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SAM SHERIDAN CUORE GUERRIERO Traduzione di GIOVANNI ZUCCA

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sam sheridan

cuore guerriero

Traduzione di Giovanni Zucca

redazione: Edistudio, Milano

i edizione 2011

© 2011 - ediZioni Piemme spa 20145 milano - Via Tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it

Titolo originale: A fighter’s heart © 2007 by sam sheridan

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La resPonsabiLiTà di combaTTere

Ibn Khaldun, l’immortale storico tunisino, sostiene che gli eventi spesso contraddicono l’idea universale alla quale si vorrebbe che si adeguassero, che le analogie sono imprecise e che l’esperienza è ingannevole.

a.J. Liebling, A Neutral Corner

Ogni talento deve rivelarsi nella lotta.

F. nietzsche, Omero sull’agonismo, 1872

Lo stadio samrong di bang Pli, a un’ora da bangkok, è un posto sudicio, tetro e dai soffitti alti, con pavimenti in cemento, file di sedie pieghevoli e una folla che si aggira caotica bevendo birra singha e fumando sigarette Krum Thip. È da poco finito un incontro e il ring è illuminato e vuoto. adesso tocca a me combattere, così do un’occhiata a Johann, un belga, basso, muscoloso e calvo, e dico: «ehi, che vinca o che perda, voglio farmi una birra non appena scendo dal ring». Lui sorride, senza esagerare, e annuisce. muovo il collo per scioglierlo, come un vero fighter e mi infilo fra le corde rosse. indosso una tenuta realizzata per i thai che combattono nella categoria fino a 60 chili che mi copre a malapena le cosce lubrificate.

il mio avversario, coperto di tatuaggi, ignora la folla vociante e io ignoro lui, anche se mi sento addosso i suoi occhi dall’altra parte del ring, mentre tenta di attirarmi in uno scontro di sguardi alla maniera dei samurai. sono eccitato, pieno di adrenalina e al tempo stesso calmo, consapevole di essere pronto, per quanto possibile, per il mio primo incontro. Posso ignorare i trucchi psicologici

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del mio avversario: dopotutto lo scopriremo presto chi è il più duro. reprimo l’impulso di sorridergli. non ho niente contro questo tizio.

il mio corpo risplende per l’olio di linimento di cui è coperto e ho la faccia protetta da uno strato di vaselina. co-mincia la musica, lo stridio del corno, la melodia del flauto, il rullio del tamburo. non c’è più nulla di cui avere paura.

Quando ero alle medie, alla eaglebrook school, fra le verdi colline del massachusetts, lessi in un libro su John F. Kennedy che lui aveva l’abitudine di portare sempre con sé, nel portafoglio, questi versi di un anonimo poeta:

esperti di corrida, schierati in ranghi,affollano la vasta arena.ma solo uno, qui, è colui che saed è l’uomo che affronta il toro.

adoravo questa citazione. L’ho portata a mia volta nel portafoglio per anni, durante il college, fino a quando ho perso quel portafoglio, dopo aver rovesciato la barca durante un uragano alle bermude. Volevo essere colui che sa. Per me, la citazione non si riferiva solo alla differenza fra chi è in scena e chi assiste, fra il critico e l’artista. L’uomo nell’arena sa, ma non solo di quella particolare corrida e di come l’ha affrontata, se nel modo giusto o sbagliato. Lui sa.

sono cresciuto nel mito romantico del combattimento e dei combattenti: toreri, soldati, cavalieri, samurai. non c’era nulla di più nobile. che i ragazzi dovessero idolatrare i combattenti era fuori discussione, come il patriottismo, era un qualcosa di insito nella virilità. i ragazzini prendono pezzi di legno e ne ricavano spade e pistole, qualunque cosa facciano le loro madri.

ho frequentato le superiori alla deerfield academy,

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una costosa scuola privata di cui mio padre era dirigente. avevo la mia cerchia di amici, ragazzi del posto e figli di insegnanti, e avevamo un nostro mondo, che non era quello degli studenti ricchi che vivevano nel campus, né quello dei ragazzi delle scuole pubbliche della zona.

guardavamo un sacco di film di kung fu, ma non com-battevamo. deerfield non era quel tipo di posto, nessuno si batteva, anche se c’era chi praticava la lotta. e, col senno di poi, vorrei averlo fatto anch’io. La parte che preferivamo dei film di kung fu non erano necessariamente gli scontri finali, quanto piuttosto le scene di addestramento, quando l’eroe diventava un guerriero invincibile.

