Coopsette "La storia, gli uomini, le idee" - seconda parte

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C o o p s e t t e t r a s t o r i a e a t t u a l i t à

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La Cooperativa attraverso la testimonianza di Donato Fontanesi

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169Nata nel 1977, Coopsette racchiude la propria storia nell’ambito di una generazio-

ne. Venticinque anni densi di avvenimenti, carichi di significati, ma pur sempre limitati

rispetto all’esperienza di oltre un secolo di cooperazione sviluppatasi nelle nostre terre.

Ci siamo interrogati sul modo migliore di rappresentare le vicende della cooperativa,

che si snodano nell’area della contemporaneità, se non addirittura della cronaca.

Per non cadere nella trappola di una successione di atti amministrativi o nell’elenca-

zione di opere realizzate e di prodotti immessi sul mercato, abbiamo scelto una strada

completamente diversa.

Abbiamo chiesto a Donato Fontanesi, presidente di Coopsette dalla sua fondazione,

di ripercorrere la propria esperienza, filtrando attraverso questa angolatura soggettiva gli

avvenimenti e le tematiche più significative della storia della cooperativa. È un racconto ne-

cessariamente parziale, ma carico del calore e della partecipazione propri della vita vissuta.

Non è stato facile convincere Fontanesi a mettersi a disposizione del narratore. Chi lo

conosce sa che la sua è una personalità caratterizzata da una naturale ritrosia a parlare in

prima persona, a mettere in evidenza il proprio ruolo. Lo abbiamo spronato a raccontare

episodi della propria vita, a fare emergere i propri sentimenti e le proprie emozioni. È sta-

ta una scelta positiva, perché ha permesso, crediamo, di restituire un’immagine più uma-

na e più vera delle nostre vicende. Consideriamo lo sforzo compiuto da Fontanesi l’ennesi-

mo servizio reso alla cooperativa, in un campo per lui tra i più ostici.

Saranno altri, dopo di noi, a scrivere una storia di Coopsette più “normale”, più clas-

sica, quando lo scorrere del tempo consentirà un approccio più distaccato e più professio-

nale. Oggi parliamo di noi stessi e confidiamo che la voce narrante attribuita a Donato

Fontanesi sappia restituire, almeno in parte, il significato più autentico di una fase stori-

ca che ha visto protagonisti l’intelligenza e i sentimenti di migliaia di persone.

Fabrizio DavoliFlavio Ferrari

Una storia vera

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171Sono diventato presidente della Coopsette nel gennaio del ’77, dopo lafusione della Cocep e CM di Castelnovo Sotto (sigla che stava per Coopera-tiva Costruzioni Elementi Prefabbricati e Cooperativa Muratori) con altrecinque cooperative, vale a dire: la Cooperativa Nazionale Muratori e Mano-vali di Sant’Ilario d’Enza, la Cooperativa Braccianti di Campegine, la Co-operativa Muratori di Poviglio, la Cooperativa La Fratellanza Nazionale diCadelbosco e la Coperfer di Sant’Ilario.

Prima di allora, esattamente dal ’74, presiedevo il Consiglio di Amministra-zione di Cocep e CM, un’azienda che giuridicamente era nata un anno prima,nel ’73, con l’unificazione della Cocep (al vertice della quale da 26 anni c’era Nar-do Foielli e che era considerata figlia naturale della Cooperativa Muratori) conla stessa Cooperativa Muratori guidata in quel momento da Riccardo Speroni.

Fu un’elezione inattesa. Nel senso che mai mi sarei aspettato di diventa-re l’erede di Nardo Foielli, che era un uomo dalla forte personalità, un gran-de personaggio. Il “padre padrone” (le virgolette sono d’obbligo) del movi-mento cooperativo di Castelnovo: intelligente, acuto, rapido nelle decisionie fortemente intuitivo negli affari, con un grande fiuto commerciale. Certo,come imprenditore apparteneva al suo tempo storico; si muoveva nella vec-chia logica contadina di conoscere tutto e tutti e ogni suo pensiero e ogni suaattività, anche la più semplice come l’andare in piazza a prendere un caffè,era finalizzata a cercare lavoro per la cooperativa.

Mio padre lo apprezzava moltissimo. Riteneva che quella che allora sichiamava Società cooperativa Muratori “Il Progresso”, nata nel ’36 a Castel-novo, se era diventata così importante, lo era in buona misura grazie alle ca-pacità di Foielli, un uomo – sosteneva – che aveva contribuito a creare un’im-presa con oltre 200 soci, economicamente solida, con un gruppo dirigente diottimo livello, che permetteva di guardare al futuro con molta serenità.

In Cocep entrai appena ventenne. Ero un neo perito elettrotecnico, giovane,idealista in anni in cui in Italia c’era una grande tensione politica e l’impegno, peralcuni, aveva il sapore della scelta di vita. Dopo aver girovagato a far domande dilavoro (alla Siemens, alla Necchi, alla Borletti ecc) e dopo aver capito che nonavrei avuto risposte positive, mio padre e Foielli mi proposero di entrare in Co-cep e CM e nel giugno del ’64 divenni uno dei disegnatori della cooperativa.

All’ufficio tecnico stetti dieci anni e lì imparai i segreti della prefabbrica-zione, compresi i calcoli statici per progettare. Per questo, nel ’71, allo scopodi migliorare le mie capacità di lavoro e di affinare le mie competenze pro-fessionali, decisi di iscrivermi alla scuola serale per geometri. Feci 24 esami inun solo anno e, con soddisfazione, fui promosso con 60/60.

La prima esperienza: presidente di Cocep e CM

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La prima esperienza: presidente di Cocep e CM

A vent’anni, del resto, il desiderio di mettersi alla prova e di capire dove sipuò arrivare, ti stimola sempre. Io volevo cambiare il mondo partendo daipiccoli problemi della mia collettività, dimostrando che sapevo contribuirecon tutto me stesso anche allo sviluppo della cooperativa.

In quel periodo la mia vera passione era la politica, la politica internazio-nale per essere esatti. Mi interessava conoscere le condizioni degli altri popoli.Dal ’70 ero segretario della sezione del PCI di Castelnovo, un ruolo impor-tante a quel tempo che mi permise, credo, di essere stimato e conosciuto.

Nel ’73 Foielli informò il Consiglio di Amministrazione che era intenzio-nato ad andare in pensione e che si doveva pensare alla sua successione. Pur-troppo, per storia e personalità, non era facilmente sostituibile. Essendo ungrande accentratore, un suo eventuale abbandono creava oggettivamente deiproblemi. Così ci fu una fase di riflessione collettiva. Si valutarono diverse ipo-tesi. Alla fine alcuni soci raccolsero delle firme per fare la classica assemblea.Fu in quel contesto, condito da qualche polemica, che mi fu proposto, a sor-presa, di candidarmi alla presidenza della Cocep e CM.

Naturalmente rimasi senza parole. Ma come, mi dissi, sono inesperto, so-cio da appena tre mesi, senza esperienza imprenditoriale, per non parlare delfatto che dovrei sostituire un padre carismatico, una persona che è in co-operativa da 27 anni, che conosce perfettamente il mondo dell’economia. Lamia preoccupazione era di non essere in grado di garantire lo sviluppo dellacooperativa. Ma non ci fu verso: «Hai due anni di tempo per capire – rispo-sero quelli che mi volevano eleggere – Imparerai il mestiere, ti aiuteremo».

L’obiettivo dei soci era di articolare le responsabilità con un presidentepiù attento al sociale e, nello stesso tempo, rafforzare la struttura tecnica.

Mio padre non fu molto d’accordo. La proposta lo meravigliò. In menon vedeva, e giustamente, un Foielli. Foielli per lui e per tanti altri socicome lui, era una figura di riferimento. Era la persona che appena ven-tottenne, nel ’47, nella miseria dell’immediato dopoguerra, con la coope-rativa “Il Progresso” s’era inventato il modo di stare a galla, garantendo la-voro a tutti i soci. Che aveva avuto l’intuizione di andare a cercare com-messe fuori dalla provincia, uscendo dall’asfittica concorrenza di unmercato reggiano che non riusciva a dare risposte adeguate alle impreseoperanti sul territorio. Foielli aveva saputo gestire un’azienda che avevaofferto benessere a centinaia di famiglie. Era in grado di dare sicurezzacon la sua sola presenza, conosceva tutti, aveva una forte personalità econ una semplice pacca sulle spalle o una stretta di mano garantiva il ri-spetto degli impegni.

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Storia della cooperazione nella pianura occidentale reggiana

Mio padre, molto impegnato sul lavoro, faceva il muratore. Entrò in co-operativa negli anni Cinquanta. Poi nel ’61, quando Foielli ebbe l’intuizioneche il mercato dell’edilizia stava cambiando e che occorreva attrezzarsi pun-tando sui prefabbricati, partecipò alla fondazione della Cocep, anche per lesue precedenti esperienze alla Saccai, azienda storica del settore.

Di quel periodo, un po’ pionieristico, ricordo soprattutto l’entusiasmocol quale mio padre si dedicò all’impresa. Aveva un forte concetto della so-cialità e della solidarietà. Credeva nel lavoro collettivo, nella cooperazione,nel socialismo e per questi suoi principi era disposto a grandi sacrifici. Unavolta gli proposero un passaggio di qualifica. Accettò, ovviamente, ma congrande disagio e comunque di malavoglia: non voleva dare di sè, agli altri so-ci, un’impressione sbagliata. Era un capo squadra e consigliere d’ammini-strazione. Il suo dovere era dare l’esempio. Non voleva minimamente chequalcuno pensasse che il suo impegno fosse mosso da motivazioni egoisticherispetto al disegno collettivo di un benessere per tutti.

Ma torniamo al ’74. Come segretario della sezione PCI di Castelnovo Sot-to vivevo con molto entusiasmo e partecipazione quegli anni. Anni impor-tanti, uscivamo dal ’69. In Italia s’era affacciato pericolosamente il terrorismo.Nello stesso tempo le sinistre si erano battute, insieme ai laici e ai radicali, a fa-vore del referendum sul divorzio. C’era l’effervescenza culturale che annun-cia sempre i grandi cambiamenti. Era alto lo scontro politico e sociale. Nellescuole e nelle università i giovani cavalcavano con forza la loro voglia di cam-biamento. In più il quadro internazionale era preoccupante, per lo scoppiodello scandalo Watergate e le successive, drammatiche, dimissioni di Nixon.

Nulla di tutto questo, naturalmente, influenzava le mie decisioni in me-rito alla cooperativa, ma l’interesse che avevo per la politica rendeva piùimpegnativa una mia scelta in quella direzione. Forse non me lo dicevoapertamente, ma diventare presidente della Cocep e CM significava, di fat-to, dire addio all’impegno politico e culturale precedente e accettare di de-dicare tutto me stesso ai problemi dell’economia e dell’impresa. Voleva di-re assumere un ruolo diverso nella battaglia per affermare gli ideali ai qua-li sentivo di appartenere.

Cambiare vita insomma.Certo. Sapevo che, in quanto segretario di sezione, (riconosciuto dai

nostri soci che per la maggioranza votavano PCI) la carica di presidentemi era proposta con l’aspettativa che innovassi profondamente i rappor-ti sociali. Del resto, il ’69, con la sua forza dissacratrice, aveva creato unadiffusa sensibilità alla partecipazione sociale e politica dei lavoratori, ma

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l’ipotesi di una mia candidatura alla presidenza probabilmente scaturì an-che dalla consapevolezza della forza economica e patrimoniale e dallabuona organizzazione di impresa di Cocep e CM. Immagino che, se la co-operativa si fosse trovata in difficoltà, se avesse avuto seri problemi eco-nomici, difficilmente avrebbero scelto me. Avrebbero cercato una perso-na all’altezza della situazione, uno che desse le garanzie di un Foielli. Maciò, per l’appunto, non era avvenuto. Di lavoro ce n’era in abbondanza.La cooperativa era ben avviata. Si navigava in acque tranquille, ragion percui il mio nome non trovò veti e fui eletto.

Mia madre, donna attenta e sensibile, che mi aveva educato e cresciuto inun clima socialmente e culturalmente stimolante per quegli anni e per quelleterre, mi disse solo di essere orgogliosa, ma preoccupata, così come lo eranomia moglie e mio fratello. Lo stesso sentimento provavo anch’io. La forza e laserenità necessarie però mi venivano dalla consapevolezza che non avevo fat-to nulla, anzi, per avere quell’incarico e dal fatto che i soci mi conoscevanobene e sapevano cosa si potevano aspettare da me. La voglia di misurarmi inquesta nuova, inattesa avventura, mi forniva quell’esuberanza che, vista con gliocchi di poi, gli occhi dell’esperienza e della professionalità, oggi mi farebbe-ro usare l’espressione: incoscienza giovanile.

Non ricordo il mio primo giorno da presidente. Ricordo bene, invece,

La prima esperienza: presidente di Cocep e CM

25 novembre 1965Il Presidente della CocepNardo Foielli (secondo dasinistra) illustraai visitatori e alle autoritàlo stand allestito in occasionedella Fieradi Castelnovo Sotto.

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che in quel periodo tutti mi aiutavano, con fraterna benevolenza, ad affron-tare la nuova responsabilità che mi era stata assegnata, a partire dai consiglieridi amministrazione per arrivare a tutti i soci indistintamente. Fra tutti ricor-do, per la responsabilità che ricoprivano in cooperativa, Giuseppe Lusvardi,il nostro segretario amministrativo di allora, che mi accolse e mi accompagnòin quel nuovo mondo di bilanci, rapporti con le banche, prestiti, mutui ecc.;ricordo Riccardo Speroni, uno dei firmatari della mia candidatura, che rico-priva la carica di responsabile del personale, che mi consigliò moltissimo, aiu-tandomi in passaggi che allora vissi come molto difficili. O ancora, ArturoFocarazzo, responsabile tecnico del prefabbricato, Giorgio Speroni, che ri-copriva la carica di responsabile tecnico-commerciale delle costruzioni, Sa-vino Campioli, responsabile commerciale del prefabbricato e non ultimoOtildo Minari, il magazziniere della cooperativa, un uomo che mi era moltocaro: una persona che conosceva tutti e da tutti era conosciuto, uno che sta-va sul pezzo, che gestiva i materiali e le attrezzature per il bene della colletti-vità, che sbraitava, faceva il sergente di ferro, ma che era di una lealtà e di unagenuinità che ne facevano un punto di riferimento.

La prima esperienza: presidente di Cocep e CM

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Sia Cooperativa Muratori che Cocep devonomolto a Nardo Foielli. Contribuì in modo deter-minante allo sviluppo di entrambe le aziende enon dimentico che la sezione calcestruzzi e pre-fabbricati nacque proprio da una sua intuizione.Se non ci fosse stato uno come lui difficilmentesaremmo sopravvissuti, dopo la Liberazione, trale mille difficoltà di mercato di allora.

Foielli gestiva efficacemente l’impresa in pri-ma persona, anche se, in quel tempo, la Coopera-tiva Muratori e Cocep (poi unificate in Cocep eCM) avevano già raggiunto una dimensione di ri-lievo e la complessità aumentava continuamente.Stava anche prendendo piede, all’interno del mo-vimento cooperativo reggiano, l’idea di una gran-de unificazione.

Quando nel ’73 Foielli annunciò la sua inten-zione di andare in pensione, chiedemmo a lui diinvididuare la persona che lo potesse sostituire.Iniziò anche una approfondita riflessione all’in-terno della base sociale. Da quegli incontri pren-demmo consapevolezza che la cooperativa avevadi fronte molte urgenze: l’ampliamento dei mer-cati, la crescita dimensionale e l’inserimento dinuove figure professionali. Insomma, occorrevafare un salto di qualità, superando una centraliz-zazione delle responsabilità che si era rivelata po-sitiva sino ad allora, ma che si presentava inade-guata per il futuro.

Nelle nostre file c’era Donato Fontanesi, cer-to conosciuto perché segretario del PCI di Castel-novo, ma anche perché era un bravo socio, unoche partecipava, che interveniva nelle assembleedella cooperativa dimostrando interesse. Cosìproponemmo il suo nome. All’Associazione pro-vinciale delle cooperative di produzione e lavoro,allora diretta da Amus Fontanesi, l’idea piacque.Iniziammo a raccogliere le firme dei soci per con-

vocare l’assemblea, superando l’indecisione diFoielli, e nel giro di poco tempo ottenemmo l’a-desione dell’80% dei soci stessi. Fu convocata l’as-semblea, nella quale Fontanesi subentrò a Foiellicon voto unanime dei soci.

I fatti poi ci hanno dato ragione. Molte delledifficoltà di quegli anni lontani sono state brillan-temente superate. La gestione del difficile pro-cesso di unificazione fu eccellente. Quella figuradi giovane che avesse, ci dicevano, una visionestrategica e organica dei nostri problemi e checomprendesse le necessità dell’immediato futuro,noi l’avevamo trovata.

Da un colloquio con Riccardo Speroni

Da Foielli a Fontanesi

Riccardo Speroni (a sinistra)mentre riceve da GiorgioSperoni, in rappresentanzadella Sezione Soci Cocep e CM,la medaglia d’oro e l’attestatodi benemerenza in occasionedel pensionamento.

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177Lontano da qualsiasi preparazione specifica su come gestire un’impresadi quelle dimensioni, sulla quale confidavano centinaia di famiglie, mi avvi-cinai al ruolo di presidente della Cocep e CM con grande senso di responsa-bilità, con la consapevolezza delle innumerevoli competenze che avrei do-vuto acquisire rapidamente per essere all’altezza del compito.

Innanzitutto volevo capire. Conoscere il concreto funzionamento dell’azien-da mi serviva per possedere la materia, per avere la sensazione che a ricoprire la ca-rica di presidente adesso c’ero io e che dovevo seguire un mio personale itinerario.

La cosa che mi preoccupò più di tutte fu la prima assemblea di bilancio. Sen-tivo il peso del giudizio degli altri soci, gli stessi che fino a pochi mesi prima era-no semplicemente miei compagni di lavoro. Non che non lo fossero ancora,ma le responsabilità assunte mi ponevano nuovi problemi e con essi dovevomisurarmi. Fino a qualche mese prima mi confrontavo nelle riunioni di sezio-ne del partito, oppure intervenivo in qualche direttivo provinciale. Ma un con-to è mettere ordine ai tuoi pensieri estrapolando concetti generali dai giornali, daidiscorsi ascoltati in varie occasioni, dai libri letti, un conto è parlare di strategieoperative, di resoconti, di prospettive finanziarie, di problemi d’impresa.

Per esempio, non conoscevo a fondo la struttura del bilancio. È vero che Lu-suardi mi aiutava e che feci anche qualche corso, ma era fatica ugualmente.

Iniziai a frequentare l’Isolato di San Rocco di Reggio, dove appresi il funzio-namento del mercato privato reggiano delle costruzioni. Furono tempi difficili,animato com’ero dal desiderio di non tradire chi mi aveva dato fiducia e di dimo-strare a me stesso capacità che non sapevo se possedevo.

Pian piano però al nuovo ruolo cominciai ad abituarmi. I miei primi pas-si furono finalizzati a creare in cooperativa la maggiore trasparenza possibi-le. Era certamente il risultato di un mio percorso politico. Del resto, a Ca-stelnovo la cooperativa non era un’azienda qualsiasi. Era importante, davalavoro a tanta gente, era un’azienda con 222 soci e lavoratori con le relative fa-miglie, in una realtà di 6000 abitanti. Era la nostra piccola Fiat e in più im-piegava gente di umili origini, come me del resto, che su un impianto politi-co e culturale comune (che era poi il terreno sul quale m’ero nutrito insiemea molte altre persone) chiedeva risposte su argomenti che in quel momento,in quel periodo storico, bussavano alla nostra porta.

Misi al centro della mia attività il tema dei diritti dei lavoratori. Le do-mande che mi ponevo erano: che diritti hanno i soci? Come partecipano al-le scelte della cooperativa? Come si possono migliorare le loro condizioni dilavoro ed economiche? E ancora: come sviluppare il concetto di autogestio-ne, avendo come obiettivo qualificare l’impresa e farla crescere?

Autogestione e democrazia

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Autogestione e democrazia

Da queste riflessioni ebbero origine i miei primi interventi. Del resto Foiel-li, pur tra tanti meriti, qualche problema me l’aveva lasciato. Per esempio nonavevo ereditato una struttura d’impresa nel senso moderno del termine. Lui,da imprenditore vecchia maniera, era portato a lavorare con strutture azien-dali leggere, tenendo direttamente tutto sotto controllo, con obiettivi strate-gici di fondo ben chiari, ma non esplicitati a tutta la cooperativa. Quindi simuoveva in grande autonomia, senza far partecipare altri alle motivazioni chegiustificavano questa o quell’iniziativa. Io volevo fare il contrario.

Così rafforzammo la struttura tecnica con l’inserimento di altri ingegneri,demmo vita, con l’assunzione di un laureato in economia e commercio, al pri-mo Servizio di Pianificazione e Controllo. Assumemmo una laureata in socio-logia per costituire un servizio a disposizione dei soci che studiasse i loro pro-blemi, i loro bisogni e proponesse soluzioni per migliorare la qualità della vita.

In questo clima di attenzione ai diritti dei soci nacque la nostra primamensa aziendale, che fu anche tra le prime significative realtà della nostraprovincia. Fino a quel momento, per la pausa di mezzogiorno, ognuno si por-tava la minestra nella gavetta, oppure tornava a casa. Ci fu dibattito, ma allafine la proposta fu approvata. Dimostrammo così che in cooperativa i pro-blemi della condizione dei lavoratori si potevano affrontare e concretamen-te risolvere, con soluzioni, per quei tempi, all’avanguardia.

