Da dove a dove

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Racconti di un trekker obertengo

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da Dove ... a Dove

Racconti di un

Trekker

Obertengo

di Cristiano Zanardi

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Nota per i lettori.

Abbiamo deciso di raccogliere in modo sistematico e facilmente scaricabile dal

web le “storie” delle escursioni che Cristiano Zanardi ci regala e che noi,

periodicamente, pubblichiamo.

Ci è sembrato, infatti, opportuno che l’apporto appassionato del nostro

collaboratore non andasse disperso nella gestione quotidiana di un sito web. Non

vogliamo, infatti, che i racconti delle sue escursioni, che sono prima di tutto

racconti di passione per la montagna e per la sua terra, rischino di essere

bruciati in tempi brevi o inevitabilmente releganti in archivi che, col passare del

tempo, sono destinati a essere sempre meno consultati.

Terre di Marca Obertenga

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RACCONTARE LA MONTAGNA

“Ti scrivo da un territorio da visitare, da gustare..da

abitare”, leggo sul sito delle Terre di Marca

Obertenga, che mi piace, perché racconta il mio

territorio in una maniera molto gradevole, quasi

come i radiocronisti di una volta raccontavano le

partite di calcio a “Tutto il calcio minuto per

minuto”, alla domenica pomeriggio. Io aggiungerei

“da vivere”, “da scoprire”, “da percorrere a piedi

in lungo e in largo”…

La mia passione per l’escursionismo nasce una decina di anni fa. La curiosità mi

ha spinto ad indossare un paio di scarponi da trekking, mettere lo zaino in spalla

e partire per il sentiero che inizia dove finisce l’asfalto a Caldirola, il mio paese.

Da allora non mi sono più fermato! Il nostro territorio, così vario, comprende

anche la zona nota come “Appennino delle quattro province”, il tratto di catena

appenninica dove si incontrano le province geografiche di Alessandria, Pavia,

Piacenza e Genova.

A un passo dalla pianura padana, a un passo dal mare.

Queste zone, vero e proprio crocevia di sentieri che si sviluppano sui tracciati

delle antiche “Vie del Sale”, rappresentano un forte richiamo per gli

appassionati dell’escursionismo e, più in generale, della natura e offrono

panorami impagabili.

In questo spazio, cercherò di raccontare la montagna vista attraverso i miei

occhi, con l’aiuto delle immagini che ho scattato dalle vette del nostro appennino.

Descriverò itinerari escursionistici – dai più conosciuti ai meno noti – cercando

di raccontare ogni escursione come un piccolo viaggio, soffermandomi sulle cose

da vedere e sugli aspetti più caratteristici di ogni percorso. Con la convinzione

che, prima o poi, anche chi mi legge possa decidere di ammirare di persona

queste meraviglie della natura.

Allora, ci vediamo sui sentieri ?

La raccolta completa delle escursioni e delle immagini potrete trovarla su:

http://aunpassodallavetta.wix.com/trekking

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Indice

Da Vegni alla Boglianca passando per Casoni, Ferrazza e Reneuzzi …………………………………… 6

Dalle Capanne di Cosola al Carmo …………………………………...…………………….............................. 8

Da Caldirola a Piuzzo …………………………………………………………………...…..................................... 10

Dalle Stalle di Salogni all’Ebro … imbiancato ………………………….…………………………………………. 12

Ciaspolando verso Panà………………………………………………………………...…………………………………… 14

Una ciaspolata senza merenda ………………………………………………………………………………………….. 16

Una giornata quasi perfetta ………………………………………………………………………………………………. 18

Feel good time ………………………………………………………………………………………………………………….. 20

L’uovo fuori dalla cavagna ……………………………………………………………………………………………..….. 22

Addio neve …..! …………………………………………………………………………………………………………….….. 25

Il villaggio abbandonato di Camere nuove……………………………………………………….………………... 28

Una giornata in Antola ………………………………………………………………………………………………………. 31

Avi, il borgo abbandonato ………………………………………………………………………………………………... 34

Il paese fantasma di Rivarossa……………………………………………..…………………………………………….. 37

Quattro passi a Volpara.……………………………………………………………………………………………………… 40

La Croce degli alpini: da Pertuso a Roccaforte………………………………..…………………………………… 43

Vento fresco e panorami mozzafiato: la traversata da San Fermo all'Antola ………………..……. 47

Che botta … ragazzi! Da Bocche di Crenna al Monte Lesima …………………………………….………… 50

Sugli stessi sentieri, dopo 150 anni …………………………………………………………………….…………...... 54

Un San Giuseppe congelato ………………………………………….……………………………….…………………… 59

La neve sull’Antola …………………………………………………………………………………………………………….. 63

Una sorpresa… inaspettata …………………………………………………………………………………….………….. 67

Panorami infiniti: da Bruggi a Monte Bagnolo ………………………………………..……..…………………… 72

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Devo ammetterlo, sono un po’ teso. Oggi ho finalmente deciso di affrontare l’escursione ai paesi abbandonati della Valle dei Campassi, dopo anni passati a documentarmi sull’itinerario e sulle leggende che ruotano attorno ad esso. Quando parto alla volta di Vegni, mattina presto, è già caldo afoso, anche a mille metri. Non ho minimamente idea del fresco che troverò, qualche ora più tardi, attraversando il Rio dei Campassi.

L'itinerario, chiamato "I Villaggi di Pietra", va a toccare una delle valli più selvagge e incontaminate dell'appennino - la Valle dei Campassi - attraversando i resti di quelli che, una volta, erano piccoli villaggi normalmente abitati, posti lungo l'itinerario della "Via del Sale" - fitta rete di sentieri che dalla pianura padana conduceva al litorale ligure - mentre oggi, ciò che di quei paesi rimane, sono soltanto ruderi, boschi che conquistano lo spazio una volta occupato dalle case e, infine, una discreta parte di leggenda (legata principalmente al paese fantasma di Reneuzzi, e di cui racconterò ampiamente più avanti). Non solo Reneuzzi: prima di arrivare qui, incontriamo Casoni di Vegni e Ferrazza, altri due paesi fantasma. Ma andiamo con ordine.

Raggiungere la partenza

Vegni è un tranquillo paesino dell’alta Val Borbera, raggiungibile percorrendo la SP140 prima e, superato l’abitato di Cabella Ligure, la SP147, che porta a Carrega Ligure. Dopo essere transitati sul secondo ponte (sul torrente Carreghino), scendiamo sulla destra fino al livello del fiume e lo attraversiamo su di un ponticello di dimensioni molto ridotte, per poi risalire, per circa 6 km, fino al paese.

Lasciamo l’auto nella piazza del paese, e ci dirigiamo sulla strada asfaltata verso destra, attraversando un nucleo di abitazioni (Vegni è composto da due grandi gruppi di case, uno sulla sinistra, in alto, e uno sulla destra, dove si trova la chiesa) e seguendo la strada fino alle ultime case del paese, senza scendere verso la chiesa. Raggiungiamo così una curva dove possiamo vedere, sotto di noi, il cimitero del paese e dove, dopo una breve salita, termina la strada asfaltata e iniziano i sentieri numero 242 e 245.

Da Vegni alla Boglianca passando per Casoni, Ferrazza e Reneuzzi

Partenza: Vegni Arrivo: Boglianca Distanza a/r: 14 km circa Tempo di percorrenza a/r: 6 ore circa Segnavia: bianco-rosso n. 242

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La leggenda di Reneuzzi

Se Casoni di Vegni ci ha sorpreso nella sua cupezza, Ferrazza ci ha ridato un po’ di respiro, e lo abbandoniamo con maggiore tranquillità. Proseguiamo in leggera discesa sullo stretto sentiero e a un certo punto compaiono in lontananza, in corrispondenza di una curva, il profilo di un campanile e di un cimitero. E’ il segnale che siamo arrivati a Reneuzzi. Si tratta del campanile dell’oratorio di San Bernardo Abate e del cimitero di Reneuzzi, posti l’uno di fianco all’altro e attraversati dal sentiero. Non male come ingresso in paese…

Anche l'aria che si respira è diversa, è una sensazione che dicono di aver provato tutti quelli che sono arrivati fin qui, una specie di ansia forse legata a tutte le leggende che ruotano attorno a questo piccolo villaggio. Spingendo il cancello arrugginito e cigolante, entriamo nel piccolo cimitero (secondo alcuni "il più piccolo d'Italia", e non andiamo lontano dal credere loro), che ospita non più di 5-6 tombe, ormai nascoste dalle erbacce e senza più segni di riconoscimento dei defunti. La più vicina all'ingresso, è più grande delle altre e chiaramente più recente, e reca una lapide con la foto e il nome di tale Davide Bellomo. E' sufficiente fare una breve ricerca su internet per scoprire che, effettivamente, a Reneuzzi è successo qualcosa di particolare, e la tomba più recente del cimitero è quella del protagonista della vicenda, toltosi la vita nel 1961, a soli 31 anni, dopo aver commesso un omicidio passionale.

Riflessioni

Il sentiero dei "Villaggi di Pietra" è senza dubbio l’escursione più affascinante che, ad oggi, abbia affrontato. Scoprire questi villaggi regala un'emozione del tutto particolare, come se si andasse a scoprire un qualcosa che nessuno pensava potesse esistere. Già il solo fatto di incontrare resti di veri e propri borghi, alcuni - come Reneuzzi - con chiesa e cimitero, procedendo su di un sentiero largo poco più di due piedi, è un fatto alquanto insolito, che lascia stupiti anche se al momento della nostra partenza già sappiamo quello che troveremo. Tutti i sentimenti che ci pervadono sono sicuramente agevolati dalla particolare conformazione della Valle dei Campassi, la più isolata della provincia di Alessandria, una valle maestosa e la cui imponenza ci è ancora più evidente quando ci troviamo sul greto del Rio dei Campassi, al fondo della Valle.

L'escursione è stata resa ancora più piacevole, e va segnalato, dall'ottimo lavoro degli operai forestali della Regione Piemonte, che hanno da poco pulito il tracciato da Vegni a Reneuzzi.

In definitiva, un'escursione da fare assolutamente: non particolarmente difficoltosa, ma estremamente emozionante.

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Il Monte Carmo, riconoscibile per via della sua particolare forma, domina l’Alta Val Borbera sovrastando le frazioni di Carrega Ligure e Connio, all’estremo confine della provincia di Alessandria con le province di Genova e Piacenza. Le vallate sono aspre, difficili. La vegetazione è rigogliosa, regala una strana sensazione vedere tutti questi alberi, tutto questo verde, raramente interrotto dal rosso di qualche tetto. I piccoli villaggi sparsi per queste zone sono per lo più disabitati, quasi tutti in inverno, alcuni ormai anche durante il resto dell’anno. E’ la dura legge della montagna, sempre molto amata da chi ci è nato, che però allo stesso tempo, a malincuore, deve allontanarsene.

Un luogo di passaggio

Risalendo in auto la Val Borbera sulla SP140, superato l’abitato di Cabella Ligure, il paesaggio si fa sempre più incontaminato. Le montagne cadono a strapiombo sulla strada, che continua a salire – via via facendosi sempre più piccola – fiancheggiando sul lato opposto il torrente, fino al paese di Cosola, incastonato tra le pendici dei monti Ebro e Cavalmurone. Oltre Cosola, la salita diventa ancora più ripida e abbiamo davvero la sensazione di dirigerci verso una destinazione irraggiungibile, tanto è lungo e tortuoso il percorso per arrivare al valico di Capanne di Cosola, a circa 1.500 metri di altitudine.

Le Capanne hanno veramente l’aspetto di un “luogo di passaggio”. Alcune villette molto particolari, adagiate lungo la strada, e sul punto di confine tra Piemonte ed Emilia, proprio davanti al cartello stradale che ci ricorda di essere a cavallo tra le province di Alessandria e Piacenza, l’omonimo Albergo-Ristorante, dove fanno tappa tutti quelli che arrivano fino a qui. L’aria è buona, e fresca anche in estate. Il Monte Chiappo, con i suoi 1.700 metri di altitudine, non è poi così distante, mentre di fronte a noi svetta lo strano radar posizionato sulla vetta del Monte Lesima.

Tra due imponenti vallate

Il sentiero verso il Monte Carmo, con partenza oltre l'Albergo, fiancheggia la strada asfaltata per Bogli e Artana, per poi iniziare a salire sulla destra, con ampi panorami su Cosola, Piuzzo e

Dalle Capanne di Cosola al Carmo

Partenza: Capanne di Cosola (Al) Arrivo: Monte Carmo (mt. 1642) Distanza dell’itinerario a/r: 14.5 km. ca. Tempo di percorrenza a/r: 4 h. 30 min. ca. Segnavia: CAI bianco-rosso

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sulla Val Borbera, verso le due cime del Monte Cavalmurone (mt. 1670), da cui è possibile ammirare l'imponente piramide del Monte Alfeo. Di fronte a noi, i piccoli borghi di Pizzonero e Suzzi, ci ricordano quanto sia effettivamente isolata la Val Boreca, un luogo dove la natura la fa decisamente da padrona.

Raggiunto il Monte Legnà (mt. 1669), si raggiunge dopo una ripida discesa il Passo del Legnà (mt. 1466), con la vecchia strada che porta da Bogli a Cartasegna e che funge di fatto da spartiacque tra la Val Borbera e la Val Boreca.

Dopo aver risalito con ripidi tornanti la faggeta del Poggio Rondino (mt. 1630), all’uscita dal bosco si gode di una bella vista frontale sul Carmo, meta della nostra escursione, sempre a cavallo tra le due valli.

La salita al Carmo (mt. 1642) è ripida, ma piuttosto breve e ci permette di godere di un fantastico panorama sull’appennino delle quattro province. Dalla vetta, sulla quale è posizionata una croce metallica, possiamo scorgere i paesi di Carrega Ligure (con le Capanne di Carrega), Connio, ma anche Alpe di Gorreto e Fontanarossa, in Alta Val Trebbia. La piccola frazione di Suzzi, di fronte a noi, sembra vicina, anche se ci separa un impressionante strapiombo sull’aspra Val Boreca.

Riflessioni

Una piacevole escursione, quella al Monte Carmo dalle Capanne di Cosola. Per lo più a cielo aperto – solo un breve tratto di percorso è all’interno del bosco, ossia la salita al Poggio Rondino – e a cavallo di due valli molto isolate. Non è raro trovare altri escursionisti, lungo questo itinerario, ma nonostante ciò, la sensazione che si prova è quella di essere più che mai soli, su questo crinale da cui la vista si perde fino quasi al mar Ligure. Chi ama il trekking, a mio avviso, non può perdersi questo itinerario.

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Caldirola si trova all’estremo sud-ovest della Val Curone, a mezza costa sul versante dei monti Gropà e Giarolo. Oltre il crinale, è già Val Borbera, una valle molto diversa, più aspra rispetto alla Val Curone, che scende invece dolcemente verso la pianura. In Val Borbera, alle spalle del Monte Ebro, c’è il tranquillo paesino di Piuzzo, invisibile dal crinale, nascosto dalla vegetazione della Costa delle Braglie e della Selva di Teo e affacciato sulla strada che sale, oltre Cabella Ligure, verso il paese di Cosola.

Da Caldirola, raggiungere Piuzzo in auto non è affatto comodo: occorre infatti scendere a valle per trovare le vie d’accesso alla Val Borbera. Forse è più semplice arrivarci a piedi, scavalcando le montagne. Proprio quello che faremo oggi.

Come facevano una volta …

Facciamo finta di essere tornati ai tempi dei nostri nonni. Ci impiegheremo poco più di tre ore. E altrettante per tornare, ovviamente, parliamo pur sempre di una ventina di chilometri.

Alla partenza, dal piazzale della Colonia Provinciale di Caldirola, ci aspetta subito una dura salita, giusto per ricordarci che la montagna è piacevole, ma è anche e soprattutto fatica. Risaliamo, attraverso le piste da sci, fino a Passo Bruciamonica e da li ancora per poco fino alla linea di crinale, fino a quando – davanti a noi – si presenta la sagoma del Monte Panà. La salita al Panà (mt. 1559) e breve ma ripida, le pendenze sono notevoli e nonostante il bel panorama che si può godere dalla cima, proseguiamo senza soste in leggera discesa fino a un cancello per il bestiame, oltrepassato il quale abbandoniamo la linea di crinale per dirigerci a destra, su di uno stretto sentierino che taglia il versante del Monte Cosfrone e ci porta su di una selletta panoramica nei pressi del Monte Roncasso (mt. 1530). Da qui, sempre a mezza costa, proseguiamo in direzione del Monte Ebro su di una sterrata che inizia a scendere e ci lascia scorgere, poco al di sotto, l’ampio Prato delle Bordelle e – leggermente più distante - la Cappelletta della Madonnina del Pascolo (mt. 1419).

Da Caldirola a Piuzzo

Partenza: Caldirola, Colonia Provinciale Arrivo: Piuzzo Lunghezza del percorso (a/r): 18 km ca. Tempo di percorrenza (a/r): 6.30 h ca Segnavia: Il percorso non è segnalato. Lungo il sentiero si incontrano però a tratti dei segnavia CAI 220 laddove il percorso si sovrappone a quello delle "12 fontane". Il sentiero e la sterrata sono comunque nettamente visibili.

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Il Prato delle Bordelle e l’arrivo a Piuzzo

L’enorme prato delle Bordelle, visto dall’alto, dà l’impressione di essere il green di un campo da golf. La stupenda giornata estiva fa ancora di più risaltare il contrasto tra il verde dell’erba e l’azzurro del cielo terso. Di fronte a noi, la Fontana delle Bordelle rilascia un’acqua freschissima, che accogliamo con piacere nelle nostre bottiglie, nell’arsura dell’agosto di montagna. Poco distante, la Malga di Costa Rivazza e una sorta di stalla ormai priva del tetto. Da qui, verso Piuzzo, è solo una lunga discesa su di una sterrata che taglia il bosco dividendo la Costa delle Braglie, a sinistra, dalla Selva di Teo, a destra.

Dopo una delle ultime curve della strada, compaiono di fronte a noi le frazioni di Daglio e Vegni, ma di Piuzzo nemmeno l’ombra. Finalmente, proseguendo in discesa, dopo uno degli ultimi tornanti, spunta - tra le foglie degli alberi - il campanile della chiesa. Ci accorgiamo di essere arrivati a Piuzzo quando i cani iniziano ad abbaiare, annunciando il nostro ingresso in paese. Prendiamo la strada larga, nel frattempo diventata asfaltata, passando nei pressi di un agriturismo, fino ad arrivare ad una bacheca in legno, nei pressi della piazza, con le indicazioni per il percorso escursionistico delle “12 fontane”. Una signora intenta a stendere sul balcone di una casa ci saluta con un sorriso. Poi alziamo gli occhi: davanti alla chiesa, un parchetto con delle altalene, un tavolo in legno e due panche ricavate dal tronco degli alberi. Ce la siamo meritata, il nostro pranzo può avere inizio…

Riflessioni

Nelle nostre valli ci sono tanti paesini di cui conosciamo il nome, ma dove non siamo mai stati. Mi piace andarli a visitare attraverso i sentieri, incontrare i paesani, i villeggianti e vedere le loro reazioni. Qualcuno ti verrà incontro sorridendo con una storia da raccontarti, qualcun altro ti guarderà con diffidenza girandoti alla larga. Piuzzo, in agosto, è un paese rinato: le finestre aperte, le televisioni accese, le grida dei bambini che giocano in piazza sono interrotte solo dai rintocchi delle campane. Penso, tra me e me, che tra pochi giorni rimarrà solo la montagna, con il suo silenzio e mi sale un velo di tristezza. Ma rimetto lo zaino in spalla perché è ora di andare: il viaggio è ancora lungo, e la salita è appena iniziata.

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Ormai siamo alle soglie del Natale. Un anno fa sembrava quasi un prolungamento dell’estate, visto il clima tiepido che si era protratto molto in là. Ora no, ora è diverso. L’inverno inizia lentamente a scendere sul nostro appennino, ma ci regala ancora giornate variabili, alternate ad alcune in cui il freddo è pungente e si fa sentire. E’ già caduta la prima neve, però.

E per gli occhi è sempre un bello spettacolo, specie a queste altitudini.

La valle addormentata

L’alta Val Curone, quando cade la neve, sembra una valle addormentata. Tutto si ferma, scende il silenzio. Oggi c’è un bel sole, la neve caduta nei giorni precedenti inizia a sciogliersi, d’altra parte è la prima della stagione. Sono un po’ le prove generali di uno spettacolo che si terrà più avanti.

Ma salendo in auto verso le stalle di Salogni ci viene quasi naturale immaginare la tranquillità di questi piccoli borghi dell’alta valle ricoperti di neve, i prati imbiancati, i sentieri nascosti.

Sembra quasi che il tempo si sia fermato, che sotto a quello strato bianco nulla si muova. In attesa della primavera.

Poco prima di Bruggi, il paese più nascosto della Val Curone, una stradina sale verso le stalle di Salogni, punto di ritrovo degli amanti della montagna. Da qui si snodano numerosi sentieri, il più trafficato è senza dubbio quello verso il Rifugio Orsi, ma sono molti anche quelli che scelgono di salire alla volta di Bocche di Crenna, e da qui dirigersi poi a due tra le cime più alte del nostro appennino, il Monte Chiappo (mt. 1701) e il Monte Ebro (mt. 1700).

Alle stalle finisce l’asfalto e la strada diventa sterrata. Ma neanche ce ne possiamo accorgere, perché da alcune centinaia di metri a terra c'è uno strato di neve a ricoprire il tutto. Indossiamo gli scarponi e si parte.

Dalle Stalle di Salogni all’Ebro … imbiancato

Partenza: Stalle di Salogni (mt. 1372) Arrivo: M.te Ebro (mt. 1700) Lunghezza del percorso (a/r): 6,6 km circa Tempo di percorrenza (a/r): 1 h. 50 m . circa, con neve Segnavia: si segue la sterrata che sale oltre le stalle di Salogni fino a Bocche di Crenna, poi ci si immette sul sentiero n. 200 Anello Borbera-Spinti.

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I ricami del vento

Sulla neve si cammina a fatica, in alcuni punti è ricoperta da uno strato di ghiaccio, in altri punti il sole l'ha già resa decisamente più morbida. Su di essa possiamo distinguere le impronte di decine di animali che sono passati prima di noi. Come dire, la vita non si ferma, qui in montagna.

Costeggiamo la fiancata del Monte Ebro sempre in leggera salita e troviamo gli accumuli di neve più consistenti, creati dal forte vento. In alcuni punti, il vento ha modellato la neve a tal punto da farla sembrare una specie di opera d’arte, ricamandola con motivi originalissimi. Qui siamo dentro alla neve quasi fino al ginocchio: è abbastanza faticoso, non c'è che dire. Ma più ci si avvicina al valico di Bocche di Crenna (mt. 1553), più la presenza della neve si fa rara. Superate le ultime "cavalle" di neve, compare sotto ai nostri piedi il terreno bagnato e morbidissimo.

Da Bocche di Crenna, saliamo a destra verso l’Ebro. E' sufficiente arrivare a metà della salita, per poter ammirare un panorama meraviglioso: il Penice con le sue antenne, il Lesima con il radar, il Chiappo con il rifugio, la piramide dell'Alfeo, poi Cavalmurone, Legnà, Poggio Rondino, Carmo, Antola e Buio. L'ultimo tratto, quasi pianeggiante, ci pone di fronte il Monte Giarolo e, alle sue spalle, il massiccio innevato del Monte Rosa. Intorno a noi, le Alpi disegnano una splendida cornice, peccato per le nuvole che nascondono la sagoma del Monviso.

La cresta è quasi del tutto sgombra da neve, il vento ha fatto il suo lavoro.

Arriviamo alla croce posizionata sulla cima del Monte Ebro e ci fermiamo ad ammirare il meraviglioso panorama e ad ascoltare il silenzio, rotto solo dal rumore del forte vento che troviamo sempre a queste altitudini. Purtroppo oggi il mare non si vede, in Liguria il cielo non è terso. Peccato.

Riflessioni

I panorami che si ammirano con la neve sono un qualcosa di spettacolare, soprattutto nelle giornate soleggiate come questa. Si tratta di una prima neve, in questo caso, peraltro già ampiamente spazzata dal vento, almeno in cresta. Ma i sentieri, a valle, sono comunque irriconoscibili, coperti totalmente dal manto bianco e segnati dal passaggio degli animali.

Ci sono i lupi da queste parti, dicono. In effetti alcune impronte non sono così familiari. Chissà di notte che succede, sarebbe bello essere qui per poterlo scoprire (beh magari non proprio qui..)!

Il trekking sulla neve è faticoso, ma la curiosità per ammirare questi meravigliosi paesaggi innevati ha avuto la meglio, almeno stavolta, ed è così che - zaino in spalla - sono partito per il sentiero.

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Quale miglior modo di inaugurare il 2013 se non una bella ciaspolata?

L’anno nuovo è appena iniziato ed è già arrivata la neve, la sera di Capodanno. La natura brulla dell’alta val Curone è nascosta sotto a uno strato bianco di 20 cm, niente di che, ma di questi tempi si prende quello che viene. C’è crisi anche nelle nevicate. Siamo ancora stanchi dai bagordi dell’ultimo dell’anno, meglio non camminare troppo. Ma è una giornata troppo bella per restare chiusi in casa, c’è un bel sole e la temperatura è quasi primaverile. Così optiamo per una camminata di quasi 5 km, ma con buone pendenze e nella neve bagnata fradicia: ci faremo aiutare dalle ciaspole. Diciamo che come inizio può andare.

Verso il vecchio Convento

La salita da Caldirola al crinale che separa la val Curone dalla val Borbera non è per niente simpatica, ma s’ha da fare. Le pendenze, soprattutto nel tratto iniziale, sono notevoli, e la neve non è poca. Le piste da sci non sono ancora state battute, così passiamo nella neve fresca anche se qualcuno, prima di noi, ha già avuto la nostra stessa idea, come dimostrano le impronte di ciaspole, sci e scarponi. Per non contare le impronte che testimoniano il passaggio di una miriade di animali selvatici, con i cinghiali che la fanno largamente da padroni. In poco più di mezz’ora la salita così dura ci ha portato dai circa 1100 metri della Colonia Provinciale ai 1394 metri del Passo di Bruciamonica, dove ammiriamo il primo, stupendo, panorama su tutta la val Borbera.Dicono ci fosse un convento, poco più in là, ci sono ancora i resti. Alcuni mattoni squadrati, a formare una specie di muretto, sono tutto quello che oggi ci rimane del Convento di Brusamonica (da qui il nome del passo), eretto nel Medioevo e distrutto non si sa bene come, forse a causa delle tante battaglie che queste montagne hanno ospitato. Alcuni ne parlano come di un convento, altri di un monastero, altri di un castello. Misteri che le leggende hanno alimentato. Oggi i resti saranno sommersi dalla neve, pensiamo, quindi proseguiamo nella direzione opposta, il Monte Panà ci aspetta.

Ciaspolando verso il Panà

Partenza e arrivo: Caldirola, Colonia Provinciale (anello) Tappe intermedie: Passo Bruciamonica - Monte Panà - Bivio Rifugio Orsi Lunghezza del percorso: 4,5 km circa Tempo di percorrenza: 2 h. 30 min. circa (con neve) Segnavia: si risalgono le piste da sci di Caldirola, quindi sentiero n° 200 in cresta fino al Monte Panà, poi si taglia sul versante sinistro in discesa e si imbocca il sentiero num. 106 in direzione contraria fino alla Colonia Prov. di Caldirola

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In silenzio, ad ascoltare la montagna

La cima innevata del Panà si inizia a intravedere poco prima dell'uscita da un bel boschetto. Qui la neve è molta, meno male che abbiamo con noi le ciaspole, perché sarà così fino all'arrivo ai piedi della salita finale, che è ripida e molto scivolosa. Ma come si fa a non fermarsi? Il cielo si è leggermente velato, di un misto tra l’azzurro e il grigio. E poi basta guardarsi un attimo alle spalle per iniziare a scorgere un panorama fantastico. Così tra una foto e l’altra, la salita al Panà dura il doppio del tempo.

Raggiunta la cima, a 1559 mt., si rimane in silenzio ad ammirare lo spettacolo della natura. Il panorama è infinito.

Cerchiamo subito con lo sguardo il mare, che però è ancora una volta nascosto dalle nubi. La catena delle Alpi fa da cornice a un paesaggio meraviglioso, che si estende a perdita d’occhio. Il Monviso risalta tra le altre montagne, così come il Cervino e il Rosa, la cui cima svetta dietro alla Statua del Redentore e alle antenne del Monte Giarolo. Ancora qualche foto, non possiamo perderci questo spettacolo.

