusto, l'odore, la sem�bianza, la consistenza tangibile, il suono). Inoltre, all'interno di queste molecole, e gruppi di moleco �le, tutti gli elementi coesistono: nell'acqua c'è fuoco e terra, altrimenti quest'acqua non potrebbe né scal �darsi né gelare.

Infine (cito testualmente): "I corpi che essa (la molecola) forma sono così percettibili e la loro per�cezione ha luogo quando le molecole obiettive sono raggiunte da molecole simili che risiedono negli or �gani di senso, ad esempio sulla pupilla per la vista...".

Questo mi ricorda una frase di Michel Cassé che parlava del sole, modellatore del nostro occhio: "L'a�tomo del sole parla all'atomo dell'occhio il linguag �gio della luce".

Domando all'improvviso al Dalai Lama:

"Il buddhismo sarebbe allora una scienza? Una scienza dello spirito?".

Mi risponde subito:

"È proprio così!".

"Mi parli dello spirito."

Scoppia a ridere e, afferrando una manica del mio maglione, risponde:

"Bisognerebbe per questo che lei cambiasse abi �to! Che lei indossasse una veste rossa!".

"E che mi rasassi la testa?"

"E che lei studiasse almeno per dodici anni, non facendo altro che questo!"

La scienza dello spirito, del funzionamento dello spirito è, nella storia del buddhismo, un'attività anti�ca e decisamente raffinata. Poiché nulla può essere visto o compreso senza lo spirito giacché, secondo alcune scuole, tutte le cose dell'universo possono essere manifestazioni dello spirito questa scienza è necessaria. È al centro di ogni studio.

Dato che gli oggetti hanno solo un'esistenza relati�va, o convenzionale, e che è impossibile considerarli in se stessi, come entità indipendenti e stabili, l'accesso a questi oggetti da parte dei nostri sensi è irto di dif �ficoltà, soggetto a mille errori e minacciato dalla con�fusione. Uno dei fondatori del buddhismo Maha�yana, Nagarjuna che il Dalai Lama cita sovente come uno dei suoi maestri prediletti , scriveva all'inizio del III secolo della nostra era:

Più lontano siamo dal mondo, più reale ci sembra, più ci avviciniamo, meno diviene visibile e, come un miraggio, diventa senza segno.Si ritrovano al tempo stesso in questo testo l'im �periosa necessità di "vedere" e la confusione inevita�bile che provoca ogni tentativo di "vedere da vici �no". Il Buddh

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a già lo affermava: "La forma è come un'illusione magica e le sensazioni, le percezioni, i costrutti mentali e le coscienze sono anch'essi illu�sioni magiche".

"Mi sembra" dico "che questa difficoltà a coglie �re il reale sia proprio al centro dello studio buddhi�sta dello spirito."

"Sì," mi risponde "senza dubbio. Ne deriva una moltitudine di precauzioni da prendere, di divisioni e di suddivisioni nelle nostre operazioni di approc �cio. Ad esempio, per quel che concerne le percezioni dirette (che non sono le sole), tutte le tradizioni buddhiste ne distinguono tre tipi: sensoriale, men�tale e yogica. Quest'ultima non può essere raggiun �ta che per mezzo della meditazione."

"Ma questi tre tipi di percezione si dividono in più categorie?"

"Sì, in più livelli, che a loro volta devono essere messi in relazione con le sei coscienze, e i cinquan �tun fattori mentali, che sono solo occasionalmente presenti. Vede perché, se vuole sapere tutto, dovreb�be rasarsi la testa! "

Per il semplice gioco delle combinazioni aritme�tiche possibili, il numero delle operazioni percettive diventa ben presto impressionante. E ciascuna di que �ste operazioni si trova minuziosamente descritta e analizzata - e sovente criticata, messa in dubbio da secoli di studio. Lo stesso accade per le altre opera�zioni dello spirito, come la cognizione, il pensiero concettuale, la memoria. La lista non sembra avere fine, cosicché nessun individuo, oggi, può abbrac�ciare tutta questa scienza. Nessuno spirito può affer�rare tutto lo spirito.

Questo fascino che lo spirito umano prova nei confronti di se stesso, si collega a un altro sentimen �to, più semplice a esprimersi, e ripetuto senza sosta: il corpo è condannato a deteriorarsi, e noi non pos�siamo farci niente. Gli autori buddhisti insistono continuamente sulla caduta dei capelli, sull'indebo�limento della vista, sull'appesantimento delle mem �bra. In compenso, se il corpo inevitabilmente decli�na, possiamo costantemente abbellire lo spirito, e questo fino all'ora estrema. È anche detto che al momento della morte, se siamo ben preparati, pos�siamo ricevere infine le rivelazioni fondamentali.

Altro passo, che rafforza la confusione: il nostro spirito è per natura indisciplinato. Nella Bhagavad�gita, il più bel testo, senza dubbio, che ci ha lasciato l'induismo, l'eroe Arjuna, improvvisamente ango�sciato prima della battaglia, dice a Krishna, suo auriga e amico: "Lo spirito è volubile e instabile, è sfug �gente, febbrile, turbolento e tenace. Soggiogarlo mi sembra più arduo che domare il vento... Come deci�dersi? Come scegliere?".

Krishna stesso riconosce che lo spirito è "misterioso e incomprensibile", senza dubbio "più grande dei sen �si". Apprendere il funzionamento segreto dello spirito, è avanzare nella "foresta fitta dell'illusione", è cogliere in un solo momento tutto il cammino del mondo.

Il buddhismo ha descritto molte volte, sia diret�tamente, sia per mezzo di metafore, questo timore di uno spirito turbine, di uno spirito disordine. "Lo spirito si manifesta e si disperde in un perpetuo cam�biamento" diceva Sakyamuni. "Come una scimmia che si diverte in una foresta afferra un ramo e poi lo lascia per aggrapparsi a un altro, e poi ad altri rami, così quel che voi chiamate spirito, pensiero, cono�scenza, si crea e si dissolve senza posa."Per indisciplina, nella propria attività, lo spirito è irresistibilmente attratto dalle forme dell'illusione. Si inganna continuamente sulla realtà del mondo. L'immagine della scimmia inquieta ritorna sovente: il nostro spirito è anche una scimmia rinchiusa in una casa vuota, con qualche apertura. Queste aper�ture sono gli organi dei nostri sensi. La scimmia get�ta un colpo d'occhio da una finestra, scorge un an�golo del mondo esterno, passa presto a un'altra fi �nestra, senza riflettere, senza uno sforzo critico o di sintesi. Da qui una percezione frammentaria, muti�la, n

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ecessariamente falsa, che ci porta ad azioni rapi �de, brutali, sempre nefaste.

Quanto allo spirito, non offre alcuna caratteristi�ca particolare. Fuori dall'influenza aberrante dei sen�si, è indifferente come uno specchio, che riflette ciò che gli si presenta davanti. Un maestro indiano del �l'XI secolo, Tilopa, lo definisce così: "Lo spirito lu�minoso non ha né colore, né forma. Non è né scuro' né chiaro, né cattivo, né buno". Inutile attribuirgli una qualità originaria e inseparabile. Si pone al di là di ogni possibilità di essere qualificato.

In definitiva, è forse il solo e vero creatore, grazie alla sua stessa funzione. Costituisce anche un passag �gio obbligato. Impossibile giungere al dissolvimento dell'illusione senza trattare dello spirito. Come dice un altro grande maestro, Santideva (che viveva nel VII secolo): "Se non si è anzitutto compreso il feno�meno costruito dallo spirito, la sua non esistenza non può essere stabilita".

I fenomeni costruiti dallo spirito sono tanto più difficili da discernere, infine, quanto più questo spi�rito possiede una regione misteriosa che chiamiamo oggi l'inconscio. Questa sorprendente scoperta fu compiuta dal Buddha stesso, fin dall'inizio. Egli chia�mò questo territorio impenetrabile amushaya Co�me, diceva, le funzioni fisiologiche per esempio ladigestione si svolgono a nostra insaputa all'inter�no del corpo, così il nostro pensiero può seppellire in se stesso le preoccupazioni, gli attaccamenti peri�colosi tanto più pericolosi quanto più noi li credia �mo annientati, mentre essi non sono che dileguati e nascosti a noi stessi. Anche se offriamo, in superfi�cie, un'apparenza di tranquillità, custodiamo in noi questo vulcano.

Sakyamuni dava in poche parole una definizione della amushaya alla quale non c'è nulla da aggiunge �re: "Abitudine sotterranea di dipendenza e di avver�sione".

Dopo avermi vivamente sconsigliato di rasarmi la te�sta e di vestire l'abito del khiksu, il Dalai Lama mi dice:

"Si rassicuri, possiamo parlare dello spirito. Mi accade abbastanza sovente di affrontare questo te�ma con scienziati, neurologi, psichiatri. Ho parteci �pato a cinque o sei convegni in questi ultimi anni".

"Cosa succede?"

"All'inizio, esitano un poco. Li sento reticenti. Temono evidentemente che io mi limiti a elencare affermazioni dogmatiche. Il secondo o terzo gior�no, mentre le discussioni continuano, a poco a poco le reticenze diminuiscono, e talvolta scompaiono del tutto. Ben lontani dal considerare il buddhismo co �me una religione rigida, alcuni vogliono rendersi conto se, come lei dice, si tratti di una scienza. E se tale scienza, estremamente complessa, poggi come tutte le scienze sull'esperienza."

"Quali sono gli scienziati che vi sembrano più interessati?"

"Gli psicologi, i neurologi, tutti coloro che stu�diano il cervello e anche i fisici e gli astrofisici, colo�ro che lavorano sulla materia dell'universo e sulle particelle elementari."

"Lei si è accostato alla meccanica quantistica?"

"Sì, per quanto ho potuto."

"Lei sa che a livello dell'infinitamente piccolo lo spirito giunge a una zona di incertezza?"

"Me l'hanno detto. Ma non mi ha poi stupito troppo."

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Gli ricordo che questa incertezza, affermata da Heisenberg e da Niels Bohr, resiste alla ricerca da più di cinquant'anni. Nella fisica dell'infinitamente piccolo, è impossibile conoscere contemporaneamen�te la posizione di un elettrone e la sua velocità. Lo spirito deve scegliere. Questo limite imperativo im�posto alla conoscenza, e che altre osservazioni con�fermano, sembra rimettere in causa in modo quasi decisivo il rapporto consueto tra spirito e realtà.

Contrariamente alla tradizione orientale, l'Occi�dente non ha mai messo in dubbio radicalmente l'e�sistenza del reale. Secondo la nostra tradizione clas �sica, Dio ha posto delle leggi nella natura e compito nostro, come ha detto Cartesio, è scoprirle. Atteg�giamento che l'Occidente mette in discussione dal�l'inizio del XX secolo, dalla scoperta della relatività e della meccanica quantistica. Non senza confusio �ne e stupore. Senza giungere fino a dubitare radical�mente del reale e senza rinunciare a stabilire delle leggi, anche se in taluni campi esse si accompagna�no a una frangia di incertezza, i ricercatori contem�poranei introducono nel loro lavoro una nuova di �mensione che è proprio il rapporto con lo spirito. L'osservatore, con la sua stessa presenza, con un suo pur minimo intervento, modifica l'oggetto osserva�to. Ogni ricerca, oggi, deve tenerne conto. La rela�zione diventa più importante dell'oggetto.In questo territorio, benché segua altre vie, il pen�siero orientale ci ha preceduto. Racconto al Dalai Lama che un giorno, quando lavoravamo insieme, chiamai Michel Cassé per dirgli: "Tutto ciò che esi�ste, mobile o immobile, proviene dall'unione del cam�po e di colui che conosce il campo".

L'astrofisico mi rispose senza esitare: "Ma è una delle più belle definizioni della meccanica quantisti�ca che io conosca!".

Gli spiegai allora che gli avevo appena letto una frase di Krishna nella Bhagavadgita, frase sovente molto mal tradotta nel XIX secolo (con "unione della materia e dello spirito" per esempio, mentre le due parole sanscrite sono lo stesso termine, kshetra, che significa letteralmente campo, e ksetrajna, colui che conosce il campo), finché la comparsa della mecca�nica quantistica permise infine una traduzione cor �retta. Frase che non ci consente in alcun modo di affermare che Krishna, o gli autori del poema, conoscessero il principio di Heisenberg e i segreti del�la fisica delle particelle. Sarebbe puro sogno. Ma non si può trascurare il fatto che una intuizione antica, formulata molto spesso nella tradizione indiana e tibetana, sostiene l'inseparabilità del nostro spirito, dei nostri sensi e delle cose. Su questo punto il bud�dhismo è particolarmente categorico.

Il Dalai Lama ha visitato il CERN, ha partecipato a discussioni scientifiche ad Harvard, così come a Grenoble. Questi accostamenti non gli sono estra �nei. Li accetta senza sorprendersi molto, come se la nostra scienza ritrovasse un cammino antico ciò che non si deve interpretare come un incontro di tecniche e di conoscenze. Il mondo orientale antico non possedeva segreti tecnici che noi avremmo per�duto. Semplicemente, in questo campo essenzialeche mette in gioco lo spirito e l'oggetto che lo spiri�to investiga (oggetto che può essere esso stesso), le tradizioni che noi evochiamo hanno rifiutato di se �pararli. Oggi, per il semplice scorrere del tempo che plasma anche le nostre idee, l'Oriente e l'Occi�dente giungono a comprendersi, talvolta anche a confondersi.

Rimane il fatto che il Dalai Lama, seguace con �vinto della '`via del giusto mezzo", ci ripete che dob�biamo diffidare delle posizioni estreme. Egli si do �manda se il pensiero occidentale, avido di certezze, oscillante tra il dualismo classico e la confusione contemporanea, non tenda a trascurare "la zona gri�gia", questo territorio del giusto mezzo, dove lo spirito tiene conto dei fatti.

Continuando, mi dice:

"Credo profondamente che dobbiamo trovare tutti insieme, una spiritualità nuova".

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"Che non sarebbe "religiosa"?"

"Certamente no. Questo nuovo concetto dovreb�be formarsi a fianco delle religioni, in modo tale che tutti gli uomini di buona volontà possano ade�rirvi."

"Anche senza religione o addirittura contro la religione?"

"Sì. Un concetto nuovo, una spiritualità laica. Dovremmo promuovere questo concetto con l'aiuto degli scienziati. Potrebbe condurci a fondare ciò che tutti cerchiamo, una morale secolare (sottolinea queste parole). Ci credo profondamente. E ciò per un migliore futuro del mondo."

Quest'idea può apparire teorica e anche irrealiz �zabile (come far applicare questa morale?), ma egli ne dà subito un esempio personale:

"Sperimento ogni giorno i benefici effetti della pace dello spirito. È ottima per il corpo. Lo può vedere, io sono un uomo molto impegnato, mi assu �mo molte responsabilità, faccio interventi, viaggi, di�chiarazioni, tutto ciò costituisce un fardello molto oneroso, e ciononostante la mia pressione arteriosa è quella di un bambino".

"Lei è fortunato."

"L'anno scorso," dice mostrandomi il suo brac �cio destro nudo "a Washington, in un ospedale mili�tare, mi hanno misurato la pressione. E il medico ha esclamato: "Ah, vorrei averla io!""

Ride di cuore e prosegue:

"Quel che è bene per me è bene per gli altri. Non ho alcun dubbio a questo riguardo. Una sobria alimentazione, una lotta contro ogni desiderio ec �cessivo, una meditazione quotidiana, tutto ciò può condurre alla pace dello spirito, e questa pace dello spirito è una buona cosa per il corpo. Malgrado tut�te le difficoltà della vita, che anche a me non sono state risparmiate, tutti possiamo sentire questo effetto".

"E la strada è la compassione?"

"Esatto. La compassione. Questo sentimento lo �gico che troviamo in noi se cerchiamo in profondi�tà. E che deve esercitarsi nei confronti di ogni altra vita che non sia la nostra. Anche se talvolta ci sem�bra difficile. Così, in questo momento, mi sforzo di provare compassione per coloro che sono chiamati miei nemici, per i cinesi che hanno invaso il Tibet. Le azioni che hanno commesso, e che continuano a commettere, contribuiscono a formare in loro un cattivo karma, di cui riceveranno un giorno o l'altro il castigo."

Si sa che il karma, concetto ereditato dall'indui�smo ma largamente sviluppato dal buddhismo, è u�na "legge degli atti". Tutti gli atti che possiamo com �piere, e tutti i pensieri che possiamo formulare (il buddhismo si appoggia metodicamente all'afferma�zione che non vi sono fatti senza causa, né una causa senza effetto), costituiscono una sorta di energia, di forza, i cui effetti si faranno sentire un giorno, in questa vita o in un'altra vita. Questa forza, per ogni coscienza, condiziona la qualità delle sue future reincarnazioni. Un cattivo karma, un karma negativo, ci allontana anche dalla realizzazione finale, dall'u�scita sperata fuori dal ciclo delle rinascite, dal samsara.

Alcuni, come Jorge Luis Borges, che vedeva nel karma una "struttura inconcepibile", si sono doman �dati da quale autorità, giacché nessun dio creatore vigila sull'osservanza di leggi da lui poste, proceda questa "legge degli atti". In altre parole, chi ha stabi�lito il karma? Chi ne garantisce il funzionamento? Sotto quale forma si presenta questa forza, giacché non esiste nel buddhismo nessuna anima partico

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la�re che possa trasmigrare da un corpo all'altro?

Le risposte variano secondo le scuole. Il Dalai Lama mi darà la sua, un altro giorno.

Per ora, insiste sulla compassione, che ritorna co�me un Leitmotiv nei suoi discorsi. Questa insistenza è all'origine, senza dubbio, di una certa ingenuità che si attribuisce talvolta alle sue frasi, quando ven�gono pronunciate nella fretta di una intervista. Dire "dobbiamo provare compassione per gli altri" può in effetti passare per una banalità da catechismo, intrisa dei migliori sentimenti, facile a dirsi e sempli �cemente utopistica.

Questo significa però non capire che questa af�fermazione, l'esatto contrario di una massima su�perficiale e applicabile comunque, è in effetti il ri �sultato di una minuziosissima ricerca. Questa compas�sione è in noi; in ultima analisi, è anche un senti�mento che ci è proprio e la cui potenza è superiore a quella dei nostri istinti violenti. Ma numerose for �ze negative, che vediamo manifestarsi costantemen�te intorno a noi, e anche in noi stessi, oscurano que �sta energia profonda e la spengono ai nostri occhi. Così bisogna cercare senza sosta in noi la compassio �ne, riconoscerla ed esercitarla.

"Non sarebbe" mi dice "che con una intenzione egoistica. Perché la compassione che esercito in com�penso mi fa del bene. È la migliore delle difese e io ne sono il primo beneficiario. Mi assicura la pace interiore, la salute del corpo, giorni felici, una lunga vita. Senza parlare delle vite future."

"Occupiamoci intanto di questa."

"Ha ragione. Comunque, le altre vite dipendo�no da questa. Ebbene, in questa vita che anima lei e me in questo momento, desideriamo vivere in mez�zo a una comunità unita, godere di buona salute, di una famiglia armoniosa, in breve, avere una vita feli �ce..."

"Una morte felice..."

"Sì!"

"Il che è senza dubbio più difficile."

"È un'altra nascita felice!"

Anche ora ride con franchezza, sapendo bene che io non credo affatto in un'altra nascita, in un'al�tra vita. Gli rammento che in Occidente viviamo, almeno da più di due secoli, basandoci sull'idea che la nostra felicità sia possibile fin da questa vita. La frase di Saint Just, "la felicità è un'idea nuova in Eu�ropa", mostra chiaramente che la felicità ha costitui�to una rivoluzione. Si tratterebbe di cambiare vita, l'unica che conosciamo con certezza. Relegando la felicità, o il suo equivalente spirituale che si chiama "beatitudine", in "un'altra vita", completamente ipotetica e tuttavia dichiarata eterna, le nostre reli �gioni ci hanno spinto a rassegnarci alla nostra sorte terrena, in questa triste valle di lacrime. Affermazio�ni che hanno permesso a tutta una serie di poteri tirannici di esercitarsi senza restrizioni, brutalmen �te, avidamente, appoggiandosi, in taluni casi con fe�de sincera, su questo o quel credo religioso.

Troviamo inevitabilmente nel samsara echi preci�si di queste punizioni e ricompense lontane. L'idea della vita come sofferenza, anche se l'interpretiamo impropriamente, costituisce indubbiamente un osta �colo a una penetrazione più decisiva del buddhismo in Occidente. Facciamo fatica a credere in un'altra vita, quando vediamo questa schernita, calpestata, oggi come ieri, in nome di un dogma religioso. A questa promessa nebulosa di una ricompensa altro �ve (in un'altra vita, in un'altr

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a coscienza), preferia�mo un lavoro accanito per difendere e migliorare questa. Con i risultati che constatiamo attorno a noi e che abbiamo già ricordato. Abbastanza curiosamen�te, d'altronde, il Dalai Lama, che crede in altre vite, trova il mondo in cui viviamo meno minacciato, me�no deplorevole di quanto appaia agli occhi degli stessi occidentali. È ancora una questione di sguardo?

Mi ascolta attentamente è un discorso da lui conosciuto, immagino e torna al proprio pensiero:

"Dobbiamo molto alla pace dello spirito. Per noi, si tratta di un fatto. Questo equivale a dire che dob�biamo molto allo spirito stesso. Tutta la storia del buddhismo ci riporta allo spirito, al nostro spirito. Un considerevole lavoro è stato fatto dallo spirito per lo spirito. E noi continuiamo".

"Giungendo fino all'illusione stessa dello spirito?"

"Questo vale per alcune scuole."

"Ma qual è il senso esatto del termine "illusio�ne"? Si può concepire un'illusione senza un illusio �nista?"

"Noi diciamo che lo spirito illude se stesso, ad ogni istante, nella percezione sommaria che ha del mondo. E che questa percezione erronea deve ne�cessariamente essere corretta, a meno di non sce �gliere di vivere nell'errore. Noi sosteniamo che l'a�gitazione ci porta fuori strada, che nessuna vera re�lazione può essere stabilita col mondo se non per �veniamo alla pace dello spirito."

Sakyamuni per primo, e centinaia di altri uomini di pensiero e meditazione sulla sua scia, hanno così segnato l'esistenza stessa dello spirito, con una logi�ca impietosa (il pensatore non deve avere alcuna compassione per il proprio pensiero): poiché il mondo esterno, trapassato dai nostri sensi, è vuoto di ogni realtà intrinseca, i suoi effetti sui nostri sensi sono ugualmente vuoti, illusori. Le idee, che a loro volta nascono dalle percezioni sensoriali, sono dun�que vuote di vero significato, vuote di verità. E infi �ne le nostre decisioni volontarie, che provengono generalmente dalle idee, sono così private di ogni solido fondamento.

Come scriveva Maurice Percheron: "La sintesi di questi diversi gruppi di elementi (che chiamiamo coscienza) è così un puro miraggio".

Possiamo anche riprendere una celebre frase che si trova nel Sutra Immutabile: "I fenomeni della vita possono essere paragonati a un sogno, a un fanta�sma, a una bolla d'aria, a un'ombra, alla rugiada scintillante, al bagliore del lampo, ed è così che biso�gna contemplarli".

Come dunque placare un miraggio? Come eser�citare un'azione su una entità lo spirito che sa�rebbe nata dalla propria illusione e si compiacereb �be di perpetuarla?

Nella sua lunga storia il buddhismo si è appassiona�to a questo apparente paradosso, riconoscendo in principio come evidente che se lo spirito (forse) non esiste, in ogni caso le operazioni dello spirito sonoconcatenate le une con le altre. Non possiamo met �terle in dubbio, a meno di postulare l'assurdo.

Per quanto riguarda questa pace dello spirito che si trova in noi il Dalai Lama insiste volentieri su questo punto , non si tratta di inventarla da cima a fondo, si tratta di ritrovarla e, con essa, trovare il cammino della vera conoscenza. Così dice un auto�re che si chiama Coomaraswami: "Similmente una lampada portata in una stanza buia ci permette di di�stinguere ciò che già vi si trovava". Noi attendevamo questa pace necessaria e fertile. Nessuna azione positi�va può essere intrapresa al di fuori di quella Aurobin�do l'ha definita a suo modo: "Le attività che vengo

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no dal di fuori attraverseranno allora la calma dello spiri�to come un volo d'uccelli uno spazio senza vento".

Il Dalai Lama riprende:

"Questa pace dello spirito, lo ripeto, è un fatto. Inutile negarlo, immaginarci come in balia di ener�gie esclusivamente aggressive, o possessive, o domi �natrici. Beninteso, tutte queste tendenze pericolose esistono in noi, ma al di sotto di queste, più profon�da e più duratura, vi è la pace. Se utilizziamo questa pace come un fatto, possiamo veramente offrire al �l'umanità il meglio possibile. Ma bisogna prima ri�conoscerla, raggiungerla e salvaguardarla".

"Malgrado ciò che vede intorno a lei, e quel che lei stesso ha vissuto, continua a pensare che la natu �ra umana sia buona, ben disposta, servizievole?"

"Non "lo penso". Non è un'opinione, è un fatto. Numerose sono le circostanze che ci rendono ingiu �sti, ambiziosi, aggressivi. Intorno a noi tutto ci spin�ge in tal senso, sovente a causa di un interesse eco�nomico: devo possedere questo o quell'oggetto, al�trimenti la mia vita è penosa. Per possedere que�st'oggetto, bisogna che guadagni più denaro. Per ottenere questo denaro, bisogna che lotti, che mi opponga ad altri: la mia aggressività, allora, riappare.""In campo commerciale, l'aggressività è conside�rata una qualità."

"Lo so bene. Il mondo ci viene presentato come essenzialmente competitivo, diviso fra "i vincenti" e "i perdenti", ma anche questa è una visione falsa deliberatamente falsa. È un rapido sguardo di su �perficie, che elimina ogni discesa in sé, ogni medita�zione, ogni riflessione."

