Coolclub.it n.64/65 (Giugno-Luglio 2010)

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PERSONAL JESUS anno VII numero 64-65 giugno-luglio 2010

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il numero doppio di giugno e luglio 2010 di coolclub.it, il magazine di musica, libri e spettacolo del Salento è dedicato al sacro e al profano nella musica rock.

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PERSONAL JESUS

anno VIInumero 64-65giugno-luglio 2010

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Jesus Christ Superstar e Tommy vanno visti. Sono la riconciliazione del rock con Dio. Il rock non è di Satana, almeno non solo. il rock è estre-mamente religioso. Prendi alcuni martiri del rock, che ne so Jim Morrison, profeta morto giovane proprio come Gesù. E poi prendi i testi delle canzoni, le vite disperate, le dichiarazioni delle rock star, fanno quasi sempre riferimento ai grandi nodi della cristianità , ai grandi contra-sti che sono poi anche della vita. Ed ecco perché esiste il rock che parteggia per Satana, perché il rock è come la vita. Ma non solo. Il rock è fatto di icone, di reliquie, di personaggi venerati per generazioni, di immortalità, proprio come la reli-gione. Esiste poi una sorta di spiritualità legata alla musica e ai musicisti, una sorta di aura che circonda gli artisti elevandoli facendogli perdere alcune caratteristiche terrene. E i fedeli al verbo del rock a volte sono sette votate a un solo santo, partecipano al rito del concerto, ascoltano ripetu-tamente il verbo del loro personal jesus attraver-

so i suoi dischi. Un tema che è come un punto di fuga, ricco di collegamenti, storie e aneddoti che meriterebbero un libro. Ma lo spazio è poco e il tempo sempre di meno. Alcuni, pochi in realtà, avranno notato che questo numero ha tardato molto ad uscire. Ci scusiamo per questo con i no-stri lettori più affezionati. In compenso il tempo a disposizione gli ha permesso di mantecare con calma e di essere più ricco e denso di altre volte. Il prossimo numero del giornale, come ogni anno è dedicato ai racconti. Invitiamo chiunque di voi voglia proporci un suo scritto, a contattarci scri-vendoci a [email protected]. Sempre restan-do in tema mi piace segnalarvi la seconda uscita della nostra collana editoriale Coolibrì. Il libro sui libri è un volume dedicato alla passione per la lettura, un amore che speriamo di trasmettere ogni volta con queste, più o meno puntuali pa-gine.

Osvaldo Piliego

EditORiALE

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CoolClub.itVia Vecchia Frigole 34c/o Manifatture Knos73100 LecceTelefono: 0832303707e-mail: [email protected]: www.coolclub.itAnno 7 Numero 64-65giugno-luglio 2010Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844

Direttore responsabileOsvaldo Piliego

Collettivo redazionaleCesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo, Pierpaolo Lala

Hanno collaborato a questo numero: Dino Amenduni, Gianluca Morozzi, Marco Montanaro, Giancarlo Susanna, Salvatore Caracuta, Ennio Ciotta, Nino G. D’Attis, Alfonso Fanizza, Rino De Cesare, Tobia D’Onofrio, Marco Chiffi, Federico Baglivi, Dario Quarta, Roberto Conturso, Fabio Rossi, Fulvia Balestrieri, Silvia Margiotta.

In copertina: John Lennon

Ringraziamo Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag.com, Radio Popolare Salento, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Radiodelcapo, Musicaround.net.

Progetto graficoerik chilly

Impaginazionedario

StampaMartano Editrice - Lecce

Chiuso in redazione con più di un mese di ritardo, ma non se ne è accorto nessuno.

Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: [email protected]

dio è morto 6icone 10idolatria? What’s idolatria? 12Siamo in missione per conto di dio 17

A toys Orchestra18Amor Fou 22Recensioni 26Salto nell’indie - interbang 40

davide Enia 42Francesco dimitri 44Recensioni 46

Federico Zampaglione 54Edoardo Winspeare 56 dalla vita in poi 57

Calendario 59

PUGLiA SOPRA LE RiGHE

mUSiCA

LibRi

CiNEmA tEAtRO ARtE

EvENti

SOmmARiO

6In foto Kings of Leon

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diO È mORtOSacro e profano nella musica rock

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L’icona non muore, assurge al mito e conquista l’eternità. Ogni persona o idea che raccoglie in-torno a sé fedeli ha un che di religioso. Vale per Gesù Cristo come per Michael Jackson.E tutte le fedi vivono di piccoli grandi misteri, il segreto che solo l’immaginazione può colmare. Il proselitismo musicale collima con quello reli-gioso e insieme a lui converge nel fanatismo. La musica si nutre di religione. Da lei attinge nella costruzione del rito, nella sua solennità, nel grande carico simbolico e iconografico. Santi e divinità diventano nomi d’arte. Solo po-chi giorni fa i giornali titolavano: Dio è morto. E non si riferivano certo a Nietzsche o al nuovo marito della pop star Madonna (al secolo Louise Veronica Ciccone) ma al cantante Ronnie Ja-mes, leggenda dell’heavy metal (leader, tra gli altri degli Heavenandhell, tanto per rimanere in tema). Sacro e profano sono materie che collimano, si sovrappongono e si sopraffanno, nella cronaca di tutti i giorni, così come nel rock. Un gioco, a volte pericoloso, una provocazione, a volte gratuita, un tendenza a voler prendere le distanze da ciò che è comune per diventare “altro”.Il desiderio, l’aspirazione, il mistero sono sen-timenti che animano il fedele. Sentimenti che fanno del musicista una star e che bisogna pro-teggere in un mondo che sembra muoversi nella direzione opposta. I reality hanno rovinato la musica, lo dicono tutti. La gente ha smesso di sognare e di avere incubi e le nuove stelle della musica sono comete che si eclissano in una stagione. La vita svelata uccide la poesia, l’aura che circonda le cose. Anche per questo abbiamo scelto di dedicare questo numero del giornale al sacro e al profano in musica. Perché oggi più che mai abbiamo bi-sogno di credere in qualcuno e qualcosa: che sia dio o un anticristo. Per molti il rock è la musica del diavolo. Per cer-ti versi è vero ma esiste d’altro canto tutta una scena musicale fatta di conversioni, misticismo e spiritualità.A molti il nome di Aleister Crowley suonerà familiare. È considerato il padre del satanismo moderno. La sua filosofia aveva un che di edoni-sta che ben si conciliava con lo spirito del rock.La sua immagine campeggia sulla copertina di

Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band degli insospettabili baronetti di Liverpool. Gli stessi Beatles cambiarono di lì a poco rotta per seguire il Maharishi in India e abbracciare la meditazione trascendentale. Tutte esperienze che si ripercuotono in qualche modo sul pubblico ma anche sulla musica che assume sfumature nuove legate appunto alla predisposizione “spi-rituale” del periodo. Orientare l’anima verso un credo porta inevitabilmente a solleticarne la sensibilità musicale. Ecco che storie e leggende in tal senso cominciano ad avere un peso impor-tante nell’evoluzione della musica. È evidente, giusto per fare un esempio, ascoltando la musica di Richard Thompson. Abbandonati i Fairport Convention intraprenderà una carriera solista che nei primi album lo vede esplorare il rock and roll delle origini e la musica popolare inglese fino al 1975, anno in cui esce Pour down like silver, album che coincide con la sua conversione al su-fismo islamico e che è intriso di atmosfere musi-cali decisamente nuove e “mistiche”.Una conversione decisamente più rumorosa fu quella di Bob Dylan, che alla fine degli anni set-tanta abbracciò la religione cristiana dividendo l’opinione pubblica e i fan. Un cammino comin-ciato nel ’79 con l’album Slow train coming e che porta lo stesso Dylan, nel 1997, a suonare al co-spetto del papa, che nel corso del suo discorso compie un gesto incredibile per la storia della religione: cita dei versi di Blowing in the wind e abbatte per un attimo, e forse per sempre, il confine tra sacro e profano. Altre volte l’adesione a una fede è nascosta.Celebri sono i messaggi criptati che popolano alcuni dischi famosi. Si dice ad esempio che suo-nando al contrario Starway to heaven (potenza e unicità del vinile) dei Led Zeppelin sia possibi-le distinguere “Ecco il mio dolce Satana, la cui piccola via non mi renderà triste...”e cose simili. Anche loro come i Beatles erano appassionati di Aleister Crowley e sono stati i primi a utilizza-re simboli satanici su una copertina. Non sape-vano che dopo di loro si sarebbe letteralmente scatenato l’inferno. Con l’avvento dell’hard rock e dell’heavy metal il diavolo torna di moda alla grande. La lista di band e di canzoni che fanno esplicito riferimento al male è lunghissima, tra tutti il nome più suggestivo e fantasioso è sicu-

ramente Impaled Nazarene.Difficile e pericoloso è stabilire quanto le band cosiddette sataniste o pseudo sataniste abbiano un’influenza reale sull’avvicinamento di alcuni giovani alle pratiche sataniche. È un argomento delicato. Di sicuro la musica e più nello specifico gli idoli sviluppano emulazione.Canzoni come Suicide solution di Ozzy Osbour-ne pur non contemplando il male, è un invito al suicidio.Quindi a parte la religione, la musica diventa una questione etica e il ruolo dei musicisti si ca-rica di responsabilità, senza esagerare però.La beatificazione di musicisti fa male. Personag-gi come Bono Vox, invasato nelle sue campagne per ridurre il debito o il carrozzone del LiveAid di Bob Geldof trapassano la musica, diventano politica che è sicuramente peggio della religione.Ci sono poi storie che non ti aspetteresti mai. Gli Who ad esempio, la loro carica vitale e “distrutti-va”, la vita fatta di eccessi (celebri le scorribande

del batterista Keith Moon) a tutto farebbero pen-sare tranne che alla religione. Eppure forse non tutti sanno che Baba O’ Riley, canzone contenu-ta nell’ album Who’s next del 1971, è dedicata al guru indiano Meher Baba. Sempre restando in zona di guru altre celebri conversioni sono quella di Santana che in un disco appare al fianco di Sri Chinmoy nella posizione del loto e quella di Cat Stevens che a un certo punto della sua carriera ha addirittura ripudiato le sue origini musicali (con cui si è riconciliato solo recentemente) cam-biando il suo nome in Yusuf Islam.Contrariamente a quello che si pensa, i sex symbol non devono essere necessariamente belli e dannati. Ne è un esempio una delle band più cool del momento: i Kings of Leon, tre fratelli figli di un pastore pentecostale e un cugino cre-sciuti a pane e gospel.E poi alla fine, pensandoci bene, cosa c’è di più rock and roll di Gesù?

Osvaldo Piliego

In foto Yusuf Islam

iCONELa musica, la religione e i nuovi culti pagani

Cinque lettere bastano a spiegare un fenomeno. La parola icona deriva dal greco eikon: immagi-ne. In particolare, una raffigurazione di eventi o personaggi appartenenti alla sacralità. L’icona è un’icona (scusatemi il gioco di parole) cristiana. Gesù e la Madonna sono i personaggi pop, i più raffigurati in questa speciale forma d’arte. Ed eccoci al punto di contatto tra culture, storie, mondi che forse sarebbe bene tenere separati, su binari perfettamente paralleli, ma che la blasfe-mia ci impone di unire. Icona come la Madonna, icona come Madonna. Nessuno crede che fra 2000 anni pregheremo su ciò che resta di Louise Veronica Ciccone (ma forse non pregheremo nemmeno sulla Madonna, l’originale), ma oggi come oggi è difficile stabilire quale delle due sia la più vera e quella più ogget-

to di narrazioni mitiche, quale sia la pop, qual è la più decisiva sull’evoluzione pedagogica della società occidentale.L’uso della parola icona accanto alla parola pop, o accanto a personaggi del mondo della musica, non può essere certamente frutto di una casua-lità. I grandissimi hanno saputo attivare mecca-nismi di fidelizzazione talvolta estremi, al limite della devozione, del dogmatismo, del fondamen-talismo. Si arriva a fare di tutto pur di esserci, pur di avere un contatto con l’icona, pur di entra-re in simbiosi con lo Spirito. Questi comportamenti sono difficilmente codifi-cabili, ancor di meno sono inquadrabili in una qualche categoria psicologica: i fan sono persone perfettamente normali, ma si lasciano andare ad un’allucinazione individuale e allo stesso tempo

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collettiva. C’è chi si fa dell’oppio della religione, chi si fa di copie esclusive del DVD del concerto dal vivo in cui il paladino o la paladina di turno stecca a ripetizione, ma lo fa con grande stile.Sarà un caso, ma le icone della musica pop (e dintorni) non sono mai persone perfettamente a posto. O hanno sconvolto la storia della musica o si sono sconvolti con droghe e vite dissolute; o hanno abusato del sesso o si sono inventati im-probabili percorsi di astinenza ed ascesi; o hanno affrontato profondi stati depressivi o hanno fatto fatica a tenere a bada il proprio ego (o entrambe le cose, peggio per loro); o sono morti molto gio-vani, o molto poveri, o molto soli. Hanno avuto tutto, e forse non ne hanno avuto idea. Gesù e la Madonna non fanno eccezione: anche loro hanno avuto una vita decisamente fuori da-

gli schemi. I loro fan li seguono con immutata devozione da millenni. E in fondo se lo merita-no. Non si può dire che le icone della musica pop abbiano avuto la stessa grazia: alcuni musicisti sono ancora amati dopo 40 o 50 anni, ma la ten-denza più ricorrente dei tempi è bruciare le gio-vinette dopo averle sovraesposte. Certo, niente di così doloroso: in alcuni casi i Santi e i prota-gonisti dell’iconografia cristiana conoscevano le fiamme, senza figure retoriche. Però, proprio per questo, la parola icona rischia di perdere quel si-gnificato magico che ha avuto per anni, pur con improbabili traslazioni tra sacro e profano.Lady Gaga, salvaci tu.

Dino Amenduni

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Idolatria? Ma dite quella cosa, tipo, non so, le fan dei Beatles che strillavano così forte da assorda-re i musicisti sul palco, le fan di Michael Jackson in lacrime davanti al moonwalking, i fan pazzi che ammazzano l’idolo che secondo loro li ha traditi? Nooo. Non so di cosa stiate parlando. Io vado ai concerti da vent’anni, e questo fenomeno dell’idolatria delirante non credo di averlo mai visto.Per esempio, quella fan tedesca di Bob Dylan che somiglia in parte a un bulldog e in parte al geo-metra Filini, quella che segue Bob Dylan dap-pertutto, quella che una volta, a Padova, mentre era appoggiata alla transenna, quando una ma-dre aveva sporto il proprio bambino oltre la tran-senna coprendo al bulldog la visione di Bob Dy-lan per pochi secondi, e lei allora aveva spostato di lato il bambino con un gesto brusco al limite della violenza sui minori, quella che davanti a Dylan esibisce tre tipi di gesti, il gesto di agitare le chiavi, che vuol dire: Bob, non dormire sul tour bus o in qualche squallido motel stanotte, vieni in camera con me, il gesto del pollice alzato, che

vuol dire: grazie, Bob, ho capito che stai cantan-do questo verso per me, perché hai notato la mia maglietta tematica e la mia pettinatura, il gesto delle corna alzate, che può voler dire: viva il me-tal o Bob ti amo, con qualche moderata certezza in più per la seconda possibilità, ecco, quella fan tedesca a me non sembra un’idolatra, mi sembra una persona molto lucida.E quella fan emiliana di Bob Dylan che a tren-tacinque anni ha mollato lavoro e famiglia e si è messa a girare il mondo con il cartello I need a free ticket esibito davanti a ogni luogo dell’esibi-zione di Bob Dylan, e siccome il mondo non si gira a piedi e ogni tanto il cibo e un letto sono un’esi-genza necessaria si fa mandare soldi dai genitori, ma se glielo chiedete lei non dice che sono i soldi dei genitori, sono soldi che le manda proprio Bob Dylan, per mantenerla in questa sua attività di fan internazionale e globale, e si arrabbia anche un po’, quando racconta questa cosa, dice Non ca-pisco perché Bob deve umiliarmi così, perché i sol-di non li dà direttamente a me anziché mandarli ai miei genitori?, e poi aggiunge, di tanto in tanto,

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idOLAtRiA?WHAt’S idOLAtRiA? Confessioni di una persona molto lucida

io e Bob unendo i nostri poteri potremmo fermare i terremoti e le inondazioni, ma lui è così pigro, ecco, anche questa non è un’idolatra, è una perso-na assolutamente lucida. O quel fan di Bob Dylan un po’ più anziano, che alla fine di ogni concerto afferra per un braccio il vicino di posto e comincia a sfogarsi, Ma basta, dice, è ora di finirla, ma per-ché Bob deve ostinarsi a suonare con una band?, lui deve tornare a suonare da solo, chitarra e ar-monica!, lo dico tutte le sere da quarant’anni, sono quarant’anni che mi arrabbio con Bob, e dopo lo sfogo dice Beh, allora ci vediamo domani sera al concerto di Lipsia, vero?, ecco, anche quest’uomo, che da quarant’anni gira il mondo per vedere un concerto che gli fa schifo, sperando tutte le sere che Bob Dylan impazzisca e decida di rimettersi a fare una cosa che ha smesso di fare nel 1965, non è mica un idolatra, è un uomo molto lucido, no?Oppure, cambiando cantante – che altrimen-ti sembra che solo Bob Dylan abbia dei fan così lucidi al seguito –, quella volta che Bruce Springsteen è sceso un po’ alticcio nella hall di un albergo di Monaco, nel ’93, e c’erano dei fan

italiani, e lui è andato da una fan italiana piut-tosto carina e le ha messo allegramente la lin-gua in bocca, e il giorno dopo il marito di questa la esibiva come un trofeo dicendo a tutti Le ha messo la lingua in bocca!, Bruce le ha messo la lingua in bocca! Oppure, per esempio, quando un fan a caso, uno che assomiglia molto al tizio bolognese che sta scrivendo questo pezzo, trovandosi di fronte Bru-ce Springsteen per le vie della sua città, Bruce Springsteen che usciva da una palestra del cen-tro, dove si teneva in forma per il concerto del giorno dopo, questo fan, avendo davanti il pro-prio idolo, avendo in mano un pennarello e un cd dell’artista in questione, volendo dire al proprio idolo mille cose, tutto quello che significava per il fan la musica e i dischi e i concerti dell’artista, e invece si ritrova a dire la seguente frase com-mossa: “Uuuuuuh”, e si limita a porgere a Bruce Springsteen il pennarello e il cd, anche lui non è mica un idolatra. È una persona molto lucida. No?

Gianluca Morozzi

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JOHNNY CASH tRA SACRO E PROFANO

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«Ma il messìa è solitario.[…] è l’affilato che squarta il tempo in due: prima di lui è premessa, dopo di lui è scaduto, concessione di supplementari.»

Erri De Luca

Quanto meno insolito. Chissà che faccia avran-no fatto i suoi fan, ascoltandone la voce a set-te anni dalla morte, quando il vecchio Johnny Cash è tornato per cantare: «Nessuna tomba può trattenere il mio corpo». E’ tornato sotto forma di inedito per il sesto album della collana American, in un pomeriggio di febbraio, cantan-do di resurrezione. Tra la sacralità delle ultime composizioni di Cash, del suo rapporto coi fan, e il profano di una mossa commerciale, c’è solo da perdersi. Certo il vecchio Cash tra sacro e pro-fano ha rischiato più volte di lasciarci le penne. Lasciate perdere le acconciature cotonate degli show televisivi, le uscite con gli Highwayman, lasciate perdere i film e le piazzate da Al Bano dell’Arkansas. Johnny Cash sapeva dove anda-va: dove doveva andare. E forse per questo ogni tanto finiva nel deserto.Il deserto: luogo unico della mitologia america-na; ma anche del Vecchio Testamento. Cash era capace di sparire nel deserto per giorni. Fuggi-va in auto, con sé solo della buona musica spi-ritual. Andava a perdere/trovare se stesso o le leggi in cui stentava a credere (la legge che lo arrestava per detenzione di sostanze stupefa-centi o la legge del mercato che lo poneva dietro Elvis, re del rock’n’roll, mentre Cash inseguiva il sogno di pubblicare un disco di soli spiritual) come accadeva a molti ebrei qualche millennio prima. Come accade tutt’ora a molti. Alla ricer-ca della storia: Cash inseguiva tanto le frecce degli indiani rimaste conficcate nelle caverne quanto le tracce dei soldati di fanteria. Cash inseguiva la storia americana per intero – così fu che la cantò, vittime e colpevoli unico coro – declinandola secondo la sua fede. Perché la fede è racconto.Capita a chi si occupa di storie – che lo faccia per iscritto, in musica o coi pennelli – di porsi il dilemma. Chi racconta storie può non credere alle Scritture? Non può fare spallucce. Così ad oggi A singer of songs del vecchio Johnny Cash rimane una delle più toccanti canzoni su Elo-hìm e sulla necessità sociale del profeta come narratore. Il narratore – cantore – che neppu-

re davanti al Creatore china il capo e dichiara, fiero, di aver solo raccontato storie. Senza pos-sibilità di sottrarsi al dovere, con il solo attimo in cui si riprende fiato come spazio minimo per il libero arbitrio – esattamente quanto accadde ad Abramo con Isacco. Nel declinare storie se-condo una qualsiasi fede – idea? principio? – c’è la conferma suprema di sé, del non essere soli, o unici.Ogni cosa ha poi necessità di riscontro fisico; concreto e materiale. Risulta difficile insegui-re il sogno di Cash, il cortocircuito tra sacro e profano – realizzato probabilmente solo con il colpo di coda finale della serie degli American – tornando alla realtà delle nostre chiese. Mi è capitato con una statua di Sant’Antonio in una chiesa di Lecce. Ci provo col barocco. Dell’uma-nità affamata di storie – di conferme di non esser soli – che riecheggia nei versi di Cash – spesso eco di altri versi, è la tradizione – c’è ben poco nel culto nostrano. Passato per il pagane-simo dei campi, dove pure si cantava, adesso è congelato. Fermo alla statua, immobile nel chiacchiericcio delle mode del Venerdì Santo – appare incolmabile il distacco tra sacro, sempre più sacralizzato, e profano, che è solo profana-bile; mentre sfilano i pellegrini con le croci non c’è silenzio, a malapena sforzo. L’appartenenza è fatica fisica, sudore. Non appartiene a questa parte di mondo. Le confraternite – un tempo composte da muratori, venditori ambulanti – arrivavano nella piazza del paese affaticate e sbronze con le statue in spalla. Erano profani assoluti che s’inventavano il sacro. Delimitare il campo per il passaggio della statua era allora questione di vita o di morte. Per questo si ar-rivava al contatto fisico, perché in quel campo scampo non c’era. Ad oggi guardi i crociferi e pensi chi gliela fa fare. Il Klu Klux Klan sfila in paese.Anche il KKK fu sulle tracce di Cash. A seguito del primo arresto per droga, finì sui giornali la foto di lui che usciva dal carcere accompagnato dalla prima moglie, Vivian. Pare che in quella foto Vivian avesse i tratti tipici di una negra (non lo era). Il KKK insorse. Voleva fargli la pelle. Poi una storia d’avvocati persa nel nulla. Ma anche questa dev’esser confluita nel poema I am the nation in cui Cash riesce a mettere insieme ogni pezzo d’America dall’Alaska ai nativi americani. L’unico che diventa contrad-dizione, moltitudine, nel nero del vestito degli ultimi: il raccontabile tra gli spazi del sacro e del profano. Noi dove siamo?