Facevo un po’ di sport, football e lacrosse, ed ero un mediocre atleta universitario. in realtà, cosa che non era un gran segreto, ero più che altro un nerd. giocavo ad advanced dungeons & dragons, a volte anche da solo, man mano che crescevo e la cosa diventava meno social-mente accettabile. Leggevo avidamente e non ne ero mai sazio. Per alcune settimane ebbi una ragazza, che alla fine praticamente mi odiava.

dopo le superiori mi arruolai nella marina mercan-tile, per l’impellente bisogno di fuggire prima di entrare all’università e nel tentativo di vedere il mondo, con una modalità che era un cliché ampiamente collaudato. Presi il treno delle tre del mattino alla stazione di amherst, diretto nel maryland, alla seafarers harry Lundenburg school of seamanship di Piney Point, un centro di formazione per marinai. Quando mia madre mi lasciò davanti alla stazione deserta, nella pozza di luce di un lampione stradale, con la vecchia sacca da marina di mio padre, ero un quadro vivente di norman rockwell.

La scuola era gestita come un centro addestramento reclute – bisognava tagliarsi i capelli, lucidare gli scarponi, fare flessioni fino a star male – e il mio corso, il numero

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518, partì con 28 ragazzi per concludersi, quattro mesi dopo, con 13. di solito le classi perdevano dai cinque ai dieci allievi, ma a noi andò peggio. in parte, ciò fu do-vuto al problema delle tensioni razziali; la classe era per metà bianca e per metà nera. non mancarono le zuffe. i ragazzi neri, o almeno così mi sembrava alla tenera età di diciotto anni, se la cavavano meglio quando si trattava di stare sotto pressione e lavorare duro. Facevano giusto quel che bastava per passare le prove, mentre noi bianchi ci massacravamo nel tentativo di arrivare in fondo alle fatiche di sisifo assegnateci da un nostromo decisamente crudele. io trovai il modo di vivere in entrambi quei mondi e imparai una delle lezioni di vita più importanti: Tieni chiuso il becco. Fu la mia introduzione al mondo dei duri.

metà della classe era stata in carcere, per un motivo o per l’altro, e quindi non parlai a nessuno della scuola privata da cui venivo, né del mio futuro in un’univer-sità d’élite. uno dei miei migliori amici in quella scuola aveva una ragnatela tatuata sul viso, appena sotto un occhio. ricordo che una sera lo sfidai a tagliarmi una mano con l’affettatrice: misi la mano sulla macchina, lo fissai negli occhi e dissi: «avanti, cazzo, taglia» (era obbligatorio parlare così). mi diede una rapida occhiata, le palpebre socchiuse, e poi guardò altrove. sulla prima nave dove ottenne un imbarco, diede tre coltellate al primo ufficiale.

nella palestra, dove si faceva sollevamento pesi, face-vamo pugilato con dei vecchi guantoni, ma guardando indietro, alla luce delle esperienze, mi rendo conto che non avevamo idea di ciò che stavamo facendo. c’era uno spilungone nero del mississippi chiamato sypes, che aveva una voce simile al cinguettio di un uccello e sosteneva di essere un pugile professionista, ma quando si allenava

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con Walzer, un biondo del sud poco più alto di un metro e mezzo e capace solo di mulinare le braccia, sypes non sembrava poi così in gamba. in preda alla furia, Walzer colpì sypes in faccia e gli spaccò un sopracciglio, facendo uscire un mucchio di sangue. sypes si precipitò in bagno stringendosi l’occhio e lasciando lunghe strisce di sangue sul linoleum sudicio. spazzammo via il sangue, chiazze di ruggine dipinte da un pennello gigante intinto in un colore bruno. Provai anch’io a tirare di boxe con alcuni dei ragazzi, ma ero esitante e goffo. un tipo tosto della Florida, di nome davey dubois, mi centrò con un upper-cut, e per giorni continuai a sentire uno strano “clic” alla mascella. ma continuai ad andarci, perché la curiosità era più forte della paura. io dovevo sapere. io volevo sapere.

alcuni anni dopo, un critico d’arte di nome Peter schjeldahl, docente ad harvard (dove mi stavo specia-lizzando in arte) mi disse: «Ti stai chiedendo quello che si chiedono tutti i ragazzi: sono forse un vigliacco?». c’en-trava anche quello, certo, anche se ero abbastanza certo di non essere un vigliacco. il coraggio è qualcosa di diverso. il coraggio ha bisogno di essere provato.

mio padre è stato un navy seal, con la qualifica di explosive ordnance disposal, uno specialista in esplosivi, e la carriera militare sarebbe stata una scelta ovvia dopo l’università, forse persino troppo ovvia. ma l’idea non mi attraeva, in parte per via dell’esperienza con la marina mercantile, ma soprattutto perché avevo studiato troppa storia, avevo imparato troppe cose sui politici e la politica delle grandi potenze. non voglio uccidere altre persone e non voglio essere uno strumento, una semplice rotellina dell’ingranaggio. La mia idea della guerra è quella di hawkeye in M*A*S*H: «se devi andare in guerra, ci vai; ma se non devi, non ci vai».