"Non siamo dunque come ci vediamo noi? Co �me noi ci raffiguriamo?"

"L'immagine che diamo di noi stessi è spesso com�piacente. Ci guardiamo con indulgenza. Abbiamo sempre la tendenza, quando ci colpisce un evento spiacevole, ad incolpare gli altri, o il destino, o un demone, o un dio. Proviamo ripugnanza a scendere in noi stessi, come il Buddha raccomandava."

"E se vi scendiamo, troviamo questa compassio �ne di cui lei parla?"

"Inevitabilmente. Lei stesso è sopravvissuto solo grazie all'affetto degli altri. E questo dalla culla, for�se anche dal ventre di sua madre, perché si dice che siamo sensibili all'ambiente, e all'affetto che nutro�no per noi, ancor prima della nostra nascita. Sono convinto che una madre felice porti in seno un bim�bo felice. Se è calma, se il suo spirito è in pace, suo figlio ne sarà influenzato."

"Lo si dice, in effetti. E da tempo."

"E questo affetto è spontaneo, naturale (usa il ter�mine inglese genuine, che si traduce anche con "au �tentico"). D? suo figlio, la madre non aspetta nulla in cambio. È un affetto puro, senza calcolo. Ma sen �za questo affetto, il figlio non potrebbe sopravvivere."

Resta un attimo in silenzio, poi insiste sugli effet�ti positivi di questo sentimento spontaneo:

"Tutte le nostre vite sono cominciate avendo, co�me primo supporto, l'affetto umano. I bambini che crescono in quest'affetto sono più sorridenti e ama �bili. Sono generalmente più equilibrati. Per coloro cui questo affetto è mancato, succede il contrario. Sono più duri, e hanno più problemi".

"Esistono eccezioni, senza dubbio lo sa. Le in�fluenze che presiedono alla formazione della nostra personalità sono molteplici, complesse. In alcuni ca �si trattamenti

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cattivi possono, al contrario, renderci agguerriti."

"Renderci più aggressivi, più duri."

"Senza dimenticare l'ereditarietà, che non con�trolliamo, benché i biologi vi compiano ricerche. Alcune influenze giungono da molto, molto lontano. Alcuni dicono persino: dal tempo in cui non erava�mo ancora uomini."

"È possibile. Dobbiamo accettare, gliel'ho detto, ciò che insegna la scienza. Diciamo che, in generale, la fretta, la competizione, quello che viene chiamato stress, l'ambizione contrastata, la difficoltà di coglie �re il successo, la mancanza di denaro, tutto ciò è nocivo al nostro corpo, al nostro organismo."

"Alla nostra pressione arteriosa?"

"Fra l'altro. Bisogna capire bene che l'affetto di cui parlo non ha un fine, non è dato con l'intenzio�ne di ricevere. Non è un fatto sentimentale. Simil�mente, diciamo che la vera compassione è priva di attaccamento. Presti attenzione a questo punto, che contrasta con le nostre abitudini di pensiero. Non è questo o quel caso particolare che desta la nostra pietà. Non accordiamo la nostra compassione a que �sta o quella persona in seguito a una scelta. La do�niamo spontaneamente, pienamente, senza nulla spe�rare in cambio. E a tutti."

Già l'induismo insegnava questo distacco nell'a�zione. Sempre nel Bhagavadgita, Krishna insegna ad Arjuna che bisogna agire senza preoccuparsi del "frut �to delle azioni", cioè dei risultati, dei vantaggi, mate�riali o morali. Se questo distacco sincero viene rag �giunto, permette un'azione sincera, e nel medesimo tempo irreprensibile. Anche il desiderio di vittoria, in una battaglia, è da rifiutarsi, come ogni desiderio. Questo rifiuto riguarda anche la coscienza che po�trei avere del mio stesso valore, se compio questa o quella azione. Non devo impegnarmi con il deside�rio di riuscire bene, di trarre da quest'azione una soddisfazione personale, sotto forma di stima per me stesso. Questo desiderio nascosto, difficile da smascherare, è sufficiente a snaturare quel che faccia �mo, perché abbiamo allora un attaccamento, un'in�tenzione, anche segreta. È in questo senso che dobbia �mo interpretare una delle frasi del Buddha: "Abban�donate il bene, e a maggior ragione il male. Colui che raggiunge l'altra riva non ha bisogno della zattera".

"Che dire dell'amore e del desiderio sessuale?"

"Il desiderio sessuale, per definizione, vuole qual�cosa, che è la soddisfazione di questo desiderio at�traverso il possesso dell'altro. In gran parte, si trat �ta di una proiezione mentale, suscitata da una certa emozione. Noi immaginiamo l'altro in nostro pos�sesso. In questo attimo del desiderio, tutto sembra piacevole e attraente. Non vi si scorge alcun ostaco�lo, alcuna reticenza. L'oggetto desiderato ci sembra senza difetto, degno di ogni lode."

"Tutto cambia con il possesso?"

"Certo. Quando il desiderio scompare sia che lo si ritenga soddisfatto, sia che il tempo passi e lo indebolisca non guardiamo più l'altro allo stesso modo. Le sembianze dell'oggetto poco prima desi �derabile cambiano, e talvolta rapidamente, improv�visamente. Alcuni se ne riconoscono stupiti. L'emozio �ne del principio si è dissolta, cedendo il posto a un reciproco misconoscimento. Ciascuno scopre la ve�ra natura dell'altro, fino a quel momento nascosta dal proprio desiderio. Di qui tanti matrimoni spez�zati, discussioni, processi, odi."Mi guardo bene dal contraddirlo su questo pun �to, sapendo quali maledizioni, in tutti i tempi, e nel�la maggior parte delle tradizioni, si sono riversate sul desiderio sessuale, e più ancora sui nostri sforzi per appagarlo. Le parole del Dalai Lama fanno eco a quelle di sant'Agostino, di Tertulliano e molti altri.

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Il buddhismo ha codificato a suo modo le prati�che sessuali. Esiste una pratica corretta e pratiche scorrette (la fellazione, la sodomia, la masturbazio�ne). L'omosessualità non è scorretta in sé. Lo diven �ta, ovviamente, se porta a pratiche scorrette.

Alcune distinzioni possono stupirci: così il rap�porto con una prostituta, se segue la pratica corret �ta, non è condannabile. A condizione che la donna sia pagata da noi. Se un altro la paga per noi, c'è colpa.

Per proteggersi dall'AIDS, il buddhismo ammet�te il preservativo. Ma il Dalai Lama non smette di dire, anche se lo fa sorridendo, che il mezzo miglio�re resta il celibato, la castità.

Meglio rinunciare: ecco quello che ci viene sem�pre detto, che è nel medesimo tempo un'ammissio�ne di sconfitta, un suonare la ritirata. Su questo pun �to, nulla di nuovo.

Ritorna in compenso sull'amore, su questa sorta di "chiara conoscenza" che può svilupparsi fra due esseri, avendo come condizione il rispetto reciproco.

"Si vede apparire allora un sentimento di vici�nanza. I due individui che si amano si sentono vici�ni, talvolta molto vicini l'un l'altro. Da questa vici�nanza può nascere una compassione vera, come quel�la della madre per il figlio. Questa compassione, o quest'affetto, non si basa su un'idea del tipo "questa persona è vicino a me, è fatta per me, noi ci comple�tiamo in modo magnifico'', oppure "mi è congenia �le, mi fa bene, con lei la mia vita sarà migliore". No, si tratta di un affetto spontaneo, libero da ogni calcolo.""Si tratta tuttavia di una scelta. Non provo affetto per una persona qualsiasi, ma per quella persona in particolare."

"Sì, ma questo affetto può estendersi. Al di là di questa persona, può portarsi su altri individui. Se è veramente puro, non soffre di alcuna parzialità e smette di scegliere. Può anche portarsi sui nostri ne �mici, che come noi ne hanno il diritto."

Riflette un istante, poi riprende:

"Posso dirlo in altro modo. Questa compassione può esercitarsi a due livelli. Al primo livello, il più semplice, posso vedere gli altri come me stesso. Non ho alcun dubbio che tutti gli esseri umani siano si�mili, che condividano le stesse emozioni, le stesse aspirazioni, gli stessi timori. Le differenze fisiologi�che (il colore della pelle, gli occhi a mandorla) o culturali che sembrano separarli mi sembra li uni�scano ancora di più ".

"Vuole dire: quel che hanno in comune è più forte, più profondo di quel che li distingue?"

"Molto più forte. Ed è proprio perché sembrano diversi che la loro comune natura mi balza agli oc�chi con più forza. Tutte le teorie razziste, o cultural- �razziste, che la storia del mondo ha visto succedersi, sono assurde e nefaste. Non conducono che a san�guinosi vicoli ciechi. Soprattutto oggi, quando ci giun �gono immagini da ogni parte della terra, la nostra unità profonda mi sembra evidente. Ogni nuova isti �tuzione dovrebbe prenderla come punto di parten�za, come base."

"Il buddhismo si è sempre proclamato universale."

"Esatto."

"E il secondo livello?"

Il mio interlocutore è solito esprimersi per "livel�li". In questo, è fedele a tutta una tradizione, e anzi �tutto a Sakyamuni, il fondatore. Si dice che questi sceglies

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se molto accuratamente le proprie parole inbase alla qualità di coloro che lo ascoltavano, riser �vando certi insegnamenti, considerati talvolta come "esoterici", a quelli che gli sembravano meritarlo. Diceva: "Rapporto il mio linguaggio a ciascuno in relazione al suo potere di comprensione, e correggo gli errori del mio insegnamento parlando per im�magini". In seguito, a più riprese, dei monaci "sco �prirono", più spesso in grotte murate, testi del fon�datore che erano stati nascosti là per loro.

Si sa che, nei primi secoli del buddhismo, il nuo �vo insegnamento si diffuse in Asia sotto forme diver�se. Gli storici distinguono generalmente il Piccolo Veicolo (Hinayana), che conquistò soprattutto Cey�lon, la Birmania, la Cambogia, conservando i tratti del buddhismo primitivo, estraneo a ogni controver�sia, a ogni raffinatezza speculativa, e il Grande Vei�colo (Mahayana), che si stabilì prevalentemente nel centro e nel nord dell'Asia, in Cina, in Tibet, in Giappone, in Corea. Più complesso, più altamente speculativo, più diversificato in molteplici scuole, in�ventore di entità nuove come i bodhisattva, di concet�ti come la vacuità, di formule, il Mahayana si è tinto anche di magia, di mistica. Ha accolto il tantrismo e si è anche trasformato in Vajrayana, o "veicolo di diamante", che insiste sull'esecuzione fedele dei riti.

Storia complicata, di competenza degli storici delle religioni. Un giorno chiacchieravo con Lhakdor, l'interprete e assistente religioso. Cominciammo a par�lare dei diversi veicoli ed egli mi disse con un sorri �so: "Abbiamo queste diverse scuole all'interno di noi stessi. Alcuni possono attenersi all'Hinayana. Al�tri proseguono fino al Vajrayana".

"Il secondo livello" mi risponde il Dalai Lama "introduce una nozione di reciprocità. Ne abbiamo già parlato. Questo equivale a dire, cosa per noi evi�dente: se nutro dell'odio nei confronti degli altri, sarò odiato a mia volta e soffrirò. Se, al contrario,nutro amore e compassione, un giorno o l'altro ne trarrò beneficio."

"Lo stesso meccanismo vale per la tolleranza."

"È noto. Il fanatismo conduce al contro fanati�smo, altrettanto temibile."

"L'umanità non cessa di ripetere, da quando è capace di parlare, che la violenza genera violenza. E continua a mostrarsi violenta. Impossibile spezzare la catena."

"Impossibile" dice "non credo. Ma molto diffici�le, senza dubbio. La base di ogni insegnamento mo�rale dovrebbe essere non rispondere agli attacchi. Certo, compassione e tolleranza non sono che paro �le. E le parole in se stesse non hanno alcuna forza La nostra prima reazione è quella di replicare, di reagire, talvolta anche di vendicarci, e ciò conduce solo ad altre sofferenze. Per questo il buddhismo dice sempre: sperimentate la quiete. Provate alme�no una volta. La meditazione può aiutarvi a scoprire in voi la tolleranza. Quando l'avrete praticata, vi ac�corgerete di poterne trarre beneficio. E così, grazie al vostro esempio, potrete estenderla intorno a voi."

"E se scopriamo l'odio?"

"Vuol dire che non avrete cercato abbastanza."

In uno dei suoi libri, anche qui riprendendo a suo modo un antico detto, il Dalai Lama scrive: "Colui che vi nuoce non deve essere avvertito soltanto co�me qualcuno che ha bisogno della vostra attenzio�ne, deve anche essere visto come la vostra guida spi �rituale. Vi accorgerete che il vostro nemico è il vostro supremo maestro".

Gli esprimo un grande apprezzamento per que�sta visione del nemico come del suprem

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o guru

sebbene questo atteggiamento sembri molto diffici �le da mettere in pratica.

"Il nostro nemico" mi dice "ci offre una preziosa opportunità, quella di migliorarci."

"Senza un nemico, ci indeboliremmo? Perderem�mo delle qualità?"

"Senz'altro."

"più nemici abbiamo, migliori siamo?"

Scoppia a ridere dicendomi:

"Con tutti i nemici che abbiamo, oggi siamo cer�tamente di una qualità incomparabile!".

Allude evidentemente ai cinesi.

Ritorno per un momento all'induismo:

"Questo effetto di reciprocità di cui lei parla, lo troviamo formulato nel Mahabharata in una sola frase, che alcuni commentatori pongono al centro stesso dell'opera, come il diamante da cui tutto irradia".

"Quale frase?"

"Non può concepirsi se non nel concetto indui �sta del dharma, ove ogni dharma particolare è come un frammento della garanzia del Dharma cosmico. La frase dice: "Il dharma, quando è protetto, proteg�ge; quando viene distrutto, distrugge".

"Capisco."

"Se questa legge misteriosa esiste veramente, se l'ordine cosmico dipende dalle nostre azioni, oppu�re, come dice la dottrina buddhista, se in ogni mo �do, in questa vita o in un'altra, ogni azione compor�ta una conseguenza, non siamo tentati di agire per un fine? in altri termini, di prevedere un frutto delle nostre azioni? tentati di agire per trarre dalle nostre azioni qualche beneficio?"

Mi risponde come fosse evidente:

"Ma questo desiderio è naturale! Del tutto natu�rale! E se ci conduce a un'azione migliore, più eleva �ta, più ponderata, tanto meglio!".

"Un desiderio può dunque avere in sé del bene?"

"Ma naturalmente! Quando Sakyamuni afferma che i nostri desideri necessariamente inappagati con�tribuiscono a mantenerci in una visione imperfetta del mondo, questo non significa che tutti i desideri siano da bandire!"

"Lui stesso era animato da un ardente desiderio di far ascoltare la sua parola."

"Era anche più di un desiderio: una necessità, nata dalla compassione. Cerchiamo di capirci: un desiderio può essere negativo o positivo. Se anche desidero l'acquisizione di un bene personale dicia �mo la salute se sono malato, un pugno di riso se ho fame questo desiderio è pienamente giustificato. E lo stesso è per l'egoismo."

"Esiste un egoismo positivo?"

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"Certo. Nella maggioranza dei casi l'affermazio�ne dell'io non conduce che alla delusione, o meglio al conflitto con altri ego esclusivi come il mio. In particolare quando questo forte sviluppo dell'io porta a capricci e pretese."

"Conosciamo strani esempi in qualche diva del cinema."

"Anche altrove. L'illusione di un io permanente nasconde un pericolo che ci minaccia tutti. Voglio questo, voglio quello: si può giungere a uccidere, lo sappiamo bene. L'eccesso di egoismo conduce a per �versioni incontrollabili, dall'esito sempre negativo."

"Ai limiti della follia."

"Invece, un io saldo, sicuro di sé, può essere un elemento molto positivo. Parlavamo l'altro giorno di ambiente, di difesa della terra. È chiaro che se decido di condurre questa grande battaglia, di salva�re il pianeta, devo essere sicuro di me stesso. Senza una forte coscienza di sé cioè delle proprie qualità, delle proprie possibilità, della propria convinzione nessu �no può assumersi una tale responsabilità. È necessaria una grande fiducia in se stessi, è più che evidente. ""Fiducia che, nel migliore dei casi, può condur�re a questa convinzione: poiché posso farlo, devo farlo."

"Esattamente" dice. "Se ritorno per un momen �to al bodhisattva, che per noi è l'essere ideale, colui che può ambire al nirvana, l'assoluto riposo nella luce, ma che rifiuta di giungervi, che preferisce re�stare in contatto con questo mondo sofferente per venire in suo aiuto o, in altre parole, che non potrà trovare il suo vero riposo finché una traccia di dolo�re sussisterà nel mondo, se noi prendiamo questo ideale come modello, non basta leggere regolarmente i sutra! Non è sufficiente domandare: dove si trova questo o quel bodhisattva? In quale direzione mi devo prosternare? Che cosa gli devo dire?"

Ride e aggiunge:

"Questo bodhisattva dobbiamo produrlo in noi stessi. Se mi dico, con convinzione, che il mio com�pito è di mettermi al servizio degli esseri, per un periodo di tempo che nulla può determinare, che può anche non avere fine, questo richiede una de �terminazione piena e integra. Senza un io molto for�te, questa determinazione è impossibile".

"Quanti pericoli minacciano continuamente que �sta forza dell'io!"

Gli racconto un aneddoto spagnolo, riguardante un superiore di convento del XVII secolo, uomo dalle alte aspirazioni alla santità, duro nei confronti degli altri e di se stesso, che disse un giorno: "Io, per quanto riguarda l'umiltà, non temo confronti".

Questa frase diverte molto il mio interlocutore, che ritorna per un momento sul modello del bodhi�sattva, indicato dal Mahayana. I bodhisattva vogliono aiutarci a rischio di perdere se stessi, a rischio di "andare all'inferno" in nostra compagnia, per conti�nuare ad aiutarci.

Inutile dire che questo inferno non è il nostro,popolato di demoni che sogghignano intorno a cal �deroni di olio bollente. Si tratta qui, nella catena delle rinascite, di uno stato inferiore, che può arri �vare fino all'animalità e alla sofferenza fisica, in rapporto con la qualità delle nostre azioni, del nostro karma Altra differenza: è sempre possibile, per un'al�tra vita migliore, lasciare queste regioni sprezzate, dove i bodhisattva si avventurano e soffrono mentre il nostro inferno ha chiuso la porta a ogni speranza, cosa che l'ha reso sovente inconciliabile con la pro�clamata bontà di Dio.

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"Questa determinazione" prosegue mentre il so �lito monaco sorridente ci porta il tè "è la combina�zione di due desideri: quello di aiutare gli altri, e quello di raggiungere la buddhità."

"Il secondo può sembrare egoistico."

"In un certo senso, sì. Per questo poniamo così in alto il comportamento del bodhisattva, che rinuncia allo stato di beatitudine."

"Forse perché non è possibile aspirare a entrambi?"

"Non nel medesimo tempo. Se un essere di som�me virtù decide di mettersi al servizio degli altri, rinuncia alla buddhità. Ha bisogno di tutte le sue forze, di tutte le sue conoscenze. Come potrebbe una madre senza mani trarre il figlio dal fiume? Se raggiungeremo un giorno lo stato di buddhità, po�tremo anche essere d'aiuto pienamente, ma in un altro modo, dedicandoci più particolarmente a co�loro con i quali siamo stati in stretto contatto. A par�tire da questo primo stadio sboccia la volontà di aiu�tare tutti gli esseri, senza eccezione."

"Siamo dunque portatori di questo desiderio?"

"Sì, tutti, anche quando resta segreto. Noi chia�miamo questo desiderio Maitri, che si traduce soven�te con "amore". Ma anche in questo caso, non ha nulla di sentimentale. È una disposizione concreta ad aiutare gli altri. "Che tutti gli esseri siano felici"ha detto Sakyamuni. Qualcosa ci spinge a contribui�re a questa felicità universale. Dobbiamo scoprire e mettere in atto questo Maitri."

"È prerogativa della buddhità?"

"È la natura stessa della buddhità. Due desideri si congiungono: aiutare tutti gli esseri viventi e, in questo fine fermamente stabilito, raggiungere lo sta�to di buddha. Giungiamo così allo "spirito del risve�glio" che noi chiamiamo Bodhicitta"

"Il risveglio è dunque inseparabile dalla compas �sione?"

"Assolutamente inseparabile. Ogni attività che gio�vi agli altri è un atto che rafforza lo spirito."

"E la possibilità di questo risveglio si trova in cia �scuno di noi?"

"Come la compassione. Senza eccezioni."

Un'altra definizione di questo spirito del risveglio dice: "Raggiungere il risveglio a vantaggio degli al�tri". Siamo senza dubbio qui nel centro più segreto del buddhismo, che fonde inseparabilmente realiz�zazione dell'essere e compassione universale. Un grande sforzo di riflessione porta a questo punto preciso: legare strettamente due concetti che ci sem �brano eterogenei. Perché da un lato, in altre tradi�zioni, incontriamo mille esempi di santi perfetti, cioè seduti presso Dio, in paradiso, dopo un oblio totale di questo mondo, e spesso persino grazie a questo oblio, che permette ai fortunati di concentrarsi su Dio solo, sulla "vera vita", il "vero regno", che non sono di questa terra. Dall'altro lato possiamo cono�scere individui caritatevoli, pienamente dediti agli altri (ad esempio oggi nelle organizzazioni umanita �rie o ecologiche), ma che, assorbiti nella loro lotta quotidiana, hanno trascurato la propria realizzazio�ne personale.Dall'origine, dalle prime predicazioni del princi�pe Siddharta, che aveva conosciuto personalmente i due estremi, fu chiaro che raccomandava di rifiuta�re nel contempo la vita mondana, sia essa costituita di piaceri o semplicemente di azioni, e altrettanto categoricamente la via della rinuncia e dell'asceti�smo, "penosa e ig

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nobile" e che non può portare a nulla. Il famoso Sermone di Benares parla anche della via del giusto mezzo, "che dona la visione, la co �noscenza, che conduce alla pace, alla scienza, al ri�sveglio e al nirvana". E questo cammino è subito defi �nito dagli otto sentieri che lo compongono, e che biso�gna seguire in modo categorico: visione giusta, pen �siero (o decisione) giusto, parola giusta, azione giusta, vita (nel senso di mezzi di sussistenza) giusta, sforzo giusto, attenzione giusta, concentrazione giusta".

Nella frase successiva, il Buddha passa alle quat�tro verità fondamentali, di cui la prima è la verità della sofferenza (le altre tre, lo ricordiamo, sono la causa della sofferenza, la cessazione della sofferenza e il cammino che porta a questa cessazione). Il lega�me tra perfezionamento personale e realtà della sof�ferenza (che bisogna consolare, perché il mezzo per farlo esiste) è così stabilito in modo solenne. Nonsarà mai più rimesso in questione. Al contrario: tutti i grandi continuatori di Sakyamuni si sforzeranno, e ancora si sforzano, di consolidarlo. Diventare miglio�ri significa aiutare gli altri.

Che cosa è la buddhità?

Una prima risposta è semplice: è impossibile dir�lo a parole. Le parole sono imperfette e ingannatri�ci. Le tradizioni indiana e cinese hanno sempre mo�strato la più attenta vigilanza nei confronti delle de�finizioni. Le migliori sono quelle che non cadono nella rete delle parole.

Per cogliere la buddhità, tutt'al più si può parla �re di "qualcosa" che si manifesta, di eterno e univer�sale, e di cui "non sussiste alcuna traccia". Ma è chia �ro che questo qualcosa consiste nel "liberare il pro�prio spirito e quello degli altri"".

Il buddhismo zen ha particolarmente insistito sul fatto che questa illuminazione, questo risveglio, so�no fenomeni così naturali e così semplici che non ci è dato alcun indizio del nostro essere diventati bud�dha. Tuttavia siamo in contatto con la verità supre�ma - alla quale ci avviciniamo a poco a poco nel corso del nostro dialogo , quella della vacuità.

La natura del Buddha è in ciascuno di noi, risie�de in ogni essere vivente e persino, lo si è già detto, in ogni atomo. Le impurità che accumuliamo nelle nostre diverse esistenze possono oscurarla, ma non possono distruggerla Così scriveva Nagarjuna:

Come un ornamento in metallo macchiato d'impurità dev'essere purificato dal fuoco, e quando è posto nel fuoco bruciano le impurità, ma non lui. Così per lo spirito la cui natura è chiara luce, ma che è macchiato dalle impurità del desiderio, le impurità sono bruciate dal fuoco della saggezza ma la sua natura, la chiara luce, resta.Lo spirito, la più grande forza dell'universo, può così sfuggire a tutte le contaminazioni, può diventa�re migliore (o peggiore), può arrivare fino alla bud�dhità, riconoscendo e coltivando questa natura del Buddha che risiede, inalterabile, in lui stesso.Questa natura del Buddha è dunque un poten�ziale comune, che dipende solo da noi e per la verità anche dalle circostanze realizzare. Non è ancora la buddhità, che è la fine di ogni illusione, la cessazione di ogni sofferenza, la conoscenza di tutti i particolari del mondo, l'annuncio dell'entrata ormai possibile nel nirvana. E il punto in cui tutto diventa chiaro e tranquillo.

Santideva descrive così lo spirito del risveglio:

È il nettare sublime per distruggere la morte sovrana, l'inesauribile tesoro per eliminare la miseria del mondo.

Lo spirito raggiunge allora lo spirito stesso del Buddha, questa sostanza detta spirito sottile, senza inizio né fine, indipendente dal corpo e dal cervello e sen

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za dubbio la causa vera della coscienza. Questo spirito sottile, che si manifesta infine libero da ogni legame, ha totalmente eliminato gli ostacoli che lo contrapponevano alla visione "della natura ultima di ogni esistenza".