Marco Montanaro

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NON C’È UNA SOLA RiSPOStA A NULLALe idee religiose di John Lennon

John Lennon – con o senza Yoko Ono al suo fian-co - sembrava proprio nato per fare scandalo o creare polemiche. Il suo anticonformismo, già presente quando era ancora un ragazzo e fre-quentava la scuola, venne poi amplificato dal suo status di leader dei Beatles, uno dei fenome-ni mediatici più importanti del secolo passato. Ancora oggi una sua affermazione sulla popola-rità dei Beatles rispetto a quella di Gesù Cristo – sparata a grandi lettere sui titoli dei giornali, con effetti dirompenti anche nei confronti degli altri tre Beatles – viene ricordata da chiunque decida di occuparsi di lui. Quella volta John fu costretto a spiegare che il suo non era stato un giudizio sul valore e sull’importanza della reli-gione cristiana, ma la semplice constazione di un dato di fatto.Quando i Beatles si separarono, nel 1970, si sen-tì finalmente libero di esprimersi senza rischiare di danneggiare qualcuno e realizzò “John Len-non/Plastic Ono Band”, l’album più duro e im-pietoso di tutta la sua carriera. Un album, va sottolineato, sulla cui busta interna erano ripor-tati tutti i testi, cosa all’epoca ancora non molto comune. Furono in modo particolare due canzoni di quel disco ad attirare l’attenzione dei critici: “Working Class Hero” e “God”.Nella prima John racconta la sua storia e la sua presa di coscienza dei danni e delle sofferenze che il potere può infliggere a un adolescente. Per chi scrive queste righe, costretto a frequentare il liceo in una scuola cattolica, “Working Class Hero” fu importante quanto “La Buona Novella” di Fabrizio De André – in particolare “Il testa-mento di Tito” – per capire di non essere isolato. Non sarò certamente il primo a tentare di spie-gare quanto peso abbiano avuto alcuni artisti nell’indicare la strada della consapevolezza a un’intera generazione. «Sono stato cresciuto nella religione cristiana – è John Lennon a parlare - e in ogni modo soltanto adesso capisco alcune delle cose che Cristo dice-

va in quelle parabole. Mi sono allontanato dalle interpretazioni che mi sono state gettate addos-so per tutta la vita. C’è di più. (…) non voglio dire nulla di un uomo (Bob Dylan, ndr) che ha cerca-to qualcosa o che l’ha trovata. È una sventura quando la gente dice “questa è la sola strada”. È l’unica cosa cui sono contrario: se qualcuno dice “questa è la sola risposta”. Non voglio sentirlo. Non cè una sola risposta a nulla».E ancora: «La gente ha idea che io fossi anti-cristiano o anti-religioso. Non lo sono per nulla. Io sono molto religioso. Religioso nel senso che c’è… che esiste più di ciò che appare. Di sicuro non sono un ateo. C’è più di quanto potremmo sapere. Credo che questa magia sia soltanto un modo per definire la scienza che non conosciamo ancora o che non abbiamo ancora esplorato. Que-sto non è per nulla anti-religioso».In “God”, Lennon disegna con l’acutezza che gli era abituale l’autoritratto di un laico. Soltanto gli integralisti avrebbero potuto sentirsi offesi dalla sua sincerità e dal suo testardo sottrarsi al ruolo di leader o di portavoce che tanti volevano attribuirgli. In questa canzone – come anche in “Imagine” – Lennon sostiene che ognuno deve pensare con la sua testa e agire di conseguenza.«Devi farti il tuo sogno. (…) Produci il tuo so-gno. Non aspettarti che Carter o Reagan, John Lennon o Yoko Ono, Bob Dylan o Gesù Cristo vengano e lo facciano per te. (…) Io non posso svegliarti. Tu lo puoi fare. Io non posso curarti. Tu puoi curarti»Il verso che dice, “Dio è il concetto con cui mi-suriamo il nostro dolore” è seguito da un elenco di idee o di persone in cui Lennon non credeva – compresi i Beatles – e da una frase molto sem-plice,“Io credo solo in me, in Yoko e me, e questa è la realtà”.

Giancarlo Susanna

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All’inizio erano due personaggi da cabaret. Due musicisti strampalati che si esibivano al Satur-day Night Live, la più grande trasmissione comica della televisione americana. A impersonarli Dan Aykroyd, faccia da schiaffi della commediola made in Usa, e l’introverso John Belushi, eccentrico e scapestrato. Rivisitavano il blues della tradizione, vestiti come detective da film noir, abito e cravatta neri, camicia bianca, in testa un Borsalino da gang-ster e inconfondibili Ray-ban Wayfarer, introdu-cendo uno stile che sarà poi tanto caro alle future iene tarantiniane nonché teleitaliche. Dopo le pri-me apparizioni, sgominato l’iniziale scetticismo, il duo conquista il pigro spettatore americano. E in un’epoca di glamrockstar brillantate e popballeri-ne, riportano in vita l’anima soul dell’America me-ticcia, riprendono il blues lì dove era rimasto, nei club notturni sulle rive del Mississippi, e lo fanno arrivare in tutto il mondo. Quando partoriscono l’idea del film, insieme a John Landis, quello che sembrava un duetto da qualche minuto televisivo si trasforma in un vero e proprio mito planetario, intramontabile come tutti i cult. Jake ed Elwood Blues sono cresciuti in un orfanotrofio cattolico, ge-stito dalle suore. La struttura sta per chiudere, a causa di un mancato pagamento al Fisco. I fratelli Blues vorrebbero contribuire al reperimento dei 5 mila dollari necessari, ma suor Mary Stigmata non si fida della loro fedina penale. Sarà Cab Calloway, nei panni di Curtis, un inserviente dell’orfanotro-fio, l’uomo che aveva introdotto i fratelli, da piccoli, al mondo del blues, a suggerirgli una soluzione. La posta in gioco sembra alta. E “quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare”. Curtis li convince a recarsi nella vicina chiesa battista di Triple Rock, dove il reverendo Cleophus James, uno strepito-so James Brown, conduce una liturgia in perfetto stile gospel. Accompagnato dal James Cleveland’s Southern California Community Choir, il Padrino del Soul (così amava definirsi James Brown) inter-preta un emozionante gospel, “The Old Landmark”, che servirà a far comprendere ai due fratelli la “sa-cra” necessità di rimettere insieme la loro band e racimolare i soldi necessari ad evitare la chiusura

dell’orfanotrofio. La “rivelazione” si manifesta con Jake illuminato da una luce divina nella chiesa battista, durante la roboante funzione religiosa. Da quel momento, i Blues Brothers sono “in missione per conto di Dio”. Gospel in inglese si traduce con Vangelo. Le chiese afroamericane degli anni ‘30 ini-ziarono a trasformare i cori religiosi delle funzioni ecclesiastiche in vere e proprie esecuzioni canore. Al coro faceva da contraltare, come un solista, la voce del reverendo, che intonava salmi e passi del-la Bibbia come fossero testi di canzoni blues. Ad un certo punto entrò in contatto con i gruppi mu-sicali di un genere analogo, il Jubilee, in voga già all’inizio del Novecento. I predicatori diventarono sempre più protagonisti, introducendo in chiesa gli strumenti musicali del jazz, le percussioni, i fiati. Il Gospel infine uscì dalle sacre mura delle chiese e divenne un genere musicale autonomo, suonato nei club da quartetti che, via via, introdussero altri temi, oltre a quelli religiosi, e innovazioni ritmico-armoniche. Negli anni Sessanta, i Gospel avevano finanche lo scopo di dare messaggi di protesta po-litica a chi frequentava le chiese, contro la segre-gazione razziale e la repressione dei diritti civili. Predicatori e reverendi impegnati, non disdegnava-no l’inserimento subliminale di strofe non propria-mente evangeliche. Dalle chiese nere del sud degli Stati Uniti, i cori gospel si espandevano in tutti gli Stati Federati, infondevano coraggio a chi sognava l’uguaglianza in ogni angolo d’America. Nel 1980 i due fratelli “bianchi” cantano classici della tradizio-ne musicale “nera”, pezzi di Robert Johnson (Sweet Home Chicago) e Solomon Burke (Everybody needs somebody to love), ispirati da Ray Charles e Cab Calloway (memorabile la sua esecuzione di Minnie The Moocher in stile Cotton Club), illuminati dal carisma di James Brown e dalla sacra luce del Dio dei Gospel. Questa era la loro strampalata missione per conto di Dio. Una missione che andava ben oltre le apparenze, uno spartiacque culturale e sociale. Un testamento musicale per un’America che stava sparendo. E che, paradossalmente, due comici in abito scuro avrebbero fatto ricordare per sempre.

Salvatore Caracuta

SiAmO iN miSSiONE PER CONtO di diOI Blues Brothers dal cabaret al mito assoluto

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mUSiCA

Foto di Graziano Staino

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A tOYSORCHEStRALe chiacchiere di mezzanotte dell’orchestra salernitana

Le cose fatte bene non si possono etichettare, tan-tomeno le si può assegnare un luogo. Ho sempre creduto che le fantomatiche città musicali (Roma, Firenze, Bologna, Milano) siano solo delle piazze dove le cose hanno più spazio per farsi vedere. Le cose belle, quelle preziose veramente nascono ovunque, dove meno te lo aspetti. A toys orchestra è la dimostrazione suonante che un gruppo di ra-gazzi della provincia di Salerno è capace, grazie a un talento cristallino, di conquistare il mondo. Questo nuovo album Midnight talks è la conferma di una band in continua crescita.

Midnight talks è un disco che conferma la vostra attitudine musicale fedele alla melo-dia ma allo stesso tempo libera e sorpren-dente. Il caleidoscopio di citazioni musi-cali a cui attingete è immenso ma convive incredibilmente. C’è una traccia che segui quando cominci a scrivere?Beh, in effetti non seguo alcuna traccia definita o un qualunque tipo di iter. Non mi è mai capitato di pensare “adesso scrivo una canzone” o “in que-sto testo parlerò di questo” o tantomeno “oggi faccio un pezzo alla Clash”.Diciamo che il mio non è un approccio di scrit-tura “colto”, piuttosto lo definirei istintivo, anzi impulsivo. È ovvio poi che quello che mi accade intorno confluisca nella scrittura… ma non mi limiterei a parlare di influenze provenienti dalla sola musica… L’ispirazione può essere così vasta che non può circoscriversi al solo ambito in cui si agisce.Come dire, i pittori non si ispiravano per forza ad altri quadri. È normale però che dalla mu-sica si denotino maggiormente le caratteristiche delle contaminazioni dei “maestri” di questa ca-tegoria… ovviamente in quanto alunni abbiamo appreso, apprendiamo ed apprenderemo sempre la lezione… Ma ci sono tanti impulsi dalla vita e dal mondo intorno a noi che è difficile affidar-si solo ad un tipo di influenze… per me sarebbe troppo meccanico.

Questo disco arriva dopo 10 anni e una se-rie di esperienze. Pensavi di fare tanto par-tendo da Agropoli?Ovviamente agli inizi non ci preoccupavamo molto di quello che sarebbe successo poi… Cer-to, l’ambizione è stata sempre una costante dei Toys, tutt’ora ne è la colonna portante. Venendo poi da una piccola provincia del sud sentivamo forte l’esigenza di crearci qualcosa… In realtà non saprei dire quanto abbiamo scelto questo tipo di vita o quanto esso abbia in un certo senso scelto noi… ma quando si inizia questo percorso uno dei motivi che ti spinge a farlo è il sognare... E alle volte i sogni si costruiscono con le realtà…

Nonostante cantiate in inglese la vostra musica ha un retrogusto italiano (nel disco avete anche un brano che omaggia Celenta-no e non solo nel titolo). Che rapporto ave-te con la musica italiana d’annata? E con quella di oggi?Personalmente sono un grandissimo cultore della tradizione italiana, davvero a tutto tondo. Partendo dagli anni trenta di Rabagliati, pas-sando per Modugno, fino alla felicissima paren-tesi che va dai sessanta agli ottanta e quindi da Tenco, De Andrè, Mina, Battisti, Dalla, Gaeta-no, Celentano fino a Camerini, Rettore, i Decibel e così via… Non trascurando poi l’aspetto dei grandi compositori di cinema e teatro… ovvia-mente Morricone, Fiorenzo Carpi, Nino Rota, Bruno Nicolai… o chessò nella tradizione teatra-le napoletana, “la gatta cenerentola” ad esem-pio che ha delle musiche che adoro… La musica italiana è quella che ascolto di più. A qualcuno potrà sembrare paradossale ma è così. C’è una tale ricchezza al solo interno del nostro piccolo stivale che non basta una vita per esplorarla tutta… Proprio qualche giorno fa ne parlavo in furgone con Beatrice (Antolini)… dicevo appunto che adesso avrei voluto dedicare la mia attenzio-ne all’epoca prog italiana, a band come gli Area, le Orme, gli Osanna… che avevano un approccio

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libero alla composizione davvero affascinante che oggi sembra essersi quasi del tutto estinto. Mi intriga moltissimo approfondirlo. Della mu-sica attuale non saprei… ci sono delle realtà im-portanti, quelle che alla fine non hanno bisogno di grandi presentazioni... insomma potrei essere molto banale… Almeno per quanto concerne la musica italiana (cantata in italiano) pecco però un po’ di “passatismo”… diciamo che a mio avvi-so dopo i novanta qualcosa si è rotto… con le do-vute eccezioni certo, ma a mio umile parere dopo gli ottanta qualcosa forse si è spezzato…

Siete un gruppo solido, nonostante tu scri-va le canzoni e i testi, l’effetto musicale sembra molto corale. Come lavorate?Dici bene… È così perché siamo a tutti gli effet-ti una band. Tutti hanno un ruolo vitale per il gruppo… il mio è quello di scrivere le canzoni… Di solito funziona che io compongo a casa al pia-no o alla chitarra e poi le rielaboriamo insieme in sala prove… Come dire, io sono il motore… ma la macchina per muoversi ha bisogno inevitabil-mente anche di ruote, sterzo, marce…

Midnight talks è un titolo molto suggestivo. Cosa vuol dire per te?La mezzanotte nel titolo è intesa come compo-nente di incognita, mistero… Come quel lasso di tempo sospeso tra l’oggi e il domani, quindi oniri-camente tra passato e futuro. Nel booklet del cd ho scritto una frase “cos’è la mezzanotte? È l’oggi o il domani?” ecco questo è l’emblema del con-cetto. La mezzanotte come limbo temporale che conferisce questa accezione indefinita ai “dialo-ghi di mezzanotte” che poi altro non sono che dialoghi d’amore… quell’amore che però sfugge, ferisce, frastorna, stordisce… non è certo l’amore dei “tvtb” quello di Midnight Talks… ma è il ten-tativo di esplorare quel sentimento che è pregno di gioia e di estasi ma che è al contempo gemello dell’odio, del dolore… ma anche della passione accecante, del desiderio carnale, o dell’istinto infantile. E ancora dell’impulso mistico e spi-rituale… quel sentimento che tiene in ostaggio l’umanità dall’alba dei tempi… quello stesso sentimento che può essere chiamato con un in-finità di appellativi diversi e che probabilmente null’altro è che un sinonimo della vita stessa.

Nel disco ci sono una serie di ospiti che rendono il tutto più prezioso. Ce ne parli?I musicisti con cui abbiamo collaborato sono delle persone fantastiche oltre che cari amici. Enrico Gabrielli in veste di arrangiatore d’or-chestre, Rodrigo d’Erasmo (Afterhours), Luciano Macchia e Raffaele Kohler (Vinicio Capossela)

come esecutori strumentisti, e Asso Stefana (Vi-nicio Capossela) in qualità di arrangiatore di lap steel e dobro… Tutte persone con cui abbiamo condiviso l’entusiasmo nel godere insieme la gio-ia della creazione... Tutto nasce quando decisi di coinvolgere Enrico Gabrielli nella stesura degli arrangiamenti. Ci conoscevamo da tempo e le doti di Enrico non sono un segreto per nessuno. Avevo però bisogno del suo entusiasmo e del suo coinvolgimento emotivo ancor prima delle sue immense doti tecniche. Quando Enrico ascoltò i provini il suo ardore fu talmente convincente al punto da dar vita a questa collaborazione davve-ro in modo atipico. Infatti, nonostante l’impres-sionante mole di lavoro di arrangiamento da lui scritto, già di per se indice della sua sensibilità al progetto, non volli ascoltare nulla di quanto stava facendo se non direttamente in studio a registratore acceso… Niente… neanche una sola prova, nè un provino audio… nulla… tutto affi-dato alla fiducia… all’alchimia empatica che ero sicuro che fosse l’ingrediente fondamentale… L’entusiasmo e l’empatia sono dunque stati la chiave del successo di questa collaborazione.. Tutti hanno “sentito” questo disco sulla propria pelle.

La vostra musica è romantica, ironica, nel vostro mondo quanta realtà entra?Tanta… tantissima… Poi sta noi decidere se e come elaborarla.. Si può partire da un concetto materiale per poi inerpicarsi nell’astrattismo più puro… Per fortuna non ci sono regole nella musi-ca… Ovviamente per me l’input parte dal mondo che abbiamo intorno... È incredibile quello che ogni giorno ci accade. Forse siamo solo troppo abituati e un tantino alienati… ma se si prova a soffermarsi con maggiore attenzione allora ci si accorge che l’incredibile prende vita ogni secon-do, minuto, ora, giorno… e la fantasia non è altro che una delle appendici della realtà. Diceva Bu-kowski “l’umanità e il più grande spettacolo del mondo, e non si paga neanche il biglietto”.

Avete molte date in programma, la dimen-sione live è fondamentale per gruppi come il vostro. Come sarà il vostro nuovo spettacolo?Abbiamo riportato le canzoni di questo disco alla loro essenza più pura… Era difficile portare in giro queste canzoni così come sono sul disco… ci sareb-be voluta un intera sezione d’orchestra... magari più in là accadrà anche questo… Ma per adesso abbiamo deciso di spogliarle dall’abito sgargiante e sofisticato del disco per metterle a nudo… È un live quindi dove il tasso emotivo è molto alto.

Osvaldo Piliego

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AmOR FOULa band milanese ci racconta i moralisti d’Italia

Realizzare un concept come I moralisti è una cosa rara per la musica italiana. Il nuovo album degli Amor fou è una visione poetica e spietata del no-stro Paese, uno sguardo neorealista che emerge attraverso dieci personaggi e dieci storie capaci di raccontare trent’anni di storia. I moralisti è un disco importante perché segna il passaggio all’età adulta dell’indie italiano che si riconcilia con la no-stra canzone d’autore. Oggi gli Amor fou sono Ales-sandro Raina, Leziero Rescigno, Giuliano Dottori e Paolo Perego e il 27 luglio saranno a Lecce, ospiti della rassegna Sud Est Indipendente.