Una settimana dopo l’entrata in funzione, come era prevedibile, la men-sa divenne un diritto acquisito e la sua importanza sociale piano piano svanì,perché passò l’idea che per una cooperativa dovesse essere una conquistascontata, anche se in verità non lo era.

L’obiettivo di sviluppare l’autogestione in Cocep e CM, per fare un altroesempio, nacque dalla volontà e dalla convinzione che in cooperativa tuttidovevano essere protagonisti. Per far ciò, ogni socio doveva avere un ruoloben definito nell’organizzazione, ma con l’impegno di viverlo in modo re-sponsabile e non burocratico.

La cooperativa doveva garantire a tutti sviluppo professionale e assun-zione di ruoli rapportati alle capacità e ai meriti. Principi e valori innegabil-mente giusti, che cercai di capire come poter applicare concretamente, par-tecipando a corsi di formazione che mi aiutarono a comprendere il funzio-namento di un’impresa: dai concetti organizzativi ai meccanismi operativi,dalla lettura del mercato alla gestione della produzione e ai problemi della di-rezione del personale.

Queste idee piano piano si affinavano e diventavano progetti da realizza-re. Sul tema dell’autogestione mi aiutò molto Amus Fontanesi, che allora, nel

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suo ruolo di presidente dell’APCPL (Associazione provinciale cooperativeproduzione lavoro), aveva scritto e teorizzato molto su questi argomenti, in-dirizzandomi nel mio impegno. Volevo far crescere la cooperativa come im-presa di uomini, volevo dimostrare che in cooperativa c’era la forza del grup-po: idee e obiettivi che erano alla base dei suoi insegnamenti.

Fu un bel periodo. Non solo perché era il mio primo vero banco di prova,ma perché queste novità avevano avviato un grande dibattito interno. Si discutevaovunque, si discuteva, in modo feroce, anche di cose che oggi appaiono ridico-le. Per esempio: quando si è in cantiere e piove, chi decide se interrompere o me-no il lavoro? Il capocantiere o si fa un’assemblea?

Una volta un socio mi disse: «Mi hanno spiegato al sindacato che anche incooperativa c’è il plusvalore e che quindi siamo sfruttati come gli altri lavo-ratori». Lo disse con decisione, per nulla mascherando il senso di smarri-mento che provava. Discutemmo delle differenze tra cooperativa e impresadi capitali e, alla fine, lui comprese e ci trovammo d’accordo. Ma questo te-stimonia il clima di discussione che c’era e che prima era inimmaginabile.

Del resto, la pratica dell’autogestione dava una risposta alla mia ansia di in-trodurre “elementi di socialismo” nel mondo della Cocep e CM. Certo, scivo-lammo a volte in forme di massimalismo. Si svolsero discussioni accesissimespesso su questioni futili. Ma nonostante gli anni e le trasformazioni che ab-biamo vissuto, noi, ancora oggi, continuiamo a discutere, continuiamo cioè acercare ogni giorno e in ogni occasione le forme e i modi per allargare la par-tecipazione. È una nostra scelta e credo sia una di quelle vincenti per il nostromondo, perché se è vero che i ruoli vanno rispettati (è attraverso quelli, infatti,che responsabilizzi le persone) lo sviluppo dei processi partecipativi è il col-lante che rende la cooperativa una realtà che appartiene a tutti. Per noi, allora,significava forse che elementi di socialismo si potevano realizzare, mentre og-gi significa che non valgono solo il profitto e il denaro; che valori quali la so-cialità, la qualità della vita, la qualità del lavoro, la sicurezza, la salute, mettonoancora al centro del nostro agire la persona.

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180 Nel ’74 Cocep e CM diede un forte impulsoalle attività sociali. Il Consiglio di Amministra-zione nominò diverse commissioni che affronta-rono i temi relativi alle condizioni di lavoro e alleaspettative dei soci.

La medicina preventiva

Oltre agli obblighi di legge specifici relativi al-la Medicina del Lavoro, la Cocep e CM decise diaffrontare per i propri soci il tema della salute, sti-pulando una convenzione con l’Ospedale di Ca-stelnovo Sotto, per avviare un programma di me-dicina preventiva.

La commissione concordò con i sanitari unaserie di analisi mirate alla verifica delle condizionidi salute per tutti i soci lavoratori, da ripetersi ognisei mesi.

I medici coinvolti furono soprattutto tre: ilprofessor Rollo, primario dell’Ospedale di Ca-stelnovo, il dottor Turrini, medico di medicina ge-nerale e il dottor Carpi, ginecologo.

Gli esami (più ampi di quelli previsti dalla leg-ge e comunque estesi anche ai dipendenti soci chenon praticavano lavori a rischio) erano: analisi delsangue, elettrocardiogramma, visita medica gene-rale, lastre, ecc.

La visita ginecologica fu invece una delle con-quiste delle donne di Cocep e CM. Chi visse quelperiodo, parla infatti di una vera battaglia per vin-cere la resistenza soprattutto in seno alle stessedonne (testimonianza di una ex ferraiola: «Mi di-cevano: ma tu vai dal ginecologo? Non ti vergo-gni?»). Soprattutto le più anziane mostrarono for-ti remore.

La mensa

La mensa aziendale fu aperta in Cocep e CM, trale prime in provincia, a metà degli anni Settanta.

I dipendenti provenienti dai Comuni vicinierano numerosi e ciò comportava certamente undisagio, oltre ai costi legati al tragitto casa-lavoroda percorrere due volte al giorno. Inoltre, diversioperai sottolineavano che la loro pausa pranzo eratroppo breve per poter andare e tornare dalla pro-pria abitazione.

Fu allestita, in un locale interno alla cooperati-va, una prima sala pranzo dove venivano servitipasti preconfezionati da un’azienda specializzata.A questa prima esperienza, poco soddisfacentesul piano della qualità del cibo, ne seguì un’altrache prevedeva una prima portata confezionata daun’apposita cucina interna, seguita da un secon-do preconfezionato. Rispetto all’iniziativa ci fu-rono valutazioni diverse.

Alcuni soci nelle assemblee parlavano di van-taggi dati a pochi, e sostenevano che in cooperati-va c’erano figli e figliastri. Il Consiglio di Ammini-strazione, giustamente, sostenne che non si tratta-va della redistribuzione di un reddito (che come

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Lo sviluppo delle attività sociali in Cocep e CM

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181tale sarebbe spettato a tutti) ma di una risposta dicarattere sociale a situazioni di disagio legate al la-voro. Alla fine fu realizzata una mensa vera e pro-pria, attualmente ancora in uso, anche se trasferitain un più moderno locale. L’esperienza positiva diCocep e CM portò poi Coopsette a estendere il ser-vizio mensa a diverse sedi aziendali, con evidentibenefici per i lavoratori.

Le donne protagoniste

All’interno della Cocep e CM le donne hannosempre manifestato un forte impegno sia dal pun-to di vista lavorativo che sociale. Un momento par-ticolarmente significativo è sempre stato l’8 marzo,visto non solo come una festa, la festa delle donne,ma come un ideale al quale costantemente tendere.Veniva organizzata una vasta gamma di iniziative:interviste e contribuiti sul giornale della cooperati-va, incontri con personalità della cultura, abbona-menti a riviste. Quando la cooperativa decise di of-frire a tutti i soci l’abbonamento gratuito a «Gior-ni-Vie nuove», rivista vicina alla sinistra, venneorganizzato un incontro con il direttore Davide La-jolo per discutere e confrontarsi sulle tematiche po-litico-sociali di quel periodo. In altre occasioni ven-nero organizzati anche spettacoli teatrali (venneroPaolo Poli e sua sorella Lucia) e il carnevale dei bam-bini. Sempre dal punto di vista culturale venneroproposti abbonamenti a teatro gratuiti per i soci. Diparticolare rilievo fu anche l’istituzione di un con-tributo per l’acquisto dei libri di testo dei figli in etàscolastica dei soci.

Insomma, la componente femminile della co-operativa era molto motivata e coinvolta. Già è sta-to ricordato che, quando partì l’iniziativa della me-dicina preventiva, nella gamma delle prestazioni fu

inserita la visita ginecologica per le lavoratrici dellacooperativa.

La Commissione attività sociali che gestì, a no-me dei soci, tutta questa serie di iniziative ebbe unruolo sociale fondamentale, sviluppando sensibi-lità nuove e allargando gli orizzonti di conoscen-ze, ma soprattutto favorendo il senso di aggrega-zione dei soci e consentendo loro una maggiorcoesione e partecipazione attiva alla vita della co-operativa.

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Nella pagina a fianco

La prima mensa aziendaledi Castelnovo Sotto.Oggi il servizio mensaè un diritto acquisito,allora aveva rappresentatouna conquista sociale.

Nella Cocep e CM le donnesono state sempre moltoattive nell’individuare e organizzare le attività socialidella cooperativa. Nella foto le impiegate Cocepe CM, all’inizio degli anniSettanta, impegnate, durantela festa della Befana, nelladistribuzione dei pacchi donoai figli dei soci.

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182 Le ferie sociali

Tra le varie attività sociali della cooperativa fuintrodotto anche il contributo ferie.

La decisione nasceva dalla considerazione chepochissimi soci utilizzavano il periodo di ferie perriposarsi o per fare esperienze alternative al lavo-ro. Spesso tanti dei nostri soci, durante la chiusu-ra aziendale, eseguivano lavori a casa loro o pres-so privati, in quest’ultimo caso per integrare il sa-lario. Vi era inoltre la difficoltà a muoversi dallapropria abitazione, a pensare alla prenotazionedella struttura, alla scelta della località, la preoc-cupazione di non trovarsi a proprio agio.

Socialmente l’obiettivo era quindi quello di mi-gliorare la qualità della vita del socio.

Per stimolare i soci a utilizzare le ferie in modopiù positivo, si andò a visitare località di mare e dimontagna, che fossero allo stesso tempo acco-glienti e consone alle abitudini e agli stili di vita deisoci stessi. La cooperativa stipulò convenzioni,organizzò le prenotazioni e concesse a tutti i sociun contributo economico pari al 65% del costo diun soggiorno di due settimane, al quale se ne ag-giungeva uno ulteriore del 35% relativo al costodel soggiorno di ogni familiare a carico.

La maggioranza dei soci scelse, quale metapreferita, un’amena località montana in provinciadi Trento: Garniga, che divenne un simbolo delleiniziative sociali sviluppate dalla cooperativa.

Come in occasione dell’introduzione dellamensa, anche in questo caso, coloro che sceglie-vano di non andare in ferie videro il contributocome un’elargizione iniqua. Ci furono discussioni.L’accusa era che in questo modo si rompeva ilprincipio di uguaglianza tra i soci e che chi nonusufruiva del contributo, di fatto, subiva una in-giustificata penalizzazione economica.

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In realtà chi protestava non accettava l’idea didover fare una scelta anche di tipo culturale; l’ideacioè che tra i valori della cooperazione c’era anchequello di far crescere la consapevolezza nei pro-pri diritti di persona. Oltre all’introduzione delcontributo ferie, furono organizzate numerose gi-te sociali. Le più gettonate (dati i tempi a forte ca-ratterizzazione ideologica) erano le gite in URSS.Queste ultime si facevano già ai tempi della presi-denza di Foielli (testimonianza di Marziano Man-ghi: «Dopo uno di questi viaggi-esperienza l’expresidente Foielli decise di non rinnovare più latessera del PCI. La decisione creò molti problemi,solo dopo numerose insistenze e pressioni, eglidecise di soprassedere. La cosa, dati i tempi, rima-se comunque rigorosamente segreta»).

Successivamente seguirono altre numerose gi-te in località ad alto impatto culturale: Parigi, Vien-na, Londra.

La partecipazione dei soci era sempre moltoalta, grazie anche alle condizioni particolarmentefavorevoli praticate dalla cooperativa.

Da un colloquio con Enrichetta Benassi (Riche), Maria Vittoria Carretti (Cicci),

Mariella Crotti e Marziano Manghi.

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daA fianco

Tra le varie attività sociali, laCocep e CM proposel’abbonamento per tutti isoci alla rivista settimanale«Giorni – Vie Nuove».Nella foto Davide Lajolo,direttore della rivista,durante l’incontro con ilettori nella sala assembleedella cooperativa.

Sopra

Estate 1977Il gruppo dei lavoratoriCoopsette in ferie a Garnigadi Trento. Le ferie socialinella storia di Coopsettehanno rappresentato unforte elemento diidentificazione e socialità.

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184 La parola unificazione, intendendo con ciò l’ipotesi di una fusione tra di-verse cooperative per ottenere una dimensione d’impresa che potesse com-petere sul mercato nazionale, la sentii pronunciare non appena venni elettopresidente della Cocep e CM. In questo mio nuovo ruolo, infatti, partecipaia diversi organismi provinciali della Federcoop. Tra questi c’era anchel’APCPL, l’Associazione provinciale cooperative produzione lavoro, al ver-tice della quale, come ho già detto, stava Amus Fontanesi.

Chi ha conosciuto bene Amus, chi ha letto i suoi libri, i suoi discorsi, chiconosce le sue battaglie, sa come fosse fortemente convinto, già all’iniziodegli anni Settanta, della necessità di un processo di aggregazione tra le co-operative. Nel suo incarico di presidente dell’Associazione aveva indicatol’obiettivo strategico che prevedeva unificazioni per aree geografiche o percategorie produttive. Era sua convinzione, infatti, che unificare le coopera-tive non fosse solo un’inevitabile strategia di sopravvivenza, ma la condi-zione necessaria per realizzare nuove politiche economiche che mettesseroil movimento cooperativo al centro dello sviluppo. Insomma, per lui conl’unificazione si sviluppava non solo la dimensione, ma anche la qualità del-l’impresa e di conseguenza aumentava il peso politico della Lega delle Co-operative a livello nazionale; senza dimenticare che così si garantiva meglioil lavoro e che in un’impresa più forte i soci avrebbero contato di più.

Del resto i processi di unificazione non erano nuovi nel reggiano. Unifi-care diverse realtà ha rappresentato una costante nella storia del Movimen-to Cooperativo.

Unirsi in questa nostra terra era nella logica delle cose, nel nostro dna. L’i-dea cooperativa stessa nasce dalla disponibilità naturale a unire le forze. Co-sì non mi sorpresi più di tanto di fronte a ipotesi di questo genere: fare mas-sa critica, essere più competitivi, attivare economie di scala erano obiettiviche ci appartenevano. Nel programma provinciale di ristrutturazione dellecooperative di produzione e lavoro vi era, fra altre, l’ipotesi di unificare le co-operative che avevano sede nei comuni di Cadelbosco Sopra, Campegine,Castelnovo Sotto, Poviglio e Sant’Ilario d’Enza.

In questa parte della pianura reggiana c’erano realtà cooperative mol-to solide sul piano patrimoniale, per cui diventava problematico convin-cere aziende che andavano bene a sciogliersi per fare un passo del genere.Ma la ventata di rinnovamento e di idealità della fine degli anni Sessanta,la consapevolezza di far parte di un Movimento Cooperativo che avevafinalità e obiettivi molto importanti e, non ultimi, gli argomenti che datempo lo stesso Fontanesi, insieme a Livio Spaggiari, autorevole presi-

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185dente del CCPL, sviluppava in Associazione, fa-vorirono questi processi.

Chi spingeva molto per l’unificazione era anchePietro Iotti, presidente della Cooperativa Muratoridi Sant’Ilario. Probabilmente la sua esperienza poli-tica e amministrativa gli dava maggiore sensibilitàstrategica e quindi maggiore consapevolezza del-l’urgenza di avviare nuovi processi politici ed eco-nomici, come quello di unificare diverse cooperati-ve. Senza dimenticare che nelle altre cooperative co-involte, se proprio non si poteva usare la parolaentusiasmo, perlomeno non si dimostrava ostilità.

Io, come dicevo prima, ero ai vertici della Cocepe CM da poco tempo. Ero giovane, affascinato daiprogetti che stavo vivendo e che mi stimolavano emi mettevano in discussione. Avvertivo meno di al-tri la necessità di avviare forti cambiamenti, perchéprocessi di innovazione e di qualificazione in Cocepe CM li avevamo già avviati da tempo e poi la mia an-cora scarsa esperienza imprenditoriale mi permet-teva sì di cogliere la valenza strategica di questo pro-getto unificatorio, ma non mi consentiva di fugare idubbi e le incognite che per me rimanevano ancoratanti. Gli altri presidenti coinvolti (in quella prima fa-se eravamo in sette, poi rimanemmo in sei) mostra-vano di comprendere l’urgenza strategica di mette-re mano a nuove sfide di qualità e di innovazione, perché il mondo stava cam-biando insieme all’impresa e questo obbligava tutti a ricercare risposte nuove.

Un giorno, ai primi del ’76, Fontanesi per l’Associazione e Spaggiari per ilCCPL, convocarono una riunione dei presidenti e vice presidenti delle sette co-operative, con all’ordine del giorno il progetto di unificazione. Alla fine della ri-unione decidemmo di avviare il processo unificatorio, nominando tre com-missioni di lavoro con il compito di approfondire i contenuti politici, gli asset-ti organizzativi e la struttura patrimoniale della nuova ipotetica cooperativa.

Convocai il Consiglio di Amministrazione e l’Assemblea dei soci di Cocepe CM, a cui invitai Fontanesi e Spaggiari per discutere i contenuti della proposta.

La discussione fu appassionata e alla fine sia il Consiglio di Amministrazio-ne che l’Assemblea diedero parere favorevole all’avvio dell’approfondimento.

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Maggio 1977Cinema Verdi di Sant’Ilariod’Enza. Il presidente DonatoFontanesi legge la relazioneintroduttiva alla primaAssemblea Generale diBilancio di Coopsette.

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La mia posizione in quell’occasione fu quella di aprire la discussione a tut-to campo, perché volevo fare uscire chiaramente l’orientamento dei nostri so-ci e capire se quella proposta era la soluzione giusta ai problemi che avevamo.

Alla fine dell’estate portammo in discussione, all’interno delle cooperati-ve, il documento programmatico preparato da una delle commissioni.

Si trattava di decidere se procedere e concretizzare il progetto o fermar-si e rinunciare. La decisione fu di andare avanti e realizzare l’integrazione del-le diverse realtà. Solo la Cooperativa Muratori di Campegine, dopo una lun-ga e sofferta discussione, decise di non aderire al progetto (entrerà solo qual-che anno più tardi).

Verso la fine del ’76, nella commissione che doveva valutare l’organiz-zazione della nuova cooperativa si presentò il problema degli assetti di ver-tice. Ero tranquillissimo perché non mi sentivo in campo. Non essendomai stato il ruolo una mia preoccupazione, vivendo con serenità questamia esperienza giovanile, me ne stavo tranquillo in attesa che si facesserodelle proposte, pronto a rientrare nei ranghi. Del resto il candidato natu-rale a presidente della nuova realtà per me era Iotti: per personalità, peresperienza politica e perché spingeva più di tutti per l’unificazione. In fon-do, era lui che si era impegnato per accelerare i lavori, lui che dimostravapiù ispirazione di altri. Invece, un giorno, a commissione convocata, pre-se la parola lo stesso Iotti e a sorpresa disse: «Il presidente della nuova co-operativa secondo me devi farlo tu», indicandomi.

Io cascai dalle nuvole. Non me lo aspettavo; fu un vero e proprio fulmi-ne a ciel sereno.

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Luglio 1978 Il primo Consiglio diAmministrazione elettocome Coopsette. Da sinistra a destra: OddinoBagnoli, Egidio Caleffi,Romualdo Paterlini, VittorioMora, Alessandro Carpi,Enzo Ferretti, DonatoFontanesi, OttavioCasamatti, Emidio Marmiroli,Sergio Landi, GiovanniPanciroli, la signora LidiaSerri, segretaria delConsiglio, e Savino Campioli.Erano assenti i consiglieriAlfredo Corsi, Luciano Luppie Luigi Menozzi.

«Ma voi siete pazzi – risposi, visto che anche gli altri condivisero la propo-sta, un po’ alterato e impreparato a un’ipotesi del genere – sono troppo giova-ne e non mi sento pronto ad assumere una responsabilità di questa portata.»

Una reazione così decisa era giustificata. Un conto era diventare presi-dente di Cocep e CM. Bene o male ci lavoravo da dieci anni, ci aveva lavora-to mio padre, era la cooperativa del mio paese e soprattutto conoscevo tuttie tutti mi conoscevano. Unificare tante cooperative tra loro era invece tut-t’altra cosa. Significava far nascere una nuova impresa, con problematichesociali e scelte imprenditoriali profondamente diverse rispetto alle realtà pre-cedenti, tutte da immaginare, definire e sperimentare.

Non si trattava più, come per Cocep e CM, di intervenire per innovare equalificare una realtà già ben definita e consolidata nei suoi rapporti col mer-cato. Entravano in gioco persone che non conoscevo, situazioni complicate,legittime aspettative, inquietudini e, forse, qualche malumore sopito qua e là,che a me certamente sfuggiva. Così, secco secco, risposi di no.

Ma le pressioni si fecero sentire subito. Iotti sosteneva che io avevo dimo-strato qualità nel gestire Cocep e CM, che avevo riorganizzato l’azienda, che ave-vo portato forti novità nel rapporto con i soci, senza contare che Cocep e CM eracomunque la cooperativa più forte e avanzata, quella più numerosa. Interven-nero anche Amus Fontanesi e Livio Spaggiari, che a questi argomenti aggiunse-ro la loro autorevolezza e la loro specchiata moralità, senza trascurare che alcu-ni presidenti delle sei cooperative (Jofre Davoli della Cadelbosco e Carlo Toschidella Braccianti di Campegine) stavano per andare in pensione e quindi usciva-no da ogni ipotesi di assunzione di responsabilità nella nuova realtà.