Poeti e pensatori, da venticinque secoli, hanno parlato a lungo di ciò che non può essere scritto. Ma solo l'esperienza conta. Come domandava Santide �va: "Può un malato essere guarito dalla semplice let�tura di un testo medico?". Quel che si può afferma�re, è che il cammino è lungo, che le modificazioni che si operano in noi richiedono tempo, pazienza, e che il risveglio non è sempre chiaramente percetti �bile. Tutto sommato, scuole diverse hanno proposto vie diverse, che si arrestano tutte all'indicibile, a que�sto territorio di luce oscura e di silenzio. Ogni duali �tà scompare, il mondo e noi cessiamo di essere due, e ciascuno sa che il linguaggio, parlato dall'uno e ascol�tato (o letto) dall'altro, poggia per necessità, comeogni tipo di comunicazione, sulla separazione, almeno convenzionale, fra colui che parla e colui che ascolta.

Come dice un bel poema cinese medievale, attri�buito a Seng Can (si dice che il risveglio lo guarì nello stesso tempo dalla lebbra), e che s'intitola Epi�grafe sulla fiducia nello spirito:

Autentico spirito: non due non due: autentico spirito ogni discorso cessa. Più nessun viavai, ora.

Torniamo ai nostri desideri.

"Coloro che affermano che ogni desiderio è ne �gativo si ingannano. Danno sovente eccessiva impor�tanza a concetti come l'oblio di sé, il distacco, e que�sto li porta ad eccessi, a non pensare mai a loro stes �si, a esempio."

"La stima di sé, sovente troppo alta, può essere anche troppo bassa?"

"Sì. Rischia di raggiungere l'odio di sé, che è un fenomeno sorprendente."

"Ma più diffuso di quanto si possa credere. Che cosa pensa della psicanalisi?"

"Benché l'inconscio, nel buddhismo, sia noto da molto tempo, la psicanalisi non fa parte delle nostre consuetudini. È forse un fenomeno culturale, adat�to all'Occidente: in ogni caso, molto interessante. Ma il buddhismo ama fondarsi su esperienze diret�te. La psicanalisi non fa per me. Non l'ho mai prati�cata, esito dunque a parlarne."

"Se il buddhismo si è appassionato alla struttura e al funzionamento dello spirito, lo stesso deciso in �teresse anima oggi l'Occidente."

"Ma da un altro punto di vista."

"Ha incontrato specialisti della mente?"

"Sì, più volte."

"Poiché la scienza si è resa conto che ogni ricer�ca è ormai inseparabile dallo spirito che osserva e analizza, occorre anzitutto conoscere questo spirito. Per conoscerlo, bisogna studiare il cervello, ove ri�conosciamo la sede di ogni pensiero."

"Lo so bene" mi dice. "Nessuno può negare che cervello e spirito siano legati l'uno all'altro. È evi�dente. Ma il buddhismo non dice che ogni pensiero e ogni coscienza siano forzatamente legati alle mole �cole del cervello. Noi distinguiamo più livelli di co�scienza. Il livello più elevato sfugge al supporto mate�riale. Per questo fatto, tale coscienza è indistruttibile."

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"Secondo lei, il pensiero, o diciamo lo spirito, la coscienza, esiste al di là di un supporto corporeo?"

"A un certo livello, sì. Senza alcun dubbio. È in �dipendente dalle particelle fisiche."

La discussione è vecchia. Si è acuita negli ultimi dieci anni e non si è ancora giunti a un generale consenso. Benché un gran numero di neurobiologi sembri concordare sull'idea di un cervello unico pro�duttore di coscienza e pensiero, la tradizione spiri�tualista, che separa lo spirito (o l'anima) dalla mate�ria corporea, è ben lungi dall'essere scomparsa, an �che tra gli scienziati. Gli psicanalisti si oppongono, naturalmente, ma anche taluni psichiatri e sociologi.

Racconto al Dalai Lama diversi incontri col pre�mio Nobel Gerald Edelman, immunologo affascina �to dallo studio del cervello umano, che egli chia �ma "l'oggetto più complesso dell'universo". Gli par�lo anche del lavoro che abbiamo effettuato per tre anni con più attori, sotto la direzione di Peter Brook, per rappresentare lo spettacolo dal titolo L'Homme qui. Muovendo dalle opere del neurologo inglese Oliver Sachs, abbiamo frequentato per lungo tempo, a New York, a Delhi e soprattutto a Parigi, all'ospedale della Salpetrière, i reparti di neurolo�gia. I medici ci hanno messo in presenza di malati con differenti lesioni cerebrali, affetti da disturbi della mente, afasia, amnesia, agnosia, e anche da com�portamenti inclassificabili, a lungo considerati come strani o singolari, collegati oggi con precise lesioni.

In questa occasione, abbiamo potuto vedere che il cervello e gli organi di senso possono giungere a un completo disaccordo, e che un individuo, che nulla permetterebbe di trattare da "matto", ode voci immaginarie che gli cantano distintamente canzoni dimenticate dalla più tenera infanzia. Molti pazienti non riconoscono un braccio o una gamba, e tenta�no di strapparli o di gettarli via. Uno immagina, con convinzione assoluta, di vivere in un sogno, che l'o �spedale in cui si trova e i medici che lo curano siano i prodotti di questo sogno da cui spera di destarsi salendo sul tetto e gettandosi nel vuoto. Un altro, al quale si presenta una rosa, descrive perfettamente lo stelo, le foglie, i petali, ma è incapace di pronun�ciare la parola "rosa". Un altro non può dire "no", se non lo si minaccia di picchiarlo. Un altro accende e spegne senza posa una candela solo perché trova dei fiammiferi a portata di mano. Un altro non vede che la parte destra dell'immagine che ha davanti agli occhi (entrambi perfettamente funzionanti): non mangia che la metà destra della sua fetta di prosciut�to, non si rade che la metà destra del viso.

Eccetera. L'elenco è senza fine.

Tutti questi comportamenti aberranti provengo �no da lesioni visibili e possono forse spiegare tutto ciò che la storia oscura dei popoli considera illumi�nazioni e possessioni

È come dire che tutti i nostri comportamenti si spiegano con la semplice attività del nostro cervello?

"In realtà" gli dico "il cervello resta ancora il gran�de sconosciuto. Sappiamo per il momento veramen�te poche cose sul funzionamento dei nostri cento miliardi di cellule cerebrali. Edelman suppone la pos�sibilità di una evoluzione, di una sorta di selezio�ne naturale dei neuroni. Altri parlano di una vita in società, identificano questo o quel tipo di neuroni, vi scorgono attrazioni, influenze esterne, combina �zioni e repulsioni, scorgono capi, reti e, perché no, delle sette."

Gli parlo anche di ciò che la fisica delle particelle afferma oggi, e che parrebbe andare contro le cre �denze tradizionali. Se i neurobiologi, da un lato, ci dicono che lo spirito muore, o ad ogni modo sem�bra indebolirsi e morire quando cessano con la mor�te le operazioni del cervello (non si è mai potuto trovare la sostanza de

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llo spirito o del pensiero), d'al �tro lato i fisici ci assicurano che la nostra materia, in ciò che ha di più elementare (cioè le particelle), non muore mai, non può morire. Le nostre particel�le si ricompongono in altri corpi, vegetali, animali, e altri esseri che a loro volta potranno conoscere ciò che chiamiamo morte.

Il numero di queste particelle è così elevato ci dicono, e ci dimostrano, gli scienziati che a ogni respiro inspiriamo alcune particelle di Socrate, dei suoi vestiti, delle cipolle che mangiava, e non soltan�to di Socrate e di Giulio Cesare, ma di tutti i milioni e milioni di sconosciuti che hanno camminato su questa terra, composti della stessa materia elemen �tare che passa instancabilmente dall'uno all'altro. Così, ogni volta che respira, il Dalai Lama inala par�ticelle che hanno provvisoriamente formato il Bud�dha Sakyamuni in persona. E anche io ne inspiro qualcuna, e le altre persone che sono nella stanza e tutti gli abitanti della terra.

La nostra materia elementare è immortale, men �tre il nostro spirito e la nostra coscienza sembrano proprio morire quando si arresta il cervello.

"Così" mi dice il Dalai Lama "la scienza contem�poranea sembrerebbe invertire le antiche certezze, che stabilivano la materia deperibile e l'anima im �mortale?"

"A dire il vero, con prudenza. Se alcuni scienziati si esprimono in modo radicale, altri preferiscono par�lare della propria incertezza e persino della propria ignoranza. Alla domanda: che cosa diventa lo spirito dopo la morte?, rispondono generalmente: non lo sappiamo."

"Che è " mi dice " un atteggiamento scientifico."

"Dicono esattamente: perdiamo le tracce dello spirito, non lo vediamo più , non possiamo più dire che sopravviva al cervello."

"Ma un giorno, forse, sapranno?"

"Lo sperano. Ad ogni modo, perseverano nella ricerca. Dicono di essere solo all'inizio."

"I buddhisti saranno sempre pronti ad ascoltarli."

"E a cambiare parere?"

"Perché no?"

Gli domando allora:

"È detto sovente, nelle scritture buddhiste, che la mano non può afferrare la mano, che l'occhio non può vedere l'occhio. Può forse lo spirito studia�re se stesso?".

"È una domanda difficile."

Riflette a lungo prima di rispondere:

"Forse che lo spirito può solamente vedere lo spi�rito? Dobbiamo rispondere sì e no. No, perché lo spirito non può essere contemporaneamente sog�getto e oggetto. Ne abbiamo già parlato. Credo che su questo punto, in Oriente e in Occidente, si sia più o meno d'accordo. Lo spirito interviene, che lo voglia o no, che lo sappia o no, in tutto ciò che osser�va. A maggior ragione se si tratta di esso stesso. Ma lo spirito non può vedersi interamente. È assoluta �mente impossibile".

"Anche se uno spirito osserva un altro spirito?"

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"Anche in questo caso" risponde. "Lei allude al metodo occidentale, fatto di osservazione sistemati�ca e di esperienza. Beninteso, giunge a dei risultati, così come la psichiatria, la psicanalisi. Tutti questi approcci sono validi ma parziali."

"Sono come eserciti che ponessero l'assedio alla medesima roccaforte, con differenti macchine."

"Ma è sempre lo spirito che osserva lo spirito. E che vuole osservarlo nella sua totalità. Noi, invece, pensiamo che sia meglio partire dall'interno della roccaforte. E procedere gradualmente da zone dif�ferenti."

"Da differenti livelli?"

"Proprio. E questa tecnica è in parte possibile. Per esempio, oggi il mio spirito può ricordarsi del mio spirito di ieri, dei suoi pensieri, dei suoi interro�gativi, delle sue convinzioni. In altre parole, in una certa misura, posso vedere, posso leggere lo stato nel quale il mio spirito si trovava ieri. È un inizio che può condurmi molto lontano."

"Cioè?"

"Il buddhismo, nel corso della sua storia, è giun �to a distinguere diverse centinaia di migliaia, credo, di operazioni dello spirito."

Non è molto sicuro di questa stima e chiede a Lhakdor di confermarla, ed egli lo fa.

Gli domando, stupito da questa cifra:

"Nessuno può pretendere di conoscere tutte queste operazioni. Non basterebbe una vita! ".

"Molte vite non basterebbero. Ma anche qui so�no possibili più livelli di lavoro."

Gli ripeto che questa impresa immensa, propria del buddhismo, mi pare unica nella storia del pen�siero. Qualche cosa, mi sembra, ci manca: la tran �quilla osservazione dello spirito in quanto tale. Non troviamo quasi nulla di simile, per esempio, nella sto�ria del cristianesimo, ove mai lo spirito umano si pone come oggetto di studio. Tutt'al più posso citare al Da �lai Lama san Tommaso d'Aquino, che a lungo studiò l'intelletto agente, distinguendo nell'intelligenza due funzioni, una attiva e l'altra passiva, e gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola in cui lo spirito si assog�getta a una disciplina su se stesso, secondo un metodo preciso, per raggiungere una superiore devozione.

"Le ragioni sono molte" mi dice. "Anzitutto l'im �portanza che voi date alla fede e al Dio creatore. Quando la fede ci coglie, quando ci è dato un "cre�do", non c'è più ragione di esaminare lo spirito."

"In compenso, quando è il solo padrone a bor�do, quando tutto dipende dalla sua unica esperien�za, diventa indispensabile conoscerlo."

"Assolutamente indispensabile. Nell'ipotesi (che non è la nostra) di un dio creatore, giudice perma �nente dei nostri atti, il ruolo dello spirito necessaria�mente perde d'importanza. Dobbiamo cacciare o�gni specie di dubbio e di interrogativo. La fede ci viene direttamente da Dio e la fede ci conduce diret�tamente alla compassione, o se preferisce, a un atteggiamento morale. Inutile allora cercare di approfondire questo sentimento di compassione, inutile perdersi in complicazioni inutili."

"E anche pericolose per la fede."

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"Naturalmente. Ogni riflessione è pericolosa per la fede."

"E ogni fede è pericolosa per lo spirito, che si vede condannato alla pigrizia."

I neurologi parlano sovente dell'aspetto riduttivo del nostro cervello, sempre pronto a lasciarsi sedurre da una soluzione facile e il più delle volte erronea il che non gli impedisce di aggrapparvisi. La tradi�zione buddhista ci dice esattamente la stessa cosa, con altre parole. E il Dalai Lama deve ammettere che questa tradizione, in numerose occasioni, non sfugge alla dittatura automatica di un catechismo, di un formalismo ripetitivo ove lo spirito, anche qui, talvolta si assopisce, accontentandosi di poco.

"Tuttavia" mi dice "il Buddha ci ha dato l'esem�pio migliore. Noi lo riteniamo oggi un essere supe �riore, giunto al più alto grado possibile della coscienza e dell'esistenza. Ma all'inizio, prima del suo risveglio e dei quarantacinque anni di predicazione, era un uomo come tutti gli altri. Grazie al suo sforzo, alla sua rigorosa applicazione, è diventato il Buddha."

Ricordiamo per un momento gli anni di ricerca e di solitudine del principe Siddharta. Dopo la sua partenza notturna dalla città di Kapilavastu notte magica, in cui tutto il palazzo dormiva e, narra la leggenda, gli dèi tenevano alti gli zoccoli del suo cavallo Kanthaka, per evitare il minimo rumore decise dapprima di condurre una vita errabonda. Aveva ventinove anni. Tagliò i lunghi capelli, scam�biò la veste con un povero cacciatore, allontanò l'au�riga Chandaka. Poi, mendicando il proprio riso, si mise alla ricerca di un maestro.Seguì dapprima l'insegnamento dello stimato Aruda Kalama, poi di Rudraka Ramaputra.Giunse a eguagliare facilmente questi due maestri, ma senza raggiungere ciò che cercava. Colpito dalle pratiche di rinuncia degli a �sceti che incontrava, decise di prendere questa via.

La seguì rigorosamente per sei anni, in una regione deserta, giungendo a una debolezza estrema.

In punto di morte, non era giunto alla libera�zione. Ritornò nel mondo, riprese a mangiare in modo leggero una volta al giorno, e ricevette infine l'illuminazione. Ma non la ricevette una volta per tutte. Ogni giorno la sua nuova scienza veniva di�scussa, rimessa in questione, principalmente da lui stesso. La leggenda mostra Mara, il potente demo�ne, che torna senza sosta alla carica per distogliere Sakyamuni dalla sua opera. Abbiamo anche seguito la traccia delle divisioni fra i suoi discepoli, e anche la ribellione di uno di loro chiamato Devadatta, che voleva assassinare il Risvegliato per prendere il suo posto a capo della nascente comunità.

"Durante questi quarantacinque anni" aggiunge il mio interlocutore "egli non ha smesso di interro �garsi, di mettere in guardia i discepoli, di precisare la propria dottrina, di prevenire una divinizzazione che intuiva (e che gli induisti proclamarono in effet�ti, assimilando Sakyamuni alla nona incarnazione di Vishnu). Ciò significa che fino al momento della sua entrata nel nirvana il suo spirito, prodigiosamente sviluppato, non ha cessato di lavorare, di osservarsi, di elevarsi a una estrema finezza. Che dire allora del lavoro da compiere sul nostro spirito?"

"Che cosa è il nirvana?"

La parola è già tornata a più riprese nelle nostre conversazioni. So, per averlo letto qua e là, che non si tratta né di un paradiso così come noi lo concepia�mo, né della cessazione completa di ogni vita, di una sorta di scomparsa nell'ipotetico Grande Tutto. So anche che i primi commentatori occidentali del bud�dhismo, soprattutto se cristiani, hanno parlato di un "abisso di ateismo e di nichilismo" (Dahlmann),

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di un "annientamento" (Burnouf) e, semplicemente, di "nulla" (Schopenhauer). Secondo Rhys Davids, esecondo altri, si tratta di uno stato al quale è impos�sibile giungere in questa vita.

Per il fatto stesso che colui che è penetrato nel nirvana si trova nell'impossibilità di descriverlo, il nirvana resta un enigma. Per lo più i commentatori buddhisti parlano di un'uscita fuori dal ciclo fatidi�co delle rinascite, di un passaggio a un altro modo di vivere, senza condizionamento, senza divenire, sen�za scomparsa, finalmente liberato dalla legge della caducità, del cambiamento. Sovente riconoscono l'im�potenza delle parole a esprimere quello che per de�finizione sfugge all'espressione: un'esperienza oltre l'umano. Come ha scritto Walpola Rahula: "Il voca�bolario di un pesce non potrebbe contenere termi �ni che esprimano la natura della terraferma".

Lo stesso autore, nello stesso libro, fa notare che il nirvana si definisce generalmente in senso negati�vo (assenza o cessazione di questo o quel fenome�no), senza che esso stesso sia né positivo né negati�vo, perché sfugge a questi due concetti. Va anche al di là della concatenazione, pur così fermamente ar�ticolata nel buddhismo, della causa e dell'effetto. Non è prodotto da nulla, esso è, come la verità suprema.

"D'altra parte" mi dice il Dalai Lama "il Buddha non ha affatto parlato del nirvana Sì, ha indicato una liberazione dal ciclo delle rinascite (cosa che, fra parentesi, rende il concetto comprensibile a un occidentale solo se ammette come un fatto la conca �tenazione delle trasmigrazioni, il samsara), ma le sue indicazioni si arrestano qui. Da cui una molteplicità di interpretazioni. Lei mi domanda che cosa sia il nirvana. Le rispondo: una certa qualità dello spirito."

"Come raggiungere questa qualità?"

"La natura umana è contaminata. Il rapporto che stabiliamo quotidianamente con ciò che chiamiamorealtà è falso. Dobbiamo sempre tornare su questo punto. Che questa relazione sia fondamentalmente erronea, che si fondi su una illusione, è un fatto che non possiamo ammettere se non usciamo proprio da questa illusione."

"È tipico di un'illusione essere scambiata per realtà."

"Esattamente. E che sia possibile uscire da que�sta illusione ce lo provano numerosi esempi, a co�minciare da quello di Sakyamuni. La contaminazio �ne dev'essere cacciata dal nostro spirito, e può esser�lo, lo sappiamo. A partire da questa purificazione, da questo risveglio, il nostro spirito può raggiungere questa somma qualità che chiamo nirvana."

"Per ottenere ciò, non è dunque necessario mo �rire?"

"Assolutamente no. D'altronde, ogni nostra tra�dizione afferma che questa somma qualità dello spi�rito non è toccata dalla morte. Numerosi sono i sag �gi che hanno raggiunto il nirvana in questa vita."

"Dall'inizio dei nostri colloqui" gli dico "sono soprattutto affascinato da questa costante fiducia nello spirito. Si direbbe che nulla possa alterarla e che lo spirito, capace del bene e del male, tenga nelle sue mani il proprio destino e in tal modo anche il desti�no del mondo, al quale è intimamente legato."

"Ma questo legame, per stretto che sia, non ren�de lo spirito prigioniero del mondo o, se vuole, del �la materia. Con un adeguato sforzo può liberarsi, destarsi e sopravvivere."

Come liberarsi? Il nucleo centrale del metodo buddhista è la meditazione. Dev'esse

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re lunga e quo�tidiana, e molte opere la descrivono. Il mio interlo�cutore mi assicura che le prescrizioni fisiche, sulla posizione o sul ritmo del respiro, sono secondarie.

"Dunque lo yoga non è utile?"

"Dipende dagli individui. Così risponde sovente il buddhismo. Per taluni lo yoga è un esercizio diffi �cile, doloroso, che non aiuta per nulla il lavoro dello spirito. Per altri è un metodo più facile, più natura�le, che può contribuire al loro benessere generale. Ma (e qui egli insiste) lo strumento principale per puri �ficare lo spirito è lo spirito. "

Continua, usando talvolta il termine strumento (tool), talvolta il termine arma (weapon). Ricorda la scuola Cittamatra, detta dello "Spirito solo", che egli mette talvolta in relazione con la meccanica quanti�stica. Coglie l'occasione per ricordare che il Buddha è detto "onnisciente", il che implica obbligatoriamen�te che ci sia qualcosa da sapere.

Poi torna alla prima necessità, che è quella del desiderio. Questo desiderio di risveglio mette all'o �pera la volontà, che è una facoltà dello spirito. A dire il vero, tutta la vita quotidiana, che è una co�stante produzione di rapporti soggetto oggetti, è re�golata dal lavoro dello spirito.

"Se vi prestiamo attenzione," aggiunge "se po �niamo mente alle operazioni del nostro spirito, non possiamo che stupirci scoprendone l'importanza. È al centro di tutto."

"Lei ha detto che dev'essere il nostro poliziotto personale."

"È il nostro giudice, esattamente. E ne ha tutti i mezzi. Il buddhismo afferma che l'uomo è padrone di se stesso, in ogni caso che ha la possibilità di di�ventarlo. È la base stessa della filosofia buddhista, e noi abbiamo sottoposto all'esperienza un gran nu �mero di tecniche per giungere a tale padronanza."

"Che è opera dello spirito?"

"E di chi altro? Lo spirito è il proprio creatore, a ogni istante. Da qui la sua responsabilità, che è es�senziale."Se lo spirito riconosce di essere il proprio crea �tore, e mette in pratica tale potere, devo supporre che il nostro atteggiamento verso gli altri cambi su�bito completamente?" Mi guarda e risponde con gravità: "Questo è il fine. L'unico fine".

6FRA L'ESILIO E IL REGNO

Parliamo ora dell'esilio. Proprio qui, a McLeod Ganj, villaggio tibetano di facciata, maschera posta sulla montagna.

"Mi sembra" dico al mio ospite "che il XX secolo sia stato quello dell'esilio. Lo si è sovente caratteriz �zato in altro modo, con le guerre totali, gli olocausti, con il progresso tecnico che naturalmente abbiamo ricordato. Ma si dimentica sovente l'esilio, volontario o forzato, di decine di milioni di individui, in quarante�na a Ellis Island prima di popolare gli Stati Uniti, solda�ti coloniali arruolati per forza, lavoratori immigrati ri�chiesti dall'Europa, che oggi li rifiuta, popolazioni esu�li come i nostri "Pieds noirs" di Algeria, "boat people" e molti altri. Nessun secolo mai strappò tante radici.

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"Non ci avevo pensato, ma è senz'altro vero."

"Sappiamo tuttavia che esiste un legame profon�do fra un popolo e la sua terra e che questo legame è all'origine di mille usanze, comportamenti e an�che credenze."

"Sì, certo."

"Per diverse ragioni, abbiamo incominciato a tron �care questo legame qua e là. Lei stesso vive in esilio da trentacinque anni. I cinesi hanno invaso il Tibet nel 1950, quando lei aveva quindici anni. Per nove anni, come ha raccontato nel suo libro [nota: la libertà dell'esilio, cit.], ha cercatodi resistere, di trattare, ha incontrato Mao Tse tung, Chu En lai, si è appellato ad altre potenze, tutto questo invano. La Cina non cessava di far pesare un'oppres�sione sempre più dura, che andava dal massacro alla colonizzazione. Ha preso allora la decisione di la�sciare il suo paese, il suo popolo, per continuare all'estero la sua battaglia, secondo i suoi metodi."

"Esatto."

"La mia domanda è semplice: l'esilio l'ha aiuta�ta? Vi ha trovato una forza?"

"Oh, sì! Senza dubbio. Posso cercare di spiegarle perché. Quando, a un certo punto della nostra vita, incontriamo la vera tragedia e questo può capitare a ciascuno di noi possiamo reagire in due modi. Possiamo evidentemente perdere la speranza, lasciarci scivolare nello scoraggiamento, nell'alcool, nella dro�ga, nella tristezza sconfinata Oppure svegliarci, sco�prire in noi stessi un energia nascosta e agire con più chiarezza, con più forza."

"Lei ha scelto il secondo modo?"

"Lo spero. Ho scoperto all'età di quindici anni la forza brutale della politica. Ho scoperto l'imperiali �smo spietato, il crudele desiderio di conquista, la cosiddetta legge delle armi. Nella mia gioventù, il comunismo ha esercitato su di me un certo fascino. Mi è anche parso che fosse possibile una sintesi fra comunismo e buddhismo. Mi sono allora scontrato con le incomprensibili contraddizioni della politica cinese, con la frenesia degli slogan, con il lavaggio di milioni di cervelli. Ho conosciuto tutto questo nella mia adolescenza e giovinezza. Dopo sono ve�nute le delusioni e infine la certezza che Mao non fosse altro che "il distruttore del Dharma"."

"Lei aveva solo diciannove anni, nel 1954, quan�do constatò che l'India, firmando un accordo con la Cina, si asteneva dal ridiscutere l'occupazione mili �tare del Tibet."

"Sì, un'altra delusione. Diplomatica, questa. Igno�ravo tutto del gioco diplomatico. Ho conosciuto nel�la stessa epoca i primi attacchi portati dai cinesi con �tro la religione tibetana, accusata di arcaismo e di barbarie. Attacchi talvolta perfidamente indiretti, co�me le campagne di sterminio rivolte contro gli inset�ti e i ratti, mentre il buddhismo proibisce di uccide �re gli animali."

"E anche la brutalità, le esecuzioni per delitti po�litici?"