Un album come uno sguardo sul nostro tempo. Chi sono i moralisti di oggi?Tutti e nessuno. I ‘nostri’ moralisti sono persone che nella loro normalità risultano immediata-mente scollati o semplicemente ‘altri’ rispetto a gran parte della società che hanno attorno. Sono persone che compiono delle scelte radicali perché hanno il coraggio (o la sfrontatezza) di compierle ed andare fino in fondo. Persone la cui etica di pensiero o regola di vita costituisce di per sé una forma di radicalismo, forse l’ultima rimasta in piedi dopo il tramonto delle ideologie. Probabil-

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mente nella società stessa ce ne sono molti di più ma per qualche motivo evitano o non riescono ad agire secondo determinati principi per un arco della propria vita tale da poter determinare un evento o un cambiamento, positivo o negativo che sia.

Musicalmente il disco sembra sospeso tra una tensione verso la canzone d’autore anni ’70 e una propensione rock che aleggia sul fondo. Come vi siete approcciati all’ar-rangiamento di questi brani?Abbiamo cercato di sintetizzare le tantissime suggestioni che i generi citati ci hanno trasmes-so nel passato e nel presente, cercando quindi di coniugare elementi tipicamente italiani con formule di estrazione internazionale, per vedere cosa accadeva. Non ci siamo posti il problema di coniugare canzone d’autore e new wave piutto-sto che il mood francese anni ‘70 e il pop inglese. Pensiamo anzi sia uno degli elementi più stimo-lanti nel fare musica oggi.

Ogni canzone è una storia. Come hai scelto i personaggi e le vite che animano I mora-listi?Sono le storie ad essersi imposte. In tre anni di vita on the road si incontrano tane persone e tante Italie che poi sono sempre la stessa gran-de provincia che prova a diventare grande senza riuscirci mai fino in fondo. In questo abbiamo cercato di fare nostro lo sguardo neorealista e l’attitudine del Pasolini di Comizi d’Amore, ossia di eclissarci come autori e far parlare le persone, senza interpretarle più di tanto.

Di questi tempi un disco come il vostro suo-na come un’assunzione di responsabilità. In un momento in cui la musica sembra virare verso il disimpegno, voi chiedete at-tenzione. Cosa credi stia succedendo alla musica oggi?La musica è una grande forma di intrattenimen-to e da sempre esiste la musica ‘disimpegnata’, spesso di grande qualità. Il problema si pone quando artisti assolutamente disimpegnati ven-gono fatti passare per cantautori dalla critica che dovrebbe contestualizzarli e al contempo la musica perde appeal e si assiste al ritorno in auge della figura dell’interprete come unico esponente della cultura ‘pop’ di un paese. Si crea un panorama in cui cover e brani origi-nali stanno sullo stesso piano, gli autori scompa-iono e il virtuosismo è l’unica forma espressiva. Ognuno è libero di schierarsi dove può e come può, noi cerchiamo di fare nostro un certo arti-

gianato e di restituire una piccola parte di digni-tà a una tradizione musicale altissima che ci ha reso persone migliori.

Il passaggio a un major cambia un po’ i con-torni di ciò che vi circonda. Come vivete questa nuova avventura?Con la certezza di dover essere autonomi e ca-paci di delineare il nostro futuro. Una major ha potenzialità enormi e al contempo pone proble-matiche a volte superflue ma ineludibili, per cui occorre sempre grande capacità di mediazione e interazione. Per ora siamo soddisfatti ma al con-tempo pensiamo si possa e si debba sempre fare di più.

Alcuni vi hanno apostrofato come gli anti-Baustelle. Cosa ne pensi?I Baustelle sono già loro stessi gli anti-Baustelle! Scherzi a parte stimiamo moltissimo la penna di Francesco Bianconi che rispetto a me credo scri-va canzoni molto più ciniche e al contempo molto più easy. Tuttava il taglio sonoro, la produzione e il modo di interpretare la musica scelto dalle due band è radicalmente diverso, al di là dei gu-sti, e mi pare abbastanza immediato da capire ascoltando il nostro sound o vedendo come af-frontiamo il live, evitando valanghe di turnisti, post-produzioni, voci in base (…) e cercando di risultare ancora piu’ viscerali e ‘free’ rispetto al disco. In questo guardiamo molto di più a proget-ti esteri che non ai Baustelle che nel bene e nel male rappresentano bene la scena italiana da cui sono, peraltro meritatamente, emersi.

La vostra passione per il cinema è nota a chi vi ascolta e a chi vi ha visto suonare. I moralisti si può definire un disco neorea-lista?Assolutamente si. Insieme la cinema inchiesta di Rosi e Petri quello del neorealismo resta uno sguardo attualissimo ed esemplare nei confronti della realtà umana che ci circonda.

Amor fou è una creatura cangiante. Chi sono oggi gli Amor fou?Sono diventati finalmente una band che suona e condivide degli spazi, con una struttura che li dispensa da una immane mole di lavoro non strettamente artistico e un fonico con cui mette-re a punto tutti gli aspetti del live che rispetto al disco si basa su variabili molto meno controllabi-li e richiede una enorme applicazione per offrire ogni sera al pubblico lo spettacolo che merita.

Antonietta Rosato

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FONOKitLa nuova avventura del gruppo rock salentino

Tutti ricordano i Blundinvidia, una band che in tempi non sospetti ha portato il Salento rock in giro per l’Italia, che prima di tutti, forse, è sbar-cata su Mtv, e che insieme a pochi altri è soprav-vissuta agli ’90.Oggi la creatura rinasce, risponde al nome Fo-nokit, assesta un po’ la formazione e rigenera il suo sound proiettandolo in una direzione nuova capace di conciliare il rock e l’elettronica. Il ri-sultato è Amore e purgatorio, un disco maturo, una prova di grande stile senza mai perdere la rabbia.

Fonokit è la reincarnazione di un proget-to che per anni ha dettato un suono che ha influenzato molto rock salentino e non solo. Questo cambiamento vuole segnare

una nuova stagione dei Bludinvidia o è una nuova storia ?Direi che per noi è una nuova storia sotto molti punti di vista. È chiaro che un gruppo di musi-cisti che ha lavorato insieme e fatto cose per più di 10 anni ha difficoltà a nascondersi dietro un semplice nome. Poi non mi è mai piaciuto il con-cetto di nome di gruppo, mi ha dato sempre la sensazione di roba adolescenziale, anche quando io stesso ero adolescente, ma d’altronde non ci potremmo chiamare i “Marco Ancona, Paolo Pro-venzano e Ruggero Gallo”. In genere il metodo che ho trovato per riuscire a sopportare il nome di gruppo, è pensare che sia solo una denomina-zione di un progetto musicale. Ed è esattamente ciò che è Fonokit.

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Il disco ha un suono nuovo, un felice in-contro tra rock ruvido dall’attitudine punk wave e un’elettronica mai troppo invasiva che contribuisce a rendere la struttura ro-busta e accattivante. Come siete arrivati a questa formula?Grazie al fatto di aver raggiunto il traguar-do di mettere su un nostro studio perso-nale, per la prima volta abbiamo deciso di cimentarci nella produzione completa di un disco sia a livello artistico che tecnico. Ci siamo potuti prendere tutto il tempo di cui abbiamo avuto bisogno per sperimentare solu-zioni sonore, senza nessun discografico che ci correva dietro per spendere il meno possibile. Il risultato viene da tentativi di produzione mira-ti a un qualcosa di nuovo che avevamo in testa, a una sonorità che era esattamente come l’hai descritta. In particolare non volevo che le mie chitarre suonassero come le solite chitarre che potevo aspettarmi da me stesso, come allo stesso tempo ci piaceva l’idea di ottenere delle batterie acustiche che suonassero con un feel quasi da drum-machine.

Le canzoni sono storie, l’uomo che si muove in un mondo che non capisce o non vuole accettare, ma anche un uomo e i suoi rap-porti interpersonali. Cosa volevi racconta-re con queste canzoni?In generale direi il mio essere disadattato a gran parte delle cose che circondano un po’ tutti.Visto però come girano le cose e da quello che si vede in tv ecc.., pare appunto che gran parte delle persone è ben adattata al merdaio in cui viviamo e ne è anche felice. Io no e vivo volentieri una mia realtà parallela nel bene e nel male.

Il disco ha un buon potenziale radiofonico senza essere un disco commerciale. Si può ancora fare della buona musica e sposare il mercato?Non lo so, ci sono dinamiche molto particolari intorno alle programmazioni radiofoniche dei grandi network, soprattutto poi quando si par-la di fasce orarie particolari che sono quelle che fanno il grosso mercato. Tra queste dinamiche diciamo che il fattore “qualità della musica” non è mai al primo posto, ma la speranza che un gior-no potrebbe esserlo resta sempre.

Ci sono una serie di rimandi al buon rock classico, quali artisti e quali dischi ti hanno influenzato nella scrittura di questo album?Analizzandolo ora a freddo, credo che esca fuori tutto il nostro gusto per le sonorità punk-wave di

fine anni ’70 ma anche codici musicali apparte-nenti alla scena indie dei ’90.Non mi viene in mente qualche artista o qualche disco in particolare però. La lavorazione di Amo-re o Purgatorio è stata molto lunga e comples-sa e, per tutti i due anni che ci sono voluti per completarla, ogni giorno che uscivo dallo studio facevo qualsiasi cosa fuorchè ascoltare musica..

Perché Amore o purgatorio? L’album affronta problematiche, paure, decisioni e indecisioni che normalmente si vivono nel pas-saggio dall’essere giovani all’età adulta soprat-tutto in questo periodo storico e nel contesto che stiamo vivendo. Il titolo potrebbe indicare il dub-bio che affiora quando arriva quel momento in cui non sai più se le passioni e i valori, nei quali hai sempre creduto, siano qualcosa che tutto ciò che hai intorno inficia, a tal punto da pensare che gli stessi siano peccati dai quali redimersi.

Nella musica non si parla di maturità ma di crescita continua. Questo album arriva in una stagione creativa particolarmente buona, cosa ne pensi?Beh, era un po’ di tempo che nella scena indie italiana non c’erano contemporaneamente tan-te proposte così diverse tra loro e mediamente di buona qualità. Mi fa particolarmente piacere perché non siamo immersi in un grande periodo a livello sociale, politico ed economico che possa tendere ad incoraggiare la creatività.

Questo numero di Coolclub.it è dedicato al sacro e al profano in musica. Credi in un senso spirituale della musica, nelle conver-sioni di alcuni artisti, vedi la musica come qualcosa di mistico in sé, come un rito pa-gano, o cosa?Vedo la musica come qualcosa di “mistico” nel senso che secondo me ha una vita superiore alla nostra dimensione: non sai per quale motivo è capace a volte di darti delle sensazioni così estre-me e forti, non sai neanche da dove viene e dove va a finire. Di conseguenza la si potrebbe con-templare come si contempla la natura o il senti-mento dell’amore o cose così.Detto questo però, secondo me non c’entra niente con la religione. Non credo che Dylan abbia scrit-to di meglio o di peggio da quando si convertii... ed è andata bene. Little Richard smise di fare rock’n’roll perché ritenuta la musica del diavolo. E musica del Diavolo sia !

Osvaldo Piliego

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UNKLEWhere did the night fallSurrender All

Disco dopo disco, il progetto inglese attivo dal 1994 e guida-to da James Lavelle è riuscito a conquistare il rispetto della critica e l’attenzione di un pub-blico eterogeneo congiungendo due sponde apparentemente lontane: elettronica e rock. Me-rito di un Dj-produttore tra i migliori sulla piazza, autentico genio che in studio di registra-zione si muove come un regista cinematografico (un Kubrick, un Hitchcock, per intenderci) in grado di plasmare le doti dei collaboratori scelti (DJ Shadow, Thom Yorke, Richard Ashcroft, Ian Brown sui primi lavori) alle direzioni musicali degli Unkle. Con Where did the night fall siamo al quinto capi-tolo, opera anticipata un anno fa dal brano Heavy drug e oggi da Follow me down, frutto del-la collaborazione con i califor-niani Sleepy Sun e, sul piano visivo, con gli artisti Warren Du Preez e Nick Thornton Jo-nes, alla regia di un sensuale videoclip interpretato dalla top model Liberty Ross. La lista degli ospiti chiamati a presta-re servizio in studio di regi-strazione include anche Mark Lanegan (al microfono nella nerissima Another night out), Joel Cadbury dei South (Ever rest), Katrina Ford dei Celebra-tion (Caged bird), Gavin Clark (Falling stars; The healing) e i texani Black Angels (Natural selection). Si avvertono ancora I riverberi delle scosse psych

prodotte da Josh Homme nel 2007 in War Stories, album che ebbe anche l’enorme merito di resuscitare la voce di un im-bolsito Ian Astbury nei cinque emozionanti minuti di Burn my shadow. Psichedelia, dunque (con virate verso lo space-rock), ma anche punk-wave (On a Wire, featuring ELLE. J), soul di matrice rigorosamente black per una rilettura dei generi (dance inclusa) fatta con equi-librio, classe e idee da vendere. Chitarre, tastiere, ritmica in primo piano, voci che racconta-no storie legate a tutte le possi-bili facce della notte. Un disco da avere nella doppia, lussuo-sa edizione con booklet di 30 pagine illustrato da Du Preez, Thornton Jones e Ben Drury e versioni strumentali della trac-klist principale.

Nino G. D’Attis

SORRY-OK-YESRubberizedHalidon/ Bloom

Soprannominati “i The Kinks aggiornati al 21 secolo”, i Sor-ry-Ok-Yes si presentano come il classico duo alternative-rock in formazione tipica chitarra e batteria che tanto sta imper-versando nei postriboli della scena indie italiana.Dopo l’ottima prova ostentata con l’ep, Doing more with less (del 2008), Materazzi (voce e chitarra) e Ferrari (batteria) si concedono l’onore e l’onere di esordire sulla lunga distanza pubblicando l’album Rubberi-zed, grazie anche al supporto

artistico garantitoli dalla pre-senza di Mac chitarrista dei Negrita.Come consuetudine accertata, il fraseggio chitarra-batteria funzione in modo eccellente, e i Sorry-Ok-Yes dimostrano la loro affinità a questa predispo-sizione strumentale erogando canzoni di forte impatto, una decina di “schegge” rock’n’roll contaminate di richiami gara-ge-pop/ new wave (Sixteens e No reason (to be true), influen-ze alternative (Stick and home) e forti impulsi blues al giusto grado di acidità (What is your name e O’blues), il tutto rigoro-samente cantato in inglese.Rubberized risulta coinvolgen-te, energico, ricco di estro e ben curato, denotando la dinamici-tà di alcuni brani come Sixte-ens, Prime time idiocy, Love is fear e Keep on goin’home.

Alfonso Fanizza

THE BLACK KEYSBrothersNonesuch RecordsDimenticate il graffiante gara-ge-blues degli esordi, qui non ne troverete traccia, o forse lo coglierete a tratti, stempe-rato da ondate di primitivo rock’n’roll, tracce quasi ‘70s brit-glam, numeri soul, interfe-renze funk e vaghi sentori folk. Una mescolanza di sonorità profonde e decelerate, che per poco meno di un’ora vi accom-pagnerà attraverso qualche sperduta autostrada nel torri-do ma afoso sud degli States, fra paludi, zanzare e un’umi-dità prossima al 100%. Dan Auerbach e Patrick Carney, nella penombra della loro can-tina, si ostinano ad ingrassare il blues elettrico dei Cream con la sessualità del voodoobilly dei Cramps, con il gusto avariato di Jon Spencer, con quello ruf-fiano dei White Stripes. “Bro-thers” ci racconta, insomma, di una ormai avvenuta trasfor-

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mazione da impavidi banditori garage-rock-blues degli anni recenti a smaliziati interpreti della nuova onda indie ameri-cana. Comunque vividi, passio-nali e grandi Black Keys!

Rino De Cesare

JOHN GRANTQueen Of DenmarkBella Union

John Grant, americano 35enne, forse inconsapevolmente porta-bandiera di un non becero revi-valismo tipicamente 70’s, ci pro-pone un brillantissimo esordio. Per realizzarlo si è avvalso della preziosa collaborazione dei com-pagni d’etichetta Midlake che hanno partecipato generosamen-te alla registrazione e all’arran-giamento dei suoi pezzi. Il dato è significativo poiché “Queen of Denmark” è stato registrato pro-prio nello stesso periodo in cui ve-deva la luce l’ultimo e bellissimo “The Courage of Others” proprio degli stessi Midlake. Non solo, la leggenda vuole che le registrazio-ni dell’ultimo album della band texana abbiano subito notevoli ritardi proprio a causa dell’en-tusiasmo che questa stava met-tendo nel partecipare al lavoro di John Grant. Che ne sia valsa la pena poi, appare evidente sin dal primo ascolto: il risultato è super-lativo! Uno dei maggiori pregi di “Queen Of Denmark” sta, tutta-via, proprio nella capacità mani-festata da Grant di saper creare, con magico equilibrio, un intero album senza cadere nel solito clichè di un repertorio basato su languide ballate strappalacrime. Fortunatamente, l’artista ameri-

cano rifugge dai consunti tratti caratteristici del genere e riesce a realizzare un lavoro onesto ed intenso.

Rino De Cesare

VEX’DCloud SeedPlanet MuRegistrato tre anni fa, questo incompiuto secondo album dei Vex’d ci riporta alle atmosfere noir-apocalittiche che hanno contribuito a consacrare il duo britannico come una delle più importanti realtà dell’universo

dubstep. Basi dub industriali e malate che incontrano l’infuo-cata voce roots di Warrior Que-en (Take Time Out) e il suaden-te cantato trip-hop di Anneka (Heart Space). Devastanti linee di basso che si uniscono a de-vianze post-industriali (Out Of The Hills). Improvvise lumine-scenze sinfoniche che si intrec-ciano con rigurgiti tribali e mi-nimal-tech. Un impressionante lavoro, oscuro ed ipnotico, che apre uno squarcio sui paesaggi urbani del futuro.

Tobia D’Onofrio

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ROY PACI & ARETUSKALatinistaEtnagigante/Universal

Una lunga lista di collaborazioni alle spalle e una serie in-finita di progetti fanno del trombettista siciliano Roy Paci uno dei musicisti italiani più prolifici, apprezzato e richie-sto in tutta Europa e non solo. Da Manu Chao a Mike Pat-ton, dagli Africa Unite ai Lou Dalfin, da Vinicio Capossela a Amy Denio, da Trilok Gurtu ai Subsonica, in pochi sono sfuggiti al fascino dell’energia di Roy. Da dodici anni a que-sta parte poi porta in giro il suo progetto Aretuska. Dopo tre anni di silenzio discografico, compensato da una attività live interminabile, la band torna con Latinista. Un disco che parla di sud, di Sicilia, di Brasile (dove il disco è stato pen-sato e preprodotto), di Salento (dove Roy si è trasferito e ha registrato il disco nella sua casa/studio), di Africa, di Messi-co, di Caraibi. Dagli esordi esclusivamente ska e rock steady è passato molto tempo. Roy Paci sembra quasi cercare (e in parte trovare) una nuova idea di cantautorato in bilico tra ritmi in levare e testi impegnati, canzoni d’amore e fanfa-re, funk e riflessione. Compagni di strada di questa nuo-va avventura sono Jovanotti, autore e interprete del primo singolo Bonjour Bahia, Caparezza, che propone una sorta di triangolo in NoStress, e Eugene Hutz, carismatico leader dei Gogol Bordello, nella commistione linguistica de Il Se-greto. Sicuramente anche quest’anno Roy Paci & Aretuska saranno tra gli ospiti più richiesti di festival e piazze (pila).

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VIRGINIANA MILLERIl Primo Lunedì Del MondoZahr Records

Ci sono voluti quattro anni per dare un seguito al piacevole, seppur carente, “Fuochi fatui d’artificio”. Difficile eguagliare un disco come “La verità sul tennis”, autentica opera-mani-festo, tanto eccezionale quanto sottovalutata, per i Virginiana Miller ma con “Il primo lunedì del mondo” i livornesi ci sono quasi riusciti. In questo disco, opera pregevole ed elegante in ogni più piccolo dettaglio, ci sono tutti quegli elementi che hanno reso i VM una del-le band più significative della moderna musica italiana. C’è un suono ormai divenuto clas-sico e c’è una voce espressi-va. Ciò che rimane costante è un’attenzione rivolta a piccole storie private. Qui sta forse la maggiore differenza rispetto al disco precedente. Perché è vero che nella loro musica c’è la clas-sica canzone italiana, però c’è anche un gusto musicale uni-co, c’è l’ironia di Simone Lenzi. Prestate orecchio, tanto per fare un esempio, a “La carezza del Papa”. Poi c’è la familiare e sempre bella miscela di alta e bassa cultura, dalle citazioni di Sartre ne “L’inferno sono gli altri”, all’elenco in inglese di “Frequent flyer”. Insomma, un altro bel colpo e un altro bel centro. Speriamo almeno che questa volta qualcuno, oltre ai soliti noti, si accorga finalmen-te di loro!