Poi si riparte, questa volta in discesa. Decidiamo di ritornare per un’altra strada, non segnalata, scendendo sul versante della val Curone del Monte Panà lungo una staccionata, fino ad incontrare l’intersezione con il sentiero 106, che conduce da Caldirola al Rifugio Orsi. Lo percorriamo in senso contrario, togliendoci anche le ciaspole, visto che qui la neve è decisamente poca, e in quasi venti minuti, ciaspole sotto braccio, siamo alla nostra macchina, pronti per il rientro.

Riflessioni

Una camminata “per le feste”: tranquilla, breve, alla portata di tutti, anche di chi è meno allenato. Un consiglio? Comprate le ciaspole. Se amate camminare sulla neve fresca, non potete farne a meno. Senza di loro, la salita fino al Panà oggi sarebbe stata faticosa il doppio. 60 euro spesi bene. E ripagati dalla meraviglia che potete vedere con i vostri occhi arrivando fin qui sopra in giornate come questa, con la neve, un sole primaverile e la pace della montagna. E poi aiutano anche a smaltire il cenone.

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Neve, neve, neve. Il 2013 continua a regalarci panorami imbiancati, come non succedeva da tempo. Io sono un montanaro atipico, non perché non abbia la testa dura, ma nel senso che non amo sciare. Amo ciaspolare, però. Questa volta sono riuscito a organizzare una bella camminata con le racchette, dovrebbe raggiungermi Francesca, con la quale da un po’ parliamo di fare un’escursione sulla neve, non vedo l’ora. Ho già organizzato tutto, salame, fontina, vino, tutto pronto. Anche un po’ di grappa per scaldarsi, non si sa mai. Poi la sento, ha la febbre, non può venire. Che faccio, vado lo stesso? Certo che si. Ma per questa volta niente merenda, aspetto che Francesca si rimetta.

Foto ricordo

Sono indeciso sul giro da fare. Salirei per le piste da sci di Caldirola, ma con gli impianti aperti penso che sarebbe opportuno passare dall'altra parte, verso il Rifugio Orsi. E allora, per andare in cresta, la soluzione più veloce è salire dal versante non segnalato del monte Panà. Metto le ciaspole e parto per il sentiero numero 106, ma le tolgo dopo pochi metri: la neve è troppo gelata, si fa meno fatica con i soli scarponi. Riparto con le ciaspole in mano, fermandomi spesso a immortalare lo spettacolo della neve, illuminata dal sole che filtra tra gli alberi spogli. Superato il bivio per il sentiero 115, arrivo nei pressi del cancello, sul versante del Panà, dove si apre la vista sui monti Ebro, Chiappo e Cosfrone. Pianto le ciaspole nella neve e mi fermo per una prima sosta per bere un sorso d’acqua e scattare qualche foto. Da qui, per salire al Panà, non si può fare a meno delle ciaspole, anche se il dislivello è eccessivo. In alcuni punti la neve è più ghiacciata e le ciaspole fanno presa sulla crosta con i ramponi, ma in altri punti si affonda fino al ginocchio e ogni passo avanti, se ne fanno due indietro. Quando arrivo sul Panà, con grande rammarico vedo subito che la foschia della pianura è impenetrabile, ma il panorama merita comunque di essere ammirato. Ah, e poi ci vuole una foto ricordo per Francesca, che è rimasta a casa. Mentre la scatto rido da solo, pensando all’espressione che farà quando la vedrà.

Una ciaspolata senza merenda

Partenza: Caldirola, Colonia Provinciale Tappe intermedie: Bivio Rifugio Orsi, M.te Panà Arrivo: M.te Cosfrone (mt. 1651) Lunghezza del percorso (a/r): 7 km ca. Tempo di percorrenza (a/r): 3h. 30 min. ca. Segnavia: 106 fino al bivio Rifugio Orsi, poi si sale lungo le pendici del Panà (non segnalato) e quindi, in cima, si segue la cresta (200) fino al M.te Cosfrone.

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Qui mi sento libero

Sono stanco, mi fermerei. Ma ne varrebbe la pena, dopo tutta la fatica fatta? Chissà che spettacolo potrebbe essere proseguire fino al Cosfrone. E allora riparto, veloce. La cresta si percorre bene, c'è tanta neve ma con le ciaspole si procede spediti. C'è un sole fortissimo, scorrendo con lo sguardo in direzione del mar Ligure, si vede la foschia schiarirsi, ma non abbastanza da lasciarmi intravedere Capo Noli, mentre dalla parte opposta, la prospettiva inganna e sembra che la palla-radar sulla cima del Monte Lesima e il Rifugio del Monte Chiappo siano l'una accanto all'altro, sulla stessa montagna.

Quando raggiungo la cima del Cosfrone, a 1651 metri, rimango senza parole, è una meraviglia. La neve, il ghiaccio e il vento hanno creato dei disegni sulle staccionate e sui cartelli che sono difficilmente immaginabili da una mente umana. Mi fermo ad ammirare lo spettacolo di fronte a me, e mi sento veramente libero, come mi accade solo quando sono quassù.

Le montagne di fronte a me, stracolme di neve, sono divise solo da un po' di foschia nelle valli interne. La vetta dell’Ebro non è distante, ma è tardi e non me la sento di proseguire oltre e decido di fermarmi, proprio mentre arrivano altri due escursionisti muniti di racchette da neve, che mi salutano e proseguono oltre. Rimetto lo zaino e torno verso casa. Mentre cammino, ripenso a quello che Francesca si è persa oggi, un vero peccato. Ma anche a me è mancato il suo sorriso, le sue battute. Speriamo di poter presto ripetere la ciaspolata, con lei. E la merenda!

Riflessioni

Escursione di per sé non molto impegnativa, ma resa molto dura dalla presenza della (troppa) neve, soprattutto sul versante non segnalato del Panà. Con pendenze così elevate, in alcuni punti, senza rami o altro a cui attaccarsi, non è semplice rimanere in piedi. Non a caso ho impiegato oltre un’ora per fare una salita che, normalmente, richiede non più di venticinque minuti. Ma una volta arrivati in cresta, è una meraviglia. Per gli occhi, per l'anima, per tutto. Avrei fatto volentieri a meno della foschia che ha oscurato buona parte del panorama, ma non si può avere tutto. E col sole che c’era…quasi quasi al ritorno in ufficio dico che ho fatto un weekend alle Maldive.

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Finalmente si ciaspola! Mentre la aspetto, fermo in macchina, sbadiglio in continuazione, davanti alla bocchetta del riscaldamento che mi soffia aria calda in faccia. Fuori fa freddo, prima -7, ora la temperatura si è alzata, ma io sono vestito con milioni di strati e nonostante tutto un brividino mi sale per la schiena. Quando Lei arriva, mi affianca con la macchina prima di parcheggiare, mi fa uno dei suoi sorrisi contagiosi e io mi sveglio. Buongiorno mondo! Sale in macchina e si parte, ho pensato che potremmo andare fino alla strada che sale alle stalle di Salogni, lasciare la macchina, mettere le ciaspole e partire, a piedi, per andare fino al M.te Chiappo.

Una salita faticosa

Il rumore delle racchette che rompono la neve ghiacciata è già fastidioso dopo pochi minuti di viaggio, credo che più andremo avanti, più ci abitueremo e non ci faremo più caso. O almeno lo spero. Il sole picchia, fa caldo. E' lunga arrivare alle stalle, ma passa piuttosto in fretta, raccontandosi qualcosa e guardando un po' il panorama intorno, con Bruggi che appare e scompare dopo ogni curva della strada e qualche bella vista su tutta la val Curone. Dopo una piccola sosta alla fontana dietro alle Stalle, con un po’ più di forza e voglia di ridere ripartiamo alla volta di Bocche di Crenna. Un altro ciaspolatore in breve ci raggiunge e fa con noi il pezzo di strada che manca per arrivare al valico, dove ci salutiamo e prendiamo direzioni diverse. Quando arriviamo al Prenardo, vediamo finalmente il rifugio del Chiappo avvicinarsi. Dopo un ultimo strappetto in salita, ci dirigiamo verso la cima del monte, con la statua di San Giuseppe attorno alla quale la neve già se ne è andata. Lei scatta una foto panoramica, poi scendiamo verso il Rifugio, che come pensavamo è chiuso.

Parlare con lei

Via le ciaspole, ci sediamo sulla panchina sul fianco che guarda verso il Lesima. Lei taglia il salame, io apro il vino. Mentre mangiamo, sentiamo le voci di altre persone, che nel frattempo sono arrivate sul monte. Certo che fa un freddo...stare fermi con quest'aria è dura, dobbiamo spostarci. Ci mettiamo davanti all'ingresso del Rifugio, su di una panchina al sole. Qui c'è meno aria, allunghiamo le gambe sulla neve, divisi solo dalla bottiglia di vino, e restiamo a parlare per

Una giornata quasi perfetta

Partenza: Bivio Stalle di Salogni, SP113 Tappe intermedie: Stalle di Salogni; Bocche di Crenna; Monte Prenardo Arrivo: Monte Chiappo (mt. 1700) Lunghezza del percorso (a/r): 13,6 km (Clicca qui per l'itinerario completo della ciaspolata) Tempo di percorrenza (a/r): poco meno di 7 h

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un po'. Resterei qui tutto il giorno, è bello parlare con Lei, è una persona profondamente piacevole. Se mi avessero detto che un giorno saremmo stati a 1700 metri, con le gambe distese sulla neve, a bere vino, mangiare cioccolato e chiacchierare mi sarei messo a ridere e avrei detto "impossibile!". Devo imparare a non dire mai "impossibile", specie con Lei. Una nuvola copre velocemente il sole e la temperatura crolla di colpo. Sono le tre passate, dobbiamo muoverci, cerchiamo di alzarci ma le nostre articolazioni cigolano, con tutto questo freddo.

Il mare

"Ma quello è il mare?", chiede Lei. Non mi ricordavo, ma effettivamente quando si è sul Chiappo al pomeriggio, capita spesso di vedere un bello spettacolo con la luce del sole che si riflette sull'acqua del Mar Ligure. "Eh si, è il mare", le rispondo, quando vedo davanti a me quella meraviglia. E' in momenti come questi che mi sento ripagato in pieno dalla fatica che faccio camminando, e credo sia piaciuto anche a Lei, perché non capita di vederlo tutti i giorni.

Poco prima di lasciare la cima del Chiappo un cane ci corre incontro per prendersi un po' di feste, dietro di lui due signori saliti da Capanne di Cosola, che ci chiedono da dove arriviamo e con i quali scambiamo due parole. Iniziamo la lunga discesa verso la macchina. Le gambe iniziano a fare male. Per fortuna che sono con Lei, penso, mentre camminiamo sghignazzando, se fossi con una persona noiosa questa strada durerebbe un'eternità. Il sole ormai sta tramontando, scendendo vediamo Bruggi illuminato ancora per metà, ma la sera sta ormai sopraggiungendo.

Forse ho scelto una camminata troppo lunga, però sono contento di averla portata là sopra, dove si incontrano le tre regioni, a vedere lo spettacolo della neve e del mare illuminato dal sole.

Prende la sua roba, ci salutiamo e se ne va, non prima di avermi detto che è pronta per un'altra ciaspolata. "Sono io a non essere pronto!", penso, mentre con l'agilità di un paralitico cerco di sedermi al posto di guida. Ma tra qualche giorno passerà tutto.

Vado verso casa, con la faccia che mi brucia per il sole e l'aria gelida, stanco, ma felice. Una giornata quasi perfetta: è bello stare con una persona che non smette mai di sorridere.

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Sono fortunato, perché quando voglio staccare la spina ho la possibilità di isolarmi dal mondo e di scappare in mezzo alle montagne, nascondermi tra i sentieri e pensare solo a me stesso. E così, sapere che potrò di nuovo tornare là sopra, mi rende felice. Sapere che ci tornerò ancora con Lei mi raddoppia la felicità, mi fa sentire al sicuro. Mi sveglio che c'è già un bel sole. Spero che Lei stia facendo il suo dovere. Me la immagino in panetteria, piena di sacchetti. Se un po' la conosco, so che non arriverà solo con il pane che le ho chiesto di comprare. Chissà, se anche Lei sta imparando a conoscermi, magari immagina che non manterrò le promesse e non avrò solo il cioccolato nello zaino.

La colazione

Quando arriva ci prepariamo, ciaspole ai piedi e via. Ah, no, dimenticavo: la colazione.

Lei fruga nello zaino e tira fuori la focaccia dolce. Io sorrido, i miei sospetti erano confermati. Una striscetta soltanto, però. "L'altra si mangia dopo”, le dico. Il sole filtra tra i tronchi degli alberi: tra poco potremo farci scaldare per bene, quando usciremo da questo bosco, sperando che non ci sia il vento, là sopra. Arriviamo al cancello sul versante del Panà, punto stabilito per la seconda colazione della giornata. Ci sediamo al sole, uno accanto all'altra. Mi passa le strisce di focaccia dolce e cominciano le prime risate. Ci scattiamo una foto alle ciaspole con il panorama del Chiappo sullo sfondo, beviamo un sorso d'acqua e ci rimettiamo in cammino. Con la pancia piena si cammina meglio.

La prossima tappa sarà il Rifugio Orsi, ma prima di arrivarci ci fermiamo a riempire le bottigliette d'acqua alla fontana che si trova lungo il sentiero, dove scattiamo una foto agli strani oggetti di ghiaccio creati dal freddo. L'ampio prato che precede il Rifugio è totalmente innevato, tagliato a metà da uno stretto sentierino creato dalle ciaspole. Arriviamo nei pressi delle fontane del Rifugio e guardiamo la salita di fronte a noi. Da ora in poi si parlerà poco.

Un’immagine da copertina

Inizia la salita verso l'Ebro: piano piano saliamo tra gli alberi, fino ad arrivare ad un punto in cui il sentierino tracciato da chi ci ha preceduto prende una strana direzione. Sono indeciso se seguirlo, perché il sentiero sale dalla parte opposta. Però vedo gente scendere di fronte a noi e quindi proseguiamo verso la loro direzione. Scelta sbagliata.

Feel good time

Partenza: Caldirola, Colonia Provinciale Tappe intermedie: Rifugio Orsi Arrivo: Monte Ebro (mt. 1701) Lunghezza del percorso (a/r): oltre 9 km. Tempo di percorrenza (a/r): 4 h. 30 min. circa

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Poco dopo, infatti, siamo costretti a tagliare nella neve fresca per riportarci sul sentiero numero 106. Arriviamo su di un piccolo spiazzo, in mezzo agli alberi spogli, dove ci sono tutte le condizioni per la terza colazione della mattinata: cioccolata, con focaccia, of course.

Ripartiamo verso il laghetto sotto al Monte Cosfrone, con la spinta del cioccolato. Il laghetto è coperto di neve e di ghiaccio, e il sentierino creato dalle ciaspole ci passa proprio sopra. Ci fermiamo un attimo a respirare, scoprendo di fronte ai nostri occhi uno spettacolo meraviglioso: i tronchi sottili degli alberi fanno filtrare il sole, e dietro di loro un cielo azzurro leggermente velato di grigio. Ai piedi di ogni albero, un cerchiolino senza neve. Un'immagine da copertina. Quando usciamo dal boschetto, vediamo finalmente vicina la meta.

Stare bene

Arriviamo in cresta, che spettacolo. Il cielo non è proprio terso, ma le nuvole sono belle da guardare, da fotografare. Il mare non si vede, nemmeno le Alpi. Ma chi se ne frega, noi siamo felici. E' ora di pranzo, togliamo le ciaspole e ci sediamo sulla base che sorregge la croce dell'Ebro, con lo sguardo rivolto verso la Val Borbera e il sole che ci illumina i volti. Io apro il vino, Lei tira fuori tutti i sacchetti che ha portato via dal panettiere, proprio come l'avevo immaginata questa mattina prima di partire. Intanto arriva gente, si siedono un po' dove riescono: mi spiace per loro, ma i posti buoni oggi li abbiamo noi. Le cose importanti ci sono tutte: cioccolata, focaccia, vino, pane, salame, fontina, io, Lei, la montagna, il silenzio. Il silenzio lo riempiamo noi con le nostre risate. I nostri vicini forse vorrebbero restare tranquilli a godersi questo spettacolo di panorama. Ma che ci vuoi fare, siamo fatti così, noi gente alla buona, parliamo con la bocca piena. Capiamo che il pomeriggio si sta facendo inoltrato quando iniziamo a vedere il sole che si riflette nell'acqua del mare, creando una sfumatura rossastra di fronte a noi. Voglio restare qui, per sempre.

Arriva la sera

Scendiamo dall'Ebro in preda alla ridarola (sarà il vino?) e ci facciamo ancora qualche foto insieme. A casa, quando le rivedrò, ne troverò una in particolare che esprime alla perfezione la nostra felicità. Per una volta, cammino senza guardare il panorama intorno a me, impegnato come sono ad ascoltare quello che mi dice, mi incuriosisce. Ci sono dei punti del sentiero del ritorno in cui neanche mi ricordo di essere passato.

Scendiamo verso Caldirola, dalle piste. La discesa dal Panà e difficoltosa, si scivola, ma passa piuttosto in fretta, poi deviamo a destra e risparmiamo un po' di strada. Quando si iniziano a vedere le case di Caldirola, manca davvero poco. Dopo l'ultima ripida discesa, vediamo di fronte a noi i fari del gatto delle nevi che sale per battere le piste. "Anche oggi abbiamo fatto tardi", penso. Guardo l'ora: le cinque e mezza, Sta scendendo la sera.

"Allora, ci vediamo sabato?" mi dice Lei mentre ci stiamo salutando. Io sorrido, e corro a casa a guardare le previsioni del tempo per il prossimo fine settimana.

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"Quando ti chiederanno cosa significa avere la lingua fuori dalla stanchezza, ricordati questo momento!", ho detto a Francesca, sulla strada del ritorno, mentre camminavamo con la testa bassa, senza parlare, trascinando i bastoncini. Lei ogni tanto alzava la testa per dire "Muerta!", io la guardavo e mi scappava da ridere, nonostante fossi evidentemente troppo stanco per farlo. Eh si, ci siamo detti, "stavolta abbiamo fatto l'uovo fuori dalla cavagna!!". La colpa è mia, come sempre, che le ho proposto un itinerario nuovo – dalle Capanne di Cosola al Monte Carmo – ma anche parecchio lungo.

In viaggio

Ci troviamo a San Sebastiano, dobbiamo svallare e andare in val Borbera, la strada è lunga e siamo ancora un po' assonnati. Arrivati al valico di Capanne di Cosola, nei pressi dell'albergo ci infiliamo lungo la strada che conduce a Bogli, ancora sporca di neve, e arriviamo in breve al punto di partenza della nostra escursione. Scavalchiamo la neve ammucchiata ai lati della strada e ci incamminiamo lungo il sentiero, che sale sotto agli alberi, per poi mostrarci la salita al Monte Cavalmurone, tutta in cresta, esattamente sul confine tra Piemonte ed Emilia. C'è un sole meraviglioso e possiamo sentire le nostre facce scaldarsi fino a bruciare. La neve fresca ci fa quasi venire voglia di buttarci per fare qualche stampino, come l'ultima volta che siamo andati a ciaspolare insieme. "Lo facciamo al ritorno", le dico, ignorando che al ritorno non avremmo avuto nemmeno la forza di camminare!

Abbiamo un buon passo, e raggiungiamo la prima delle due vette del Cavalmurone, a 1662 metri, da cui scatto qualche immagine dei tetti delle case di Cosola, così lontane e così in basso da mettermi quasi le vertigini. Tra la prima e la seconda cima del Cavalmurone, ci infiliamo in una conca naturale sul fianco del sentiero, dove la tanta neve caduta ha creato delle pareti così alte che "sembra di essere in un canyon", dice Francesca. Metto lo zaino a terra, a fare da "cavalletto" per la macchina fotografica, e ci facciamo un autoscatto, con il meraviglioso sfondo della neve a farci da contorno. Il sentiero scende e risale velocemente, verso il Monte Legnà. Francesca mi fa notare che gli alberi di fronte a noi disegnano con la loro ombra dei tratti sulla neve che sembrano fatti da una matita. Senza salire in cima al Legnà, seguiamo il sentiero sulla sinistra fermandoci alle sue pendici, a 1648 metri, in uno stupendo punto panoramico, per goderci la nostra meritata colazione, perché "siamo a metà sentiero", le dico, facendo una

L’uovo fuori dalla cavagna

Partenza: Capanne di Cosola (mt. 1499) Tappe intermedie: M.te Cavalmurone, M.te Legnà, Passo del Legnà, Poggio Rondino Arrivo: Monte Carmo (mt. 1642) Lunghezza del percorso (a/r): circa 14 km (Clicca qui per l'itinerario della ciaspolata) Tempo di percorrenza (a/r): 7 h. circa

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previsione tra le più sbagliate nella storia dell'umanità. Ci sediamo fianco a fianco sulla neve: di fronte a noi il Monte Alfeo in tutta la sua imponenza, il minuscolo paesino di Pizzonero e in basso i tetti delle case di Bogli. La colazione si protrae più del previsto, d'altra parte è quasi mezzogiorno. Ma quando ci alziamo, non sappiamo minimamente quello che ci aspetta.

A un passo dalla “muerte”

La discesa verso il Passo del Legnà non è semplice, ma il peggio viene una volta superato il valico, perché il sentiero che passa nel bosco è irriconoscibile a causa della troppa neve caduta e dobbiamo così tornare indietro per riprendere il sentiero che sale dall’altra parte, fuori dal bosco. Meno male che un'alternativa c'è sempre, in montagna. Il sentiero scende leggermente, mostrandoci sulla destra un bello scorcio del paesino di Cartasegna, con i tetti rossi già ripuliti dalla neve, poi si fa più stretto ed inizia a salire tra gli alberi. Mentre camminiamo, parliamo. "Tu un po' attiri le pazze" mi dice lei. "Certo" le rispondo io "è sufficiente che guardi con chi sei in questo momento!". Inizia un'altra salita, faticosissima, nella neve fresca. Un cartello ci ricorda che almeno fino a qui, al Poggio Rondino (1543 metri), ci siamo arrivati. Guardiamo l'ora, è tardi, per il Carmo ci vorrà ancora almeno un’ora e stanno arrivando dei nuvoloni neri che non promettono nulla di buono. Se siamo arrivati fino a qui, è un peccato fermarsi, ma se uno dei due dicesse di tornare indietro, credo che l'altro non si opporrebbe. Tagliamo sul fianco il Poggio Rondino, camminando su una neve morbidissima. Siamo distrutti, non alziamo più i piedi. La neve farinosa mi si ferma sotto alle ciaspole gelando istantaneamente e creandomi un "tacco" che mi alza ogni passo di qualche centimetro. Io continuo a scrollare i piedi per fare staccare il disco di neve gelata che mi si è formato sotto alle ciaspole. Lei usa la poca forza che le è rimasta per dirmi che assomiglio ai gatti quando si bagnano le zampe e le scrollano. Scoppiamo in una risata che ci dà ancora la forza per proseguire. Quando arriviamo sotto alla salita finale, vediamo che ancora non ci è passato nessuno e con queste cavalle di neve, salire richiederà il doppio della fatica. Io apro la strada, davanti, lei da dietro mi spinge con le mani per non farmi scivolare. Siamo ridicoli, se qualcuno ci vedesse riderebbe come un matto. Ci fermiamo a metà salita e lei mi scatta qualche foto, poi riprendiamo, per gli ultimi metri, fino a che intravediamo la punta della croce. Arriviamo in cima, a 1642 metri, gettiamo a terra zaino e bastoncini, ed esclamiamo "mai più!!". Sono le 14,30.

Presto che è tardi!

Dal Carmo il panorama è splendido. La selvaggia Val Boreca e l'Alta Val Trebbia sono separate da una catena di montagne, mentre dalla parte opposta si vedono i confini estremi dell'Alta Val Borbera. Lei si siede sulla base della croce, io scatto qualche foto e mi siedo accanto a lei. Le nuvole hanno coperto il sole e l'aria gelida ci taglia la schiena a metà. Mentre mangiamo, rivolti con lo sguardo verso il punto da cui siamo partiti, mi racconta un po' di lei, del suo lavoro e della casa che sta cercando. Alle nostre spalle, le nuvole nere hanno fatto scomparire la cima dell'Antola, mentre poco più a destra, si intravede il mare, con la luce rossa del sole del pomeriggio che riflette sull'acqua. Continuiamo a parlare, ma nonostante il vino stentiamo a scaldarci, l'aria è veramente fredda, bisogna ripartire. Ci alziamo e ci facciamo qualche autoscatto, con la faccia congelata dal freddo, poi ci rimettiamo in cammino.

Mentre scendiamo dal Carmo, alle nostre spalle le nuvole nere sembrano quasi camminare più forte di noi. Sorridiamo guardando le nostre impronte e le traiettorie che abbiamo seguito negli ultimi metri del viaggio di andata: traiettorie totalmente inventate, senza un minimo criterio. Ci credo che eravamo stanchi, barcollavamo da una parte all'altra allungando il percorso.

Alle nostre spalle, il Carmo è ormai lontano. Il cielo ha cambiato colore: guardando in direzione del mare, un fitto strato di nuvole nasconde il sole, i cui raggi filtrano però al di sotto

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illuminando le montagne, con un effetto ottico meraviglioso. Arriviamo piuttosto velocemente al Poggio Rondino, poi lei si butta sulla neve per creare un altro disegno. "Voglio fare l'omino che corre!" mi dice, dimenandosi sulla neve in posizioni assurde. Io rido come un matto, la fotografo con le lacrime agli occhi.

Arrivati al passo del Legnà, la salita di fronte a noi sembra infinita e di colpo, crolla l'entusiasmo. Saliamo lentamente, appoggiandoci ai bastoncini, con le ciaspole che affondano nella neve e ci fanno scivolare ad ogni passo. A metà della prima salita, lei mi lancia qualche maledizione per la strada che le ho fatto fare, poi si ferma. Io la raggiungo e appoggio la testa sulle sue spalle, stanco morto, lei si lascia andare e si appoggia a me. Avrei voglia di abbracciarla, non so se per scusarmi o per ringraziarla per tutto quello - fatica compresa - che abbiamo condiviso in questa giornata che ancora non è finita. Arrivati alle pendici del Legnà, ci buttiamo a terra, stremati. Ci corichiamo sulla neve, guardando il cielo azzurro e le nuvole che lo attraversano veloci. Ho freddo, mi stanno venendo i brividi.

Un tramonto da sogno

Mentre ci dirigiamo verso la prima cima del Cavalmurone, cambia la luce: ormai sono le cinque e venti. Le nuvole aumentano, il sole alle loro spalle regala delle immagini meravigliose. Il vento inizia a trascinare un po' di neve, le previsioni lo avevano detto. Scendendo dal Cavalmurone, ci ritorna improvvisamente la voglia di parlare, mentre alla nostra sinistra sta per iniziare un tramonto mozzafiato. Cade un nevischio sottile ma fitto, sospinto dal vento, mentre all'imbocco della Val Borbera il cielo diventa sempre più rosso, schiacciato tra le nuvole nere da una parte e il cielo sereno dall'altra, con quella luce stranissima che si vede solo poco prima che diventi buio. Il sole si abbassa sempre di più, fino a spuntare sotto alle nuvole, illuminando tutte le montagne dell'Alta Valle. Arriviamo alla macchina, dopo esserci tolti le ciaspole: ormai è diventato buio del tutto e sulla macchina c'è un sottile strato di neve. Saliamo e accendiamo subito il riscaldamento, ancora tutti infreddoliti e bagnati. La strada del ritorno è lunga, parliamo a voce bassa, quasi che col buio non si possa gridare troppo. Ma forse è la stanchezza che ci ha tolto anche la voce. La riporto alla macchina e ci salutiamo, poi corro verso casa, dove arrivo senza nemmeno la forza di scaricare le ciaspole e i bastoncini dalla macchina. Una doccia infinita, poi mi stendo sul divano: la stufa a pellet è carica e fuori inizia a nevicare. Domani potrò tenere il pigiama per tutto il giorno.

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Ci accompagnava da quattro mesi e sembrava non volersene andare più. Anzi, continuava ad

arrivarne dell'altra, senza dare il tempo a quella che c'era di diminuire. Il livello saliva, saliva,

fino a ricoprire interamente le staccionate sulla cresta: un manto di poco più di un metro, così, a

occhio. Il 2 gennaio la prima, forte, nevicata dell'anno, subito spazzata via da un po' di sole, poi

tre mesi intensi, fino a metà marzo, e un ultimo mese in cui nonostante non nevicasse più, la

neve non se ne andava per le basse temperature.