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Le risse da bar non mi interessavano; se vado al bar, lo faccio per divertirmi. ad attirarmi veramente era la dinamica del duello: cosa si prova a incontrare un uomo in campo aperto, un uomo che è pronto a incontrare te, un uomo che rispetto alla maggior parte dei parametri è uguale a te?

ad harvard provai il tai chi e il tiger kung fu, e un giorno, per caso, capitai nella palestra di pugilato, il cui allenatore era Tommy rawson. non toccava il metro e quaranta e aveva un’ottantina d’anni. era stato un pu-gile professionista negli anni Trenta, e campione dei pesi leggeri del new england nel 1935, con un record di 89 vittorie e solo 6 sconfitte, ed era straordinario. Finalmente qui si combatteva e ci si allenava davvero, con caschi protettivi, paradenti e guantoni da sedici once. Tommy non ricordava mai il nome di nessuno, ma aveva la boxe nel sangue. «ehi tu, picchiatore, comincia a schivare solo quando lui ti mette in difficoltà» diceva, con la stessa voce ruvida che ripeteva cose come quelle da cinquant’anni. il suo bel volto ormai raggrinzito esibiva sempre un sorriso allegro.

una volta iniziato a boxare, cominciai ad apprezzare il fatto di picchiare duro sul sacco, lavorare allo speed bag, correre su e giù per le scale, saltare con la corda. naturalmente fumavo ancora due pacchetti di sigarette al giorno e bevevo cinque sere a settimana – il college era così. allenarsi con il casco protettivo fu una rivelazione, perché ti colpiscono ma non senti male. diventa come una partita a scacchi. Tu pensi: “ehi, è balzato indietro quando ho fatto questo, allora la prossima volta fingo di fare que-sto e invece faccio quello” e poi hai la soddisfazione di affondargli un gancio laterale in testa. È la furia della battaglia che è così affascinante, lo scatenamento emotivo in cui non distingui più il nemico e l’amico, perché vuoi

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solo veder scorrere il sangue. era quella la sensazione che stavo cercando. Le mie ghiandole adrenaliniche si erano attivate e coglievo tutta l’intensità del momento: qualcuno stava cercando di uccidermi. si era aperta la porta e di là c’era un mondo nuovo.

all’ultimo anno avevo quasi abbandonato il pugilato. il college era ormai un capitolo chiuso e mi stavo chiedendo quale sarebbe stato il prossimo. avevo fatto domanda di arruolamento nei marines, ma avevo anche chiesto di andare in honduras con i peace corps, ed entrambi subito dopo la laurea. cambiavo idea ogni giorno, ogni ora. “Pacifista o soldato di ventura,” mi dicevo “quel che conta è che sia dura.” divertente. Poi, due settimane dopo la laurea, nel 1998, la mia madrina mi disse che un suo amico aveva appena comprato uno yacht e stava cercando un equipaggio. gli mandai il mio scarno cur-riculum, andai a parlarci e tenni la bocca chiusa (com-ponente fondamentale del kit di sopravvivenza imparato nella marina mercantile), in modo da non rivelare che ero completamente sprovveduto, e fui ingaggiato. sarei stato pagato una bella sommetta per aiutarlo ad allestire lo yacht e poi portarlo in giro per il mondo insieme a lui. era una di quelle opportunità che capitano una volta nella vita, impossibile da rifiutare, e così trascorsi un anno e mezzo su quel battello, aiutando tre capitani, cinque assistenti di bordo, due motoristi e svariati ospiti. arrivai fino in australia dove, stanco di essere un pezzo del giocattolo di un riccone, ritornai a mettere piede sulla terraferma.

a ventiquattro anni ero a darwin, in australia, con le tasche piene di soldi, e l’intenzione di non riprendere a lavorare finché non li avessi spesi tutti. Presi una stanza in un ostello e cominciai ad allenarmi in una palestra del luogo. smisi di fumare e iniziai di nuovo a pensare al

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combattimento. Pian piano mi resi conto che adesso po-tevo dedicarmi alla lotta senza altre distrazioni di mezzo. cominciai a prendere lezioni di muay thai, una variante thailandese della kickboxing in cui si usano gomiti e gi-nocchia, insieme alla gente del posto. L’istruttore, un ex fighter professionista di nome mike, magro, calvo e con la faccia lunga, aveva imparato in Thailandia.