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Ottavio Casamatti della Coperfer ed Egidio Caleffi della Poviglio, possi-bili candidati, erano giovani e avevano poca esperienza come me.

Insomma, per un motivo o per l’altro, alla fine della partita io rimasi conil cerino in mano, con l’aggravante (si fa per dire) che il Consiglio di Ammi-nistrazione della Cocep vedeva con favore, per non dire con forte simpatia,l’ipotesi che a guidare l’intero processo di integrazione fosse il sottoscritto.

Così tornai sui miei passi e finii per accettare. Avevo la consapevo-lezza dei miei limiti, in più la serenità di sapere di poter ritornare senzadrammi a un ruolo tecnico, se non fossi stato all’altezza del compito.

La mia prima preoccupazione fu di evitare ogni tipo di incomprensio-ne, gelosia o litigio. La seconda di rispettare la storia dei soci di ogni co-operativa, così che tutti avessero la sensazione che nella nuova realtà nullaera cambiato nei rapporti socio-cooperativa. A questo proposito, per nonmettere in discussione rapporti radicati e favorire il senso di appartenenzacollettivo, decidemmo di definire le nuove sezioni soci in modo che con-servassero la loro storica corrispondenza territoriale con le vecchie co-operative, riconoscendo loro una certa autonomia finanziaria nella gestio-ne delle attività sociali. In quella occasione fu deciso anche il delicato pro-blema della composizione del nuovo Consiglio di Amministrazione,rappresentativo di tutte le realtà precedenti.

Pietro Iotti fu indicato quale vice presidente, Egidio Caleffi quale re-sponsabile del servizio Personale e Soci e Ottavio Casamatti quale respon-sabile della Divisione Industriale.

Decidemmo anche il nome da dare alla nuova cooperativa. Coopsette,un’ipotesi emersa anche nei mesi precedenti, fu il nome scelto.

A me piaceva molto perché coniugava al richiamo banale alle sette co-operative originariamente coinvolte nel progetto unificatorio, un marchio ori-ginale facile da memorizzare. Mi piaceva molto anche perché evocava forte, inmodo più implicito, il senso della nostra idealità e delle nostre radici. Infatti, ilterritorio nel quale le sette cooperative erano nate e si erano sviluppate in tan-ti anni di storia, era lo stesso che aveva vissuto la grande esperienza politico-sociale, conclusasi poi in tragedia, della famiglia dei sette fratelli Cervi.

A novembre si svolsero le assemblee formali nelle quali si decise la fusio-ne e si avviò il processo di integrazione organizzativa.

Col primo di gennaio del 1977 nacque ufficialmente la nuova realtà:Coopsette.

Sul piano imprenditoriale ci organizzammo per divisioni produttive, conelevati livelli di autonomia commerciale e gestionale.

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La Coperfer, che produceva mobili e serra-menti per uffici, divenne la nostra Divisione Me-talmeccanica. La Divisione Strade nacque invecedalla fusione della Braccianti di Campegine con unsettore della Fratellanza di Cadelbosco Sopra. Ladivisione prefabbricati dal settore di Cocep e CM.La Divisione Marmette da un settore della Fratel-lanza. La Divisione Costruzioni, la più impegnati-va, unificò invece i settori edili presenti in quattrocooperative, vale a dire: Cadelbosco, Castelnovo,Poviglio e Sant’Ilario.

Fu, quest’ultimo processo, uno dei più impe-gnativi banchi di prova dell’intera operazione, per-ché unificare apparati che mai avevano lavorato in-sieme, far collaborare tecnici che non si conoscevano e che certamente ave-vano un loro autonomo stile professionale, nominare nuovi responsabili, espesso con ruoli diversi dalle esperienze precedenti, fu un’operazione difficile.

Infine fu affrontato il problema dei servizi, che per le nuove dimensioniche assumeva Coopsette, dovevano essere snelli, efficaci e immediatamenteoperativi. Anche in questo caso, come per la Divisione Costruzioni, si trat-tava di non creare tensioni, valorizzando le competenze dei vecchi segretariamministrativi e valutando l’organizzazione dei nuovi servizi in modo chenon venisse penalizzato nessuno.

Naturale che, in questa prima fase (ma poteva essere altrimenti?), Cocepe CM, in quanto azienda più grande e meglio strutturata nelle responsabilitàorganizzative, facesse la parte del leone. Ma, e questo fu un bel segno, non cifurono contestazioni, né polemiche e le decisioni furono sempre prese inmodo unanime. Ironicamente ogni tanto, in qualche area della cooperativa,ci si limitava a sostenere che era in atto, soprattutto sul piano sociale e cultu-rale, un processo di “cocepizzazione”.

In conclusione fu un’operazione difficile e faticosa. La nostra missioneera di mettere assieme tutti questi uomini e donne, tutte queste esperienze, inmodo armonico e produttivo. Furono centralizzati il magazzino costruzio-ni e l’ufficio acquisti, furono risolti molti problemi organizzativi. Si deciseche ogni divisione doveva individuare, nei rapporti col mercato, spazi di ini-ziativa peculiari, come fosse un’impresa autonoma, per evitare cali di tensio-ne nell’iniziativa imprenditoriale.

E devo dire che la cosa funzionò.

Una seduta del Consigliod’Amministrazione neiprimissimi anni Ottanta.A sinistra Amus Fontanesiche, in qualità di presidentedell’APCPL, ha promosso egestito, con competenza eautorevolezza, il processo diunificazione in Coopsette; alcentro il presidente DonatoFontanesi; a destra NedoBattini, prematuramentescomparso nel 1991,che ha ricoperto l’incarico di vice presidente dellaCooperativa dal 1981 al 1985e di amministratore delegatoall’area sociale dal 1985 al 1989.

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190 L’unificazione si realizzò in un periodo di profondo travaglio per i muratori.Le trasformazioni intervenute nel mondo del lavoro non stavano più pre-

miando, come nel passato, i lavoratori edili rispetto ai lavoratori degli altrisettori dell’economia.

I nuovi criteri dell’organizzazione del lavoro in edilizia stavano penaliz-zando la professionalità, formatasi in tanti anni, con processi sempre piùspinti di parcellizzazione e specializzazione.

Le forme di impresa si stavano modificando di conseguenza: nacqueroimprese specialistiche che lavoravano a cottimo, creando gravi problemi nelmercato del lavoro del settore.

In quel contesto, nei mesi successivi all’unificazione, si aprì un dibattito incooperativa nel settore edile, che mise il gruppo dirigente in forte difficoltà.

Fu una questione che toccò le nostre corde più sensibili, il nostro modo diagire e pensare in una cooperativa nella quale in qualche maniera, ogni giorno,ci si doveva confrontare con un quadro ideale di riferimento ben preciso, fuo-ri dal quale c’era lo smarrimento politico. Dunque tra gli edili venne posta laquestione delle ore di lavoro: farne otto o nove?

Non era una questione secondaria, tutt’altro. Si manifestò una divisioneprofonda. Una parte dei soci e lavoratori intendeva difendere la conquista del-le 40 ore settimanali e puntare sull’aumento dell’occupazione. Un’altra parte, al-trettanto consistente, riteneva che occorresse aumentare l’orario per integrareun salario inadeguato ai bisogni e non concorrenziale sul mercato del lavoro.

Anche durante questo dibattito, però, la realtà era in forte movimento:cambiavano regole, prassi e comportamenti. Era sempre più evidente che leimprese di cottimisti, via via più presenti in cantiere e sempre più competiti-ve, da un lato alleviavano il lavoro ai nostri dipendenti (quello seriale, ripeti-tivo e stancante), dall’altro, però, col passare dei mesi, riducevano i loro spa-zi professionali. Il nostro muratore diventava sempre più spesso una figuradi contorno, una specie di organizzatore sui generis o, se si preferisce, un con-trollore del lavoro altrui, schiacciato tra il ruolo del geometra, quello del ca-pocantiere e quello dell’ impresa di cottimisti. Per i più anziani era una feritaal loro orgoglio d’essere muratore, quell’antico mestiere che unificava tanteabilità. Si sentivano seriamente minacciati e mugugnavano.

Ma anche tra i più giovani c’era fibrillazione. S’accorsero ben presto cheil cottimista guadagnava più di loro. Faceva più fatica, è vero, faceva un la-voro professionalmente più povero, meno sicuro, ma guadagnava molto dipiù. Senza parlare poi del mestiere del metalmeccanico, attività antagonistaper eccellenza a quella del muratore (e che nella nostra cooperativa era pre-sente), che acquisiva maggior rilievo perché le nuove esigenze dell’industria

Nella pagina a fianco

Fino alla fine degli anniSettanta le lavorazioni edilivenivano interamente svoltedai soci della cooperativa.In seguito cottimismo eparcellizzazione del processoproduttivo metterannoa dura prova l’identità dellevecchie professionalità edili.

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191elevavano professionalmente l’operaio, che di-ventava sempre più specializzato e sempre menogenerico.

Essere muratore non era più redditizio e affa-scinante come un tempo, non era più prestigioso,non ti garantiva più una forte professionalità, noncostituiva più un richiamo per i giovani. Morale:cominciarono le prime defezioni, soprattutto fragli operai comuni o specializzati, perché per i ca-pisquadra o i capicantiere la situazione era menopenalizzante. Alcuni fra i più giovani dettero vitaa società di cottimo con l’intenzione di produrre ilmassimo sforzo per un po’ di anni e poi conclu-dere la loro esperienza lavorativa come lavoratoridipendenti. I più vecchi preferirono invece pun-tare alla pensione. Altri ancora chiedevano di es-sere formati a un nuovo mestiere, perché intrave-devano nel loro futuro solo delle difficoltà.

Dal nostro punto di vista di gruppo dirigente,questo fu un problema grave. Io lo vivevo comeuna sconfitta. Da un lato sentivo l’obbligo di tro-vare una soluzione a questo fenomeno, di ridare,cioè, dignità, professionalità e salari adeguati agliedili, dall’altro misuravo tutta la mia impotenza,perché non riuscivo a escogitare nulla che riuscissea invertire un processo che si dimostrava irreversi-bile. Insomma, l’unificazione in Coopsette, studia-ta in ogni dettaglio, analizzata, spiegata con tutta lapazienza che occorreva e che stava dando, tra l’al-tro, buoni risultati economici, veniva investita daun fenomeno che modificava la nostra realtà so-ciale, che impoveriva l’entusiasmo dei soci edili concui si era partiti e feriva chi, come me, vi aveva la-vorato con passione. Era sempre più chiaro che sitrattava di un processo inevitabile di cambiamentoanche del corpo sociale della cooperativa. Io peròcontinuavo a sentirmi a disagio, se non altro perchéil mio ruolo mi imponeva di seguire un percorsoche non andava nella direzione da noi desiderata.

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192 Nei due anni trascorsi come presidente di Cocep e CM, come ho giàdetto, avevo cercato di sopperire alle mie carenze imprenditoriali fre-quentando corsi di formazione manageriale. In uno di questi avevo co-nosciuto un professore di Bologna che insegnava all’università di Pado-va, al Cuoa per la precisione (Centro universitario organizzazione azien-dale), che mi colpì per la semplicità con cui spiegava temi complessi e peril suo entusiasmo.

Era l’ingegner Giorgio Gottardi. Lo contattai, gli chiesi di venire a fareformazione in cooperativa. La simpatia, tra di noi, crebbe reciprocamente.Trovammo positivo lavorare insieme e così fu deciso di rendere più stabile ilsuo rapporto di collaborazione con un’assunzione.

Gottardi, senza alcun dubbio, rappresentò un forte elemento di stimoloper la nostra impresa. Fece parte a pieno titolo della nostra direzione come re-sponsabile marketing; allora in cooperativa il marketing era una disciplina po-co conosciuta e poco praticata. Questa inesperienza, però, non rappresentòun limite. Anzi, in quella fase, uno dei nostri punti di forza consisteva nell’as-soluta consapevolezza dei nostri limiti, nella mancanza di timore nel cercaredi imparare. Avevamo consapevolezza delle esperienze positive sviluppate si-no a quel momento e del patrimonio professionale accumulato, ma sapevamoanche che non erano sufficienti a garantirci ulteriore sviluppo e nuovi succes-si: perciò dovevamo aprirci alle nuove sfide che il mercato ci proponeva senzapaure. Organizzavamo corsi interni, senza porre freni a chi veniva a insegnar-ci, anche se ci domandavamo sempre se queste teorie sulla corretta gestioneimprenditoriale erano coerenti con i nostri principi. Semplicemente, voleva-mo che la cooperativa facesse bene il proprio mestiere: che crescesse, si con-solidasse e desse lavoro al maggior numero di persone possibile.

L’ingresso di Gottardi non fu un caso isolato né il frutto di una scelta epi-sodica. C’era la consapevolezza che per aprirsi al nuovo, per ampliare e qua-lificare la cultura di Coopsette avevamo bisogno anche di apporti di espe-rienze maturate fuori dal nostro contesto sociale e imprenditoriale.

Un giorno Gottardi mi disse: «nella prossima Direzione sarebbe giusto ap-profondire il ruolo del marketing in Coopsette; ritieni sia opportuno affron-tarlo partendo dal marketing operativo o dal marketing strategico?» Per me eper gran parte della direzione erano termini con cui avevamo ancora poca con-fidenza. Risi di gusto e naturalmente mi feci spiegare le diverse implicazioni.

Questo episodio si inseriva in un processo di grande portata.Nonostante i nostri limiti iniziali Coopsette cominciò a cambiare pelle.

Passammo da un orientamento al prodotto a un orientamento al mercato.Prima si pensava soprattutto a qualificare i prodotti che fabbricavamo e poi,

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in seguito, cercavamo di venderli. Per gli appalti pubblici ci affidavamo inte-ramente ai consorzi.

Cominciammo a capire che per la nostra dimensione d’impresa non po-tevamo più delegare ad altri il rapporto con il mercato. Iniziammo a fare ana-lisi, previsioni, per capire i bisogni e le domande dei mercati di nostro inte-resse, per calibrare le nostre proposte sia in termini di prodotti che di servizi.Continuammo a collaborare con i consorzi, ma con un’attenzione nuova an-che rispetto agli appalti pubblici.

In quel nuovo clima, agli inizi degli anni Ottanta partecipai a un corsomolto importante di pianificazione strategica, alla Bocconi di Milano, delladurata di 40 giorni. Anche in quel caso mi si aprì un nuovo mondo. Ascol-tai grandi studiosi dei comportamenti delle imprese come Galbraith, An-soff, Porter. Mi insegnarono un approccio più razionale all’analisi gestiona-le. Seguendo l’insegnamento di Cartesio, l’azienda diventava un tutto com-posito e articolato che poteva essere tenuto sotto controllo solosuddividendola e analizzandola nelle sue unità elementari. Imparai, insiemealle tecniche di analisi strategica, a ipotizzare scenari e a leggere la comples-sità dei mercati attraverso le specificità delle singole aree d’affari.

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Anno 1984La Divisione Prefabbricatirealizza il complessofieristico di Mancasalea Reggio Emilia.

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La svolta imprenditoriale: orientamento al mercato

Il mio entusiasmo per queste scoperte contagiava anche gli altri. Orga-nizzammo corsi di formazione per i gruppi dirigenti, ma non solo per loro,per trasferire questi nuovi metodi d’analisi. Volevamo sviluppare le cono-scenze, allargare la cultura d’impresa a tutti i soci. Come logica conseguenzadecidemmo di fare un il primo vero Piano triennale di Coopsette. Redigereil Piano non fu un atto burocratico. Darsi degli obiettivi in ogni area di atti-vità rappresentò una sfida per tutti, soprattutto sul piano psicologico. Fare unprogramma economico a così lunga scadenza significava non essere certi dirispettare gli obiettivi, perché l’ipotizzata evoluzione del mercato non era si-cura, quindi il rischio di “sbagliare” era molto alto. Pianificare significavamettersi in gioco, come singoli e come azienda, entrare nella dimensione del-la responsabilità individuale.

Il processo di pianificazione rappresentò anche uno dei maggiori mo-menti di coinvolgimento di tutti i soci, perché questo per noi era un obietti-vo prioritario. D’altra parte, non ci può essere un ruolo vero della proprietàse questa non si misura con i temi della pianificazione strategica.

Per Coopsette, all’epoca, furono passi giganteschi e se oggi guardiamo alpresente e al futuro con ottimismo, possiamo affermare che una parte del me-rito è da attribuire a quelle prime esperienze e alla corretta impostazione di allora.

Inevitabilmente, acquisire nuove informazioni, nuove competenze,nuovi strumenti d’analisi del mercato, portava con sé anche la necessità diaggiornare il nostro ruolo nella società, la nostra missione aziendale. Funaturale che Coopsette si ponesse l’obiettivo di non essere marginale neisettori economici in cui operava: da un lato c’era l’orgoglio di trovarsi adaver costruito un’azienda di tutto rispetto nel panorama nazionale, ma dal-l’altro c’era la consapevolezza che, per garantirci un futuro, bisognava con-tinuare sulla strada della qualificazione ed era impossibile qualsiasi ritor-no al passato.

Significava che in ogni segmento di mercato in cui operavamo doveva-mo essere tra i primi per dimensione e qualità, perché se, al contrario, ci fos-simo trovati a competere su segmenti marginali del mercato, la nostra natu-ra di azienda strutturata ci avrebbe condannati all’insuccesso.

In quest’ottica fu ovvio porsi l’obiettivo di andare oltre l’attività del purocostruttore.

Di qui la nuova strategia di Coopsette: nuove vie imprenditoriali, nuoveforme di crescita culturale. Il nostro motto era: uscire dalla mischia, posizio-narci su mercati in cui venissero riconosciute e apprezzate le capacità proget-tuali e l’affidabilità delle nostre proposte e, di conseguenza, misurarci con con-correnti che avessero la nostra stessa struttura d’impresa.

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Non fui io a incontrare Coopsette, ma Coop-sette a incontrare me. Eravamo sul finire degli an-ni Settanta. A quel tempo insegnavo organizza-zione e gestione d’impresa presso lo Ierscoop e,tra i miei allievi, c’era Donato Fontanesi.

Ci conoscemmo e ci stimammo. Era un ragaz-zo molto curioso; ragazzo perché a quei tempi,ahimè, eravamo tutti ragazzi, e per questa sua in-telligenza faceva molte domande. Lo interessava-no in particolare i temi delle fusioni aziendali che,come in seguito capii, erano al centro delle suepreoccupazioni.

Da quell’esperienza si consolidò un’amicizia eun giorno mi invitò a Reggio Emilia per tenereuna serie di colloqui ai quadri di Coopsette su ar-gomenti economici del tipo: cos’è un budget, co-me si gestisce un bilancio e via elencando. Fu inseguito a quell’esperienza che nacque una colla-borazione che ci spinse, un po’ per una mia curio-sità e un po’ per una sua necessità, ad affinare econsolidare sempre di più i nostri rapporti.

Coopsette, allora, aveva un punto di forza e unpunto di debolezza. Il primo era il suo personaletecnico: gente molto brava, ferrata, capace di ri-solvere i problemi di loro competenza. Il secon-do, invece, era la totale inesperienza nella gestionedel capitale. Io mi interessai in particolare a questosecondo punto, cercando di costruire le premesseper realizzare un’impresa nel senso moderno deltermine, tentando di far coincidere la gestione delcapitale con la gestione dell’impresa.

Lavorai molto e in un clima di reciproca stima.Eravamo persone di esperienza e cultura diversa,eppure riscontrai sempre rispetto, umanità, ami-cizia, tolleranza e curiosità.

Nel tempo, un po’ per la mia disponibilità e unpo’ per le situazioni che s’erano create durante lanostra collaborazione, mi fu proposta l’assunzio-

ne diretta. Avendo disponibilità e una forte spin-ta ad approfondire dall’interno questo rapportocon Coopsette, accettai. Mi trasferii a ReggioEmilia e iniziai a lavorare a tempo pieno.

Mi sono occupato di tantissime cose. Elencarleadesso mi è impossibile. Una delle ultime, e cherammento molto bene, fu il mercato; per cui di-venni responsabile marketing. La prima domandache mi posi era: faccio marketing in senso moder-no o è più opportuno adeguarsi alle politiche com-merciali tipiche nel mondo cooperativo? La que-stione non era di lana caprina perché allora sul mer-cato degli appalti pubblici (a differenza dei mercatiprivati) il marketing non lo facevano le cooperativein quanto aziende, ma i Consorzi di Produzione eLavoro. In pratica Coopsette non conosceva que-sto mercato perché delegando, sostanzialmente siadattava alle esigenze che le indicava il Consorzioall’atto di consegnarle un appalto. Io cercai di cam-biare le cose perché quel sistema frenava, a miomodo di vedere, le possibilità di sviluppo dell’im-presa e Fontanesi, lo rammento bene, mi fu moltovicino quando facevo questi ragionamenti. Anzi futra i primi a capirli e a sostenerli.

Un’altra conquista che facemmo insieme fuquella legata al controllo della catena del valore.In fondo io e Donato ci incontrammo proprio ungiorno in cui nei seminari della Ierscoop disegnaialla lavagna cos’era una catena di questo tipo.

Che dire ancora? Ho imparato molto da Co-opsette: come ingegnere e come uomo di cultu-ra tecnica. Credo anche di avere avuto la possi-bilità di poter vivere un’esperienza unica nel suogenere. Per esempio mi hanno molto colpito irapporti umani e la qualità delle persone; l’aper-tura culturale verso l’apprendimento e il rispettoper tutti, fossero questi semplici collaboratori osoci o dipendenti.