Un inverno lungo, trascorso con le ciaspole ai piedi, tra fatica e divertimento. Da inizio febbraio

a inizio marzo forse il periodo più intenso, più bello. Poi piano piano l'inverno con tutto quello

che ha portato è andato scemando. Solo qualche settimana fa l'ultima ciaspolata, poi una lunga

pausa. Nelle poche giornate di sole di questa fine di aprile, cerchiamo di annusare un po' di

primavera. Ce n'è bisogno, almeno per me.

In settimana, dalla città, guardavo verso i miei monti - nelle poche giornate di cielo terso - e

vedevo la neve rotta, ormai presente a chiazze e solo sui monti più alti. Altrove, si vedeva già

l'erba. Chissà però nei boschi, come sarà la situazione: tutta la neve che c'era, considerando che il

sole non ci arriva direttamente, non credo che se ne sia già andata. Per questo aspettavo con ansia

un giorno di bel tempo (o almeno senza pioggia!) per andare a farmi un giro. Quel giorno è oggi.

Il sole è un po' velato, il cielo di un azzurro un po' smorto, ma si va, non ci sono alternative.

Sono fermo da troppo tempo, ho bisogno di camminare. Ho voglia di sole e di montagna. Ora

con il sole si potranno iniziare a fare dei giri un po' più lunghi, si potranno cambiare un po' gli

itinerari, che con la neve erano in un certo senso obbligati. Ma all'inizio è bene fare un po' di

allenamento su piste collaudate, quindi oggi andiamo all'Ebro.

Quante macchine trovo già alla partenza del sentiero! Oggi sono in tanti ad avere voluto

approfittare della bella giornata, ci sarà traffico sui monti. Mi fa un po' strano parcheggiare,

scendere dalla macchina e non fermarmi a mettere le ciaspole: ormai era un'abitudine

irrinunciabile. Da oggi prendo solo lo zaino, gli scarponi li ho già indossati. E non ho neanche la

giacca a vento: inizio a togliermi peso, non solo in senso fisico, perché anche il mio umore è

migliore.

Provo una strana sensazione anche all'imbocco del sentiero 106, che vedo per la prima volta da

quattro mesi senza un filo di neve: per terra tante foglie, sul fianco del sentiero un po' di verde

sta cercando di mettere fuori il naso. Tiro un forte respiro, come per incamerare l'aria della

primavera e mi incammino.

Addio neve …!

Partenza: Caldirola, Colonia Provinciale Tappe intermedie: Bivio Rif. Orsi, M.te Panà, M.te Cosfrone Arrivo: Monte Ebro (Mt. 1701) Lunghezza del percorso (a/r): circa 9 km. Tempo di percorrenza (a/r): 3 h. circa

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E' un sentiero che ho percorso centinaia di volte, ma ogni tratto mi sembra nuovo. Il mio sguardo

aveva fatto l'abitudine alla neve e avevo rimosso tanti dettagli. Della neve nemmeno l'ombra, per

tutta la prima parte di sentiero non se ne vede, se non una piccola macchiolina che si è attardata

sulle foglie del sentiero. Però c'è un sacco di acqua, che in alcuni punti scende addirittura in

mezzo al sentiero, scavando nella terra: teniamocela stretta perché tra qualche mese tutta

quest'acqua sarà solo un ricordo. I rii sono tutti ingrossati e scendono fragorosi, facendo un

rumore che di solito non sono abituato a sentire quando percorro questo tracciato.

Mi stupisco ancora di più quando arrivo al bivio per la Fontana Nascosta, che fino a poco tempo

fa era letteralmente sommerso di neve. Anche qui non ve n'è traccia e se devo dirvi la verità,

inizio ad essere moderatamente ottimista sul fatto che il sentiero sia in buona parte pulito dalla

neve. Salgo sulla sinistra in direzione del Rifugio, poi - dopo un breve tratto di piano - sulla

destra, dopo aver superato due escursionisti con un cagnolino. Superata l'intersezione con il

sentiero 115, vedo dopo pochi passi di fronte a me il cancello posizionato sul versante del Panà,

punto di sosta (merenda?) di tante mie escursioni. Qui spesso mi fermavo a stringere le ciaspole

e a mangiare la focaccia con Francesca, oggi invece mi fermo solo per scattare una foto ai monti

davanti a me, poi riparto veloce alla volta della cima del Panà, salendo sulla destra lungo la

staccionata ed abbandonando, quindi, il sentiero 106, che secondo me sarà ancora discretamente

sporco di neve, soprattutto nel tratto dopo il Rifugio Orsi e verso il Monte Ebro. Affronto la

salita sul versante del Panà per la prima volta in assoluto senza neve e devo dire che è tutta

un'altra cosa: si sale che è una meraviglia. Mi fermo poche volte a prendere fiato e in breve

arrivo alla fine della vegetazione: di fronte a me solo l'ultimo tratto di salita - molto ripida, ma

corta - alla vetta del Panà.

Arrivo al Panà che c'è aria fredda e mi copro immediatamente mettendomi una maglia. Mentre

mi fermo a bere, vedo sullo sfondo della pianura una marcata linea di foschia che copre buona

parte del panorama, subito alle spalle del Giarolo. Ma non solo, verso la val Borbera il tempo

forse è ancora più brutto. Su di me però splende un bel sole: ora il cielo sembra avere smesso

quel velo che lo copriva e sento la fronte che brucia. Riparto alla volta del Cosfrone, mentre

davanti a me si materializzano l'Ebro e il Chiappo le cui cime sono ancora innevate, ma il manto

è "spaccato" e piano piano la neve si sta sciogliendo.

Poco dopo il cartello che mi segnala l'arrivo sul Panà, rimango colpito da quello che vedo sulla

sinistra del sentiero: un blocco di neve, piuttosto grande, è ancora presente sull'erba ma se in

alcuni punti lo strato è uniforme, in altri la neve ha iniziato a sciogliersi e ha disegnato dei cerchi

che io neanche con un compasso riuscirei a fare così bene. Dopo una foto alla neve, mi

incammino sulla salita per il Cosfrone (anzi: sulle salite..) e ripenso a quando, qualche mese fa,

ero qui sopra in mezzo alla bufera di neve, con una visibilità pari a zero. Ora questo cielo azzurro

mette voglia di vivere, e per terra stanno spuntando i primi, coloratissimi, fiori.

Un po' di neve si incontra anche prima dell'ultima salita al Cosfrone, da dove posso vedere che

anche il laghetto sul sentiero 106 è ancora nascosto sotto alla neve. Raggiunto il Cosfrone, vedo

che in alta val Borbera, tra le montagne di Vegni, Agneto e Dova c'è una strana foschia che si

insinua tra i versanti. Anche in direzione dell'Antola il cielo non è pulito come qui.

Tra il Cosfrone e l'Ebro c'è spazio per il primo, importante, ritorno della neve, che in un punto

copre tutto il sentiero e bisogna per forza di cose metterci dentro i piedi. Ma da qui in poi,

nonostante il versante dell'Ebro verso la Val Curone sia ancora tutto "sporco" di neve, io non ne

incontrerò più.

Arrivo sulla cima dell'Ebro che non c'è neanche molta aria e posso rimanere in maglia senza

morire di freddo. Anzi, il sole picchia eccome. Sulla vetta, di fianco alla croce, ci sono altre

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persone, tra cui un signore che mi dice di avere "87 anni!" lasciandomi senza parole. Arrivarci,

alla sua età, ancora a 1700 metri...

Mentre sono in cima, arriva una coppia di giovani ragazzi, che si siedono poco più in là nell'erba.

Li guardo con un velo di tristezza, o forse di invidia, sono stanchi ma mi sembrano felici. Vorrei

averla io una ragazza che ama camminare, credo che potrei essere l'uomo più felice della terra se

la incontrassi.

Sgranocchio qualcosa e bevo, mentre guardo in lontananza le cime dell'appennino delle quattro

province: solo sul Cavalmurone e sul Legnà sembra esserci ancora qualche traccia di neve,

mentre altrove - Alfeo, Carmo, Antola e Buio - sembra che la cima sia quasi del tutto verde.

Bene, bene, tra poco mi dirigerò anche verso quelle direzioni.

Il ritorno scivola via in fretta, avvolto nei miei soliti pensieri. Però sto bene, camminare con

questo bel sole e con questa temperatura gradevole è proprio un piacere. Mi tolgo anche la

maglia e mi metto in maniche corte, tanto fa caldo. Arrivato sul Panà, decido di scendere dalle

piste, per vedere com'è la situazione neve.

Qui solo tre settimane fa la neve era tantissima, specie sulla discesa del Panà, ma ora non ne è

rimasta un filo. Ha fatto proprio presto ad andarsene.

Arrivo sotto al Panà e mi metto a fissare un punto davanti a me, sulla destra del sentiero, in un

prato. Mi è sembrato di vedere qualcosa muoversi, ma da lontano non capisco cosa sia. Mi

avvicino lentamente e tengo pronta la macchina fotografica: un capriolo sta mangiando l'erba,

poco più distante. Non mi ha sentito e provo ad avvicinarmi ancora un pochino, mentre gli scatto

alcune foto e mi maledico per non aver portato con me lo zoom più potente. Tempo di fargli 3-4

foto, poi il capriolo si sposta verso l'interno del bosco, tra gli alberi. E' la prima volta che lo vedo

così da vicino e di giorno.

Attraverso il boschetto che mi porta a Passo Bruciamonica, poi scendo sulla pista numero 4,

dove invece trovo ancora un po' di neve. Qui ha faticato ad andarsene, forse perché era stata

battuta. Ma superato questo tratto, fino all'arrivo alla Colonia Provinciale, di neve non se ne

trova più.

Le piste sono agibili e sicuramente la pioggia che cadrà nei prossimi giorni cancellerà anche

quella poca, ultima, neve rimasta. Poi partiremo finalmente con la stagione estiva, visto che la

primavera, quest'anno, pare proprio essere stata cancellata dal calendario! Ah, e se mi si riprende

la compagna di camminate, magari mi diverto anche un po' di più!

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Ci siamo. A poco meno di un anno di distanza dalla mia prima escursione ai paesi abbandonati della Valle dei Campassi, oggi sono pronto ad andare di nuovo alla scoperta di quello che, un tempo, era uno dei tanti piccoli borghi dell'appennino settentrionale e che, dalla seconda metà del novecento, è stato progressivamente abbandonato dai suoi abitanti, trasferitisi ai paesi e alle città vicine, lasciandolo in stato di totale abbandono. Ora la natura si sta riprendendo i suoi spazi, ed è sempre impressionante vederlo. Visitare un paese fantasma lascia sempre una sensazione di "freddo" dentro, di solitudine, di impotenza. A me è successo anche questa volta, quando sono stato a Camere Nuove.

Camere Nuove è un paese abbandonato della Val Sisola, alta Val Borbera. Dal nome, sembrerebbe quasi trattarsi di un paese recente. Poco distante si trova infatti il "gemello" Camere Vecchie, questo sì dal nome di un paese fantasma, ma non fatevi ingannare perché non è abbandonato. Entrambi i villaggi si trovano sulle pendici del Bric delle Camere (1.018 mt.), una montagna dell'appennino ligure posta al confine con la Val Vobbia.

Per raggiungere queste valli, occorre risalire la Val Borbera prendendo la SP140 e una volta superato l'abitato di Cantalupo Ligure prendere a destra la SP145, nei pressi di Rocchetta Ligure. Dopo aver attraversato le frazioni Pagliaro Inferiore e Superiore, raggiunta Sisola la strada si biforca: a destra (SP144) si sale a Roccaforte Ligure, mentre noi proseguiamo a sinistra sulla SP145 per Mongiardino Ligure. Superate un'infinità di piccole frazioni, ci si ferma solo una volta raggiunta la località Costa Salata (797 mt.), che si trova esattamente sulla costa al confine con la Val Vobbia.

A Costa Salata, di fronte all'omonimo albergo ristorante, si prende il bivio sulla destra per Pianzuola, ma a dire il vero si può già parcheggiare l'auto qui. Sono infatti presenti le indicazioni del sentiero numero 200 per il Pian dei Curli (1 h.) e per il Bric delle Camere (1 h.45 min.). Poco più avanti, tra alcune case, occorre tralasciare la strada principale, che prosegue in discesa verso Pianzuola, e prendere uno stretto bivio che sale a sinistra, segnalato da una freccia di legno le cui scritte sono ormai scolorite, ma intendiamo che si tratta del sentiero per Camere Nuove. La strada, strettissima, è asfaltata solo per il primo centinaio di metri e poi lascia spazio allo sterrato. Inizialmente anche lo sterrato è piacevole e si cammina circondati da bei prati verdi, con qualche vista su Mongiardino e Camincasca. Lungo il percorso si incontrano alberi enormi, secchi, e se ne incontreranno sempre di più a mano a mano che ci addentreremo nel

Il villaggio abbandonato di Camere Nuove

Partenza: Costa Salata (767 mt.) Arrivo: Camere Nuove (villaggio abbandonato, 795 mt.) Lunghezza percorso (a/r): 7,34 km Tempo di percorrenza: 2 h. circa Dislivello complessivo: 222,63 m. Segnavia: bianco rosso n. 200 e percorso didattico C

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bosco. Anche quando ero stato a Reneuzzi ne avevo incontrati tanti: sembra quasi che questi alberi così strani siano posizionati solo sui sentieri che portano ai paesi abbandonati, quasi volessero preannunciare la tristezza e l'abbandono dei luoghi che incontreremo di lì a breve.

La stradina sale piuttosto tranquillamente e si immerge in un bosco che mano a mano si procede diventa sempre più sporco e meno curato. Il percorso è fatto di frequenti saliscendi e dopo circa 25 minuti di cammino si incontrano le prime segnalazioni. Nei pressi di una curva, su due cartelli di legno, è indicata la direzione di due percorsi didattici: il percorso B, che conduce a Castello Pianzuola e il percorso C, per Camere Nuove. Li seguo entrambi, visto che indicano la stessa direzione. Il sentiero continua ad aggirare i versanti della montagna e dopo un lungo tratto di salita, mi trovo davanti a una grossa frana che ostruisce tutto il sentiero. Lanciando maledizioni a destra e a sinistra, dopo qualche metro in equilibrio sul tronco di uno degli alberi trascinati via dalla frana, mi immergo nel fango fino a metà gamba e ci passo dentro, non posso fare diversamente. Fortuna che l'infangamento è breve.

Dopo la frana, il sentiero inizia a scendere dolcemente. Siamo in una zona di castagne, come potete vedere dalle foto che ho scattato lungo il percorso. Poco più avanti, incontro una segnalazione che per un attimo mi fa venire qualche dubbio, visto che fino a qui cartelli - oltre a quelli del percorso didattico - non se ne sono visti. La segnalazione a cui mi riferisco riguarda un sentiero che proviene dal basso e che taglia la strada che sto percorrendo, salendo sulla sinistra: il sentiero, marchiato con il numero 266, a mio avviso potrebbe portare al Bric delle Camere e lo incontrerò ancora più avanti.

Proseguo allora sempre dritto, tralasciando il sentiero 266 e poco più avanti, dopo un'enorme pianta sradicata su cui c'è ancora un cartello con le indicazioni per Caprieto, a 3 km e 200 mt. esatti dalla partenza, incontro un grande prato verde dove il sentiero si divide in un bivio. Qui sono presenti le indicazioni del percorso didattico: dritto per Pianzuola (percorso B), sinistra per Camere Nuove (percorso C).

Io prendo la strada di sinistra e dopo pochi passi vedo già sullo sfondo una staccionata. Dietro alla staccionata, un'area che ospita numerose panche di legno, la maggior parte spaccata dal gelo dell'inverno. Vicino anche un muretto in mattoni e un capannino in lamiera, con una minuscola casetta a fare da bagno. Sembra un'area attrezzata per delle grigliate.

Dietro alle panche spaccate, si intravede una casa: eccomi arrivato a Camere Nuove. Il sentiero però prosegue dritto, quindi ritorno sulla strada per vedere se mi conduce alle altre case. Davanti a me, mentre cammino, passa velocissimo un capriolo ma questa volta non ho la prontezza di riflessi per fotografarlo.

Sullo sfondo, dietro ai rami di un albero, inizia a delinearsi il profilo di una casa: la riconosco, è quella che ho visto nell'unica foto che sono riuscito a trovare, in rete, su Camere Nuove.

E' una casa grande, della quale si distinguono solo metà della facciata, con alcuni profondi buchi nei muri, con due finestre e parte del tetto. Il resto della casa è avvolto dalle piante e dalle erbacce che sono cresciute fin sul tetto e da qui hanno ricoperto tutta la restante parte di facciata della casa. Sotto a questo strato sempre più spesso di erbacce, fatichiamo a distinguere un balcone, forse in legno, interamente avvolto e imprigionato. Davanti a questa casa, un cartello con il nome del paese fantasma e l'altitudine, assieme a dei segnavia recanti l'indicazione per il sentiero 266, che scopro provenire dal fondovalle - da Sisola - e proseguire sino, probabilmente, al Bric delle Camere.

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Accanto alla casa più grande, i ruderi di altre due case, che si distinguono a malapena, ormai quasi totalmente inghiottite dalla natura che si riprende i suoi spazi. Tra le piante e le erbacce, spuntano solo i resti di alcuni pilastri, ma non posso vedere di più, e non posso nemmeno provare ad avvicinarmi ulteriormente.

Dietro di me, un'altra casa piuttosto grande e ancora discretamente in piedi. Mi avvicino per scattare qualche foto: in parte sembra sventrata, con i muri in parte crollati e pezzi di legno che penzolano un po' dappertutto. Sui muri, scritte di qualcun altro che è passato di qui prima di me, proprio sul fianco di una porta che sembra lasciare intravedere qualcosa all'interno, ma alla quale non mi avvicino vista la situazione della casa.

Mi guardo intorno per vedere se ho dimenticato qualcosa, ma così a occhio mi pare di vedere che Camere Nuove sia tutto qui. Anzi, no. Ritornando indietro sul sentiero, fino all'area che ospita le panche, mi avvicino ad una costruzione semicrollata, la prima che avevo visto arrivando. Mentre scatto qualche immagine dei ruderi della casa, crollata su se stessa, vedo che da questa parte ci si può provare ad addentrare tra le case. Così mi infilo tra le piante e da qui scopro una veduta diversa di Camere Nuove, forse ancora più tetra.

La casa di fianco a me ha i muri ancora in piedi, ma oltre il primo piano è costruita con sottili mattoncini che a poco a poco vengono giù. Più a destra, una casa totalmente crollata, adiacente alla casa con i muri sventrati che ho descritto prima. In mezzo a tutta questa erbaccia e a queste piante è così buio che sembra notte e fa quasi paura, in lontananza, il profilo di una finestra buia della casa più grande del paese.

Certo, il tempo non aiuta: ora inizia anche a piovere. Mi incammino sulla strada del ritorno, lasciandomi alle spalle i ruderi delle case di Camere Nuove. Sono contento di avere visitato anche questo paese fantasma, ulteriore testimonianza di un abbandono che già avevo avuto modo di vedere con i miei occhi camminando fino ai villaggi abbandonati della Valle dei Campassi.

Non è facile descrivere quello che si prova qui, di fronte a questo triste spettacolo, ma sicuramente un senso di vuoto mi pervade. Quella grande casa coperta di erbacce è così triste e austera da mettere paura, e sicuramente sarà il ricordo di Camere Nuove che porterò con me anche al termine di questa escursione.

Il ritorno scorre via in fretta, con la nebbia che scende fino a toccare la cima delle montagne vicine e qualche goccia che di tanto in tanto mi bagna. Scatto una foto del mio riflesso in una pozzanghera, quasi a volermi fare compagnia da solo. Non mi ha deluso la visita di Camere Nuove, ma non aspettatevi nulla di particolare: le case sono poche e il sentiero è piacevole, ma per nulla panoramico. Per chi volesse visitare questo paese abbandonato, consiglio di dedicare non più di una mezza giornata, magari quando il tempo non è dei migliori. Prossimamente, sono intenzionato a visitare anche gli altri paesi abbandonati nei dintorni: Avi, Chiapparo e Rivarossa. Quindi consiglio agli amanti del genere di restare "sintonizzati".

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L'Antola è un punto di riferimento. E' una di quelle montagne che ti avvicina al mare, te ne fa quasi respirare l'aria. Quando lo guardo, dai miei monti, mi sembra sempre così distante, ma mi fa venire voglia di raggiungerlo, anche solo per un saluto. E' da un po' che non ci vado. Ci ho messo un po' a indirizzarmi verso l'Antola, ad essere sincero: inizialmente pensavo a un giro da Caldirola a Piuzzo. "No, visto che viene anche Francesca preferirei portarla sulla cima di un monte, vista anche la bella giornata". Poi mi è venuto in mente l'Antola. "Perché non ce ne andiamo "in Antola", come dicono i genovesi?".

Ci vediamo a metà mattina in quel di Cantalupo. Il tempo di prendere un po' di viveri dal panettiere e un caffè al volo, poi si parte in macchina alla volta delle Capanne di Carrega. La strada non è breve, ma la colazione si prolunga per tutto il viaggio, con Francesca che continua ad allungarmi biscotti dal sacchetto. Alla sera, al ritorno, troverò pezzi di biscotti ovunque nella macchina. Al valico di Capanne di Carrega, dove si incontrano le province geografiche di Alessandria e Genova, parcheggiamo la macchina e scendiamo per prepararci. La partenza del sentiero numero 200 è a pochi passi da noi ed è contraddistinta da un evidente cartello che ci indica la direzione da seguire e il tempo necessario ad arrivare all'Antola: 1 ora e 55 minuti. Ci incamminiamo tra gli alberi ed attraversiamo un primo boschetto infangato, poi dopo dieci minuti di cammino raggiungiamo Pian dell'Aia, a 1443 metri. Ogni tanto ci voltiamo a fotografare l'imponente piramide del Carmo, che vista da qui domina le piccole casette che compongono le Capanne di Carrega e iniziamo a superare i primi escursionisti che incontriamo sul sentiero. Dopo un altro piccolo boschetto infangato, usciamo su di una costa in cui la vista spazia sull'alta Val Trebbia: stiamo camminando - e per il resto del viaggio, cammineremo - sul confine geografico tra le due regioni. "Che bello qui!" dice Francesca, "Vero?" Verissimo, l'alta Val Trebbia, vista da qua sopra, è una distesa di dolci montagne verdi che degradano verso prati, con i paesini che sembrano appoggiati sui versanti delle montagne. Il verde delle foglie è così luminoso che è bellissimo da vedere, con lo sfondo dell'azzurro del cielo di questa mattinata. Il sole picchia ed è piuttosto caldo. In alcuni punti non c'è un filo d'aria e mano a mano che procediamo, vediamo le nuvole in cielo aumentare. Nuvole bianche, sembrano innocue, ma non ci lasciano del tutto tranquilli, anche se a dire il vero a me non dispiacciono perché rompono un po' la monotonia delle foto tutte uguali con il cielo terso. Mi piace fotografare le nuvole, rendono diversa ogni immagine. Lentamente, al fondo della valle, inizia ad intravedersi sempre più indistintamente un ramo d'acqua del Lago del Brugneto e più

Una giornata sull’Antola

Partenza: Capanne di Carrega Arrivo: M.te Antola (mt. 1593) Lunghezza percorso (a/r): 13,74 km Tempo di percorrenza (a/r): circa 4 h. Dislivello complessivo: 515,68 mt. Segnavia: bianco-rosso num.200

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avanziamo sul sentiero, più la superficie di lago visibile ai nostri occhi aumenta, mentre davanti a noi compare, maestosa, la cima dell'Antola.

Dopo aver raggiunto una selletta panoramica con una bella vista anche sull'alta Val Borbera, imbocchiamo la discesa che preannuncia l'arrivo al Passo Tre Croci (1494 mt.), dove ci fermiamo per una breve sosta. Le tre croci di legno che si trovano lungo il percorso continuano ad essere inquietanti, nonostante non sia la prima volta che passo di qui. "Facciamo colazione?" "Certo che sì, è il momento!".

Non so che colazione sia, ho perso il conto. Ma giunti a questo punto, ci sta proprio bene. Mentre sul sentiero continua a passare gente, noi siamo in corrispondenza del bivio segnalato con la discesa verso Caprile, fermi in piedi a spartirci un sacchetto di focaccia, che è pure buona. Beviamo un sorso d'acqua e ci rimettiamo lo zaino in spalla. Sul Passo Tre Croci, noto le indicazioni per un sentiero che non avevo mai visto: è il numero 240, che porta alle pendici dei monti Propiano e Carmetto e, successivamente, in 1 ora e mezza, al paese di Vegni (ricordate? è il punto di partenza per l'escursione ai paesi abbandonati della Valle dei Campassi).

Il tracciato riprende a salire, regalandoci dei fantastici scorci sul Lago del Brugneto, sempre meglio visibile ormai, e poi - dopo un breve falsopiano - ridiscende fino a portarci sotto alla penultima salita all'Antola, quella dove si incontra il secondo bivio per il paese di Caprile. Con un po' di fiatone, quasi in cima alla salita, ci fermiamo a vedere tra gli alberi una bella veduta del paesino di Campassi, che domina la valle dei "paesi fantasma": anzi, ora che guardiamo bene, vediamo che più in basso e sul versante opposto della montagna le macerie di Reneuzzi sono ben visibili tra gli alberi e di colpo mi ritorna in mente tutta la tristezza di quel luogo. Portiamo a termine la salita e raggiungiamo la Sella Est dell'Antola, ai piedi della salita finale che porta alla cima, su cui svetta la croce bianca.

La cima dell'Antola è piena di gente. "Meglio andarci dopo, là sopra. Andiamo alla chiesetta a mangiare qualcosa, poi quando se ne saranno andati tutti, saliremo su", le dico. Così raggiungiamo su di un sentiero pianeggiante la piccola chiesetta dell'Antola ma vediamo subito che, anche qui, ci sono decine di persone. Però c'è un tavolo in legno libero, che occupiamo velocemente, seduti con la faccia rivolta verso il sole e verso il Lago del Brugneto, la cui vista - purtroppo - ci è nascosta da alcuni alberi.

Oggi abbiamo la tavola delle grandi occasioni: un bel salame, un quarto di formaggio Montèbore, una fetta di Asiago, tanta cioccolata e un buon vinello rosso. Scattiamo qualche foto a tutti i nostri viveri, poi non perdiamo tempo e iniziamo a mangiare, siamo parecchio affamati nonostante le varie colazioni della mattinata. Una coppia di signori si siede davanti a noi e ne approfittiamo per scambiare due chiacchiere. Fanno parte di un'associazione alpinistica di Cuneo ("Giovane Montagna") e sono partiti alle 6 di questa mattina per venire sull'Antola. E' la prima volta che ci vengono e sono affascinati dal panorama che si vede da qui sopra. Mentre ci vuotiamo un bicchiere di vino, arriva anche il prete che inizia a dire la messa nella chiesetta accanto al nostro tavolo. Ci sentiamo un po' fuori luogo, tanto che finiamo velocemente di mangiare, raccogliamo la nostra roba e proviamo a salire sulla cima dell'Antola, per vedere se - almeno lassù - possiamo trovare un po' di tranquillità.

Da metà salita, mi giro per scattare qualche foto del suggestivo panorama del lago del Brugneto davanti a cui svetta il piccolo campanile della chiesetta, poi raggiungo Francesca e ci facciamo qualche autoscatto con lo sfondo del lago. Arriviamo sulla cima dell'Antola (mt. 1593) e capiamo che di tranquillità, qui, ne avremo poca, perché c'è ancora un sacco di gente. Però il panorama è spettacolare e peccato solo che il cielo si sia annuvolato così tanto, da fare quasi pensare alla beffa di un temporale. Il sole va e viene e io continuo a mettere e togliere la

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maglia. Francesca è più attenta di me, perché a un certo punto la sento dire "Ma è il mare quello?". Cavolo è il mare, non me ne ero accorto. C'è un po' di foschia, ma si vede bene, anzi sembra davvero a due passi. La forma pare essere quella di Capo Noli, ma guardando più attentamente si nota anche una parte del porto di Genova, quasi nascosta sotto alle montagne. Rimaniamo incantati a scattare fotografie di questa piacevole sorpresa. Prima del mare, la Val Brevenna con i suoi tanti paesini, su tutti Tonno. Ci giriamo dalla parte opposta e scattiamo qualche foto al Lago del Brugneto, poi ci facciamo fare una foto insieme e raggiungiamo la panchina - che nel frattempo si è liberata - posta proprio a dominare la Valle dei Campassi, quella di San Fermo e il Monte Buio.

E' una panchina in una posizione molto particolare, sembra quasi sospesa nel vuoto, ma regala una vista mozzafiato, dritta di fronte alla Cappella di San Fermo. Alla nostra destra, i paesi abbandonati della Valle dei Campassi, Ferrazza e Reneuzzi (Casoni non si vede). Ci sediamo e restiamo un po' qui a contemplare la natura e il silenzio (si fa per dire, vista la gente che c'è qui sopra). Però è comunque suggestivo. Le nuvole coprono velocemente il sole e rimetto la maglia, c'è un'arietta bella fresca. La temperatura scende vistosamente, tanto che decidiamo di rimetterci in cammino.