nel mondo del combattimento agonistico, la muay thai è considerata lo sport più duro fra quelli che si praticano sul ring, per il semplice motivo che consente anche i colpi più pericolosi. il pugilato come lo si pratica in occidente si basa solo sull’uso delle mani e i pugni si possono sferrare solo al di sopra della vita. La kickboxing, il taekwondo full contact e il karate permettono tutti l’uso dei calci, ma sempre al di sopra della vita. La muay thai, invece, permette di calciare ovunque, il che cambia radicalmente lo stile del combattimento, dal momento che i calci alle gambe sono più facili e rapidi da eseguire, oltre che più efficaci. Forse il dettaglio più significativo è che nella muay thai ci si può colpire anche durante il clinch. nel pugilato occidentale, il clinch – il corpo a corpo, quando i pugili si aggrappano l’uno all’altro con le braccia bloccate – è una sorta di tregua d’armi. il clinch nella muay thai è tutt’altra cosa: i lottatori si disputano la supremazia, cercando di usare gomiti e ginocchia. È durante il clinch che vengono inflitti i danni maggiori.

dopo qualche settimana di allenamento, vedendo che ci davo dentro sul serio, mike mi disse chiaramente che un mese di allenamento in Thailandia valeva un anno di allenamento da qualunque altra parte, inclusa la sua palestra. «Vedi,» aggiunse poi «devi scegliere, puoi essere resistente, oppure rapido.» gli chiesi cos’era lui. «rapido» rispose con un sorriso mesto. Pensai che forse potevo fingermi resistente.

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Lasciai darwin insieme a craig, il motorista dello yacht dove avevo lavorato, a bordo di un furgone dipinto a mo-tivi floreali. Passammo qualche mese girando l’australia, raccontando alle ragazze che eravamo professionisti della tavola da surf, ma che quel giorno le onde erano troppo piccole per noi. Lungo la strada avevo sempre in mente la muay thai e nei campeggi tiravo trecento calci agli alberi con ogni gamba, fra il divertimento – e a volte lo sconcerto – degli altri campeggiatori.

il nostro on the road si concluse a sidney, dove in una palestra ebbi modo di conoscere un piccolo maori dall’aria aggressiva, che aveva trascorso un anno ad allenarsi in Thailandia. Le sue gambe erano un reticolo di cicatrici e vene. nella muay thai, il calcio diretto usa lo stinco come punto d’impatto e l’unico modo di fermare un calcio con lo stinco è bloccarlo con il proprio stinco. uno stinco contro l’altro fa un male cane – almeno fino a quando le terminazioni nervose non sono tutte morte. il maori mi disse che se intendevo fare sul serio con la muay thai, dovevo prendere una bottiglia vuota, spalmarci sopra un po’ d’olio e passarla energicamente su e giù lungo gli stinchi, premendo forte. il procedimento, se ripetuto un numero sufficiente di volte, avrebbe finito per spegnere le terminazioni nervose.

cominciai a farmi il massaggio con la bottiglia nella mia stanza all’ostello, mentre guardavo I Simpson e pen-savo a come diventare un vero pugile muay thai. avevo i soldi, il tempo e il desiderio di farlo, così decisi di andare ad allenarmi in Thailandia. mi ero sempre chiesto come sarebbe stato, se avessi veramente potuto passare tutto il mio tempo ad allenarmi, come i monaci cresciuti nel tempio di shaolin, come i samurai o gli spartani. niente alcol, niente sigarette, niente caffè e niente ragazze – solo battersi, tutto il tempo.

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non volevo andare in Thailandia senza almeno un contatto, e così, per capriccio, comprai una copia della rivista «international Kickboxer», che conteneva un’intera pagina pubblicitaria di un centro muay thai chiamato Fairtex. Provai a mandare una mail al responsabile e la sua risposta fu diretta e concreta: Vieni qui e restaci finché puoi. Non è necessaria nessuna precedente esperienza.

arrivai a bangkok il giorno di san Valentino del 2000, verso mezzanotte. un gentile thailandese dalla faccia tonda di nome han mi venne a prendere all’aeroporto e mi condusse al campo Fairtex dove, senza tante cerimonie, mi lasciò davanti alla mia stanza. dentro c’erano altri due uomini che dormivano e, quando incespicai entrando e accesi la luce, si svegliarono quanto bastava per imprecare contro di me in francese. spensi subito e mi stesi su un materasso, direttamente sul pavimento.

ero troppo sotto l’effetto del jet lag per dormire e con-tinuai a rigirarmi irrequieto, le orecchie piene del russare dei due sconosciuti, avvolto da una calura densa e umida cui non ero abituato. restai a fissare il soffitto per lunghi minuti, forse per ore, distratto da strani rumori. dopo un po’, scivolai fuori dalla stanza, cercando di non svegliare i miei invisibili coinquilini, e scesi le scale a passo felpato. uscii nel verde risveglio del mattino. Tutto era silenzioso e immobile, non un’anima in giro. diedi una rapida occhiata ai ring; i pesanti sacchi pendevano inerti come una fila ordinata di corpi di impiccati. sentii abbaiare un cane e da qualche parte un gallo annunciò il mattino.