"Sì, i provvedimenti oppressivi, e atrocità di ogni sorta, che rendevano impossibile una collaborazio �ne. Conventi distrutti, opere d'arte messe a sacco, crocifissioni, vivisezioni, smembramenti, viscere e lin�gue strappate. Abbiamo conosciuto tutti questi orro �ri, sulla nostra terra. Nel 1959, in pieno smarrimen�to, seguendo infine il consiglio di un oracolo che a più riprese mi aveva consigliato di partire, mi sono deciso per l'esilio."

"Trentacinque anni dopo, questo esilio perdura."

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"Un aspetto positivo della situazione dell'esule" mi dice "è che si guarda il proprio paese con occhi diversi. Così, a proposito del Tibet, tutto il rituale che aveva circondato la mia giovinezza ha perso molta della sua importanza. Dal primo all'ultimo giorno dell'anno, era un'unica serie di cerimonie, perfetta �mente regolate, che tutti prendevano molto sul se�rio. Questo formalismo regolava nei minimi dettagli la vita di ogni giorno. Bisognava rispettarlo anche parlando, anche camminando."

"L'esilio ha cancellato l'importanza del rituale?"

"Sicuramente. L'aspetto solenne mi tocca molto meno. È inevitabile. La fuga e tutto quello che è seguito, la nostra lotta paziente per farci riconosce�re da altre nazioni, tutti i miei viaggi, tutti gli inter�venti mi hanno avvicinato alla realtà. Bisogna dire anche che l'esilio mi ha permesso di scoprire il restodel mondo, di incontrare altri popoli, di conoscere altre tradizioni. Nulla di più utile. L'India ci ha ac�colti. Il nostro insediamento in un paese libero ha facilitato questi incontri, che negli anni Cinquanta erano difficili in Tibet."

"L'India, per i buddhisti, è la terra santa?"

"È Aryabhami, sì, la terra ove il Buddha Sakyamuni è nato per l'ultima volta, la terra dove ha cono �sciuto l'illuminazione, dove ha predicato. Abbiamo numerosi centri in India e ogni anno torno con viva emozione a Bodh Gaya, nel luogo in cui egli conob�be il risveglio."

"Questo esilio di trentacinque anni ha creato, o sviluppato, un sentimento nuovo fra i tibetani?"

"Sì, senza dubbio. Una vera "tibetudine". È nata da questo passaggio difficile nella lunga storia del Tibet. Secoli e secoli di radicamento possono far di�menticare questo sentimento. I legami con la terra sembrano scontati, intoccabili. Poi sopraggiunge qual �cosa che rimette in discussione questi legami. Si sco�pre una brutalità cinica, l'uso schiacciante della for�za, la propria fragilità. Si parte, infine, si vede il pro�prio paese da lontano, occupato, devastato, e tutta �via ci si rende conto che non è scomparso, che sussi�ste in noi, e che noi ci sentiamo sempre tibetani. Allora ci si comincia a chiedere: cosa significa essere tibetano?"

"Di qui, senza dubbio, tutti questi sforzi per apri�re scuole, per mantenere la lingua tibetana, la musi �ca, il canto, la danza?""Abbiamo creato un'università dove tutto l'inse�gnamento viene impartito in tibetano, anche nelle discipline scientifiche."

"Questo ha sviluppato la lingua?"

"Inevitabilmente. E ha rafforzato la nostra coe�sione. Abbiamo qualcosa da difendere."

A questi sforzi si aggiungono pubblicazioni lette �rarie, sostenute da riviste pubblicate a Dharamsala, come "Jang Chon" (Nuovi germogli) e "Arte e lette�ratura tibetana". Dopo il 1959, la polizia cinese ha perseguitato, in Tibet, questa nuova letteratura, considerata come reazionaria. Ogni opera per la pubblicazione necessitava di autorizzazione, molto difficilmente accordata dalle cellule del partito.

Pioniere di questa letteratura, il romanziere Thon�dup Gyal si è suicidato nel 1985. Era fra coloro che criticavano, abbastanza amaramente, le credenze e le tradizioni tibetane, responsabili ai suoi occhi del�l'asservimento di oggi. Questo mi porta a domanda�re al Dalai Lama:

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"A proposito del Tibet, lei non ha ricordato, in parecchi suoi libri, un karma collettivo?".

"Questo fa intimamente parte del nostro inse�gnamento classico. Quel che vale per un individuo che sentirà in una delle sue esistenze gli effetti, favo�revoli o no, del proprio karma - vale per i gruppi, per una famiglia ad esempio, e anche per una nazione, per un popolo."

"Il Tibet aveva dunque qualcosa da "pagare"? Que �sta punizione era inevitabile?"

"È possibile chiederselo. Da molto tempo il Ti�bet si è tagliato fuori dal mondo, ha rifiutato ogni cambiamento, ogni influsso. Ha voluto credere di essere il solo a possedere la verità, e di poter vivere nell'isolamento."

"Ma il mondo si è fatto ricordare da lui."

"Molto duramente. E ci domandiamo in effetti se il nostro karma collettivo non ci abbia portati a questo scontro, rivelatosi un disastro."

"Si tratterebbe di una forma sottile di responsa�bilità collettiva?"

"Forse."

"Oggi, lo crede ancora?"

"Come sempre, nel buddhismo, bisogna distin�guere le cause e le condizioni. Le cause principali dell'aggressione, di tante disgrazie e sofferenze, so�no da ricercarsi nelle vite anteriori e non necessaria �mente nei tibetani."

"Presso altri popoli?"

"Forse anche in altre stelle, altre galassie. Tutto è unito al tutto. Nessun evento può essere considerato come isolato, senza rapporto con gli altri. Ne abbia �mo già parlato. Altri esseri sensibili e responsabili, grazie al loro comportamento, hanno potuto creare un karma negativo il cui effetto si è fatto sentire in quel momento. Questa catena illimitata di cause e di effetti è quasi impossibile da chiarire, ma esiste. Tutti i nostri atti hanno un peso. Questo peso si farà sentire, un giorno o l'altro, qui o là, individualmen�te o collettivamente. A maggior ragione rispettiamo la via del Dharma."

Così, indirettamente, il buddhismo ritrova quel sentimento di solidarietà universale che l'induismo già affermava. Questo concetto di dharma, caratteri�stico dell'India ma che si è diffuso in una grande parte dell'Asia - è senza dubbio uno dei punti che separano più radicalmente Occidente e Oriente. La posizione dell'individuo, del suo status, dei suoi di �ritti, e di conseguenza l'affermata esistenza del suo io, frutto di un concorso particolare di circostanze che dobbiamo conoscere e che possiamo modifica�re, e anche curare, questo individualismo esiste già nella tradizione cristiana. Si è anche sostenuto che questa affermazione dell'individuo (esasperato dal �la competizione del mondo d'oggi) si basi su una frase di Cristo, rivolta a un futuro apostolo: "Tu sei Pietro...".

È Pietro, non è Paolo, non è più una parte infi�ma del Grande Tutto, necessariamente legata a tutte le altre parti. Il suo destino sarà individuale, limitato nel tempo e nello spazio, e presto posto nelle suemani. Anche la salvezza eterna è una questione indi�viduale. L'idea di un popolo intero destinato ad es�sere condannato alla gehenna o chiamato al paradi �so è abbastanza estranea al cristianesimo. Non se ne trovano echi se non in alcune eresie. L'individuo ha sempre la possibilità di incontrare la verità e di "for �giare la propria salvezza", o di scegliere l'inferno. Le leggi repubblicane non hanno fatto altro che con�fermare la nostra capacità di scelta.

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Qui, a Dharamsala, malgrado l'immenso sforzo richiesto all'individuo perché penetri, attraverso la meditazione, in se stesso, alla ricerca di questa pace interiore senza la quale ogni azione è vana, nessuno dimentica di essere solo una sostanza instabile, con�tinuamente disfatta e ricomposta, senza un'esisten �za individuale indipendente, e perciò in relazione con tutto il resto del mondo.

"E le condizioni?"

"Per quanto riguarda le condizioni," mi dice "i tibetani stessi sono certamente responsabili."

"Per cecità?"

"Senza dubbio. Per ignoranza del resto del mon�do, della Cina, dell'India, delle tensioni politiche, degli sconvolgimenti portati dalla seconda guerra mondiale. Molti tibetani pensavano che il nostro fosse un paese straordinario, che sfuggisse alle leggi comuni, e anche al trascorrere del tempo."

"A causa del buddhismo?"

"Sì, in parte a causa del Buddhadharma. Il fatto che un intero popolo seguisse la giusta legge, e com�pisse fedelmente i riti, doveva necessariamente co �stituire una protezione per questo stesso popolo."

"Tutti gli abitanti del Tibet condividevano que�sto sentimento?"

"Tutti no. Un gran numero. E fra loro, alcuni alti dignitari, responsabili della difesa del paese, che cre �devano in protettori invisibili."

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"Contro aggressori ben visibili."

"Si trattava di un'aberrazione, di un accecamen�to completo di fronte al destino. All'epoca dell'inva�sione cinese nel 1950, quando la giovane armata co �munista ha attraversato le nostre frontiere, questi alti dignitari hanno affidato la nostra difesa alle no�stre divinità. Un personaggio ufficiale, oggi defun�to, mi assicurò che non avremmo dovuto preoccu�parci minimamente. I nostri dèi ci avrebbero protet�to dai cinesi."

"Lei aveva quindici anni."

"E tutto mi portava a credere a quel che mi si diceva: la mia infanzia, il fatto che fossi stato scelto, la mia meticolosa educazione, la mia vita al Potala, l'incenso che accompagnava le mie passeggiate. I miei occhi si sono aperti molto in fretta, ma s'im �magini! nel mezzo del XX secolo, preghiere contro cannoni?"

Questo ricordo non lo fa sorridere. Ritorna an�cora una volta sull'accecamento dei responsabili. Dice allora, cosa che mi sorprende un poco:

"Il governo confidava negli dèi, ma dall'altro la �to ignorava le profezie e gli oracoli".

"I responsabili non volevano ascoltare?"

"I responsabili non erano responsabili."

Mi rammento del ruolo importante che giocano, nella tradizione tibetana, ancora oggi, gli oracoli, le profezie, le visioni e i sogni premonitori. Il Dalai Lama stesso parla sovente degli oracoli del Tibet. Questi oracoli sono monaci, medium che hanno ri�cevuto una preparazione particolare. Delle divinità possono incarnarsi nei loro corpi, trasformare il lo�ro viso e la loro voce in una sorta di trance, e parlare per bocca loro. In stato di trance, il loro viso si fa rosso, gli occhi si iniettano di sangue, la lingua di�venta grossa e pendente. In quel momento sono posseduti da una forza straordinaria che permetteloro di piegare spade. Le parole smozzicate che pro�nunciano vengono raccolte e interpretate da altri monaci.

Il più celebre è l'oracolo di Nechung, che incar �na il dio Pehar. Il governo tibetano se ne serve, per così dire, ufficialmente.

Il Dalai Lama non sembra mettere in dubbio la verità di questa tradizione, né di altri segni che giun�gono da altri luoghi, come ad esempio una statua che cambia posizione. Egli scrive che dopo la morte dei grandi lama, le loro ossa si fondono e che è pos�sibile allora scorgervi delle immagini, o leggervi del�le lettere che indicano la divinità protettrice dello scomparso. In un pensiero che si considera rigoro �so, e che si sforza di non affermare nulla che non sia un fatto che giunge dall'esperienza, si insinua così quella che chiamiamo la dimensione magica, o sovrannaturale. Impossibile, e d'altra parte assurdo, fare una distinzione. Dall'analisi più approfondita alla credenza più ingenua, tutto appartiene alla stes�sa struttura, e ogni fibra della dottrina rischiara nel contempo tutte le altre.

Riprende la parola:

"Non tutti i tibetani, tuttavia, vivono nella stessa illusione. Il mio predecessore, Thupten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, quando morì nel 1933, an �nunciò chiaramente nel suo testamento che un ter�ribile pericolo sarebbe venuto un giorno dal comu �nismo. Comprendendo già che non avremmo potu�to in alcun modo resistere fisicamente ai nostri grandi vicini, la Cina e l'India, e che bisognava usare un'ac �corta diplomazia, si rivolse ai nostri vicini più picco�li, il Nepal e il Bhutan".

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"Per fare loro quale proposta?"

"Una sorta di difesa comune: arruolare un eser�cito, addestrarlo al meglio."

Sorride aggiungendo:"Cosa che, fra noi, non è una pratica rigorosa di non violenza".

"Come reagirono il Nepal e il Bhutan?"

"Non reagirono. Ignorarono semplicemente que�sta proposta. Ora vedo tutta la portata del presenti�mento del mio predecessore. Ad esempio, voleva por �tare a Lhasa giovani della regione del Kham, all'est regione dura, poco popolata, vicina alla Cina e conferire loro il rango di veri tibetani, con un adde�stramento militare completo. Politicamente, signifi�cava vedere molto lontano. Già avanzava l'idea per cui la difesa di una terra debba essere garantita da coloro che occupano questa terra."

"Bisogna dunque dare loro armi?"

"È quello che diceva. Quest'uomo avvertiva con grande sensibilità il movimento del mondo intorno a lui. Voleva seguire il cambiamento, non lasciare il proprio paese indietro, o da parte."

"Se questa sua intenzione si fosse concretizzata, vent'anni più tardi il Tibet avrebbe potuto resiste �re?"

"Ne sono convinto. Ma non fu ascoltato. I digni�tari non seguivano i suoi ordini. Ecco quelle che chiamiamo le condizioni del karma collettivo, si po�trebbe anche dire le circostanze. Perché, nella con �cezione buddhista dell'azione, nessun evento può essere isolato, non può darsi senza una concatena�zione di cause, di condizioni e di conseguenze, noi ricerchiamo ostinatamente le condizioni, più facili a scoprirsi delle cause, sovente molto lontane dall'e�vento."

Continuiamo a parlare del Tibet.

Nel 1961 il Dalai Lama - diventato, come dice lui, un "politico suo malgrado" propose una costi �tuzione, che venne accettata. Da allora, non ha ces�sato di presentare e difendere la causa del proprio paese, del proprio popolo.Dapprima ha informato. Abbiamo saputo così del�lo sterminio di più di un milione di tibetani (su sei), di misure repressive d'ogni sorta, trasferimenti di popolazioni, espropri, prigionia in campi di concen �tramento, applicazione brutale della politica di limi�tazione delle nascite e sterilizzazione forzata delle donne. A questo si aggiungono il diboscamento, l'u�tilizzazione del territorio tibetano come deposito di rifiuti nucleari e soprattutto una sistematica coloniz�zazione cinese. La tecnica oggi diventa più raffinata: mentre i giovani cinesi, dopo tre anni di servizio militare, devono tornare nelle loro province d'origi�ne, coloro che sono stati inviati in Tibet hanno l'ob�bligo di restarvi. Si stima oggi a quasi nove milioni la popolazione cinese in Tibet: i tibetani sono ora dun�que in minoranza nel proprio paese. La "razza" tibe �tana è minacciata di estinzione.

Negli anni Sessanta le Nazioni Unite votarono nei confronti del Tibet diverse risoluzioni che resta�rono lettera morta. Tuttavia, a poco a poco, l'inte �resse del mondo si destava. Nel 1985, novantuno membri del Congresso americano firmarono una let�tera di appoggio, indirizzata al presidente dell'As�semblea del popolo, a Pechino. Nel 1987 il Dalai Lama stesso fu invitato a parlare a Washington, al Comitato per i diritti dell'uomo. Cosciente di quan �to fosse irrealistico esigere oggi una pura e semplice indipendenza del Tibet, propose un "piano di pace in cinque punti".

Questo piano prevedeva la trasformazione del Ti�bet in una zona di pace, l'abbando

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no da parte della Cina della sua politica di colonizzazione, il rispetto delle libertà democratiche e dei diritti umani fonda �mentali per il popolo tibetano, il recupero e la pro�tezione dell'ambiente (tramite l'abbandono, anzitut �to, di ogni attività nucleare) e l'apertura, infine, di seri negoziati per il futuro status del Tibet.Nel 1988, al Parlamento europeo a Strasburgo, egli sviluppò e precisò questi cinque punti. Propose, in particolare, di fare del Tibet una vasta zona smili�tarizzata e una sorta di parco naturale, il più grande del mondo, dove il recupero dell'ambiente sarebbe stato esemplare. Tutte le associazioni internazionali operanti per la difesa dei diritti dell'uomo avrebbe�ro la loro sede in questo territorio dell'ahinhsa, della non violenza. Separate da una vasta regione neutra �le, l'India e la Cina potrebbero ritirare le truppe che continuano a mantenere con grandi spese nelle re�gioni himalayane.

Nel 1989, l'attribuzione del premio Nobel per la pace sembrò rafforzare queste proposte.

"Molti scoprirono in questa occasione la questio�ne tibetana. Presero delle cartine, si domandarono: ma, dov'è il Tibet? e che cosa è successo con i cinesi?"

"Il premio Nobel ha potuto anche aiutarla pres�so i capi di stato?"

"Naturalmente. Alcuni mi hanno ricevuto uffi�cialmente, altri come il presidente Mitterrand a titolo personale. Sempre per motivi diplomatici. Co�munque, mi diventava più facile incontrare i re �sponsabili e parlare loro."

"Anche i responsabili cinesi?"

"Sì, anche presso i cinesi il premio Nobel ha gio �cato un ruolo positivo."

Tuttavia, nelle proposte del capo di Stato del Ti�bet in esilio, che costituiva intorno a sé un ministe�ro, che si organizzava, che raggruppava deputati, che apriva uffici in diverse capitali estere, i cinesi non vollero vedere che un intervento reazionario e un tentativo di "secessione". Malgrado il ripristino di un contatto ufficiale nel 1992, la situazione resta im�mutata. I cinesi continuano a trattare come "crimi �nali" e a incarcerare i tibetani che si mostrano fedeli alle proprie tradizioni e al Dalai Lama. Coloro che sidichiarano in favore della Cina vengono, al contra�rio, definiti "progressisti". L'esilio continua, manife�stazioni subito duramente represse (alcune hanno potuto persino essere filmate) scuotono di tanto in tanto Lhasa.

"E oggi? Si dice che la situazione sia più criti �ca che mai. È vero?"

Scrolla la testa in silenzio. I suoi assistenti accen�nano, come sola possibilità di un accordo, a una se�ria crisi nella stessa Cina. Ma nulla la fa presagire.

"Il Tibet è stato indipendente per secoli. Non lo è più . Dobbiamo guardare le cose realisticamente. Noi chiediamo un'autonomia, non sogniamo più un'indipendenza. Ma non vogliamo negoziare che sulla base di un reciproco rispetto. Le condizioni non sono più quelle del passato e siamo pronti a ispirarci alle parole di Deng Xiao Ping: "Un paese, due sistemi". Ma gli animi cinesi non vanno in que�sta direzione. Comunque, non in questo momento."

"Si dice che gli occupanti demoliscano i vecchi quartieri di Lhasa."

"Sì, col pretesto dell'insalubrità." [nota: Il 7 ottobre la Cina ha annunciato la costruzione di una ferrovia in direzione del Tibet, cosa che causerà un notevole aumento dell'im �migrazione cinese. D'altra parte, recentemente sono state proibite tutte le immagini del Dalai Lama, mentre il governo cinese esige il rientro nel Tibet di centinaia di bambini tibetani cresciuti in India (rientro obbligatorio, s

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otto pena di perdere il diritto di residenza). Il Dalai Lama progetta da parte sua di organizzare un referendum fra i tibetani, fuori e dentro il Tibet, sul futuro del paese.]

"Che cosa si può fare? La pressione interna�zionale può avere qualche effetto?"

"È essenziale. Non deve anzitutto indebolirsi per il fatto che i cinesi si mostrano talvolta sensibili. O�gni volta che prendo la parola in pubblico, ovunque io sia, vi sono cinesi in sala. Talvolta parlo persino con loro, e sanno essere molto gentili. Questo atteg �giamento indica chiaramente che seguono il mio o�perato, che si interessano a quello che dico, anche se nei loro giornali mi accusano di cose inimmagi�nabili."

"Di che cosa, per esempio?"

"Di ambizione personale, di spirito controrivolu�zionario, di voler restaurare una teocrazia. I classici rimproveri."

"Lei è ottimista?"

"Sì, perché la causa del Tibet è giusta. Ne sono certo. E anche perché la Cina non potrà tenersi e�ternamente a distanza dalla libertà."

Da un lato un vigile realismo, un rinnovato sfor�zo per adattarsi a questo mondo mutevole sforzo tanto più meritorio in quanto nell'antico Tibet, nel regno della caducità, per un paradosso abbastanza singolare, le cose sembrano per sempre immutabili. Dall'altro lato la permanenza di un sogno, di una sorta di terra ideale, oltre le catene dell'Himalaya, come il Shangrila di Orizzonti perduti, una terra mira�colosamente protetta dove gli spiriti di pace po�trebbero ritrovarsi. Una terra che potrebbe essere di esempio per il mondo intero, dove il buddhismo, liberato dall'antico formalismo, potrebbe trovare la sua vera funzione di sentinella e di esploratore.

Utopia? Non è detto. I sogni difficili fanno anche parte di noi stessi. Ci attraggono e ci aiutano. Non potendo condurci verso un paradiso ritrovato, pos�sono instillare un po' di Tibet in ciascuno di noi.

"È possibile conciliare la politica e l'ahimsa?"

"Sì, dovrebbe essere possibile. Perché no? Guar�diamo il nostro secolo: ha escogitato o sviluppato un ampio campionario di metodi per fare della violen �za la regola dei rapporti umani. Si va dalla guerra mondiale, con la distruzione di intere città, all'olo�causto, alla tortura istituzionalizzata, al terrorismocome forma di azione. Tutti questi metodi sono falli �ti, e falliranno sempre."

"Perché?"

"Perché sono superficiali. Cozzano contro il fon�do possente della nostra natura, che è fatta di bontà, di generosità. Prendiamo ancora l'esempio degli i �sraeliani, che hanno dato vita a quarant'anni di o�dio. Forzatamente, anche se da entrambe le parti gruppi estremisti continuano a esaltare e a mettere in pratica quest'odio sanguinoso e inutile, un gior�no o l'altro giungeranno alla pace. Favorire l'odio non porta a nient'altro che all'odio. La violenza è il peggiore degli arbitri. Il reciproco rispetto non può essere evitato."

Ritorno un istante al Mahabharata Alla fine del poema, il re Yudhisthira sale finalmente sul trono. È il figlio di Dharma, e di conseguenza (è un altro dei suoi nomi) "Dharmaraj". Per una volta, è Dharma lui stesso, il re. E il mondo si appresta a conoscere, sot �to la sua guida, trentasei anni di tranquillità, di pro�sperità.

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Ma questa guida perfetta non suppone alcun in �debolimento della vigilanza regia. Se Yudhisthira si presenta con il Dharma nella mano destra, nella sini�stra regge sempre un bastone. E pronto a servirse�ne. Il re c'è per questo.

"Naturalmente," mi dice il Dalai Lama "ma nel mondo di oggi l'autorità si deve esercitare nel nome della legge, sotto il controllo della costituzione. E questa autorità dev'essere anzitutto benevola. Non deve punire per il solo gusto di punire."

"Lei è contrario alla pena di morte?"

"Fermamente contrario. Il mio predecessore l'a�veva abolita in Tibet. Trovo incredibile che oggi con�tinui a essere presente in grandi paesi come la Cina e l'India. In nome della giustizia, si uccidono ancora degli esseri umani nel paese del Mahatma Gandhi!Proprio nella terra dove il Buddha ha lasciato il pro �prio insegnamento! La pena di morte è pura violen�za, una violenza barbara e inutile. È anche pericolo�sa, perché non può portare che ad altre violenze. Come ogni violenza."

"Bisogna dunque limitarsi alla prigione?"

"La pena capitale dovrebbe essere l'ergastolo, co�me da voi. E senza alcuna brutalità."

Improvvisamente si mette a parlare di cinema.

"Ho notato che nei film non si uccidono vera�mente gli animali. Li si addormenta con una iniezio�ne, perché sembrino morti. Tranne che nei film ci�nesi: qui li si uccide veramente, apertamente. Ho visto anche, nei film cinesi a carattere scientifico, dei ratti col cranio aperto. Orribile. E si mostra que �sto alla televisione!"

Vorrei dirgli che la morte vera, sullo schermo, non è prerogativa dei cineasti cinesi. Anche noi uc�cidiamo sullo schermo i maiali, i polli. Un bue viene squartato vivo in Apocalypse now. Conigli e pernici vengono uccisi in massa ne La regola del gioco, e in molti altri film. Mi ricordo anche una mula pugnala�ta a morte in un film spagnolo. Senza parlare degli insetti, degli uccelli, dei conigli, dei servizi scientifi�ci e dei documentari sulla pesca d'altura. A ben guar �dare, la morte, quella vera, è costantemente presente.

Questo spettacolo della morte, in Cina, ha un rapporto diretto con il mantenimento della pena di morte? È un problema che lo preoccupa. Sì, vi vede senza dubbio un legame.

Fa un altro esempio:

"I fedeli che vanno in pellegrinaggio alla Mecca devono sacrificare un animale. Ma almeno, questo sacrificio non viene fatto vedere!".

"Lo disapprova?"

"Rispetto una tradizione religiosa, ma non posso approvare questo spargimento di sangue."Ride di cuore e aggiunge:

"Attenzione! Non faccia di me un Salman Ru�shdie!".

"Nessun pericolo. Lei non è musulmano."

"Faccio grandi sforzi per raggiungere ovunque un'armonia. Milioni di atti di vio

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lenza distruggono a ogni istante quest'armonia. Perché aggiungerne altri? Perché praticare e mostrare la violenza quando non è inevitabile? L'uccisione di un animale è un at�tentato all'armonia universale. Mi fa davvero orrore."

"I cinesi indubbiamente non lo fanno per cru�deltà. Per loro è qualcosa di naturale, forse."