Rino De Cesare

THE SOFT PACKThe Soft PackHeavenly/Cooperative MusicSi chiamavano all’inizio ‘The Muslims’ (era il 2007) ma dopo attacchi e commenti razzisti de-cisero di cambiare nome in ‘The Soft Pack’. Per il resto c’è poco da dire a parte che vengono da San Diego, California, e hanno tirato fuori questo esordio omonimo, divertente ed energico. E infatti quello che importa è proprio il disco, che sorprende in quanto a varietà di stili. Ci ritrovi gli Stro-kes e tutto quell’indie del duemi-la (che ormai ha stancato chiun-

que) ma soprattutto c’è una certa attitudine lo-fi mischiata a rock e blues che rimandano a Velvet Underground e soci dei tardi sixties. Pezzi come ‘C’mon’ e ‘Answer to yourself’ sono tutti da ballare mentre ‘Mexico’ sor-prende con un’andatura da bal-latona da spiaggia. La strategia è quella di mischiare l’indie-che-vende a generi diversi. Lo fecero i Vampire Weekend rifacendosi all’afrobeat. Ma è rischioso per-ché ti va bene oggi ma domani non si sa. Tre anni fa c’erano i Vampire Weekend e ci sono ancora. Oggi ci sono i The Soft Pack, vedremo tra tre anni.

Marco Chiffi

Partiamo da un contra-sto. Nella vostra musica emerge una passione neanche celata per le at-mosfere vintage ma allo stesso tempo rinunciate per scelta allo strumento classico del rock (la chi-tarra). Ci spieghi questa scelta per lo meno parti-colare?La verità è che non si tratta di una vera e propria scelta. Quando abbiamo formato il gruppo abbiamo iniziato a provare con questa forma-zione in attesa di trovare un

chitarrista. Col tempo, men-tre il suono prendeva forma con questa line-up, ci siamo semplicemente dimenticati di continuare a cercarla.Ora l’assenza della chitarra (pur nella ricerca dell’ingre-diente vintage) è un limite che ci stimola disco dopo disco a trovare nuove stra-de per rinnovare il nostro suono.

Una domanda da terro-ne a isolano. Venite da Cagliari, terra miscono-sciuta dal punto di vista

SiKitiKiSDalla Sardegna con ironia

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TYING TIFFANYPeoples TempleTrisolEsce per la tedesca Trisol, il terzo album di Tying Tiffany, reginetta dell’electroclash che si è già fregiata di collaborazioni con i padri del genere, come Pete Namlok e Nic Endo degli Atari Teenage Riot. Riducendo la pre-senza dell’urlo monocorde e della frenetica battuta hard-core, qui si allargano gli orizzonti esplo-rando le atmosfere dell’electro, del synth-pop e della dance più cupa degli anni ’80. Un disco pia-cevole e ben fatto che riempirà le piste dei locali notturni.

Tobia D’Onofrio

LALI PUNAOur InventionsMorr Music

Sono tornati, e pare essere tor-nata anche la Morr, anche se per poche produzioni. A cinque anni da Faking the Books ritor-nano i maestri dell’indietronica pop tedesca. Sono ritornati for-

se anche per ricordarci le origi-ni di questa etichetta tedesca che ultimamente ha intrapreso una strada un po’ più lontana dai suoi suoni elettronici ca-ratterizzanti. Our Inventions dei Lali Puna ci ricordano chi è la Morr e da dove viene. Va bene, il disco non è quel disco che ti aspetti dopo cinque anni di silenzio, magari qualcuno si aspettava il disco indelebile. Non è cosi, ma in realtà questo non è importante, sono sempre loro, i Lali Puna. Sono quella commistione perfetta di elet-tronica e pop, sono quell’unione di glitch con una voce suaden-te che ricopre le dieci tracce

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musicale. Oltre ai Tazen-da e Marco Carta, com’è la Sardegna dal punto di vista musicale?Lo stato di salute della musi-ca indipendente in Sardegna è ottimo. La “scena” è ampia e straordinariamente produtti-va. Il pubblico frequenta i live in un numero soddisfacente anche per i progetti più di nic-chia. Il mercato musicale sardo è decisamente più vivo di quel-lo italiano se i numeri vengono analizzati attraverso le dovute proporzioni.

Rispetto agli esordi la vo-stra attitudine musicale è più pop, avete messo a fuo-co una visione della musica definita e personale… dove credi sia arrivato il vostro sound e dove credi andrà in futuro?Il bello di aver fatto un disco come dischi fuori moda, è che ci siamo liberati definitivamen-te di quella tensione creativa che ha caratterizzato le fasi di gestazione dei primi due lavori.Dischi Fuori Moda è, infatti, soprattutto un disco libero tan-to da sovrastrutture quanto da auto-censure.

Proprio per questi motivi il fu-turo del nostro suono è, in que-sto momento, indeterminabile.La tendenza interna alla band suggerirebbe una strada alla ricerca di un groove sempre più potente e di una scrittura mu-sicale e letteraria sempre più asciutta. Ma è troppo presto per dirlo.

L’ironia è da sempre una della vostre caratteristiche. Non è comunque sempre leggera come nel caso di “Salvateci dagli italiani”. Ci parli di questa canzone?Salvateci dagli italiani è un gioco che ci ha divertito mol-to fare. Tutto è partito da una scritta su un muro di Cagliari che recita: “Extracomunitari, salvateci dagli Italiani”.Noi sappiamo bene che quella scritta, sul muro della nostra città, ha un legame con le più moderne tendenze indipenden-tiste che stanno prendendo for-ma sull’Isola.Noi ne abbiamo colto la pro-fonda ironia anche in chiave polemica nei confronti delle posizioni del governo italiano sull’argomento immigrazione.L’elenco di luoghi comuni che

compare nel brano viene canta-to citando la melodia di “Come Together” dei Beatles. Questa citazione crea un legame iper-testuale con le parole. In prati-ca è come se, per tutto il brano, invitassimo gli extracomuni-tari ad unirsi “tutti insieme” (appunto) per fare ciò che gli italiani non hanno più voglia di fare: lottare.

Ci parli del vostro progetto parallelo Brain dept?Il Dipartimento Cervello è un vero e proprio laboratorio di sperimentazione dei Sikiti-kis. È il contenitore nel quale elaboriamo tutta una serie di progetti per la sonorizzazione di cinema, teatro, libri e rea-ding letterari, musei e monu-menti, performance di danza e quant’altro possa legarsi o necessitare di musica.Questo progetto oltre ad esse-re estremamente divertente, ci permette di aprire il gruppo a infinite collaborazioni, a lavo-rare su composizioni musicali meno strutturate ed a cercare soluzioni che possono succes-sivamente essere applicate anche agli arrangiamenti delle canzoni.

dell’album. Sono quei quat-tro musicisti che anche nella semplicità di un beat ripetuto dall’inizio alla fine riesco a tro-vare una bellezza disarman-te. Un buon disco nella prima metà, a scemare negli ultimi pezzi. Ma, ripeto, sono pur sempre i Lali Puna, li stavamo aspettando da cinque anni.

Federico Baglivi

JONSIGoParlophone

Immediatamente riconoscibile, la voce di Jonsi dei Sigur Ros ci conduce in un nuovo emozio-nante viaggio sonoro. Le affini-tà con il gruppo madre riguar-dano alcune scelte melodiche e cromatiche, ma nel complesso l’album brilla di un’esube-ranza ritmica sconosciuta ai rarefatti paesaggi dipinti dal gruppo islandese. La frenesia percussiva, infatti, è uno degli elementi che caratterizzano maggiormente questo emozio-nante lavoro; una vigorosa vi-talità sprigiona dalle ritmiche di Samuli Kosminen. I com-plessi e originali arrangiamen-ti sono del “giovane maestro” Nico Muhly (già collaboratore di Philip Glass) e le contagiose melodie pop, sognanti e solari, prevalgono sui momenti più riflessivi, riconducibili all’este-tica Sigur Ros. Una fuga dagli schemi, dunque, o un tentati-vo di andare oltre le sonorità sperimentate in precedenza. In tempi in cui ci si concede raramente il lusso della speri-

mentazione, Jonsi ci regala uno splendido album, la colonna so-nora perfetta per un’estate cal-da e gioiosa.

Tobia D’Onofrio

SO SO MODERNCrude FuturesTransgressiveL’esordio della band neozelan-dese parte con un tripudio di taglienti chitarre post-punk. Il crescendo lievita dolcemente fino al climax squarciato dal-le rasoiate synthetiche. Poi si passa a costruzioni math-rock che sembrano filtrare insieme i Fugazi e Perry Farrel. Occa-sionali aperture corali (Island Hopping) e infine un disco-punk che mette insieme anni 80 e neo-psichedelia (Dusk & Chil-dren). Fresco, travolgente, privo di cadute di tono, quest’album ci presenta una band da tenere assolutamente sott’occhio.

Tobia D’Onofrio

ANAÌS MITCHELLHadestownRighteous Babe

Nato come produzione teatra-le ispirata al mito di Orfeo ed Euridice, questo Hadestown è la consacrazione di Anaìs Mitchell, giovane e talentuosa cantautrice del Vermont: una fantastica opera folk-blues costruita con l’aiuto di Justin Vernon aka Bon Iver, Ani Di Franco (amica e titolare dell’etichetta), Greg Brown e Ben Knox Miller. L’opera si ar-ticola fra molteplici suggestio-ni. Inontra l’immaginario co-

rale di Tom Waits (Way Down Hadestown) e le ballate diabo-licamente romantiche alla Nick Cave (Little Songbird, Why We Build..), pillole di chamber mu-sic e momenti d’illuminante estasi (Gone, I’m Gone), scan-zonati vaudeville (When The Chips Are Down), vocine ma-ligne alternate a cori angelici West-Coast (Wait For Me), jazz ubriachi (Our Lady) e momenti più funambolici e sperimentali (Papers). Splendidi i dialoghi tra le voci in Epic (Part II). Una vera boccata d’aria fresca!

Tobia D’Onofrio

COCOROSIEGrey OceansSub Pop

Le Cocorosie sono due sorelle di Brooklyn che hanno saputo creare un originale ibrido di folk psichedelico, hip-hop ed elettronica lo-fi. Le parti vocali alternano recitazione sommes-sa, rap, opera, isterici falsetto, litanie infantili e graffianti a metà tra Joanna Newsom e Bjork (Grey Oceans). Ecletti-che ed imprevedibili, le Coco-rosie destrutturano i generi componendo dei collages post-moderni che sanno regalare emozioni e trascinanti spunti melodici. Smokey Taboo si per-de in una bolla orientaleggian-te, fra tablas e irraggiungibili gorgheggi. Hopscotch unisce una percussività frenetica ed atmosferica (stile Matmos) con un giocattoloso vaudeville. Stralci di antiche melodie, mi-sti a frammenti hip-hop e cam-pionamenti esotici (The Moon

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Asked…) si alternano a ballate più regolari, fra incursioni ne-gli anni 50 (Lemonade) e tes-siture per arpa, voce, carillon e miagolii (Gallows). Un disco con un po’ di maniera, se con-frontato con l’urgenza espressi-va dei precedenti.

Tobia D’Onofrio

AUTECHREOverstepsWarp

Alfieri della cosiddetta IDM (Intelligent Dance Music), gli Autechre sono passati dalle lan-dscapes techno-trance all’estre-ma scomposizione ritmica delle loro elucubrazioni digitali. Il nuovo album lambisce paesaggi ambient occasionalmente scossi da pulsazioni e morbidi glitch. Known(1) taglia a fette le sug-gestioni d’Oriente e le comprime in una sorta di enfatico carillon al silicio. Di rado l’andamento delle tracce segue un battito regolare (Treale) e le melodie si accostano l’un l’altra come in un collage di acquerelli astratti. Piccoli tocchi di magia che stre-gano con i ripetuti ascolti.

Tobia D’Onofrio

LOS CAMPESINOSRomance Is BoringArts&CraftsTerzo album per i gallesi Los Campesinos che alternano l’alt-rock anni 90 con la nuo-va onda canadese di Broken Social Scene e Wolf Parade (canadese è anche l’etichetta Arts&Crafts). Il deciso piglio punk rende i brani particolar-

mente croccanti, fra momenti anthemici e aggressivi, caval-cate sopra le righe e parti più scanzonate. Manca un po’ il desiderio di sperimentare no-nostante le doti tecniche. Who Fell Asleep incrocia Pavement e Deus discostandosi dalla formula power-pop. Plan A ha un incipit incendiario, come fossero le L7 o le Red Aunts. I Warned You sembra rubata dal catalogo Wolf Parade. Magari il prossimo lavoro sarà un po’ più personale.

Tobia D’Onofrio

THE CHILD OF A CREEKFind A Shelter Along The PathSeahorse Recordings

Terzo lavoro per il multistru-mentista livornese Lorenzo Bracaloni, denso di atmosfere elettro-acustiche, magiche e psichedeliche. Il primo brano ri-corda la malinconia di Alexan-der Tucker e non è un caso se il nostro ha condiviso il palco con Laura Gibson, Larkin Grimm, Josè Gonzales e Nedelle Torri-si. Un viaggio in atmosfere folk arcane ed inquietanti, con tanto di flauto, balalaika e synth ed un’ammaliante voce che spazia dal tono baritonale a quello apo-calittico, fino al flebile sussurro. Resta forse da ampliare la tavo-lozza dei colori, ma Brancaloni si conferma un sicuro talento “da esportazione”.

Tobia D’Onofrio

MIDLAKEThe Courage Of OthersBella UnionAmericana, folk-rock, west coast, psichedelia. Questi i ter-ritori in cui si muiove questo folgorante album targato Bella Union. Un umore più dark ri-spetto ai Fleet Foxes, al servi-zio di ballate magnetiche che ridefiniscono lo spirito della psichedelia folk anni 70, in par-ticolare quella inglese di Fai-rport Convention e compagni, anche se in molti hanno fatto accostamenti con le canzoni dei Radiohead. Un gran bel disco, il cui unico neo sembra essere l’eccessiva compostezza.

Tobia D’Onofrio

SUD SOUND SYSTEMUltimamenteUniversal

Non è certo un caso che ad aprire Ultimamente, l’ottavo album in studio dei Sud Sound System, sia il brano Segnu te riconoscimentu, e che l’attacco ricordi un po’ gli esordi e i tem-pi delle dance hall “rurali” del-la crew salentina. Sedici tracce, stilisticamente molto al passo con i tempi delle nuove tenden-ze giamaicane, che racchiudo-no l’essenza dei Sud Sound Sy-stem, che è poi anche il loro se-gno di riconoscimento: reggae, nelle più svariate declinazioni, dialetto salentino e tanta vo-glia di dire, e di cantarle. Così, come sul muro in copertina, le tre soleggiate “esse” sono chia-ramente impresse nelle tracce del cd che, rispetto al preceden-

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te Dammene ancora, ha una ossatura marcatamente “dance hall style” ed è caratterizzato da un uso frequentissimo del vocoder. E se qualche brano ammicca al più danzereccio ed estivo reggaeton non mancano certo le rime e le raffiche rag-gamuffin di Don Rico e Terron Fabio, come la morbida ani-ma soul di Nandu Popu. Una crociera alla quale partecipa anche un grande del reggae, Luciano, altra voce giamaicana ospite del disco, insieme a quel-le di Ms. Triniti, dei Tok e dei Voicemail

Dario Quarta

GONJASUFIA Sufi And A KillerWarpL’anima carezzevole del soul ri-dotta a brandelli dal paesaggio urbano. Il trip hop trascinato tra i fumi delle baraccopoli. Coretti da girl-group anni 60 e canti reli-giosi indiani (Sheep). Obliqui ca-baret stradaioli alla Tom Waits (She Gone) e rocamboleschi post-punk con cantato soul e in-flessioni hip-hop. Un’attitudine lo-fi che sembra frullare stazioni radio in uno scontro di frequen-ze e partorisce un ibrido sonico post-moderno (Stardust) che non a caso è piaciuto tanto in casa Warp. Il trip-hop di Change che prepara alla successiva Duet, reminiscente (insieme a Made) delle psicosi di Tricky. Non man-cano gli episodi legati al folk più “tradizionale”, con filastrocche e cori, ritmiche ballabili e assoli di sitar (Klowds). Mai come in que-sto caso, contemporaneità e tra-dizione hanno saputo sposarsi per dar vita a soluzioni musicali nuove ed emozionanti. DeadnD è un po’ una summa dell’arte Gonjasufi. Base urban, recita-zione visionaria, campionamenti vintage e melodie orientali. Im-perdibile.

Tobia D’Onofrio

61:16Viviamo in Tempi Moderni… dopotutto! .Laab Records

Quest’album registrato tra An-twerp e Molfetta presenta una curatissima veste grafica con foto surreali corredate di dida-scalie. Il battito primordiale è quello della dance intelligente vestita di nero, come nell’aper-tura glitch che si gonfia tra gli abrasivi campionamenti di voci. Poi si mischia l’elettronica con gli strumenti tradizionali che infondono la fisicità tipica del rock ricordando una versio-ne strumentale degli ultimi Ra-diohead (Notizie Top Secret…). Kapysciola campiona voci eso-tiche e tablas su una base dan-ce anni ’90. The Old Turtle e Il Falso Incidente svelano invece l’anima psych-rock dell’album con una murder song strumen-tale e un tappeto di visionario folk acustico che recita un te-sto in italiano. Folgorante la cupezza di The Ordinary Man bilanciata dalla melodia vocale sixties in stile Stone Roses. E nel finale una chiusura galop-pante che ricorda le ultime pro-duzioni di Apparat. Davvero un’ottimo lavoro.

Tobia D’Onofrio

MAGIC ARMMake Lists Do SomethingSwalfIl piacevolissimo album di que-sta one-man-band di base a Manchester ama il piglio deciso dell’indie-rock e le accattivanti

melodie pop di Beatles e Pink Floyd. Si solleticano Beck-iane memorie e appaiono miraco-losamente gli acquerelli della prima Beta Band, in questo viaggio fatto di folktronica, psi-chedelia pop e lo-fi. Irresistibile l’apertura Widths and Heights, che mette subito in chiaro la maestria nell’intrecciare voci, strumenti ed elettronica. Già in tour con Camera Obscura, Beirut e Iron & Wine, questo nuovo pargolo originario di Glasgow ha tutte le carte in regola per diventare la nuova sensazione dell’artigianato pop britannico. E se non dovesse sfondare Oltremanica, dall’al-tra parte dell’Oceano sono pronti ad accoglierlo gli stralu-nati amici Grizzly Bear.

Tobia D’Onofrio

ANDREA CHIMENTITempesta di fioriSanteria

Dopo la sua esperienza negli anni ’80 con i Moda, Andrea Chimenti è da quasi un ven-tennio uno dei più apprezzati e prolifici interpreti del nuovo cantautorato italiano. A cin-que anni di distanza da Vieta-to Morire, durante i quali si è dato da fare con il teatro, con il cinema e con una intensa at-tività live, Chimenti torna con Tempesta di fiori. La produzio-ne del cd (registrato presso il Teatro Comunale di Castiglion Fiorentino) è affidata a Stefa-no Cerisoli e Guglielmo Ridol-fo Gagliano. “Credo che tutti i grandi cambiamenti, anche quelli improvvisi, inaspettati

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e apparentemente non voluti, siano, in qualche modo, prepa-rati da tempo e desiderati nel profondo. È così che arriva ine-sorabile il giorno della tempe-sta dove tutto sembra crollare, ma in realtà tutto è destinato a cambiare forma”, precisa. Il disco include dodici brani nei quali spiccano la voce profon-da e la scrittura delicata del cantautore reggiano sempre in bilico tra le varie declinazioni dell’amore che fa soffrire ma che dona felicità. L’unica cover del cd è Vorrei incontrarti, un vecchio pezzo (1972) dell’esor-diente Alan Sorrenti (pila).

ALESSANDRO FIORIAttento a me stessoUrtovox

È una piacevole sorpresa que-sto esordio solista di Alessan-dro Fiori, voce degli eclettici Mariposa. Dopo una lunga serie di collaborazioni (Marco Parente, Alessandro Asso Ste-fana, Enrico Gabrielli, che lo accompagnano anche in questo cd) il cantante e autore regala al suo pubblico undici canzoni che si muovono tra testi graf-fianti e intensi, poetici e visio-nari che raccontano la paura della morte e della solitudine, l’abbandono e la resistenza. Lungomare, Fuori Piove, La Vasca, Senza le dita, Trenino a cherosene sono le mie preferite all’interno di un “trittico pitto-rico” che ti prende l’orecchio e la mente. Un cd non semplice al primo ascolto ma che man mano entra sottopelle, grazie ai ricordi, alle immagini, alle

metafore. In uno stile assoluta-mente personale, la musica di Fiori richiama Bruno Lauzi, il primo Lucio Dalla, Piero Ciam-pi, Ivan Graziani, con arran-giamenti scarni ed essenziali. Attento a me stesso ci dona un immaginario difficile da trova-re in giro, mai scontato. “Non andar via perché c’è un topo su in soffitta che non mi fa dormi-re bene”. Chapeau. (pila)

SAMUEL KATARROThe Halfouck MisteryTrovarobato

Samuel Katarro è lo pseudoni-mo dietro il quale si cela Alberto Mariotti, ventiquattrenne can-tante e musicista toscano che dopo il convincente esordio Be-ach Party, tutto incentrato sulla passione per il blues e la chitar-ra, torna per la “Famosa eti-chetta Trovarobato” (quella dei Mariposa) con The halfouck my-stery. I testi restano in inglese, la musica si fa più complessa, l’arrangiamento più articolato, la scrittura meno semplice e più ardita. Dieci brani che svariano dal folk alla psichedelia, dal-le ballad alle reminescenze di musica classica, dal punk agli anni ’70, da Syd Barrett a Tim Buckley passando per Beatles, Devendra Banhart e gli italiani Jennifer Gentle, tra fiati, archi, benjo, chitarre elettriche, cam-pionamenti. Da segnalare Rus-tling, Pop Skull, The first years of Bobby Bunny, Three minutes in California, You’re an animal! Una miscela difficile da decifra-re che ci dona una nuova possi-bile via al rock italiano. (pila).