I ricordi dell’ingegner Giorgio Gottardi

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Non lo dico per piaggeria. Nonostante le tan-te altre esperienze fatte nel corso della mia vita,personalmente non ho mai visto da altre partiquesto riguardo per l’individuo-lavoratore.

Una persona che mi è particolarmente entratanel cuore e che vorrei ricordare è stata certamen-te Egidio Caleffi, un uomo di grande sensibilità eintelligenza cui fu attribuita la responsabilità dellagestione del personale. Era un uomo semplice,che non conosceva certo il significato di slogancome I care, eppure si fece carico di grandi re-sponsabilità. Aveva una cultura personale e unacapacità di capire i problemi che non ho mai tro-vato altrove. Un rappresentante vero della vecchiaguardia, un esempio credo, di cosa significhi farparte del mondo cooperativo e della sua cultura.Morì all’improvviso. Molti ritennero per superla-voro. Fu una grave perdita per tutti.

Un’altra cosa che mi ha sempre stupito, credo

significativa per capire come è nata e si è svilup-pata Coopsette, è la sua fama di cooperativa ideo-logica. In diversi, agli inizi almeno quando cono-scevo poco l’ambiente, mi parlavano di questaazienda come la più dura, la più inossidabile sulfronte dei principi e la meno disponibile sul fron-te dei compromessi. Eppure, dopo tanti anni, es-sa è diventata quella che è diventata: moderna,competitiva, agguerrita, tra le più avanzate d’Italia.Altre, che si vantavano di essere più laiche (e for-se più moderne) oggi sono scomparse.

Da Coopsette sono uscito dopo circa un paiod’anni. Non vi fu una motiviazione precisa, unacausa. No. Semplicemente il mio futuro non eraquello di diventare un dirigente cooperativo. Mene andai così, come ero arrivato. Con la differen-za che avevo accresciuto le mie conoscenze tec-niche e professionali, ma soprattutto avevo unsacco di amici in più.

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197Il nostro processo di qualificazione imprenditoriale è stato alimentato dauna pluralità di motivazioni.

C’era una scelta di fondo, che riguardava il ruolo della cooperativa nel-la società. Noi, che volevamo contribuire a costruire una società migliore,avevamo una tendenza naturale a qualificare costantemente le attività incui eravamo direttamente protagonisti: altrimenti quale sarebbe stato ilnostro apporto?

C’era una spinta oggettiva, rappresentata dalla necessità di tirarci fuori dauna competizione sui segmenti più poveri del mercato, che sarebbe stata per-dente, perché giocata su fattori come il basso costo del lavoro, un approcciodisinvolto alle normative fiscali, il mancato rispetto della sicurezza sul lavo-ro, la noncuranza nei confronti dell’ambiente di lavoro.

Inoltre, un’impresa cooperativa, se vuole essere coerente con i propri pre-supposti, non può che tendere a migliorare continuamente il lavoro dei pro-pri soci, dal punto di vista della professionalità, della “ricchezza” del lavoro,dei luoghi in cui viene esercitato.

Allo stesso modo volevamo essere protagonisti di una competizione ve-ra, perché non avevamo nè la volontà nè la possibilità di puntare su una sor-ta di “mercato protetto”, fondato sul riconoscimento della nostra diversitàsociale da parte degli enti pubblici.

A livello personale (ma penso di avere condiviso questo stato d’animocon molti altri soci) giocava anche molto l’orgoglio di poter dimostrare cheuna cooperativa, anche se non aveva il “padrone” e, anzi, proprio perché nonl’aveva, poteva competere ad armi pari con l’imprenditoria privata sui mer-cati più qualificati.

Tra gli altri imprenditori, ma in fondo anche a livello popolare, c’era un’i-dea delle cooperative come imprese un po’ sui generis, poco efficienti, assisti-te, oppure valide solo per i lavori più semplici e più umili. Un taxista romano,avendo saputo che ruolo ricoprivo, mi disse un giorno che a Roma, quandosi pensa di fare qualcosa alla buona, in modo un po’ pressapochista, si dice:“Facciamo una cooperativa!”

Questa diffidenza sulla capacità di fare impresa delle cooperative si av-vertiva in modo palpabile tra gli imprenditori privati. Anche in una piccolarealtà come Castelnovo Sotto, dove pure Coopsette è sempre stata un’a-zienda molto importante, gli imprenditori ci consideravano più dei funzio-nari che dei “colleghi”. Ricordo che un giorno venne in visita al Comune ilPrefetto: il Sindaco aveva invitato congiuntamente gli imprenditori per unapresentazione e in quell’occasione avvertii nettamente una sensazione di

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non riconoscimento della piena funzione imprenditoriale della cooperativa.Veniva riconosciuto il nostro ruolo, ma gli imprenditori “veri” evidente-mente riconducevano il nostro successo a fattori extra-economici, al rap-porto con la politica e con gli enti pubblici.

Come ho detto, nel processo di qualificazione avvertivo il senso di unasfida, per dimostrare che un’impresa collettiva, fondata sulle persone, pote-va fare come e meglio di una società di capitali o di un’impresa familiare. Lastoria, fino ad ora, ci ha dato ragione. La nostra intelligenza collettiva ha rap-presentato, come si dice in gergo, un punto di forza su cui contare. Qualcu-no pensa che siamo stati bravi nonostante siamo una cooperativa: noi rite-niamo di avere vinto molte sfide proprio perché siamo una cooperativa.

Rispetto a dieci o quindici anni fa, oggi il giudizio è apparentemente ca-povolto. Prima per alcuni eravamo una cooperativa, ma non una vera im-presa. Oggi i diffidenti di allora ci considerano un’impresa di successo, manon una vera cooperativa.

Il capovolgimento è solo apparente. In realtà si vuole affermare lo stessoconcetto: la realtà impresa e la realtà cooperativa non possono stare insieme,o si è l’una o si è l’altra. È esattamente contro questa valutazione, contro que-sto pregiudizio che Coopsette si è battuta in tutta la sua storia. Noi vogliamoessere una moderna impresa cooperativa, che compete sul libero mercato eche sa mantenere fede ai suoi valori e alla sua missione sociale.

Ho fatto una lunga digressione, ma le scelte imprenditoriali che abbiamocompiuto per qualificare tutti i settori di attività non possono essere com-prese fino in fondo senza cogliere anche la tensione ideale che ci animava.

Il punto di partenza della nostra ricerca può essere individuato nel Piano

Giugno 1980Presentazione, alla retedi vendita, di due nuoviprodotti del SettoreArredamenti: la pareteattrezzata e la seriedirezionale.

Anni 1986-1987Realizzazione di un impiantopolifunzionaleper la manutenzionee la pulizia dei treni ad altavelocità nello scalo di Roma-San Lorenzo. Questoimportante lavoro per le FSha sancito l’ingressodi Coopsette nel mercatodelle grandi opereinfrastrutturali di interessenazionale.

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Triennale dell’81. Già in precedenza avevamo pro-dotto documenti pianificatori, ma, come ho già ri-cordato, per la prima volta Coopsette si misuravain modo organico e consapevole con la pianifica-zione delle proprie attività.

Avevamo acquisito gli elementi di base di unamoderna gestione d’azienda e sentivamo il biso-gno di tracciare degli obiettivi di medio periodo,per proiettare la cooperativa verso traguardi diforte qualificazione. Tutte le aree della cooperati-va furono chiamate a misurarsi con quell’obietti-vo, mettendo in campo le energie migliori. Laspinta di fondo impressa allora ha segnato la no-stra azienda, ci ha dato un metodo, un modo di guardare allo sviluppo.

In un momento come questo, quando ci si guarda indietro e si ha l’oppor-tunità di compiere un bilancio, ci rendiamo conto di quanti passi avanti ab-biamo compiuto in tutti i campi. I settori degli Infissi (Teleya), dell’Arreda-mento per Ufficio (Methis), delle Strutture Prefabbricate, dell’ArmamentoFerroviario, le stesse Costruzioni non solo hanno retto la sfida dei tempi, masono oggi inseriti sui segmenti più evoluti dei loro mercati di riferimento.

Ogni settore ha una storia a sè, ma in comune c’è stata una volontà e una ca-pacità di cambiare, di aggiornarsi continuamente che non è mai venuta menoe che negli ultimi anni, passata la grande crisi, si è espressa ai livelli più elevati.

Ma per raggiungere questo risultato oggi investiamo oltre diecimila orel’anno in formazione professionale. Una scelta fatta perché abbiamo capitoche, al di là di ogni retorica, il nostro capitale è rappresentato innanzituttodagli uomini e dalle donne che lavorano in azienda,dalla loro professionali-tà. Sono loro infatti che ci danno quelle garanzie che ci permettono di sentirciattrezzati per le nuove sfide. Loro che ci hanno consentito di essere leadernel mercato dei progetti complessi.

Anni 1991-1992Un’opera prestigiosa per ilprocessodi qualificazione dellacooperativa: la realizzazionedella sede regionale Seatdi Ancona.

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200 Il perseguimento di una costante strategia di qualificazione ci ha porta-to ad aumentare margini e volumi attraverso processi di integrazione a mon-te e a valle delle nostre attività tradizionali. Questi risultati sono stati ottenutiaggregando alla nostra attività nuovi segmenti della “catena del valore”, cioèdella sequenza delle componenti che contribuiscono a definire il valore fi-nale di un prodotto o di un servizio per il cliente. Queste considerazioni val-gono per tutte le nostre attività, ma in particolar modo per le iniziative svi-luppate direttamente dalla cooperativa sul mercato dei grandi progetti. Seprendiamo ad esempio un centro commerciale, noi sappiamo che il primoelemento che genera valore è dato dall’area sulla quale andrà costruito. Se-guiranno, poi, la progettazione urbanistica e architettonica, la qualità e l’ef-ficienza della costruzione, la progettazione finanziaria, il piano di mer-chandising e la gestione dell’intervento a regime. Questo, in modo moltosommario, è un esempio della catena del valore tipica di un mercato nel qua-le è impegnata da tempo la nostra cooperativa.

I diversi soggetti imprenditoriali che operano su questi mercati scelgo-no, spesso in base alle esperienze maturate nel tempo, di collocarsi su quel-le parti della catena del valore nelle quali esprimono meglio le loro compe-tenze distintive e i loro punti di forza.

Non sempre è possibile ampliare la catena del valore, perché vi sono for-ti barriere all’ingresso in nuove attività: sarebbe quindi sbagliato un ap-proccio “ideologico” alla catena del valore, come se sempre e comunque sidovesse tentare di ampliarla.

Coprire una parte più ampia della catena del valore non rappresentauna garanzia automatica di successo, perché poi occorre dimostrare, nelconcreto, di essere capaci di gestire le varie fasi ottimizzandone i risultatieconomici, ma in ogni caso allarga il campo dell’attività d’impresa, aprenuove potenzialità.

Ponemmo la nostra attenzione verso i mercati dove si esprimevano bi-sogni complessi fin dai primi anni dell’unificazione.

Vi era in noi la convinzione che su questi mercati avremmo potuto espri-mere meglio le nostre strategie di differenziazione dai nostri competitori.

In quel periodo, per sviluppare grandi interventi ci concentravamo,prima di tutto, sulla necessità di compiere un’analisi dei bisogni espressidal territorio, di verificare le potenzialità economiche dell’iniziativa, di ac-quistare il terreno ed elaborare un progetto che, partendo dalla pianifica-zione definita dagli enti pubblici, sapesse rispondere alle esigenze cheemergevano dal mercato.

La catena del valore e il mercato dei grandi progetti

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La catena del valore e il mercato dei grandi progetti

Come si può ben vedere, in quel momento la nostra azione copriva solouna parte della “catena”.

Il nostro primo intervento (un’area per insediamenti industriali) partìquindi dall’analisi del mercato e dalla verifica dell’adeguatezza dell’area in-dividuata. I riscontri furono positivi e quindi procedemmo con la proget-tazione architettonica e finanziaria. Il passo successivo fu trovare un’in-tesa con le associazioni di categoria interessate e con i Comuni della zona,oltre che, naturalmente, con gli stessi artigiani che dovevano diventare no-stri futuri acquirenti: alla fine realizzammo e consegnammo l’insedia-mento chiavi in mano.

I nostri primi interventi con questa filosofia d’impresa furono sviluppa-ti ad Alessandria e a Novi Ligure, ottenendo risultati positivi.

Da quelle esperienze decollò un nostro nuovo modo di stare nel merca-to. A quei primi insediamenti artigianali fecero seguito i parcheggi in strut-tura a pagamento (per esempio gli interventi di Portofino e Desenzano),che valutammo come un bisogno emergente delle grandi città e delle loca-lità turistiche. Su questo segmento di mercato presidiammo tutte le fasi del-la catena del valore, arrivando fino alla gestione del servizio.

Contemporaneamente individuammo un’altra occasione d’iniziativa nel-l’esigenza, ormai non più procrastinabile, di adeguare la rete commercialedistributiva agli standard europei, un segmento di mercato interessante conuna domanda potenziale molto forte, vista l’arretratezza del nostro paesein questo campo. Fu un’intuizione molto felice, che ci ha portato, in un de-cennio, a diventare una delle aziende leader per quanto riguarda la promo-zione dei centri commerciali e delle attività connesse. Iniziammo facendo-ci promotori della realizzazione di centri commerciali semplici, ma le no-stre proposte divennero rapidamente sempre più evolute e integrate, perarrivare, infine, ai grandi progetti di riconversione urbana in corso a Geno-va, che rappresentano la nostra realtà odierna.

Andiamo con ordine. Dopo i due insediamenti di Alessandria e Novi edopo i parcheggi, entrammo, appunto, nel mondo dei centri commerciali.La prima occasione ci si presentò a Torino. Il cliente potenziale era la CoopPiemonte, una cooperativa di consumo che sapevamo avere in programmainvestimenti per sviluppare la sua attività. Individuammo un’area, adatta perrealizzarvi un centro commerciale, a Beinasco, un comune della cintura to-rinese. Ci accordammo con l’Antonelliana, una cooperativa edile locale, perrealizzare insieme l’intervento.

Acquistammo l’area, sviluppammo il progetto, realizzammo la costru-

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zione del centro commerciale, vendemmo l’Iper-mercato alla Coop Piemonte e i pochi negozi e uf-fici restanti ad altri operatori economici privati.

Un’altra esperienza importante, che ci permisedi fare un grosso passo in avanti nel controllo del-la catena del valore, fu nell’89 quella di Gruglia-sco, anch’esso comune della cintura torinese.

Realizzammo, assieme all’Antonelliana,100.000 mq di struttura commerciale: dall’idea-zione alla vendita dell’ipermercato, mentre per inegozi che insistevano nella “galleria”, vendem-mo i muri a una società francese di investimentispecializzata nella gestione, la Trema, che gestì lacommercializzazione e i contratti di affitto dei ne-gozi stessi. Comprendemmo solo successiva-mente quale opportunità avevamo perso. Era in-fatti in quella specifica parte della catena del valo-

re che si ottenevano i margini più interessanti.A quell’esperienza seguì, nel ’90, la promozione del centro commercia-

le Virgilio, a sud di Mantova, dove intervenimmo in accordo con CoopNordest; a questo intervento, nel 1996 fece seguito, nella zona nord dellastessa città, la costruzione di un altro centro commerciale in località Boc-cabusa. In quest’ultimo caso però, anche a causa della situazione di crisi eco-nomica esistente, incontrammo difficoltà nell’individuare un investitore cheacquistasse tutti gli immobili. Nordest era interessata unicamente all’Iper-mercato. Così per la prima volta, sulla base dell’esperienza di Grugliasco,mantenemmo la proprietà della galleria, progettammo gli spazi commer-ciali e gestimmo il centro, concordando con i commercianti gli affitti. Ave-vamo deciso che l’investimento andava fatto, anche se non avessimo trova-to investitori interessati all’acquisto: in questo caso la struttura sarebbe en-trata nel patrimonio Coopsette, perchè ritenevamo gli affitti remuneratividell’investimento effettuato. Da un punto di vista professionale e culturale,per la prima volta, maturammo direttamente l’esperienza per progettare egestire un piano di merchandising e la direzione operativa di un centro com-merciale. Programmando il finanziamento dell’iniziativa e decidendo di ri-schiare sulla gestione, decidemmo di impegnare Coopsette nel presidio di al-tri importanti segmenti (tra i più impegnativi e rischiosi e quindi tra i più re-munerativi) della catena del valore.

Inizio anni NovantaGalleria del centrocommerciale “Le Gru”di Grugliasco (TO).

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Il risultato non era scontato, bisognava dimostrare di saper fare beneun’attività per noi completamente nuova. Fu un successo, tanto più che al-la fine entrammo anche in contatto con una società anglo-olandese, laSchroeder, che acquistò tutto l’intervento.

Mi rendo conto che gli esempi fatti fino ad ora riguardano soprattuttocentri commerciali. Non vorrei apparisse che l’iniziativa dei progetti com-plessi di Coopsette si indirizzi solo su questo mercato, che venissimo iden-tificati come specialisti dei centri commerciali, perché non vi sarebbe nulladi più sbagliato.

Già da tempo nelle nostre iniziative, oltre ai centri commerciali, trovanospazio iniziative economiche indirizzate a soddisfare altri bisogni: dai centri di-rezionali (uffici e residenze) agli edifici per il tempo libero e per l’intratteni-mento, dagli insediamenti per la logistica alle aree espositive, artigianali, indu-striali, dagli interventi per pubblici servizi alle attività alberghiere.

In sintesi, si può affermare che noi ci siamo specializzati non su singoli“prodotti”, ma nel recupero di aree urbane da dismettere e nella progetta-zione e realizzazione di nuovi grandi insediamenti urbanistici. In queste areedi mercato la nostra missione è contemperare i bisogni espressi dalle istitu-zioni e dalle comunità con gli interessi degli operatori economici e finan-ziari. Nella nostra lunga esperienza, diverse volte gli amministratori pubbli-ci ci hanno prospettato esigenze che non trovavano una corrispondenza sulmercato; in quei casi, evidentemente, non c’erano le condizioni per proce-dere. Tante volte è accaduto il contrario: le proposte degli operatori econo-mici non erano ritenute utili o compatibili con la pianificazione territoriale.

Nel corso degli anni ci siamo così specializzati in questo “mestiere”: met-tere in contatto e in sintonia soggetti che a volte non si parlano o non si co-noscono; mettere in campo un’idea che soddisfi le esigenze di tutti gli atto-ri; sostenerla trasformandola in un progetto praticabile e, allo stesso tempo,di elevato profilo.

Ci siamo specializzati in procedure, perché l’Italia è un paese dove le pro-cedure burocratiche sono importanti, dove occorrono, per raggiungere unrisultato, tanti timbri e infinite autorizzazioni.

In un’ottica del genere è evidente che il risultato economico per Coop-sette non dipende dalla specificità dell’oggetto che viene realizzato, ma dal-la capacità di arrivare in tempi certi alla costruzione finale, la cui natura, aquesto punto, è meno rilevante rispetto al controllo dell’intero processo chel’ha preceduta. Per questo possiamo ritenerci specialisti nella gestione diprogetti e di processi complessi.

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Non so se sono riuscito a dare un’idea dell’attività che svolgiamo in questomercato. Quello che vorrei sottolineare è che per avere successo occorrono inparticolare due caratteristiche: creatività e affidabilità. Ogni progetto, ogni ter-ritorio, ogni contesto sociale, ha caratteristiche peculiari e in ogni situazioneoccorre creatività imprenditoriale per arrivare alla sintesi degli interessi in cam-po. Ma la capacità di elaborare proposte è monca se non è accompagnata dauna totale credibilità nei confronti degli interlocutori.

Per non dare un’immagine sbagliata della nostra cooperativa, va anchedetto chiaramente che non siamo una finanziaria: noi rimaniamo a tutti glieffetti un’impresa, con una forte base produttiva. Questo ci permette di es-sere sul mercato con una nostra peculiarità rispetto ad altre imprese, anchestraniere, che hanno appunto una natura solo finanziaria. Siamo in grado diintervenire sulla qualità del prodotto in ogni sua fase, di proporre al merca-to un vero e proprio “prodotto Coopsette”, grazie alla integrazione tra tut-ti i settori produttivi della cooperativa e di garantire tempi certi di realizza-zione. Le altre imprese, invece, quelle che hanno solo natura finanziaria, nonsono in grado di presidiare tutto il processo.

La conferma della bontà della nostra formula imprenditoriale ci vieneproprio dal versante finanziario. Se all’inizio di questa nostra avventura ab-biamo dovuto utilizzare le risorse accumulate con il vecchio modo di fareimpresa (autofinanziando lo sviluppo), oggi le risorse economiche da im-pegnare per progetti così importanti non si possono ottenere senza part-nership finanziarie. Il fatto che molti istituti finanziari siano stati disponibi-li a sostenere e finanziare i nostri programmi e si candidino a farlo anche nelfuturo, dimostra la qualità dei nostri progetti e la credibilità delle scelte im-prenditoriali compiute.

Anno 2001Il Centro Divertimentirealizzato nell’ambitodel Progetto Fiumaraa Genova.

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La politica condotta da governi attenti solo al consenso, l’enorme svi-luppo del debito statale, l’insicurezza diffusa che aveva animato il cosiddet-to popolo dei Bot e, infine, un apparato burocratico farraginoso, antiecono-mico e quasi borbonico, avevano portato il nostro Paese, alla fine degli anniOttanta, fuori da qualsiasi corretta gestione economica. I nodi accumulatisiin tanti anni venivano al pettine. L’Italia prese consapevolezza così dell’esi-stenza nei suoi conti di un gigantesco buco, a cui fu chiamato a dare una ri-sposta il primo governo Amato, uno degli ultimi del centrosinistra storico,che produsse una manovra correttiva di quasi centomila miliardi.