Passai sotto pergolati coperti di fogliame, diretto verso l’uscita. i gechi si inseguivano sul cemento venato di crepe. giunto in fondo alla strada di accesso, non sapendo da che parte andare, voltai a destra e arrivai fino a un ponte. c’era luce e faceva già caldo, anche se nessuno ancora si

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era alzato. il sole, a oriente, era basso nel cielo, semio-scurato da nubi opprimenti color grigio perla. il fiume scorreva lento, l’acqua nera e argentea, sopra la quale aleggiava una nebbiolina che si faceva più fitta a monte. dal bianco sudario di nebbia emergevano case e pontili in legno traballanti; solitaria, una donna thailandese con un ampio cappello di paglia spingeva con una pertica la sua barca, nella semioscurità. e finalmente percepii in pieno l’estraneità del luogo in cui mi trovavo, un esotico set cinematografico, nel cuore del mistico oriente.

il primo giorno lo trascorsi in riposo, seguendo le in-dicazioni del responsabile del centro, un cino-americano di nome anthony, con il quale avevo avuto lo scambio di mail. mi disse che il mio corpo doveva adattarsi, dopo il lungo viaggio, così mi misi seduto a guardare.

una delle prime cose evidenti della muay thai è la gio-vane età degli atleti. non di rado i ragazzi hanno solo sei o sette anni, quando salgono sul ring per i primi incontri, e in generale si ritiene che raggiungano il vertice intorno ai diciassette. anche la muay thai, al pari di molte altre arti marziali, è un modo per uscire dalla povertà. il de-naro dei premi può mantenere intere famiglie che non possono permettersi di mandare i loro figli a scuola. si tratta di uno sport estremamente faticoso, non solo nei combattimenti, ma fin dall’allenamento. molti thailandesi si stupiscono che ci sia gente disposta a pagare per venire a imparare la muay thai, talmente è orribile e doloroso come modo di vivere.

mi sedetti accanto al ring più lontano, riservato ai fighter del Lumpini – è il nome del più importante sta-dio thailandese di arti marziali, in cui si affrontano i mi-gliori combattenti di muay thai del mondo – e seguii il loro addestramento. stavano lavorando con i pad, le protezioni imbottite, che, come scoprii, erano il cuore

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dell’allenamento. un allenatore munito di paratibie, di una spessa protezione addominale e di colpitori infilati sugli avambracci fa eseguire all’atleta varie serie di calci, pugni, gomitate e ginocchiate. il rumore era tremendo. gli atleti urlavano a ogni pugno o calcio. nelle altre arti marziali, i colpi vengono portati al settanta per cento rispetto alla forza e alla velocità massime, ma nella muay thai si fa tutto al cento per cento, sempre. il chiasso prodotto da una ventina di uomini e ragazzi che urlano e picchiano ha qualcosa di strano e disperato. Quel suono fu la mia introduzione all’urgenza di uno scontro vero.

gli allenatori erano thailandesi, più anziani e corpu-lenti, con facce segnate e sopracciglia piene di cicatrici. Tenevano costantemente impegnati i loro allievi, passando con naturalezza da una posizione all’altra, e i lottatori li seguivano, sferrando calci e pugni e ginocchiate, e gri-dando qualcosa che suonava come “aish”, mentre le loro gambe si abbattevano sui colpitori con un suono simile a colpi di arma da fuoco. gli atleti davano l’idea di mac-chine oliate e instancabili, dal funzionamento perfetto. È sempre bello vedere all’opera qualcuno che sa quello che fa, ma quella combinazione di velocità e di forza era uno spettacolo ammaliante. il mattino dopo, affrontai la mia prima seduta di allenamento, con un coach di nome Kum. mi disse di mettermi i bendaggi, quelle fa-sciature che i lottatori si avvolgono intorno ai pugni e ai polsi a scopo protettivo. Lo feci rapidamente, nel modo che avevo imparato nella palestra di harvard, con corte bende che non passavano fra le dita, invece di chieder-gli di mostrarmi come lo facevano loro. Lui mi lasciò fare, probabilmente perché non gliene importava niente. c’era un tale andirivieni di stranieri, che non sapevano una parola di thai e si fermavano solo pochi giorni, che potevo capire come mai gli allenatori non prendessero

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seriamente i nuovi arrivati, almeno fino a quando non dimostravano di valere qualcosa. Probabilmente Kum era l’allenatore migliore per gli stranieri, quelli che in thai vengono chiamati farang. ai farang, più massicci e perciò più lenti, non si addiceva la tecnica di calci dei “Lumpini fighters”, molto precisa e veloce. Lo stile di Kum, che metteva al centro la forza e l’uso di calci più violenti e calcolati – ogni colpo è devastante – era molto più efficace per noi, i grossi farang.