"Me lo domando. In questo momento, in Tibet, mi dicono che milioni di animali vengono uccisi dai cinesi per semplice divertimento. Cani, ad esempio. Si taglia loro una zampa, o una parte del corpo, op�pure si strappa loro la pelle e li si lascia così, finché muoiono. Ecco la mentalità che si diffonde."

"E che bisogna combattere?"

"Certamente. Come lei ricordava a proposito di Dharmaraj, occorre tenere sempre il bastone in una mano e usarlo se necessario. Sì, in un modo o nel�l'altro, c'è bisogno di un sistema di disciplina."

"Malgrado la bontà della nostra natura?"

"Questa bontà naturale fa così fatica a manife �starsi."

"È più semplice essere crudeli."

"Più semplice per alcuni, sì. Essere crudeli signi�fica arrestarsi lungo il cammino. E rinunciare, per un motivo o per l'altro, a penetrare fin nel profon�do di noi stessi. È restare attaccati alla nostra super�ficie irritata o esasperata."

"Significa porre la lotta su un terreno sbagliato."

"Esatto" mi dice. "Per questo credo che sia ne�cessario attribuire fin dall'infanzia il posto più im�portante all'educazione. Lo ripeto in continuazione. A questa educazione devono aggiungersi una praticadello spirito, sotto forma di meditazione e, se possi �bile, l'influsso rasserenante di una famiglia unita, di un matrimonio felice."

"È un bel sogno."

"Lo so bene. Tuttavia, quest'armonia esiste. La av�vertiamo chiaramente, talvolta. È scritta nel profondo di noi stessi. È la nostra tendenza originaria. Ci sono e ci saranno sempre dei malvagi, so anche questo."

"Da qui la presenza del bastone?"

"La meno brutale possibile."

Una bontà scritta nel profondo di noi stessi, una "gentilezza" di fondo e onnipotente, senza la quale tutto l'edificio buddhista diventa incomprensibile. Bontà che si estende a tutto l'universo, e che ci con�durrà un giorno al nirvana, ma una bontà fragile, poiché l'uccisione di un cane può sconvolgere l'or �dine del mondo. Bontà segreta, anche, che si na�sconde facilmente sotto l'arroganza, la brutalità e l'avidità, le maschere che portiamo più di frequente.

Il paradosso apparente a che pro questa insi�stenza sull'educazione, se è sufficiente confidare nella nostra natura? si risolve senza dubbio con questo pericolo che ci circonda, pericolo nato dall'illusio�ne in cui nasciamo, in cui viviamo. Il nostro persiste �re nella sventura trae radice, senza dubbio, da tale accecamento. Se questo cessa, o si verifica il risve�glio, tutto allora sembra in completa tranquillità, co�me se i nostri desideri fossero svaniti.

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Almeno, questo è quanto dice il buddhismo.

Dopo tutto, se le cause di questa "mentalità" pos �sono definirsi così (a causa della responsabilità col�lettiva e contemporaneamente delle perversioni in�dividuali), come precisare le condizioni? In altre pa�role, esistono circostanze particolari che favorisco �no queste crudeltà?Ricordiamo di nuovo, più rapidamente, la sovrappopolazione e la povertà, situazioni riconosciute, con�tro le quali la lotta è dura. Prendiamo in considera�zione il nazionalismo, vecchio spargitore di sangue, e il gusto del potere che s'impossessa presto di que�sto o quel gruppo di individui, spingendoli ad atti feroci.

Giungiamo ben presto a parlare della televisio �ne, di cui si era già discusso. Gli dico che negli Stati Uniti, da due o tre anni, si levano critiche molto sentite nei confronti dei ripetuti omicidi sul piccolo schermo. Queste critiche non sono nuove. Prima della televisione hanno preso di mira il cinema, il teatro, la pittura, la letteratura a dire il vero la maggioran �za delle forme d'espressione accusandole di forni�re un'immagine del mondo corrotta e sanguinosa, soprattutto agli occhi indifesi dei bambini, che a �vrebbero la tendenza a vedere in quel mondo il mon�do reale.

Al che i sostenitori della libertà di espressione replicano, con ottimi argomenti, che questa influen�za dannosa non è provata e che nessuna censura ha mai risolto un problema sociale. Ma vero è che un bambino americano, o europeo, assiste ogni giorno a sconcertanti valanghe di uccisioni. L'eroe televisi �vo trascorre la maggior parte del proprio tempo con un grosso revolver fra le mani a procurare morte ai suoi simili. A buon diritto ci si può interrogare. Ed inquietare.

Il Dalai Lama mi risponde per prima cosa:

"I governanti e i capi religiosi devono ammette�re, oggi, di non essere più i soli a esercitare un pote �re, e nemmeno una autorità".

"Intende parlare del potere dei media?"

"Certo. Quello della stampa è noto, analizzato da tempo. Quello della radio, e ancor più della tele�visione, occupa oggi un posto di primo piano."

"È un potere indiretto."

"Poco importa" mi dice "il modo in cui si eserci�ta. Diretto o indiretto, è un potere reale, che agisce su di noi, che modifica i nostri comportamenti, i nostri gusti e probabilmente il nostro pensiero. Co �me ogni autorità, non può essere applicato a caso, in qualche modo."

"Altrimenti, questo potere diventerebbe arbitra�rio."

"Evidentemente. Arbitrario e irresponsabile."

"Tuttavia " dico "vediamo entrare in funzione un po' ovunque canali radio e televisivi chiamati com�merciali dove il senso della responsabilità di cui lei parla sembra sensibilmente attenuato. Coloro che dirigono questi canali dicono: siamo delle imprese di spettacolo, di svago. Obbediamo a una logica di mercato, di concorrenza."

"In altre parole, questi dirigenti rifiutano di ricono �scere il fatto di esercitare un vero e proprio potere?"

"È l'essenza del loro discorso. Presentano il loro obiettivo come unicamente commerciale, con lo sco�po, come si dice, di "ottenere audience". In alcuni casi, i mezzi usati contano poco. E ogni preoccupa�zione morale viene deliberatamente messa d

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a parte."

"È un grave errore" afferma. "Coloro che dirigo�no questi canali, e coloro che li finanziano, esercita �no un potere, che lo vogliano o no. Questo potere conferisce loro una responsabilità, paragonabile al�la responsabilità religiosa o politica. Contribuiscono a modo loro alla costruzione e al mantenimento di una comunità umana. Il benessere di questa comu�nità dev'essere la loro prima preoccupazione."

"Su questo" dico "ho qualche dubbio."

"Ma il problema è stato posto! Da tempo ormai!"

"Si, un po' dovunque nel mondo i governi si in �terrogano, comitati di sorveglianza e di controllo sono posti all'opera, le leghe degli spettatori prote �stano, leggi successive si contraddicono. Di fatto, nes�suno ha ancora trovato la formula magica Forse per �ché nessuno, a livello decisionale, osa affrontare con franchezza il problema."

"Come vede questo problema?"

"Non sono in alcun modo" gli dico "sostenitore di un ordine morale, né di una vigile censura. Sono anzi contrario a tutto ciò. Ma vedendo, come lei, che i direttori dei programmi di un canale televisivo detengono oggi altrettanto potere reale, se non mag�giore, del governo in carica, mi capita di pormi del�le domande, come tutti, di fronte allo scatenarsi del �la volgarità e della violenza che la televisione ci of�fre. Mi ricordo un produttore cinematografico, qual�che anno fa. Usciva dalla proiezione di un film pro �dotto da un altro, una sorta di spaghetti western e, profondamente turbato, diceva: "Cosa volete fare do�po questo? Diciotto morti prima dei titoli di testa!"."

Il Dalai Lama scoppia a ridere e mi domanda:

"Li aveva contati?".

"Senz'altro."

"Era un film destinato alle sale cinematografi �che?"

"Tutti i film prima o poi arrivano in televisione. È proprio qui che trovano, e di gran lunga, il mag�gior numero di spettatori."

"Questi spettatori" mi dice "non hanno compiu �to lo sforzo di uscire, di scegliere un film. Restano in casa propria e guardano quello che si mostra loro."

"Sì. Il potere che si esercita su di loro è tanto più efficace quanto più è nascosto, quanto più si presen�ta persino sotto una forma distensiva, e sottoposta apparentemente alla loro discrezione."

"Capisco. Questo potere dice loro: avete ogni po �tere su di me."

"E non è vero."

"Che cosa la preoccupa di preciso?" mi domanda.

"Quello che preoccupa tutti. I bambini trascor�rono più ore davanti al televisore che in classe. Si dice che scoprano il mondo, ma questo mondo non è quello vero, non è che un'immagine del mondo."

"Ma non si può dire che le loro conoscenze sia�no più vaste?"

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"Sì. I bambini privati della televisione mostrano vere lacune, anche nell'attività scolastica."

"Ciò che la preoccupa, è la passività? Perché si può rispondere a un maestro, si può interromperlo e interrogarlo, si può persino contestarlo. Ma come parlare a un oggetto?"

"La televisione si è installata fra noi" gli dico "co �me un nuovo membro della famiglia, imperioso, se�ducente ed esigente. Anche se la moltiplicazione dei canali le fa perdere autorità, la rende banale, non possiamo più fare a meno di lei. E non soltanto la guardia �mo, ma il giorno dopo, in ufficio o in fabbrica, parlia�mo di quello che abbiamo visto la sera prima. Soprat�tutto a scuola. Questo diventa una sorta di circolo vi�zioso. Al punto che la televisione giunge a fare trasmis �sioni che non parlano d'altro che di televisione."

"E che dimenticano il mondo?"

"Che lo dimenticano o che lo falsano."

"Questo dipende dai programmi" mi dice. "I me �dia possono fornire un'immagine eccitante o, al con�trario, molto negativa, della terra. E suppongo che la gente, in effetti, finisca per vedere il mondo sotto questa falsa forma."

"Sì, l'immagine vince sulla realtà. La "rappresen �tazione" trionfa. Il mondo finisce per assomigliare a ciò che noi vediamo alla televisione."

"Se riceviamo una sovrabbondanza di immagini di violenza, finiamo per credere che il mondo sia così."

"Lo vediamo così."

"Di conseguenza siamo convinti che la natura u�mana sia aggressiva."

"Tutti lo dicono. Bisogna riconoscere che quel che veniamo a sapere degli avvenimenti reali, nei giornali, ad esempio, non può che confermare que �sto sentimento. Nessun giornalista sa che cosa sia una "buona notizia". Ogni giorno ci vengono pre�sentati solo attentati, incidenti, scontri, truffe, cata�strofi naturali. Si è saputo di telespettatori colpiti da depressioni nervose per eccesso di informazione. E i programmi che precedono o seguono questi tele �giornali non fanno che battere sullo stesso tasto."

Sorride allora per dirmi:

"Sì, ma è noto che i buoni sentimenti non susci�tano che noia e conducono piano piano al sonno. Talvolta, può essere buona cosa mostrare un crimine".

"In che senso?"

"Poiché abbiamo in noi una compassione natu�rale, e questa compassione deve manifestarsi, può essere bene destarla. Una violenza fatta su una per �sona innocente, ad esempio, può farci indignare, può scandalizzarci, e nel contempo aiutarci a scopri�re la nostra compassione."

"Tutto dipende dalla risposta del pubblico."

Sono un po' stupito di vederlo prendere le dife�se, da un punto di vista strettamente buddhista, di una certa forma di violenza pubblica. Poco prima denunciava al contrario la sofferenza e la morte ma �nifesta degli animali, come se fosse importante non far vedere. Ora, almeno per quanto riguarda la vio�lenza esercitata su esseri umani, sembra mitigare il proprio atteggiamento.

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Aggiunge:

"La televisione, grazie alla sua stessa violenza, può mantenerci in stato di allerta".

"Coloro che studiano l'influenza della televisio�ne hanno la tendenza a dire il contrario: che essa non fa che aggravare la nostra indifferenza."

"In che modo?""Perché tutto vi è presentato allo stesso livello di interesse. Ora, mi sembra, il nostro spirito, per esse�re colpito da un avvenimento e per ricordarsene a lungo, deve distinguerlo dagli altri."

"Sì", mi dice. "Nel bene o nel male."

"L'uniformità porta all'oblio. Per questo motivo alcuni osservatori definiscono la televisione una "mac �china dell'oblio". Perché essa mette tutto allo stesso livello. Anche la finzione e la realtà tendono sempre più a confondersi. E non soltanto per i bambini."

"Se la violenza porta alla compassione" mi rispon�de "è una buona cosa. Se l'accumulo di violenza porta all'indifferenza, è in effetti molto pericoloso."

"A ciò si aggiungono strane deviazioni del lin�guaggio. Come molta gente confonde vita spirituale e vita religiosa, così una grande parte del pubblico confonde violenza e azione. Un film d'azione è un film violento, un film con uccisioni di uomini. E con sesso in aggiunta, questo è ovvio. Come potrebbe il sesso, che d'altra parte è sempre più violento, desta�re la nostra compassione?"

Riflette un momento prima di rispondere:

"Non lo so. Come distinguere, nei media, ciò che, in fin dei conti, è buono o cattivo per l'armonia ge �nerale del mondo, francamente non lo so. Ma vedo chiaramente che il problema esiste".

"E che continuerà a esistere per molto tempo ancora."

Poco più tardi riprende:

"Questa tentazione dell'indifferenza, in cui en�trambi vediamo un pericolo, la sento talvolta in me stesso. Tempo fa, negli anni Sessanta o Settanta, quan �do mi raccontavano storie tristi e non mancavano, intorno a noi mi sentivo molto commosso, spesso piangevo. A poco a poco queste storie mi sono di �ventate familiari, la mia emozione si è placata e le mie lacrime si sono asciugate per l'abitudine".

"Questo capita a tutti."

"Nella mia giovinezza, quando vivevo a Lhasa, vedevo i macellai portare gli animali al mattatoio. Siccome ero molto sensibile alla sorte degli animali, e disponevo di un po' di denaro, acquistavo buoi e montoni per salvarli e poi rimetterli in libertà. Era però comunque un problema: dove portare questi superstiti?"

"E come proteggerli?"

"Avevo stabilito che, ogni volta che uno di questi animali rimessi in libertà moriva, si dovesse portare il suo corpo al Potala, per nutrire i cani. Altrimenti, chiunque avrebbe potuto ucciderli di nascosto, di�chiararli morti e mangiarli, o anche venderli."

"Non era un po' ingenuo? In ogni modo, i ma�cellai avrebbero ucciso un numero di a

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nimali neces�sari al consumo."

"Era senza dubbio abbastanza ingenuo, ma ave�vo allora dodici o tredici anni. Ciò che voglio dire, è che ho perso il sentimento che mi animava durante la giovinezza. Oggi, in India, vado in un luogo e nel�l'altro, vedo animali condannati a morte, migliaia e migliaia di polli, ad esempio, e mi dico talvolta: po�trei comprarne alcuni per salvarli, ma dove metter �li? Chi se ne occuperebbe?"

Aggiunge senza sorridere:

"Potrei certo recitare un mantra, dire una pre�ghiera. Cos'altro? Anche qui l'abitudine ha cambia�to il mio atteggiamento. D'altra parte è un punto centrale della nostra dottrina: raggiungere il non �attaccamento, ma senza cadere nell'indifferenza".

Parliamo allora di Aristotele.

In ogni discussione che ruoti intorno alla violen�za, Aristotele fa prima o poi la sua comparsa. Ma la teoria della catarsi teatrale non è familiare al miointerlocutore. Cerco di parlargliene, il più semplice�mente possibile. La catarsi, gli dico, è una purifica�zione. Per Aristotele, se la tragedia si ispira a senti�menti elevati (questa condizione è indispensabile) può, mostrando o raccontando azioni violente, provocare questa purificazione, liberare lo spettatore da alcune sue pulsioni aggressive e rimandarlo a casa sua più tranquillo, più corazzato per la vita.

Il Dalai Lama mi ascolta con attenzione e mi po�ne qualche domanda. Cerco di tracciare a grandi linee la storia della catarsi cosa che, per quanto mi risulta, non è mai stata fatta , di mostrare ad esem�pio come i nostri pensatori e autori classici, nel XVII secolo, hanno finito per diffidare, malgrado Aristo�tele, dello spettacolo della violenza sulla scena, pre �ferendo confinarla dietro le quinte e accontentarsi della sua narrazione.

Gli dico anche che quest'influenza positiva del�l'azione tragica, eventualmente violenta, riguarda solo il teatro. Ora, il teatro è sempre una finzione, non pretende di eguagliare la realtà stessa. Gli attori non muoiono veramente, lo sappiamo tutti. I morti alla fine dello spettacolo si alzano e vengono a salu �tare.

Al cinema, alla televisione, i rapporti sono rove �sciati. Si tratta qui di una sequenza concatenata di fotografie, e una fotografia ci mostra sempre qual�cosa che, in un certo momento, è esistito. Il cinema e la televisione sono così, per la tecnica stessa che utilizzano, espressioni realistiche, se non reali.

Il Dalai Lama, sempre attentissimo, sembra mol �to interessato da questa distinzione, che comprende immediatamente. Forse si continua ad applicare l'effetto della catarsi in una espressione realistica? Ad esempio, un giornale pieno di immagini di guerra, di fame e di regolamenti di conti fra gangster ci la�scia alla fine più calmi e fiduciosi in noi stessi?Si capisce come la discussione sia vivace e lunga. "Tutto dipende spesso" gli dico "dalle nostre convinzioni personali. Se siamo più ottimisti, aperti e portati all'azione, tendiamo all'indulgenza, ci rassi �curiamo, diciamo: è meglio che la violenza sia fuori di noi, che diventi spettacolo e che così le immagini ci liberino dai nostri stessi orrori. Se siamo più con�servatori, chiusi e attirati dalla stabilità delle istitu�zioni e dei sentimenti, ci ribelliamo, diciamo: tutto questo non è che un commercio vergognoso, che gioca con il nostro turbamento e sveglia in noi quel che deve dormire."

"Per questo dunque ci sono tentativi di censura?"

"Non sono mai mancati, nella storia del cine�ma. Alla fine degli anni Venti, tutta

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l'industria holly�woodiana obbediva a un codice rigoroso, che defi�niva in modo molto preciso quel che era possibile dire e mostrare. Ma questo codice è crollato assai presto."

"È comunque difficile imporre una censura in una democrazia."

"Vediamo ancora questa censura operante in In �dia. Nei film indiani è permessa una cruda violenza, e anche un erotismo palese. Le donne possono mo�strarsi molto provocanti e i crimini si accumulano come ovunque, d'altronde. Tuttavia, fino a tempi recenti, uomini e donne non si baciavano sulla boc�ca. Si uccide, non ci si bacia."

Mi dice allora ridendo:

"Eppure è più piacevole baciarsi che uccidere!".

Fin dall'origine del buddhismo, la teoria della non violenza non si presenta senza qualche eccezione. L'esempio fu offerto dallo stesso Buddha Sakya �muni. Salito un giorno su una barca che attraversava un fiume, vedendo che un bandito minacciava lavita degli altri passeggeri, scelse di sacrificare la vita del bandito. Questo esempio, giunto dall'alto, viene sovente citato. Ma è anche da prendersi con cautela, perché sappiamo tutti che è facile trattare qualcuno da bandito, trovando così un pretesto per sopprimerlo.

Allo stesso modo, nella grande guerra del Mahabharata, dov'è in gioco la vita dell'universo, succede che gli inganni e anche le menzogne di Krishna (in �carnazione terrestre del dio Vishnu) scandalizzino persino i suoi amici. Ricordo spesso, al tempo delle prime rappresentazioni dell'opera nel 1985, la deso�lazione di Maurice Bénichou, l'attore francese che interpretava proprio il ruolo di Krishna. Avvertiva l'ostilità del pubblico e usciva di scena molto abbat �tuto dicendo: "Sono un dio, vengo per salvare il mon �do, e mi detestano!". Fu necessario scrivere diverse nuove scene, e modificarne altre, per far sentire che la sua lotta non si limitava alla vittoria dei buoni sui cattivi ma che era molto più vasta, che si svolgeva in un territorio, in una dimensione ove i sentimenti e la moralità umana possono essere talvolta sovvertiti.

Così, a un certo momento, di fronte alle incom�prensioni che lo circondano, Krishna è portato a dire, ma a bassa voce, il più segretamente possibile, che per difendere il Dharma bisogna talvolta dimen �ticare il Dharma. Frase dai mille pericoli, che ogni dittatore potrebbe volgere a proprio vantaggio, par�lando così (come fanno sempre) di stato di necessi�tà, di patria in pericolo, insomma, di una situazione talmente critica da imporre la sospensione di ogni forma di legalità. Per un momento, certo. Ma questi momenti durano spesso tutta una vita.

Allora, che fare? Come trattare questa violenza che sentiamo e vediamo intorno a noi?

"Forse" dico al Dalai Lama "si tratta anche in questo caso di una vista inesplicata? Di un'altra do�manda senza risposta?"

"La vera disciplina" mi risponde "non si impo �ne. Non può venire che dall'interno di noi stessi. E dapprima, in questo caso, da parte di coloro che fanno i film e di quelli che li proiettano. I primi devono prendere coscienza delle loro responsabili�tà, che sono più gravi che mai."

"Proprio in ragione della diffusione mondiale dei film."

"Bisogna che agiscano in un interesse più vasto. È indispensabile. Forse si dovrebbero anche inco�raggiare rapporti tra coloro che fanno i film e colo�ro che li guarda

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no."

"Sì, perché tutto va sempre a senso unico, con una sola regola, malauguratamente commerciale: fare quel che piace alla maggioranza. Ciò vale all'inter�no di un paese, ma anche fra un paese e l'altro. In materia di cinema e di televisione, ad esempio, gli Stati Uniti esportano molto nel resto del mondo, e non importano quasi nulla."

Ritorniamo un momento su una precedente con�versazione. Gli parlo delle lotte che abbiamo con�dotto, e che conduciamo sempre, affinché l'Europa conservi, anche se fosse necessario proteggerla con delle normative, la capacità di raccontarsi le proprie storie, con i mezzi di oggi.

"Sotto il pretesto" mi dice "di una semplice riva �lità commerciale sottoposta alle leggi del mercato (ma quali leggi? Emanate da chi? E in nome di che cosa?), non dubito che si tratti di un nuovo tipo di colonizzazione. Ho constatato un fenomeno simile con l'occupazione cinese in Tibet. Il pretesto non era commerciale, ma politico e culturale. Afferma�vano di portarci la rivoluzione, i tempi nuovi e lumi�nosi. In realtà, questa propaganda non nascondeva che un desiderio di egemonia."

"Quando alcuni distributori americani parlano di una sorta di monopolio dell'immagine che pen �sano di stabilire nel resto del mondo (in India si apprestano a diffondere i loro film in versioni già doppiate, per battere il cinema indiano sul suo stes�so terreno), bisogna scorgervi una intenzione nascosta di far penetrare insieme ai film altri prodotti, automo�bili, abiti, bevande, musica, tutto ciò che costituisce l'American way of life, e così senza dubbio, più segreta�mente, modelli di comportamento e di pensiero."

"Conosco bene questo metodo" mi dice "e lo temo quanto voi. I mezzi di cui si serve sono sedu �centi, sovente insospettabili. Chi può svelare esatta�mente ciò che si nasconde in un film?"

"Mi sembra" gli dico "che l'immagine di cui tan�to si parla non sia un fenomeno superficiale. Ogni immagine, anche fuggente e maldestra, è il riflesso di una realtà profonda, che senza di essa non com �parirebbe. Nel secolo venturo, i popoli che non a�vranno saputo procurarsi i mezzi per costruire la pro�pria immagine saranno minacciati di scomparsa."

"Sono pienamente d'accordo" mi dice con fer�mezza.

"Ma una cosa è dirlo, un'altra è farlo."

Chiudiamo la parentesi e torniamo alla violenza, così come la si vede nei film.

"Nei film indiani" mi dice "assistiamo per gran parte del tempo allo svolgimento di una storia d'a �more, che è fortemente contrastata, ma in cui alla fine i buoni di solito si ritrovano e sono premiati, mentre i cattivi vengono puniti."

"È vero. Nella storia del cinema, raramente si è osato presentare un criminale del tutto felice sino alla parola "fine". Siamo, da questo punto di vista, sottoposti a una sorta di tacita autocensura, anche se esistono mille modi di aggirarla. Il vero criminale, nei film, viene quasi sempre smascherato e punito. In compenso, l'elenco degli innocenti spogliati e uc �cisi è lungo.""Tuttavia, per gli animi semplici, esiste senza dub�bio un buon uso della televisione. Vedo un uomo che commette un crimine, quest'uomo è arrestato dalla polizia, è sottoposto a un processo, viene puni�to con il carcere. Spesso viene persino ucciso dalla polizia In ogni caso, paga per ciò che ha commesso."

"È uno schema molto semplice, che in effetti può funzionare in alcuni casi. Ma altri dicono che il sem �plice racconto di un furto, di persone prese in ostag�gio o di un

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attentato politico, può risvegliare ten�denze."

"Per questo" mi dice "la vera disciplina non può venire che dall'interno. Se vedo un criminale puni �to dalla polizia, ciò può in effetti dissuadermi dal commettere un crimine. Ma posso anche dirmi che se sono sufficientemente abile o fortunato, posso sfug�gire alla polizia."

"Mentre non si sfugge al Karma."

"Esatto. Qualunque cosa noi facciamo, in questa vita o in un'altra, il peso del Karma ci riagguanterà Facciamo sì che questa convinzione dimori in noi, e i pericoli della televisione ci appariranno più lievi."

Sono venuto da Delhi con un'auto e un autista, un uomo di quarantatré anni, un Sikh dalla barba tutta nera, rotondetto, molto cordiale. Una sera mi invita a cena con un autista di autobus. Ha cucinato lui stesso un pollo al curry, molto buono, e mangiamo nella cabina del bus, sul motore. Si sono procurati una bottiglia di un orribile rhum indiano, e bevia�mo a garganella.