MGMTCongratulationsColumbiaArrivati all’atteso traguardo del secondo album, gli MGMT mettono da parte la spin-ta electro che caratterizzava buona parte dell’esordio, per rispolverare l’artigianato psi-chedelico che va dai Byrds (It’s Working) ai Love (Song for Don Treacy) fino agli Stone Roses. Psych-pop revival, dunque, filtrato attraverso la sensibili-tà contemporanea della band newyorkese che ha ispirato in-numerevoli cloni (vedi Empire Of The Sun). La riconoscibilità del gruppo sopravvive al make-over, ma diminuisce sensibil-mente l’appeal radiofonico dei brani (a parte la contagiosa Flash Delirium). Siberian Bre-aks è una suite di 12 minuti con tastiere vintage, filastroc-che Barrett-iane e nuvole sho-egaze con schegge elettroniche alla Animal Collective.

Tobia D’Onofrio

TREBLE EROOTZ BANDTrebleElianto

“Coscienza e melodia”, nel reg-gae di oggi come in quello di vent’anni fa. Binomio condito con un po’ di “serena nostalgia” nel nuovo esordio di Treble, al secolo Antonio Petrachi, tra i fondatori del Sud Sound Sy-stem, da qualche anno messosi in proprio ad accudire un suo studio di registrazione e una crew di giovani talenti. Nasce

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lì, e con loro, questo Treble. Un disco solido e sicuro, matu-ro, registrato in maniera qua-si “artigianale” con la Rootz band, utilizzando suoni esclu-sivamente analogici che danno un respiro “live” corale ma al tempo stesso intimo. Tredici canzoni, ispirate e curate nei suoni come nei testi, di qualsia-si natura essi siano: “mistici” e d’amore, sociali e intimisti, che confermano la capacità di scrit-tura, da sempre una delle doti di Treble. Come l’uso del dialet-to salentino che ben si adegua ai tanti momenti del disco, da quelli reggae (dove è ormai na-turale) a tutti gli altri (daqua).

AA.VVIndie or dieDisco dadaÈ indubbiamente un bel bi-glietto da visita. Nasce una nuova etichetta discografica e festeggia con una compilation che suona come un manifesto programmatico. Indie or die è il titolo più che eloquente del disco in questione che non si limita a presentare il catalogo rock della label (Letherdive, Simona Gretchen, Nevica su Quartopuntozero) ma può van-tare contributi di tutto rispetto come quello dei The Horrors. Tra nuove e vecchie glorie dell’indie nostrano fa capolino un morriconiano Umberto Pa-lazzo che è sempre piacevole ritrovare. Un disco molto vario, un omaggio all’indie fatto bene. (o.p.)

FOL CHEN Part II: The NewDecemberAsthmatic KittyA frullare musica ci hanno provato in tanti. I Fol Chen lo fanno con un gusto capace di conciliare una vocazione pop e l’idea di frammento sonoro e di patchwork di stili coinvolgen-

te. Un po’ come per band come Scritti Politti il gioco è unire un sound electro a citazioni di mu-sica colta, inserti devianti cre-ando un andamento ondivago e per questo assolutamente sen-suale. Indietronica d’autore, alienante, tenebrosa e solare. Un disco pieno di chiaro scuri ben calibrati da una produzio-ne decisamente d’avanguardia nel suo prendere il passato prossimo e regalargli una nuo-va forma. (o.p)

AA.VVMundo AnalogicoMicrocosmo dischiMundo analogico è una coccola, contro il logorio della vita mo-derna. Alcuni posti nel mondo

hanno un suono che sembra nascere per riconciliare lo spi-rito con la terra. Il senso del-la fuga può essere in un disco come questo bellissimo Mundo Analogico un viaggio verso lidi e musiche lontani come spirito. Il contemporaneo visto con gli occhi della tradizione. Dal tro-picalismo alla world music più in generale questa compilation privilegia l’anima latina del pianeta con ospiti d’eccezione come Cesaria Evora e Maria Bethania senza dimenticare l’africa (Marzouk Mejri, Ange-lique Kidjo). Da segnalare an-che un bravo Joe Barbieri che interviene con Fammi tremare i polsi e un duetto con Omara Portuondo. (o.p)

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FRANCESCO PENNETTAPulseFour

C’è una scena jazz esuberante in Puglia, anche troppo. Poi ci sono i fuoriclasse, quelli che hanno viaggiato, esplorato la musica per poi tornare alle origini. Francesco Pennetta è sicuramente uno di questi ultimi, un batterista sensibile, qualità rara più del rigore tecnico che non si impara. Senti-re, fare di uno strumento cuore “pulsante” di un esecuzione è difficile. Francesco in questo album fa centro, confrontan-dosi con una materia musicale difficile. Sceglie un periodo e una corrente del jazz molto precisa, l’hard bop e con lei si confronta. Lo fa interpretando con nuovi colori alcuni clas-sici di Cole Porter e Billy Strayhorn, Burton Lane e Fred Lacey, Duke Ellington, Benny Harris e Toots Thielemans e un unico inedito di Martin Jacobsen che con il suo sax tenore illumina tutto il disco. Insieme a Francesco e Mar-tin Pulse vanta la collaborazione di Francesco Palmitessa alla chitarra e Pietro Ciancaglini al contrabbasso. Il combo è capace di produrre un sound elegante, vibrante a tratti frizzante, offre guizzi e trovate ritmiche e melodiche inedite senza mai tradire l’originale bellezza dei brani. Una grande prova di stile.

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AvANti POP Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub

Chemical Brothers – Escape velocity Manchester respira. Gli Oasis, ambascia-tori di aria uggiosa, di calli alle mani da grande città industria-le, della birra e dell’or-goglio di appartenen-za, non ci sono più e

hanno lasciato strascichi dietro di sè degni delle migliori coppie del jet-set. La città non è più al centro della produzione musicale inglese. I fra-tellini chimici, nel frattempo, avevano iniziato una fase calante che aveva destato più di una preoccupazione. Ora sono ritornati per una suite psichedelica da 12 minuti che anticipa un album “Further” che, a quanto pare, sarà imperdibile. E sin dal titolo c’è l’ambizione e la speranza di una città che non vuole perdere un briciolo del suo ruvido fascino.

Broken Bells – The high road Un side-project passa-to in un lampo dalla sordina alle radio com-merciali. Com’è pos-sibile? Perché loro sì e gli altri no? Per due semplici motivi. Il pri-mo, banale: la canzo-ne è bella e dal suono retro-contemporaneo.

In periodo di folk da classifica, di banjo presenti quasi quanto la drum machine, questa piccola perla è perfettamente incastonata. La seconda, ben più oscura, è nella stessa natura del proget-to. Infatti il deus ex machina delle “campane rot-te” è DangerMouse, dj ai margini della legalità e all’interno della nicchia dei geni della musica contemporanea (Gorillaz, Gnarls Barkley, cd con mash-up di Beatles e Sparklehorse mai pubbli-cati: è tutto merito suo). Si può ignorare un bra-no così?

OK Go – This too shall pass “Il gruppo che fa i video belli”. Condannati al loro stesso successo, gli Ok Go si fanno ricordare più per le loro incredibili performance a basso costo ed altissimo contenuto creativo (i tapis-roulant di “Here it goes again” vi ricordano qualcosa?)

che per i loro brani. E anche qui è complicato sta-bilire se la presenza in rubrica sia figlia del loro nuovo singolo, apripista di un travagliatissimo secondo album (“of the blue colour of the sky”, che rischiava di rimanere impiccato a causa del fallimento dell’asse Emi-Capitol) o dell’ennesimo video straordinario. Comunque vada, possono consolarsi lanciandosi nel cinema.

Sia – Clap your hands L’amore fa miracoli. Sia Furler, bionda, australiana, bravissi-ma, semisconosciuta (anche quando cantava negli Zero7), ancorata al ruolo di cantante un po’ triste e addolorata, si fidanza con JD Sam-son, unico uomo del gruppo feminin-incaz-

zoso Le Tigre, e scopre che ci sono le percussio-ni, la musica pop, quella electro, Cyndi Lauper e Madonna, a cui tributa addirittura la cover di “Oh father”. L’album, trainato da questa “Clap your hands” si chiama “we are born”. Si è resa conto di aver perso tempo?

Goldfrapp – Rocket A proposito di Madonna. Forse ve l’hanno già rac-contata, ma io corro il ri-schio. Alison Goldfrapp e Louise Veronica Cicco-ne condividono la stessa casa madre discografica. La bionda inglese can-tava con i cattivoni del trip-hop di Bristol, quel-

la americana faceva sfracelli per i fatti suoi. Poi Alison ha conosciuto il sole e la musica pop ed è partita con la sua carriera solista. E la decadente Madge ha iniziato a scrutarla e studiarla, a tal punto che le malelingue (mai abbastanza) hanno coniato il soprannome “Oldfrapp” per Madonna. Grande furbata pop di una grande musicista, an-cora più simpatica dopo la lite con la Ventura a “Quelli che il calcio”, con il playback che parte e lei che non canta.

Dino Amenduni

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Gil Scott Heron – Me and the devil La notizia è che il video di questo brano gira, almeno in piena notte. Quindi la spinta che parte da queste pagine non è un disperato gri-do di speranza. Sono si-curo che molti lettori di Coolclub sanno perfet-tamente di chi stiamo

parlando e sanno altrettanto bene che Gil Scott Heron è un patrimonio che è stato, è e sarà di una fortunata nicchia. Poeta, attivista, scrittore, musicista, è attivo da quasi quarant’anni. E dopo sedici di silenzio torna per dire “i’m new here”. Si sente nuovo, lui assieme al diavolo, adattamento di un brano del 1937. Chi li distribuisce in Italia (un’agenzia pugliese) racconta di enorme difficol-tà per farlo suonare dal vivo. In questo caso un disperato grido, ma di rabbia, ci sta tutto.

Jonsi – Go do Il progetto solista del leader dei Sigùr Ros è un brutto segno per la formazione islandese? Sì, lo è. Quando Jonsi Birgisson annuncia il suo primo album da so-lista (dopo una dimenti-cabile uscita discografi-ca con il suo fidanzato,

Alex Somers), rincara la dose: i Sigur sono fer-mi a tempo indeterminato, molti di loro sono diventati genitori, c’è una carriera da portare avanti. Ma, tutto sommato, si può sopravvivere anche con questo succedaneo: si fa molta fatica a trovare le differenze tra la formazione al com-pleto e il suo progetto solista, almeno per il sin-golo “Go do”, in cui le sonorità tendono sempre di più al morbido e all’orecchiabile. Anche senza la gioia dei figli a carico.

Robyn – Dancing on my own Robin Miriam Carlsson, la svedese che piace agli inglesi e che non sfonda mai. Robyn, la voce per-fetta per il revival electro anni ’80 che sembra durare da un decennio. Robyn, la musicista con

gli amici giusti (Royksopp, Diplo, Kleerup). Rob-yn, l’artista che dà alle stampe tre album in sei mesi dopo 5 anni di silenzio, e chissà cosa dirà il mercato discografico di questa insolita bulimia. Robyn, che ha fatto sparire questo singolo dalla rete dopo annunci in pompa magna. Volere o vo-lare, nel 2010 si parlerà molto di lei.

The XX – Islands Nel 2009 si è parlato molto di loro e l’hype non sembra arrestarsi. Fa parlare di sé, infat-ti, il notturno album d’esordio della band inglese, giovanissima e già alle prese con i cambi di formazione, gli esaurimenti ner-

vosi, le liti personali. I singoli pubblicati in In-ghilterra nello scorso anno stanno lentamente facendo il giro dell’Europa (Islands, ad esempio, è datata settembre 2009). Tra venerazione a li-mite della mania e paura per il loro futuro, le doppie croci proseguono la loro silenziosa conqui-sta del mondo.

Blur – Fool’s day Chissà cosa pensano i Blur dei nipotini XX. Loro l’Europa l’avevano conquistata davvero, seppur in coabitazione con quei cattivoni degli Oasis. Poi hanno cono-sciuto la scissione, come per gli XX a causa delle bizze del chitarrista; Da-

mon Albarn si è conquistato, nel frattempo, una credibilità che forse non aveva mai conosciuto nei suoi anni d’oro e ora i Blur sembrano pren-dere in giro loro stessi ed il tempo. Sembra che il loro tour per la reunion non finisca mai e a conferma di questo rispunta, beffardo, un singo-lo registrato oltre 7 anni fa.

Dino Amenduni

dAmmi UNA SPiNtACinque artisti che ascolteremo in radio. Forse...

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SALtO NELL’iNdiE

iNtERbANGInterbang è un’etichetta pugliese, anche se non sembra. Interbang ama il vinile, produce artisti stranieri, è proiettata nel mondo ma non dimen-tica l’Italia, è indipendente, è giovane. Abbiamo parlato con Davide Rufini.

Cos’era interbang e cos’è interbang?Interbang era il titolo di una eccezionale quanto sgangherata serie televisiva low-budget italia-na che venne mandata in onda negli anni ‘80 su Odeon Tv e mai più ritrasmessa in Italia, tanto che per anni molti dubitarono persino di averla effettivamente vista. Poi qualcuno ha iniziato a parlarne su internet e ora si vocifera che la micro casa di produzione sia intenzionata a distribuir-la in dvd. La serie conteneva tutti gli ingredienti per una grande storia d’avventura, anche se rea-lizzata con mezzi a dir poco scarsi: protagonisti intraprendenti, viaggi in tutto il mondo, una genuina ironia (e auto-ironia del genere avven-turoso stesso), una produzione casalinga ma ef-ficace…insomma puro ingegno senza volgari pa-tinature hollywoodiane. L’assoluta irreperibilità della serie stessa poi (in pochi la seguirono allora e probabilmente nessuno l’ha mai registrata, per

cui dimenticatevi di poterla scaricare o vedere in streaming, tuttavia su youtube è disponibile l’indimenticabile sigla iniziale) la rendono pra-ticamente un misterioso oggetto di culto. Tutto questo fa di Interbang la migliore rappresenta-zione del nostro modo di vivere la musica: avven-turosa, misteriosa, pericolosa, genuina, sempli-ce, ironica, ingegnosa, rara, preziosa.

Da dove nasce l’idea di un’etichetta disco-grafica che parte geograficamente da Bari ma che produce il mondo?Dopo anni di attività di promozione musicale a Bari, di organizzazione di tour di artisti stranieri in Italia e di diversi festival in Puglia, la crea-zione di un etichetta è stata di fatto un passag-gio naturale. Il rapporto costante e prolungato con numerosi artisti e colleghi ci ha permesso di creare una rete di contatti con scene e real-tà musicali di ogni dove…ma ad essere onesti la verità è che dopo tanti anni ci siamo accorti di odiare i musicisti: sono dei gran rompicoglioni, spesso puzzano di cane morto, e se sono italiani sono anche spocchiosi come delle prime donne mestruate; ma ciò nonostante ancora adoriamo

In foto: Eugene Chadbourne

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ascoltare la musica, pertanto la produzione di-scografica ci è sembrato il modo più tranquillo e asettico per continuare a vivere di musica. Per quanto riguarda il nostro atteggiamento estero-filo, ci risulta molto difficile trovare artisti italia-ni che posseggano quelle caratteristiche che con-sideriamo essenziali per la produzione musicale. Qui abbiamo bravi strumentisti, ma pochissimi artisti.

Le vostre uscite sono evidentemente di nic-chia, a quale mercato e quale pubblico in-tendete intercettare?L’ambito musicale che trattiamo è prevalente-mente “indie”, che non è un genere musicale (di fatto non lo è mai stato) ma semmai un attitudine dell’etichetta e del musicista: non semplicemen-te “indipendente dalle major”, che è il significato originario, ma più idealmente “indipendente da logiche strettamente commerciali”…insomma, musica come cultura, musica come ricerca, mu-sica fatta per la musica, musica pura, genuina. Con questo tuttavia non vogliamo né esprimere un giudizio qualitativo (ci sono tanti capolavori prodotti da major, e milioni di porcherie indie), né tanto meno definirci in un genere musicale specifico appunto, né infine per “musica per la musica” vogliamo riferirci a quegli strimpellato-ri sfigati da circolo ricreativo che vivono la mu-sica come hobby… Il nostro pubblico non sono altro che quelle persone che condividono questa nostra attitudine. Il mercato invece è una cosa differente: se dovessimo affidarci ai soli “cultori musicali” chiuderemmo dopo un giorno, abbiamo bisogno di sfruttare anche il pubblico più generi-co spacciandogli i nostri prodotti come qualcosa di appetibile anche per loro. In questo ci aiutano molto i concerti: durante il live l’artista gode del suo momento di massima visibilità per cui anche l’utente più disinteressato si lascia in qualche maniera coinvolgere emotivamente; di conse-guenza l’acquisto del disco diventa un modo per ricordare quel momento piacevole, o stravagan-te, ad ogni modo eccitante…anche se poi proba-bilmente non lo si ascolterà mai…

Stampate in vinile, scelta coraggiosa e affa-scinante, ma usate anche il digitale. Come approcciate i vari supporti e quale credete sia il futuro in questo senso?Ormai il cd ha definitivamente esaurito la sua funzione: il successo del cd fu principalmente de-terminato dalla comodità del supporto, più picco-lo di formato, e una gestione più facile dei brani. Oggi queste qualità sono state migliorate dal file digitale: zero supporto, massimo controllo e

gestione dei brani. D’altro canto l’appassionato di musica spesso è anche un collezionista, ossia qualcuno che desidera possedere concretamente ciò che ama. In questo il vinile è sempre rimasto di gran lunga più ambito del cd: grande coperti-na, irriproducibilità del supporto; e ora che il cd sta sparendo l’importanza del vinile per il mer-cato collezionistico appare più evidente, e anche le etichette più “commerciali” se ne sono accorte e ne stanno cavalcando l’onda. Proporre il vinile con in allegato il codice per il downloading del disco appare oggi la soluzione più adeguata, per-chè coniuga il desiderio per l’oggetto e la comodi-tà del file digitale.

Ci parli un po’ del vostro catalogo?Siamo partiti con un progetto che ci aveva intri-gato molto: un album di quel matto di Eugene Chadbourne con una travolgente titletrack dedi-cata a Berlusconi. Un ritorno al vinile per doc Chad dopo 10 anni, e per questo abbiamo deciso di fare le cose per bene: un’edizione lussuosa, con vinile colorato, copertina gatefold, innersle-eve con i testi e una eccezionale cover realizza-ta dall’amico fumettista croato Miro Zupa. Ad aprile è uscito il nostro secondo titolo, il nuovo album del trio inglese The Wave Pictures, una delle poche band della scena neo-wave che pur riscuotendo un bel successo internazionale non ha perso lo stile genuino da slacker di provincia. Per maggio 2010 è attesa la terza nostra uscita, Sacri Cuori, un vero supergruppo messo su da Antonio Gramentieri, musicista di lungo corso e art director del festival “filo-americano” Stra-de Blu: nell’ensemble sono presenti personaggi provenienti da Calexico, Giant Sand, Friend of Dean Martinez, oltre a Marc Ribot, John Parish e James Chance!! A seguire per l’estate sono pre-visti un album di James Chance e uno di Hugo Race. Per l’autunno-inverno stiamo lavorando su Arrington De Dionyso e Aidan Smith. Non ci pos-siamo lamentare insomma…

Che tipo di distribuzione avete? Dove arri-va Interbang?Il disco di Chadbourne è distribuito in Italia da Goodfellas, ma è disponibile anche in altri paesi europei e a breve anche Stati Uniti (su insound.com), ma non abbiamo ancora assunto un siste-ma ben definito, diciamo che si tratta di un qual-cosa che si evolverà uscita per uscita. La distri-buzione costa molto, pertanto stiamo cercando di puntare molto sulla vendita diretta (sul sito www.interbangrecords.com), soprattutto per le uscite in edizione più limitata.

Antonietta Rosato

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dAvidE ENiAL’autore di “Italia-Brasile 3-2”su calcio, memoria, uso del dialetto

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Davide Enia, palermitano classe 1974, è attore e autore dei suoi testi. In questi giorni Sellerio pubblica il testo di uno dei suoi primi spettacoli, ormai da diversi anni sulla scena: Italia-Brasile 3-2 in cui l’attore palermitano rievoca, con umo-rismo e serietà la partita di calcio che forse più di tutte ha segnato un’epoca, quella sfida dei mon-diali di Spagna, in cui decisivo fu il gol di Paolo Rossi per far accedere l’Italia alla finale contro la Germania (è di qualche anno fa un libro dello stesso Rossi che si intitola Ho fatto piangere il Brasile). Ma la partita di calcio per Enia diventa un pretesto per parlare di un’Italia che forse che non c’è più, il pretesto per parlare della Resisten-za (ricordiamoci di Pertini, il presidente parti-giano, e di Antonio Cabrini, che colpito al volto da una scarpa, sanguina come un partigiano, è

bello come un partigiano).Con Davide Enia abbiamo parlato al telefono di tutto questo e di altro ancora. Ecco uno stralcio della nostra conversazione.