il primo giorno, in pratica, riuscii solo a fare qualche round, muovendomi poco e lentamente, con un allenatore alto e magro, di nome Pepsi, più giovane di Kum e ancor meno interessato a occuparsi di me. i miei pugni non avevano energia, i miei calci erano imprecisi e mi facevo male alle tibie, sudando come una bestia; il guaio era che ero grasso, paragonato a chiunque altro nel centro, compresi gli altri farang. barcollavo di qua e di là, sbuf-fando e facendo smorfie, cercando di avere l’aria di uno che faceva sul serio, come se fossi anch’io un vero pugile. Presto feci conoscenza con gli altri farang, in prevalenza muscolosi australiani dagli occhi di pietra, che avevano già praticato la muay thai in patria ed erano lì per migliorare la preparazione al combattimento. erano tutti tatuati e io non facevo eccezione.

il centro era organizzato come una grande famiglia, in cui Philip, il proprietario, e anthony, il responsabile, rappresentavano le figure paterne. ci vivevano stabilmente oltre una trentina di thailandesi, fra atleti e allenatori con le loro famiglie, oltre ad alcuni lottatori più anziani, anch’essi con mogli e figli, e agli operai che fabbricavano le attrezzature per l’addestramento. Vivevano in una fila di dormitori lungo un lato del centro, insieme ai loro cani e galli da combattimento. al campo Fairtex, ogni cosa vivente combatte – che sia un gallo, un cane o un uomo.

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dopo qualche giorno ero abbastanza in forma da po-termi allenare quotidianamente per due sessioni: comin-ciava a essere un assillo divorante, che stava dietro a ogni pensiero, a ogni azione. si cominciava al mattino presto, con i fighter più giovani che ci svegliavano ripetendo «Jogging, jogging» con le loro voci gentili. mi alzavo dal letto e scendevo le scale in calzoncini e maglietta da corsa. ci si radunava tutti e gli atleti, seduti sul ring nel chiarore dell’alba, si infilavano calzini e scarpette da corsa. ci mettevamo in fila, di solito una decina o giù di lì, qual-che volta in fila per due, con i Lumpini fighter davanti, seguiti dai pugili di livello inferiore, poi dalle speranze e per ultimi i farang. dopo aver camminato per circa mezzo chilometro, iniziavamo con il jogging. correvamo lungo strade asfaltate deserte, in mezzo alle risaie, incontrando templi e complessi di appartamenti, con gabbie di uccelli poste su alti pali come ornamenti; strade sterrate in terra rossa, fiancheggiate dalle fattorie dei coltivatori di riso e da povere capanne; luoghi sacri risplendenti di vetri e pietre, e altri dove ghirlande di fiori pendevano dagli alberi e le candele bruciavano lente in mezzo all’umidità. Faceva caldo, l’aria era immobile, e quando si alzò il sole cominciò a fare ancora più caldo. a seconda di quanto si era in forma, si poteva correre dai cinque ai quindici chilometri; per l’ultimo mezzo chilometro si camminava, diretti al centro, dove gli allenatori erano pronti a met-terci al lavoro. gli altri pugili si mettevano in silenzio le bende protettive. La mano dell’uomo è una mazza ter-ribile, piena di parti mobili, ossa delicate e tendini, che hanno bisogno di essere protetti. È molto meno rischioso colpire qualcuno con il gomito. il guantone fornisce il grosso della protezione, grazie all’imbottitura, mentre i bendaggi riducono il rischio di un distacco dei tendini –

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specie quando sono anni che uno si batte e ha imparato a colpire forte.

apidej sit-hirun, uno degli allenatori, era impaziente di mettersi al lavoro, così uscivamo a fare qualche round di shadowboxing (“boxe con l’ombra”, in cui il pugile prova i propri colpi da solo) prima di chiunque altro. apidej è una leggenda vivente, il più grande pugile muay thai del secolo, onore attribuitogli dal re della Thailandia. il suo record sono sette titoli, vinti picchiando più forte di chiunque altro. nessuno dei suoi allievi – incluso suo figlio – è mai riuscito a diventare forte quanto lui. Portava un anello d’oro con il simbolo del dollaro alla mano destra, la “mano dei soldi”. alla sua morte, a bangkok hanno già pronte le statue che lo ricorderanno. Quando ebbi modo di allenarmi con lui aveva sessant’anni e il suo stile muay thai era caduto in disuso, un po’ quel che è accaduto in occidente per lo stile pugilistico in voga negli anni Trenta e Quaranta. apidej continuava ad addestrare atleti per Philip, al Fairtex, anche se a quel punto insegnava ormai soprattutto ai farang. mi prese come allievo durante il primo mese, più che altro perché avevo dato prova di perseveranza.