Un'ultima foto alla croce e alla piramide in memoria dei partigiani e iniziamo velocemente la discesa dalla cima dell'Antola. Sulla strada del ritorno, camminiamo molto più lentamente e mi sembra che il tempo sia volato, tra qualche foto alle genziane, alle felci e a qualche fiorellino colorato che risalta tra l'erba verde. Superato il Passo Tre Croci, davanti a noi un nuvolone bianco ha come una specie di finestrella al suo interno. Lo indico a Francesca, prima di scattare una foto. Velocemente, però, perché la finestra in pochissimo tempo si chiude. E' questione di attimi: noi l'abbiamo potuta vedere, gli altri forse no. Catturo gli ultimi scorci del lago del Brugneto, prima che scompaia del tutto dietro alle montagne, con il piccolo paesino di Propata con la sua chiesa bianca in basso. Ormai non manca molto e gli ultimi chilometri scorrono via chiacchierando sotto al sole. Decidiamo di deviare verso l'Osservatorio di Casa del Romano e verso il vicino albergo, in modo da bere qualcosa. Facciamo solo una breve sosta sulle panchine davanti all'Osservatorio, con Francesca che fotografa le forme create dai nostri piedi, poi ripartiamo alla volta dell'albergo, dove finalmente ci togliamo lo sfizio di una coca cola, seduti su di un tavolino all'aperto. Dopo tanti anni, rivedere i gestori dell'albergo di Casa del Romano, mi dà l'idea di vedere delle persone familiari: le prime volte che sono venuto qui ero un ragazzino.

Torniamo alla macchina camminando, per gli ultimi metri, sulla strada asfaltata, poi ci mettiamo in viaggio per tornare verso casa. Credo che questa sia la giornata più bella che abbiamo trascorso insieme. Sì, perché oltre all'escursione c'è dell'altro, c'è il viaggio, ci sono le parole, ci sono le risate, ci sono le emozioni condivise. Oggi tutto questo è stato a dir poco perfetto. Alzo il volume della radio e riparto, verso casa, mentre sorrido ripensando ad alcuni momenti della bella giornata che abbiamo trascorso, senza un filo di stanchezza. Avrei bisogno di un mese consecutivo di weekend così. O forse di una vita intera.

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Avi è un piccolo borgo abbandonato definitivamente intorno al 1953. Pare che nella prima metà del Novecento fosse abitato da circa una ventina di persone, agricoltori, che vivevano coltivando grano in appositi terrazzamenti, creati sopra al paese e raccogliendo castagne nei numerosi boschi che lo circondano. Gli abitanti avevano studiato appositi sistemi di raccolta e conservazione delle acque piovane, in modo da evitare continue e faticose discese a fondovalle, dove scorre il Rio Avi. Sul borgo si narrano numerose leggende di guerra, lasciate da parte le quali è certo è che ad Avi i partigiani, nascondendosi in buche, sfuggirono al rastrellamento dei tedeschi nell'aprile del 1944 e, nel luglio dello stesso anno, resistettero ad un assedio durato ben tre settimane.

Avi si trova non distante dall'altro villaggio abbandonato di Camere Nuove ed è raggiungibile da Roccaforte Ligure. La partenza dell'itinerario è di fronte alla chiesa, piuttosto nascosta: una volta superate le ultime abitazioni di Roccaforte, poco prima della biforcazione della strada (Isola del Cantone a sinistra, Grondona a destra) si deve prendere la stretta stradina che, sulla destra, conduce ai resti del Castello degli Spinola e qui, a 780 metri di altitudine, si trova la partenza del sentiero, che sale sulla destra della chiesa, inizialmente marcato con il segnavia bianco-rosso numero 274.

Dopo una leggera salita con un bello scorcio sul Monviso, a pochi minuti dalla partenza, a 897 mt., si trova una prima importante biforcazione del sentiero: a sinistra il sentiero numero 275, in direzione di Lemmi e Vignole Borbera, sulla destra il sentiero numero 260 - che seguirò - con direzione Il Poggio, Croce degli Alpini e Pertuso. Mi fermo per un istante a scattare qualche foto da questa selletta panoramica: alle mie spalle, posso ammirare, su di un'altura, i ruderi del Castello degli Spinola del secolo X, sul quale si scorgono dei ponteggi, mentre alle spalle del castello, vedo la cima dell'Antola. Se con lo sguardo mi sposto a sinistra, da qui vedo tutta la catena appenninica: da qui non si perde nemmeno una cima. Che meraviglia.

Mi lascio definitivamente alle spalle i tetti delle case di Roccaforte con il campanile e proseguo sul sentiero 260 che procede in piano e, in alcuni tratti, anche in leggera discesa. E' una sterrata piacevolissima, panoramica e tutta sotto al sole. Sul sentiero, che lascia sulla sinistra il Monte Osesa e sulla destra il Monte La Croce, si incontrano finalmente anche le prime salitelle, tutt'altro che proibitive e in determinati punti del sentiero la vegetazione scompare del tutto per lasciare spazio alla roccia delle montagne tipiche di questo territorio: ci sono anche punti in cui guardare in basso, per chi soffre di vertigini come il sottoscritto, è vivamente sconsigliato.

Avi, il borgo abbandonato

Partenza: Roccaforte Ligure (780 mt.) Arrivo: Avi (paese abbandonato, 610 mt.) Lunghezza percorso a/r: 7 km circa Tempo di percorrenza (a/r): 3 h circa Dislivello complessivo: 250 mt. Segnavia: bianco-rosso 274, bianco-rosso 260, bianco-rosso 256

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Il sentiero inizia a scendere in modo più deciso, attraversando prima un piccolo boschetto che conduce a una selletta panoramica e poi una zona rocciosa, dove sembra quasi franare e conduce, in un bosco di castagni, alla Sella di Avi (mt. 732), dove si incontra il bivio per il sentiero 256, che scende a sinistra all'interno del bosco di castagni e conduce, in circa mezz'ora ad Avi e, proseguendo, alla Sella del Monte Cravasana. Il sentiero 256 non è bellissimo, ma comunque percorribile. La discesa conduce in breve nei pressi del Rio Avi, del quale sento lo scroscio dell'acqua sempre più forte mano a mano che mi avvicino. Poco prima di attraversare il torrente, alzo gli occhi e vedo dritta di fronte a me, verso il fondo della valle, la sagoma di una casa: ecco Avi. Attraversato il Rio, il sentiero è un po' più complicato per la presenza di innumerevoli pietre grandi, nere e arrotondate, sulle quali restare in equilibrio è tutt'altro che semplice, ma soprattutto perché in questo tratto, il sentiero - piuttosto ripido - tende a franare verso il Rio.

Con un po' di fatica e grazie al provvidenziale aiuto dei bastoncini (portateli assolutamente in questa escursione) riesco a mantenere l'equilibrio e a superare il tratto più insidioso del sentiero e procedo a mezza costa mentre, di fronte a me, la sagoma della casa di Avi rimane ancora piuttosto distante.

A un certo punto, dove la vegetazione si fa più fitta, il sentiero scende improvvisamente verso un piccolo laghetto, infestato da zanzare di ogni tipo, e mentre cerco di farmi spazio tra i rami delle piante senza cadere, mi rendo conto di essere in mezzo a dei ruderi di case: sono arrivato ad Avi (610 mt.), e quasi non me ne ero accorto! Come recitava il pannello all'imbocco del sentiero, Avi si divideva originariamente in due piccole frazioni: Ovi de chei e Ovi de là (Avi di qua e Avi di là...rispetto probabilmente al corso di qualche rio) e io sono appena arrivato a Avi di qua, che non vedevo - e che non potevo vedere - perché totalmente sommerso dalla vegetazione. Il rudere di una prima casa, ormai crollata per metà, si trova sul lato del laghetto, mentre poco più avanti se ne trova un'altra, particolarmente alta e ancora in piedi anche se del tutto avvolta dalle piante che la rendono, di fatto, irriconoscibile. Un'altra casa, del tutto crollata e sommersa dalle piante si trova poco oltre e un'altra ancora leggermente più in basso (la visiterò al ritorno). Proseguendo sul sentiero, si passa proprio sotto ai ruderi di una casa parzialmente crollata, sventrata su un lato e avvolta dall'edera che, a dirla tutta, non dà questo grande senso di stabilità. Per non saper nè leggere nè scrivere, il tratto di sentiero che passa ai piedi di questo rudere, lo percorro alla velocità di un centometrista: credo che basti un colpo di vento per far crollare tutto sulla mia testa (vedo solo, passando velocemente, che da una porta aperta si intravede una specie di pozzo, che fotografo alla velocità della luce). Sul lato opposto, un portoncino aperto lascia intravedere al suo interno alcune botti per il vino, sulle quali è crollato un po' di tutto, a partire dalle travi che sorreggevano il tetto. Ovi de chei è finito: mi ci sono imbattuto quasi senza accorgermene e vi dirò che, così buio e conquistato dalle piante, è abbastanza inquietante.

La sagoma della casa che vedevo fin dall'imbocco della valle è ora di fronte a me e non dista molto, così dopo poche centinaia di metri su di un sentiero che ora è nettamente migliorato, arrivo finalmente ad Ovi de là, composto da un gruppetto di case in corrispondenza delle quali il sentiero sembra finire. Sul fianco della grande casa di Avi di là, due tronchi a fare da panchine e il segno della brace mi lasciano intuire che qualcun altro è passato di qui non troppo tempo fa. La casa, integra nella facciata (che potevamo ammirare da lontano) è in realtà sventrata sul lato: mi avvicino a scattare delle foto ed è così strano fotografare il panorama della valle attraverso le finestre di una casa crollata. Fotografo i particolari, qui ben visibili. I muri sono costruiti da grandi pietre e i tetti sono fatti in assi di legno su cui sono state poggiate delle tegole, mentre le porte e le finestre sono molto piccole. Mi avvicino e metto il naso (e la macchina fotografica) dentro a una finestra, per scattare qualche immagine dell'interno, dove a

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cumuli di macerie si alternano, sorprendentemente, alcune stanze ancora perfettamente integre. Oltre questa grande casa, ancora i resti di una costruzione: è la chiesa di San Vito, della quale rimane ben poco in piedi. Mi sposto su di una collinetta sopra alle case, da cui godo di una bella vista su tutta la valle. Scatto qualche immagine dei tetti di Avi di là e della Chiesa di San Vito dall'alto, poi mi volto in direzione di Avi di qua e cerco con lo zoom di fotografare le case che si intravedono davvero a malapena tra la fitta vegetazione.

Mi infilo tra i muri della Chiesa e la grande casa, che aggiro portandomi sul retro. Su questo lato, le finestre hanno delle rudimentali grate e all'interno è ancora ben visibile e perfettamente integra una stanza con un mobile e una scala che porta, attraverso un passaggio, al piano superiore. Accanto, da una piccola porta, si scorge una stanza piena d'acqua, una specie di pozzo. Sopra la mia testa, i coppi sono pericolanti e mi sposto velocemente per ammirare la grande casa dal lato frontale: entro dalla porta aperta e mi ritrovo in una stanza che fungeva ai tempi da stalla, come posso vedere dalla mangiatoia presente sul lato e dai resti di qualche attrezzo contadino. Dentro sono già entrati i cinghiali, che hanno messo tutto sottosopra. La vegetazione mi impedisce di mettere il naso nell'altra porta, così rimarrò con il dubbio di cosa avrà ospitato quella stanza.

Poco sotto, una casa ormai del tutto crollata e poco più in là un'altra, della quale vedo spuntare dalle piante soltanto il camino: non so come avvicinarmi, e comunque mi sembra che ci sia ben poco da vedere, così decido di rimettermi in cammino sulla strada del ritorno. Ritorno sul lato sventrato della grande casa, dove trovo un pozzo, del quale scatto qualche foto infilando dentro la macchina fotografica, poi riprendo il sentiero in direzione opposta, lasciandomi alle spalle Ovi de là. Quando ripasso a Ovi de chi, oltre a ripetere la corsetta sotto alla casa più pericolante di tutte (niente da fare, non mi lascia tranquillo e basta), noto che ci si può avvicinare ad un rudere di casa del quale vedo una specie di portone e così decido di lasciare per un attimo il sentiero per dare un'occhiata. La casa, per larga parte ancora in piedi, è totalmente avvolta dalle radici delle piante, che si sono insinuate addirittura tra un sasso e l'altro di quelli che ne compongono i muri. Nella parte superiore, le foglie coprono gran parte della facciata: niente da fare, a poco a poco queste radici faranno crollare la casa e non so - se mai tornerò ad Avi - se la rivedrò ancora in piedi. Con un po' di attenzione e con l'aiuto dei bastoni, ritono al Rio Avi, che supero e mi volto per un'ultima volta alle mie spalle a guardare la grande casa di Avi di là sullo sfondo della valle. Anche questa è fatta.

Diciamo che si colloca idealmente a metà tra il fascino di luoghi fantasma come i Villaggi di pietra della Valle dei Campassi e la desolazione di pochi ruderi come quelli di Camere Nuove. Sicuramente inquietante Ovi de chi, con questi muri che emergono all'improvviso in mezzo alla vegetazione, in maniera quasi inaspettata. Molto cupo. Ovi de là si lascia studiare, guardare, fotografare. Qui è bello andare alla ricerca di qualche angolo nascosto da catturare con la macchina fotografica. Qui la vegetazione concede un po' di respiro. In generale, a parte l'ultima parte di sentiero, leggermente difficoltosa per la presenza di frane, il resto del percorso, soprattutto tutta la parte di sentiero numero 260, è piacevolissima e consigliata per fare una bella escursione panoramica.

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Manca poco al completamento del mio viaggio alla scoperta dei paesi fantasma dell'appennino delle quattro province: almeno per quanto riguarda l'area della Val Borbera/Sisola, ne mancano solo più due. Oggi andrò alla scoperta di Rivarossa, un minuscolo borgo abbandonato sulle montagne sopra al paese di Pertuso, in val Borbera. Proprio sopra alle famigerate "strette di Pertuso", in un territorio già particolare per via della sua conformazione e che, come se non bastasse, ospita anche una perla nascosta: Rivarossa.

Il borgo abbandonato si raggiunge con un sentiero che parte dalla località Le Baracche, nei pressi della casa cantoniera e del "Pub delle Strette": l'unico problema è che l'inizio del sentiero, peraltro indicato con un cartello, è poco visibile, quasi nascosto, soprattutto se arrivate da Pertuso. Quindi non fate come me, che ho girato venti minuti cercando disperatamente di imbattermi in una segnalazione ben visibile: il consiglio è di parcheggiare l'auto nei pressi del pub, poi incamminarsi a piedi in direzione di Pertuso: ci sbatterete praticamente incontro dopo poche decine di metri.

Il cartello che annuncia l'inizio del sentiero è bianco-rosso e reca il numero 208, pitturato anche su di un albero. Il sentierino è strettissimo e la partenza è subito impegnativa: si sale subito, e non poco. Sarà così per tutto il percorso. Tuttavia, nonostante la stradina sia così stretta da non poter ospitare due persone una accanto all'altra, è un itinerario più che piacevole. La mia attenzione si concentra subito sulla particolare terra che compone queste montagne: è arancione, del colore dei mattoni, quasi rossa. Forse da qui deriva il nome Rivarossa. Oltre al particolare tipo di terreno, la seconda caratteristica del sentiero sono i sassi: il sentiero, dopo la prima parte, diventa sassoso e la salita così è più piacevole, perché permette di utilizzare le grandi pietre come delle specie di gradini, attraverso cui salire più agevolmente. Vedo in lontananza dei cartelli, ci deve essere un bivio poco più avanti. Quando lo raggiungo, dopo circa dieci minuti di cammino, mi trovo a dover scegliere da quale parte salire: il sentiero numero 208 prosegue in salita dritto davanti a me, mentre sulla sinistra, il sentiero numero 208a attraversa il bosco leggermente più in piano. Entrambi portano a Rivarossa: il 208 in circa 35 minuti, il 208a in 45 circa. Inoltre, salendo oltre Rivarossa, in un'ora circa, si potrà raggiungere il Monte Barillaro. Ci penso un attimo, poi decido di proseguire dritto tenendo il sentiero numero 208, forse perché sembra essere il più veloce.

Il paese fantasma di Rivarossa

Partenza: Località Le Baracche (mt. 365) Arrivo: Rivarossa (paese abbandonato, mt. 738) Lunghezza percorso a/r: 3,9 km Tempo di percorrenza (a/r): 2 h circa Dislivello complessivo: 389 mt. Segnavia: bianco-rosso 208/208°

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Finalmente rivedo il cielo, grigio, e posso far spaziare la mia vista su di un panorama che, via via che si sale, diventa sempre più ampio. Vedo le montagne davanti a Pertuso, per me praticamente sconosciute. Vedo il corso del torrente, il Borbera, che svolta sulla sinistra in corrispondenza di Borghetto Borbera, del quale intravedo i primi tetti delle case. Intanto il sentiero 208 continua a salire, questa volta all'aperto, e dopo una curva mi si apre anche la visuale sull'alta Val Borbera. Vedo Volpara, Figino e distinguo chiaramente le antenne del Monte Giarolo e il Monte Panà, che da qui sembra quasi pianeggiante. Voltandomi, riesco ad avere anche una bella visuale del Tobbio, con la sua caratteristica forma piramidale. A un certo punto, tra le piante, vedo in fondo allo stretto sentierino il muro di una casa: finalmente, sono arrivato a Rivarossa.

Procedo con la curiosità di un bambino che sta scartando un regalo. Nonostante il senso di smarrimento che provoca ogni volta visitare un paese abbandonato, ora a prevalere è la curiosità. Curiosità per quello che troverò, per quello che vedrò, per il ricordo che mi rimarrà di questo borgo fantasma.

Va però detto che Rivarossa si visita con più tranquillità d'animo. Anche qui le case sono in parte diroccate, anche qui c'è il segno della natura che riprende i suoi spazi a discapito dell'uomo, ma il paese si trova in un ampio prato che permette quasi di respirare. Non si visita con quell'affanno che ti viene, ad esempio, quando sei a Reneuzzi o ad Avi, dove sembra che le case possano crollare da un momento all'altro, dove sembra che gli alberi ti tolgano il fiato.

Della prima casa che si incontra entrando in paese, ben poco rimane. Solo alcuni ruderi dei muri e delle caratteristiche finestre dagli angoli smussati, mentre poco più avanti una specie di muretto è tutto quello che rimane di quella che, probabilmente, era un'altra casa. Da qui, guardando avanti, dietro a un grande albero salta immediatamente all'occhio una grande casa, in parte sventrata, che ricorda un po' la grande casa di Camere Nuove. Sul lato che si affaccia verso la Val Borbera, la casa - in pietra, come tutte le altre - è ancora integra, mentre sul lato che dà verso le altre case è crollata e coperta dalle piante, che stanno crescendo ormai al suo interno.

Avanzando per avvicinarmi, mi ritrovo praticamente nel bel mezzo di uno spiazzo, circondato da ruderi di case. Sembra la piazzetta del paese, oppure un grande cortile. Accanto a me, un'altro rudere, con muri sottili ed il tetto ancora integro ma pericolante, sventrato su di un lato: all'interno si vedono ancora pezzi dei pavimenti e dei soffitti. Di fianco, i ruderi di un'altra casa, senza più il tetto. Mi avvicino per scattare delle foto e vedo che all'interno ci sono ancora ben visibili le scale che portavano al piano superiore.

Tra tutti questi resti di muri e ammassi di pietre, stona quasi una bella casetta con il tetto rifatto da poco, la porta verde e delle belle finestre: è la casa di Rivarossa che è stata recuperata dal CAI di Novi Ligure che l'ha trasformata nel "Bivacco Alda e Carla Marchesotti". Apro la porticina verde ed entro: l'interno del rifugio è accogliente, tutto in pietra con tavoli e panche di legno. C'è perfino un bel camino e dei divanetti rossi. Alle pareti, oltre ad una bella cartina della zona con le indicazioni di tutti i sentieri, ci sono anche delle immagini che ripercorrono le operazioni di ristrutturazione del bivacco e un articolo de "La Stampa" che parla di Rivarossa e del suo rifugio. Proprio bello.

Sul tavolo, una bottiglia di vino con delle gocce cadute poco distante: qualcuno deve essere passato da poco. C'è anche una busta trasparente, con un quaderno di viaggio dove lasciare il proprio saluto e un pensiero. Scrivo due righe e faccio una bella foto dall'interno del bivacco, con il quaderno e la bottiglia in primo piano, e sullo sfondo, sfocato, la porta aperta sui ruderi delle case di Rivarossa. Tra le tante foto che ho fatto, in anni di escursioni, questa è una di

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quelle che mi piace di più. Rappresenta perfettamente lo spirito con cui mi avvicino a questi luoghi, lo spirito con cui cammino alla scoperta di nuove realtà.

Lascio il bivacco chiudendomi la porta alle spalle e fermo sulla scaletta scatto ancora delle immagini a tutti i ruderi che mi circondano. Ai piedi della scaletta che conduce al bivacco, ecco arrivare il sentiero numero 208a, l'alternativa che avevo deciso di non seguire durante il mio tragitto. Il sentiero prosegue tra le case e a solo pochi minuti a piedi c'è da visitare la Madonnina di Rivarossa. Non posso perdermela.

Salgo tra i ruderi e scopro che oltre la casa di cui avevo fotografato le scale, c'è ancora un'altra abitazione, quasi implosa su sé stessa. Le finestre con le grate di ferro arrugginito sono l'unica cosa ben visibile, perché per il resto, le travi sono crollate portandosi dietro il tetto e gran parte delle pietre che componevano i muri. Salendo oltre il paese, sul lato del sentiero c'è anche una specie di cappelletta, che non mi avvicino a vedere perché avvolta dalle erbacce e dalle piante.

Il sentiero prosegue in salita e dopo pochi passi, sullo sfondo compare già la piccola chiesetta della Madonnina di Rivarossa. Mi avvicino, la chiesetta è bianca, con una croce sulla cima, una campana ed un portico che precede l'ingresso. Sopra al portico, una data: 1981. L'anno in cui sono nato io. Entro in chiesa: è minuscola, una cappelletta praticamente. Ma l'interno è molto curato, si vede che qualcuno se ne occupa regolarmente. Sull'altare la statua della Madonna con il bambino in braccio. Il soffitto e le pareti sono affrescate e alle pareti sono appese delle cornici che racchiudono immagini in bianco e nero del restauro della chiesetta. Accanto un quadro della Madonna e dei fiori rossi.

Esco dalla chiesa e voltandomi a sinistra per poco non mi prende un colpo. Sul lato della chiesetta, una staccionata in legno separa da uno strapiombo sulla Val Borbera che, per chi soffre di vertigini come me, non è proprio il posto adatto in cui stare. Però ormai sono qui e non posso non fare qualche foto: così appoggio i bastoncini e lo zaino e, macchina alla mano, mi avvicino e inizio a scattare, trovando anche il modo per qualche autoscatto. Sotto di me, là in fondo, si vede la strada passare e accanto a lei è ben visibile il greto del fiume Borbera. Salendo con lo sguardo, si vedono tanti piccoli paesini, fino a sbattere con gli occhi sul Monte Giarolo con le sue antenne. Il panorama da qui è fantastico.

La stradina sterrata prosegue oltre la chiesetta e la si vede salire su una strana montagna rocciosa che deve essere il Monte Barillaro. Io per oggi mi fermo qui. Rimango ancora un po' ad ammirare il panorama e a godermi questo fantastico silenzio, poi rimetto lo zaino e scendo verso i ruderi di Rivarossa. Prima di andarmene dal paesino fantasma, mi avvicino alla grande casa per scattare alcune foto dall'interno e vedo che qui, molti di quelli che sono passati, sono entrati a scrivere sulle pareti. Ancora un autoscatto al centro del paese, poi mi rimetto velocemente sulla strada del ritorno. La discesa passa molto più in fretta e la percorro con un buon ritmo, forse perché il tempo sta visibilmente peggiorando. Quando arrivo in prossimità della macchina, il tempo di togliermi gli scarponi e richiudere i bastoncini e iniziano a cadere le prime gocce. Caro tempo, per oggi ti ho fregato!

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E’ un po’ che non torno a Volpara: per la precisione dal 2007 - anno in cui, con il mio amico Marco, avevamo tentato la fortuna deviando, sulla strada del ritorno verso Caldirola, su di un sentiero poco battuto fino a perderci nella pineta sotto al Giarolo. Ecco, ricordo che quella volta ho avuto abbastanza paura, perché dopo che cammini con la pancia a terra - manco fossi in una trincea di guerra - sugli aghi di pino, in una fitta pineta, per alcune ore e non riesci ad uscirne, un po' incominci a pensare che non ti troveranno più. Meno male che era estate e che le giornate erano lunghe. Ricordo che siamo sbucati, finalmente, sotto all'ultima antenna del Giarolo, dalla parte totalmente opposta a quella in cui pensavamo di uscire, ad un'ora improponibile, forse poco prima delle otto di sera. Da quella volta, ho sempre camminato sul sentiero!

Negli scorsi anni, con mio padre ho parlato spesso di tornare a Volpara. Lui passando per i monti non ci era mai stato e mi sarebbe piaciuto portarlo: è un discreto camminatore, di quelli che lo fanno non solo perché "camminare fa bene alla circolazione" e glielo ha detto il medico, ma anche perché, in fondo in fondo, gli piace. Così, quando può, viene con me a farsi qualche giretto e ogni volta mi insegna un sentiero nuovo. Quindi stamattina non ci sono scuse: si va a Volpara.

Portiamo la macchina alla Colonia di Caldirola e saliamo sulle piste da sci, raggiungendo in breve il canalone. Ora io lo ripeto per l'ennesima volta: Caldirola è luogo di compromessi e di serena convivenza tra trekkers e bikers, quindi fate estrema attenzione perché i nostri sentieri sono tagliati dalle piste da downhill, in alcuni casi quasi sovrapposte al tracciato. Vi capiterà di vedervi sbucare fuori un biker dai rovi, ma ci farete l'abitudine: orecchie ben dritte.

Saliamo, per una volta, da una delle piste solitamente (da me) meno battute, quindi quella che permette di giungere nel grande prato dove una volta era situato l'arrivo della seggiovia (che oggi è invece alcune centinaia di metri più in alto, sul crinale). Il sole è forte, ma una leggera arietta ci ha addirittura rinfrescato e attraversiamo il prato passando proprio sotto alla seggiovia per dirigerci alla volta di un boschetto, non segnalato e anzi, ora utilizzato come pista da downhill, che risaliamo stando ben attenti a non farci investire. Questa del boschetto è una vecchia scorciatoia che, da sempre, noi di Caldirola utilizziamo per raggiungere più in fretta la costa che conduce al Monte Giarolo, evitando di passare per il Monte Gropà.

Quattro passi a Volpara

Partenza: Caldirola (1.100 mt.) Arrivo: Volpara (940 mt.) Lunghezza percorso (a/r): 13,23 km Tempo di percorrenza (a/r): 4 h circa Dislivello complessivo: 787,83 mt. Segnavia: transiti su 200 bianco-rosso, e 215 bianco-rosso

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Poco prima di arrivare sul crinale, vediamo sbucare tra le foglie degli alberi le antenne del Giarolo con la statua del Redentore: la costa tutta fiorita è sempre uno spettacolo. Camminiamo in direzione del monte Giarolo fino ad arrivare in corrispondenza del cartello che segnala il bivio dei sentieri 200/215, dove attraversiamo il recinto portandoci sul lato della val Borbera e scendiamo sul prato fino a imboccare il sentiero 215 (Albera Ligure - Bivio Sentiero 200) in corrispondenza di un evidente paletto.

La sterrata scende alle pendici del Monte Gropà e permette di ammirare, di fronte a noi, il Monte Roncasso, fino a sopraggiungere nei pressi di una stalla, dove ci fermiamo a rinfrescarci alla vicina fontana. Attraverso alcuni tornanti, in mezzo a piante di nocciole, la sterrata scende dolcemente fino ad arrivare nei pressi di un bivio: il sentiero 215 è segnalato dritto, ma noi lo abbandoniamo svoltando a destra, in direzione di Volpara. Il paese inizia a vedersi in lontananza, appoggiato sul versante della montagna; in fondo, la chiesa con il campanile voltato a guardare la cima dei monti. Attraversiamo un rio e i tetti delle case si fanno sempre più grandi, sempre più vicini: il paese non è così distante.