Il tuo testo Italia-Brasile 3-2 ruota tutto in-torno al gioco del calcio. Per te il calcio è una vera passione?Non sono un amante del gioco del calcio. Seguo solo il Palermo, che è una cosa diversa.Italia Brasile ruota intorno al calcio inteso come arte pedatoria. Oggi quando parliamo di calcio siamo trasportati in un mondo fatto di decreti spalma debiti, passaporti falsi eccetera. Quello non è il calcio, è la mortificazione di uno sport. Quello non mi interessa. Invece mi interessa il calcio come elegia del tiro di rigore sbagliato, mi

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interessa raccontare la fatica che si fa per con-trollare la palla.

Perché proprio quella partita? Che cosa si-gnifica nel tuo immaginario e in quello del pubblico italiano?Quando noi pensiamo a una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia pensiamo a Monta-le. Quando pensiamo a una partita di calcio pen-siamo a Italia Brasile. Ma tutto questo preesiste-va, i cocci sui muri esistevano prima di Montale, e le partite di calcio esistevano prima di Italia Brasile e soprattutto prima del mio spettacolo. Quella partita è diventata un simbolo perché per la gente che l’ha vissuta, che se la ricorda, quella partita rappresenta l’archetipo della par-tita di calcio, è assurta a mito.

Che cosa è cambiato in Italia nei trent’anni trascorsi da quella notte?Non è cambiato nulla: è tornato il fascismo.

Nel tuo testo fai parecchi rimandi alla lot-ta partigiana, che sembra in qualche modo permeare di sé la vita quotidiana degli ita-liani. E oggi, si è persa quella memoria, e perché secondo te?Non si è persa la memoria, oggi si è persa la ca-pacità di oggettivare. La memoria deforma la realtà dei fatti, quello che viene tramandato è l’oggettivazione della realtà.Guarda, io credo che la memoria sia un’attività inutile e forse anche dannosa. Se non esistesse si potrebbero giustificare come errori primigeni le porcate che si fanno oggi.Un esempio su tutti sarebbe la necessità di og-gettivare una realtà come i 45 milioni di italia-ni emigrati nel mondo, i cartelli in Svizzera che dicevano: Vietato l’ingresso ai cani e agli italia-ni. Ecco di questo bisognerebbe ragionare. La memoria è selettiva e sopravvalutata, bisogna ritornare a studiare le cose come se non si ricor-dassero.

Come nascono i tuoi lavori? Lavori prima sulla storia o questa cresce insieme allo spettacolo?Ogni lavoro ha una sua genesi indipendente. Se avessi uno schema fisso riuscirei a scrivere in una maniera certamente più prolifica. Succede che mi imbatto in una storia, intuisco una possi-bilità narrativa e mi intrudo. Il resto è falegna-meria. Lavoro di lima e seghetto. Il lavoro di san Giuseppe!

Tu usi molto il dialetto palermitano, e l’uso che ne fai in qualche modo ricorda il napo-letano di Eduardo o di Scarpetta. È così?Il palermitano ha, insieme al napoletano una potenza simbolica enorme. Non per niente dal napoletano è nata la canzone, è nata la sceneg-giata, mentre dal palermitano sono nati i cunti come forma narrativa autonoma. E poi c’è tut-ta la componente non verbale che è fortissima. Quando da bambino facevo qualche cazzata, non mi spaventavo quando mio padre gridava, ma quando mi guardava. La cosa più spaventosa era la taliata. In palermitano si dice “la megghiu pa-rola è quiddha ca nun se rice” (la parola migliore è quella che non si dice). Spesso le cose non si tacciono per ignoranza ma per rispetto e profon-da comprensione.

Dario Goffredo

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FRANCESCO dimitRiIl buon fantasy italiano è made in Puglia

Siamo spesso portati a pensare (specie nella so-cietà gerontofila nella quale viviamo) che il “ma-estro”, nel senso etimologico del termine, e cioè “il più grande”, sia un tipetto con la barba bian-ca e un’esperienza pluridecennale alle spalle. Eppure, alle volte, capita che un vero e proprio maestro ci si possa parare davanti con un paio di occhiali da sole e un tatuaggio di Spiderman, che sia più giovane di noi, eppure abbia tante e tan-te cose da poterci insegnare. Quando ho iniziato a leggere Alice nel Paese della Vaporità la mia prima impressione, dopo appena dieci pagine è stata quella di trovarmi di fronte a una prosa magistrale.Francesco Dimitri riesce a catturarmi come pochi autori italiani sanno fare. La sua prosa scorre via senza difficoltà, senza intoppi. Si ha la sensazio-ne, leggendo i suoi libri, che lui non abbia fatto il minimo sforzo a scriverli. Ma non è così.Questo suo ultimo, bellissimo, romanzo, pubbli-cato niente meno che da Salani (quella della vera

regina d’Inghilterra, la J.K. Rowling di Harry Potter, per intenderci), Francesco ci ha messo otto anni per scriverlo. E otto anni sono tanti. In otto anni si cambia, si cresce, e quindi questo ro-manzo è cambiato e cresciuto con lui, fino a rag-giungere la forma di crisalide e spiccare il volo, in una bellissima manifestazione di arte narra-tiva. Alice è una favola, tutti la conosciamo, ma nessuno di noi ha mai pensato che Alice potesse assumere le sembianze che Francesco Dimitri le ho donato. Mi sono innamorato di questo libro e credo che chiunque lo legga non può che subirne la fascinazione.Ho intervistato Francesco su skipe, perché vive a Londra, e riporto la nostra conversazione quasi così com’era, senza mediazioni.

Peter Pan prima e Alice nel Paese delle Me-raviglie poi. Che cosa c’è nelle fiabe dell’In-ghilterra vittoriana che ti affascina così tanto?

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l’Inghilterra Vittoriana era un mondo simile al nostro: una grande civiltà piena di contrad-dizioni, che già iniziava a declinare. C’erano le macchine e c’erano gli spiritualisti, c’erano gli scienziati e c’erano i maghi. Era un mondo senza certezze, di cambiamenti folli, rapidissimi. L’im-maginario vittoriano racconta un mondo così, nero e surreale - ed è un mondo in cui mi trovo a mio agio.

Su Alice sono state scritte mille interpre-tazioni diverse, sono state date mille lettu-re, tra cui la più celebre forse è la lettura di Alice come viaggio allucinogeno. Quello che mi piace nella tua riscrittura è invece il sovvertimento del concetto di allucina-zione...È una cosa in cui credo davvero: il confine tra “realtà” e “allucinazione” è ideologico, una como-da balla che ci raccontiamo per vivere tranquilli. Abbiamo delle percezioni, e abbiamo dei precon-cetti che dicono quali siano “vere” e quali “no”. Preconcetti che selezionano in partenza cosa vediamo (e sentiamo, e gustiamo) e cosa no. Se vediamo un fantasma, pensiamo di aver visto un gioco di ombre - ma magari ogni gioco di ombre è un fantasma che aspetta di essere visto.Pretendere di essere certi di qualcosa non è “scientifico” o “razionale” - è... infantile, nel sen-so peggiore della parola.

La Carne, l’Incanto, il Sogno sono l’elemen-to più forte di Pan che ritorna in questo tuo nuovo libro. Ed è una delle cose più affasci-nanti della tua poetica. È proprio di questo che stai parlando giusto?Esattamente. È ovvio che questo, a sua volta, è un modello tra tanti, non più “reale”. Ma proprio perché è narrativo, mitologico, a suo modo credo funzioni.

E proprio come in Pan sono le storie che creano il mondo. Quindi per ogni possibile storia che possiamo inventare c’è una pos-sibile realtà che si crea? Questo mi ricorda la frase di Wittgenstein “I limiti del mio lin-guaggio sono i limiti del mio mondo”.Sì, esattamente Wittgenstein (o Robert Anton Wilson, in un campo radicalmente diverso, o Crowley e un bel po’ di tradizione magica). Io credo, sinceramente, che la cosiddetta “realtà” sia solo una storia di grande successo. Ma ce ne sono altre, tante altre.Ed è il motivo per cui la letteratura cosiddetta “realistica” non mi interessa: trovo che sia una... scusa. Anche se, ovviamente, questo non signi-

fica che se in un libro non c’è un drago non lo leggo.Ma se qualcuno prova a vendermi un libro di-cendomi che “parla della nostra realtà”, rispondo “della tua, semmai: non mi tirare in mezzo!”

Un altro elemento di convergenza con Pan è la presenza di un antropologo. Che cosa rappresenta per te l’antropologia?Un sogno tradito. Una disciplina che ha promes-so una profonda comprensione dell’uomo, e che per un certo periodo l’ha anche data... ma poi ha rinunciato a tutto in cambio di rispettabilità e un posto caldo in Accademia.

So che hai lavorato a lungo ad Alice nel pa-ese della Vaporità. Che cosa rappresenta per te questo libro?Otto anni di vita e la chiusura di un ciclo. Scri-vendo la prima stesura, ho capito una serie di cose su di me e su come la pensavo sul mondo - cose che non mi hanno più abbandonato. Non è un libro a tema, intendiamoci. Ma scrivere è sempre anche un esercizio su te stesso. E questo è stato un esercizio... intenso.

Cosa ne pensi di questo ritorno di moda del misticismo e della magia?Che non so quanto sia serio. Molto spesso quan-do si parla di “misticismo”e “magia”, si parla in realtà di forme di materialismo molto semplici-sta cui viene messo un abito nuovo e un po’ di belletto. La magia è prima di tutto una visione del mondo, radicalmente alternativa a quella dominante - e un’alternativa radicale richiede sempre un prezzo. Altrimenti è new age, inte-gralismo religioso (o ateo, che è lo stesso), altro, insomma.Insomma: meglio leggere Bergson che leggere... boh, non so, molte altre cose.

Per me va bene così. Vuoi aggiungere qual-cos’altro?Sei tu il maestro di cerimonie, in questo caso! Quindi se per te va bene, per me è ok...Solo un’ultima cosa: questo è il sito del libro:http://www.alice.salani.itLa cosa bella è che chiunque vorrà potrà pub-blicare la “sua” versione della Steamland - con racconti, foto, disegni, video, quello che gli pare là sul sito: tutti possono usare l’ambientazione del libro, finché non lo fanno a scopo di lucro. Mi sembrava un modo carino per rompere alcune barriere.

Dario Goffredo

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RICHARD BRAUTIGANIl generale immaginarioIsbn Edizioni

Lee Mellon è quello che Wil-liam Burroughs avrebbe de-finito un hipsterello di peri-feria. Convinto di discendere da Augustus Mellon, generale confederato di Big Sur duran-te la Guerra di Secessione, su questa bugia Lee fonda l’ami-cizia con Jesse, protagonista de Il generale immaginario e alter ego di Richard Brautigan. Jesse raggiunge Mellon a Big Sur e con lui convive per qual-che tempo, vivendo di niente («fiori di niente» sono le parole, spiegherà Brautigan poco pri-ma del suicidio) e belle donne. La libertà della controcultura hippy – qui colta sul nascere – gli spazi sterminati di Big Sur, dove si dorme a pochi pas-si dalle balene e dal deserto, tutto questo è al centro del pri-mo romanzo di Richard Gary Brautigan che Isbn ripropone dopo la prima edizione Rizzo-li del ‘67 (tradotta da Luciano Bianciardi); con la nuova in-terpretazione di quell’Enrico Monti a cui si deve il ritorno dell’autore americano in Italia. Ancora lontano dalla disillusio-ne degli ultimi lavori o dalla psichedelia di Pesca alla trota in America, ne Il generale im-maginario Brautigan si mette già alla prova con la parodia (distorcendo il romanzo storico)

e con l’ironia spiazzante in gra-do di creare ponti tra mondi ed epoche lontanissimi. Frullando insieme Guerra di Secessione, John Steinbeck, la cadillac di Henry Miller, Walt Whitman e l’Ecclesiaste. I mille finali in

chiusura spiegano la tipica as-senza di trama: che in Brauti-gan è poesia.

Marco Montanaro

LibRiLibRi

Giunto al capitolo finale della sua trilogia western pugliese Omar Di Monopoli ci colpisce nuovamente con la sua prosa originalissima. Siamo ormai abituati, ma non per questo assuefatti, alle sorprese lin-guistiche, alle ambientazioni iperrealistiche, ai suoi perso-naggi strepitosi, alle situazio-ni paradossali ma che sem-brano tanto più vere quanto più l’autore dice di non voler parlare della realtà. La Legge di Fonzi conferma Di Monopoli nella scuderia dell’editore Isbn, e lo confer-ma come una delle voci più interessanti della narrativa italiana contemporanea.Con questo La legge di

Fonzi si chiude la tua tri-logia western pugliese. Sei soddisfatto del per-corso che hai tracciato?Certo, moltissimo: è esatta-mente l’obiettivo che avevo in mente, mappare porzioni non molto conosciute della mia regione attraverso uno sguardo iperbolico, all’inse-guimento di una visione let-teraria capace di contenere Faulkner e Sergio Leone, l’epico e la denuncia sociale, lo scarno con il barocco: un esperimento un po’ pop, in-somma...

Di tutti i tuoi romanzi questo mi sembra l’unico nel quale tu lasci un bar-

OmARdi mONOPOLiLa legge di Fonzi è il terzo, fulminante, romanzo dello scrittore di Manduria

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PAOLO COGNETTINew York è una finestra senza tendeEditori LaterzaHo seguito la genesi di questo libro attraverso il blog di Pao-lo Cognetti, essendo come lui

appassionato di letteratura americana, ero desideroso di scoprire in che modo avrebbe confezionato questa originale guida letteraria. Partendo da una serie di in-terviste realizzate con Giorgio

Carella, “Scrivere/New York” e “Il lato sbagliato del ponte” (quest’ultimo dvd in allegato con il libro), l’autore ha accu-mulato materiale, ha scoperto luoghi e scavato fra i ricordi di scrittori del calibro di Rick Mo-

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lume di speranza. è un’im-pressione sbagliata la mia?Sai, in realtà tutti e tre i ro-manzi, a ben guardare, con-tengono un filo di speranza. Magari sono stato molto bravo a nasconderla, è un talento an-che quello, in fondo!

Il finale è pressoché aperto, lasci insoluti alcuni nodi. Come mai questa scelta?Io - e credo che chi segue il mio lavoro ormai lo abbia per-fettamente compreso - attingo a parecchio cinema e a tanta letteratura americana, per cui ho mutuato da questi model-li alcune strategie narrative: lasciare insoluti alcuni spunti permette al lettore di lavorare con l’immaginazione, stabi-lendo una sorta di interazione con ciò che leggono e con quello che l’autore ha creato per loro. Comunque in realtà molti de-gli snodi che restano sospesi sono tali solo apparentemente, più che altro in quest’ultimo romanzo subentra la compo-nente soprannaturale, con un personaggio, il Fonzi del titolo, che sino alla fine non sappiamo esattamente cosa sia: un fanta-sma, un killer, un ravenant...

Trovo Fonzi uno dei più riusciti personaggi che ho incontrato ultimamente. Mi sei sembrato particolarmen-te ispirato nel disegnarlo. Da dove nasce Giovanni Fonzi?Fonzi, oltre al debito del so-prannome derivante eviden-temente dal mitico Fonzarelli

di Happy Days, è in realtà la trasposizione ai giorni nostri di un personaggio lugubre e decisamente interessante di un piccolissimo, scalcagnato we-stern all’italiana: Django il Ba-stardo (Sergio Garrone 1969), anche là c’era questo pistolero che sembrava essere tornato dall’inferno per vendicarsi... io l’ho solo un po’ reso più af-fine alla mia poetica intrisa di cagnacci e sfasciacarrozze, et voilà: Fonzi era bello e pronto!

Ancora una volta hai fatto un lavoro ottimo sulla lin-gua. Da un lato c’è il tuo linguaggio, ricchissimo e a tratti inusitato, dall’altro il linguaggio paradialettale dei tuoi personaggi che en-tra anche nella narrazione, creando un cortocircuito linguistico. Che tipo di la-voro hai fatto in questa di-rezione?Ormai dopo tre libri penso si possa parlare, senza sembrare presuntuoso, di una mia, per-sonalissima «voce» letteraria, che mescola il vernacolo a de-scrizioni auliche guardando ai grandi maestri (oltre al Grande Sudista già citato, Faulkner, che pure in lingua originale era inarrivabile nel codificare gli idiomi e gli slang della sua terra, penso al lavoro di James Lee Burke, oppure, arrivando a casa nostra, al grande Feno-glio, che meticciava l’italiano con l’inglese e il francese inven-tandosi verbi e avverbi molto onomatopeici).

Nel tuo romanzo si muove un’umanità ai margini, che sembra non poter sperare in un riscatto, o addirittura che sembra non cercare un riscatto; c’è una terra duris-sima, dove sembra che solo chi è più duro di essa possa andare avanti; c’è una cor-ruzione generalizzata, che penetra anche in chi non è direttamente coinvolto. Che terra e che tempi sono questi in cui viviamo?Io non faccio che ripeterlo: un artista si fa carico dello strap-po, della violenza che impregna la realtà e attraverso la sua personale rappresentazione la da in pasto a chi lo ascolta per mezzo anche dell’esagerazione: per cui, nel mio caso, la capa-cità di descrizione spesso viene accantonata in favore, appun-to, dell’iperbole. Ma il vero dramma è che il mio espres-sionismo - così fumettistico e talvolta caricato sino all’intol-lerabile - sovente viene scam-biato da chi legge per realtà documentaria, quindi, ahinoi, ciò significa che la cattiveria che ci circonda è con tutta evi-denza ben superiore a qualsiasi operazione di fantasia.

Ora che la tua trilogia è giunta al termine, quali sono i tuoi prossimi progetti?Ho già firmato con lo stesso edi-tore per il prossimo romanzo: una storia di bambini ai tempi della prima, dura battaglia an-tinucleare nel Salento periferi-co degli anni ‘80.

Dario Goffredo

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ody, Jonathan Lethem, Shelley Jackson e Colson Whitehead, citato abilmente nell’incipit del libro. Queste testimonianze sono servite come una mappa dai contorni sbiaditi, su cui ini-ziare a tracciare vie, ricostruire quartieri e locali che hanno se-gnato l’immaginario dei grandi scrittori newyorkesi. Melville, Withman, Hawthorne (Il velo nero del pastore citato come metafora dell’ipocrisia americana), sono solo alcune figure leggendarie della nar-rativa americana utilizzate per orientarsi nell’eterogenea Gotham, nome ripreso da mol-ti scrittori ottocenteschi, come spiegherà lo stesso Cognetti, e impresso nella memoria col-lettiva grazie a Bob Kane con il personaggio di Batman. I loro scritti hanno guidato l’au-tore nel distretto di Brooklyn, sino all’altra sponda del ponte, quella del Lower East Side, il quartiere degli emigranti e culla della cultura ebraica, rappresentata nelle opere di Cahan, Roth, Gold, Malamud, Paley: “non è possibile esplora-re Gotham senza fare, prima o poi, i conti con l’ebraismo”. Avvicinandosi al cuore di Man-hattan, l’autore ha respirato il fermento creativo del Gre-enwich Village (trasformato nell’ennesima attrazione tu-ristica) dove Kerouac, Corso, Ginsberg, Burroughs, hanno esordito fra risse, bevute e re-ading letterari. Questo libro è il resoconto dei suoi innumerevoli viaggi nella Grande Mela, un lungo cammi-no autobiografico che descrive i luoghi e le persone incontra-te: il capodanno a Manhattan, orchestrato goffamente dal suo amico Jimmy, un italo ameri-cano affascinato dallo stereo-tipo del “bravo ragazzo”, aiuta a spezzare quella che potreb-be essere la monotonia di una semplice guida di New York. Il

pregio del libro sta nel descri-vere una città, nel ricostruirne la sua storia, senza risultare didascalico, ma sollecitando l’interesse del lettore attraver-so la vita e le opere dei gran-di narratori americani che in quelle strade hanno vissuto e dalle quali hanno tratto ispira-zione per i loro capolavori.

Roberto Conturso

ENRICO PISCITELLILa minima importanzaLas Vegas Edizioni

Quindici racconti per l’esordio letterario di Enrico Piscitelli, racchiusi nell’ibrido La mini-ma importanza. Ibrido nel sen-so che dentro ci sono illustra-zioni (di Alice Costantini) e un fumetto di quattro tavole con Sara Pavan alle matite. Ibridi non sono invece i personaggi della raccolta: gli uomini di Pi-scitelli vivono racchiusi ognuno nella propria boccia per i pe-sci rossi. Da cui non tentano la fuga: incapaci del contatto, ambiscono al contagio. C’è chi trova il coraggio per suicidarsi in un giorno particolarmente caldo, chi vorrebbe uccidere la zia e chi regola il proprio ritmo sessuale sui suoni che proven-gono dalla stanza (boccia) ac-canto. Una lingua pulita per frammenti – tutt’altro che rac-conti minimi – che si disinte-ressano dell’inizio e della fine. Enrico Piscitelli, pugliese di Trani, già editor e curatore di collane per diverse case editrici

e tra gli organizzatori di Ultra, festival della letteratura a Fi-renze, pubblica quindici rac-conti scritti nel tempo e che nel tempo – presente – continuano a crescere.