Tanta urgenza, in quel turbolento inizio degli anni Novanta, non eradettata solo da motivi di politica interna. Nello stesso periodo, infatti, sidiscuteva del trattato di Maastricht, del superamento delle frontiere, del-la necessità di procedere con passi decisi verso la moneta unica europea.L’opportunità di compiere un salto nella politica di integrazione europeasi scontrava con la consapevolezza che un disegno così ambizioso mal siconciliava con una azienda-Paese a un passo dalla bancarotta, per cui si ri-schiava di mancare l’appuntamento storico-politico più importante dallafine della seconda guerra mondiale. Così, mentre il governo era alle presecon la rabbia dei sindacati e dei partiti di opposizione che mobilitarono ipropri iscritti (a dicembre ci fu una gigantesca manifestazione a Roma) eall’estero alcuni politici esprimevano forti perplessità di fronte al nostrodebito, alle imprese come Coopsette che avevano programmato gran par-te del loro sviluppo sui lavori pubblici, si disse che non c’erano più risor-se e che era inevitabile bloccare tutti gli investimenti in opere pubbliche in-frastrutturali.

Per noi fu una mazzata. Ci trovammo di colpo senza un quadro di rife-rimento col quale programmare il nostro futuro, con l’aggravante che lastretta sulla spesa pubblica aveva depresso anche i consumi privati, con unaconseguente contrazione dello stesso mercato privato delle costruzioni.Che fare allora?

A Coopsette, che sfiorava un fatturato di 500 miliardi con oltre 1300 di-pendenti, non rimase altra strada che impostare una politica difensiva, sia intermini occupazionali che patrimoniali, in attesa che la crisi economica e po-litica passasse il più in fretta possibile. Ma nel febbraio del ’92, come un ful-mine a ciel sereno, scattò l’operazione della Procura di Milano chiamata Ma-ni Pulite e, di fatto, si entrò nell’era di Tangentopoli.

Agli inizi sembrava un fatto marginale, l’arresto di un certo Mario Chie-sa amministratore delegato di un’opera pia milanese. Ma nel giro di pochis-

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simo tempo la nuvoletta bianca si trasformò in un tifone che travolse tutto etutti, in particolare il settore edile, che, già afflitto dalla crisi, si trovò ulte-riormente e pesantemente colpito.

Il mercato si bloccò del tutto e per Coopsette, come per tutte le altre impre-se di costruzioni, fu un dramma. Non sapere su quali appalti poter contare, nonavere un punto di riferimento, significava una sola cosa: navigare a vista.

Furono momenti difficili. In cooperativa si faceva un’assemblea al me-se per monitorare continuamente la situazione. La gente domandava preoc-cupata quali fossero le nostre prospettive. Il Consiglio si impegnò a resiste-re, definendo come obiettivo primario l’occupazione. Utilizzammo gli am-mortizzatori sociali e bloccammo il turn-over. Acquisimmo lavori ovunque,anche rischiosi (nel senso che non sempre avevamo garanzie di essere pa-gati) e poco adatti alla nostra struttura d’impresa, pur di far funzionare lamacchina al minimo. Alla fine della bufera, sei anni dopo, dagli oltre 1300 di-pendenti eravamo passati ad appena 800. Il dato che fotografa meglio la pe-santezza della crisi sta tutto qui. Il tessuto economico della cooperativa siera fortemente indebolito, era come se Coopsette avesse chiuso un ramo diattività che occupasse 500 persone.

Mani Pulite fu un processo politico-giudiziario che aveva il consenso dellastragrande maggioranza della popolazione. La gente avvertiva i grandi meritidei magistrati, la giustezza del loro agire per fermare un fenomeno corruttivoche aveva toccato i gangli vitali del Paese. Si comprendeva in sostanza che a que-sto punto, per fare davvero un salto di qualità come sistema Paese, occorrevaporre un freno alla corruzione nello Stato. Mani Pulite fu un processo che si svi-luppò perché la corruzione aveva raggiunto livelli patologici, insostenibili.

Sono convinto che questa opera di bonifica fu favorita anche dallo stes-so sistema economico, che non tollerava più una situazione opprimente einaccettabile. Ci furono anche forzature e ingiustizie, come nell’uso ecces-sivo della privazione della libertà personale. I grandi mezzi di informazionepoi, cavalcarono la deriva giustizialista, calpestando la privacy e i diritti del-le persone. Si sviluppò il fenomeno del blocco della firma, per cui in tutto ilPaese non c’era un solo amministratore o funzionario disposto a bandireuna gara d’appalto per paura di finire in carcere. Si procedette alla sistema-tica criminalizzazione della figura del costruttore che divenne, almeno perqualche mese (il tempo di scoprire che il problema era molto più diffuso), ilprototipo del corruttore.

E che dire poi della disinformazione con cui si trattavano vicende moltocomplesse e delicate. Si scriveva per esempio: quell’appalto è passato in pocotempo da 30 a 900 miliardi. Una formulazione che dava naturalmente la stu-

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ra alle fantasie popolari sulla corruzione, ma non si diceva invece che, a causadella politica governativa dei finanziamenti a pioggia per accontentare un po’tutti, l’unico modo per sbloccare lavori importanti era di finanziarli per stral-ci successivi. Il problema non era tanto un fantastico guadagno illecito, checerto non ci fu in quelle proporzioni, ma il fatto che le opere spesso non ri-spondevano alle esigenze della collettività, rappresentando semplicemente ilveicolo per procurare tangenti.

Insomma fu un terremoto che ci coinvolse pesantemente. Coopsette fuindagata come tutte le imprese del settore. Analizzarono nei dettagli ogni no-stro appalto, ogni commessa. Scattarono avvisi di garanzia. Ci furono rinviia giudizio a cui seguirono delle condanne e, anche, delle dolorose privazionidelle libertà personali.

Questi fatti crearono una situazione di disorientamento. Facemmo del-le riunioni tra i soci. Discutemmo e io potei ribadire sempre che Coopset-te non aveva corrotto nessuno, ma che a volte aveva dovuto subire situa-zioni prodotte da altri e che i nostri colleghi che erano finiti in carcere nonavevano mai tratto vantaggi personali da queste situazioni e, anzi, si eranoesposti a rischi personali per consentire il funzionamento dell’impresa e illavoro per i soci.

Eravamo tanto convinti di questo, che l’azienda non si costituì mai partelesa, pagò la difesa legale ai dipendenti coinvolti e versò loro regolarmente lostipendio.

Credo che la tesi originariamente sostenuta dalla Procura milanese dellacosiddetta concussione ambientale fosse fondata e che sia stata poi abban-donata per ragioni di politica giudiziaria (gli imprenditori, o parte di essi, insostanza, risultando in tale ipotesi vittime di concussione, non sarebbero ri-sultati colpevoli). E sono convinto che l’opzione, in alternativa seguita dallastessa Procura, e cioè quella evocante l’esistenza di un “sistema”, non scritto,ma pacificamente noto a tutti e presupposto da tutti, in cui l’intero ambiente,classe politica, dirigenti pubblici, imprese, fossero tutti attori consapevoli,ugualmente avvantaggiati dalla corruzione, fosse profondamente sbagliata.Innanzitutto perché non era vera (i risultati di bilancio di diverse imprese so-no a testimoniarlo) e poi perché metteva discutibilmente sullo stesso piano(quello paritario tra corruttore e corrotto) chi aveva strumenti di ricatto e chiera costretto a subire questi ricatti, non essendogli data alternativa per garan-tire il lavoro alle proprie imprese. E, a distanza di tanti anni, di tanto dolore edi tanta sofferenza, sono ancora convinto di questo.

Che dire ancora? Da quell’esperienza Coopsette è uscita profonda-mente mutata: nei rapporti interni, nell’organizzazione gestionale, nel-

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l’esperienza e soprattutto nella consapevolezza che la corruzione va com-battuta sempre, ma a tutti i livelli: a iniziare dalla classe politica, che deveelaborare un sistema di leggi adeguate, chiare e non interpretabili in mo-do ambiguo; passando per i magistrati, che devono sapere distinguere trachi è vittima di un sistema e chi lo alimenta e finendo ai cittadini, che de-vono muoversi con la consapevolezza che la giustizia è tanto più giusta làdove la coscienza civile è forte e capace di rifiutare qualsiasi tipo di dege-nerazione.

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210 La “promozione cooperativa” è stata per lungo tempo uno degli elementicaratteristici dell’identità del movimento cooperativo. Promuovere l’espe-rienza cooperativa in nuove realtà territoriali rispondeva a diverse finalità,tutte legate a una visione – oggi possiamo dirlo serenamente – un po’ mes-sianica della cooperazione.

“Fare promozione” significava allargare i confini di un’esperienza vissutacome antagonista rispetto al capitalismo dominante. Rappresentava un aiutonei confronti di realtà territoriali in cui il movimento dei lavoratori non era sta-to in grado di organizzarsi sul terreno imprenditoriale. Costituiva un contribu-to allo sviluppo di aree arretrate, con particolare riferimento al Mezzogiorno.

In qualche modo, noi emiliani sentivamo anche il dovere morale di fareconoscere il valore della nostra esperienza fuori dalla nostra terra, per condi-videre gli ideali di solidarietà e di uguaglianza che animavano le cooperative.

Non ci consideravamo dei missionari, ma forse pensavamo di possedereuna verità da diffondere tra i meno fortunati…

Oggi ci è chiaro il carattere ideologico di quella visione, che era sostenuta daobiettivi politici generali, più che da un concreto approccio imprenditoriale.

Sta di fatto, però, che la volontà di “fare promozione” ci ha accompagnatoper lungo tempo, ha rappresentato un elemento di impegno, di discussione,anche di investimento di risorse significative. Era un tema sentito, affrontatotante volte anche nel nostro Consiglio di Amministrazione. Con altre coope-rative reggiane, per esempio, per tutto un periodo ci siamo proposti, soprat-tutto attraverso il CCPL (il Consorzio delle cooperative di produzione e lavo-ro) di sostenere e sviluppare l’esperienza cooperativa in Basilicata.

I tentativi di fare promozione cooperativa, nella realtà, hanno avuto suc-cesso dove e quando la dimensione politico-sociale si è sposata con quellaimprenditoriale, quando si è legata la promozione al radicamento in nuovimercati sotto il profilo geografico. La nostra presenza promozionale in Pie-monte, ad Ivrea, pur iniziata sotto i migliori auspici e densa di elementi posi-tivi, alla lunga non è riuscita a consolidarsi proprio perché è venuto a mancarequesto presupposto.

Per noi è stata esemplare la promozione – se così vogliamo continuarea chiamarla – in Liguria e in particolare a Genova. È stato davvero un casodi successo, sia per la cooperativa sia per il territorio interessato, proprioperché non abbiamo fatto dell’ideologia, ma abbiamo sviluppato l’iniziati-va imprenditoriale.

Attualmente in Liguria la cooperativa ha circa 100 dipendenti, di cui 60sono soci. Siamo tra i protagonisti dello sviluppo urbanistico della città, ab-

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biamo stabilito rapporti duraturi con le istituzioni e la società civile, siamoproprietari di una televisione locale.

Questi risultati, però, non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di decennidi impegno generoso e caparbio.

All’origine della presenza Coopsette in Liguria ci fu, a metà degli anni Ses-santa, la decisione della Cooperativa Muratori di Poviglio di lavorare anchefuori dal territorio tradizionale. La decisione era motivata sia dalla necessitàdi allargare la presenza sul mercato, per fare fronte a un momento di diffi-coltà, sia al desiderio di percorrere strade nuove. Dopo due esperienze a Ca-sale Monferrato e ad Alessandria, la cooperativa approdò in terra ligure.

Da allora, la presenza in Liguria della cooperativa di Poviglio – e in segui-to della Coopsette – è stata ininterrotta.

Se siamo riusciti a radicarci in questa regione, il merito è in primo luogo diuna squadra di giovani capicantiere e muratori che seppero esprimere com-petenze professionali, capacità di sacrificio e una fiducia estrema nella lorocooperativa e nei valori che l’animavano. L’impegno totale e i sacrifici di allo-ra non sono più concepibili dai giovani d’oggi, e non sono certamente ripro-ponibili, ma senza quella base non saremmo certo arrivati ai successi odierni.

Quella di Poviglio era una squadra molto unita e qualificata, che ha datotanto anche con l’unificazione in Coopsette.

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Anno 1979, GenovaI lavoratori del cantiere“Città Nuova” nella pausapranzo, davanti alla mensa.

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212 Egidio Caleffi nacque a Poviglio il 13 giugnodel ’36. Era figlio di contadini. Figlio tra tanti figli,il che significava famiglia povera, miseria, scarsapossibilità di accedere allo studio, nonostante fos-se un ragazzo serio e dalle indiscutibili doti intel-lettuali (fu segretario, a 10 anni, a Poviglio del-l’Associazione Pionieri d’Italia). Così, tra millerimpianti, dopo la quinta elementare abbandonòquasi subito gli studi per aiutare il padre nei cam-pi. Fu per lui il cruccio della vita. Molti ricordanoche continuava a frequentare gli ex compagni perchiedere loro i libri in prestito e studiarseli neltempo libero. Una grande dedizione che lo ac-compagnò per tutta la vita.

Diventa operaio edile a 17 anni. A 19 entra co-me manovale nella cooperativa di Poviglio. A 24anni viene eletto segretario della sezione PCI delpaese. E nel ’74, a 38 anni, viene eletto presidentedella Cooperativa Edile in cui lavorava.

Con la nascita di Coopsette entrò nel Consigliodi Amministrazione e fu chiamato a rivestire il ruo-lo di responsabile dell’Ufficio Soci e Personale. Nel’79 assunse l’incarico di responsabile della zona Li-guria, allo scopo di rafforzare il ruolo della coope-rativa, sia dal punto di vista sociale che imprendito-riale, in quella regione. Svolse benissimo il proprioincarico, con grande impegno e grande passione.

Chi l’ha conosciuto parla di un uomo di gran-de umiltà e forte intelligenza. Un uomo che nonaveva ambizioni personali se non quella di mi-gliorarsi per fare il bene di tutti. Un uomo che an-teponeva sempre il bene collettivo a quello indi-viduale. Una persona sempre insoddisfatta delproprio lavoro, perché vi notava continuamentemargini di miglioramento. Un uomo di grandeumanità. Morì all’improvviso a Genova, nell’80,lasciando in tutti l’impressione di essere decedutocosì giovane per il troppo amore per il lavoro.

Ha detto di lui Donato Fontanesi: «Era straor-dinario: incarnava l’etica per il lavoro, tipica di unagenerazione di quadri. A Genova, quando piove-va e non si poteva lavorare, riuniva i soci e facevalezioni sui valori della cooperazione. Aveva unagrande sensibilità sociale e si faceva carico dei pro-blemi di tutti. Un uomo, un amico, un compagno,con cui ho diviso sogni, ideali e preoccupazioni,che mi ha aiutato molto e sul quale Coopsette po-teva contare a occhi chiusi».

A Egidio Caleffi sono state intestate a GenovaVoltri una sezione del PCI e la sezione soci Liguriadi Coopsette.

Sche

da

Egidio Caleffi

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Egidio Caleffi ne divenne il punto di riferimen-to, fino ad assumere la carica di presidente della co-operativa di Poviglio nel ’73. Caleffi era una perso-na straordinaria, con un senso del dovere e un’ab-negazione fuori dal comune. Era capace ditrasmettere una vera e propria fede nella coopera-tiva e negli ideali del movimento operaio. La suaprematura scomparsa, che in tanti abbiamo colle-gato a un impegno sul lavoro senza limiti, ha dav-vero creato un vuoto, ha comportato un doloreprofondo in tutta la cooperativa.

La generosità di Caleffi aveva contagiato in par-ticolare i nuovi soci e dipendenti liguri: al momento della sua morte, Caleffi,infatti, era responsabile proprio dello sviluppo di Coopsette in Liguria.

I muratori liguri avevano cominciato a scoprire e ad apprezzare le pecu-liarità della cooperazione. Particolarmente positiva era considerata la conti-nuità occupazionale, perché la regola era invece l’assunzione per un singolocantiere, con tutta la precarietà che ciò comportava.

Per dare solidità alla nostra presenza facemmo entrare i primi tecnici ligurie poi si diede vita, nel ’79, a una vera e propria Sezione Soci Liguria.

Coopsette è cresciuta nel tempo, grazie a una costante dimostrazione diserietà e affidabilità.

Da impresa capace di eseguire appalti, Coopsette a Genova si è progres-sivamente trasformata in soggetto promotore di grandi progetti di iniziativadiretta aziendale.

Essere radicati sul territorio ci ha consentito di coglierne i bisogni e dipromuovere direttamente opportunità imprenditoriali. I due esempi più ri-levanti sono la riconversione urbanistica dell’area dell’ex raffineria ERG aSan Biagio e dell’area ex Ansaldo a Fiumara.

In ambedue i casi abbiamo risanato e restituito alla città aree da tempoabbandonate al degrado e non utilizzate. Lo abbiamo fatto nell’ambito del-la pianificazione territoriale definita dalle istituzioni, investendo direttamentecapitali a rischio, scommettendo sul futuro di una città che crede troppo po-co nelle proprie potenzialità.

Il Progetto Fiumara, in particolare, è diventato il simbolo della nuova Co-opsette, della nostra capacità di pensare in grande, di dialogare contempora-neamente con le istituzioni, con gli operatori economici e con i grandi inve-stitori istituzionali.

Anno 1965Inizio degli scavinel primo cantiereaperto in terra Ligure dalla exCooperativa Muratori diPoviglio: si trattavadella costruzionedell’Istituto Tecnico Industrialein via Timavo a Genova.

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Noi tutti guardiamo con orgoglio a quanto siamo riusciti a realizzare, per-ché la cooperativa ha dimostrato di sapersi misurare con i nodi più impe-gnativi dello sviluppo della città.

L’unica amarezza che ci rimane sono gli attacchi politici a cui siamo statisottoposti. Alcuni esponenti del centro-destra (non tanti, per la verità, mamolto determinati…) hanno preso di mira sia i singoli interventi – in parti-colare Fiumara – sia la cooperativa più in generale. È stata presentata l’imma-gine delle “coop rosse” all’assalto della città, dello strapotere delle cooperati-ve avvantaggiate da appoggi politici, della cementificazione incombente.

Devo dire che non abbiamo ancora capito il perché di tanta virulenza e ditanta faziosità. È vero che siamo ora l’impresa di costruzioni più dinamica sulmercato genovese, e quindi siamo particolarmente visibili, ma noi ci aspettia-mo almeno rispetto, se non riconoscenza per la capacità dimostrata nel ri-qualificare importanti aree della città: è una colpa essere imprenditori capacie coraggiosi? Evidentemente per qualcuno abbiamo un incancellabile pecca-to originale da scontare, quello di essere una cooperativa. Da questo peccato,però, non potremo mai mondarci, perché rappresenta la nostra identità.

Come dicevo, oggi a Genova siamo una realtà importante e radicata. Ivecchi muratori degli anni Sessanta e Settanta sono andati in pensione, ma

L’acquario oceanicodi Genova, realizzatoin occasione delle celebrazionicolombiane del 1992.

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ce ne sono tanti nuovi, così come si è formato un consistente gruppo di tec-nici e impiegati di valore, composto in buona parte da giovani motivati e le-gati alla cooperativa.

Dopo quasi trent’anni di presenza attiva e sempre più qualificata, ora è qua-si superfluo affermare che Coopsette non è più solo una cooperativa reggianao mantovana, ma è anche, a pieno titolo, una cooperativa ligure. Chi portò, conspirito pionieristico, i primi muratori reggiani a lavorare in Liguria, oggi puòguardare con legittimo orgoglio a ciò che da quel primo seme è sbocciato.

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Genova, località San Biagio.Sull’area un tempo occupatadalla raffineria di petroliodella ERG (foto a fianco)vengono realizzati residenzeper le forze dell’ordine,alloggi privati (in basso asinistra), un centrocommerciale (in basso adestra), un centro artigianale,impianti sportivie spazi pubblici. L’area è statainteramente bonificatae riqualificata.

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216 I bilanci che abbiamo chiuso negli ultimi anni sono i migliori della nostrastoria, a conferma che oggi la cooperativa è in piena salute. Abbiamo defini-to prospettive strategiche che ci stanno dando grandi soddisfazioni; siamomolto solidi dal punto di vista economico e finanziario; abbiamo inserito nel-le nostre attività tanti giovani, in gran parte diplomati e laureati. Il nuovo po-sizionamento sul mercato dei grandi progetti ha prodotto una nuova unifi-cazione (forse la “vera” unificazione) di tutte le nostre attività che gravitanosul settore delle costruzioni.

Abbiamo ottenuto importanti riconoscimenti anche dal mondo esterno.Siamo stati classificati come la terza o quarta impresa nazionale di costru-zioni, evidenziando un tasso di sviluppo del giro d’affari e delle redditivitàsuperiore a ogni altro concorrente. Ci è stato attribuito il premio per il migliorBilancio Sociale dell’intero movimento cooperativo. Siamo stati inseriti nel-la rosa per l’Oscar di Bilancio delle grandi imprese non quotate in borsa.

Un osservatore superficiale potrebbe trarre la convinzione che tutto vabene e che non abbiamo di fronte grandi problemi. Se si va in profondità,però, le cose non stanno così, perché rimangono aperte questioni di vastaportata, che vanno oltre Coopsette, a cui occorre dare risposta.

La nostra cooperativa ha sempre avuto la forza di confrontarsi con il cam-biamento e di farlo anche quando non era costretta dagli eventi immediati,proprio per anticipare i problemi. Abbiamo tenuto alta la tensione a far cre-scere i soci, a misurarci con i temi più impegnativi.