Mi parla un po' della propria vita: suo padre ha perso le gambe durante la guerra fra India e Paki �stan. Quanto a lui, è nato a Delhi, si è sposato, ha avuto due figli, ha aperto un ristorante. In quel tem�po Indira Gandhi fu assassinata da una delle sue guardie, un Sikh. Una parte della popolazione di Delhi, per vendetta, ha aggredito i Sikh. Egli ha perso il ristorante, l'appartamento, uno dei figli. Ha vissuto sui marciapiedi, ha cercato lavoro, per fortuna è diventato autista, dipendente di un'agenzia. Lavora so�do. Spera un giorno di avere denaro sufficiente per riaprire un altro ristorante.

Siccome non ho bisogno di lui a Dharamsala, lo lascio andare a far visita a una parte della sua fami �glia ad Amritsar. Una intera notte di autobus. Torna quattro giorni dopo, molto contento. Mi porta dei dolci.

Un uomo come milioni di altri, alle prese con la durezza della vita, attaccato alle sue tradizioni e alle sue credenze, fiero del Punjab, the richest state in In�dia! Non è buddhista. Nato in una religione, vi resta fedele. D'altro canto rispetta "Sua Santità", a very geod man. Mi fa notare che i tibetani in esilio in India sono più ricchi degli indiani, più assistiti, ma lo dice senza astio. È così. Tanto meglio per loro.

Mi mostra una fotografia della moglie e dei figli. È un uomo che sorride spesso, un autista molto sicu�ro. Gli secca chiedere la strada, cosa che lo porta talvolta a smarrirsi. Nulla di grave. Fa marcia indie�tro e prova un'altra strada. Ci fermiamo, al ritorno, in un grande ristorante di camionisti, the best restau�rant in North India. Vi fanno grande uso di spezie.

Come potrebbe quest'uomo dimenticare la vio�lenza vissuta? Supponendo che egli lo decida, quan �to tempo gli sarebbe necessario per accettare la non violenza, per essere toccato dal buddhismo? Nella sua vita stretta dal bisogno, dove potrebbe trovare il tempo per meditare, per ascoltare, per leggere?

Mi domando questo, nell'auto, mentre guardo le sue mani che afferrano il massiccio volante, e il suo turbante blu chiaro avvolto con cura intorno al capo.

7

BIG BANG E REINCARNAZIONE

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"Lei è l'ultimo Dalai Lama?"

"È molto probabile."

"Perché?"

"Per due tipi di ragioni. Politiche, anzitutto. I cinesi, da trentacinque anni, ripetono che ho un so �lo desiderio: restaurare il vecchio regno di un tem�po, riottenere i miei servi, i privilegi e le mille stanze del Potala."

"E lei che cosa risponde?"

"Che l'istituzione del Dalai Lama non è di mia competenza. Riguarda solo i tibetani. L'ho detto più volte chiaramente. Se il Tibet ritroverà un giorno la propria indipendenza o, in ogni caso, la propria au�tonomia cosa che mi auguro di tutto cuore non potrà succedere che in modo democratico. I tibeta�ni vorranno che si perpetui l'istituzione del Dalai Lama? Lo diranno. Se una maggioranza fra loro si dimostra contraria, mi ritirerò automaticamente. In questo caso, in effetti, sarò l'ultimo Dalai Lama."

"Ha detto in qualche luogo che, in queste condi�zioni, finirà i suoi giorni in un convento, camminan �do con l'aiuto di un bastone."

"Quest'idea non mi dispiace."

"E le altre ragioni?"

"Sono storiche. Molti credono che il Dalai Lama sia inseparabile dal popolo tibetano. È falso. Fino al XVI secolo, il Tibet ha vissuto benissimo senza DalaiLama. Domani potrebbe accadere la stessa cosa. Lo ripeto: il prossimo governo del Tibet deve essere e �letto democraticamente. È indispensabile."

" Potrebbe nascere un altro Dalai Lama fuori dal Tibet?"

"Perché no? Già uno era nato in Mongolia."

"Quali sono le vostre relazioni con la Mongolia di oggi?"

"Molto cordiali, e molto antiche. La Mongolia è un paese fortemente segnato dal buddhismo, come il Tibet. L'ho visitato nel 1979, così come altre re�pubbliche dell'URSS. La Mongolia era ancora co �munista. L'atteggiamento della gente nei miei con�fronti mi è parso spontaneo, e persino caloroso, quan �to quello dei tibetani. Li ho sentiti vicini a me, e questo mi ha toccato molto. Vi tornerò quest'anno."

"Là il buddhismo è ancora vivo?"

"Sì, mi pare. Intratteniamo, a questo proposito, rapporti molto stretti. Studenti mongoli, originari di diverse parti del paese, vengono qui, in India, nei nostri diversi centri. Lavorano sotto la direzione di maestri tibetani. E alcuni di noi vanno in Mongolia"

"E i vostri rapporti con il Nepal? Il Bhutan?"

"Per quanto riguarda le persone, i nostri rappor�ti sono eccellenti. A livello governativo, è diverso. Da quando il Tibet è stato annesso, questi due paesi hanno una frontiera comune con la Cina. E questo cambia tutto."

Che le donne siano nate per fare l'infelicità dell'uo �mo è un'idea generalmente diffusa nel mondo inte�ro. Questo sembra scontato. Il Buddha, malgrado le sue grandissime doti di lucidità di pensiero, non sem�pre è sfuggito alla regola. Come gli altri, ha

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conside�rato la maggioranza delle donne creature "folli e crudeli", feroci "come un brigante" e, s'intende, men�zognere per natura. Ha esortato a lungo i suoi primi discepoli, quelli almeno che volevano diventare mo�naci, a diffidare delle donne, a non curarsi di loro. Per mesi, ha persino rifiutato di aprire la porta alla seconda moglie di suo padre, sua zia, che l'aveva cresciuto con dolcezza. Vestita di cenci, ella implora�va ogni giorno una parola o uno sguardo. Egli non le rispondeva.

Passarono anni prima che accettasse la fondazione delle comunità femminili. Quanto a stabilire se la don�na potesse come l'uomo giungere all'illuminazione, furono necessarie discussioni assai lunghe con i di�scepoli perché Sakyamuni acconsentisse ad ammet�terlo, per pentirsene subito dopo. Senza dubbio, dal punto di vista della vita spirituale, la donna era con �siderata inferiore.

Questa esclusione è curiosamente universale. Nel XVI secolo un concilio dividerà la Chiesa cattolica a proposito della qualità dell'anima femminile. La stessa esistenza di quest'anima otterrà solo una maggio�ranza di pochi voti. Ancora quest'anno, nel 1994, l'ordinazione di alcune donne prete da parte delle autorità della Chiesa anglicana ha fatto gridare al tradimento qualche anima pia scandalizzata e il pa�pa ha riaffermato che nella Chiesa cattolica solo gli uomini possono diventare preti. L'abito talare non sempre preserva dal maschilismo.

Per molto tempo, soprattutto nei paesi dell'Asia meridionale, la donna ha dovuto osservare regole precise nei rapporti con i monaci mendicanti: non toccare gli alimenti nel riempire la ciotola dell'ele �mosina, non camminare sulla stuoia dove un mona�co era seduto, non parlare mai per prima, non spo �gliarsi mai davanti a lui né sedersi in una posizione che potesse destare desiderio. In alcuni casi, fu per �sino proibito ai monaci usare come cavalcatura una giumenta o un'asina. In presenza di una donna, i bonzi cambogiani nascondevano il viso dietro un ventaglio: per non vedere o per non essere visti?

Queste proibizioni furono abbastanza presto mi�tigate in Cina, in Giappone e più ancora in Tibet (sotto l'influenza, senza dubbio, del tantrismo). Si racconta in Giappone una storia zen di due monaci in viaggio. Entrambi hanno fatto solenne voto di non toccare mai il corpo di una donna.

Arrivano davanti a un fiume in piena. Soprag�giunge una donna preoccupata e chiede loro di aiu�tarla ad attraversare il tumultuoso corso d'acqua. Di là, sull'altra riva, c'è sua madre, gravemente malata.

Senza esitare, uno dei due monaci afferra la don�na e l'aiuta ad attraversare il fiume. Giunta dall'altra parte, la donna li ringrazia e si allontana in fretta. I due monaci proseguono la loro strada l'uno in fian�co all'altro, in silenzio.

Dopo una mezz'ora di cammino il secondo mo �naco, a cui la collera non è ancora sbollita, dice im�provvisamente al primo: "Ma come hai potuto in�frangere il tuo voto? Come hai osato toccare il corpo di questa donna?".

L'altro lo guarda e dice: "Ah, pensi ancora a lei?".

Oggi, se la regola del celibato resta stretta tanto per i monaci quanto per le monache (bhiksu e bhiksuni), in compenso li si vede camminare in piena libertà nelle strade di McLeod Ganj, entrare nei negozi, chiac�chierare con i passanti e le passanti. Non è raro, nei ristoranti, vedere un monaco pranzare, solo con u �na donna straniera, che è generalmente un'allieva.

È ancora indice di un karma negativo rinascere nel corpo di una donna?

"In passato" mi dice "senza dubbio la donna è stata trascurata. Come altri paesi, il Tibet ha stabilito una netta predominanza dell'uomo. Poi, a poco a

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poco, le cose sono cambiate. Oggi, se ci confrontia�mo con l'India o con la Cina, la condizione della donna è certamente migliore in Tibet. Ma resta an �cora molto da fare."

Detto questo, mi ricorda che nel buddhismo, e soprattutto nella tradizione Mahayana, i due sessi sono teoricamente uguali. Bhiksu e bhiksuni dopo l'ordinazione, hanno in linea di principio pari dirit�ti e pari doveri. Si dice che il buddhismo, chiamato semplicemente "la religione", fu propagato con de �cisione in Tibet dalle due mogli (l'una nepalese e l'altra cinese) del re S'rong T'san Gampo. Alla loro morte, si verificò un fenomeno straordinario: Avalokitesvara, il bodhisattva della compassione, aveva de �ciso di salvare il mondo dalla sofferenza, dal ciclo del samsara. Vi riuscì, con uno sforzo estremo, chiu�dendo gli occhi. Quando fu obbligato a riaprirli, vi�de che la sofferenza era sempre lì, che il samsara colmava di nuovo il mondo.

Allora, una lacrima di tristezza e di scoraggiamento scese lungo la sua guancia. Questa lacrima bagnò le due regine, rivelando così il loro destino di consola�trici e protettrici. Vengono chiamate Tara Verde e Tara Bianca. Spesso si confondono in una sola divi�nità, chiamata Tara, venerata in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Invocata come "madre di tutti i bud�dha", ella calma e rassicura. Bellissimi testi della poe�sia tibetana le sono consacrati.

Il pantheon buddhista tibetano è troppo com�plesso perché si pretenda di esaminarlo nei partico �lari. Varia, d'altra parte, secondo le scuole. Vi si ve�dono sovrapposte più gerarchie di buddha, talmen�te frammentate che Maurice Percheron ha potuto parlare di una "miriade di buddha". Cinque entità, che si chiamano "i vittoriosi" (jina) o i buddha dimeditazione, e che corrispondono ai cinque organi di senso, ai cinque colori, alle cinque virtù, domina�no questa costruzione. Essi reggono lo spazio e il tempo. Ciascuno riceve la propria invocazione, i pro�pri attributi. Ciascuno possiede anche una sorta di "figlio", un riflesso spirituale, che è, propriamente parlando, un bodhisattva. Così Avalokitesvara, colui "che guarda in basso", cioè il compassionevole (di cui il Dalai Lama è la reincarnazione) è stato gene �rato dal jina Amitabha, "la luce infinita", il Signore dell'Ovest.

In questa costruzione singolare, raffinata, diffi�cilmente accessibile ai nostri spiriti improntati ad altri concetti, la forza femminile che si chiama Arya Tara occupa uno dei ranghi più elevati.

Il Dalai Lama mi fa notare che non vi è giunta per caso:

"La sua storia è esattamente quella dell'atteggia�mento femminile. Dopo aver raggiunto il primo gra�do del risveglio, e potendo aspirare a un grado supe �riore di esistenza, vedendo la supremazia numerica delle potenze maschili, esclamò: voglio raggiungere la buddhità, ma sotto forma di donna! Desiderava in qualche modo dimostrare di poter aspirare a un li �vello pari a quello di Avalokitesvara. E vi riuscì".

Aggiunge che i bhiksu e le bhiksuni osservano in teoria le stesse regole.

"Tuttavia" mi dice "una discriminazione sussiste. È difficile precisarne ragioni e limiti, ma le bhiksuni non vengono considerate con la stessa benevolenza e lo stesso rispetto dei bhiksu."

"Perché?"

"Non mi è chiaro. Cosciente di questa discri�minazione, ho convocato l'anno scorso una con�ferenza su questo tema. È durata quattro giorni. Professori sono giunti da ogni parte del mondo, dal�l'Occidente come dal Giappone. Abbiamo invitatomaestri zen. Insieme, abbiamo esaminato un gran numero di problemi, riguardanti in particolare la condizione delle donne, la vita sessuale, gli scandali finanzi

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ari che vediamo scoppiare regolarmente in tutto il mondo. Una bhiksuni ha preso la parola per ricordare l'ineguaglianza che grava sulle monache. Un'altra, una donna anziana, di origine greca, cre�do, o francese, raccontò la propria storia, con gran �de semplicità. Questa storia mi toccò così vivamente che mi misi a piangere. Sì, senza dubbio la situazio�ne può essere migliorata."

Ricordiamo per un momento, ma senza soffer�marci, la condizione della donna in Occidente. Se le lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta han �no dato qualche risultato, almeno in linea di princi�pio, resta il fatto che continua a sussistere un'altra forma di discriminazione. Questa riguarda ad esem�pio i salari, la posizione nella vita politica (se in Francia contiamo i deputati donna, vediamo che il loro numero è alquanto esiguo), la gestione dei mezzi di comunicazione, per non parlare degli scon �volgimenti e traumi della vita quotidiana, degli stu�pri, delle molestie sessuali. Dopo le speranze di "li �berazione" e di "uguaglianza" dei decenni prece�denti, una sorta di disillusione sembra essersi abbat �tuta su tutta una generazione di donne, oggi qua�rantenni, sovente divorziate, senza lavoro, condan�nate alla solitudine in una società timorosamente paralizzata da crisi di diversi livelli.

Il Dalai Lama ha raccolto echi di queste speranze deluse. Qui, in Asia, le "condizioni" sono evidente �mente diverse. Qualcosa dev'essere fatto.

"E per prima cosa" mi dice "nel campo dell'inse�gnamento. Dobbiamo riconoscere che le donne possiedono le stesse qualità educatrici degli uomini. L'esempio può esserci fornito da una donna ecce�zionale vissuta nel XIV secolo, che si chiamava Sam �ding Dorjee Phagmo. Fu riconosciuta come una don�na lama e acquisì in questo modo il potere di rein�carnarsi, secondo le nostre tradizioni. Di conseguen �za, diede origine a una stirpe di donne lama che si sono succedute fino ai nostri giorni."

"Esistono altre stirpi femminili?"

"Sì, quattro o cinque. Dobbiamo anzitutto riflet �tere su quello che ci hanno portato queste successio �ni di donne lama, cioè su quello che il loro insegna�mento ha potuto presentare di particolare, di pre�zioso. Dobbiamo anche riflettere sulla poliandria, praticata da tempo in Tibet."

Non posso evitare di pensare subito a Draupadi, l'energica donna del Mahabharata, che ebbe cinque mariti, i cinque fratelli Pandava, e riuscì ad appaga�re tutti (a turno) e a dare loro dei figli. Il Dalai Lama ricorda per un istante la poligamia, che non apprez �za affatto. Si vede più donne a disposizione di un solo uomo, sovente trattate e messe da parte come oggetti o animali ammaestrati. Non approva l'acqui�sto delle mogli, che si pratica ancora da qualche parte, e conosce gli orrori che spesso comporta il siste�ma indiano della dote.

Mi domanda se la poliandria più uomini per una sola donna - esista in Europa.

"Esiste," gli dico "ma per lo più gli uomini non lo sanno."

"Naturalmente. Ma questo capita ovunque!"

Scoppia a ridere, poi torna al Tibet:

"Un'altra consuetudine esiste presso di noi da tempo. Succedeva che l'uomo abitasse presso la fa �miglia della donna (mentre generalmente accade il contrario) e che allora il cognome restasse quello della donna".

"Questo cognome veniva trasmesso ai figli?"

"Sì. Il cognome della madre. Certo, l'invasione cinese e l'esilio hanno sconvolto queste usanze, che

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considero sagge. Ma senza dubbio bisognerebbe ri�scoprire questa tradizione."

Le guerre hanno un effetto rapido sui costumi. Ricordo i massacri che la guerra del 1914 1918 pro �vocò in Europa. Un milione e mezzo di uomini mor�ti, nella sola Francia: il che pose molte donne di fronte a responsabilità nuove. Per forza di cose, di�ventarono imprenditori, dovettero assumersi la re�sponsabilità delle aziende agricole e se ne mostra �rono perfettamente capaci. Il XIX secolo, in cui la donna non sembra giocare da noi che un ruolo di necessario ornamento, dalla cortigiana adulata alla domestica o all'operaia schiavizzate, si era concluso sui campi di battaglia. Diventava impossibile ai si�stemi occidentali persistere nell'esclusione delle donne. Una seconda guerra mondiale lo confermò. Nel 1944, infine, si accordò alle francesi il diritto di voto.

"Bisogna ritrovare le nostre tradizioni," ripren�de il Dalai Lama "e introdurvi gli aspetti positivi del�le altre tradizioni."

"In uno stato dell'India meridionale, il Kerala, esiste una tradizione matriarcale. Le donne sono so�vente proprietarie e custodi del patrimonio familia�re, che si trasmette per linea femminile."

"Sì, anche in Tibet la donna poteva essere erede."

"Queste tradizioni sono cambiate con l'esilio?"

"Non credo. Sicuramente, oggi, vengono impo�ste in Tibet le leggi cinesi. Ma le tradizioni diventa �no un modo per resistere. Qui, ve l'ho detto, ci sfor �ziamo di mantenerle, perché sono le nostre armi migliori. A mio parere, non v'è dubbio che in futuro i diritti della donna verranno rigorosamente stabili�ti. Dobbiamo anche, in questa occasione, prendere una nuova coscienza di quel che può significare "u�guaglianza fra uomini e donne"."

"Se un controllo delle nascite è indispensabile,

come sembra essere, questo passa necessariamente attraverso le donne. Il diritto di donare o no la vita deve spettare a loro."

"Lo credo anch'io" mi dice.

"L'esistenza di una "mascolinità", suppongo, o di una "femminilità" deve sembrare impossibile nei con �fronti della transitorietà?"

"Come ogni esistenza che goda di una condizio�ne stabile. Queste nozioni non hanno alcun senso per noi. Sono semplicemente legate alle condizioni, alle circostanze (cioè all'ambiente culturale, stori�co), e queste circostanze possono cambiare."

"Una donna potrebbe essere uno dei prossimi Dalai Lama?"

"In teoria, nulla lo impedisce."

Ritroviamo qui come altrove, come ad esempio in campo scientifico, questa notevole capacità di a�dattamento che presenta oggi il buddhismo, e che spiega senz'altro in gran parte le numerose simpatie che desta. Anche in questo caso, ogni atteggiamento dogmatico sembra bandito. L'estrema elasticità e flui�dità del pensiero sembra aderire al movimento del mondo, questo movimento che esso afferma e al quale si sottomette. Ciò che colpisce è che questo adatta�mento incessante, evidentemente accelerato dal se�colo stesso e da tutti gli choc che l'hanno scosso, non altera le basi antiche del buddhismo la transi�torietà, l'interdipendenza, la compassione, il neces �sario risveglio e, anzi, talvolta li rafforza.

E arriviamo alla reincarnazione. In questo caso, devo confessare al mio ospite d

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i incontrare un forte ostacolo. Dall'inizio dei nostri incontri, abbiamo trovato un certo numero di punti in comune. Ecco un punto di divergenza.

In effetti il buddhismo si è costruito e si è mante�nuto su un concetto di universalità. Quel che è bene per un uomo è bene per tutti gli uomini. Ora, agliocchi di noi occidentali, abituati da più di un secolo a un approccio etnografico ai comportamenti e alle mentalità (che comprendono le religioni), la rein �carnazione appare come una credenza ereditata dal�l'India e strettamente limitata, oggi, a una sola parte del mondo.

Pitagora, è vero, sosteneva di ricordarsi delle pro�prie vite precedenti. Platone, facendo, come Empe �docle, eco ai misteri orfici, mostra nel X libro della Repubblica guerrieri morti che scelgono i corpi della loro prossima vita. In sintonia con la propria perso�nalità, Aiace sceglie di essere un leone, così come il buffone Tersite sceglie di essere una scimmia. Sol�tanto Ulisse, l'astuto, sceglie la vita di un uomo paci�fico e ignorato da tutti.

Tuttavia è difficile dire che queste credenze, riser �vate, sembra, a una raffinata minoranza, siano al cen�tro del pensiero greco. In ogni caso, come per i cabali �sti ebrei, non sono sopravvissute alla caduta del mon�do antico e al trionfo in Occidente del cristianesimo.

In India sono ancora vive. Il buddhismo le ha adottate e sviluppate a proprio uso. Alcune tappe del processo di reincarnazione, come il percorso del bardo dopo quella che chiamiamo la morte, sono spesso limitate al solo Tibet buddhista. L'idea di uni�versalità ci sembra messa in ombra da quello che non si può non definire particolarismo, folklore.

"La reincarnazione" gli dico "non appartiene in alcun modo alle nostre tradizioni religiose, a meno che non si presti fede alla resurrezione finale pro�messa dai testi antichi del cristianesimo. Ma oltre al fatto che il tema della resurrezione sembra un po' accantonato dai teologi cristiani contemporanei, que �sta resurrezione dei corpi non ha nulla a che vedere con la reincarnazione buddhista che ci resta estra�nea, e molto difficile da accettare. Succede anche che susciti ironia o alzate di spalle."Mi ascolta molto attentamente, scrollando la testa. "La seconda difficoltà," gli dico "strettamente legata alla prima, dipende da questo esame scrupo�loso dei fatti che il buddismo ha sempre rivendicato come proprio metodo. Sakyamuni l'ha detto per pri �mo: "Osservate quest'oggetto che è qui, ora". Non bi�sogna mai accettare nulla, si legge nelle vostre scrittu�re, che non sia stabilito, provato e verificato dall'espe�rienza. Ora, lungi dall'essere verificabile, la reincarna �zione ci appare precisamente come una di queste "cre�denze" che il buddhismo, in altri campi, invita sovente a rifiutare. Noi vediamo qui una contraddizione."

Scrolla ancora la testa, lasciandomi proseguire:

"Esiste una terza difficoltà, che dipende dalla dot�trina stessa del buddhismo. Questa afferma ad ogni occasione e ne abbiamo lungamente parlato per di �re che sembrerebbe del tutto possibile su questo pun�to un accordo con le conclusioni (provvisorie) dei nostri scienziati che nulla è stabile, né nella materia né nello spirito, che tutto si dissolve e si ricompone senza sosta, che in particolare il nostro "io", così or�gogliosamente esibito in Occidente, non è che un soffio di vento, un'illusione, una realtà sfuggente, rigorosamente irreperibile. Di conseguenza, se nul�la sussiste del nostro io, qual è questo io che si rein�carna? Bisogna pure che qualcosa di noi, una quali �tà che ci è propria, possa sussistere e perpetuarsi. Confesso che questo punto resta per me un enigma. Ho letto quasi tutti i suoi libri, l'ho sentita risponde�re a questa domanda, ma molto brevemente, e in un modo che non mi ha mai convinto. Ecco giunto for �se il momento di affrontarla".

Dopo un momento di riflessione, formulo così la mia domanda:

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"Che cosa rappresenta oggi, per lei, la reincarna �zione? È un'allegoria o un fatto? E quale forza ne trae lei?".Attende a lungo prima di rispondermi:

"I buddhisti dicono che la rinascita è una realtà. È un fatto. Nel ciclo noto delle rinascite, che noi chiamiamo il samsara, si produce di tanto in tanto il fenomeno della reincarnazione".

Impariamo dunque per prima cosa a distingue�re. Il ciclo delle rinascite, il samsara, è la condizione di ogni vita. Nessuna esistenza gli sfugge, a meno di giungere al nirvana. Questa condizione è dolorosa, perché ci obbliga a rivivere senza sosta, in situazioni che possono essere peggiori di quelle che abbiamo conosciuto.

"Se la rinascita è un obbligo," mi dice "la reincar�nazione è una scelta. È il potere, dato ad alcuni indi �vidui meritevoli, di controllare la loro futura nascita."

"Come fu il caso del Buddha?"

"E di molti altri. Quando ha raggiunto un certo grado di qualità, che abbiamo chiamato coscienza sottile, il nostro spirito non può morire, nel senso comune del termine. Gli è dato il potere di reincar �narsi in un altro corpo. È, in particolare, il caso dei bodhisattva, l'abbiamo detto. Proprio sulla porta del nirvana, preferiscono rinunciarvi per restare nel sam�sara, e continuare a venirci in aiuto."

"Ma come si constata che questo o quell'indivi �duo è la reincarnazione di questo o quell'altro?"

"In effetti è un punto cruciale."

Devo dire che a Dharamsala, e in altri centri bud �dhisti, questa credenza è abbondantemente condivi�sa. Si chiama talku l'individuo che porta, inequivo �cabilmente, i segni di una reincarnazione. E i talku sono numerosi. In un negozio di souvenir, gestito da un indiano, ho incontrato un fotografo tedesco che sta preparando un libro sui talku. Ne ha già fotogra �fato diverse decine e mi ha mostrato il questionario che chiede loro di compilare. Bisogna indicarvi il proprio cognome, nome, data di nascita, indirizzo,la scuola buddhista alla quale si appartiene. Poi, su un'altra riga, si vede scritto: "Reincarnazione di...?".

"Innanzitutto" mi dice il Dalai Lama "incontria�mo persone che si ricordano con precisione delle loro vite passate."