Marco Montanaro

ANDRE DUBUSNon abitiamo più quiMattioli 1885

Il racconto, secondo alcuni è la forma perfetta della narrativa. La pensava così Andre Dubus, che, leggenda vuole, dopo aver letto Il duello di Cechov, pare abbia gettato nel cestino il suo romanzo e si sia ripromesso da allora di scrivere solo racconti. Non abitiamo più qui, pubblicato da Mattioli 1885, è una raccolta di tre racconti lunghi che hanno come protagonisti due coppie di ragazzi trentenni, Jack, Hank, Terry e Edith, le cui vicende si intersecano e si intrecciano in un vortice di vicende dolorose e triangoli amorosi in cui i quattro protagonisti precipitano per cer-care di colmare il vuoto delle loro esistenze borghesi in un Ameri-ca borghese e piccola. Dubus è un maestro del racconto. Le sue descrizioni sono illuminanti, il suo modo di raccontare le reazio-ni, anche fisiche, dei suoi perso-naggi è da manuale. Decisamen-te un libro da leggere per godere di una scrittura fuori dal tempo e anche, perché no, per imparare a scrivere.

Dario Goffredo

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FABRIZIO POGGIGli angeli perduti del Mississippi Meridiano zero

Dietro ogni lettera si nasconde una storia, a volte una leggen-da. È proprio il confine tra ciò che fantasia e realtà che ren-de il blues materia musicale così interessante. Più di ogni genere musicale il blues ha in sé una magia ancestrale ali-mentata da personaggi incredi-bili. E questo libro, non a caso scritto da un musicista, ha in sé tutta la passione e l’anima che questo genere riesce a tra-smettere.Il pretesto è un dizionario in cui ogni lettera è lo spunto per un viaggio, il risultato è un la-voro organico che conquista an-che i profani. Non è una storia del blues, ma un esame su più fronti, che riesce ad accostare alle biografie di artisti e band, riflessioni antropologiche, di-gressioni su alcune tecniche e tante curiosità.

Osvaldo Piliego

MAURO EVANGELISTIJohnny Nuovo Carta Canta editoreUn uomo solo, un ragazzo cre-sciuto prigioniero in un stanza, una donna in fuga da una vita che le sembra una gabbia do-rata, un giornalista che vuole ricomporre i pezzi di un puz-zle ormai irrimediabilmente disgregato. Tanti personaggi

che ruotano intorno a una sola storia, quella di Johnny Nuovo.Tanti aspetti di un unico disa-gio di vivere che si frammenta, pirandellianamente, in una se-rie di vite generate da un uni-co centro di gravità: un mondo “vero” che Johnny non credeva nemmeno esistesse. E che non è necessariamente migliore di quella stanza, grande come un campo di calcio, in cui K, il “pa-dre”, aveva delimitato la sua esistenza. Mauro Evangelisti, giornalista de “Il Messaggero” al suo primo romanzo dopo tre saggi, racconta una storia in-tensa di vite che tentano di fug-gire dalle proprie monotonie. Intrecciandosi e interagendo tra loro. E spesso cambiandosi vicendevolmente il corso, solo apparentemente definito, degli eventi.

Fabio Rossi

EZIO GUAITAMACCHIDelitti RockArcanaIn tanti modi, credo quasi tut-ti, ci hanno raccontato la storia della musica: dal principio, al contrario, attraverso i dischi, le copertine. Ezio Guaitamac-chi lo fa attraverso la morte, o meglio le morti celebri, e anche quelle meno conosciute, delle star del rock. Molto spesso av-volte da un alone di mistero, le morti consegnano la rock star al mito, rendendola in qualche modo immortale. Delitti rock parte dagli anni trenta e arriva fino ai nostri giorni, ricostruisce contesto, circostanze, moventi, ripercussioni di circa 200 vite finite o bruscamente interrotte. Il libro è scritto con la perizia di un criminologo, una suggestio-ne quasi cinematografica e la passione di un critico musicale. I ritratti che emergono sono di vite consumate, altre troppo ve-loci, altre ancora semplicemen-te sfortunate. (o.p.)

COSIMO ARGENTINA FIORENZO BAINIMessi a 90Manni

Il mondiale si avvicina e im-pazza l’uscita di libri dedicati al calcio. Cosimo Argentina, che da poco ha ripubblicato il suo esordio Cuore di cuoio, firma insieme a Fiorenzo Bai-ni questo curioso libro ricco di aneddoti veri e finti. Messi a ’90, che chiaramente richiama nel titolo il campione argenti-no del Barcellona, ha un elo-quente sottotitolo “Le partite più raccapriccianti dell’Italia ai mondiali e altre storie di or-dinaria follia calcistica”. Così ogni capitolo è diviso nel racconto delle partite viste da Baini (che sceglie soprattutto le partite incolore, pallosi zero a zero, disfatte cocenti, vitto-rie stiracchiate) e da racconti brillanti, visionari e poetici di Argentina. Dalla sconfitta con-tro la Corea nel 1966 al falli-mento del 1974, dalla sorpresa del 1978 al mito del 1970, dal-la cocente delusione di Italia ’90 alla deprimente e “calda” finale 1994, dalla nuova Corea del 2002 alla vittoria sotto il cielo di Berlino del 2006 i due ci raccontano le storie come avrebbero potuto fare nella stessa cabina di commento Bruno Pizzul e Osvaldo Soria-no, Nando Martellini e Nick Hornby. (pila).

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LIBRO SUI LIBRI9 RACCONTI SULL’ESPERIENZA DELLA LETTURA

AA. VV.

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Libro sui libri è il secondo titolo della collana Coolibrì, curata da Coolclub e diretta dal nostro Osvaldo Piliego per Lupo Editore. Ci fa piacere presentare questo titolo, un’antologia sulla lettura, un po’ vizio, un po’ piacere, un po’ galera, ma comunque sempre irrinunciabile per i nove scrittori che hanno accettato l’invito del bravo Ros-sano Astremo a raccontare il loro rapporto con i libri. Vi presentiamo in questa pagina la prefazione del curatore al volume. Un piccolo anticipo di quella che speriamo sia per tutti voi una lettura piacevole come è stata per noi di Coolclub. (d.g.)

È un inferno. Più i giorni passano più lo spazio della mia pic-cola casa tende a restringersi. Libri su scaffali, libri su mensole, libri in camera da letto, libri in cucina, libri in bagno, libri ovunque.Sono un tossicomane e so che la guarigione è solo un lontano miraggio.A quest’accumulo spropositato di volumi si acco-sta una lettura bulimica di tutto. Sono un lettore onnivoro, uno di quelli che gli esperti del settore definiscono lettore forte, uno di quelli che con il numero di libri che acquista tiene in piedi il ru-tilante baraccone del sistema editoriale italiano.Lontani sono i tempi della mia verginità, quando ai libri preferivo le partite di pallone e i pome-riggi passati davanti alla TV a divorare cartoon giapponesi. È l’adolescenza ad aver incrinato la mia beata innocenza. L’adolescenza: quel contorto periodo in cui tutto sembra remare contro di te, quel periodo in cui, invece di parafrasare canti della Divina Com-media e scervellarsi con strambe formule tri-gonometriche, preferisci fissare per ore la crepa asimmetrica che campeggia sul soffitto della tua camera, il tutto condito dai suoni poco rassicu-ranti dei Joy Division e Bauhaus. In uno di quei pomeriggi catatonici, un libro, por-tato da un mio compagno di liceo, varcò la soglia della mia camera. Avrò avuto quattordici anni. Il libro in questione era Sulla strada di Jack Ke-rouac.Certo, in precedenza avevo letto altri libri. Non ero totalmente all’asciutto. Tutto, però, rientra-va tra gli obblighi imposti dalla paranoica atti-vità didattica.Nella storia di Sal Paradise e Dean Moriarty, invece, trovai molte risposte al mio sentirmi ina-deguato e fuori dal coro, perché sono sacrosante le parole di Cesare Pavese: “Leggendo non cer-chiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pen-sati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti

dentro di noi”.E quanto vibrai dopo quella lettura!Fu la mia prima dose. Presto fui sopraffatto da questa dipendenza. Più gli anni passavano più necessitavo di roba.Pagine e pagine per accudirmi, per lenire il mio disagio e nascondermi per ore e ore in mondi pos-sibili nel tentativo di costruire la corazza miglio-re con cui affrontate il mondo reale.Questa è la mia piccola storia. Necessaria premessa per spiegare la ragione che mi ha spinto a chiedere ad un gruppo di giovani narratori la personale versione dei fatti riguardo l’incontro con la lettura.Un modo per confrontare la mia esperienza con la loro e la loro con quella di tutti voi lettori del presente Libro sui libri. Giuseppe Braga, Eva Clesis, Gabriele Dadati, Maura Gancitano, Elisabetta Liguori, Giancarlo Liviano D’Arcangelo, Teo Lorini, Flavia Piccinni e Nadia Terranova, ciascuno con il proprio stile e la propria voce, hanno dato vita a nove testi inclassificabili, che flirtano con le linee dell’au-tobiografia, della narrazione e della saggistica senza rientrare nel pentolone di nessuna di esse.Molti gli aneddoti raccolti, gli autori citati, i libri culto, molti i secoli attraversati, tutti tenuti assieme dal collante comune della loro autentica esperienza. Da Sciascia a Scerbanenco, da Roth a DeLillo, passando per Balzac, Pontiggia, Eco, Cervantes, Sartre, Collodi, Bernhard, Austen, Céline, un viaggio impazzito nello spazio e nel tempo, nel quale riluce l’idea di poter trovare nostri contem-poranei in ogni epoca e in ogni letteratura.Nonostante l’invasione possente nella vita di tut-ti i giorni di TV e Internet, che sottraggono fette importanti del nostro tempo libero, ancora oggi la pratica della lettura può essere considerata un’esperienza decisiva e centrale e il libro un oggetto rivoluzionario, assolutamente non desti-nato alla sparizione, convenendo, in conclusione, con quanto scritto da Umberto Eco qualche anno fa: “Il libro da leggere appartiene a quei miracoli di una tecnologia eterna di cui fan parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta”.E se, a lettura terminata, qualcuno di voi si re-cherà in libreria o in biblioteca o si farà prestare da amici o parenti uno dei titoli di cui si parla tra queste pagine, vorrà dire che quel miracolo chia-mato libro avrà continuato ad agire e il senso di questa operazione potrà ritenersi magicamente compiuto.

Rossano Astremo

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18:30 EdiZiONi

Una piccola casa editrice che produce piccoli li-bri di grande qualità, collane interessanti con un tema comune, persone interessanti nella loro scuderia, come Luca Moretti, Nino D’Attis e tan-ti altri. Diciottoetrenta ci piace e la presentiamo qui ai nostri lettori.

Come nasce 18:30 e qual è, brevemente, la vostra proposta editoriale?Diciotto e trenta...... beh, dire che nasce da me e Roberta Lepri sarebbe sbagliato. Nasce piut-tosto dalla grande amicizia che lega diverse persone, tante, almeno una ventina, con cui si scrive, si organizzano reading, si cazzeggia. Io e Roberta abbiamo voluto dare a questo legame una dimensione cartacea che prevedesse visibi-lità nelle fiere del libro, negli eventi che spesso organizziamo, dare a tutti la possibilità di essere presenti in libreria, di poter presentare a Torino. La vita è breve (tocchiamoci le palle) e noi agli amici ci teniamo.I racconti e come li scegliamo. I racconti si scel-gono da soli, sono loro stessi che ti trascinano di pagina in pagina sino alla fine, ti introducono nel loro mondo e per la loro durata tu sei altro da te. Beh, quando succede questo, il racconto finisce su carta.

Qual è il ruolo che una casa editrice senza una holding alle spalle può ritagliarsi nel mercato editoriale italiano, un mercato or-mai ben più che saturo?Non lo so, siamo piccoli e facciamo cose piccole, non ci piace pensare in grande.

Quali sono i vostri ultimi progetti?Gaytags è la collana che abbiamo lanciato a Tori-no l’anno scorso, siamo contenti. Adesso abbiamo per le mani lavori di autori molto interessanti, alcuni legati al mondo del teatro.E poi la collana Propaganda, il terzo capitolo della collaborazione con Luca Moretti che, dopo Minimal e Subliminal, ci ha proposto otto saggi di argomento vario scritti da autori interessanti.

Ci parli brevemente delle vostre collane?Gaytags, racconti di orgoglio gay; Geotags, rac-conti di viaggio; TAgs, collana generale; Poetags, poesie; Cuntags, racconti che si rifanno al cunto siciliano.

Tre titoli da consigliare ai nostri lettori?Consigliarne tre comporta escludere tutti gli altri... e poi ogni lettore è diverso dall’altro. Se proprio devo, consiglio Casa Ariosto, il racconto numero uno: ha avuto il potere di farci diventare editori.

Che tipo di politica avete con i manoscritti?Fondamentalmente ci piace poter intrattenere uno scambio di mail con tutti al di là dell’esito della proposta, spesso succede.... purtroppo non sempre riusciamo a rispondere.

Progetti per il futuro?Siamo contenti così, non progettiamo, ci godiamo il presente.

Dario Goffredo

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FEdERiCO ZAmPAGLiONEShadow, un horror inquietante

David è un soldato americano di ritorno dall’Iraq. Il giovane, alla ricerca di un po’ di serenità, decide di fare un’escursione in mountain bike in un luogo sperduto d’Europa. Ben presto questo viaggio so-litario si trasformerà in un vero e proprio incubo. Un horror inquietante e profondamente attuale è Shadow, il secondo film di Federico Zampaglione, leader dei Tiromancino, già regista della comme-dia noir Nero bifamiliare. Dopo aver partecipato a numerosi festival in Italia e all’estero, il film ha anche conquistato due nomination ai Nastri d’ar-gento. Prima dell’uscita in Italia il film è approda-to anche al Festival del Cinema Europeo di Lecce.

Come è nata la collaborazione con Ferrero, produttore del film? All’inizio Shadow avrebbe dovuto essere prodot-to da Dario Argento, il quale aveva anche visio-nato e apprezzato la sceneggiatura. Poi Dario è stato impegnato sul set di Giallo e io ho incon-

trato in aeroporto Massimo Ferrero, al quale ho parlato per caso del progetto. A Ferrero era pia-ciuto molto Nero bifamiliare e ho scoperto che è un amante dei film horror degli anni ’70. E così, da un incontro casuale, è nato Shadow.

Un film ricco di citazioni e simboli. Shadow non è solo un horror, ci sono fondamentali risvolti politici nella storia, in particolare il tema della guerra…Sono un grande estimatore del cinema di gene-re degli anni ’70, dell’horror puro di Deodato, Argento, Fulci, Bava. Credo però che qualsiasi amante del genere horror sia in realtà un canni-bale cinematografico, un amante del cinema in tutte le sue dimensioni. Nello scrivere il film ho attinto a tutto quello che in trent’anni di vita ho visto e ho cercato di darne una lettura personale. Shadow è soprattutto un film horror, pur pre-sentando forti risvolti legati all’attualità. Non

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volevo però fare un film di guerra, ho lasciato che la questione politica entrasse silenziosamen-te nella storia, senza diventare preponderante, pur attraversando tutto il film.

Ogni scena di Shadow aggredisce lo spet-tatore e lo inchioda alla poltrona. L’atmo-sfera è resa particolarmente inquietante dai colori agghiaccianti della natura e dal-la colonna sonora. Chi si è occupato delle musiche?La colonna sonora è stata realizzata dal progetto The Alvarius di mio fratello Francesco e Andrea Moscianese, mentre io mi sono occupato solo del-la supervisione. Abbiamo cercato di creare suoni sperimentali e psichedelici, soprattutto in alcune scene. Siamo partiti dalla nostra passione per il rock, riprendendo le colonne sonore anni ’70 e ’80 del cinema italiano. Per quanto riguarda l’am-bientazione, il film è stato girato in Italia, a Tar-

visio, al confine con l’Austria e la Slovenia, un po-sto bellissimo e inquietante che potrebbe essere il Canada e invece è nel cuore dell’Europa.

Un horror ansiogeno con una vena malin-conica: si potrebbe dire che Shadow è il viaggio di un’anima negli orrori dell’uomo, l’incontro con i più tristi e crudeli crimini umani. Come ti sei documentato?Mentre scrivevo il film riflettevo molto sugli or-rori della guerra e soprattutto su cosa realmente la gente conosce e vede di questi orrori. Le im-magini che riceviamo, soprattutto dalla tv, sono quelle che vogliono farci vedere, la vera guerra è quella che non ci mostrano. Ho fatto molte ricerche, soprattutto in internet, per scovare le foto proibite, ho individuato diversi siti che permettono di vedere tutto quello che viene solo raccontato e di capire realmente cosa c’è dietro le parole “mutilazione”o “feriti”. Le immagini del dolore dei sopravvissuti, i feriti e i mutilati sono ciò che realmente resta dopo una guerra. Durante questa ricerca ho dovuto anche forzar-mi nel vedere immagini che mai avrei pensato esistessero, sono anche finito in ospedale perché non sono riuscito a dormire per una settimana intera. Ho cercato inoltre di documentarmi sui crimini dell’uomo, da Auschwitz all’11 settem-bre, dall’Iraq a Guantanamo.

Per quanto riguarda la tua formazione ci-nematografica, a quali film ti sei ispirato in particolare?Vedo film horror da quando ero un bambino, i primi nomi che mi vengono in mente sono Dario Argento, Mario e Lamberto Bava, Lucio Fulci, ma per l’occasione ho rivisto anche tanti altri film, come il primo Nosferatu.

A proposito di Nosferatu viene da fare subi-to un paragone e notare come la storia rac-contata da Murnau terminasse indicando una possibile liberazione dal male, con il sacrificio della donna. Il finale del tuo film è inaspettato e rischia di sorprendere e de-ludere lo spettatore più ingenuo: Al contra-rio di Nosferatu, Shadow termina in modo disperato...Credo che la scena finale sia la più crudele di tut-to il film, più crudele delle torture precedenti e più paurosa delle scene di tensione. Non c’è una speranza perché racconta la realtà e la realtà, so-prattutto nel caso della guerra, può essere molto più spaventosa di qualsiasi immaginazione.

Fulvia Balestrieri

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È una piacevole sorpresa Sotto il celio azzurro, documentario firmato dal regista salentino Edo-ardo Winspeare che dopo il successo dei Galan-tuomini propone senza troppo clamore iniziale questa sua nuova creatura. Presentato fuori con-corso nella sezione Alice nella città del Festival di Roma, il documentario non aveva nessuna vel-leità di girare nelle sale. E invece il passaparola ha funzionato e il documentario continua ad es-sere molto richiesto. Il Celio Azzurro è una scuo-la materna nel cuore di Roma, vicino al Colosseo: 45 piccoli studenti di 32 nazionalità diverse. È il primo centro multiculturale in Italia per l’acco-glienza dei bambini stranieri in età prescolare (nato nel 1990), gestito da un gruppo di maestri che insegnano ai bimbi il valore della convivenza gioiosa e pacifica e l’importanza della fantasia. Winspeare, telecamera in spalla, si è calato in questa atmosfera raccontando le storie dei mae-stri e della maestre, dei genitori italiani e stranie-ri, dei bambini che finito il ciclo non vorrebbero abbandonare quell’isola felice. Nel suo lungo giro di presentazioni Winspeare è approdato anche a Lecce, presso il Cinema Db D’essai che di recente è stato inserito nel circuito D’Autore dell’Apulia Film Commission. Dopo la proiezione il regista si è intrattenuto con il pubblico rispondendo a

qualche domanda. “Questo docufilm – ha esor-dito Winspeare – mi è molto caro perché mi ha aiutato a capire come ci si comporta con i bambi-ni. Un’esperienza che mi tornerà utile visto che sono diventato da poco papà”. Winspeare, nono-stante i lungometraggi Pizzicata, Sangue Vivo, Il Miracolo e Galantuomini, in questi anni non ha mai smesso di realizzare corti e documentari. “Ho iniziato col documentario e ne sono un vero appassionato. Questo, però, lo definirei piuttosto un docufilm perché non contiene interviste ma personaggi sviluppati dall’inizio alla fine e ri-sulta emozionante”. L’idea nasce dall’esperienza del suo storico direttore della fotografia, Paolo Carnera che al Celio ha mandato i suoi. “È un posto esemplare: la prova lampante che anche in Italia le cose si possono fare bene, unendo serietà e leggerezza. Uno squarcio di luce nella tempesta italiana degli ultimi tempi. Dopo due settimane di permanenza tra docenti e bambini ne ero già innamorato”, ha ricordato il regista. Ma la convivenza è durata molto di più. Nel do-cumentario infatti Winspeare racconta tutte le stagioni dall’autunno all’estate, filmando e docu-mentando le difficoltà di una scuola anomala, le falle nel tetto, gli allagamenti, la mancanza di risorse, i pranzi multietnici, le mamme addette

EdOARdO WiNSPEAREIl documentario Sotto il celio azzurro racconta un fantastico mondo di bambini e insegnanti

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Una commedia sui generis, dove toni comi-ci, scanzonati scorrono su situazioni amare e drammatiche. Dalla vita in poi è film d’esordio di Gianfrancesco Lazotti, regista che, dopo una lunga esperienza televisiva, approda sul grande schermo. Katia (Cristiana Capotondi) è costretta a vivere su una sedia a rotelle; s’innamora di Da-nilo (Filippo Nigro), condannato a trent’anni di prigione per aver commesso un omicidio. Il loro rapporto comincia prima di incontrarsi, attra-verso le lettere che i due si scambiano quotidia-namente. È il caso a farli conoscere. Katia, infat-ti, scrive inizialmente per conto della sua amica Rosalba (Nicoletta Romanoff). Come in Cyrano De Bergerac, poi i ruoli si scambiano e Katia fa di tutto per conoscere il galeotto. Si sposeranno e architetteranno una fuga d’amore. “È uno di quei personaggi che ti emozionano subito, e poi mi è sembrato diverso dai soliti, così ho voluto fare una specie di prova, avevo voglia di fare una cosa diversa”, sottolinea Cristiana Capotondi. “Inoltre conosco Gianfrancesco Lazotti da anni: so che tipo di delicatezza abbia, e quindi ho scel-to convinta la sceneggiatura. Del personaggio, al di là della condizione di disabilità che la vincola naturalmente, mi ha interessato e incuriosito soprattutto il suo temperamento”, prosegue la protagonista. “Lei è ironica, cinica, per niente disincantata, però crede ancora fortemente in qualcosa, l’amore, e lotta per averlo; in questo modo vuole misurare la sua forza, sapere fino a che punto può arrivare. In lei c’è anche un po’ di egoismo perché, quando vuole regalare la libertà a Danilo, gli può procurare un altro danno con la giustizia. Questo è anche il suo senso dell’amo-re, che io non posso condividere, ma che sicura-mente non è comune e per questo mi è piaciuta

l’idea di poterlo raccontare”. Soddisfatto della sua interpretazione anche Filippo Nigro, “Il mio personaggio si poneva all’inizio un proble-ma: la verosimiglianza. Dovevo cercare di farlo vero, anche perché trae spunto da un uomo che esiste veramente e che il regista conosce, ma non sapevo fino a che punto dovessi caricare la sua figura. In questo ho chiesto aiuto a Gianfrance-sco. Da una parte mi attirava l’idea di farlo duro, cattivo, perché è un omicida, poi ho pensato che non dovesse imitare nessuno stereotipo”, precisa l’attore, già interprete, tra gli altri film, di La finestra di fronte, Le Fate ignoranti, Amore, bu-gie e calcetto. “Ho lavorato con la fantasia, e così ho pensato che forse tanto cattivo non era, che avesse potuto uccidere anche per un incidente. È un personaggio a cui ti devi affezionare, con cui devi misurarti e devo dire che interpretarlo mi è piaciuto molto”. Nel cast del film, che dopo la presentazione in anteprima al Festival del Ci-nema Europeo di Lecce arriva nelle sale, anche Pino Insegno e Carlo Buccirosso.