L'ingresso a Volpara è dall'alto, su di una ripida discesa dove si passa di colpo dalla sterrata al cemento e poi all'asfalto. Sulla destra una piccola fontana, proprio di fronte a un portico che regala una bella vista sul monte Cosfrone e sul crinale del Roncasso. Scendiamo tra le case, tutte con le finestre aperte. I cani abbaiano, le persone spostano le tende delle finestre per vedere chi è arrivato. La discesa è così ripida che ci chiediamo come faranno qui d'inverno, mentre mio padre scruta tra le case alla ricerca di qualche luogo familiare. Da giovane era venuto qui parecchie volte, quando ballavano.

Arriviamo in corrispondenza di due fontane, poco oltre le quali si trova la chiesa, dove un anziano signore con il cappello di paglia sta leggendo il manifestino affisso sulla porta. Oltre la chiesa, una ringhiera che sembra una specie di balcone aperto sulla Val Borbera.

Mentre osserviamo l'ingresso della chiesa, sentiamo il signore borbottare qualcosa.

"Non c'è più niente qui! Non c'è più nessuno...io lo so cos'era una volta Volpara!".

Ci avviciniamo. "Parlumse in dialettu, nuiotri ca summa muntagnè", gli diciamo.

"Ad nande ca sai?"

"Ad Craidoa. A summa ei fiò e ei nvudu du Dinu, ei pustè. Ul cunsè u Dinu?"

"U Dinu? Si si, a m'la ricordu"

"U cugnessa coc d'oein d'otru, ad Craidoa?"

All'anziano si illuminano gli occhi.

"Me szia l'era ad Craidoa. As ciamè De Benedetti".

Restiamo a parlare per un buon quarto d'ora, mentre il campanile di Volpara suona mezzogiorno. Ci dice di essere "ei pusè vegiu da Vulpoia" (il più vecchio di Volpara). Avrà una novantina d'anni, ma è ancora in forma, e guida anche. E' venuto al cimitero a fare una visita alla moglie e a vedere il suo paese. Lui ora non ci vive più, si è spostato verso la pianura, però mentre parla delle persone di una volta lo vediamo come ringiovanire. Gli brillano gli occhi quando facciamo i nomi di qualcuno che conosce, soprattutto quando gli diciamo che è ancora vivo e che sta bene.

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"E a Olga, a gh'è ancù a Olga?"

"Si, a Olga a gh'è, a sta bein. A l'umma vusta cl'è neint tantu"

"Quanti bali co' a Olga! A gniva a Craidoa aposta!"

Credo che l'anziano signore abbia vissuto un quarto d'ora in cui ha ripercorso 90 anni di vita. E' stato bello sentirlo, mi ha fatto piacere. Ci saluta e ci indica la strada per risalire senza fare troppa fatica, perché camminando ci siamo fatti un bel giro all'interno del paese. Camminiamo ora su di una stradina in cemento che ci riporta nei pressi del portico che abbiamo visto al nostro arrivo, dove non distanti, tre gatti si godono l'ombra senza degnarci di uno sguardo al nostro passaggio. Salutiamo Volpara, lasciandoci alle spalle le ultime case e rimettendoci sul sentiero, ora scaldato da un sole fortissimo. Il caldo è fastidioso, si fatica a respirare.

Questa volta niente scorciatoia: si risale per il sentiero da cui siamo scesi, dopo quella volta ho imparato a non fidarmi della strada più breve. Superiamo il rio, poi il bivio e ci reimmettiamo nel sentiero 215, fermandoci ogni tanto all'ombra di qualche pianta per tirare il fiato. Giunti alla stalla, iniziamo a sentire nuovamente l'aria fresca del crinale, che raggiungiamo in circa 15 minuti di cammino. Una volta tornati sul lato della Val Curone, scendere alla Colonia è un attimo, passando dalla pista più ripida, quella che ricalca in parte il tracciato della Seggiovia. Qui il clima è decisamente diverso: una bella arietta ci rinfresca, anche se dopo tutto il caldo che abbiamo preso, ci vorrebbe ben altro.

Siamo soddisfatti del nostro giro a Volpara. Mio padre non ci stava da tanto tempo e ha potuto rivedere luoghi che stava quasi dimenticando, oltre a fare una bella scarpinata. Poi l'incontro dell'anziano signore ha reso la giornata in un certo senso unica, come accade ogni volta in cui finisci in un paesino sperduto e incontri qualcuno che ti racconta la sua storia. Credo che tornando a casa in macchina, avrà passato il viaggio a ricordare tutti i balli che ha fatto a Caldirola in vita sua.

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“Pertuso facciam prima..."

Tutto lasciava presagire una giornata tranquilla.

Raggiungiamo la partenza del sentiero, in Val Borbera, percorrendo la SP140 fino ad arrivare a Pertuso, nei pressi dell'imponente stele commemorativa dei combattenti partigiani. Una piccola piazzola, dove è possibile parcheggiare l'auto, ci indica la partenza del sentiero numero 260, le cui segnalazioni sono comunque ben visibili sul lato della carreggiata in direzione del fiume Borbera. All'imbocco del sentiero ci viene anche ricordato che si tratta di un percorso per "Escursionisti Esperti" e che "è consigliabile l'uso del casco-imbragatura e del cordino-moschettone": questi consigli precauzionali mi fanno un attimo irrigidire, ma sapendo che questo percorso l'hanno fatto in molti senza tutte queste precauzioni, mi sento di ringraziare per il consiglio ma proseguo così come sono, con le mie racchette.

"Croce degli Alpini 2 ore" leggiamo. "Beh, coi tempi ci stiamo dentro!"

Scendiamo su di una sterrata verso il letto del Borbera, proprio all'imbocco delle famose "Strette di Pertuso", dove un bel ponticello ci aspetta per accompagnarci sulla sponda opposta del fiume e sul versante opposto della montagna. Siamo nel regno delle puddinghe, le formazioni rocciose tipiche di questa zona e tra le quali il fiume si è scavato un letto sul quale ridiscendere: è uno spettacolo guardare, da qui in basso, il sole che si riflette nelle acque del Borbera illuminando di riflesso tutte le rocce circostanti.

La Croce degli alpini: da Pertuso a Roccaforte

Partenza: Pertuso (Al) Arrivo: Roccaforte Ligure ( Tappe intermedie: Croce degli Alpini (mt. 830), Costone La Ripa (mt. 860), Selletta M.te Cravasana (mt. 815), Monte Il Poggio (mt. 853), Sella di Avi (mt. 732) Lunghezza del percorso: 10 km circa (Pertuso-Roccaforte); oltre 20 km (Pertuso-Roccaforte-Pertuso) Tempo di percorrenza: 3 h. 45 min. circa (Pertuso-Roccaforte); 6h. 30 min. circa (Pertuso-Roccaforte-Pertuso) Segnavia: bianco-rosso 260 (Sentiero "Serena e Alessandro") Difficoltà: Escursionisti Esperti

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Superato il ponte, subito un tratto attrezzato con passerella in legno e corda fissa, che si supera abbastanza agevolmente, per poi iniziare a salire sulla montagna all'interno di un bosco di roveri in una salita molto ripida. Il sole picchia forte tra gli alberi, mentre poco più avanti, ecco un altro tratto attrezzato con le corde per superare un passaggio leggermente esposto sulla roccia. Qui si manifestano i primi seri problemi di vertigini del sottoscritto: gli alberi si sono diradati fino a scomparire e vedo un discreto strapiombo sotto ai miei piedi. Il passaggio non è assolutamente complicato, ma le vertigini ti irrigidiscono le gambe e ti bloccano: rimango così immobile sulla roccia, con la corda in mano e le gambe che tremano, come un cretino. Un respiro forte, poi le gambe si schiodano e finalmente trovo il coraggio di ripartire. Il tratto attrezzato prosegue anche in salita, ma diciamocelo, salire attaccato alla corda guardando verso l'alto non è un problema. Il problema è guardare in basso, tanto che già qui inizio a manifestare i primi dubbi sul ritorno su questo stesso sentiero: "io non ce la posso fare!!".

Il paesaggio è strano, molto diverso da quello che normalmente sono abituato a vedere, tanto che faccio quasi fatica a descriverlo. In alcuni brevi tratti, il sentiero si immerge nel bosco di roveri, poi di colpo gli alberi finiscono e ci ritroviamo a camminare sulla roccia, con il vuoto attorno a noi: la strada provinciale della Val Borbera diventa sempre più piccola e lontana, mentre a mano a mano che procediamo, vediamo sempre più grande la Madonnina di Rivarossa. Tra poco, saremo alla sua stessa quota. Finalmente compare anche il Borbera, un lungo serpente d'acqua che si snoda all'interno del suo ampio letto. E' una giornata meravigliosa e il sole forte riflette nell'acqua facendola brillare, sotto a un cielo che più azzurro non si può. Avrò anche le gambe rigide dalle vertigini, ma almeno - penso - "farò delle belle foto!"!

Dopo un ultimo tratto attrezzato che, con l'aiuto delle corde, ci fa risalire una parete rocciosa, eccoci finalmente sul crinale dove restiamo per un attimo a goderci questa vista meravigliosa. Di fronte a noi, il sentiero pare scendere, mentre vediamo, accanto a Cantalupo, anche Rocchetta Ligure, posto proprio dove la valle si biforca ed inizia la Val Sisola. Sullo sfondo, incorniciato dalle montagne, è il Carmo a farla da padrone, con la sua forma piramidale. In alcuni punti, il sentiero - facendosi largo tra le piante di timo - corre sul filo del dirupo e non so dove trovo la forza di fermarmi a fotografare guardando verso il basso, con il vuoto poco sotto di me. Siamo comunque entrambi concordi, ora più che mai, che non torneremo più su questo sentiero: due persone che soffrono le vertigini, impiegherebbero tutta la giornata per ridiscendere a Pertuso e così, mentre camminiamo, studiamo soluzioni alternative.

"Io non ci scendo da di lì!" "No no, neanch'io!" "Non che sia impossibile eh. Però ci sono quei 5-6 punti dove io a scendere verso il basso non ce la faccio e mi si bloccano le gambe. E mi gira la testa!" "A me la testa gira anche qui sul crinale!" "Andiamo bene...senti...arriviamo alla Croce degli Alpini...poi proseguiamo fino a Roccaforte! L'altra volta quando sono andato ad Avi, proseguendo sul sentiero sarei arrrivato fino alla Croce degli Alpini..quindi..." "Ma quanto ci vuole fino a Roccaforte?" "Altre due ore!" "Ma abbiamo la macchina a Pertuso!!" "Eh lo so. Ma io di lì non ci torno. Mi spiace che volevi tornare presto..." "No no di lì non ci torno neanch'io! Vorrà dire che staremo via tutto il giorno..." "Abbiamo qualcosa da mangiare?" "No!" "Abbiamo soldi per comprare da mangiare?"

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"3 euro e 50!" "Bene!" Quando si dice partire organizzati.

Mentre parliamo, finalmente ecco comparire in lontananza una sagoma familiare, quella di una croce. E' in cima ad uno sperone roccioso, senza vegetazione attorno. Si sporge all'interno rispetto alle altre montagne e domina tutta la valle, con il paese di Rocchetta Ligure proprio ai suoi piedi. E' la Croce degli Alpini e anche se ormai dista solo poche centinaia di metri, sembra quasi impossibile da raggiungere, isolata com'è.

Un sentiero roccioso, che sembra più battuto, sale dritto davanti a noi alla volta di una piccola cima, mentre un altro sentiero taglia la roccia sul lato ed ecco comparire anche la mia amica corda, che effettivamente non serve in questo tratto perché il sentierino è largo a sufficienza. Ma con la coda dell'occhio vedo vuoto sotto di me, e i tetti delle case di Cantalupo e....bbbbrrr...basta, sono arrivato alla Croce degli Alpini.

Anzi, non c'è solo la croce: alla nostra destra, proprio sotto alla cima che avevamo raggiunto poco fa, un buco scavato nella roccia e all'interno una madonnina bianca. Accanto un cartello in legno: "Per non dimenticare Alessandro e Serena". Di fronte alla statuetta, poco più avanti, ecco la croce, in cima ad uno sperone roccioso.

"Dai, veloce. Andiamo che soffro le vertigini!"

"Un attimo, devo fare un po' di foto! Sono venuto fin qua...non credo che ci tornerò ancora!! Guarda, attaccato alla croce c'è anche il libro con la penna per scriv..."

"Andiamo!!!!"

Bisogna andare. La croce è ormai alle nostre spalle, ma è fantastica anche da questa angolazione. Dà un'immagine diversa di tutto il panorama circostante.

Il crinale corre ancora sul filo del dirupo. Dirupo a destra, verso il vallone di Avi e dirupo a sinistra, proprio sopra ai tetti di Rocchetta Ligure. Eccoci sul Costone La Ripa, il crinale della grande montagna rocciosa posta sopra a Rocchetta Ligure e accanto alla Croce degli Alpini. Sul crinale compare l'erba e si entra in un bel boschetto in lieve discesa, che dal Costone mi conduce, in poco meno di mezz'ora, alla Selletta del Monte Cravasana, dove si incontra il bivio con il sentiero numero 256 che su di una ripida discesa conduce ad Avi. Iniziamo quindi la salita che condurrà sulla cima del Monte Il Poggio, altra vetta estremamente panoramica. Il sole picchia forte e sento la faccia che brucia. Mi volto d'istinto alle spalle e vedo, sul lato del sentiero, tra le foglie degli alberi, la facciata della grande casa di Avi, quella che un po' "identifica" il paese fantasma, poiché visibile da diversi punti. Sulla cima del Poggio il panorama è meraviglioso e ampio, da Pagliaro fino a Borassi e un ricovero in legno, leggermente sotto alla vetta, guarda la Val Sisola dominando dall'alto il paesaggio. Sull'altro lato, la selvaggia valle di Avi, senza il benché minimo segno della presenza dell'uomo. Solo il profilo della più grande casa di Avi, che compare misteriosa a intervalli regolari, tra gli alberi, nella ripida discesa dal Poggio. Raggiunta la Sella di Avi, il sentiero diventa largo e pur correndo sull'orlo di montagne rocciose e aspre come quelle della mattina, non fa assolutamente più paura: arriviamo così su di un lungo rettilineo in fondo al quale, passo dopo passo, vedo spuntare il campanile della chiesa di Roccaforte. Superata la chiesa, evitiamo il bivio per il Mulino del Serventino, quello per Borassi e Isola del Cantone e ci incamminiamo in discesa tra le case, sull’asfalto. Passato Roccaforte, ecco Chiappella. I cani abbaiano, dovunque passiamo, anche se qui molte case sono chiuse. Sulla strada passano poche auto, così ce la possiamo godere tutta, occupandone l’intera

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carreggiata. Dal ponte sul Sisola, vediamo un campanile in lontananza: "Guarda, Rocchetta! Non è distante...." ma ci accorgiamo, dopo circa un chilometro, che il campanile era quello di Pagliaro Superiore. Ce n'è ancora di strada, va là....

Pagliaro Superiore è un piccolo paesino che si affaccia in parte sulla strada provinciale, con tante vecchie case e, al centro, un campanile rosso che svetta sulle cascine. Ho sentito parlare della "Cà d'Mestrin", una casa abbandonata costruita sulla puddinga delle montagne, ma non ho mai intuito dove fosse. So che è nella zona di Pagliaro e oggi, finalmente, posso vederla: guardando oltre il fiume, in un punto in cui le montagne di conglomerato si aprono per il passaggio di un rio, ecco una casa, sembra in pietra, attaccata alla quale c'è una specie di torretta, stretta e alta. Dà quasi l'impressione di essere una propaggine della roccia. Che strana! Penso anche che ai tempi sarebbe potuta essere un mulino, vista la sua posizione proprio sul rio...ma chissà, potrei sbagliarmi. Mi piacerebbe visitarla, ma oggi non c'è tempo. Poco dopo la Cà d'Mestrin, la strada curva leggermente, lasciando intravedere sullo sfondo le case in pietra di Pagliaro Inferiore.

Quando arriviamo a Rocchetta, passando sotto all'antica porta del paese, tanta gente elegante e le campane che suonano. Da morto. Aumentiamo il passo per non finire nel bel mezzo del corteo funebre con zaino, scarponi e bastoncini. Poco prima del ponte che ci porta a San Nazzaro, ecco alla nostra sinistra la Croce degli Alpini. Ora sì che si vede bene. Mi inorgoglisce pensare di essere stato là sopra. Non tanto per l'altitudine, quanto per l'aver superato una mia paura (in parte: se l'avessi superata del tutto sarei anche sceso...). Arriviamo alla stele di Pertuso che mancano dieci minuti alle cinque del pomeriggio. Ci guardiamo e ridiamo. Siamo sfiniti, ma troviamo la forza per ridere. E' il bello di queste giornate. Fatico quasi a togliere gli scarponi, ma sono certo che domattina ripartirei immediatamente.

Se vi capita, andateci alla Croce degli Alpini. E' un'escursione molto bella e in salita, anche se soffrite di vertigini, nonostante un po' di tremolio di gambe ci potete andare. Posso però darvi un consiglio?

Pensate bene a come scendere..

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San Fermo è un punto panoramico da cui si può guardare intorno fino quasi a perdersi con lo sguardo, con la mente e con il cuore. Ci ero stato per la prima volta la scorsa estate, per fare proprio questa escursione fino al Monte Antola e me ne ero innamorato. Salendo in macchina, sulla stretta stradina che passa per Gordena e Casalbusone, non vedevo l'ora di essere là sopra e raccontavo a Francesca di quanto fosse bello il mondo visto da lassù.

Arrivati nei pressi della rossa chiesa di Dove Superiore, mancava veramente poco e sentivo crescere la gioia per essere tornato qui sopra, in un punto che - normalmente - sono abituato a guardare da lontano, visto che è visibile da molti degli itinerari delle mie escursioni lungo l'appennino delle quattro province. Parcheggiata l'auto e indossati zaino e scarponi, ci incamminiamo a piedi verso la cappella di San Fermo, situata al confine tra Piemonte e Liguria, percorrendo dapprima un tratto di strada asfaltata per poi salire alla volta della cappella, posta a 1.177 mt. in territorio della Val Vobbia ma in un punto in cui si incontrano i confini di tre differenti Comuni: Vobbia, Carrega Ligure e Mongiardino Ligure.

Inutile dire che la vista, da qui, è meravigliosa. Ci fermiamo subito a scattare qualche foto dalla panchina posta proprio di fronte all'ingresso della cappella e poco distante dalla quale è posizionata la targa sulla quale sono riprodotte tutte le montagne che si possono ammirare da qui sopra. Salutiamo due signori che incontriamo sul valico, per poi metterci subito in cammino in discesa, alla volta del monumento al partigiano Ezio Lucarno.

L'Antola è di fronte a noi e sembra lontanissimo, mentre il piccolo paesino di Berga, nell'ultimo pezzettino di Piemonte prima della Liguria, sembra nascondersi dietro a una montagna, al di sotto del sentiero. Attraversiamo l'asfaltata che conduce all'Osteria di San Clemente e prendiamo una carrareccia all'interno del bosco che, dopo alcune centinaia di metri, ci porta al bivio - segnalato sulla destra, segnavia numero 200 - con le indicazioni per il Monte Antola. Il sentiero, attraverso un bel boschetto posto in corrispondenza del crinale, procede in piano e a tratti in leggera salita. Mezz'oretta di cammino e raggiungiamo le pendici del Monte Sopra Costa (1259 mt.) e, dopo altri venti minuti all'interno del bosco con qualche bella vista sul lato della Valle dell'Agnellasca (Berga è proprio sotto di noi, ma si distinguono chiaramente Agneto

Vento fresco e panorami mozzafiato: la traversata da San Fermo all'Antola

Partenza: San Fermo (mt. 1.177) Arrivo: Monte Antola (mt. 1.593) Tappe intermedie: Pendici M.te Sopra Costa (mt. 1.259), Passo Sesenelle (mt. 1.254), M.te Buio (mt. 1.403), Capanna di Tonno (mt. 1.302) Lunghezza percorso: 16 km A/R Tempo percorrenza: 6 h. circa A/R Segnavia: bianco-rosso 200

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e Daglio), eccoci a Passo Sesenelle (mt. 1254), il valico dove transita la mulattiera che parte dai Piani di Vallenzona.

Da Passo Sesenelle in poi, il sentiero - sempre mantenendosi all'interno del bosco, anche se ora sul lato ligure -inizia a salire più decisamente attraverso alcuni stretti tornanti, fino a sbucare dagli alberi direttamente sul crinale, nei pressi di una staccionata da cui si gode di una bella vista sulla Val Vobbia. Da qui, pochi metri in salita e raggiungiamo la vetta del Monte Buio (mt. 1403), dove troviamo la grande croce metallica posta nel 1968 dal Gruppo escursionistico Busallese. Appoggiamo gli zaini su uno dei due tavoli presenti sulla cima del Buio e ci sediamo sulle panche per una veloce colazione, visto che siamo quasi a metà del nostro percorso. Un po' di focaccia guardando lo splendido panorama, poi mi alzo e scatto qualche foto, mentre Francesca si rilassa al sole. La vista spazia su due valli: sul lato ligure, si vedono Crocefieschi, le Rocche del Reopasso e alle loro spalle la Madonna della Guardia di Genova (niente mare, oggi la foschia lo lascia solo intravedere); sul lato della Val Borbera il panorama spazia da San Fermo all'Antola e, in lontananza, si distingue chiaramente tutta la catena appenninica che parte con le antenne del Monte Giarolo e, passando per Ebro, Chiappo e Legnà termina con il Monte Carmo.

Dopo una bella foto panoramica è già tempo di ripartire e di scendere alla volta della vecchia cima del Buio, ancora riconoscibile per via di una croce, in corrispondenza della quale abbandoniamo il sentiero di cresta per deviare - in discesa - a destra in direzione di uno stretto sentierino che si innesta sulla mulattiera proveniente da Crocefieschi.

La mulattiera che proviene da Crocefieschi si caratterizza per un fondo piuttosto pietroso e occorre fare attenzione a dove si appoggiano i piedi: è infatti facile inciampare nei sassi piuttosto che scivolare in alcuni punti dove la terra del sentiero è più scivolosa. Percorrendo questa mulattiera, stiamo camminando sopra alla Val Brevenna: sullo sfondo si vedono i paesini di Carsi, Cerviasca e Aia Vecchia mentre, sotto di noi, Tonno e Casareggio rappresentano l'ultimo avamposto ligure prima del confine geografico, situato proprio sulla costa che stiamo percorrendo. Di fronte a noi, la cima dell'Antola, ormai sempre più vicina, tanto che distinguiamo chiaramente ad occhio nudo la croce che la sovrasta.

Dopo un tratto particolarmente panoramico, sul crinale, il sentiero si immerge nel bosco e torna sul lato piemontese, su di una valle totalmente disabitata e priva di paesi, per poi ri-uscirne nei pressi della Capanna di Tonno (mt. 1302), meraviglioso punto panoramico sulla Val Brevenna. Dopo qualche foto nella caratteristica cornice della Capanna di Tonno, ripartiamo con buona gamba alla volta dell'Antola, superando dopo poco il bivio del sentiero numero 251 che conduce alla Sella Banchiera. Il sentiero, dopo alcuni dentro-fuori dal bosco, si stabilizza sotto alle piante e ci pone - dopo poche decine di minuti - di fronte alla salita finale al Monte Antola, sicuramente meno proibitiva di molte altre salite che si incontrano in montagna.

Iniziamo a sentire il vociare delle persone e capiamo di essere giunti in prossimità dell'arrivo sull'Antola. Quando sbuchiamo dal sentierino, nei pressi del vecchio "Rifugio Musante", incontriamo degli escursionisti provenienti da Tortona, saliti da Casa del Romano, con i quali scambiamo due parole, cercando di convincerli a provare il nostro itinerario.

Arrivati alla chiesetta di San Pietro, notiamo subito un tavolo libero, sul lato, leggermente appartato rispetto agli altri e lo facciamo nostro. Un attimo e la tavola è già piena, di tutto quello che non può mai mancare per rendere soddisfacente un'escursione. Un po' di focaccia con la robiola, pane e cioccolata e un po' di vino rosso; poi un veloce riposino. Passano dieci minuti di tranquillità totale, disturbati solo dal rumore del vento, mentre tutto intorno il tempo sembra essersi fermato. Quando ci alziamo, saliamo sulla cima dell'Antola, dove ci feriamo per

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un buon quarto d'ora a scattare immagini panoramiche da quel meraviglioso set fotografico che è la panchina posta a dominare la Valle dei Campassi e la Sella Banchiera, mentre un simpatico cagnolino bianco con una macchia nera sull'occhio ci gira attorno riuscendo ad entrare in quasi tutti i nostri scatti. Dalla parte opposta, il blu intenso del lago del Brugneto.

E' ora di incamminarsi sulla strada del ritorno: scendiamo verso la chiesa di San Pietro e ancora più giù, fino a riprendere il sentiero che, poco più avanti del Rifugio Musante, taglia sulla destra in mezzo agli alberi. Giunti in fondo alla discesa, proprio quando iniziano a ricomparire le viste sulla Val Brevenna, la strada spiana e attraverso un bel boschetto ci riporta alla Capanna di Tonno. Facciamo una piccola sosta nei pressi della capanna, per poi rimetterci in marcia e, superato un altro tratto boscoso, raggiungere attraverso la mulattiera per Crocefieschi la vecchia cima del Monte Buio. Durante il tragitto, non smettiamo di ripeterci quanto sia stata bella la camminata di oggi: tutto era al posto giusto. Ai piedi della cima del Buio, un vento fastidioso ci induce a salire velocemente verso la cima, dove il vento è ancora più forte, tanto che quando ci sediamo sulla panca del Monte Buio, la stessa di questa mattina, le folate quasi ci portano via i bastoncini. Qui sul Buio restiamo una decina di minuti, il tempo di mangiare qualche torcetto avanzato dalla colazione della mattina e di scattare qualche foto di fronte a questa meraviglia di panorama, che tra pochi metri, quando entreremo nel bosco, scomparirà.

Quando arriviamo a San Fermo sono passate da poco le cinque e mezza del pomeriggio e la cappelletta sulla cima della montagna è baciata da un meraviglioso sole. Il colore giallo della sua facciata crea un perfetto accostamento di colori con il blu del cielo terso. La luce è stupenda, a quest'ora della giornata e ne approfittiamo per le ultime foto insieme.

Camminando verso l'auto, vediamo il piccolo paesino di Berga, alla nostra destra, sul quale splende ancora un bellissimo sole, anche se inevitabilmente, vista l'ora, le famiglie che lo abitano si staranno preparando alla sera. Anche noi, quando saliamo in macchina, abbiamo già il pensiero rivolto alla serata, come sempre dopo una bella escursione: la stanchezza ci attanaglia, ma la soddisfazione per essere restati a contatto con la natura per un’intera giornata va oltre ogni cosa. L’amore per la montagna vince sempre.

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Il Lesima, la cima più alta del nostro appennino. E per nostro intendo i nostri dintorni, perché è chiaro che spostandosi verso la Val d'Aveto le cime aumentino di altitudine: però il Lesima, spesso identificato con quella grande palla radar posta sulla sua sommità, con i suoi 1724 metri raggiunge una notevole quota, superando le già elevate altitudini dei monti Ebro e Chiappo, fermi a 1700. Sono anni che mi dico che vorrei tornarci, poi per un motivo o per l'altro non riesco mai a mantenere fede alla mia promessa. Ci sono stato altre due volte, nel 2005 e nel 2006, sempre partendo da Bocche di Crenna e conservo il ricordo di una intensa camminata, ampiamente ripagata dalla meraviglia di panorama che si può ammirare dalla sua vetta. Ora ho deciso, ci torno. E ci porto Francesca, che ha voglia di camminare. Non le dirò che è una camminata così faticosa, altrimenti mi manderà subito a quel paese, aspetterò che lo faccia alla sera, quando torneremo: magari sarà così stanca che non ne avrà più la forza!

Per raggiungere Bocche di Crenna, punto di partenza dell'escursione, si risale la Val Curone sulla SP100, per poi imboccare la SP113 dopo l'abitato di Garadassi e la si segue fin oltre il paese di Salogni, poche curve dopo il quale sulla destra sale una stradina asfaltata che conduce alle Stalle di Salogni. Si segue la strada anche oltre le stalle, quando l'asfalto lascia spazio allo sterrato e si parcheggia l'auto a Bocche di Crenna, a 1553 metri di altitudine, valico tra la Val Curone e la Val Borbera, in prossimità del cancello posto ai piedi dei monti Ebro e Chiappo. Zaino, scarponi e macchina fotografica: si va!