nella muay thai, i pugili migliori sono anche persone migliori, umili e buone; e apidej irradiava letteralmente bontà, umiltà e gioia. aveva una risata contagiosa, un profondo senso dell’umorismo e i modi gentili di chi è buddista da una vita. uno dei suoi scherzi preferiti era quello di chiamarmi con un cenno e farmi allungare le mani in avanti, per poi depormi sul palmo, con un gesto lento e delicato, una piccola ranocchia, mentre ridacchiava soddisfatto.

e poi c’era l’altra faccia, quella del combattente. apidej mi mostrava come muoversi, spostandosi sul ring come un leopardo, gli occhi scuri e attenti, i gesti all’appa-

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renza senza sforzo, emanando un’aura di minaccia. il suo sguardo diventava piatto e freddo, lasciando emergere sotto la superficie la pura ostilità verso qualunque altro uomo sul ring.

i pugili si scaldavano con un po’ di boxe con l’ombra. gli altri di solito prendevano la cosa con calma, boxando in modo rilassato, ripetendo i movimenti senza focalizzarli, ma apidej voleva che io lavorassi davvero, che le mie mosse fossero decise, che facessi delle finte. sul ring, per lui, la serietà era la regola.

nella muay thai chi è più in forma vince. il mezzo prin-cipale per raggiungere la forma sono gli allenamenti con le protezioni, efficaci quanto un combattimento reale. devi continuare a tirare calci, pugni e gomitate per cinque o sei minuti, con trenta secondi di intervallo fra un round e l’altro. al mio meglio, riuscivo a reggere cinque o sei round con le protezioni con apidej, seguiti da due o tre riprese in cui usavo solo i pugni contro i colpitori più piccoli (focus pads), utili per migliorare la precisione. L’esercizio fino allo stremo, lo spingere sempre il proprio fisico al massimo spiegano perché molti pugili si ammalino, perché anche le piccole ferite ci mettano settimane a guarire e spesso facciano infezione. L’allenamento è talmente duro che le difese immunitarie possono scendere al minimo, perché il fisico dell’atleta viene spinto oltre il limite delle proprie capacità.

dopo i round con le protezioni, si passava direttamente agli esercizi con il sacco, per un’altra mezza dozzina di se-rie. anche questi erano abbastanza duri, ma ogni tanto era possibile un momento di relax, perché spesso l’allenatore doveva dedicarsi ai round con le protezioni con qualcun altro. se però uno aveva un combattimento imminente, l’allenatore gli si andava a piazzare dietro, ripetendo «Lao lao», che significa “muoviti”, e gli rendeva davvero

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la vita dura. a seguire, si toglievano le bende e si faceva un po’ di sparring e di clinch. i thailandesi combattono ogni mese, quindi in sostanza imparano a combattere direttamente sul ring, in scontri veri, fin dalla giovane età. Questo fa sì che facciano sparring in modo molto tranquillo, perché la loro priorità, mentre migliorano il timing e provano vari colpi, è quella di non farsi male. Questa mancanza di intensità non piaceva a noi farang, che non avevamo mai fatto un combattimento, ma in ogni caso loro procedevano in questo modo.

il clinch era un altro discorso. si tratta di una parte essenziale della muay thai, che viene spesso trascurata dai farang. È il momento della gara in cui viene segnata la maggior parte dei punti, e in cui si verificano più ko. Per esercitarsi nel clinch, i due fighter si avvicinano e lavorano sulla posizione, e ciascuno cerca di prendere il controllo dell’avversario, mettendo le proprie braccia dietro la testa dell’altro, o all’interno delle sue braccia. È un po’ come nella lotta, ma con entrambi i piedi a terra. Quando un pugile riesce a conquistare la posizione nel clinch, colpisce di ginocchio allo stomaco o sul fianco. Può anche tentare di costringere l’altro ad abbassare la testa, e a quel punto parte una ginocchiata in faccia e i giochi sono chiusi.

dopo sparring e clinch la seduta era finita, ma sia io sia gli altri pugili la integravamo con tre serie di trazioni alla sbarra e piegamenti sugli addominali. Verso la fine del mio periodo di allenamento facevo cinquecento esercizi sugli addominali di vari tipi per ogni sessione, vale a dire oltre mille al giorno, ma non ho mai avuto la “tartarughina”. Poi, andavamo tutti a fare la doccia in un ampio stanzone. non so se per reciproco rispetto o per timidezza, i thailan-desi si lavavano con indosso le mutande, e anche noi farang ci adeguammo. Quindi apidej riempiva una enorme vasca

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quadrata di cemento con l’acqua più bollente possibile. sosteneva che era meglio di un massaggio, oltre che più economica. La stanza della vasca somigliava a una grotta, nonostante le massicce travi del soffitto e le sudice vene-ziane da cui filtravano spiragli di luce. a volte ci andavo anche da solo, nella vasca, e mi immergevo interamente, quasi a voler rientrare nel grembo materno. sentivo le mie pulsazioni e un battito ovattato nelle orecchie.