"O che pretendono di ricordarsene. La cosa più curiosa è che nel passato non sono stati né un rospo, né un misero schiavo. In genere, sono già vissuti nel desiderabile corpo di una famosa cortigiana o in quel�lo di un grande sacerdote egiziano."

"Sicuramente. Ovunque vi sono mentitori."

"E d'altra parte, i testi mostrano chiaramente che esistono sei possibili condizioni dell'uomo dopo la morte, che si chiamano i cammini di trasmigrazione."

"Esatto."

Queste condizioni sono quelle di dio, di uomo, di asura (che traduce in modo impreciso il termine "demone"), di animale, di un essere assetato e affa �mato, chiamato in sanscrito preta, infine di un essere infernale, che vaga dagli inferni ghiacciati agli infer�ni infuocati, dall'inferno di bronzo all'inferno di le�tame all'inferno di spine.

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"Ora," gli dico "di queste sei condizioni, la più dif�ficile da ottenere è proprio la condizione umana. La sola speranza per raggiungere un giorno la buddhità è di rinascere uomo, ma è anche la speranza più rara. A titolo di paragone, ci dice un'antica leggenda, si imma�gini una tartaruga che viva nel fondo dell'oceano, dal quale la sua testa emerge ogni cento anni, e un anello galleggiante sulla superficie mossa dell'acqua: le possi�bilità che la testa della tartaruga possa entrare nell'anello sono poche quanto quelle di un essere umano di reincarnarsi in un altro essere umano. Come dunque spiegare il fatto che tutti coloro che ricordano le loro vite passate parlino sempre di situazioni umane favore�voli, e che i tulku proliferino intorno a noi?"

La reincarnazione in un essere umano è in ef �fetti difficile, ma molto meno rara di quanto dica la leggenda indiana. Il fenomeno esiste, ne siamo certi. Proprio qui, a Dharamsala, conosciamo alcune persone che hanno ricordi molto chiari delle loro passate esistenze, e le cui condizioni di vita non ave�vano allora nulla di straordinario. In particolare, ab�biamo conosciuto due bimbette indiane di tre e quattro anni, che raccontavano dettagliatamente episodi di vite anteriori. I loro genitori non poteva �no credervi, ma quando le abbiamo portate dove sembravano essere già vissute, hanno riconosciuto i posti. "

Questi esempi di riconoscimento sono citati ab�bastanza frequentemente. Il Dalai Lama stesso, all'età di tre anni, riconobbe alcuni oggetti apparte �nuti al suo predecessore, morto qualche anno pri�ma. Come racconta nel suo libro, aveva preso questi oggetti dicendo: "È mio, è mio!", e ognuno fu con�vinto che fosse davvero la reincarnazione cercata. Altri segni avevano portato coloro che conducevano le ricerche fino alla casa dei suoi genitori. Quando fu ufficialmente riconosciuto, venne tolto alla fami�glia e portato in un convento. Ebbe così inizio la sua formazione di Dalai Lama. Tutto ciò accadeva nel 1938.

Alcuni giornalisti superficiali presentano ancora il Dalai Lama come un dio vivente. Per un buddhi�sta, questa espressione non ha senso. L'istituzione del Dalai Lama, autorità spirituale e temporale, ri�sponde in effetti a due esigenze: dev'essere la rein �carnazione certa di colui che l'ha preceduto, e di conseguenza di tutti gli altri, risalendo fino al XIV secolo. I tibetani tengono molto a questo concetto di discendenza, di un'altissima energia spirituale che si trasmette da individuo a individuo e che, ogni vol�ta, può rafforzarsi. L'attuale Dalai Lama afferma diavere discusso a lungo in sogno con il proprio predecessore, e di avere tenuto in considerazione i suoiconsigli.

D'altra parte il Dalai Lama, per la sua stessa fun�zione, è considerato una "manifestazione" o una "e �manazione " di Avalokitesvara, il signore del loto bian�co, il grande bodhisattva della compassione. Sarebbe così il settantaquattresimo di un'altra discendenza, che risalirebbe a un bambino brahmano vivente nel�la stessa epoca del Buddha. Oggi, i buddhisti non sembrano più accettare che esista davvero nel cielo un "essere", una "persona" che si incarni in una for�ma umana. Vedono piuttosto questa emanazione come una forza particolare che permette al Dalai Lama di concentrare in sé le capacità di compassione che ciascuno di noi possiede.

Quando gli si domanda se è sicuro, oggi, di ap �partenere realmente a queste due discendenze, il Dalai Lama confessa un leggero imbarazzo. La ri�sposta, dice, non è semplice. Ammette tuttavia che, appoggiandosi alla propria educazione e pratica bud�dhista, si sente "spiritualmente legato" ai tredici pre �cedenti Dalai Lama, ad Avalokiteshvara e allo stesso Buddha Sakyamuni.

"Si può anche" continua "considerare la reincarna�zione da un altro punto di vista, riflettendo sull'evo�luzione del nostro pianeta, e anche del nostro uni�verso. Oggi siamo qui, vediamo il mondo intorno a noi, sappiamo che si estende per distanze inimmagi�nabili, ma sappiamo anche in ogni caso ce lo dico�no gli scienziati che

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questo mondo non è sempre esistito."

"Si e creduto per lungo tempo che l'universo fos�se infinito, eterno. Una delle grandi scoperte del �l'astrofisica nel XX secolo fu di attribuire un'età e una storia all'universo."

"Intende parlare del Big Bang?"

"Sì, di quello che si chiama Big Bang senza ben sapere cosa sia."

"Ma come, perché il Big Bang si è prodotto? Que�sto nessuno lo può dire. Ora, il buddhismo ha una costante: ogni avvenimento deve avere una causa. Sebbene si estenda tanto vastamente nello spazio, l'universo è sottoposto alla transitorietà e al samsara. Sebbene risalga a un tempo antichissimo, è necessa �ria una causa degli eventi."

"Supponendo che il Big Bang sia un evento. Tut�to quel che vediamo, a un dato momento, è uno stato estremamente denso di quello che diventerà la materia che costituisce le stelle e che ci costituisce Ma non possiamo parlare di una "esplosione" come la parola Bang sembra indicare."

"E oltre a questo stato della materia?"

"Non ne sappiamo nulla. È ciò che dicono gli astrofisici. Il Big Bang è il primo punto della nostra possibile lettura della storia dell'universo. Non è ne�cessariamente l'inizio dell'universo, è l'inizio del nostro discorso sul mondo. Di quel che c'era prima del Big Bang, supponendo che ci fosse qualcosa, non possiamo parlare. Non possiamo che sognarlo, che immaginarlo. Ma come immaginare quello che c'e�ra prima che ci fosse qualcosa?"

"In ogni modo, i buddhisti dicono che il secolo in cui viviamo sia la conseguenza dei secoli che l'han�no preceduto, e così via fino all'origine dei tempi, venti o venticinque miliardi di anni fa."

"Diciamo piuttosto quindici miliardi "

"Davvero? Qualche anno fa, in Svizzera, ho co �nosciuto uno scienziato, che avrebbe più tardi rice�vuto il premio Nobel. Parlava di venti miliardi di anni. Ho incontrato anche un americano, un cele�bre fisico non ricordo il suo nome, ho una pessima memoria per i nomi che parlava di venticinque miliardi."

"Cifre enormi sono state in effetti proposte, in varie occasioni. Poi sono un po' diminuite. Diciamo che in questo momento la moda è di quindici mi�liardi."

"Si può ancora parlare di precisione scientifica?" domanda ridendo.

Poi riprende:

"Perché dunque il Big Bang? Quale è stata la causa?".

"I cristiani hanno una risposta."

"La conosco. Per parte mia, ci sono due risposte che non posso accettare. La prima consiste nel dire: non v'è alcuna causa. Le cose sono successe così, da sole. Dal nostro punto di vista, è inaccettabile. La seconda risposta è la soluzione divina. Un bel gior�no, Dio ha deciso di creare il mondo. Noi non l'ac �cettiamo."

"Perché?"

"Perché questa risposta solleva un numero ecces�sivo di domande."

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"Ad esempio?"

"Perché il creatore ha creato? Chi ha creato il creatore? Si è creato da solo? Il creatore ha avuto un inizio? Avrà una fine? Si tratta di una creazione per�manente? E così via."

"Se il creatore è permanente, anche la creazione sarà permanente."

"Questo ci porta ad altre domande, del tipo: il creatore è un essere con una assoluta compassione? Con un assoluto potere? Con una conoscenza asso�luta?"

"Perché, se è onnipotente, ha creato questo mon�do così evidentemente imperfetto? Perché ha crea �to questo mondo piuttosto che un altro? E perché ha impiegato così tanto tempo a crearlo?"

Gli astrofisici ammettono in effetti che la mate�ria che conosciamo si formò in quella che chiamano "il brodo originario", nel corso di un periodo di un milione di anni, e che le forme prese da questa ma�teria compresa quella che chiamiamo vita si suc �cedettero lentamente nel tempo.

Ricordo anche al Dalai Lama la certezza che han�no oggi gli scienziati della presenza nell'universo di un'altra materia, che chiamano generalmente "la ma�teria oscura" o "la materia mancante", e che resta per noi impenetrabile. Non sembra costituita da parti �celle e da atomi, come la nostra, non è nucleare da cui la nostra impossibilità di entrare in contatto con essa e di studiarla.

Tuttavia esiste. È attestato dall'attrazione che e�sercita sui corpi celesti. Probabilmente è persino "in maggioranza" nell'universo. Alcuni specialisti giun �gono a sostenere che sia da otto a dieci volte mag�giore di tutta la materia nucleare conosciuta. E sic�come ci sfugge, ci affascina.

Anche qui, se restiamo all'interno di un sistema voluto da un dio creatore, ci troviamo di fronte a un'altra vista inesplicata": perché avrebbe creato que �sta materia impenetrabile, perché avrebbe creato due mondi, inconoscibili l'uno per l'altro?

"In effetti," mi dice " dal nostro punto di vista, la teoria del creatore pone molti più problemi di quanti non ne risolva."

"Qual è allora la spiegazione buddhista?"

So, per averlo letto in diversi libri, che la questio �ne dell'origine del mondo non si pone in questi ter�mini nei testi antichi. Come abbiamo detto, l'univer �so buddhista si compone di una infinità di mondi, specie di dischi infilati su un asse, e questo asse è ilmitico monte Meru. Intorno a questo asse sono po �ste quattro catene di montagne, altrettanti oceani, quattro grandi continenti situati ai quattro punti car �dinali. Ogni universo possiede nove pianeti, venti�sette o ventotto "riferimenti celesti" e molte stelle.

Questo aspetto ciclico e ripetitivo dello spazio si ritrova nella concezione antica del tempo, che trae la sua origine dal brahmanesimo. I cicli del tempo, yuga e kalpa, si ripetono in eterno. Sono divisi in un certo numero di periodi di ineguale durata, che pos�sono superare i milioni di anni e di cui alcuni sono detti "incalcolabili". Alcuni di questi periodi sono di distruzione, altri di ricostruzione, altri ancora di sta�bilità.

Nel corso dei periodi di ricostruzione, che si chia�mano anche 'periodi vuoti", restano particelle di spa�zio. Serviranno a ricostruire la materia. L'insieme di questi movimenti del tempo è contenuto in un gran �de ciclo, un mahakalpa, che supera la

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possibilità di ogni conoscenza e di ogni misura.

A queste lunghe descrizioni speculative, elabora�te da scuole successive che, d'altro canto, si trovano abbastanza sovente in contraddizione, si oppone la raccomandazione primaria di Sakyamuni di non af�fondare "la lama del pensiero nell'impenetrabile". Il problema dell'eternità dell'universo e di conse�guenza della sua origine sembra di certo aver fatto parte delle "quattordici viste inesplicate". Egli ha per �sino detto: "La conoscenza di tutte le cose non può far fare alcun passo nuovo sul cammino della santità e della pace". Unica risposta: il silenzio.

Comunque, come mi ha detto a più riprese il Dalai Lama, da un lato non si può ammettere che vi siano eventi senza causa, e dall'altro bisogna neces�sariamente tenere conto dei progressi della scienza per modificare, se necessario, le Scritture. Così non bisogna stupirsi della sua scarsa propensione a ritor�nare alle teorie antiche. Preferisce attenersi al Big-Bang e cercare di trovare una spiegazione che possa accordarsi con l'essenza della dottrina buddhista.

A proposito del Big Bang, gli ricordo che questa espressione ironica (dovuta all'astrofisico Fred Hoy �le, che si opponeva a queste teorie) corrisponde a una idea formulata per la prima volta da un prete belga, padre Lemaitre. Fin nelle teorie scientifiche è così possibile trovare traccia, abbastanza sovente, di una "metafisica nascosta". L'idea di una "esplosio�ne", di un inizio improvviso e luminoso del mondo, può in effetti accordarsi, mutatis mutandis, con il rac�conto biblico della creazione.

Il Dalai Lama mi spiega ora, a suo modo, ciò che ha preceduto il Big Bang:

"Alcuni esseri (beings) a un certo momento devo�no essersi compiaciuti dell'esistenza di questo uni �verso. Ed è per questo che l'universo esiste".

"Chi sono, o chi erano questi esseri?"

"Non si tratta di esseri umani."

"Di extraterrestri?"

"Non nel senso che voi date a questo termine. Si tratta di esseri forniti di uno spirito e di sentimenti. Quando parliamo di "spirito", sappiamo che esisto�no diverse categorie, diversi livelli di spirito. Alcuni di questi livelli sono grossolani. Lo spirito è allora direttamente legato a un corpo, e cessa di esistere con lui. In questo caso, quando le funzioni del corpo si arrestano, si arrestano anche le funzioni dello spirito."

"Ma abbiamo visto che lo spirito può anche ele �varsi."

"Fino ai più alti livelli, fino allo "spirito sottile", o "coscienza sottile". Il pensiero concettuale ha dei li�miti, che tutti conosciamo. Per questo la maggior parte delle tradizioni ha tentato di imboccare, sul cammino difficile della conoscenza, quella che si po �trebbe chiamare una '`via diretta": il misticismo, loyoga, alcune forme di meditazione e di estasi costel�lano questa via diretta, il cui fine è il risveglio."

"È lo stato in cui, secondo il buddhismo, ci è data una conoscenza perfetta di tutte le cose?"

"Sì, fin nel minimo dettaglio. Secondo la tradi�zione tibetana, questo accesso diretto che può con �durci attraverso l'esperienza all'origine del mondo è estremamente difficile. Suppone che il nostro spiri�to si sia sviluppato e affinato fino al più alto grado di sottigliezza, che lo strappa ai cicli temporali. Alcuni miei amici ancora viventi hanno conosciuto questi momenti."

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"Ci si ricorda allora di una vita passata?"

"Non di una vita, ma di centinaia, di migliaia di vite. Ogni ostacolo, ogni velo del pensiero svanisce. Lo spirito non può essere nato se non dallo spirito. Di conseguenza lo spirito sottile non può aver avuto inizio. Quando la coscienza sottile appare in tutta la sua evidenza, i problemi non si pongono più allo stesso modo, l'idea stessa di un inizio scompare."

Dogen Zenji, il grande maestro dello Zen, ha raccontato a questo proposito la storia seguente:

Un prete (di chiara fama) si faceva vento. Si avvicinò un monaco e gli domandò:

"La natura del vento è permanente, e non v'è alcun luogo che il vento non raggiunga. Allora perché dovete ugualmente farvi vento?".

"Anche se comprendi che la natura del vento è permanente," rispose il maestro "non compren�di il significato della sua presenza ovunque."

"Qual è il significato della sua presenza ovun�que?" domandò il monaco.

Il maestro si accontentò di farsi vento.

Il monaco si inchinò con profondo rispetto.In altre parole, così lo spiega Dogen Zenji: "Coloro che sostengono che non si dovrebbe usare un venta�glio perché il vento è permanente, e che si dovrebbe conoscere l'esistenza del vento senza usare un venta�glio, non conoscono né la permanenza né la natura del vento".

Mistero, profondità e limite della conoscenza: il risveglio la dà interamente, ma senza che possa vera�mente trasmettersi, se non con un gesto come quel�lo del ventaglio. I maestri buddhisti raccomandano di non praticare il buddhismo nella speranza di rice �vere la conoscenza in compenso. Sarebbe un passo falso. Il risveglio non è necessariamente dato a colui che crede di averlo meritato. Alcuni lo raggiungono e altri no. In ogni modo (sempre Dogen Zenji): "I limiti del conoscibile sono inconoscibili".

Tutti questi riferimenti girano inutilmente nella mia testa mentre cerco di "comprendere" sapendo che è cosa impossibile quel che mi dice il mio interlocutore, che mi parla nel contempo dello spi �rito sottile, della reincarnazione e dell'origine del mondo. Un legame esiste fra questi tre concetti, ma rimane per me abbastanza oscuro.

In uno dei suoi libri, il Dalai Lama ha risposto alla domanda: che cosa rinasce? La sua risposta è l'io, al che il suo interlocutore, giustamente stupi�to, replica di non sapere cosa sia questo "io". "Se rinasco," dice "non so di essere io. Non mi ricordo più cosa fossi prima. Chi sono?"

Nella sua risposta, il Dalai Lama fa notare che, anche in questa vita, possiamo ricordarci di alcune esperienze e dimenticarci di altre. A maggior ragio �ne quando si tratta di altre esistenze.

"Nulla permette di assicurare" mi dice " che po�tremmo ricordarci un giorno di quel che abbiamo

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vissuto, delle nostre azioni, delle nostre emozioni, degli oggetti che ci hanno circondato. Il fatto che non ci ricordiamo di nulla non permette in alcun modo di concludere che "non ero io", che sono ora un essere nuovo, unico nella storia del mondo."

"Perché la stragrande maggioranza di uomini e donne non si ricorda di nulla?"

"Perché, al momento della morte, il livello della coscienza, cioè lo stato intermedio ove essa si trova fra una vita e un'altra vita, diventa più sottile. È a questo livello sottile che si aggrappano, per passare in un'altra vita, i ricordi della vita precedente. Ma per debolezza, per mancanza di slancio, di concen �trazione, la maggior parte degli individui resta a li�vello dello spirito cosciente, che noi definiamo gros�solano."

"Coloro che hanno qualche esperienza della co�scienza più profonda hanno dunque maggiori possi�bilità di ricordarsi delle loro vite passate?"

"Sì, senza alcun dubbio."

"Se comprendo bene, questa coscienza sottile e �siste indipendentemente dal corpo e dal cervello?"

"Sì. È legata all'apparizione della coscienza nel �l'essere umano, ed è sempre presente, sussiste an�che quando altri livelli della coscienza sono cancel �lati."

"È dunque indistruttibile?"

"In un certo senso. E questa è la ragione della sua reincarnazione. Per ritornare al Big Bang, dicia �mo all'origine del mondo, si può anche pensare che questo spirito sottile, di una forza ineguagliabile, sia il principio creatore primario."

"Il Buddha Sakyamuni, suppongo, ha colto que�sto spirito sottile?"

"Ne era una manifestazione. Benché nato come un principe e vissuto come un mendicante, sotto gli occhi di migliaia di persone, la sua vita manifestatain quel modo assomigliava un po' a un ruolo. Que�sto ruolo l'ha rivestito per il tempo di una vita uma�na, per venire in nostro aiuto. Ma il suo spirito sotti�le, ancor prima della sua nascita, aveva già eliminato ogni ostacolo alla visione perfetta."

Sembra giunto il momento di parlare dei "tre corpi". Questo stato sottile dello spirito (jnanadhar �makaya), dotato di una conoscenza totale e causa prima delle cose, è in qualche modo circondato da un corpo ugualmente sottile, che noi non possiamo percepire nello stato attuale della nostra coscienza. Il nome di questo corpo sottile, che esiste in quanto tale fino alla fine del samsara, è Sambhogakaya, "cor�po di gioia" o "di beatitudine". È da questo corpo di gioia che proviene il "corpo di manifestazione" (Nirmanakaya), che, come dice il nome, si manifesta in diversi esseri e senza dubbio in diversi mondi

Senza l'esistenza del "corpo sottile", lo spirito sotti�le, entrato nel nirvana, potrebbe correre il rischio di non manifestarsi più , di dimenticarci nella nostra sofferenza. Proprio per questo, all'interno del Ma �hayana le cui speculazioni metafisiche hanno assai largamente sorpassato la dottrina dell'hinayana �questo corpo sottile diventa quello del bodhisattva intercessore e compassionevole. A sua volta, questo bodhisattva assume una forma manifesta, concreta, umana, come quella dell'uomo col quale parlo da qualche giorno.

A tratti, mentre cerco di seguire la dotta e logica complessità di questa costruzione dello spirito da parte sua, mi tornano in mente proposizioni e do �mande della scienza di oggi. Questa scienza ricono�sce nell'universo l'esistenza di quattro fo

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rze fonda �mentali e continue, la forza di gravità, che governa i movimenti dei corpi nello spazio, la forza elettroma�gnetica (unificata a partire dal XIX secolo), e due forze nucleari, che reggono la coesione della mate�ria e i movimenti delle particelle, la forza nucleare forte e la forza nucleare debole.

È così viva la nostra attrazione verso l'unità, verso la spiegazione globale, che un gran numero di scien�ziati sogna di unificare queste quattro forze. Questa forza unica, perpetuamente intatta e dipendente so �lo da se stessa, ricorda come un sogno di oggi l'anti�ca intuizione buddhista dello spirito sottile, inaltera �bile, causa prima di tutte le cose e di conseguenza di se stesso.

A parte questo, il buddhismo unisce indissolubil�mente a questa forza che, beninteso, è fondamen�talmente neutra e sprovvista di sentimenti una di�mensione di compassione naturale che cercherem �mo invano nella gravità, nell'elettricità o nell'ener�gia nucleare.

Il Dalai Lama mi indica altre manifestazioni dello spirito sottile:

"Ad esempio la conservazione del corpo dopo la morte clinica. Così, il corpo del mio tutore rimase intatto tredici giorni prima di incominciare a de�comporsi. Un altro lama, uomo eccezionale, poté conservare il proprio corpo integro per diciassette anni".

"Come lo spiega?"

"Per l'alta qualità dello spirito sottile, che è sem�pre presente e la cui forza è tale da conservare l'in�tegrità del corpo. Si vede anche talvolta sul viso del defunto così è stato per il mio tutore una mag�giore luminosità e serenità. L'ultimo giorno di que�sta specie di sopravvivenza, si vede comparire un po' di liquido, e allora inizia la decomposizione. Questo liquido è il segno della partenza dello spirito sottile."

"In cerca di un altro corpo?"

"Sì."

"È dunque lo spirito sottile che si reincarna?"

"Si, ma questo spirito, bisogna ripeterlo, noi non lo chiamiamo atman. Non è l'anima, come dite voi, a essere eterna per sua essenza. Noi non riconoscia�mo alcuna essenza particolare, alcuna entità indi�pendente e stabile unita all'individuo. La nostra co�scienza è in perpetuo cambiamento. Nulla è perma �nente, nulla può trasmettersi senza profonde modi �ficazioni."

"Lei ha detto che la morte, processo normale e inevitabile, è per lei un cambiamento di abiti vecchi e logori, piuttosto che una vera fine."

"Esatto. E se vogliamo morire bene, dobbiamo imparare a vivere bene. L'esperienza della morte è per noi di estrema importanza, perché lo stato del nostro spirito in quel momento può decidere della qualità della nostra futura rinascita Possiamo anche, al momento della morte, fare uno sforzo particola�re. La meditazione può raggiungere un vertice ine�guagliato, il cui effetto si manifesta attraverso la con�servazione del corpo. D'altro canto, la speranza di ogni vero buddhista è quella di morire prima del proprio maestro, per essere tranquillizzato e guida�to da lui nel momento estremo."

È consuetudine, fra coloro che credono in un'al�tra vita o in altre forme di vita, criticare severamente l'atteggiamento materialista, predominante in Occi�dente, che crede, secondo ogni apparenza, che la morte sia la fine della vita, in ogni caso di una vita, della nostra vita. Questo atteggiamento, mirabilmente descritto d

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a Montaigne in un capitolo degli Essais, condurrebbe a un comportamento brutale, egoista, senza alcun pensiero per il domani e l'avvenire della terra.

Questa critica, che talvolta giunge da parte di bud�dhisti, mi è sempre parsa superficiale. Oltre al fatto che nulla permette di dire che coloro che credono solo in questa vita non si preoccupino in alcun mo�do della terra che lasceranno ai loro figli (fino a prova contraria la religione cristiana ha raramente rivolto l'attenzione alla sorte del pianeta e, a causa del suo rifiuto di ogni limitazione delle nascite, con�tribuisce anche alla sua distruzione), si può trovare, nei confini stessi della vita umana, che va dal nulla al nulla, la ragione prima della sua dignità e della sua bellezza.

D'altro canto mi rendo conto chiaramente, e molti sono coloro che l'hanno sottolineato prima di me, che nella tradizione buddhista, che afferma di poggiare sull'esperienza e sulla constatazione dei fatti, questa minaccia di una rinascita in corpi infe�riori, persino animali e anche esseri infernali, stia come il bastone del gendarme, per esortarci a tene �re un migliore comportamento proprio in quella vi�ta che ci è assegnata. Sappiamo quali difficoltà incon�tra la costruzione di una morale civile, questa mora�le laica che il Dalai Lama stesso auspica così fre�quentemente. Forse abbiamo ancora bisogno al�meno quella parte fra noi che non può accettare l'idea, tuttavia molto semplice, di una morte totale e definitiva (salvo le nostre particelle elementari, che si ricomporranno) di questa paura di un castigo in un qualche inferno, o di una ricompensa accordata per sempre.

Preferisco non aprire questa discussione, di cui mi sembra che possiamo già dire i risultati. Reputo più interessante proseguire sul cammino buddhista, ove la vita e la morte sono concepite come un tutto. La morte e più precisamente il passaggio, il bardo, che conduce da una vita a un'altra vita è sovente avvertita come lo specchio ove la vita intera si riflet�te. Così, la morte si impara durante la vita. Vivere bene, è imparare a ben morire, per meglio rivivere. Il santo poeta Milarepa lo esprimeva così: "Questa cosa chiamata cadavere, e che ci fa così paura, vive con noi, qui e ora".