Mentre Francesca mi imbocca con un pezzo di focaccia, faccio giusto in tempo a notare che il meteo, previsto bello, è già ampiamente compromesso e nuvoloni neri si affacciano all'orizzonte, specie guardando in direzione della nostra meta. Alle nostre spalle, verso la Val Curone, il cielo è almeno più azzurro, ma è una consolazione da poco. Ci incamminiamo in discesa sulla carrabile che, poco oltre il cancello, prosegue in direzione della Val Borbera, per abbandonarla dopo poche decine di metri deviando sulla sinistra, su di un percorso non segnalato se non con il doppio cerchio pieno giallo, a tratti. Il sentiero è comunque visibile e anzi, paralleli ad esso ne corrono alcuni altri, che conducono tutti nella medesima direzione: superati numerosi versanti immediatamente sotto a Bocche di Crenna, il sentiero permette finalmente di vedere il monte Ebro ormai alle nostre spalle, mentre se guardiamo verso valle, vediamo un mare di nebbia sommergere i paesi dell'alta Val Borbera.

Che botta … ragazzi! Da Bocche di Crenna al Monte Lesima

Partenza: Bocche di Crenna (mt. 1553) Arrivo: Monte Lesima (mt. 1724) Tappe intermedie: Capanne di Cosola, Capannette di Pey, Passo del Giovà, Bivio Brallo Lunghezza del percorso: circa 20 km Tempo di percorrenza: intorno alle 6 h. 30 min. Segnavia: bianco-rosso numero 101

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Entriamo in un boschetto dove il sentiero è ricoperto di foglie e svolta bruscamente verso sinistra, portandoci in un punto panoramico dove si può godere un bel panorama sull'alta valle e sul corso del Borbera, che compare e scompare al di là della nebbia. Poco oltre, una cappelletta sulla sinistra del sentiero preannuncia un nuovo cancello per il bestiame, superato il quale incontriamo una fontana e quindi una discesa del sentiero, ormai prossimo all'arrivo a Capanne di Cosola. L'arrivo nei pressi delle prime case del piccolo paesino è preceduto da un tratto del sentiero particolarmente fangoso: fango che si rivelerà una delle più grosse insidie della giornata. Giunti a Capanne di Cosola dopo circa 40 minuti di cammino, proprio davanti all'omonimo albergo-ristorante, proseguiamo sull'asfalto in direzione di Capannette di Pey, che raggiungiamo dopo una decina di minuti di cammino con la palla radar del Lesima che sembra attenderci, là in alto, proprio davanti a noi. Ancora distantissima. A Capannette di Pey, oltre ad un altro albergo-ristorante, si segnala una bella chiesa, che arrivando dalla strada di Capanne di Cosola si trova proprio davanti al Lesima, in linea d'aria, in uno splendido punto panoramico. Oltre la chiesa, l'asfalto prosegue fino al Passo del Giovà, dove incontriamo un bivio: in basso a destra, la strada prosegue per Pej e Vesimo; a sinistra per Pian del Poggio e dritto per il Passo del Brallo. Noi manterremo la strada per il Brallo, ma prima pensiamo bene di fermarci a fare una merenda di metà mattinata: un po' di cioccolata ci vuole, non sembra, ma tutto questo asfalto è veramente faticoso da affrontare con gli scarponi. Abbiamo bisogno di energia.

Dal Passo del Giovà, il panorama che si può godere sulla Val Boreca è fantastico: i versanti del Cavalmurone e del Lesima sembrano quasi scontrarsi l'uno con l'altro e, poco più in alto, il caratteristico paesino di Belnome, isolato ai piedi dell'Alfeo. Ma una volta terminata la nostra merenda, basta ripartire per pochi metri lungo l'asfalto che conduce al Brallo per vedere, voltandosi questa volta dalla parte opposta, un panorama da lasciare senza fiato sull'alta Valle Staffora: poco distante da noi, Pian del Poggio, mentre più a valle distinguiamo i paesini di Casale Staffora, Cencerate, Barostro e, addirittura, in un punto dove la vista è ancora più ampia, riusciamo a vedere Cegni e il paese fantasma di Ceregate. Che dire, la camminata, a parte un po' troppo asfalto, è comunque piacevole ed estremamente panoramica: e quando saremo là sopra, sulla cima del Lesima, io so già cosa mi aspetterà, ma Francesca no, non essendoci mai stata. Camminando, le racconto delle mie precedenti escursioni qui, prima che le nostre discussioni finiscano come sempre in una sonora risata, o con uno dei due impegnato a fotografare qualcosa che lo ha particolarmente attirato.

Dopo un buon tratto sull'asfalto in direzione del Brallo, ecco finalmente stagliarsi sulla destra il sentiero con le indicazioni per il Monte Lesima, che finalmente ci permetterà di lasciare l'asfalto per camminare su di un terreno più morbido. Il cartello con le indicazioni bianco-rosse numero 101 per il Monte Lesima si trova in un punto in cui il sentiero tende ad allargarsi ed è parzialmente sommerso dalla legna accatastata: si intravedono i cartelli con le distanze e in prospettiva, quasi appoggiata sulla catasta di legna, alle sue spalle, la palla radar della montagna. Un'ora e quindici minuti per arrivare al Lesima, tre ore e mezza per il Brallo, che a noi per oggi non interessa. E' però quanto meno strano che, accanto al nome del paese di Travo - in provincia di Piacenza - raggiungibile proseguendo oltre il Brallo su questo stesso sentiero, non ci siano indicazioni circa il tempo necessario a raggiungerlo: è un'indicazione che non mi tranquillizza affatto!Imbocchiamo il sentiero, che sale tra gli alberi: più che un sentiero, in questa stagione è diventato una specie di rio, con acqua che scende sotto alle foglie su di un terreno particolarmente fangoso. E' un sentiero insidioso, in alcuni punti, ma in altri si procede piuttosto bene e lo strato di foglie su cui camminiamo sembra essere asciutto e reggere bene il nostro peso senza celare particolari sorprese. In diversi tratti del sentiero, che corre per buona della prima parte parallelo - ma solo più in alto - alla strada asfaltata, si intravede tra i rami degli alberi ormai spogli la cima del Lesima in lontananza, oltre a meravigliose viste sulla Val

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Boreca. In particolare, in un punto panoramico, si scorge la stradina asfaltata che congiunge Pej con Vesimo come una specie di serpentello, in fondo alla valle, quasi sommersa da tutta la vegetazione che la circonda. Il cielo sempre più grigio, con un po di luce che filtrava tra le nubi, non ha fatto altro che rendere ancora più affascinante tutto questo meraviglioso momento. Il sentiero alterna tratti in piano a tratti in salita più decisa e, ad un certo punto, siamo quasi costretti a buttarci letteralmente fuori dalla strada perché alcuni motociclisti, con le loro moto da cross, sbucano all'improvviso alle nostre spalle, passando sul sentiero prima di noi e, di fatto, rovinandolo totalmente. Il sentiero, già pericoloso di suo in alcuni punti, per via dello strato di fango presente sotto alle foglie, diventa sempre più difficilmente percorribile, ora che i motociclisti hanno sollevato tutto il fango e in alcuni punti siamo costretti a salire inventandoci dei percorsi alternativi perché la stradina è diventata del tutto impraticabile. In un punto in ripida salita, in cui siamo ritornati a percorrere il sentiero, camminando a gambe larghe per evitare il rio di fango che scende al centro, non appena porto il peso sulla gamba destra sento il terreno sotto di me scivolare via. Non so cosa sia accaduto di preciso perché tutto è durato la frazione di un secondo: mi ritrovo per terra, nel fango, con un gran dolore all'occhio sinistro, senza occhiali, volati più avanti e senza un bastoncino, finito fuori dal sentiero. Il dolore all'occhio è forte e mi rendo subito conto di essermi fatto male seriamente, considerato anche il forte dolore al naso che mi colpisce poco dopo. Mi rialzo con l'aiuto di Francesca e da fermo, la terra fangosa mi frana via da sotto ai piedi: pazzesco. Ci portiamo qualche metro più avanti e da una veloce prova di vista, mi rendo conto di vedere molto più annebbiato rispetto a quello che già vedevo prima: l'occhio sinistro mi è già stato operato tre volte per una pallonata da ragazzo ed ha già una vista molto limitata...figurarsi ora. Il naso e l'orbita gonfiano istantaneamente, ma tutto sommato sento di poter proseguire. Così, stando ben attenti a dove mettiamo i piedi, ci portiamo fino al bivio con il sentiero che conduce per il Passo del Brallo (a sinistra), che evitiamo mantenendo la destra ed uscendo dal bosco.

Aggirando un piccolo versante di montagna, arriviamo in uno dei punti più spettacolari della traversata: quello dove si intravede, poco sopra di noi, in prospettiva, la palla radar del Lesima e, alle nostre spalle, l'immensità del panorama che spazia dalla Val Boreca fino alla Valle Staffora. Ci fermiamo per qualche foto, è bellissimo da qui. Indosso il k-way perché il freddo entra nelle ossa e mi metto la bottiglia d'acqua fredda sul naso e sull'occhio, per trovare un po' di rinfresco dalla botta di prima. Da qui, una ripida ma breve salita sull'erba ci porta ad immetterci sull'asfalto che avevamo abbandonato prima quando eravamo entrati nel bosco seguendo le segnalazioni con il numero 101: giunti sulla strada, raggiungeremo la cima della montagna camminando sull'asfalto, che arriva fino in vetta attraverso una stretta stradina. Francesca gioca con gli scherzi della prospettiva, coinvolgendomi in alcune foto che mi strappano un sorriso, mentre ancora un po’ sono preoccupato per la salute del mio occhio, dolorante alla pari del naso. Mentre camminiamo in direzione della vetta, possiamo vedere alla nostra destra e alla nostra sinistra dei panorami pazzeschi: il bello del Lesima è proprio questo.

Arriviamo sotto al radar - che serve per il traffico aereo, lo dico ad uso e consumo di chi non ne conoscesse l'utilità - lo aggiriamo e saliamo sul prato che si trova alle sue spalle, dove svetta un'alta croce in ferro. Ci sediamo poco più avanti, ai piedi della croce. Anzi si siede, Francesca. Io rimango in piedi qualche istante a scattare foto panoramiche tutto intorno, da questa meraviglia di cima. Dalla sinistra del radar, si vedono il Giarolo, il Chiappo, il Cavalmurone, il Carmo e tutta la catena che lo unisce all'Alfeo, che è proprio di fronte a noi. Ai piedi dell'Alfeo, Belnome, adagiato sul versante della montagna. Alle spalle di Belnome, si vede il corso del torrente Boreca, con il paese di Artana in mezzo al nulla: si può ricostruire ad occhio buona parte del percorso del "giro del postino" che ho fatto questa estate. Proseguendo alla sinistra dell'Alfeo, ecco Zerba mentre Ottone è nascosto. Ancora più a sinistra, tutta la parte di

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appennino in provincia di Piacenza, fino a Ponte Organasco. In fondo, svettano il passo del Brallo e il Monte Penice con le sue antenne.

Indosso la cuffia perché l'aria mi dà fastidio e mi siedo accanto a Francesca, che ha già tagliato il formaggio e preparato la focaccia. Una bella golata di vino per dimenticare il male all'occhio, poi consumiamo velocemente il nostro pranzo ai piedi del radar, guardando il panorama attorno a noi, da lasciare letteralmente sbalorditi. Per non parlare del momento in cui tra le nubi filtra qualche raggio di sole, regalando una luce nuova a tutto il paesaggio circostante. Ci facciamo un autoscatto, prima di andarcene, dopo poche decine di minuti di pausa, ma oggi la strada che ci attende al ritorno è ancora lunga e non possiamo dilungarci troppo.Tornati sull'asfalto, ai piedi della palla-radar, iniziamo una lunga ed estenuante discesa sull'asfalto. Visto il fondo fangoso del bosco, decidiamo di scendere seguendo l'asfalto fino al Passo del Giovà e da qui fino alle Capanne di Cosola. La strada, lunga, è comunque piacevole per la bellezza dei panorami che si possono ammirare: da qui sopra sembra di poter dominare il mondo, tanto è ampia la vista. Sul lato piacentino del Lesima, la montagna diventa rocciosa e lascia spazio a suggestivi panorami ai piedi dei suoi versanti, con terreni verdissimi che risaltano in mezzo alla vegetazione che ha già in buona parte assunto connotazioni autunnali.

Quando arriviamo al bivio tra il Brallo e il Passo del Giovà, abbiamo già le articolazioni che scricchiolano: eppure di strada ce n'è ancora! Dal Passo del Giovà fino alle Capanne di Cosola sembra corta, ma non lo è per nulla e ci rendiamo conto di stare facendo sempre più tardi. Fortunatamente, in compagnia (buona) il tempo passa senza annoiarsi mai e camminando, spesso ci voltiamo alle nostre spalle a vedere quanto ora è lontana la palla del Monte Lesima, ormai un ricordo al pari delle altre camminate insieme. Arrivati a Capanne di Cosola, una fontanella mi invoglia a mettere il naso sotto all'acqua gelata per calmare un po' i bollenti spiriti della botta del pomeriggio. Mi fanno così male il naso e l'orbita che quasi non sento l'acqua gelida sul viso e, sopratttutto, vedo ancora annebbiato. Poco oltre, ci sediamo su di una panchina per mangiare ancora un pezzo di cioccolata, mentre il freddo torna a farsi sentire più che mai, poi riprendiamo il sentiero che dalle Capanne conduce a Bocche di Crenna. Quando si è già stanchi, questo sentiero diventa un inganno continuo, come i miraggi nel deserto: il valico di Bocche di Crenna sembra sempre vicino, ma non ci si arriva mai e i versanti delle montagne da attraversare sembrano moltiplicarsi. Alla nostra sinistra, un mare di nebbia sale minaccioso dal fondo della valle e in men che non si dica si avvicina a noi, avvolgendo tutto quello che incontra sulla sua strada: speriamo di arrivare all'auto prima che scompaia nella nebbia! Francesca mi maledice per tutta la strada che le ho fatto fare, è il segnale che è effettivamente tardi: arriviamo infatti alla macchina che sono ormai le cinque e un quarto, stanchi morti e infreddoliti.

E' stata una bella traversata, sicuramente da ripetere quando il tempo sarà più clemente, magari in primavera-estate. Peccato solo per gli strascichi che ha lasciato, visto che in conseguenza di quella botta, mi toccherà una settimana di ospedale con annesso trauma al bulbo oculare. Ma si sa...anche l'occhio vuole la sua parte...(ora ci rido sopra, per fortuna!)

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La vicenda, correva l’anno 1863.

Il 27 marzo 1863, sulle montagne che separano la valle Staffora dalla val Curone, accadde un tragico fatto di sangue.

La famiglia Tamburelli viveva a Cà del Monte, un cascinale isolato che solo per poche decine di metri ricadeva nella provincia di Alessandria, a circa metà strada tra le frazioni di Dego e di Castagnola.

Teresa Botti vedova Tamburelli, di 63 anni, aveva due figli: Giuseppe, di 27 anni, viveva con lei nella casa di Cà del Monte, assieme alla moglie, Teresa Fassini, 24 anni e al loro bambino di pochi mesi, mentre l’altro figlio stava svolgendo il servizio militare a Pavia. La partenza del figlio per il militare aveva di molto indebolito la famiglia, che vivendo di agricoltura disponeva di numerosi terreni e bestiame, tanto che la madre cercò di trovare un surrogante per il figlio (ovvero un uomo che lo sostituisse al servizio militare, pratica ai tempi consentita) in modo che questi potesse tornare ad aiutare la famiglia.

La mattina del 28 marzo 1863, all’alba, il bracciante Bertella Domenico, detto "Il merlo", salì da Caposelva – piccola frazione nei pressi di Varzi – alla costa dominata da una montagna nota come "il Poggio di Dego", poi scese alla volta di Cà del Monte, dove avrebbe dovuto lavorare dei terreni per conto della famiglia Tamburelli e, sentendo il pianto di un bambino e notata la porta socchiusa, mise la testa all’interno trovandosi di fronte a una scena raccapricciante. Giuseppe Tamburelli e la moglie erano riversi a terra in una pozza di sangue, l’uno addosso all’altra, mentre la madre Teresa Botti giaceva su di uno seggiolone con la testa riversa sullo schienale.

Il Bertella corse immediatamente a chiedere aiuto e raggiunse la frazione di Castagnola, dove assieme ad un contadino corse dal parroco, don Severino Zerba, che informò le autorità competenti. Le indagini presero avvio nei giorni immediatamente successivi al delitto e, dopo aver appurato che gli omicidi avvennero con l’utilizzo di una scure, una zappa e di una forca, si

Sugli stessi sentieri, dopo 150 anni

Partenza e arrivo: SP Fabbrica Curone-Varzi, bivio Casa Bertella-Caposelva Tappe intermedie: Casa Bertella, Casa dei partigiani, Poggio del Dego, Dego, Cà del Monte, Caposelva Lunghezza del percorso: circa 13,5 km Tempo di percorrenza: intorno alle 5 h. Segnavia: a tratti, segnavia bianco-rosso. Ma è impossibile basarsi esclusivamente su quello.

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indirizzarono subito verso alcuni dei banditi che avevano trovato rifugio nelle montagne della zona. Ben presto, però, dalle testimonianze dei paesani, emerse la figura di Giuseppe Malaspina, per tutti Pippone, un oste di Varzi di 48 anni su cui finirono per convergere tutti i sospetti.

Pare che Teresa Botti, nella sua opera di raccolta di fondi per surrogare il figlio (l’importo necessario per la surrogazione era 3000 lire) si recò a Varzi il giorno del delitto per trattare con un tizio di Bognassi e lo stesso giorno guadagnò le ultime 1000 lire vendendo un distinto paio di buoi. Fermatasi per un piatto di minestra all’osteria di Pippone, che si trovava “al principio di Varzi dalla parte di ponente”, pare che la donna si lasciò scappare qualche parola di troppo sulla vicenda della surrogazione del figlio e sui soldi che aveva racimolato, che nella casa di Cà del Monte, dopo il delitto, non vennero più ritrovati.

Le testimonianze indicarono Pippone come l’assassino: furono in molti a sostenere di averlo visto salire da Casa Bertella, frazione sulla strada per Caposelva, assieme al figlio e al loro cane, alla volta del Poggio di Dego, per poi raggiungere Cà del Monte. Altri fecero notare la sua assenza dall’osteria la sera del delitto, dove fece ritorno solo a tarda ora proveniente dall’esterno e, quando Pippone e il figlio furono arrestati, aumentò a dismisura anche il numero dei loro accusatori.

Il 1° marzo 1864, in Alessandria, si aprì il processo contro Giuseppe e Angelo Malaspina: la giuria riconobbe i Malaspina colpevoli a maggioranza condannando il figlio ai lavori forzati a vita e il padre, Pippone, alla pena di morte, assegnandogli tre giorni di tempo per ricorrere in Cassazione. Il ricorso venne rigettato e Pippone venne condannato alla forca nella piazza Maggiore di Alessandria: fu l’ultima sentenza capitale eseguita mediante impiccagione.

La triste vicenda di questo omicidio e delle indagini che seguirono, portando alla condanna di Pippone, sono state raccontate dal prof. Giuseppe Bonavoglia nel libro “L’ultima trista impresa di Pippone di Varzi”, dal quale ho chiaramente preso spunto per raccontare in sintesi l’accaduto e che vi invito a leggere per avere uno spaccato della società dell'epoca nei nostri piccoli villaggi di montagna. Non possiamo sapere con certezza se, effettivamente, Pippone fu l’assassino di Cà del Monte, perché condannato al termine di un processo (sommario) prettamente indiziario, dove poco alla volta emersero gelosie, prepotenze e minacce che finirono per "inquinare" la scena del delitto. Certo, questo Pippone non doveva essere uno stinco di santo, da quello che di lui si diceva. Possiamo però ritornare per un attimo con l’immaginazione a quegli anni e immergerci nella vita quotidiana di una piccola valle sconvolta da una così grande tragedia.

Ad esempio, immaginiamo di ripercorrere gli stessi sentieri di Pippone…

Sulle orme di Pippone di Varzi, oggi.

Il bivio che dalla strada provinciale Varzi-Fabbrica Curone conduce alle frazioni di Casa Bertella e Caposelva si trova poco prima dell’arrivo a Varzi, da cui ci separa solo il fiume Staffora. Pippone, il figlio Angelo e il cane, partiti dall’osteria - che si trovava nella parte del paese vicina al Reponte - dovettero attraversare il fiume, prima di giungere qui.

Oltre a essere ancora un discreto camminatore, mio padre è anche una persona incuriosita dalle questioni riguardanti le nostre valli, così ha voluto leggere la storia di Pippone da Varzi appassionandosi a tal punto da voler venire con me: padre e figlio, mancherebbe solo il cane per una ricostruzione perfetta della serata del 27 marzo 1863. Neanche a dirlo, nel tratto di asfalto che precede Casa Bertella, ci voltiamo e vediamo un cagnolino bianco seguirci a

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distanza: ci scappa una risata, sembra uno scherzo! Anzi, dopo poco prende fiducia e, una volta raggiunti, si mette davanti a noi a fare strada.

Perfetto, ci siamo tutti: la ricostruzione della trista impresa di Pippone può avere inizio.

A Casa Bertella non entriamo neanche in paese: nei pressi di una cappelletta votiva prendiamo la strada in salita, che passa accanto ad alcune case con le persiane chiuse e i piani bassi ad uso stalla. E’ da qualcuna di queste finestre che, probabilmente, alcuni dei grandi accusatori di Pippone, tra cui Carlo Bertella, si sporsero sentendo i cani abbaiare, riconoscendo le figure di Pippone e del figlio dirette verso Cà del Monte.

Nei pressi dell’ultima casa del paese, l’asfalto lascia spazio alla sterrata e ci pone subito di fronte a un bivio. Chiediamo informazioni a un signore che se ne sta seduto nel cortile di casa, ma non otteniamo risposte soddisfacenti: oltre ad essere sordo, dice di non sapere dove portano quelle strade, così – suggeriti dal cane, che si lancia in una folle corsa davanti a noi - prendiamo quella di sinistra che corre in piano in direzione del paese di Varzi, che possiamo ammirare adagiato sulla sponda dello Staffora. Di fronte a noi, comincia a materializzarsi in lontananza una piccola casetta sul cocuzzolo di una montagna: la vediamo spuntare a intervalli regolari dietro ai versanti delle montagne che superiamo, chiedendoci cosa possa essere.

Giunti quasi ai piedi della casetta, un’ultima salita ci conduce in uno straordinario punto panoramico, totalmente inaspettato: una specie di balcone con vista sulle grigie montagne di argilla arenaria tipiche di questa zona e un paesino aggrappato ad una montagna sullo sfondo, Fontana di Nivione. E’ un luogo meraviglioso e restiamo qui qualche minuto, sull’orlo del dirupo, ad ammirare il vuoto sotto ai nostri piedi. Il sentiero si snoda in discesa sulle montagne grigie, alla volta del piccolo paese, che pare non essere solo: si vede infatti, poco più a destra, spuntare il campanile di una chiesa, anzi della chiesa di Castello di Nivione.

Il cagnolino corre veloce in direzione della casetta e lo seguiamo: è un edificio storico dei partigiani nelle vicinanze del Monte Crocetta, al suo interno un materasso e due sedie di paglia. Scendiamo la scaletta e facciamo il punto della situazione: proseguendo sulle montagne di argilla, oltre i due villaggi, si arriverà sicuramente sul crinale nelle vicinanze del Poggio di Dego, ma non crediamo sia questa la strada percorsa da Pippone. E allora indietro, torniamo al bivio di Casa Bertella, dove imbocchiamo l’altro sentiero, quello in salita.

La salita è ripidissima e in, alcuni punti, ricoperta di neve e fango, sembra non finire mai; voltandosi, però, si possono ammirare degli splendidi panorami di Varzi. Davanti a noi, il cagnolino trotterella e, a tratti, si lancia in corse pazze giù per i versanti delle montagne, quando sente l’odore di qualche altro animale passato da quelle parti: come ben potrete immaginare, questi boschi sono un via vai di sentierini creati da cinghiali, caprioli, tassi e lepri. Poi ritorna, con la lingua penzoloni e riprende ad aprirci il sentiero, fermandosi ogni tanto, voltato verso di noi, per vedere se arriviamo.

Quando la strada inizia a spianare siamo quasi arrivati in cima, nei pressi del Poggio di Dego, proprio quello descritto nel libro di Bonavoglia. Un raggio di sole che illumina il sentiero di fronte a noi ci annuncia l’uscita dal bosco di castagni, in un punto dove il sentiero incrocia quello proveniente da Nivione che, prima, avevamo abbandonato. Da qui, non si vede più Fontana di Nivione, ma il poco distante Castello di Nivione, con la sua chiesa. Alle sue spalle, Monteforte e, ancora più in alto, le antenne del Penice.

Camminiamo sul crinale, sotto a un sole forte e ad un cielo azzurro che quasi sembra primavera e dopo una ripida salita arriviamo in un punto in cui le strade si dividono e da cui si vedono,

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affacciandosi leggermente tra gli alberi, i tetti delle case della frazione di Dego e il profilo del campanile di Castagnola: Cà del Monte non dovrebbe essere così lontana.

Sono convinto che fino a qui, Pippone seguì questo sentiero. Ma a questo bivio ho l’impressione che lui continuò dritto, mentre invece noi, spinti dalla vista dei tetti delle case di Dego svoltiamo a destra, percorrendo il crinale in direzione di Castagnola. Dopo una ripida discesa nel bosco, incontriamo un sentiero appena accennato sulla sinistra, segnalato solo a tratti, che ci conduce a pochi passi dalle case.

Il cagnolino si insospettisce e ora ci segue a distanza: in lontananza i cani del Dego incominciano ad abbaiare e, tra poco, tutti sapranno che c’è gente nuova in paese. Quando arriviamo, si scatena l’inferno, tanto che il nostro compagno di viaggio è visibilmente spaventato dal ringhio di cani di taglia ben più grossa. Una signora, uscita nel cortile di casa per sgridare i cani, ci vede arrivare e le facciamo segno di fermarsi. Le chiediamo della storia di Pippone, lei fa cenno di sì col capo e cerca di spiegarci dove si trova Cà del Monte, con l’aiuto del marito che nel frattempo l’ha raggiunta. Le indicazioni dei due, però, non sono molto chiare: lasciamo Dego camminando sull'asfalto e, al bivio, teniamo la strada bassa, quella per Castagnola. Cerchiamo un luogo simile a quello descrittoci dalla signora e dal marito, inutilmente. Ci spingiamo fino al rio, che attraversiamo, ma ci rendiamo conto che ci stiamo allontanando troppo dalla nostra meta. Le uniche pietre che abbiamo visto sono quelle ammucchiate al lato della strada a formare una specie di muretto, ma capiamo subito che non possono essere quelli i ruderi di Cà del Monte.

Per fortuna, grazie alle dritte che mi aveva dato a suo tempo l’amico Lorenzo, riusciamo finalmente a raccapezzarci e a intuire dove possa essere Cà del Monte. Torniamo al bivio e prendiamo la strada alta, quella per Varzi e Nivione. Circa seicento metri dopo il bivio, nei pressi di una curva in cui numerosi sassi appuntiti sembrano affacciarsi sulla strada, guardando in basso, tra gli alberi spogli, scorgiamo i resti di una costruzione: finalmente abbiamo trovato Cà del Monte!

Scendiamo sotto alla strada, tra gli alberi e vediamo i resti di quattro mura ancora in piedi: ci hanno detto che sono quelle della stalla della famiglia Tamburelli. E' qui che tenevano, probabilmente, il numeroso bestiame di cui disponevano e per la cui cura la signora Teresa Botti tentava di portare a termine la surrogazione del figlio. Della casa dove si compì il misfatto non rimane più nulla, solo qualche grande sasso ricoperto di muschio accanto alla stalla in direzione di Nivione. E’ crollata da quasi cinquant’anni, si dice.

Guardando bene il punto dove si trova Cà del Monte, non tardo a immaginare che Pippone, giunto al Poggio di Dego, anziché percorrere il crinale alla volta del paese, scese dritto per dritto sull’altro sentiero, che non deve arrivare distante da qui. I ruderi del cascinale sono in un luogo così isolato che l’assassino ebbe tutto il tempo per compiere le sue atrocità, non lo dubito.

Lasciamo i ruderi di Cà del Monte tornando verso Dego, che attraversiamo per poi prendere una stradina che sale alla volta del crinale, da cui si gode di una vista meravigliosa, mentre il cane scorrazza nei prati: per il ritorno vogliamo riscoprire un altro dei sentieri raccontati da Bonavoglia nel libro, quello percorso da Domenico Bertella detto "Il merlo" con partenza da Caposelva. A Dego ci hanno spiegato dove si trova l’imbocco di questo sentiero, che però fatichiamo a trovare allontanandoci ulteriormente. Probabilmente la strada che stiamo seguendo è quella per Casa Galeotti e Ponte Crenna, fortuna che incontro un amico cacciatore che mi dice che stiamo andando nella direzione sbagliata. Torniamo così sui nostri passi e, giunti al punto in cui siamo arrivati sul crinale, proseguiamo per pochi metri in direzione di Varzi ed eccolo, l’imbocco della stradina che scende a Caposelva, segnalato in bianco-rosso.