Silvia Margiotta

dALLA vitA iN POiCristiana Capotondi, Filippo Nigro e Nicoletta Romanoff sono i protagonisti dell’esordio cinematografico di Gianfrancesco Lazotti

alle pulizie e i papà impegnati nel giardinaggio. “Si respira serenità, allegria e allo stesso tempo serietà. Dieci insegnanti fantastici insegnano ai bambini a non essere robot ma esseri umani”. La domanda finale è quella di rito: progetti per il futuro? “Sto scrivendo un nuovo lungometrag-gio con Alessandro Valenti, già cosceneggiatore di Galantuomini. Tornerò a girare nel Salento,

tra Lecce e provincia, con attori locali. Sarà una commedia a metà tra un Baarìa in salsa salenti-na e Asterix e Obelix”. Intanto Winspeare si gode il meritato e imprevisto successo di Sotto il celio azzurro che ricorda a tutti quanti che un’altra Italia è possibile. E se questa diventa una con-vinzione dei più piccoli è una cosa incoraggiante. (pila)

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MUSICA

GIOVEDÌ 10 GIUGNO – Soul Food di Torre dell’Orso (Le)Elvis Acoustic GIOVEDÌ 17 – Soul Food di Torre dell’Orso (Le)Elvis Acoustic TrioVENERDÌ 18 – Campo Delta di Copertino (Le)Beenie Man VENERDÌ 18 E SABATO 19 – Muro LecceseFesta della musicaSABATO 19 – Transito di LecceTalking about a revolutionSABATO 19 E DOMENICA 20 – Otranto (Le)La notte rosaDOMENICA 20 – Squinzano (Le)Salento TalentoDOMENICA 20 – AradeoRadio EgnatiaMARTEDÌ 22 – LecceOtium et negotiumMERCOLEDÌ 23 – LecceAnima LunaeMERCOLEDÌ 23 – BariApres la classeGIOVEDÌ 24 – Soul Food di Torre dell’Orso (Le)Dj BellezzaSABATO 26 – Manifatture Knos di Lecce Calibro 35SABATO 26 – VeglieCarla Casarano – Jazz in VeglieSABATO 26 – Torre Sant’Andrea (Le)TrebleSABATO 26 – Transito di LecceAlmoraimaSABATO 26 – Parco Gondar a Gallipoli (Le)Macka BSABATO 26 – Buenaventura di San FocaEl sabatone con Tobia

LamareDOMENICA 27 – San Pietro Vernotico (Br)ZinaGIOVEDÌ 1 LUGLIO – Soul Food di Torre dell’Orso (Le)Lucia MancaSABATO 3 – LecceLa notte biancaSABATO 3 – Buenaventura di San FocaEl sabatone con Tobia LamareDOMENICA 4 – Officine Cantelmo di LecceNordgarden, Tobia Lamare & The SellersGIOVEDÌ 8 – Soul Food di Torre dell’Orso (Le)Andrea MiSABATO 10 – LocorotondoPaolo Fresu, Omar Sosa, Trilo GurtuSABATO 10 – Buenaventura di San FocaEl sabatone con Tobia LamareGIOVEDÌ 15 – Officine Cantelmo di LecceBrunori SasGIOVEDÌ 15 – Soul Food di Torre dell’Orso (Le)GopherSABATO 17 – Torre Lapillo (Le)PerturbazioneSABATO 17 – Buenaventura di San Foca (Le)El sabatone con Tobia LamareSABATO 17 – Melpignano (Le)Passeggiando sulla lunaGIOVEDÌ 22 – LecceApres La ClasseGIOVEDÌ 22 – Soul Food di Torre dell’Orso (Le)GrimoonSABATO 24 –Conversano (Ba)Selton

SABATO 24 – LocorotondoBobo RondelliSABATO 24 – Buenaventura di San Foca (Le)El sabatone con Tobia LamareDOMENICA 25 – LocorotondoEsperanza SpaldingDOMENICA 25 – Santa Maria di Leuca (Le)Co’SangDOMENICA 25 – Carmiano (Le)FolkabbestiaDA DOMENICA 25 A SABATO 31 – Sogliano Cavour (Le)Locomotive Jazz FestivalLUNEDÌ 26 – Polignano a Mare (Ba)DenteMARTEDÌ 27 – Teatro Romano di LecceAmor Fou e Lucia MancaGIOVEDÌ 29 - MolfettaGotan ProjectGIOVEDÌ 29 – Soul Food di Torre dell’Orso (Le)KosmikVENERDÌ 30 – Anfiteatro Romano di LecceMalika AyaneVENERDÌ 30 – Excalibur di Canosa (Ba)Il disordine delle coseVENERDÌ 30 – LocorotondoKing of convenienceVENERDÌ 30 – Acquaviva delle fontiZuSABATO 31 – LocorotondoMalika AyaneSABATO 31 – Buenaventura di San FocaEl sabatone con Tobia LamareSABATO 31 – SupersanoAlpha Blondy

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A COSA SERVE IL TEATRO?

Dopo la riapertura al pubbli-co proseguono le attività delle Manifatture Knos di Lecce e riprende la rassegna “A cosa serve il teatro?”, ideata e co-ordinata da Induma Teatro e Luoghi Comuni. Molto intenso il programma di spettacoli e laboratori previsti per giugno. Sabato 12 e domenica 13 giu-gno a conclusione del percorso iniziato con alcuni testi sele-zionati per la prima edizione del Premio di Drammaturgia Contemporanea “Il Centro Del Discorso” 2008/2009 saranno messi in scena “Gli Illuminati” di Vittoria Tambasco con Ro-berta Mele, Annalisa Gaudino, Marco Memmo, Valentino Li-gorio. Regia Valentino Ligorio e “Shoa’” di Valentina Diana con la regia di Simone Franco. Intanto sono stati selezionati i quattro finalisti dell’edizione 2009/2010 del Centro del di-scorso, sono Mariano Dammac-co, Giuseppe Bonfanti, Salvato-re Zinna e Maria Conte. Dal 14 al 19 giugno le Manifat-ture Knos ospitano il workshop di danza con la coreografa giapponese Anan Atoyama. Mercoledì 16 giugno secondo appuntamento con la trilogia

Cinemateatro a cura di Simo-ne Franco. Questa volta spa-zio a “Todo modo” con Simone Franco, Orodè, Gianluca Mi-lanese e Rocco Nigro. Dome-nica 20 giugno Caterina Inesi propone K465 part two studio una performance coreografica a partire dal quartetto d’archi delle dissonanze di W. A. Mo-zart di e con Matteo Angius, Manuela De Angelis, Caterina Inesi, Marcella Mancini, Fran-cesca Sibona ideazione e regia Caterina Inesi musica Wolf-gang Amadeus Mozart ulte-riori contributi musicali Marco Della Rocca progetto luci Diego Labonia. Mercoledì 23 giugno terzo appuntamento con la tri-logia Cinemateatro con “Pull my daisy: omaggio alla Beat Generation” con Simone Fran-co, Orodè, Gianluca Milanese e Massimo Donno. Venerdì 25 giugno l’attore e regista Simo-ne Franco propone Il mulino degli sconcerti. Le memorie di Gino Sandri. Info www.mani-fattureknos.org

PICASSO A OTRANTO

Sarà Pablo Ruiz Picasso a inau-gurare la stagione artistica 2010 del Castello di Otranto: 83 opere tra ceramiche, oli, pa-stelli e incisioni per raccontare l’ecletticità del genio incontra-stato del ‘900. La mostra riper-

corre un arco di tempo molto vasto: dal 1904, con l’esposizio-ne della prima incisione mai re-alizzata dal grande maestro - Il Pasto frugale -che fa parte della serie Suite des saltimbanques, per arrivare alla sua opera inci-soria più famosa, la serie della Tauromachia (1957) e un corpo unico di 38 ceramiche in cui il segno di Picasso è più che mai evidente e riconoscibile. La se-lezione è completata da 4 opere miste: un disegno a pastello del 1919 - Olga’s left profile - raf-figurante la splendida moglie Olga (cm 14x7); Deux Femmes, gouache (tecnica del guazzo - cm 26x18) realizzata a Parigi nel 1920; Tête de femme, un olio del 1943 (cm 40x50), e ll pittore e la modella, disegno a china del 1971 (cm 21x33). Info www.castelloaragoneseotranto.it

SALENTO INMOVIMENTO LENTO

Riscoprire il proprio territorio, il Salento, attraverso un viag-gio lento, a piedi lungo la costa ionica, da Veglie a Santa Maria di Leuca. Alla ricerca di uno stile di vita più lento raccon-tando il territorio, la bellezza della sua natura, i suoi abitan-ti e le sue economie sostenibili. Una camminata-evento lunga 11 giorni, organizzata da “Oi-kos, il periodico per uno stile di vita sostenibile”, tra terra e mare mettendo in relazione realtà economiche dell’agricol-tura, del turismo e dell’artigia-nato che da anni operano sul territorio in modo sostenibile.

Attività che non consumano il territorio ma praticano con gioia nuove forme di econo-mia sostenibili. “Il progetto “Salento in Movimento Lento” – dice Katia Manca, direttore responsabile di Oikos - nasce con l’ obiettivo di dare un con-tributo concreto alla crescita del turismo a bassa velocità e a basso impatto ambientale. Non avremo soldi, non avranno cibo e non avranno tende sotto cui trascorrere la notte, ma lavore-remo all’interno delle aziende che incontreremo sul territorio domandando loro in cambio ospitalità e cibo”. La partenza è prevista per martedì 15 giugno, da Largo Porta Nuova di Ve-glie, luogo storico di incontri e di scambi, arrivo il 25 giugno al Faro di Santa Maria di Leuca, dopo oltre 150 Km percorsi ri-gorosamente a piedi o in treno (Ferrovie Sud-Est). Un viaggio che in alcuni giorni sarà aper-to a tutti tra racconti, musica, cibo e buon vino per creare uno sciame d’interesse e di propo-ste sulle strategie necessarie a un’economia altra, da costruire dal basso, con piccoli e rivolu-zionari esempi locali.

MUSIKÌSabato 26 giugno torna a Ster-natia (Le) Musikì, notte bianca di cinema del reale, la notte in cui suoni e visioni cinematogra-fiche si fonderanno fino all’alba. Il progetto Musikì si propone di raccontare il territorio pugliese e salentino attraverso viaggi mu-sicali e visioni cinematografiche che percorrono tra passato e pre-sente, tra luci e ombre, i diversi territori della regione. Sconfi-nando dalla Puglia si affrontano attraverso la musica temi civili, religiosi, e sociali che riguarda-no tutto il Sud Italia e i Paesi del Mediterraneo, si racconta-no storie riguardanti uomini e donne per riflettere su lavoro, migrazioni, guerre, realtà poli-

tiche e sociali. Una notte bianca di eventi tra musica e cinema con proiezioni, live e incontri; gli autori dei film sono i grandi maestri del cinema documenta-rio italiano, affermati filmakers, esordienti di valore, appassio-nati cineamatori. Tra gli eventi, in collaborazione con Archivio sonoro della Puglia sarà proiet-tato un omaggio a Matteo Salva-tore, grande interprete e autore pugliese; un altro omaggio sarà dedicato a Gianfranco Mingozzi, straordinario cineasta e com-pagno di viaggio di Cinema del Reale, scomparso nel 2009. Tra le proiezioni “1 Giant Leap” di Duncaman Bridge e Jamie Cat-to. Uno straordinario viaggio in tutto il mondo con solo una tele-camera digitale, un computer e un’idea: catturare e montare in un’unica fusione di suoni, imma-gini e parole le testimonianze di musicisti, registi, scienziati e pensatori. Il risultato finale è qualcosa di assolutamente originale, una via di mezzo tra documentario e videoclip musi-cale. Saranno presenti alla ma-nifestazione gli autori dei film in programma e il filmaker e diret-tore artistico di Cinema del reale Paolo Pisanelli, ma anche can-tori e musicisti appartenenti a generazioni diverse. L’evento, ch rientra nel progetto La taranta nella rete, è organizzato da Big Sur e Archivio Cinema del Re-ale, in collaborazione con la Re-gione Puglia, Provincia di Lecce, Comune di Sternatìa, Apulia Film Commission, Archivio So-noro della Puglia, Associazione Altrosud, Officina Visioni e con Archivio Audiovisivo del Movi-mento Operaio e Democratico, Archivio Nazionale del Film di Famiglia Home Movies, Cinete-ca di Bologna, Cineteca Lucana, Documè, ildocumentario.it, Mu-seo Nazionale delle Arti e Tradi-zioni Popolari. Info www.bigsur.it; www.latarantanellarete.it

L’OLIO DELLA POESIA

Quindicesima edizione per il Premio L’olio della poesia, ospi-tato come ogni anno in piazza Lubelli a Serrano (Le). Sabato 24 sarà premiato Milo De An-gelis presentato dal professore Stefano Verdino (Università di Genova). Come è ormai tradi-zione, l’editore Manni pubbli-cherà il quaderno con i testi di De Angelis in 999 copie nume-rate e fuori commercio, curato da Massimo Melillo. Il premio - che consiste in un quintale di Olio extravergine di oliva prodotto dalle locali aziende agricole e da una settimana di soggiorno a Otranto - sarà offerto dall’Oleificio cooperati-vo San Giorgio di Carpignano e dal Comune di Otranto. Il premio Salento D’amare, inve-ce, quest’anno andrà a Giorgio Forattini mentre il premio Mil-lennium è stato assegnato alla rivista di poesia L’Incantiere edita dal Laboratorio di poesia dell’Università di Lecce, diret-ta da Arrigo Colombo e Walter Vergallo. La manifestazione – coordinata da Peppino Conte - è organizzata dalla Provincia di Lecce e dal Comune di Carpi-gnano Salentino, in collabora-zione con i Comuni di Otranto, Taviano, Cursi, L’Università, L’Aprol, l’Oleificio Montevergi-ne di Otranto, l’Istituto di Cul-ture Mediterranee e l’Oleificio Cooperativo San Giorgio di Carpignano Salentino.

61EvENti

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Lecce (Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Caffè Letterario, Magnolia, Svolta, Cagliostro, Coffee and Cigarettes, Arci Zei, Libreria Palmieri, Liberrima, Libreria Apuliae, Ergot, Youm, Pick Up, Libreria Icaro, Fondo Verri, Negra Tomasa, Road 66, Mamma Perdono Tattoo, Shui bar, Cantieri Teatrali Koreja, Santa Cruz, Molly Malone, La Movida, Biblioteca Provinciale N. Bernardini, Museo Provinciale Sigismondo Castromediano, Edicola Bla bla, Urp Lecce, Castello Carlo V, Torre di Merlino, Trumpet, Orient Express, Euro bar, Cts, Ateneo - Palazzo Codacci Pisanelli, Sperimentale Tabacchi, Palazzo Parlangeli, Buon Pastore, Ecotekne, La Stecca, Bar Rosso e Nero, Pizzeria il Quadrifoglio, Associazione Tha Piaza Don Chisciotte), Calimera (Cinema Elio), Cutrofiano (Jack’n Jill), Maglie (Libreria Europa, Music Empire, Suite 66),

Melpignano (Mediateca, Kalì), Corigliano D’Otranto (Kalos Irtate), Otranto (Anima Mundi), Alessano (Libreria Idrusa), Galatina (Palazzo della Cultura, Gamestore), Nardò (Libreria i volatori, Vite, Aioresis Lab), Novoli (Saletta della Cultura Gregorio Vetrugno), Squinzano (Istanbul Cafè), Ugento (Sinatra Hole), Gagliano Del Capo (Enoteca Torromeo, Tabacchino Ricchiuto), Montesano (Endorfina coffee drink), Presicce (Jungle pub, Arci Nova), Salve (Chat Noir, Le Beccherie), Castrignano del Capo (Extrems), Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni, Birdy Shop), Ceglie (Royal Oak), Erchie (Bar Fellini), Torre Colimena (Pokame pub), Oria (Talee), Bari (Taverna del Maltese, Caffè Nero, Feltrinelli, Kismet teatro, New Demodè, TimeZones, Teatro Forma, H25), Giovinazzo (Arci 37), Trani (Spazio Off), Taranto (Associazione Start, Trax vinyl shop, Gabba Gabba, Biblioteca Comunale P. Acclavio, Alì Phone’s Center, Artesia, Radiopopolaresalento), Manduria (Libreria Caforio), Roma (Circolo Degli Artisti) e molti altri ancora...

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dal 26 giugno al 12 agostoSUD EST INDIPENDENTEDopo un anno di pausa torna nel 2010 il Sud Est Indipendente che diventa itinerante. Il Sei, a cura di Coolclub, ospiterà infatti sei concerti tra Lecce, Torre dell’Orso e Melpignano. E dopo le evoluzioni poliglotte dei Gogol Bordello, quest’anno abbiamo deciso di puntare sull’italiano. Si parte sabato 26 giugno con le colonne sonore dei Calibro 35 in concerto nel parcheggio delle Manifatture Knos di Lecce. La commistione di funk, jazz e prog rock che caratterizzava le colonne sonore di “Milano Calibro 9”, “Il Gatto a Nove Code” e “La Mala Ordina” rivive grazie ai musicisti coinvolti. Domenica 4 luglio negli spazi esterni delle Officine Cantelmo unico appuntamento “straniero” con il cantautore norvegese (ma italiano da adozione) Nordgarden che si esibirà al fianco di Tobia Lamare & The Sellers. Giovedì 15 luglio sempre alle Cantelmo

appuntamento con il cantautore calabrese Brunori Sas. Le sue canzoni sono disadorne e dirette, ora disilluse ora romantiche, ironiche e cremose, filtrate attraverso sonorità secche e retrò: quel retrò che è l’immaginario dei ricordi dei trentenni di oggi, ossia i primi anni 90. Giovedì 22 al Soul Food di Torre dell’Orso spazio ai Grimoon il gruppo italo francese che sorprende per lo stile crepuscolare ma spensierato, morbido ma incisivo. La loro musica

tiene insieme il folk e il rock, ballate docili e cantautorato delineando un vero e proprio sound Grimoon, un mondo sonoro inconfondibile. Martedì 27 luglio al Teatro Romano di Lecce gli Amor Fou incontrano la cantautrice salentina Lucia Manca. Ultimo appuntamento a Melpignano, giovedì 12 agosto con Teatro degli Orrori (che tornano nel Salento dopo il successo di qualche mese fa) e Tre allegri ragazzi morti. www.coolclub.it