"Abbiamo paura di morire, dice il Dalai Lama, perché non conosciamo né il giorno né l'ora. Per�ché la morte ci può sorprendere a ogni istante Poi�ché temiamo il dopo morte, temiamo di ritrovarci in un luogo spiacevole e sconosciuto, colmo di ango�scia."

"Anche i buddhisti?"

"Certo. Non dimentichi che la necessità di rina�scere non è considerata come una ricompensa. Al contrario. Sto tentando di spiegarle che la reincar �nazione, che è una scelta, è profondamente legata a un certo livello della vita dello spirito. Se questo li�vello è raggiunto, lo spirito sottile che abbiamo svi�luppato ma che è solo una parte del nostro esse�re può scegliere la sua prossima destinazione. È dun �que un passo verso la liberazione, un miglioramento possibile. Senza questa scelta, la rinascita è un rica�dere nel samsara."

"La reincarnazione può avvenire in altro luogo che non sia la terra?"

"Sicuramente. Su un altro pianeta, e anche in un'altra galassia. La nobiltà dello spirito può esten�dersi all'infinito. È uno dei nostri insegnamenti fon�damentali."

"E lo spirito può trasformarsi?"

"Lo può e lo deve. Può liberarsi delle impurità che lo contaminano ed elevarsi fino al più alto livel�lo. In partenza abbiamo tutti le stesse capacità, ma alcuni le sviluppano, altri no. Ci abituiamo molto facilmente alla pigrizia dello spirito, tanto più facil�mente quanto più questa pigrizia si nasconde sotto un'apparenza di attività: corriamo a destra e a man �ca, facciamo conti, telefoniamo. Ma queste attività non mettono in opera che i livelli più elementari e più grossolani dello spirito. Ci

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nascondono l'essen�ziale."

"Perché lo spirito è legato al corpo?"

"Perché tutto quel che cambia deve avere una sostanza. Quando parliamo dello spirito, sappiamo bene che non si può né vederlo, né misurarlo. Ha bisogno della nostra forma materiale, che ci giunge dai nostri genitori, secondo le leggi dell'ereditarietà. Questa sostanza è organizzata dai cromosomi, cre �do. Lo spirito rappresenta l'energia sottile e inaffer�rabile, che prende il corpo come sostanza. Al suo più alto livello, come ho detto, questo spirito non può sparire. Viene allora considerato come una for�ma di saggezza. È il maestro interiore, il supremo guru. Ha superato lo spazio e il tempo."

Mi rammento a questo proposito una nota storia cinese, che non è sfuggita a Borges:

Il Buddha disse un giorno alla scimmia, anima �le ritenuto astuto e intelligente:

"Facciamo una scommessa. Se con un balzo puoi uscire dal palmo della mia mano, ti donerò il trono dell'Imperatore di Giada".

La scimmia radunò tutte le proprie forze e fece un enorme salto. La si perse di vista. Cadde in un luogo ove si alzavano cinque colonne rosa e credette di essere giunta ai confini dell'univer�so. Allora si strappò un pelo, lo intinse nell'in�chiostro e scrisse alla base della colonna di mez�zo: Il Grande Saggio, colui la cui conoscenza è vasta come il cielo, è giunto fin qui Con un altro balzoritornò al suo punto di partenza e disse al Bud�dha:

"Ho saltato, sono uscita dalla tua mano, ora so�no ritornata. Dammi il trono promesso".

"Tu non sei uscita dal palmo della mia mano" le rispose il Buddha. "Guarda bene."

La scimmia abbassò gli occhi, guardò il palmo della mano e, alla base del medio, lesse questa frase: Il Grande Saggio, colui la cui conoscenza è vasta come il cielo, è giunto fin qui.

Domando al mio ospite:

"E se un giorno la scienza provasse che la rein�carnazione non esiste?".

"Se lo provasse davvero, dovremmo abbandonar �la. E lo faremo. Ma per ora, ai nostri occhi, la rina�scita e la reincarnazione sono realtà, come gli atomi sono realtà. Se alcuni non credono che la rinascita sia una realtà, consideriamo il loro un atteggiamen�to ignorante."

"Non è dunque una fede?"

"No, è un fenomeno fisico. Secondo le nostre scritture, particelle sottili esistevano nello spazio pri�ma del Big Bang. Sono sempre presenti. Queste par �ticelle spirituali, che costituivano degli esseri, hanno dato vita al Big Bang. Perché? Come? Non possiamo rispondere."

"L'universo è eterno?"

"Un universo particolare può esistere e sparire. Cicli immensi possono succedersi. Ma l'universo nel suo insieme, l'universo spirito, c'è sempre."

Mostra un mazzo di fiori nella stanza e dice ancora:

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"La natura del Buddha esiste in tutte le cose. Ma non possiamo conoscere tutto. Così, non sappiamo se questi fiori possano provare piacere o dolore".

Gli narro allora che, nella mia infanzia, ho visto mio nonno, piccolo contadino del Midi francese, pian�tare in un angolo del suo giardino due piante di pomodori simili, nella stessa terra. Ad ogni piantadava ogni giorno la stessa razione d'acqua. Ma si soffermava sulla prima, la accarezzava, le parlava con amore, le rivolgeva mille complimenti. Non concedeva alcuna parola, alcuna attenzione all'altra.

"Ogni anno ci mostrava come la prima pianta portasse pomodori più numerosi e più belli della seconda. Forse mio nonno imbrogliava? Voleva farci credere di essere un simpatico stregone? Non l'ho mai saputo."

"Bisognerebbe andare più lontano" mi rispon �de. "Sapere ad esempio se queste reazioni provengono dalla pianta stessa, o da qualche essere invisibile."

Questa miriade di buddha, questa estrema dissoluzione in ogni cosa di una qualità inalterabile, è un tema che il buddhismo ha illustrato in mille modi, con la speculazione, con la grafica di alcuni manda�la, con la poesia, anche con l'aneddoto. Si racconta in Cina che un monaco entrò in un tempio e sputò su una statua del Buddha. Siccome lo rimproveraro �no, disse: "Vi prego, mostratemi un luogo in cui non vi sia il Buddha".

Il Dalai Lama riprende la parola e dice allora, come per concludere:

"Noi crediamo che esista una coscienza sottile, e che essa sia la fonte di tutto quel che chiamiamo la creazione. In ogni individuo, la coscienza sottile dimora dall'inizio del tempo fino all'accesso alla buddhità. È quello che chiamiamo essere (being). Questo essere può prendere differenti forme, animali, uo�mini ed eventualmente buddha. È la base della teoria delle rinascite. Lo spirito sottile, nel lungo succe�dersi dei secoli, di forma in forma, cerca necessaria�mente la buddhità. Quando raggiunge in un indivi�duo un alto grado di qualità, sceglie la propria suc �cessiva forma. Ecco la reincarnazione".Anche se le nostre tradizioni, religiose o filosofiche, ci impediscono sovente di aderire a questo pensie �ro, anche se esso ci resta estraneo, anche se ci man�ca, per lo più , l'esperienza diretta della reincarna�zione, non si può che ammirare questa visione vera �mente grandiosa. Torno per un momento alla peti�zione surrealista, a questa "libertà dello Spirito nello Spirito", speranza suprema. Il buddhismo si spinge il più lontano possibile nella ricerca della più alta forma di questo mistero che è lo spirito. Per ripren�dere il titolo del poema cinese che ho già citato, tutto il buddhismo è una "iscrizione sulla fiducia nello spirito". Rifiutando di annientarlo, è andato al di là dello stesso mondo.

Un altro modo di parlare di questo stato di conoscenza suprema, fine di ogni buddhista praticante, è l'espressione, per certi versi assai misteriosa e deci�samente lontana da noi, di Tathagata. Il termine si�gnifica "Colui che è giunto in un certo luogo" o "da qualche luogo", secondo le interpretazioni, e si ap �plica a diversi grandi personaggi, fra i quali Sakya�muni.

Possiamo cercare di coglierne il senso partendo dal termine tathata, che significa "il fatto di essere così". Questa parola si traduce talvolta, nelle lingue occidentali, con barbarismi del tipo "ainsité" oppure "suchness". Ancora una volta, le parole sono un freno e una maschera.

Questo "fatto di essere così", è la suprema semplificazione. Lo spirito raggiunge una qualità tale da dimenticare se stesso. Nulla separa l'essere partico �lare da se stesso, o dalle cose. È così, è quello. È assimilato al resto del mondo, senza riflessione, sen�za dubbio e senza distanza. Questa assimilazione è naturale. Il beneficiario p

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uò anche non notarla.

Come dicono numerosi koun del buddhismo zen, è sufficiente, per raggiungere la verità suprema, preparare correttamente il tè, o agitare un ventaglio quando fa caldo. Alcuni viaggiatori incontrano un vecchio che si sposta, nelle acque impetuose di un torrente, con una stupefacente facilità. Salta di pie �tra in pietra, nuota nei gorghi e tra le cateratte là dove nessun atleta ventenne s'arrischierebbe. Quando gli si domanda il suo segreto, non capisce la doman�da. Vive vicino a questo torrente fin dall'infanzia e non vi fa caso. È diventato la roccia scivolosa, l'ac�qua vorticosa. Non può più distinguersi da esse.Rileggendo i miei appunti, mi accorgo che abbiamoparlato molto raramente degli dèi: appena qualchefugace allusione. Il buddismo, e più particolarmenteil buddismo tibetano, ha tuttavia riconosciuto e moltiplicato le forme divine, al punto da contarneancor più del brahmanesimo. Gli dèi sono raggrup �pati in società e il Dalai Lama stesso ne elenca qual�cuna in uno dei suoi libri. La distinzione fonda �mentale si opera fra gli dèi "mondani", cioè collegati alle forme del mondo (il sole, la luna, una fonte) e gli dèi "extra mondani", che si sono staccati dalleforme sensibili. Queste due categorie si dividono ancora, e Si suddividono. Tutte queste divinità, i cui

caratteri dominanti sono sovente ereditati dal brahmanesimo, non sono necessariamente benevole. Alcune possono essere temibili, come la terribile Marici, che si presenta con una testa di leonessa ed è lasposa del re degli inferi. Un'altra dea, Lhamo, che porta gli attributi dell'indiana e sanguinaria Durga, è al contrario compassionevole e rassicurante. Ci protegge dai demoni, anch'essi molteplici, confusi. Tutte queste immagini di divinità, questa costellazione di dei, può servire di supporto alla preghiera, alla meditazione. A dire il vero questo vale so �prattutto per gli strati più popolari. Man mano che lo spirito si eleva nella percezione di se stesso, guardando all'interno invece di smarrirsi all'esterno, per�cepisce questa infinità di forze e di forme, per riprendere un'espressione di Maurice Percheron, come "Io sfavillio di un unico diamante". A poco a poco si rivela l'unità, questa unità inconcepibile, e che tuttavia può essere colta nell'elevata sottigliezza dello spirito.

Sembra che, adattandosi con elasticità al movi�mento quasi inafferrabile del tempo, il buddhismo contemporaneo, al suo livello più puro, abbandoni a poco a poco i concetti e le forme antiche, come un viaggiatore che si sbarazzi di accessori diventati superflui. Così si allontanano, ma senza fretta, senza rinnegamento, senza rivoluzione, le superstizioni di un tempo, le avventure mitologiche di dèi e dee, le credenze inutili e anche oscure, tutto quello che potrebbe passare per sovrannaturale, cioè per esteriore.

Al loro posto si impone lo spirito, uno spirito creatore, capace di elevarsi e frequentatore dell'eternità. Secondo gli insegnamenti più raffinati (e più difficili) del tantrismo, questo spirito, sbaraz�zatosi di ogni inutile bagaglio, vede tutta la verità in questo mondo e nella percezione che ne abbiamo. Inutile, come voleva il Mahayana tradizionale, cerca�re al di là di questo mondo, in una foresta di invisibi�li. Tutto è qui. Il nostro sforzo deve tendere a ricer�care la purezza dell'apparenza, cioè i fenomeni che racchiudono ogni verità come messi a nudo, rivelanti la loro vera natura.

Lo spirito diventa così la sua propria macchina, luce e specchio. Le divinità che si possono invocare hanno perso ogni esistenza separata, non sono che

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delle espressioni della vera natura di ciò che è. Si può anche considerarle cosa non contraddittoria come prolungamenti del nostro pensiero.

Come ha scritto un maestro tibetano, Chogyam Trungpa, questo lavoro dello spirito è "una delle intuizioni più avanzate, più acute e più straordinarie mai sviluppate. È insolito e originale. È potente, magico e oltraggioso. Ma è anche estremamente semplice".

Resta da domandarsi e i maestri del pensiero buddhista non hanno mancato di farlo se lo spiri �to stesso non sia in ultima analisi un'illusione, l'illu�sione suprema. Abbiamo già ricordato questa autoe�saltazione dello spirito. Che esso si dia un nome e che si analizzi non prova in alcun modo la sua esi�stenza (contrariamente all'affermazione di Carte �sio). Può benissimo darsi che sia solo uno degli attri�buti della grande rete della Maya, o anche la rete intera, l'illusione che avvolge tutti, anche gli dei e forse anche i buddha.

Ma questa è un'altra avventura. Pur prendendola in considerazione, perché tutto va considerato, il buddhismo generalmente la rifiuta. Esitante fin dall'origine fra la tentazione del gioco che potrebbe chiamarsi il gioco del nulla, questo gioco ove lo spirito, per la sua agilità stessa, finisce per perdere ogni supporto e per riconoscere "io sono colui che non è" e la necessità di una morale quotidiana in que�sta vita relativa e sofferente che non possiamo evitare, il buddhismo ritorna sempre all'aspetto pratico, persino pragmatico. Ci indica come vivere. E sogna una landa segreta, dove la luce e il vuoto hanno co�minciato, e finiranno, per confondersi.

E PER FINIRE, IL VUOTO

Le scritture fondamentali del Mahayana costituisco�no un centinaio di volumi. Una parte di queste scrit �ture porta il nome di Prajnaparamita.

La prajna è una qualità che tutti abbiamo, che di solito sonnecchia ma che possiamo risvegliare. Il più delle volte si traduce questa parola con "saggezza", ma pare inesatto. Si tratta piuttosto di una predi�sposizione alla saggezza e al risveglio, che possiamo mettere all'opera o lasciare dormire.

La Prajnaparamita è il compimento della prajna, l'arrivo alla meta. Una frase, che si attribuisce al Buddha stesso e che viene detta "la grande liberazione", "il mantra senza eguali", dice così: "La forma non è che vuoto, il vuoto non è che forma".

Oppure, secondo altre traduzioni: "Là dove c'è la forma, c'è il vuoto, e là dove c'è il vuoto, c'è la forma".

Domando al mio ospite:

"Posso sperare di comprendere un giorno que�sto mantra?".

Dapprima ride sonoramente. Poi riconosce che il vuoto, sunyata, fra le quattro nozioni buddhiste fondamentali (le altre tre sono la transitorietà, l'interdipendenza e la sofferenza), è certamente la più misteriosa, la più difficile da cogliere. Che cosa è dunque questo immenso edificio di esperienza del pensiero che non si aprirebbe alla fine se non suun'assenza di sostanza? Quali sarebbero i fondamenti di questo edificio dello spirito che l'ha costruito? Se il vuoto è la sola realtà a non essere illusoria, a sfug �gire alla rete della Maya, chi ha teso questa rete? Si può vivere in una vertigine? Immaginare un sogno senza il sognatore?

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Il Dalai Lama mi risponde dapprima che il vuoto è una nozione scientifica:

"Lei stesso l'ha detto. Noi siamo vuoti, la materia che ci compone è, per così dire, vuota".

"È vero, il nucleo di ogni atomo, se è ancora possi�bile parlare di dimensioni a questa scala, è infinitesi �mo rispetto all'atomo stesso. Un granello di riso, l'ab�biamo detto, sotto la cupola della basilica di San Pie�tro. Lo stesso per l'universo. Se tutta la materia nu�cleare di miliardi e miliardi di galassie si disper �desse nella distesa dell'universo, la densità di questa materia sarebbe ridotta praticamente a nulla. Qual�che particella per metro cubo. Impercettibile."

"Vede bene."

"Ma suppongo che la concezione buddhista del vuoto non avesse, per Nagarjuna, un punto di par �tenza scientifico."

"E perché no? Vi è più di una strada che porta alla conoscenza. E talvolta queste strade si incontrano."

"Si può parlare del vuoto senza parlare nel vuoto?"

"Lo credo. E bisogna precisare anzitutto che il termine "vuoto" non vuole dire "nulla". A torto alcu�ni commentatori hanno accusato il buddhismo di "nichilismo". Il mondo, di cui facciamo parte, non è un essere in sé, né un insieme di esseri. È una fluidità. Una corrente di stati. Questo non significa che sia nulla."

"Dire "non sono" non significa dire "sono niente"."

"Assolutamente. E questo si spiega così: tutte le cose dipendono da altre cose. Nulla esiste separata�mente. Credo d'altra parte che su questo punto lascienza contemporanea proceda sulla nostra stessa strada."

"Sono d'accordo. Essa pone più spesso l'accento sulle relazioni tra i fenomeni, piuttosto che sui feno �meni stessi."

"Noi diciamo così: a causa di tutte le influenze che ricevono, le cose appaiono, esistono e scompa�iono. Incessantemente."

" In una corrente continua."

"Ma esse non esistono mai di per sé. Questa ma�no, ad esempio..."

Apre la mano, palmo in su, la pone sotto i miei occhi.

"... dà un'impressione di solidità, di coerenza. Offre allo sguardo una forma precisa. Ha tutte le apparenze di una entità."

Tocca ora le diverse parti della propria mano, il palmo, poi le dita, poi le falangi.

"Ma se mi interrogo sul serio, se mi domando: in fondo, che cos'è la mia mano? È questo dito? È que�sta parte del dito? No, non posso che rispondere: il dito è il dito, non è la mano. Ma a sua volta è un insieme di falangi? No, perché posso scomporlo in falangi e non studiare, guardare, denominare se non ognuna di queste falangi."

"D'altronde perché fermarsi alle falangi?"

"Naturalmente! Posso scendere sempre più profondamente all'interno di questa mate

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ria che è qui senza mai incontrare veramente la mia mano."

"Tuttavia, lei si serve della sua mano."

"È qui per questo. E ne sono molto contento. Questa combinazione di elementi diversi, ciascuno dei quali si scompone e che, insieme, si riuniscono, la chiamiamo "una mano". È molto semplice. La de�finiamo così per un consueto procedimento dello spirito. È ciò che noi chiamiamo realtà relativa."

"Che dipende da elementi diversi da se stessa?""Esatto. Perché nulla esiste senza una causa. La natura profonda di questa mano è quella di apparte�nere a tutta una trama di influenze, di cui nessuna è duratura."

"Perciò questa mano cesserà un giorno di essere la sua mano."

"Non lo sarà stata che per un periodo molto breve, se la si rapporta all'età del mondo. Un momento fug �gente, quasi inafferrabile. Siamo tutti convinti di vivere indipendenti gli uni dagli altri, che questa mano, questo foglio di carta abbiano un'esistenza separata."

"Il nostro spirito ha bisogno di scomporre e di denominare. Non può accontentarsi di una visione complessa e confusa del mondo."

"Visione complessa che bisogna tuttavia ammet �tere e cercare di cogliere. Senza questo scegliamo di rimanere nell'illusione. Se ogni essere vivente, se o�gni oggetto godesse di un'esistenza indipendente, nessun altro fattore potrebbe influenzarla. Le rela�zioni di cui lei parla non esisterebbero. Ora, noi ve �diamo che queste influenze, queste relazioni sono molteplici e incessanti."

"La mancanza di un'esistenza indipendente, è dunque questo che lei chiama "vuoto"?"

"Precisamente. La forma è dunque '`vuoto", cioè non separata, non indipendente. Questa forma di�pende da una molteplicità di altri fattori. È la realtà relativa."

"E perché il vuoto è forma?"

"Perché ogni forma si sviluppa in questo vuoto, in questa mancanza di esistenza indipendente. Il vuoto non esiste se non per portare alla forma Non può esse �re altrimenti. Il vuoto senza la forma non ha senso."

Così il foglio di carta sarebbe vuoto. Vuoto, cioè pieno. Pieno di tutto il cosmo.Nella tradizione tantrica del Vajrayana, del "veicolo di diamante", si vede persino sparire la distinzione fra realtà assoluta e realtà relativa, fra il "non nato" e il "nato" o, se si preferisce, fra l'essenza e l'esistenza. La verità definitiva e invalicabile può esserci data nel mondo dei sensi, dalla tecnica chiamata di "visualizzazione sacra". Essa raggiunge il tathata, l'evidenza. I fenomeni cessano di apparire come fenomeni, davvero il problema dell'ignoranza e della distinzione non si pone più , tutto ci è dato da questa percezione superiore, nulla dev'essere cercato oltre.

L'unità si impone. È lampante. Nulla separa allora il vuoto e la luce.

Veniamo ora ed è quasi inevitabile al delicato concetto di "virtualità" che, da una decina d'anni, si insinua e prende posto persino nell'espressione scientifica, mentre invade le recenti fabbriche di immagini.

Rifiutando di ammettere la creazione di un mon�do a partire dal nulla, ex nihilo, perché in questo caso il fisico non avrebbe in fondo nulla da dire di fronte all'assenza di materia, alcuni scienziati con�temporanei più arditi, come Michel Cassé, pa

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rlano di un "coraggio davanti allo zero"' e semplicemente rifiutano il nulla. Distinguono nettamente il vuoto metafisico, o nulla, puro concetto dello spirito, dal vuoto quantico, che vedono popolato da una infini �tà di "virtualità".

Questo vuoto non è "nulla". Suppone l'esistenza di un campo, ma questo campo ci sfugge, non è individuabile. Possiamo vederne gli effetti, perché collega fra loro le particelle reali, e ci sembra anche in movimento, ma non possiamo osservarlo. È perquesto che lo chiamiamo vuoto, mentre è pieno. Pie�no di virtualità della materia.

Per giungere all'esistenza apparente, le unioni di particelle virtuali non attendono che un'attivazio �ne, e il fatto stesso di osservarle può giocare un ruo�lo determinante. Siamo così molto vicini all'assenza di dualità fra l'osservatore e l'osservato molte volte ripetuta nella storia dell'induismo e del bud �dhismo. "Per sempre inseparabile dalla cosa che ve �de è la cosa vista": così diceva, nel XVI secolo, Kun Khyen Pema Karpo.

Michel Cassé, astrofisico, giunge a dire che "la conoscenza dello stato del vuoto è diventata una condi�zione necessaria per la costruzione di un modello coerente di natura". Vede questo vuoto come "una cosa piena e con un destino" e lo pone "al vertice cosmico e logico del problema delle origini". Scrive anche, nelle ultime pagine del suo libro: "Essere nel vuoto, è essere a casa propria".

Nessun insegnante buddhista vi troverebbe nulla da ridire.

Per il momento sono abbastanza rari i fisici che si avventurano su questo terreno. La maggior parte preferisce attenersi alla materia così come ci appare. E questa materia sembra serbare ai loro occhi il suo senso tradizionale: qualcosa di solido, di pesante, in sintesi, qualcosa di pieno. Il Big Bang sembra loro il limite rigoroso al di là del quale nulla può essere detto, né pensato, né immaginato. Davvero è diffici�le considerare la materia come vuoto, come se si fosse, a poco a poco, dopo secoli di osservazione, praticamente smaterializzata.

È qui, forse, che l'elasticità del buddhismo può aiutarci ad accettare quello che noi stessi abbiamo scoperto, e che le parole consuete non ci permetto �no di dire.

Tuttavia il Dalai Lama mi fa notare:"Quando abbiamo denominato le cose, allora possiamo dire che dipendono dal nostro spirito. Così il Big Bang, come la materia, dipende forse dal nostro spirito".

"E anche da un bisogno del nostro spirito."

"Fa così dunque parte della realtà relativa. Lo chiamiamo oggi il Big Bang. Domani gli daremo senza dubbio un altro nome. Non lasciamoci imprigiona�re da concetti formulati con parole. Gli uni e le altre sono effimeri. Accettiamo il vuoto con un sorriso e, poiché tutto dipende dal nostro spirito, confidiamo nel nostro spirito."

Mi ricorda che questa fiducia, evidentemente, non deve essere cieca. Il buddhismo dispone, a questo proposito, di un immenso arsenale di precauzioni, per difendere lo spirito dallo spirito, e per condurlo al proprio vertice. Il passo supremo porta alla scom �parsa dello spirito, dei demoni, del Buddha stesso. Il vuoto è la grande meta. Quando la verità ultima è raggiunta, ha cantato Milarepa,

Non c'è chi medita, né oggetti su cui meditare, non vi sono segni di compimento, non tappe, né vie da percorrere, non sapienza ultima, non corpo del Buddha. Anche il nirvana non esiste. Tutto questo non è che parola, modo di dire.

Inutile pretendere di cominciare da questa scom�parsa, idealmente sperata, da questo accesso alla pienezza del vuoto. Se la proclamassimo come pri �ma cosa, non ci c

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ondurrebbe che allo scoraggia �mento solitario, frutto del nichilismo, o alla violenza disordinata dell'egoismo: giacché nulla esiste, giac�ché non sono controllato da alcuna autorità supe�riore, perché non abbandonarmi agli istinti più ra �paci?"Una cosa non può essere messa in dubbio," mi dice per concludere il Dalai Lama "cioè che esiste in noi la possibilità di una qualità. È la prajna. Possia�mo negare tutto, tranne questa possibilità che abbia�mo di diventare migliori. Riflettiamo semplicemen �te su questo."

Mi afferra le mani e le tiene a lungo nelle sue.

Mi guarda sorridendo.

Come ogni conversazione, anche questa ci con�duce al silenzio.

Fine.

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