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E’ tardi ed iniziamo a essere stanchi, tutti e tre. Ci fermiamo all’inizio del sentiero e frughiamo nello zaino, dove abbiamo qualche biscotto, che dividiamo con il nostro compagno di viaggio, che ha una gran fame da quello che vediamo. Forse non pensava nemmeno lui che seguirci avrebbe comportato percorrere tutta questa strada: a stare nella sua cuccia forse avrebbe fatto un affare migliore!

Non manca molto, per fortuna. Ci hanno detto che da Dego a Caposelva è breve, ed effettivamente è così. Il sentiero, seppur percorso in discesa, ricalca in tutto e per tutto quello che abbiamo preso a Casa Bertella per salire al Poggio del Dego, anzi forse è addirittura più ripido. La neve si alterna al fango e alle foglie, che formano uno strato morbido su cui cadere è un attimo. Quando arriviamo in vista dei primi panorami di Varzi, ci rendiamo conto di essere ormai prossimi all’arrivo ed effettivamente, dopo poco sbuchiamo tra le case di Caposelva, davanti ad una fontana-lavatoio e nei pressi di una caratteristica chiesetta. Mentre percorriamo l’asfalto in direzione dell’auto, pensiamo a cosa farà il nostro amico cane: ci ha seguito fino ad ora, sarà un problema salire in macchina e lasciarlo lì. Eppure non è il nostro, avrà un padrone. Superata Casa Bertella, nella stessa curva dove ci aveva raggiunto all’andata, il cagnolino sparisce, risolvendo così tutti i nostri problemi. Effettivamente, guardando bene, là in alto c’è una casa, è da lì che probabilmente è arrivato ed è tornato. E senza saperlo ha avuto un ruolo da protagonista nella fedele ricostruzione della “trista impresa di Pippone da Varzi”, 150 anni dopo!

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Neanche a farlo apposta, in settimana ho condiviso sulla pagina facebook di "A un passo dalla vetta" la ciaspolata dello scorso anno fino al Monte Chiappo: era stata una delle più faticose, seconda solo a quella del monte Carmo, forse, ma mi aveva permesso di godere di panorami davvero impagabili, mare compreso. Anzi, ci aveva permesso, perché con me c'era Francesca, alla sua prima ciaspolata (..che inizio...!). Ad un anno di distanza, tante cose sono cambiate ma non di certo la mia voglia di mettermi alla prova ed affrontare nuovamente un itinerario che, con la neve, diventa tanto lungo quanto affascinante. Eh si, perché per arrivare in cima al Chiappo è raro partire dall'imbocco della strada che conduce alle stalle di Salogni, asfaltata nella prima metà e sterrata nella seconda, ma pur sempre una strada transitabile dai mezzi. Spesso si prediligono itinerari più caratteristici, con partenza - che so - da Capanne di Cosola, da Bruggi, da Salogni o Caldirola, al riparo del bosco o sotto il sole del crinale. La neve, però, copre ogni cosa cancellando tutto, strade o sentieri che siano e così è bello, almeno una volta all'anno, percorrere questo itinerario camminando su di un manto bianco, facendo finta che sia un sentiero qualunque, senza macchine.

Sulla scelta della destinazione, ha pesato sicuramente il tipo di panorama offerto dalla cima del Chiappo, decisamente diverso dal tratto di crinale dal Panà al Cosfrone che sono normalmente abituato a percorrere con la neve. Inoltre, memore della fatica fatta lo scorso anno, ho anche deciso di essere - almeno per una volta - mattiniero e di partire molto presto per poter, di conseguenza, evitare di fare sera sui monti come spesso mi capita nella brutta stagione. Dopo appena 5 ore di sonno, al suono della sveglia scatto in piedi come un soldatino: quando mi metto in testa una cosa non ce n'è. Fuori un nebbione impenetrabile, ma le previsioni meteo mi confortano perché danno un deciso migliormento in mattinata e così, dopo essermi preparato per bene - calzamaglia, cuffia e guanti nello zaino - carico scarponi e ciaspole in macchina e raggiungo l'imbocco della strada che conduce alle stalle di Salogni, a metà strada circa tra Salogni e Bruggi che, avvolti dalla nebbia grigia, sembrano quasi due paesi fantasma di quelli che spesso ho visitato. Indosso le ciaspole e sono pronto a iniziare la mia personale sessione di allenamento: attorno a me nessuno, sono il primo, per una volta e in un certo senso il mio rapporto con la montagna si fa ancora più intimo. Appena imbocco la strada innevata, vedo di fronte a me la nebbia iniziare lentamente a dissolversi, facendomi capire che tutto procede secondo i piani, mentre sullo sfondo, intravedo una lepre attraversare la strada a tutta velocità. Il silenzio è rotto soltanto dal rumore delle mie ciaspole che rompono la neve ancora gelata ed

Un San Giuseppe congelato

Partenza: SP 113, bivio stalle di Salogni Arrivo: Monte Chiappo (mt. 1700) Lunghezza del percorso: circa 15 km tra andata e ritorno Tempo di percorrenza: circa 6 h. e 30 min. Segnavia: nessuno fino a Bocche di Crenna; bianco-rosso 200 sul crinale

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è una sensazione strana sapere di essere l'unico a camminare su questo sentiero. Dopo le prime curve, si vede la nebbia alzarsi dai tetti delle case di Bruggi e lasciare intravedere uno scorcio di paese: a mano a mano che proseguirò, scomparirà anche dalla cima delle montagne intorno, lasciando così ammirare gli alberi carichi di neve. Non passa molto che in cielo c'è già un bel sole e la nebbia appare relegata lungo il Curone, dalle parti di Fabbrica, sul fondovalle: adesso si comincia a ragionare!

Mi tolgo la giacca perché inizia a far caldo: la salita, costellata di impronte di animali selvatici - tra cui senza dubbio quelle del lupo - si fa via via più faticosa e quando arrivo nei pressi del curvone panoramico con vista su tutta la val Curone il cielo è già di un azzurro che fa venire voglia di vivere. Da qui si vedono bene le principali cime del nostro appennino, dall'Ebro al Giarolo passando per il Cosfrone ed il Panà, imbiancate come Dio comanda e di fronte a loro, sul versante opposto, il Carmo, il Bogleglio e il Bagnolo. Guardando bene, sotto al sentiero da cui sono salito, spuntano anche i tetti delle case di Salogni. Un'altra curva decisa e sono ormai in dirittura d'arrivo alle stalle di Salogni, mentre guardando sotto di me vedo le case di Bruggi che appaiono e scompaiono dietro alle piante sommerse di neve. Ecco comparire anche il Chiappo, totalmente imbiancato, con la sagoma del suo rifugio che da questa distanza sembra una casetta delle bambole: chissà quanta neve ci deve essere là sopra!

Alle stalle si perdono le vaghe impronte che avevo seguito fino a quel punto, probabilmente tracce di qualche giorno prima in parte ricoperte dalla neve caduta nella notte e da ora in poi toccherà solo a me creare la strada. E sono quasi a metà itinerario! Il tratto immediatamente successivo è il più brutto di tutto il percorso: c'è troppa neve sul sentiero e troppo molle, tanto che a ogni passo si affonda con buona parte della gamba. Quando la neve "non ti porta", come si dice, la fatica è doppia e in più impiego un tempo spropositato per fare un tratto relativamente breve di strada. Da qui in poi, in compenso, ne guadagna la vista: gli alberi carichi di neve come non mai sono tutti piegati su sé stessi, alcuni sembrano abbracciarsi sulla strada, tanto sono schiacciati dal peso della neve ghiacciata. Buona parte delle innumerevoli foto di oggi, inutile dirlo, le ho fatte in questo tratto. Dopo il bivio con la fontana della valle, la neve diventa decisamente migliore e salire fino a Bocche di Crenna è quasi un piacere. Arrivato nei pressi della seconda bacheca in legno che si trova lungo il sentiero, vedo due persone scendere dal Prenardo verso Bocche di Crenna e, proprio sopra di me, alcune persone scendere dall'Ebro: primi segni di vita di questa giornata fino ad ora silenziosa e solitaria. Anche il vento, fino ad ora assente, inizia a sentirsi fischiare in lontananza.

Prima di arrivare al valico di Bocche di Crenna, come prevedevo, devo fare i conti con un tratto leggermente più insidioso per la troppa neve ammucchiata dal vento, ma una volta superatolo, giungo in breve all'imbocco della salita verso il Monte Prenardo, salita che stanno già affrontando i quattro ciaspolatori che mi hanno preceduto. Che dire, il panorama è fantastico da qui. Vedo il triangolo dell'Antola stagliarsi proprio di fronte a me oltre le montagne della val Borbera, mentre voltandomi alle spalle un Ebro così carico di neve bianca che crea un forte contrasto con il blu intenso del cielo. Indosso la giacca perché qui c'è un gran vento, poi qualche foto e riparto, alla volta del Chiappo: fino a qui ho impiegato poco meno di 3 ore, ce ne vorrà almeno ancora una per arrivare alla mia meta.

La salita all'anticima del Prenardo è agevole, nonostante il vento inizi a sollevare la neve e a creare un effetto "bufera" nel quale si vede un po' a fatica; ne approfitto spesso per voltarmi e fotografare il panorama alle mie spalle, che diventa sempre più spettacolare a mano a mano che salgo fino ad arrivare ad un punto in cui il Monviso, con la sua cima a punta, sembra appoggiato incontro al versante dell'Ebro. Un po' di foschia copre il mare, ma le Alpi marittime si vedono molto bene. Sull'altro lato, Bruggi spesso scompare dietro alla neve sollevata dal

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vento, che crea un effetto molto simile alla nebbia. Ai piedi della cima del Prenardo, seguo le orme di chi mi ha preceduto e senza salire in vetta taglio il fianco della montagna, per giungere dopo poco ai piedi della salita finale al Chiappo, che sepolta sotto a questa neve sembra ancora più ripida e imponente di quanto già sia realmente. La parete rocciosa del Prenardo, quella proprio sopra alle case di Bruggi, è ricoperta da un crostone di neve e ghiaccio mai visto, che meraviglia! Mentre sono fermo a scattare foto mi sorpassano due ciaspolatori di corsa, mentre davanti a me stanno completando la salita i quattro che mi hanno preceduto. Più mi avvicino alla vetta, più il vento si fa forte e insopportabile e la visibilità limitata. Arrivato poco prima della cima, dove si spalanca letteralmente il panorama sull'Alfeo e sul Lesima, mi fermo immediatamente a scattare una panoramica: credetemi, ne vale veramente la pena, è uno dei panorami più affascinanti dell'appennino.

Mi sposto fino alla statua di San Giuseppe, che vedo già in lontananza ricoperta di neve e quando la aggiro, portandomi sul lato frontale, quasi mi metto a ridere guardando la scultura di ghiaccio che il vento ha modellato sul santo. Dico "quasi" perché con questo terribile vento gelido mi si bloccano istantaneamente le mani, il naso, le orecchie, la bocca e buona parte delle altre funzioni vitali...! E' davvero insopportabile, cerco velocemente i guanti nello zaino ma con le mani così congelate non riesco nemmeno a riconoscerli al tatto. Per fortuna li trovo e riesco a indossarli, ma guanti o no, qui sopra non si può restare a lungo. Fotografo il rifugio del Chiappo quasi nascosto dalla neve (a proposito: dove sono i quattro che mi hanno preceduto? sono scomparsi!) e cambio l'obiettivo della reflex per zoomare sulla palla del Lesima - dove si intravedono degli escursionisti - sui ripidi costoni dell'Alfeo, sulle montagne della val d'Aveto alle sue spalle, sul Cavalmurone, sul Legnà, sul Carmo, sull'Antola e sul Penice. Non c'è che dire, i panorami sono stupendi e dopo gli ultimi zoom sui paesi di Vesimo, Belnome e Capanne di Cosola lascio in fretta e furia la cima del Chiappo perché oggi, qui, proprio non si può stare: sembra quasi un'altra giornata rispetto a quando stavo salendo alla volta di Bocche di Crenna.Mi fermo pochi metri sotto alla cima del Chiappo per scattare qualche immagine ravvicinata dei paesi della val Curone - Caldirola, Bruggi, Montecapraro e Fabbrica - ma anche per immortalare da più vicino il Santuario della Guardia di Genova - dietro al quale, purtroppo, il mare oggi non si vede, nascosto dalla foschia - il Tobbio, appena appena spruzzato di neve, e addirittura il ponte sul fiume Borbera che conduce a Carrega Ligure. Mentre me ne sto andando, arrivano altri due escursionisti da Capanne di Cosola, con cui scambio un rapido cenno di saluto prima di buttarmi a capofitto nella discesa dal monte.

Giunto ai piedi del Prenardo, dove incontro quattro scialpinisti intenti ad affrontare la salita, mi fermo per cambiare nuovamente obiettivo della macchina fotografica e sento alle mie spalle una voce. "Ma io ti conosco! Come ti chiami?" "Cristiano!" "Di cognome?" "Zanardi" "Belin lo vedi che sei te..io ti leggo sempre, lo stavo raccontando ai miei compagni che c'è un ragazzo che scrive delle sue montagne da queste parti. Ti ho riconosciuto dalla barba! Devo farti i complimenti perché stai facendo un gran lavoro!" "Grazie!" mi schermisco "Ma voi da dove arrivate?" "Da Rapallo noi, lui invece da Genova. Tu sei di Caldirola?". "Si si, di Caldirola!".

Il signore con cui ho parlato, assieme ai suoi tre compagni di cammino, formava il gruppetto che mi ha preceduto nella salita al Chiappo: mi raccontano delle loro escursioni, indubbiamente sono degli appassionati di un certo livello, a giudicare dagli itinerari che mi raccontano di

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affrontare, nelle più svariate zone alpine ed appenniniche. Mi ha fatto davvero piacere sapere che mi leggono. Mentre scendiamo il signore mi si avvicina e mi indica una cima in lontananza. "Lo vedi quello? E' il monte delle Figne" "Ah si? Ne avevo sempre sentito parlare, ma non avevo idea di dove fosse". Scendiamo insieme fino a Bocche di Crenna, scambiando quattro chiacchiere, poi loro si dirigono verso l'Ebro per affrontarne la salita, mentre io scenderò alla volta delle stalle di Salogni. Hanno lasciato l'auto a Pobbio, in val Borbera e da lì sono saliti al Cosfrone e poi all'Ebro, prima di scendere al valico e risalire al Chiappo. "E' stato un piacere" mi congedo "speriamo di rivederci presto da queste parti!" "Presto non lo so..magari qualche domenica!" dice il signore con la barba, salutandomi con la mano." Li lascio e già mi sento che questa giornata abbia un sapore diverso. Ma forse è il sapore della fame, visto che il mio stomaco brontola insistentemente. Apro lo zaino, pesco una barretta di cioccolato e due biscotti e mi fermo a fare rifornimento di energie. Con la coda dell'occhio, vedo muoversi qualcosa davanti a me: un topolino di campagna mi si avvicina sulla neve e dopo qualche tentennamento mi si piazza davanti immobile, con il naso in su a fissarmi aspettando che qualche briciola arrivi lì in basso. Non ce l'ha lontamente in testa di andarsene, si fa fotografare per bene e poi attende una ricompensa che arriva puntuale sotto forma di briciole dei miei biscotti. Strani incontri che si fanno in montagna!

Lascio il topino e riprendo il cammino, ora tutto in discesa e nettamente più agevole. Incontro due ragazzi con le ciaspole poco prima delle stalle e sinceramente non riesco ad invidiarli, avendo già sufficientemente provato al mattino cosa significasse fare quella salita. Ora i miei muscoli non ne vogliono sapere di sciogliersi, anzi a tratti sembra quasi che mi stiano venendo i crampi. Sei in forma, direte... ma d'altronde, dopo un inverno di pioggia passato tra letto e divano, cosa vuoi fare.Superate le stalle, ne approfitto per rimettere lo zoom solo per fotografare da vicino il panorama con la Rocca di Oramala in primo piano e l'imponente Castello di Balduino di Montalto Pavese alle sue spalle, poi proseguo in scioltezza su di una neve che, finalmente, è diventata quasi una superficie ideale su cui camminare, a differenza dell'andata. Incontro ancora diversi ragazzi con e senza ciaspole che si stanno avventurando nella salita da me percorsa in mattinata, mentre io, ormai in preda all'acido lattico, scendo come un automa verso la strada provinciale, dove quando arrivo trovo un gran trambusto di macchine: per una volta posso dire di aver giocato d'anticipo! Riesco a malapena a piegarmi per togliere le ciaspole, poi mi irrigidisco di colpo.

Sarà un recupero lungo e faticoso, ma ragazzi...posso garantirvi che là sopra, sono felice di esserci stato!!

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Altro che ultima neve! Una settimana di intense nevicate ha di fatto "riaperto" la stagione invernale quando sembrava che ormai il freddo non avesse più nulla da dire, ed ora eccoci qui a parlare di una nuova ciaspolata, forse la migliore di questo 2014, quasi come lo era stata la ciaspolata al Monte Carmo nel 2013.

Stefano è un mio collega, amante della montagna, che qualche volta riesco a trascinare sui sentieri dell'appennino: dopo avergli dato un parere più che positivo quando mi aveva interpellato sull'acquisto di un paio di ciaspole, ora ho trovato il modo di fargliele inaugurare, accompagnando lui e la sua famiglia - moglie e figlio - su di una montagna particolarmente ricca di fascino: l'Antola. Mi rendo conto che spesso non sia semplice per chi viene dalla città, arrivare in auto fino al punto di partenza di molti itinerari appenninici, perché non è raro avere mete se volete più invitanti e di richiamo - pensiamo a quelle alpine - maggiormente a portata di mano. E' stata dura, ma questa volta sono riuscito a trovare una soluzione di compromesso, incontrandomi con i miei compagni di viaggio a San Sebastiano Curone per caricare tutti sulla macchina e raggiungere insieme il punto di partenza della nostra escursione, ossia il confine tra Piemonte e Liguria, poche centinaia di metri dopo le Capanne di Carrega e poche centinaia di metri prima di Casa del Romano. Da San Sebastiano ci abbiamo impiegato un'ora, attraverso le strette e tortuose stradine della val Borbera.

Alle dieci, tra due ali di neve ammucchiata dai trattori ai lati della stretta stradina, siamo finalmente arrivati al confine geografico tra le due regioni - e province - e abbiamo approfittato di uno dei pochi posti liberi che rimanevano accanto alla strada, mentre molte persone si stavano preparando a partire per l'escursione, indossando le ciaspole.

Ho scelto questo itinerario per diversi motivi: sicuramente per il fatto che fosse molto panoramico e perché i dislivelli non fossero così eccessivi come quelli di un "Caldirola-Monte Ebro", ma un ruolo fondamentale lo ha giocato il fatto che fosse un percorso molto battuto.

Per prepararsi adeguatamente all'escursione ci vogliono una ventina di minuti: scarponi, ghette, ciaspole, zaino, macchina fotografica e qualche dubbio sull'abbigliamento perché il sole è molto

La neve sull’Antola

Partenza: Casa del Romano, confine regionale (1380 mt. circa) Arrivo: Monte Antola (mt. 1593) Passaggi intermedi: Pian dell'Aia, Monte Pio di Brigneto, Monte Tre Croci, Passo Tre Croci, Sella est M.te Antola Lunghezza del percorso: circa 14 km tra andata e ritorno Tempo di percorrenza: poco meno di 6 h., tra andata e ritorno Segnavia: bianco-rosso 200

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caldo ma un fastidioso vento abbassa la temperatura non di poco. Quando siamo tutti pronti scavalchiamo un alto mucchio di neve e imbocchiamo il sentiero numero 200, camminando su di uno strato bianco così alto che la punta dei pali di legno e il filo per il bestiame spuntano sotto alle nostre ciaspole. E' particolarmente piacevole la parte iniziale del percorso e dopo le prime belle vedute sull'alta val Borbera, con la piramide del Monte Carmo ai piedi del quale si intravedono le case di Carrega e Fontanachiusa, raggiungiamo in falsopiano il cartello che ci indica l'arrivo a Pian dell'Aia (1443 mt.), dove si incrocia il sentiero che proviene da Casa del Romano e dal vicino osservatorio astronomico. Voltandosi, è possibile ammirare uno splendido panorama che spazia dal Monte Carmo al Monte Alfeo, con la vetta del Monte Lesima che compare tra le altre due, sotto a un cielo con una strana tonalità di colore rosa, dovuta forse all'incontro tra il sole, la neve e la foschia.

Qui il sentiero battuto, quello tracciato da chi ci ha preceduto, non segue il percorso originario ma sale alla volta del Monte Pio di Brigneto, dove ad accoglierci c'è un vento così forte e freddo che quasi si fa fatica a rimanere in piedi. In compenso, da qui il panorama è illimitato su entrambi i lati, almeno fino a che non si entra in un piccolo boschetto che conduce al punto in cui, normalmente si giunge percorrendo il normale sentiero. La cima dell'Antola compare davanti a noi in lontananza, mentre poco più avanti siamo costretti a fermarci per un veloce cambio-ciaspole e veniamo superati da altri escursionisti che erano partiti poco dopo di noi: sul sentiero c'è un bel via vai di gente.

Il vento non dà tregua, ma appena cala un attimo, il sole è così intenso che viene voglia di togliersi la giacca. Rimaniamo per un po' indecisi, poi decidiamo di rimanere in maglia perché il caldo si fa insopportabile e il vento arriverà sempre di meno a rinfrescarci, nonostante si veda in lontananza la neve alzarsi sospinta da folate di vento sulla cima dell'Antola.

Superato un cancello per il bestiame, giungiamo alla piccola croce che si trova sulla destra del sentiero a strapiombo sulla val Borbera, oggi sommersa di neve, dietro alla quale è uno spettacolo vedere il Legnà e il Carmo illuminati dal sole. La camminata prosegue in leggera salita, con piacevoli viste sull'alta val Trebbia e abbandona di colpo il sentiero che normalmente si segue per giungere - dopo una salita leggermente più ripida - sulla vetta del Monte Tre Croci (mt. 1559), dove anch'io non ero mai stato, perché avevo sempre aggirato questa cima.

Il panorama dal Monte Tre Croci è letteralmente meraviglioso, specialmente in una giornata come quella di oggi. Alla nostra destra, in direzione nord-ovest, il crinale che - passando attraverso i monti Propiano e Carmetto, conduce a Vegni e, sullo sfondo, dietro a un'intensa linea nera di foschia, la cima del Monte Rosa. A nord-est, il lungo crinale dal Carmo al Porreio, passando per Legnà e Cavalmurone, con il Roncasso e il Cosfrone alle loro spalle. Sul lato sud, si iniziano ad intravedere le acque del lago del Brugneto, mentre esattamente di fronte a noi ecco svettare la cima dell'Antola, con la croce che inizia ad intravedersi illuminata dal sole. Poco prima di affrontare la discesa alla volta del Passo Tre Croci, si possono vedere anche i paesi del versante "abitato" della valle dei Campassi: Croso, Boglianca e Campassi.

La discesa è insidiosa, in alcuni punti leggermente scivolosa, ma piuttosto velocemente permette di giungere in corrispondenza di Passo Tre Croci (mt. 1494), dove si incontrano il bivio per il sentiero 240 che conduce a Vegni ed il bivio per Caprile. Ci fermiamo dinnanzi alle tre croci in legno, in parte sommerse dalla neve, per una piccola sosta rifocillante: un pezzo di cioccolata, un sorso d'acqua, poi siamo pronti a ripartire per la seconda parte dell'escursione, quella che dovrebbe - in teoria - essere più breve.

Un tratto pianeggiante con viste sulla valle dei Campassi, precede l'arrivo in un punto panoramico da cui si può godere di un bello scorcio sul lago del Brugneto, poi rientriamo in un

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bosco per una leggera salitella, che precede un tratto in discesa, quello che conduce al secondo bivio per Caprile, ai piedi della prima delle due salite che ci separano dalla cima dell'Antola. Imbocchiamo la salita all'interno del boschetto, per poi uscirne dopo poche decine di metri ed ammirare uno splendido panorama sulle montagne della val d'Aveto ricoperte di neve. Continuiamo la salita e ci fermiamo ogni tanto a prendere fiato, giusto in tempo per vedere, alle nostre spalle, che il radar del Monte Lesima ora spunta dietro alla piramide del Carmo sul lato opposto, neanche stesse giocando a nascondino. Quando iniziamo ad intravedere la croce bianca sulla vetta dell'Antola, mancano pochi metri e giungiamo finalmente alla sella est del monte (mt. 1553), dove uno spettacolo splendido ci attende. La grande quantità di neve caduta e il vento hanno disegnato un ambiente meravigliosamente unico, con cavalle di neve così alte da fare quasi paura, quando passandoci a fianco ti rendi conto che sono alte il doppio di te. Certo, un po' è la particolare conformazione della sella est dell'Antola, con questa specie di cratere al centro, a farti sembrare di essere un nano tra i giganti, ma di neve ammucchiata qui ce n'è eccome. La neve sembra toccare il cielo e due piccole nuvolette sembrano davvero a un passo. Ci scattiamo qualche foto, poi iniziamo l'avvicinamento alla cima dell'Antola, dove nel frattempo il vento pare essersi calmato.

Salendo, è sempre bello voltarsi alle spalle e ammirare i rami del lago del Brugneto che compaiono poco alla volta, mentre ai piedi dell'Antola il vecchio rifugio Musante e la chiesetta di San Pietro sono sommersi nella neve tanto da sembrare parte di un paesaggio fiabesco. Sul lato della valle dei Campassi, il sole bacia i ruderi di Reneuzzi e Ferrazza, mentre Casoni di Vegni rimane nascosto dietro a un versante del Monte Carmetto. Completiamo la salita e, giunti in cima, ai piedi della croce, mentre i miei compagni di viaggio si accampano ai piedi della piramide partigiana di vetta, io ne approfitto per una sessione fotografica, intercambiando gli obiettivi che ho portato con me. Ecco allora, al termine delle consuete foto panoramiche, uno zoom sulla borgata abbandonata di Reneuzzi - della quale, con gli alberi spogli si possono bene intravedere strade e stradine, oltre a tutte le case, dello stesso colore della terra della montagna su cui sorgono - e sul vicino paese fantasma di Ferrazza, ma anche sulle acque del lago del Brugneto con i paesini di Caffarena e Fontanasse, sul radar del Lesima, sulle antenne del Giarolo, sul valico di San Fermo alle spalle del quale si intravedono le case di Roccaforte Ligure, sul minuscolo borgo ligure di Tonno, in alta Val Brevenna. Guardando in direzione del mare, ecco le antenne del Monte Fasce e, alle loro spalle, una nave con tanto di scia alle spalle, che si può solo intuire essere in acqua e non in cielo, immersa nella foschia. Più ad ovest, lo zoom mi permette per la prima volta di riuscire a fotografare una parte del porto di Genova, che non immaginavo si potesse vedere da qui.

I miei compagni di viaggio stanno parlando con un signore che nel frattempo è arrivato sulla vetta. Ne approfittiamo per farci scattare una foto tutti insieme davanti alla piramide, con le cime della val d'Aveto a farci da sfondo, poi seduti al sole del primo pomeriggio, pranziamo con un panino e un po' di cioccolata, mentre il signor Mario - un anziano signore ancora in splendida forma, che arriva da Albisola - rimane con noi a parlare, regalandoci in breve uno spaccato del suo carattere, che definire polemico è a dir poco riduttivo. Quando Mario se ne va, scatto ancora qualche foto, poi scendiamo alla volta dell'oratorio di San Pietro, mentre il cielo, in direzione del mare, sta già cambiando colore e inizia ad essere pervaso da una luce tipicamente pomeridiana. Raggiungiamo la chiesetta, circondata dalla neve e ammiriamo il lago del Brugneto davanti alla staccionata che costeggia il sentiero, poi ci rimettiamo in cammino alla volta della sella est dell'Antola, da cui ricominceremo la nostra discesa alla volta dell'auto.