Poi, barcollando per il calore e per la spossatezza, an-davo di nuovo sotto la doccia e quindi a colazione. il cibo era buono, ma non bastava mai: minestra, riso, pollo, spa-ghetti e poi ananas a fette e litchi. e una grande quantità d’acqua, quasi sei litri al giorno. mi riposavo un po’, facevo un salto in ufficio per controllare la posta elettronica e fare due chiacchiere con anthony, che si occupava dell’ammi-nistrazione. dopo le mail veniva il momento dell’ora di riposo pomeridiano, durante la parte più calda del giorno. esausto e quasi febbricitante, con il corpo indolenzito, mi rintanavo a letto. Facevo strani sogni, tirando pugni nel sonno. Lasciavo il materasso fradicio di sudore, e quando mi alzavo sembrava che ci fosse ancora un uomo invisibile, addormentato nel mio giaciglio.

a volte il sonnellino pomeridiano lo facevo in una delle amache appese alla recinzione metallica accanto ai ring, dove l’aria era più fresca per la brezza che veniva dalla palude, una vasta distesa d’acqua e di erbe alte, dove spesso si aggiravano gli elefanti con i loro conduttori. a volte gli elefanti si spingevano fino alla recinzione del campo, intenti a strappare metodicamente l’erba e a man-giarsela, mentre i conduttori pisolavano sotto di loro o lì accanto. io me ne stavo di traverso, nella piccola amaca thailandese, e a un metro da me c’era un elefante che brucava tranquillo, mentre il suo conduttore riposava, e noi tutti sonnecchiavamo, cullati dal regolare fruscio del

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pachiderma che faceva incetta di grossi ciuffi d’erba con la proboscide.

alle tre e mezza si ricominciava: jogging (su una di-stanza minore, non più di tre chilometri) poi un’altra seduta completa di allenamento, nel corso della quale i vari round (protezioni, sparring, clinch) potevano protrarsi più del solito e diventare anche più aggressivi. a conclu-sione, facevamo qualche ripresa di shadowboxing – con manubri da due chili e mezzo per i Lumpini fighter – e poi addominali, trazioni e tutto il resto, doccia-bagno bollente-doccia, e alle cinque e mezza l’estenuante ciclo poteva dirsi, per quel giorno, concluso. La sera, l’obiet-tivo era fare il meno possibile, salvo riposare e rimanere idratati per la corsa del mattino dopo.

i giorni passavano. al principio, sembravano non finire mai. Poi cominciarono a scorrere veloci. dopo tre setti-mane, riuscivo a reggere quattro round di allenamento con apidej, e i miei calci avevano trovato un po’ di energia. sui polpastrelli dei piedi, le ciocche sanguinanti avevano lasciato il posto a dure callosità. i piedi delicati dei farang erano spesso un problema: con due sedute di allenamento al giorno, fra il tappeto ruvido e i pavimenti in pietra, gli stranieri spesso si ferivano ai piedi e sviluppavano infezioni che li costringevano ad andare all’ospedale. Per quanto ne sapevo, ero l’unico farang che era riuscito a rimanere al Fairtex per un certo tempo senza finire all’ospedale nemmeno una volta.

al primo allenamento con le protezioni ero troppo imbarazzato e consapevole di me stesso per mettermi a urlare come i thailandesi. Poi, un giorno, forse dopo un mese, cominciai a emettere un “aish!” a ogni calcio, con la voce un po’ più bassa di quelle che avevo intorno. ricordo che uno dei Lumpini fighter, un tizio chiamato neungsiam (era il miglior pugile del campo) mi guardò

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mentre scendevo dal ring e annuì. stavo cominciando a migliorare. in seguito neungsiam e io diventammo amici. aveva la mia stessa età, era diventato una star del Lumpini a diciotto anni, aveva smesso per qualche anno, e adesso si stava preparando al ritorno. era un tipo tranquillo, capace di colpire con precisione millimetrica. Veniva nella mia stanza e sparavamo cazzate in un misto di inglese, thai e linguaggio dei gesti. gli mostrai qualche foto delle ragazze che frequentavo a Los angeles e penso che questo rafforzò la nostra amicizia. gli piacevano quelle fanciulle bionde, e forse pensava che potevo metterlo in contatto con loro.