Già nel ’97, per definire il nuovo modello sociale di Coopsette, abbiamo pre-so atto che il cambiamento epocale del ’89, con la caduta del Muro di Berlino ela cosiddetta fine delle ideologie, metteva in discussione anche il ruolo storicodella cooperazione aderente alla Lega delle Cooperative. Nella loro storia le co-operative “rosse” si sentivano come un reparto del movimento operaio e la lo-ro missione trascendeva l’operatività dell’impresa. Fare cooperazione signifi-cava essere antagonisti rispetto all’impresa capitalistica e quasi prefigurare unasocietà senza padroni. Questa “missione”, che era sovraordinata rispetto al con-creto operare delle cooperative, tra i tanti limiti aveva il pregio di definire un’i-dentità precisa non solo nei confronti dei soci, ma anche della società esterna.

Questa “missione” oggi semplicemente non esiste più e occorre prender-ne atto con coerenza. Non c’è un “sol dell’avvenire” a cui tendere. Le coope-rative non sono un soggetto antagonista al sistema capitalistico, ma, più sem-plicemente e più concretamente, un fattore di pluralismo imprenditoriale al-l’interno dello stesso sistema economico. In realtà in questa direzioneeravamo già andati da tempo, ma l’89 lo ha sancito in modo inequivocabile.

Quali prospettive per l’impresa cooperativa?

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Quali prospettive per l’impresa cooperativa?

È per questo motivo di fondo che oggi non si può più parlare di “movi-mento cooperativo” come in passato. Le cooperative devono reinterpretarela propria funzione sociale e ancora di più deve farlo la Lega delle Coopera-tive, che non può più rappresentare lo stato maggiore di un particolare re-parto del movimento operaio.

Quando sosteniamo che la Lega deve trasformarsi in un moderno sinda-cato d’imprese partiamo da questo presupposto.

Naturalmente il cambiamento è stato forte non solo nel rapporto co-operativa-società, ma anche all’interno della cooperativa. La cultura, le aspet-tative, gli interessi dei soci di oggi sono molto cambiati rispetto anche solo apochi decenni fa. Quanto hanno in comune i giovani di oggi con i muratorie i capicantiere degli anni Sessanta e Settanta?

Il lavoro rimane un bisogno primario, ma in termini molto diversi rispet-to a quando la disoccupazione era un fenomeno devastante e non erano ga-rantite nemmeno le esigenze primarie. In passato i soci avevano una culturacomune, facevano riferimento a organizzazioni di massa come partiti e sin-dacati, mentre oggi i possibili riferimenti sono scarsi e prevale un approccioindividuale ai problemi. Prima il consenso era un fatto naturale, quasi dovu-to, oggi occorre ricomporre una progressiva frammentazione degli interes-si, delle aspettative, delle culture.

Settembre 1981La porta d’ingresso alla Festadell’Unità aziendale,organizzata dalla Sezione PCI

di Coopsette nell’areadel parcheggio auto.

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Quali prospettive per l’impresa cooperativa?

C’è un futuro per il modo cooperativo di fare impresa?Credo di sì, e lo affermo non per dovere d’ufficio, ma perché penso si

possa, allo stesso tempo, stare al passo con la società e salvaguardare i nostrivalori di fondo.

Ci vuole coraggio e coerenza nel prendere atto che una fase storica si èchiusa e trarne impietosamente le conseguenze. Oggi non è possibile prefi-gurare organicamente un nuovo modello, perché siamo ancora in mezzo alguado, ma i temi su cui impegnarsi sono abbastanza chiari.

In primo luogo bisogna ripensare il rapporto con la società e con i terri-tori di insediamento. Nel ’30, quando la Cooperativa Braccianti di Cadelbo-sco aveva quasi 500 soci su una popolazione di 3.000 abitanti e sviluppava lapropria attività entro i confini comunali, il suo ruolo sociale era percepito inmodo diretto e immediato.

La nuova dimensione delle cooperative, che risponde all’evoluzione deimercati, porta a sviluppare le iniziative imprenditoriali su tutto il territorionazionale e spesso anche all’estero. Ciò richiede di costruire un nuovo ap-proccio e nuovi contatti con la società civile e con le istituzioni, un rapportonecessariamente più indiretto, ma non per questo meno prezioso.

Per esempio, la nostra cooperativa in questi anni si propone sui territoridi insediamento come partner delle amministrazioni locali, per affrontare te-

Ottobre 2000Durante la grande piena delPo, soci e lavoratori dellacooperativa partecipanocome volontari ai lavori peraffrontare i rischi diesondazione e di rotturadegli argini. Coopsette mettea disposizione anche i proprimezzi. Il cosiddetto “popolodei sacchetti”, da Brescello aBoretto, da Gualtieri aGuastalla, arrivando sino aSan Benedetto Po, conmigliaia di volontaricoinvolti, dà un grandeesempio di impegno civile esolidarietà.

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Quali prospettive per l’impresa cooperativa?

mi relativi ai servizi, alle infrastrutture e alla qualità urbana, in rapporto conlo sviluppo di nostre iniziative imprenditoriali.

Su questo terreno c’è un campo di lavoro molto vasto anche per le struttu-re sindacali del movimento cooperativo, che debbono ricoprire un ruolo poli-tico così come fanno Confindustria e le altre associazioni di rappresentanza.

Un contributo indiretto che può venire dalle cooperative riguarda l’“edu-cazione” del socio. Se è tramontata la finalità di indirizzare il socio verso iltraguardo del socialismo, attualmente le cooperative possono rappresentareuno degli ambienti in cui si formano le virtù civiche del cittadino, obiettivooggi non meno rivoluzionario di quello precedente… La vita in cooperativacome palestra di impegno, di responsabilità, di tolleranza può rappresentareun valore molto importante. In fondo è proprio dalla figura del cittadino con-sapevole e attivo che occorre partire per costruire davvero l’Europa unita,che rappresenta il traguardo storico delle attuali generazioni.

Per quanto riguarda il funzionamento interno, rimangono pienamentevalidi i principi della democrazia cooperativa e in particolare la regola “una te-sta, un voto”, che differenzia nettamente una cooperativa da una società dicapitali. Gestione democratica della società cooperativa e rispetto del siste-ma delle responsabilità definite nell’impresa debbono essere garantite en-trambe senza riserve.

Giugno 2001Espressione di voto durantel’Assemblea Generale diBilancio 2000, presso la salaconvegni dell’Hotel Astoriadi Reggio Emilia.

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Quali prospettive per l’impresa cooperativa?

È evidente che anche in un’impresa cooperativa l’organizzazione e la ge-rarchia rappresentano elementi dai quali non si può prescindere. Detto que-sto, la cooperativa deve sapere produrre un ambiente che consenta di fareemergere gli inevitabili problemi con naturalezza e serenità. Sarebbe sba-gliato se il rispetto dell’organizzazione e della gerarchia si traducesse in una“fedeltà” opportunistica alla struttura dirigente da cui si dipende. La fedeltàdel socio si deve esprimere innanzitutto nei confronti della cooperativa, oc-corre dunque costruire un clima in cui ci si senta responsabili, ma anche liberidi porre i problemi in modo aperto.

Per quanto riguarda la dimensione dell’impresa, essa non rappresenta unostacolo insormontabile all’esercizio della democrazia cooperativa; comesempre, ciò che conta sono i valori a cui ci si ispira e la volontà soggettiva chesi esprime. La complessità, innegabile, di Coopsette può essere governatacon gli strumenti della democrazia diretta là dove è possibile e quando ci sia-no decisioni molto importanti da assumere, o attraverso i meccanismi dellademocrazia delegata nella gestione ordinaria. Se lo neghiamo, o se attribuia-mo valore solo alla democrazia diretta, allora come riteniamo si possa go-vernare democraticamente la complessità degli Stati e delle loro articolazio-ni? In una piccola cooperativa non c’è il problema della governance (regoledi governo), perché il rapporto tra i soci è immediato e questo fatto dà l’im-

21 settembre 2001, RomaCoopsette partecipa in massaalla manifestazionedi protesta contro l’art. 5del DDL sul Diritto Societarioche tende a snaturarefunzione e ruolo dellecooperative.

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Quali prospettive per l’impresa cooperativa?

pressione di contare di più, perché si decide tutti insieme e su tutto. In unagrande cooperativa si ha la percezione di contare meno, perché il processodecisionale è molto più mediato, ma ciò di per sé non cancella affatto il ruo-lo del socio, a meno che non se ne abbia una concezione demagogica. E so-prattutto, nella grande impresa si assumono decisioni di gran lunga più rile-vanti, che contano non solo per il singolo socio, ma per molti soggetti inter-ni e esterni alla cooperativa.

Uno degli strumenti che in Coopsette utilizziamo per consentire una par-tecipazione consapevole dei soci è la formulazione del Piano Strategico, conil quale sviluppiamo un ampio coinvolgimento di tutti e mettiamo in discus-sione le scelte di fondo della cooperativa. Di grande utilità è anche il BilancioSociale, un’esperienza che abbiamo iniziato con convinzione perché ne com-prendiamo l’utilità e le potenzialità.

Investiamo risorse rilevanti nella formazione, perché abbiamo consape-volezza che la sfida imprenditoriale si gioca sulla cultura d’impresa e sullacultura dei singoli e che l’esercizio del ruolo di socio si fonda anche sul pos-sesso dei necessari strumenti di analisi e di conoscenza.

A questo proposito è evidente che occorre operare affinché tutti i sociabbiano la medesima opportunità di vivere pienamente la cooperativa.

È la stessa natura societaria che impone di investire su tutti i soci e non

Giugno 1997San Benedetto Po.Premiazione dei socipensionati della Lombardianel corso della cena socialeorganizzata nella salaassemblee dedicataa Claudio Lodi, ex presidentedella CEIM, prematuramentescomparso.

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Quali prospettive per l’impresa cooperativa?

solo su gruppi ristretti, le cosiddette “eccellenze” (chi le definisce? con qua-le criterio?). Se la cooperativa perdesse la propria vocazione universalisticanei confronti dei soci, ben presto la sua stessa esistenza verrebbe messa indiscussione.

Non ci sono, quindi, barriere strutturali nel proporsi il governo di unagrande impresa in forma cooperativa.

Il vero problema è che i soci condividano la missione e i valori, che abbianoaspettative comuni, che sappiano definire in modo chiaro le ragioni dello stareinsieme. È innegabile che, mentre un tempo si accettava con una certa tran-quillità il proprio posto nella società, oggi c’è una continua tensione ad emer-gere, ad affermarsi. È positivo non rassegnarsi alla propria situazione, ma è ne-gativo se si innesca una lotta di tutti contro tutti. Una cooperativa, in particola-re, non può vivere senza anteporre l’interesse generale a quello particolare diogni socio, senza associare alla cultura dei diritti anche quella dei doveri.

La storia delle cooperative che hanno dato vita a Coopsette ci parla disacrifici compiuti dai soci che oggi non si possono certo riproporre, ma ilsenso di appartenenza alla cooperativa non può essere considerato un resi-duo del passato. Non si può ignorare che a volte i peggiori critici dell’operatodelle cooperative sono i propri soci e lavoratori: è una situazione inaccetta-bile, perché la cooperativa non è, né può essere, un bidone vuoto difeso so-lo da qualche dirigente.

In Coopsette, lo dico senza retorica, la situazione non è questa.L’attenzione che storicamente abbiamo prestato al ruolo della proprietà

ci ha consentito di avere una base sociale responsabile e attiva.I problemi non mancano nemmeno a casa nostra, ma derivano dalla vo-

lontà di migliorare, non dal disinteresse o dall’apatia. Negli ultimi anni ab-biamo iniziato a discutere nel merito i contenuti del rapporto di scambio trail socio e la cooperativa. Non c’è contrapposizione, in questa ricerca, tra in-teressi materiali e valori sociali: occorre agire su ambedue i lati, perché en-trambi vanno rafforzati e resi più importanti per il socio.

Per quanto riguarda la governance bisogna partire da una verità elemen-tare, quasi banale: la proprietà, cioè i soci così come sono, con i loro pregi e iloro limiti, rappresentano il punto di partenza di qualsiasi iniziativa. La co-operativa è dei soci e per i soci. Proprio perché lo sviluppo della cooperativanon può che fondarsi sui soci, occorre che l’iniziativa imprenditoriale siacommisurata alle capacità, in atto e potenziali, che i soci sono in grado diesprimere. La cooperativa non può essere diretta da un ristretto gruppo di so-ci distaccati dalla realtà sociale o, peggio ancora, dalla sola tecnostruttura,

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Quali prospettive per l’impresa cooperativa?

223senza una partecipazione della base sociale. Pensare a qualche fuga in avan-ti significherebbe compiere un errore strategico anche sotto il profilo im-prenditoriale, perché prima o poi i nodi verrebbero al pettine.

Sulla base di questa consapevolezza può essere affrontato un tema di gran-de rilievo: come realizzare il necessario livello di equilibrio tra il ruolo della pro-prietà e quello della tecnostruttura. Sono due ruoli distinti e non sovrapponi-bili: occorre garantire, contemporaneamente, la coerenza delle iniziative im-prenditoriali con gli indirizzi espressi dalla proprietà e l’efficacia e l’efficienzadella gestione d’impresa. Anche questo è un obiettivo difficile, perché non sitroverà mai un equilibrio definitivo, ma da esso non si può prescindere.

Una cooperativa di produzione e lavoro come Coopsette vive una con-traddizione insanabile, costitutiva del proprio essere: i soci, che svolgono lafunzione proprietaria, sono contemporaneamente anche lavoratori dipen-denti e parte della tecnostruttura. È evidente che questo doppio status puògenerare confusione di ruoli, ma questa contraddizione non si risolve elimi-nando uno dei due termini. Bisogna affrontare questo elemento di com-plessità con intelligenza e con chiarezza organizzativa. È possibile farlo e lanostra esperienza, seppur faticosa, lo dimostra.

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224 1977 2002

Dipendenti

impiegati 150 448

operai 689 464

totale 839 912

Soci

cooperatori 578 462

sovventori – * 458

onorari – * 182

totale 578 1102

Monte lavori ** 12.330 323.668

Patrimonio netto** 4223 135.000

di cui Capitale Sociale 70 10.237

di cui Riserve Indivisibili 4153 124.763

Coopsette dall’unificazione ad oggi

* I soci pensionatinon erano rilevati.La prima rilevazioneè del 1980.Al 31.12.1980 erano 124.

** Dati espressi in migliaiadi euro.

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225Mi è stato chiesto di ripercorrere la storia della cooperativa e ho do-vuto richiamare principalmente aspetti imprenditoriali, scelte strategichee risultati ottenuti. Avrei preferito ricordare le tante persone che in coope-rativa hanno vissuto dando il meglio di se stessi, trascurando i loro interessie compiendo sacrifici non comuni. Mi sarebbe piaciuto ricordare, ad uno aduno, i soci e i lavoratori, spesso amici personali, che in questi anni sono scom-parsi, alcuni in modo tragico, lasciando un vuoto in ognuno di noi. Comesempre, però, occorre sottostare al dovere che il proprio ruolo impone.

Anche ripercorrere gli avvenimenti di tutti questi anni in prima personanon mi è stato molto congeniale e ancora meno lo è stato esprimere pubbli-camente sentimenti personali.

Mi sono formato in un’epoca e in un ambiente in cui non era tanto ilsingolo individuo che contava, ma l’organizzazione collettiva a cui appar-tenevi. L’individualismo, il protagonismo personale erano vissuti con fa-stidio e venivano valutati con severità. Questa cultura permeava tutte leorganizzazioni del movimento operaio e la cooperativa non faceva ecce-zione. Ricordo aspre contestazioni, in assemblea, nei confronti di chi inqualche modo spingeva per emergere, per affermare la propria personali-tà a scapito del collettivo. Quanta differenza rispetto ai costumi afferma-tisi negli ultimi due decenni!

Un approccio così rigido e schematico aveva dei limiti oggi ben com-prensibili, ma esprimeva anche degli aspetti positivi, che non vanno abban-donati. È importante che si valorizzino le caratteristiche e le competenze in-dividuali, perché rappresentano un fattore di arricchimento e di dinamismo,ma, lo ripeto, ritengo che accettare il prevalere dell’interesse generale su quel-lo particolare e condividere l’opportunità di incanalare le proprie energie in unprogetto collettivo rappresentino un approccio ancora pienamente valido.

So bene che parlare di sacrifici oggi non è molto di moda, ma rimangoconvinto che non si raggiungono risultati importanti senza una forte dedi-zione e anche tanti sacrifici. Ho dovuto anch’io, a mie spese, abbandonare lamia utopia di giovane presidente, secondo la quale la cooperativa doveva fun-zionare in modo tale da consentire a tutti, compreso il presidente, di svolge-re il proprio ruolo nelle otto ore, per salvaguardare la qualità della vita.

Per avere successo occorrono impegno e capacità di sacrificio.Avere successo è una condizione di libertà, perché una cooperativa forte

imprenditorialmente può esprimere in ogni ambito la propria personalità,può decidere con chi allearsi, può dire dei sì e dei no senza timore.

È questa libertà che ci rende fieri dell’esperienza che abbiamo compiuto.

Un bilancio personale

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Un bilancio personale

Ho fatto questa lunga premessa perché sonoben consapevole della parzialità delle mie opinioni,che sono il frutto di un’esperienza per me eccezio-nale, ma, appunto, personale. Guardando ai 25 an-ni di vita della nostra cooperativa ne traggo un bi-lancio largamente positivo. Faccio questa valuta-zione cercando di stare alle questioni di fondo.Quando ci siamo unificati le nostre erano coope-rative con una dimensione locale, quasi comunale,e oggi abbiamo portato Coopsette a competere sugrandi progetti tra i più rilevanti a livello nazionale.

Il Progetto Fiumara, a Genova, è l’esempiopiù significativo, ma non il solo, della nostra capacità di affrontare con suc-cesso gli obiettivi più impegnativi, che richiedono capacità e competenze aipiù alti livelli. Come sono lontani i tempi in cui, quando un nuovo tecnicoandava in cantiere, dall’alto della gru partiva l’urlo: «Ehi gente, ce n’è un al-tro da mantenere!». La nostra posizione nel panorama nazionale delle co-operative testimonia anch’essa dei livelli di eccellenza raggiunti. I risultatiche abbiamo ottenuto non sono stati casuali o un semplice frutto della for-tuna. Ci sono state tante persone che hanno collaborato con noi e che dob-biamo ringraziare, ma i successi conseguiti sino a oggi non ci sono stati re-galati da nessuno, li abbiamo raggiunti con impegno, abnegazione e pro-fessionalità, a volte anche in contrasto con consuetudini e strutture delnostro mondo di riferimento.

Anche per quanto riguarda il lavoro siamo stati al passo coi tempi. La Co-cep delle origini dava risposta occupazionale ai lavoratori della terra espulsidalla tenuta Traghettino di Castelnovo Sotto, oggi Coopsette occupa centi-naia di laureati e diplomati, spesso figli di quei lavoratori.

Credo di poter dire che siamo stati coerenti con i nostri valori e, con-temporaneamente, bravi sul piano imprenditoriale. La soddisfazione mag-giore è quella di essere riusciti a sviluppare ulteriormente il patrimonioche ci era stato trasmesso dalle generazioni precedenti. Ricordo i com-menti di alcuni pensionati, in visita al nuovo stabilimento di Methis, men-tre valutavano con orgoglio e compiacimento la struttura: «Li hanno usa-ti bene, i nostri soldi».

Naturalmente non tutto è stato rose e fiori. L’impresa in quanto tale nonè il luogo senza conflitti in cui si trova la felicità. Abbiamo passato anche mo-menti difficili. Se devo indicare i fatti che mi hanno provocato maggiore ama-

Marzo 1999Otto marzo di solidarietà conla Comunità San Benedetto alPorto di Genova. Don Andrea Gallo, fondatore eispiratore della Comunità, incontra le lavoratrici e i lavoratori Coopsette.Nella foto, don Gallo con ilpresidente Fontanesi.

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Un bilancio personale

rezza, però, il pensiero va alla fase di uscita dalla crisi degli anni Novanta, incui si sono verificate divisioni al nostro interno non manifestate alla luce delsole e nelle forme e nelle sedi proprie della nostra storia.

Abbiamo vissuto lacerazioni dolorose, che hanno segnato alcuni anni del-la vita della cooperativa. Il confronto anche aspro fa parte della realtà diun’organizzazione che coinvolge centinaia di persone, ma quando non si ri-spettano le regole, quando si arriva addirittura alla denigrazione personale,vengono a mancare i presupposti di base di una leale convivenza. Anche suqueste vicende, naturalmente, ho un punto di vista parziale, ma non ho dub-bi sul fatto che il rispetto delle norme che insieme avevamo definito rappre-sentava e rappresenta una condizione essenziale per stare in cooperativa.

Come ho vissuto e come vivo il ruolo che ricopro?Ho cercato di farlo con semplicità e nell’interesse della cooperativa, con

spirito di servizio e senza cedere a una logica di pura gestione del potere. Nonho mai pensato di diventare un personaggio, perché non è nel mio stile di vi-ta né nelle mie ambizioni. Sono rimasto legato alla mia gente e ai luoghi del-la mia origine con naturalezza.

Credo di avere sempre mantenuto la consapevolezza che la responsabili-tà che ricopro è temporanea e che essere presidente di una cooperativa nonsignifica certo esserne il padrone: sono i soci che decidono a chi affidare il lo-

Giugno 2000I soci pensionati sovventorivisitano il nuovo stabilimentoMethis al termine della loroAssemblea Speciale annuale,tenuta, per l’occasione,all’interno della struttura.