Lungo la discesa, incontreremo altri escursionisti con i quali condivideremo parte del percorso, superandoci in continuazione senza mai parlarci se non un veloce saluto. Giunti ai piedi della discesa, nei pressi del bivio per Caprile, ecco una delle - poche - salite del ritorno, poi

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nuovamente una piccola discesa ed in piano fino al Passo Tre Croci, che battezzo "a dieci minuti" e che invece raggiungeremo solo dopo circa mezz'ora, regalando uno dei miei consueti pronostici sbagliati ai miei compagni di cammino. Un'altra veloce sosta al Passo Tre Croci per un sorso d'acqua e per aspettare gli ultimi ritardatari, ammirando lo splendido contrasto tra il blu cobalto del cielo e il tronco degli alberi illuminato dal sole, poi un'altra salita, alla volta della cima del Monte Tre Croci, dove il panorama, con la luce del pomeriggio, è se possibile ancora più bello di quello che abbiamo potuto ammirare questa mattina. Voltandosi sul lato della val Trebbia, i rami del lago del Brugneto stanno per scomparire, mentre sotto di noi i piccoli borghi di Propata e di Caprile si lasciano ammirare senza più la foschia del mattino a farne da contorno.

Il gruppo si sparpaglia e percorro buona parte del ritorno in solitaria, da questo punto in poi. Spesso mi volto per vedere chi c'è dietro di me e rimango abbagliato da un forte sole, che illumina tutto il panorama attorno a me di una luce stranissima. Il cielo inizia a colorarsi di un azzurro sempre più tenue, fino a scomparire dietro alle montagne e a inoltrare i suoi ultimi raggi sulla val Trebbia e sulla val Borbera, così mi attardo per scattare le ultime splendide immagini di questa giornata che volge al termine, venendo superato da tutti e rimanendo a chiudere il gruppo.

Le ultime immagini non meritano commento alcuno, rappresentano alla perfezione quello per cui secondo me vale la pena faticare percorrendo lunghi itinerari, ovvero poter assistere a spettacoli del genere. Non riusciamo ad assistere al tramonto perché lo anticipiamo di una quindicina di minuti e siamo troppo stanchi per fermarci ancora, visto che avremo molta strada ancora da fare, però la sera sta ormai sopraggiungendo e i colori che illuminano il paesaggio hanno ormai un diverso calore, una diversa luce, più soffusa, meno intensa, ma allo stesso tempo splendidamente viva.

Arrivo all'imbocco del sentiero quando i miei compagni già si sono tolti le ciaspole e mi volto ancora per un ultimo scatto alla luce del sole che filtra tra i tronchi degli alberi. Mi abbasso a fatica per togliere le ciaspole e le porto a mano fino alla macchina, dove ci rimettiamo in abiti civili e ci prepariamo al lungo rientro.

"Mi è proprio piaciuta questa ciaspolata" - dice Luca, il figlio di Stefano, undici anni, per la prima volta con le racchette da neve ai piedi e visibilmente stremato - "anzi, penso che sia stata la migliore della mia vita"!! Scoppiamo tutti a ridere, nonostante la stanchezza e il viso intorpidito dal sole di questa giornata quasi primaverile. Luca, in macchina, si siederà dietro e crollerà ben presto sulla spalla della mamma, svegliandosi solo poco prima di arrivare a San Sebastiano per il cambio macchina, alle 19, quando il buio ha ormai preso il sopravvento. Mi hanno detto che il giorno dopo, mentre sia io che Stefano e la moglie eravamo alle prese con il mal di gambe, Luca era quello più in forma di tutti. E' proprio vero che a volte l'entusiasmo può più di ogni altra cosa.

Ed è proprio vero che vorrei tanto tornare bambino.

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E' passato quasi un anno dalla mia prima visita a Camere Nuove, il borgo abbandonato della val Sisola ai piedi del Bric delle Camere. "C'è poco da vedere", mi avevano anticipato quelli che già ci erano stati prima di me e avevo potuto successivamente constatarlo con i miei occhi, descrivendolo nelle pagine del blog. C'è una cosa che però, un anno fa, non avevo ancora capito: che in un paese abbandonato non bisogna mai fermarsi alle prime impressioni, bisogna sempre cercare, cercare e cercare. Girare, muoversi, curiosare. Qualcosa di nascosto salta sempre fuori.

E' uscito, parlando con un amico di famiglia, il discorso dei paesi abbandonati e siamo finiti a parlare - tra l'altro - proprio di Camere Nuove.

"L'hai vista la chiesa?" mi dice.

"Chiesa??? Ma se ci sono solo due case!"

"Guarda bene...."

Mi è venuto subito il nervoso perché mi era sfuggita una cosa non da poco. Possibile che ci fosse la chiesa a Camere Nuove e che io non l'avessi vista?? Ho anche passato ore a pensare dove diavolo potesse essere questa chiesa, visto che Camere Nuove non mi sembrava potesse svilupparsi ulteriormente, oltre quelle poche case. Mah.

Ho deciso allora di tornarci, per cercare di persona, cambiando però itinerario: c'è infatti un altro sentiero che permette di raggiungere la borgata abbandonata, come avevo intuito dal segnavia bianco-rosso marchiato 266 che si trova proprio di fronte alla grande casa al centro del prato di Camere. Il sentiero 266, di cui però sul sito della provincia di Alessandria non si parla, parte da Sisola, il paese che sorge accanto all'omonimo torrente proprio dove le strade per Mongiardino e Roccaforte si separano, nei pressi del "Parco avventura".

Per risparmiare un po' di tempo, visto che avevo solo un pomeriggio - invernale, per di più - a disposizione, ho preferito non partire da Sisola, ma raggiungere in auto Montemanno, una minuscola frazione posta su di un'altura tra i torrenti Torbora e Sisola, non distante da Borassi e poco oltre il villaggio di Campo dei Re, dove transita il sentiero 266.

Una sorpresa …. Inaspettata.

Raggiungibile da: Montemanno Lunghezza del percorso: circa 7 km (andata e ritorno) Tempo di percorrenza: circa 2 h. 30 min. (andata e ritorno) Segnavia: bianco-rosso 266

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A Montemanno si arriva dopo una decina di minuti di curve e strada stretta e l'ingresso in paese è preannunciato da una bella chiesa, il Santuario di Nostra Signora dell'Assunta, che si trova in posizione isolata rispetto al resto del villaggio. Passo accanto alla chiesa e parcheggio l'auto poco distante, in corrispondenza delle prime case della frazione, mentre due anziani signori passando accanto a me su di un trattore e mi fanno un cenno di saluto con il capo. Indosso gli scarponi e lo zaino e, dopo aver scattato qualche immagine di Roccaforte Ligure, proprio di fronte a me, scendo a valle di pochi metri per raggiungere l'imbocco del sentiero 266, che sale tra le case di Montemanno regalandomi belle viste su Vergagni e sulla strada provinciale che sale in direzione di Mongiardino.

Camminando all'interno del paese, mi accorgo che le case sono quasi tutte chiuse e sembra proprio non esserci nessuno. Arrivo ad un bivio e non trovando segnalazioni rimango indeciso sul da farsi: prendo la strada di sinistra, dove un cartello mi indica di fare attenzione per la presenza di una frana, inducendomi a tornare sui miei passi.

Una voce si leva dal balcone di una casa. "Cosa cerca lei"?

"Cerco il sentiero per Camere Nuove"

"Allora deve andare di là" indicandomi la direzione opposta.

Ringrazio la signora e prendo il sentiero che sale lasciandosi sulla sinistra il lavatoio. In pochi passi mi porto oltre le abitazioni di Montemanno e salgo dolcemente su di una mulattiera ben segnalata (ora sì) che passa accanto ad alcune montagne rocciose regalando belle viste sulla vallata di Roccaforte e Chiappella. La luce pomeridiana fa risaltare ancora di più il colore rossiccio delle foglie e nonostante un po' di foschia riesco ugualmente a distinguere in lontananza Rocchetta Ligure e Pagliaro. La mulattiera si sposta quindi sulla linea di crinale, regalando panorami anche sulla vallata opposta e, dopo essere transitata accanto alla carcassa di una vecchia auto (non chiedetemi cosa ci faccia lì), sale tra due ali di bosco e conduce ad un ampio spiazzo dove si incrociano diversi sentieri: eccomi arrivato al Bivio del Ferré (mt. 710). Dal bivio proseguo in direzione "ore 11" sul sentiero 266, comunque chiaramente segnalato e salgo in maniera più decisa, ma sempre piacevole, su di una mulattiera che regala viste su entrambi i lati della valle.

Giunto in prossimità di una curva della strada, abbandono la mulattiera e, seguendo le pitture bianco-rosse sui rami degli alberi, vado ad innestarmi su di un sentiero che procede verso sinistra, dapprima per alcune decine di metri in piano e, successivamente, in leggera discesa, con una vista privilegiata sulla vallata di Mongiardino Ligure. Al termine della discesa, il sentiero confluisce in un'altra mulattiera proveniente da valle e prosegue in falsopiano tagliando il versante della montagna. Da qui in poi, fatta eccezione per alcuni tratti di sentiero che sono franati a causa delle forti piogge, ma che tutto sommato si possono ancora affrontare, seppur con un po' di attenzione, si procede senza grandi dislivelli.

E' sufficiente alzare lo sguardo per vedere, tutto attorno, una infinita distesa di muretti a secco, quasi a formare dei terrazzamenti: un tempo, questa valle, deve essere stata sfruttata fino all'ultimo centimetro di terra, da quello che vedo. Quando i muretti stanno per terminare, transito nelle vicinanze di un piccolo rio che scende all'interno della roccia delle montagne e, successivamente, scendo leggermente di quota per arrivare in una profonda gola che un tempo, probabilmente, ospitava un torrente, ora asciutto. Risalgo sul versante opposto della montagna, dove iniziano a comparire i primi, enormi, esemplari di castagni e supero un albero caduto per poi cominciare a vedere, al termine di una breve salita, il profilo di una casa. Ci siamo.

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Il sentiero sbuca nel prato davanti alla grande casa di Camere Nuove, quella con la facciata in gran parte ostruita dalla vegetazione. Premesso che non avevo mai notato che da questo angolino potesse sbucare un sentiero, ma vabé, non è questo che oggi importa. La grande casa è ora meglio visibile nei particolari: la vegetazione che la avvolgeva per intero è, in questa stagione, più rada e permette di vedere parte del balcone, chiuso con una ringhiera in ferro ormai arrugginita, ma anche buona parte dei muri ormai sventrati. Guardando all'interno si riesce ad intravedere ancora qualcosa, ma di avvicinarsi non ne vale nemmeno la pena, visto quanto è pericolante questo edificio. Mi limito ad osservarlo da qui davanti, baciato dal sole pomeridiano.

Alle mie spalle, accanto alla stradina che riporta sulla mulattiera che unisce Costa Salata a Camere Vecchie, l'altra casa di Camere Nuove ancora in discrete condizioni. Anche lei resiste, ancora in piedi, nonostante le intemperie e la vegetazione che si fa sempre più pressante, ma fortunatamente, in questa stagione, concede un po' di respiro. Il sole sembra nascondersi dietro alla sagoma della casa, comparendo e scomparendo a seconda dei miei movimenti e regalandomi sempre qualche brivido quando si nasconde. Brividi di freddo, ma anche brividi di abbandono.

Bisogna decidere che fare: queste due case sono quelle che avevo visto un anno fa. Poco più in là, all'interno di una giungla di rovi, spine ed erbacce, i ruderi di almeno altre due abitazioni, che però sono ormai crollate - lo erano già nel 2013 - e quindi non hanno nulla di interessante da offrire. Devo mettermi alla ricerca della chiesa.

Non vorrei che fosse nascosta tra i rovi dietro alla grande casa, ma decido di tenermi questa soluzione come ultima spiaggia. Vorrei evitare di andare là in mezzo, a riempirmi di spine e rischiando di prendermi qualche mattone in testa.

La soluzione più logica, mi sembra quella di proseguire sul sentiero 266, che continua in leggera discesa in direzione di Costa Salata e sembra attraversare una specie di piccolo rio. Lo percorro con la curiosità negli occhi, come se stessi affrontando una specie di caccia al tesoro e dopo pochi metri sul sentiero, quando mi volto in direzione della casa che mi sono lasciato alle spalle, rimango senza fiato.

Da qui, la grande casa si vede di profilo. Alle sue spalle, un intero paese.

Possibile che non me ne fossi accorto la scorsa volta??

Possibilissimo, perché dal prato davanti alla grande casa, è impossibile guardare oltre.

Da qui, sul fianco del paese, si ha una visione quasi spettrale dei tetti delle case e dei loro muri che spuntano sotto a un letto di rovi e spine. Riesco a capire che si tratta di ruderi semplicemente per il fatto che c'è il sole ad illuminarli, perché altrimenti si confonderebbero con il bosco. Riesco a capire che quindi, Camere Nuove, era costruito su di una specie di cocuzzolo, che sul lato opposto cade a strapiombo sulla valle Sisola e che termina, dall'altro lato, sul prato dove si trova la casa più grande e le altre, costruite in posizione più isolata rispetto al resto del paese.

Così, ad occhio, guardando in lontananza, distinguo almeno altre 5-6 case. Di alcune si vedono i muri ancora in piedi, di altre il tetto. Altre sono crollate, ma si intravedono ancora dei pilastri in sasso. Cavolo, Camere Nuove era un vero e proprio paesino, non solo due case come ho sempre pensato.

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"Cercavo una chiesa e ho trovato un intero paese", mi verrebbe da dire, mentre continuo a voltarmi alle spalle, camminando sul sentiero 266. Eppure, qui della chiesa nemmeno l'ombra. Il sentiero sembra continuare in un ampio prato, in parte coperto dalla vegetazione, mentre dietro di me, il paese sembra quasi essere scomparso. Inizio così a pensare al piano B, quello che mi ero tenuto come ultima alternativa, cioè tornare in mezzo a quei rovi a cercare la chiesa.

Proprio quando sto per andarmene, tornando sui miei passi, mi sembra di vedere qualcosa in mezzo ai rovi. Faccio ancora qualche passo in avanti: sembrano esserci dei muri. Ancora pochi passi, ed ecco spuntare un pezzo di campanile.

Quando ormai avevo smesso di crederci, ho trovato la chiesa!

Si trova in posizione totalmente isolata rispetto al resto del paese: è come se si trovasse alle spalle di un grande prato che si affaccia sulle case. Un tempo, quando probabilmente i terreni erano puliti, deve essere stato splendido ammirare il piccolo oratorio dal paese. Ora invece si distingue a fatica, anzi proprio non si vede perché ho dovuto venire fino a qui davanti per riconoscerlo.

Passo velocemente accanto all'oratorio e mi fermo davanti alla sua facciata: è di colore scuro, totalmente imbevuta dall'umidità, ma è ancora possibile vedere, sullo sfondo, un colore rosa-rossiccio che probabilmente era il suo colore originario. E' sormontata da un piccolo campanile a vela, in pietra, privo delle campane che - come raccontatomi dal conoscente che mi aveva informato della presenza della chiesa - sono state portate via.

Il limite superiore della facciata è irregolare, diverso da tutte le altre piccole chiesette viste fino ad ora. Una finestra a mezzaluna, preceduta da una grata ma con i vetri ormai quasi totalmente rotti, domina dall'alto il portone verde, accanto al quale si trovano due piccole finestre, una in legno e una con un'inferriata davanti. Voglio gustarmi la scoperta poco alla volta: prima di entrare, scatterò qualche foto della facciata.

Quando mi avvicino all'ingresso, vedo che il portone è legato con un filo di ferro. Lo tolgo e spingo lentamente la porta: c'è sempre un po' di tensione in questi momenti, perché non sai mai cosa potresti trovare dall'altra parte.

In questo caso, la tensione lascia rapidamente spazio alla meraviglia, perché quando le porte si aprono, all'interno trovo praticamente tutto quello che non mi aspettavo di vedere: un oratorio conservato ancora più che discretamente.

Davanti a me, un altare identico a quello dell'oratorio di San Bernardo di Reneuzzi, con inserti dello stesso rosso-rosa della facciata della chiesa, al centro del quale spicca una croce in legno. Alzo subito gli occhi e rimango meravigliato dal pregio delle decorazioni del soffitto, interamente decorato con dipinti di scene di vita religiosa - un dipinto sembra ritrarre Giuseppe e Maria con il Bambino - che non mi aspettavo di trovare in un edificio del genere, per giunta abbandonato. Solo in alcuni punti le infiltrazioni di umidità hanno rovinato i dipinti, che sono comunque ancora conservati più che degnamente.

A terra, sul pavimento, alcuni pezzi di calcinacci caduti dal soffitto, mentre le pareti laterali sono anch'esse pitturate e si conservano in buono stato. Alle spalle dell'altare, un'abside in pietra a vista, con al centro un incavo atto a ospitare una statua religiosa e, sui lati, due finestrelle per fare entrare un po' di luce. Non vi nego che l'interno dell'oratorio, illuminato dalla luce del sole filtrante dalle finestrelle, sia particolarmente suggestivo.

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Entro e scatto alcune immagini: il soffitto sembra reggere e a prima vista non noto pericoli di crollo imminente. Sono rimasto profondamente colpito dalla meraviglia di questo oratorio: chi poteva mai pensare che a Camere Nuove, oltre a quelle due-tre case che avevo già visto un anno fa, potesse esserci anche una chiesetta così caratteristica (e così ben conservata) oltre a un vero e proprio "paese nel paese", alle spalle della grande casa, arroccato su di un cocuzzolo?

Mentre richiudo il portone dell'oratorio, lancio un ultimo sguardo all'interno, sperando di poterlo ritrovare ancora in queste condizioni quando ci ritornerò. Avvicino le porte e mi accorgo che decine di nomi sono incisi sul legno: tutte persone che sono passate di qui, alcune oltre trent'anni fa, le ultime nel 2011. Fermo la porta con il fil di ferro e mi sposto sul lato della chiesa, per scattare alcune foto dall'esterno attraverso una delle due finestrelle sul retro. L'oratorio riesce ad essere suggestivo anche da qui, con la porta chiusa e poca luce che illumina a malapena la croce in legno.

Mi allontano tornando nel grande prato e cammino in direzione del paese, che vedo arroccato sul cocuzzolo. Chissà là in mezzo, sotto a quei rovi, quanti altri tesori nascosti potrebbero esserci. Ma è una giungla, diventa difficile anche solo avvicinarsi. Per oggi sono a posto così: ho visto la chiesa, ho scoperto il resto del paese. Già tante emozioni per un pomeriggio solo.

Ripercorrendo il sentiero alla volta di Montemanno, il tempo sembra scorrere più veloce. Ho voglia di arrivare a casa e vuotare la memoria della macchina fotografica, curioso di rivedere le immagini che ho scattato. Il sole se ne va dietro alle montagne, tornando a farsi vedere solo quando sono quasi arrivato e illuminando di una strana luce rossastra l'intera val Sisola.

Arrivo a Montemanno e quando sono davanti al lavatoio, ecco la signora con cui avevo parlato all'andata. Mi chiede se ho trovato quello che cercavo. Le dico di sì e restiamo a scambiare qualche parola. Mi dice che da quando è andata in pensione si è trasferita qui ed è l'unica abitante "fissa" di Montemanno, assieme al marito e a due cani, uno dei quali vecchio e malandato. Ma sta bene così, mi dice e non fatico a crederle. Io stesso farei volentieri un bagno di silenzio e tranquillità ben più spesso di quanto in realtà riesca. La saluto e proseguo verso l'auto, mentre il sole se ne è ormai definitivamente andato. Il rumore di una macchina mi fa voltare: è il marito della signora, che è appena arrivato a casa. Montemanno ora è al completo: la serata può iniziare. E io me ne torno verso casa con il cuore pieno di emozioni.

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Il crinale che separa la val Curone dalla valle Staffora, il Piemonte dalla Lombardia, è una

manna per gli appassionati di panorami infiniti. La vista che si ha da qui sopra è sicuramente

paragonabile a quella dai monti Ebro e Chiappo e se pecca leggermente per quello che riguarda la vista sul mare, nascosto proprio dalle due vette che ho citato, regala quantomeno una vista

illimitata sulla pianura lombardo-piemontese e sull’appennino piacentino.

Uno dei tanti modi per raggiungere questo splendido crinale è salire da Bruggi, località dell’alta

val Curone a oltre 1000 metri di altitudine, ai piedi del Monte Chiappo. Risalita la val Curone

fino alla sede municipale di Garadassi, si prosegue sulla SP100 fino al bivio per Caldirola, dove

la si abbandona a favore della SP113 per Montecapraro, Salogni e Bruggi. Arrivati a Bruggi,

oltrepassato il ponte sul torrente Curone che proprio da queste montagne nasce, si svolta

immediatamente a sinistra, su di una stradina che costeggia il paese e la si segue fino alla sua

conclusione, in una caratteristica piazzetta posta proprio in cima a Bruggi.

L’itinerario che oggi abbiamo deciso di seguire è quasi interamente percorribile anche in auto

(jeep, 4x4) ma ovviamente, noi prediligiamo fare del sano movimento e così, lasciata l’auto e

indossati zaino e scarponi, scattiamo una foto ad inizio percorso e ci incamminiamo sulla strada

che procede in salita sulla destra. La strada è inizialmente ancora asfaltata e conduce nei pressi di

alcune tra le ultime case del paese, dalle quali si può ammirare un meraviglioso panorama della

chiesa di San Rocco, che si trova a fondo paese, sul lato del torrente, quasi incastrata tra le

montagne.

Terminato l’asfalto, oltrepassiamo un cartello con il nome del paese e la strada diventa una bella

carrareccia che inizia a salire transitando accanto al “Colle di Marziano” con belle viste su

Caldirola e sul Monte Giarolo. Numerosi tornanti determinano continui cambi di direzione della

strada, che procede ora verso la testata della valle - dove si possono ammirare il Monte Prenardo

e, a tratti, il Monte Chiappo - ora verso il fondovalle, in direzione del Monte Carmo e sale

lentamente di quota, sul versante esattamente opposto a quello del Monte Ebro che ospita le

stalle di Salogni.

Il sole picchia, ma l’aria frizzante di primavera, unita alla non eccessiva pendenza della sterrata

rende l’escursione decisamente piacevole. Dopo circa quaranta minuti di cammino sulla

carrareccia che taglia innumerevoli boschi di faggio, si transita accanto ad una stalla, nei pressi

della quale scende un piccolo rio e lo si supera camminando in direzione del Monte Carmo, che

Panorami infiniti: da Bruggi a Monte Bagnolo

Partenza: Bruggi (mt.

1023)

Arrivo: Monte

Bagnolo (mt. 1547)

Tappe intermedie: Colle

della Seppa (mt. 1485)

Lunghezza del

percorso: circa 10 km

(andata e ritorno)

Tempo di

percorrenza: intorno alle 3

ore (andata e ritorno)

Segnavia: nessuno ma

carrareccia ben evidente;

per un tratto sul crinale,

110 bianco-rosso

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ormai è accanto a noi. Un brusco tornante in salita ci fa riprendere la direzione del Monte

Chiappo e ci fermiamo a contemplare lo splendido panorama: l’intero crinale dal Monte Giarolo

fino al Monte Ebro è visibile di fronte a noi, fatta eccezione per un piccolo tratto di crinale del

Cosfrone e Caldirola è esattamente ai piedi delle antenne e della statua del Redentore. Alle spalle

del Monte Carmo, invece, oltre una deliziosa selletta occupata da una pineta, svetta il massiccio

innevato del Monte Rosa, accanto alla piramide del Cervino: una meraviglia.

Già da qui, il panorama è eccezionale, perché oltre il Carmo inizia ad intravedersi la pianura, ma

il massimo si raggiunge poco dopo, quando arrivati nei pressi del valico del Colle della Seppa

(mt. 1485), si abbandona la sterrata non segnalata che scende in valle Staffora per dirigersi, sulla

linea di crinale, verso il Monte Bogleglio attraverso il sentiero 110. A mano a mano che

prendiamo quota sullo spartiacque tra Piemonte e Lombardia, il panorama che si apre davanti ai

nostri occhi è sempre più illimitato. Sul lato lombardo, la vista spazia dal Monte Penice,

riconoscibile per via delle sue antenne, alla Pietra Parcellara, a Cima Colletta, ai monti Terme,

Tartago e Lesima, per chiudere con la piramide del Monte Alfeo. Alle loro spalle, l’appennino

ligure-piacentino, con le cime più alte della val d’Aveto, il Bue e il Maggiorasca. Sul lato

piemontese, invece, oltre al crinale che sovrasta Caldirola, un’intera vista della val Curone, oltre

la quale il paesaggio lascia spazio alla pianura, fino a sbattere incontro alla catena delle alpi.

Superata un’antenna bianca e rossa posizionata proprio sul crinale, il sentiero spiana e procede

sul lato della valle Staffora. Il sentiero numero 110 devia quindi sulla sinistra in direzione del

Monte Carmo, ma noi proseguiamo diritto, seguendo la linea di crinale e raggiungiamo, dopo

pochi minuti, il Rifugio Laguione, un piccolo bivacco circondato da una staccionata in legno e da

panche e tavoli, dove è possibile trovare quantomeno riparo in caso di temporali e riscaldarsi con

la stufa che si trova all’interno. Davanti al Rifugio, uno splendido panorama sul lato della val

Curone, dove ora ha fatto comparsa anche l’abitato di Forotondo, che si trova esattamente sotto

di noi: la vista spazia addirittura fino oltre la cittadina di Varzi, che si trova alle spalle del poco

distante Monte Bogleglio.

In questa località, nota come "U Laguion", nel 1928 Paolo Toso di Forotondo costruì l'Albergo

"Belvedere", trasportando fin quassù il materiale con i buoi: l'albergo divenne, negli anni della

Resistenza, il rifugio di un gruppo di inglesi, che vennero scoperti dai fascisti, i quali diedero alle

fiamme il loro nascondiglio. E' proprio sui ruderi dell'albergo che oggi sorge il rifugio.

Dal Laguion, si sale su di una piccola selletta che apre la vista sulla valle Staffora e si raggiunge

dopo una decina di metri la vetta del Monte Bagnolo (mt. 1587), dove è posta, su di una grande

roccia, una statuetta di Sant’Anna ed un ricordo di Don Pietro Castellano, il giovane parroco del

vicino paese di Negruzzo che qui perse la vita a soli 37 anni, nel febbraio del 1924, nel bel

mezzo di una tormenta di neve, mentre stava tornando da Sarezzano, suo paese di origine.

Una foto sulla vetta del Bagnolo, poi è tempo di dedicarsi a qualche interessante zoom sui paesi

e sulle montagne circostanti: ecco quindi la cima del Lesima, con la sua palla radar, la cresta

rocciosa della Pietra Parcellara illuminata dal sole, accanto alle antenne del Penice, ma anche i

paesi di Pregola, Barostro e Cencerate che fa capolino dietro ad un versante della montagna.

Negruzzo è proprio qui sotto, sembra vicinissimo, ma in realtà ci separa ancora un bel po' di

strada.

Passano alcune jeep, che disturbano però solo in parte la nostra quiete. La sola vista da qui sopra

è sufficiente a scacciare tutte le preoccupazioni perché la montagna, si sa, è prima di tutto una

medicina contro lo stress. Con questo cielo blu e queste soffici nuvole bianche, poi, si respira

anche un anticipo di estate ed è davvero piacevole rimanere qui a contemplare l'infinito davanti a

noi.

Per il ritorno, seguiamo in scioltezza la stessa strada dell'andata: oggi non è tempo di

esperimenti, anche se presto verremo a provare il sentiero che scende dal Carmo verso il paese di

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Lunassi e quello che da Bruggi raggiunge Forotondo. Per ora il Carmo rimane là davanti, con il

suo tabellone bianco voltato a guardare in faccia Caldirola, dove riesco persino ad intravedere

casa mia. Una passeggiata tranquilla, quella del ritorno: le ultime foto nei pressi del Colle della

Seppa, dove riusciamo ancora ad intravedere Salogni - che per metà è illuminato dal sole e per

l'altra metà è coperto da una grossa nuvola bianca - e la Pietra Parcellara che cambia colore a

seconda della posizione del sole, che ne illumina le pareti di roccia. Ben presto scompare dalla

nostra vista anche il Rifugio del Chiappo, che si nasconde dietro ai versanti del Monte Garavé e

del Monte Rotondo.

Tranquilli, scendiamo a passo lento verso Bruggi, guardando gli splendidi colori primaverili che

ci circondano. La strada, così ampia e inghiaiata è un po' monotona, ma ci sono talmente tante

cose da vedere attorno che alla strada neanche ci facciamo caso. Dopo una lunga discesa, eccoci

finalmente in vista del costone roccioso del Monte Prenardo, accanto al quale comincia ad

intravedersi il Rifugio del Chiappo. Bruggi è proprio lì sotto, ancora illuminato da un bel sole.

Mi fermo a scambiare due parole con un signore che pulisce il giardino e che mi chiede dei

maggiociondoli, ma non se ne vedono (l'itinerario è dei primi di maggio, ndr), forse è ancora un

po' troppo presto.

Ma arriveranno, arriveranno. E daranno presto una nuova tonalità di colore a questo paesaggio

già di per sé straordinariamente variopinto.