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Un bilancio personale

ro mandato. Tra l’altro, quello di presidente è un ruolo che finisce, mentre laproprietà rimane e viene trasmessa nel tempo: anche questa è una differen-za netta rispetto al ruolo e alle aspettative dell’imprenditore proprietario.

Mi ha dato molta serenità il fatto che non mi sono mai candidato a nulla.Quando ho ricoperto degli incarichi mi è sempre stato chiesto di farlo da par-te di altri e, come ho già detto, certe scelte le ho subite, non promosse. Hosempre avuto ben chiaro che ognuno di noi, nella funzione che ricopre, puòarrivare a un punto in cui non è più un elemento di sviluppo per la realtà in cuiopera e mi sono ripromesso di prenderne atto senza patemi.

Non so cosa ci riserverà il futuro, ma oggi sono orgoglioso di poter direche Coopsette è una vera cooperativa e un’impresa di prim’ordine, grazie al-l’impegno dei suoi soci e dei suoi lavoratori. Quando iniziammo questa av-ventura, nel 1977, non era un risultato scontato.

Marzo 2002Galleria del CentroCommerciale realizzatoda Coopsette nell’areadi Fiumara a Genova.

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Un bilancio personale

22 giugno 2002, GenovaAssemblea Generaledi Bilancio 2001pressola Multisala di Fiumara.

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I Settori produttivi

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234 Il settore nasce agli inizi degli anni Sessanta, al-l’interno della Cooperativa Muratori di Castelno-vo Sotto, durante la presidenza di Nardo Foielli.Il mondo dell’edilizia stava cambiando, semprepiù spesso si ricorreva a elementi prefabbricati iquali univano al vantaggio di accelerare il lavoro,quello di comportare minori costi di produzione.In questo scenario si colloca l’idea imprenditoria-le della nascita di Cocep (Cooperativa Costruzio-ni Elementi Prefabbricati), inizialmente costoladella Cooperativa Muratori di Castelnovo, poi, ne-gli anni, sempre più autonoma al punto di diven-tare una azienda vera e propria.

Cocep inizia a produrre soprattutto travetteper il mercato locale, principalmente per la co-pertura di case o capannoni. Poi studia un proget-to per la realizzazione di porcilaie (che a metà de-gli anni Sessanta erano in pieno boom), consi-stente in un pannello con il calcestruzzoall’esterno, il laterizio all’interno e il polistirolo afungere da isolante. È una buona idea che dà otti-mi frutti e ottiene un buon riscontro dal mercato.

Seguono le commesse per realizzare i grandicapannoni delle industrie ceramiche, che videroun forte sviluppo proprio a metà degli anni Ses-santa; in particolare vanno segnalate le commessedell’Iris Sassolese e dell’Iris di Viano, per un tota-le complessivo di oltre 35.000 mq di costruito.

Nei primi tempi il lavoro è a bassissima assi-stenza tecnologica e quindi la fatica fisica di chi viopera è davvero notevole. Complessivamente laforza lavoro è di circa 80 unità, suddivise tra fer-raioli e addetti al getto. Prima del ’74 (anno del tra-sferimento nella nuova sede, cioè quella attual-mente esistente) si usavano le prime autogru, ri-cavate, curiosamente, da residuati bellici. Nel ’74arriva il primo carrellone per lo stoccaggio (grusemovente a portale su ruote).

La costruzione del nuovo stabilimento è unavera e propria impresa. La prima struttura che sirealizzò fu infatti la centrale di betonaggio. Manmano che questa produceva calcestruzzo, essoveniva immediatamente utilizzato per la costru-zione delle travi di sostegno, delle pareti, dellecoperture, per arrivare, quindi, alla ultimazionedella nuova fabbrica. Dello stesso periodo è l’in-troduzione della tecnica di precompressione, unsofisticato e innovativo procedimento per la co-struzione di travi di grandi dimensioni, che per-mise alla Cocep di confrontarsi con successocon la concorrenza.

Man mano che ci si stabilizzava aumentavanogli investimenti e miglioravano le condizioni di la-voro. Le betoniere, che prima si spostavano all’in-terno dello stabilimento per portare il calcestruz-zo, producendo, di conseguenza, grande inquina-mento, furono sostituite da carrelli elevatorielettrici che trainavano benne su ruote. Furonoanche realizzate pareti divisorie con pannelli fo-noassorbenti per limitare il rumore e venne in-stallato l’impianto di riscaldamento, caso piutto-sto raro negli stabilimenti di prefabbricazione.

Si arriva così all’83, anno della grande crisi delprefabbricato. È giusto sottolineare che questosegmento del mondo delle costruzioni edili è ge-neticamente soggetto a una forte ciclicità. Si lavo-ra su portafogli ordini molto ristretti nel tempo(cinque, massimo sei mesi). Chi ordina un pre-fabbricato, solitamente ha molta fretta nel co-struire, ragion per cui basta un’anomala flessionenella domanda perché questa si ripercuota pesan-temente sulle imprese produttrici. In quell’annoquindi, il 1983, in seguito a una forte riduzionedelle commesse, Coopsette si trovò di fronte, nelSettore Prefabbricati, a grandi problemi di carat-tere occupazionale.

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Il Settore PrefabbricatiDa un colloquio con Carlo Dall’Aglio

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da23 febbraio 1980I soci pensionati dellecooperative che hanno datovita a Coopsette visitano lostabilimento prefabbricati diCastelnovo Sotto.

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Anno 1999I lavori di ampliamento delCimitero di Bolzano:esempio di impiegoinnovativo delle struttureprefabbricate.

Maggio 2002I soci e lavoratori dellostabilimento prefabbricati diSan Benedetto Po.

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Non si procedette a nessun licenziamento, 80addetti del settore, tra operai e impiegati, furonoricollocati in altri settori della cooperativa. La cri-si, un vero e proprio “bombardamento”, durò treanni: poi, nell’86, iniziammo la risalita.

Seguono alcuni anni di risultati più che lu-singhieri, per arrivare, nel ’92, all’inizio di Tan-gentopoli.

La crisi del mondo delle costruzioni frena l’at-tività del Settore Prefabbricati, che vede, negli an-ni successivi, un andamento ad alti e bassi.

Oggi il mercato della prefabbricazione viveuna fase positiva, anche se per la natura stessa delsettore è facile prevedere un periodo di flessionedella domanda. Far parte del gruppo Coopsetteconsente un vantaggio per il settore rispetto aiconcorrenti: la possibilità di produrre e sviluppa-re volumi su iniziative promosse e sviluppate di-rettamente dalla cooperativa. Ciò permette di nondipendere esclusivamente dal mercato privato,avendo così un maggiore grado di flessibilità.

Noi interveniamo ove le scelte imprenditorialidella cooperativa lo richiedono. Il caso Pendolinoè esemplificativo. Le FS avevano un problemagrosso e urgente: costruire un deposito per il Pen-dolino in tre anni. La direzione decise di lavorare aun progetto di prefabbricato che, oltre a contem-plare per la copertura un corretto smaltimento del-le acque meteoriche, desse grande luminosità allastruttura. Lavorammo alacremente e con grandeprofessionalità. In diciotto mesi il deposito fupronto e il committente ampiamente soddisfatto.

Un altro progetto importante e particolare ful’Acquario di Genova, intervento per il quale ci fuchiesto di realizzare dei pannelli di tamponamen-to, che dovevano creare una forma a chiglia di na-ve. Poi c’è stato il grande avvento dei centri com-merciali: un lavoro di grande prospettiva che tra

l’altro ci impone soluzioni tecniche tra le più crea-tive, nelle quali ci distinguiamo per la qualità dellesoluzioni progettuali, con piena soddisfazione deinostri interlocutori.

Da sottolineare con particolare orgoglio l’im-pegno profuso dal settore nella costruzione delcentro divertimenti e del centro commerciale nel-l’ambito dell’iniziativa di Fiumara a Genova. Ungrande sforzo richiesto sia per la complessità del-l’iniziativa, che per i tempi ristretti di realizzazione.

Una commessa da ricordare per la sua partico-larità? Senz’ombra di dubbio il cimitero di Bolza-no. Ci ha impegnati parecchio sia per le tecnichecostruttive che per problemi di impatto ambienta-le. Dietro a questo cimitero c’è, infatti, una paretedi roccia di circa 150 metri, che ci ha costretto adadottare soluzioni tecniche alquanto complesse.

Devo ricordare che nel ’92, in seguito all’unifi-cazione in Coopsette della cooperativa Ceim, av-venuta due anni prima, ci siamo articolati ulterior-mente con un altro stabilimento produttivo a SanBenedetto Po in provincia di Mantova. Oggi tuttoil Settore Prefabbricati occupa circa 150 persone,con un fatturato che è passato dai 37 miliardi divecchie lire del ’99 ai 31 milioni di euro del 2002.

Il futuro? Secondo me non può che passare daquesta forte versatilità progettuale. Continuando,inoltre, a essere un interlocutore affidabile per i no-stri clienti in termini di qualità della nostra offerta.

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L’attività nel settore della ceramica nacque inseno alla Cooperativa Nazionale Edile di Campe-gine: le origini di questa scelta imprenditoriale ri-salgono alla seconda metà degli anni Cinquanta(allora era presidente Nello Cavalchi, a cui segui-rono Aurelio Conti e Luigi Rozzi).

La cooperativa, che allora operava esclusiva-mente nel mondo delle costruzioni tradizionali,aveva in quel periodo valutato forme di diversifi-cazione produttiva che tendessero a cogliere laforte richiesta di prodotti per l’edilizia e, nel con-tempo, socialmente si ponessero l’obiettivo di da-re risposta occupazionale ai tanti fuoriusciti dalmondo bracciantile agricolo della zona. Si scom-mise su progetti per i quali si potessero intravve-dere buone prospettive di sviluppo: la creazionedi solai prefabbricati latero-cementizi (detti tra-vetti-pignatta) e le piastrelle di ceramica.

La “grande avventura” della ceramica fece ti-midamente i primi passi nel ’60: gli investimentinecessari per entrare in questo settore richieseroun impegno notevole alla cooperativa.

Si acquistò un’area agricola di 30.000 mq inCampegine e si costruì il primo capannone. Pru-denzialmente, all’inizio, si decise di avviare l’atti-vità, partendo da una semplice smalteria. Si ac-quistava, nella zona di Sassuolo (patria del settoreceramico), il cosiddetto “biscotto” (la piastrellacotta grezza), per poi effettuare le operazioni didecorazione e smaltatura. Gli addetti erano circauna trentina, tecnologicamente poco assistiti, aiquali erano richiesti notevoli sforzi fisici. La lavo-razione era prevalentemente manuale: dal caricodelle linee di smalteria al decoro, dalla sbavaturaalla posa sui telai di essiccazione, dal carico e alloscarico del famoso forno a “passaggio”, fino allascelta e allo stoccaggio nel magazzino del prodot-to finito. Tutte operazioni che, per la loro natura,

comportavano una grande lentezza nel processolavorativo. All’inizio i risultati economici non fu-rono soddisfacenti.

Nonostante le difficoltà si continuò a investirein macchinari più moderni, si costruì un nuovoforno a “tunnel” che consentiva di produrre mag-giori quantità, con minori difetti. I nuovi macchi-nari per la smaltatura permisero di ampliare anchela gamma produttiva, unendo al rivestimento an-che la produzione di pavimenti. Con l’esperienza,anche il personale divenne professionalmente piùqualificato, tant’è che, sul finire degli anni Sessan-ta, si ideò in esclusiva un prodotto detto “MuranoVerde”, che incontrò un forte favore del mercato.

La Ceramica Campeginese, superati gli ini-ziali momenti di difficoltà, ottenne risultati so-stanzialmente positivi e consolidò una sua pro-spettiva imprenditoriale, puntando sulla qualità.Anche in conseguenza di questi incoraggianti ri-sultati, agli inizi degli anni Settanta, la cooperati-va decise di procedere a nuovi e forti investi-menti che le consentirono di consolidarsi ulte-riormente sul mercato. Svanita, nel ’77, l’ipotesidi unificazione in Coopsette, la Ceramica Cam-peginese si dedicò alla ricerca di nuovi spazi dimercato. Agli inizi degli anni Ottanta si fece unaccordo con la stilista Roberta di Camerino, perrealizzare un prodotto che si collocasse in unafascia alta di mercato. L’iniziativa diede buoni ri-sultati. Il settore incrementò il proprio fatturato,iniziò a diversificare i propri mercati, approcciòal mercato estero (sino ad allora era forte la pre-senza in Italia meridionale). Ma un nuovo pro-cesso produttivo si affermò sul mercato: la mo-nocottura. Nell’84 si valutò e si decise l’investi-mento nella nuova tipologia produttiva, checonsentiva di ottenere piastrelle di migliore qua-lità e a costi contenuti.

L’esperienza della Ceramica Da un colloquio con Valerio Rinaldini

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Si acquistò un’area di 70.000 mq, sempre inCampegine, prospiciente l’Autostrada del Sole,ove si costruì il nuovo stabilimento per la produ-zione di “monocottura a pasta bianca”.

Furono investiti diversi miliardi per acquisirenuove macchine ad alto contenuto tecnologico esi assunse personale con elevata professionalità(complessivamente si raggiunsero le 90 unità).

Gli inizi non furono esaltanti, ma permiserocomunque di aumentare la penetrazione sul mer-cato estero. Ben presto si raggiunse anche unequilibrio dal punto di vista economico.

Quando, qualche anno dopo (fine anni Ot-tanta, inizio anni Novanta), si ripresentò per laCooperativa Nazionale Edile di Campegine il te-ma della unificazione in Coopsette, si compreseche un rilancio significativo della ceramica erapossibile solo in un nuovo contesto strategico.

Il processo unificatorio si concluse con succes-so. Coerentemente con gli orientamenti dellacooperativa, che prevedevano per i vari settoriproduttivi un ruolo leader sui mercati di riferi-mento, si procedette a una profonda analisi delSettore ceramico.

Nel frattempo, i mutamenti del mercato stava-no producendo forti processi di concentrazione,creando gruppi, a volte multinazionali, in gradodi offrire gamme vastissime di prodotti e realizza-re forti economie di scala.

Vennero decisi ulteriori investimenti, ma glisforzi furono inutili.

La dimensione della Ceramica Campeginese,nonostante l’aumentata produzione e l’elevataqualità, si rivelò insufficiente a sostenere questacompetizione. Il tentativo di ricercare nuove nic-chie di mercato non fu coronato da successo, per

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cui, nel ’95, venne ceduto il ramo d’azienda allaABK di Finale Emilia, impresa del settore.

Quando la produzione venne trasferita defini-tivamente a Finale Emilia, la stragrande maggio-ranza del personale addetto (circa l’80%) fu ricol-locata internamente, in altri settori di Coopsette.Altri lavoratori scelsero autonomamente altreesperienze professionali.

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Nella pagina precedente

Anni OttantaLa Ceramica Campeginese sirinnova e costruisce a Caprara,in fregio all’autostrada delSole, un nuovo stabilimentoper la produzione dellamonocottura.

In questa pagina

A sinistra Anno 1977Stabilimento CeramicaCampeginese.Linea di smaltatura perbicottura: fase di decorazionemediante serigrafia.

A destra Anno 1985Tecnologie avanzate nel nuovostabilimento monocottura.Nella foto le attrezzature del“reparto scelta” cheprovvedevano, in automatico,alla calibrazione, misurazionedi planarità e selezione dellepiastrelle.

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daPer parlare della genesi del Settore Arredi dobbia-

mo partire dalla Coperfer: impresa cooperativa natanel ’61 su iniziativa della Cooperativa Nazionale Mu-ratori e Manovali di Sant’Ilario d’Enza, inizialmentevocata alla fabbricazione di manufatti in ferro e poi,successivamente, alla produzione di serramenti.

Coperfer nel ’67 incontrò una profonda crisi dimercato che la obbligò a ridurre pesantemente ilpersonale e a rivedere completamente le propriestrategie. In quel contesto negativo nacque l’idea,suggerita dall’allora sindaco di Sant’Ilario d’Enza,Lelio Poletti, di diversificare l’attività della coopera-tiva, passando anche alla produzione di mobili perufficio e, con quest’obiettivo strategico, fu acquista-ta la Metallufficio, azienda milanese del settore.

Purtroppo la realtà si presentò molto dura.Immediatamente si evidenziò la necessità di inve-stire in tecnologia e in personale maggiormentequalificato. Entrarono così diversi tecnici e ope-rai specializzati provenienti da una ditta concor-rente: la Salamini di Parma. Iniziò così la nuova at-tività con il marchio “La Metallufficio”.

La morte di Lelio Poletti, le difficoltà nel fi-delizzare il personale e nel ritargliarsi quote dimercato, segnarono negativamente i primi annidi vita. Seguono anni di ripresa, oltre alla Lom-bardia anche l’Emilia Romagna e altre regionidell’Italia settentrionale diventano aree com-merciali presidiate dal settore. Nel frattempo laCoperfer, sotto la presidenza di Pietro Iotti e poi

Il Settore Arredamento per UfficioDa un colloquio con Ottavio Casamatti

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di Ottavio Casamatti, ottiene risultati economicipositivi, pur dovendo affrontare momenti di dif-ficoltà per la grande crisi del ’74 generata dallaguerra arabo-israeliana. Tramontata l’ipotesi difusione con la COM, cooperativa emiliana delsettore arredi, nel ’75 si inizia a discutere del pro-cesso unificatorio che nel ’77 porta alla nascitadi Coopsette.

Negli anni successivi all’unificazione il Set-tore Arredi vive periodi altalenanti dal punto divista dei risultati economici, mantenendo co-munque sempre un ruolo di rilievo all’internodel mercato italiano.

Agli inizi degli anni Novanta Coopsette viveun periodo di profonda crisi che coinvolge quasi

tutti i propri settori produttivi, una crisi dovuta al-la precaria situazione economica, politica e socia-le del Paese.

Il ’94 è un anno di svolta. Enrico Banfi è il nuo-vo responsabile di settore e si adotta un piano dicambiamento articolato su due filoni: revisionestrategica e nuovo stile di direzione.

Il piano pone alcuni obiettivi di fondo: qua-lificazione, innovazione organizzativa e di pro-dotto, aumento di flessibilità, miglioramento delservizio al cliente e miglioramento dei processiaziendali interni.

Superando momenti di forte difficoltà i risul-tati arrivano, sia dal punto di vista dei volumi chedei risultati economici.

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Vengono ideate, ingegnerizzate e create nuovelinee di prodotto. Per le pareti attrezzate vieneproposta al mercato la linea “Metodo 7”, che sicontraddistingue per soluzioni tecniche innovati-ve e che allo stesso tempo richiede tempi di mon-taggio ridotti, con significative riduzioni di costi.

Nell’ottobre ’96, in occasione della Fiera In-ternazionale Orgatec a Colonia, viene presentatala nuova linea di mobili “Clover” (il nome è beneaugurante: significa quadrifoglio).

Il nuovo prodotto ottiene immediatamentedei positivi riscontri dal punto di vista commer-ciale, caratterizzandosi per qualità, forte versatili-tà e flessibilità in termini di personalizzazione alcliente finale. Vengono acquisite importanticommesse sul mercato nazionale, sono da ricor-dare tra i clienti principali: Cariplo, BNL, INPS,Unipol, Monte dei Paschi di Siena, Fagioli, Tele-com e altre aziende di primaria importanza nelpanorama italiano.

Si rafforza la presenza sul mercato estero (Eu-ropa, ma anche Nord America, Asia, Sudamerica

e Oceania), instaurando rapporti con clientele diassoluto prestigio, come: GSM (Russia), Procter& Gamble (Marocco), General Motors (Messico),Nike (Spagna), Dell Computer (Irlanda), DHL(Malesia), Philips (Singapore) e diverse altre azien-de primarie sulle principali piazze mondiali.

Nel ’98 il Settore Arredamenti per ufficio sidota del marchio Methis (dal nome della dea gre-ca della conoscenza e dell’oculatezza), mentre sicontinua a investire in ricerca, per l’ideazione dinuovi prodotti e servizi. Tale scelta risulta quasiobbligata su un mercato nel quale il ciclo di vita diun prodotto è mediamente di 5 anni.

Nel corso del 2000 Methis trasferisce la propriasede da Calerno al nuovo insediamento situato aCaprara, frazione di Campegine. In occasione del-l’inaugurazione del nuovo stabilimento, viene or-ganizzata una giornata aperta a tutta la popolazio-ne del territorio, alla presenza del Ministro di Gra-zia e Giustizia On. Piero Fassino e delle massimeautorità locali. L’iniziativa sarà un successo e vedràla partecipazione di circa cinquemila persone.

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Il nuovo millennio si apre con il settore, at-tualmente diretto da Lauro Tirelli, che occupa cir-ca 180 lavoratori e sviluppa un monte lavori an-nuo di circa 25 milioni di euro, forte di un’espe-rienza ormai più che trentennale e pronto allesfide future di un mercato articolato, complessoe fortemente concorrenziale.

Nelle pagine precedenti

8 Febbraio 1980Grande partecipazione allaFesta Sociale organizzataall’interno dello stabilimentoex-Icea, nel villaggio Bellarosaa Sant’Ilario, acquisito pertrasferire, in spazi più ampi, lacrescente attività dei settoriArredamenti e Infissi.

Settembre 1982Il ministro dei Lavori PubbliciOn. Franco Nicolazzi visita lostand del Settore ArredamentiCoopsette all’EIMU di Milano.

Lavorazioni nella produzionedegli arredi per ufficio.

In questa pagina

17 Settembre 2000Inaugurazione del nuovostabilimento Methis in localitàMilanello a Campegine. IlMinistro della Giustizia PieroFassino parla al folto pubblicopresente.

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Per parlare del Settore Armamento ferroviariooccorre partire da lontano: dal ’58, anno nel qua-le fu decisa la produzione di marmette da pavi-mento da parte della Cooperativa Industriale “LaFratellanza” di Cadelbosco Sopra, specializzata inlavori stradali e fluviali. Dovendo però acquistaregli impianti e organizzare un’unità produttiva au-tonoma (lo stabilimento fu collocato in frazioneZurco), l’attività vera e propria iniziò solo nel ’60.Le marmette servivano per la pavimentazione diabitazioni civili e uffici. Il processo produttivo erapiuttosto semplice, si realizzavano due tipologiedi prodotto: blocchi di cemento colorati con varitipi di graniglia marmorea e lastre di marmo con-glomerate mediante resine poliestere.

Si iniziò l’attività occupando una quarantina dioperai. I mercati di riferimento erano Italia, Fran-cia e Germania; ma l’avvento delle ceramichecambiò sensibilmente il quadro e orientò la dire-zione a sondare nuovi mercati, soprattutto versoi paesi del Golfo (Kuwait, Qatar, Libia ecc.).

Le attrezzature impiegate all’inizio dell’attivitànon erano tecnologicamente complesse, succes-

sivamente, comparvero sul mercato moderni im-pianti automatizzati che riducevano anche l’inci-denza della manodopera nel processo produttivo.

La cooperativa procedette, quindi, a significa-tivi investimenti tecnologici e, nel giro di pocotempo, si raggiunse un nuovo equilibrio nel fab-bisogno di manodopera. Dal punto di vista stra-tegico, per un manufatto di così semplice produ-zione, l’aspetto principale da curare era il marke-ting. La concorrenza era forte, inoltre i paesi arabisi caratterizzavano per l’instabilità dei mercati, inquanto soggetti a frequenti crisi politiche. Non-ostante tutto, il prodotto riuscì a conquistarsi unapropria quota di mercato.

Nel ’72 si realizzò l’unificazione con la Coope-rativa Muratori “La Nazionale”. Si decisero nuoviinvestimenti e si assunse nuovo personale com-merciale per mantenere e allargare le quote di mer-cato in altri Paesi del Golfo, pur essendo consape-voli che aumentando la produzione sarebbe au-mentata anche la complessità nella gestionedell’attività.

Nel ’77, all’atto dell’unificazione in Coopsette,

Dalle Marmette all’Armamento FerroviarioDa un colloquio con Sergio Landi

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Anno 1977Operaie al lavoro nell’exSettore Marmette. A produzione terminata,prelievo delle mattonelle dallastuccatrice per comporre ilpallet destinato allaspedizione.

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1995-1998Passante ferroviario di Milano. Un’opera prestigiosa che havisto l’impiego del Sistema diArmamento FerroviarioMassivo, interamenteprogettato all’interno dellaDivisione ArmamentoFerroviario di Coopsette.

Nella pagina a fianco

Stabilimento ArmamentoFerroviario: avvitamento del bullone diancoraggio per gli organid’attacco sulle traversebiblocco.

Stabilimento ArmamentoFerroviario: assemblaggio dei blocchettidel Sistema di ArmamentoFerroviario Massivoutilizzato per metropolitanee passanti ferroviari.

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si posero due importanti questioni: verificare laprospettiva strategica del Settore Marmette, inconsiderazione della concorrenza della ceramicae risolvere il problema dell’impatto sull’ambientecausato dagli scarti e dalle polveri post-lucidatura.

La direzione, non intravedendo prospettive disviluppo, decise la chiusura degli impianti e la lororiconversione. Le maestranze si opposero alla de-cisione, soprattutto preoccupate di doversi trasfe-rire nella sede di Castelnovo. Si arrivò così a unadecisione storica: la nascita del Settore Armamen-to Ferroviario, finalizzato alla produzione di tra-versine nello stabilimento di Zurco.

Iniziammo a produrre traversine su licenza diuna società francese, la Sateba, a cui pagavamodelle royalties per il brevetto. Si trattava di una tra-versa di tipo biblocco, cioè formata da due bloc-chi di cemento su cui venivano montati gli orga-ni di attacco, collegati tra loro da una barra di ac-ciaio a forma di “y”. Questo tipo di traversaveniva montata sulle linee ferroviarie secondarie.L’esperienza ci consentì di migliorare costante-mente la qualità delle nostre produzioni e così de-cidemmo di chiedere l’autorizzazione alle FS aprodurre anche le traverse monoblocco precom-presse (brevetto FS italiane) per le linee principa-li. Brevettammo delle lastre prefabbricate in ce-

mento per i passaggi a livello e agli inizi degli an-ni Novanta progettammo un sistema di arma-mento per assorbire le vibrazioni e i rumori nellegallerie. Tale sistema diede ottimi risultati, so-prattutto per le linee metropolitane.

La costruzione di traverse, rispetto alle stori-che marmette, si presentò molto più complessa.Basti pensare che la tolleranza massima all’attodel montaggio tra una rotaia e l’altra è di appenadue millimetri: l’impegno delle maestranze cipermise di produrre con queste precisioni. Permantenere tali risultati fu necessario investirecontinuamente alla ricerca di soluzioni tecnolo-giche efficaci e innovative. Ricordo alcuni mo-menti particolarmente significativi in tal senso,per esempio quando presentammo una “scarpa”di gomma da collocare nella parte di appoggiodella traversa per attutire i rumori. Successiva-mente venne studiato e brevettato un sistema diarmamento, costituito da manufatti prefabbri-cati con appoggi su monoblocchi in gomma, perottenere un assorbimento maggiore delle vibra-zioni prodotte dai convogli ferroviari.

Sperimentammo questo sistema nel passantedi Milano (il sottopasso che collega Melegnanocon le Ferrovie Nord di Varese), poi a Torino e aNapoli.

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Altro progetto importante fu quello dei de-viatoi, cioè gli scambi ferroviari, su traverse pre-compresse. In precedenza, i deviatoi si produce-vano con traverse multiblocco in cemento arma-to vibrato.

Ad oggi i lavoratori occupati nel settore supe-rano le 100 unità. La produzione è diretta e si svi-luppa un monte lavori annuo di oltre 20 milionidi euro, con risultati economici positivi. Diretto-re del Settore è attualmente Giuliano Ferrari.

Il nostro mercato di riferimento ha potenziali-tà di sviluppo, basti pensare ai vari tratti della lineaAlta Velocità, o ai trasporti urbani nelle grandi emedie città (metropolitane, metropolitane di su-

perficie, tramvie ecc.). Un motivo d’orgoglio per ilsettore? L’affidabilità che ci è sempre stata rico-nosciuta dai nostri clienti.

Ricordo con particolare piacere quando le FSaffidarono alla nostra cooperativa l’appalto perrealizzare il ricovero del Pendolino alla stazionedi San Lorenzo a Roma, anche in considerazio-ne della conoscenza e stima reciproca, maturatain tanti anni di collaborazione.

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Il Settore InfissiDa un colloquio con Romualdo Paterlini

Il Settore Infissi nacque a metà anni Sessantaall’interno di Coperfer, la cooperativa fondata nel’61 a Sant’Ilario d’Enza, con l’obiettivo di trova-re, per i giovani della zona, nuovi sbocchi occupa-zionali rispetto a quelli tradizionali dell’edilizia edell’agricoltura.

Nei primi tempi, la nuova cooperativa, con po-chissimi dipendenti, si dedicò alla realizzazionequasi esclusiva di arcarecci semicircolari per co-perture in ferro (da qui la denominazione di Co-perfer). Come spesso avveniva in quei tempi, il la-voro era faticoso e tecnologicamente poco assi-stito. Nel frattempo, a fronte di una discretarichiesta del mercato, si diede impulso alla produ-zione di scale e ringhiere in ferro, rimanendo co-munque nell’ambito della carpenteria metallica.

Solo alcuni anni dopo si iniziò a lavorare nel set-tore dei serramenti in alluminio: porte basculantiper garages, infissi per finestre, porte per condomi-ni, vetrine di negozi. La produzione era comunqueancora fortemente legata alle commesse della Co-operativa Muratori di Sant’Ilario.

La lavorazione dell’alluminio richiedeva un’a-bilità e una manualità artigiana di buon livello, chesapesse seguire l’evoluzione cantieristica. Dai pic-coli cantieri si passò a quelli medi e poi a quelli piùgrandi, in base alle esigenze dei clienti pubblici eprivati. Questo processo evolutivo obbligò a uncontinuo miglioramento della qualità del prodot-to e favorì una costante crescita professionale.

Il ’67 si caratterizzò per una profonda e gra-vissima crisi produttiva. La Coperfer fu costrettaa ricollocare parte del personale presso la Coope-rativa Muratori e, ove non assolutamente possibi-li altre soluzioni, a licenziare.

Con i primi anni Settanta entrarono in azien-da i primi lavoratori diplomati. Questo portò al-la formazione di nuovi profili professionali. Co-

perfer, che ormai aveva nel Settore Infissi unaconsolidata esperienza, sapeva rispondere alleesigenze più complesse del mercato. Passo dopopasso si attrezzò per gestire positivamente la do-manda connessa al mercato della cantieristicapubblica (scuole, ospedali, centri direzionali) eall’evoluzione che questa richiedeva nell’uso dimateriali sempre più moderni.

Con la nascita di Coopsette, il Settore Infissicontinuò il proprio percorso con risultati soddi-sfacenti, diventando una significativa realtà dellanuova cooperativa.

Agli inizi dell’83 viene acquisita la prima im-portante commessa su lavori monumentali, conla fornitura dei serramenti in acciaio zincato pre-verniciato per il CO.IN.OR. (Consorzio IndustrieOrafe di Valenza Po).

A metà degli anni Ottanta si firmano due im-portanti contratti con la Daewoo ConstructionCo. di Seoul per la fornitura di serramenti in al-luminio relativi a circa 15.000 appartamenti incostruzione a Tripoli e Bengasi in Libia. Per l’ac-quisizione di queste due importanti commesse

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giocò un ruolo determinante Multicoop (Con-sorzio delle cooperative industriali per l’espor-tazione), manifestatosi in una intensa e proficuacollaborazione del Settore con altre due coope-rative produttrici di serramenti in metallo: la CIRdi Imola e la Coop Giuliani di Forlì.

Nel corso dell’85 si segna un altro importantemomento con la presentazione alla fiera “SAIE-DUE” della nuova facciata continua, integral-mente progettata al nostro interno. Essa consistenel tamponamento perimetrico integrale di unfabbricato per tutti i suoi piani e, dal punto di vistadell’offerta, consente di posizionarsi su segmentialti di mercato (terziario e monumentale).

Un’ulteriore evoluzione progettuale viene rag-giunta con le “facciate sospese” che, nell’ambitodelle facciate continue, si prestano ad applicazioni

fortemente tecnologiche e celebrative, come gran-di pareti trasparenti in cui il confine tra l’interno el’esterno dell’edificio diventa quasi impercettibile.

Ad oggi, una parte considerevole dell’attivitàsi sviluppa sul segmento dei cosiddetti lavorimonumentali, segmento strettamente legato al-l’evoluzione dell’architettura moderna. La com-plessità crescente delle commesse, sia dal puntodi vista architettonico che dell’utilizzo di nuovetecnologie di materiale (vetro e leghe di metallileggeri), richiede una sempre maggiore qualifi-cazione dell’impresa.

Queste nuove tipologie produttive si integra-no con la consolidata presenza nella serramenti-stica più tradizionale.

Il settore, che dal ’99 ha assunto il marchioTeleya (dall’appellativo attribuito alla dea greca

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Era, per significare la compiutezza propria dellamaturità), occupa attualmente oltre cento addet-ti, sviluppando un monte lavori complessivo dioltre 20 milioni di euro. Quest’ultimo dato posi-ziona Teleya tra le principali imprese sul mercatonazionale.

Il settore è chiamato a misurarsi con iniziativemolto complesse, anche oltre confine, spesso conparticolarissime soluzioni estetiche degli architet-ti più famosi. Ciò ha consentito una forte crescitanella curva di esperienza e nel know-how.

Il 30% circa del fatturato si sviluppa all’estero,prevalentemente sul mercato francese. La con-correnza impone una continua ricerca di soluzio-ni tecnologiche innovative e qualificanti.

Tra i progetti più importanti, ai quali Teleya halavorato, sono da ricordare: il Palazzo di Giustiziadi Torino (20 mila mq di facciata continua), la Pre-fettura di Palermo, l’Ospedale di Silandro (Bolza-no), il Palazzo di Giustizia di Melun a Parigi, i nuo-vi ingressi dei Musei Vaticani (realizzati con unatecnica tutta a base di vetro che ha permesso la to-tale sostituzione dell’intelaiatura metallica), il Cen-tro Scolastico di Bolzano.

In proiezione futura Teleya ha l’obiettivo disviluppare ulteriormente le proprie capacità di en-gineering, distinguendosi per la qualità e le pre-stazioni delle opere realizzate. L’approccio al mer-cato si dovrà contraddistinguere per affidabilità ecapacità di governare progetti complessi.

Nelle pagine precedenti

Assemblaggio degli infissi instabilimento.

Dicembre 1996Foto di gruppo per il ServizioTecnico della DivisioneInfissi.

In questa pagina

Anno 1997Facciata continua ad altatecnologia nel Palazzo diGiustizia di Melun, in Francia.

Maggio 2002Torre Direzionale nell’areaFiumara di Genova: un’operacaratterizzata dalla facciatacontinua realizzata da Teleya,Divisione Infissi.

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Tra le diverse attività confluite in Coopsette almomento dell’unificazione, l’edilizia rappresen-tava sicuramente il nucleo fondamentale. Quasitutte le cooperative unificande vantavano un’im-portante esperienza in questo campo e quindi unapropria peculiarità. Rendere omogenee tante cul-ture, tante abitudini fu il primo compito che Co-opsette dovette affrontare.

A capo della nuova Divisione Costruzioni funominato Pietro Iotti, già presidente della Mu-ratori di Sant’Ilario, che ricoprì l’incarico per cir-ca un anno. Amalgamare il nuovo insieme nonfu facile. Ogni tecnico, capocantiere, muratoretendeva naturalmente a continuare nelle proprieabitudini consolidate. Dato che ci si organizza-va per cantiere c’era quasi una sorta di concor-renza. Un esempio significativo era quello delladistribuzione della manodopera tra i cantieri: iresponsabili erano tre (Riccardo Speroni, IvoCurti e Brenno Bonini), provenivano da tre co-operative e si contendevano i migliori muratoriper mandarli sui “loro” cantieri.

La struttura tecnica era ridotta all’osso, unaquindicina di addetti; non c’era un servizio acqui-sti né un ufficio commerciale (anche perché mol-te commesse arrivavano dal CCPL). Si attuò unariorganizzazione per funzioni, che vide sorgereuffici completamente nuovi come il servizio pro-grammazione lavori.

Dal punto di vista commerciale e degli acquistisi instaurano significativi rapporti con alcuni orga-nismi del movimento cooperativo: il CO.NA.CO.(Consorzio Nazionale della Cooperazione delleCostruzioni) e l’ACAM (Consorzio Nazionale diServizio delle Cooperative di Produzione e Lavo-ro). I consorzi rivestono in questa fase un ruolo dirilievo sia dal punto di vista della promozione com-merciale verso le principali stazioni appaltanti, sia

nella definizione delle politiche di acquisto all’in-terno del movimento, producendo così risultati in-dubbiamente positivi per le singole cooperative.

Già nei primi anni post-unificazione divennelacerante la crisi del tradizionale mestiere dell’edi-le. I giovani non entravano più nel settore, men-tre prendeva piede la nuova figura del “cottimi-sta”, artigiano specializzato che otteneva un’altaremunerazione grazie a una prestazione lavorati-va molto spinta e poco regolamentata.

Per rispondere a questa situazione Coopsette,come tante altre cooperative, sperimentò la stradadell’industrializzazione dell’edilizia. La nuova tec-nologia della costruzione a tunnel venne tentatain un cantiere a Lodi (30 alloggi) e poi a Como(170 alloggi), ma si rivelò un’illusione perché erarigida e offriva finiture molto povere. Le impresespecializzate dei cottimisti divennero un elemen-to centrale del lavoro in edilizia. La cooperativa inun primo momento reagì irrigidendosi, ma poidovette prendere atto della nuova realtà, con unforte dibattito interno e con alcune lacerazioni.

Nei primi anni dopo l’unificazione prevalevail dato ideologico. La stella polare era l’egualitari-smo (si deliberò che tra il salario massimo e quel-lo minimo il rapporto non poteva superare il 2 a1); vi era una forte rigidità sull’orario di lavoro;l’attività immobiliare era guardata con sospetto econsiderata anomala per una cooperativa.

Questo approccio venne via via superato dal-la forza degli eventi e dalla maturazione di unadiversa consapevolezza in un importante nucleodi capicantiere e tecnici. Un primo segnale di no-vità in campo imprenditoriale fu la promozionedi una lottizzazione convenzionata con il Co-mune di Cadelbosco, in località Madonnina, cherappresentò un’anticipazione di quella che oggiviene definita project finance.

Il Settore CostruzioniDa un colloquio con Giovanni Panciroli

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Superata l’iniziale fase di travaglio, la Divisionecominciò a spiccare il volo, sia in termini di mon-te lavori prodotto, sia per quanto riguardava lapresenza sul mercato, sempre più autonoma ri-spetto ai Consorzi. Venne rafforzata la tradizio-nale presenza a Reggio, a Genova e a Milano e siavviò un tentativo di radicamento nella zona diIvrea. Il rafforzamento e la qualificazione dellastruttura tecnica consentivano di affrontare com-messe sempre più specializzate.

È nella seconda metà degli anni Ottanta chevengono realizzate opere come l’impianto delle Fer-rovie dello Stato a Pontassieve per la riprofilatura afreddo delle rotaie usate, il primo ipermercato a Cre-mona e si avvia il progetto per la realizzazione del-l’autoparcheggio di Portofino. In questa fase vieneanche acquisita la ditta Carnaroli di Fano, specializ-zata in opere marittime e dotata di alcune iscrizionicon importo illimitato all’Albo dei Costruttori.

Il culmine dello sviluppo viene raggiunto tra il’90 e il ’92, sia grazie al nuovo apporto della Co-

operativa Nazionale Edile di Campegine e dellaCeim di Mantova (entrate in Coopsette), sia per ladefinitiva affermazione come impresa generale dicostruzioni. Sono di questo periodo opere chehanno segnato la storia dell’azienda: la sede dellaSeat di Ancona, realizzata su una innovativa strut-tura antisismica all’avanguardia in Italia; lo stabili-mento FS per la manutenzione del Pendolino; ilcentro commerciale di Grugliasco, all’epoca tra ipiù grandi d’Europa. Una citazione a parte meritala realizzazione dell’Acquario Oceanico nel PortoAntico di Genova, in occasione delle celebrazionicolombiane. Coopsette fu l’unica impresa a con-segnare nei termini l’opera, grazie a uno sforzostraordinario; si arrivò a lavorare 24 ore su 24, contre turni, anche alla luce delle fotoelettriche.

Il ’92 è l’anno d’inizio della grande crisi che tra-volgerà l’intero comparto delle costruzioni, inconcomitanza con la fase di tangentopoli, che ve-drà molti costruttori al centro della bufera. La Di-visione si trova a competere in un mercato diffici-

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le, sia per l’accentuata riduzione della domanda,sia per il crollo dei prezzi.

Sono anni molto difficili, che però non ven-gono vissuti solo in termini di resistenza alle av-versità. È proprio in questa fase che si gettano lebasi per il futuro. La Divisione scommette sullapropria qualificazione e avvia due progetti: la pro-mozione della figura del Project Manager e dellamodalità del lavoro in team da un lato e il proces-so per ottenere la certificazione di qualità ISO9001. Nel ’96 la Divisione Costruzioni di Coop-sette otterrà questa certificazione tra le prime im-prese di costruzioni in Italia.

Proprio negli anni Novanta, per trovare un’al-ternativa al mercato degli appalti pubblici, viene ac-

celerata l’esperienza dei progetti di iniziativa azien-dale (PIA), interventi di recupero urbano o di valo-rizzazione di nuove aree, promossi direttamente esenza apporti di risorse pubbliche. Prende così cor-po, in particolare con l’esperienza di Genova a SanBiagio e a Fiumara, il riposizionamento strategicodell’intera Coopsette come promotore radicato,che ha segnato i successi degli ultimi anni. Dal 1999il ruolo di direttore del Settore è ricoperto da AlfioLombardi.

Nel campo degli appalti pubblici la Divisionemantiene una presenza importante, focalizzata sualcuni specifici mercati. Il più rilevante è quello fer-roviario, nel quale abbiamo accumulato importantiesperienze: attualmente stiamo operando, in par-

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daNelle pagine precedenti

1991-1993Realizzazione dellatangenziale di Pavia: il ponte sul Ticino.

30 maggio 1992Cerimonia di inaugurazione,alla presenza delle massimeautorità locali,dell’autoparcheggio diPortofino.

In questa pagina

Maggio 1996I partecipanti al corsoorganizzato per i gruisti e gliaddetti alle macchineoperatrici del Centro Servizi.

ticolare, su una tratta della nuova linea ad alta ve-locità Milano-Bologna e sui nodi di Roma e Bolo-gna. Siamo inoltre presenti in modo significativonella realizzazione di strade e autostrade e in duenicchie di mercato molto qualificate: le opere ma-rittime e le metrotramvie urbane.

Rispetto a 25 anni fa la nostra Divisione ha di-mostrato di saper cambiare e ha dato vita a espe-rienze originali, confermandosi come uno dei pi-lastri della Cooperativa.

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