Convegno del 6 giugno 2014 Bolzano -...
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Luglio 2014
Salario minimo e reddito minimo
garantito: Prospettive per
l'Alto Adige
Convegno del 6 giugno 2014
Bolzano
IPL • Istituto Promozione Lavoratori
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Documentazione Convegno
Salario minimo e reddito minimo garantito: Prospettive per
l'Alto Adige
IPL | Istituto Promozione Lavoratori
Coordinamento scientifico
Stefan Perini
Coordinamento per l’IPL | Istituto Promozione Lavoratori
Werner Pramstrahler
Concezione ed elaborazione
Josef Untermarzoner
Werner Pramstrahler
Luglio 2014
Tagungsdokumentation
Mindestlohn und Mindestsicherung: Perspektiven für Südtirol
AFI | Arbeitsförderungsinstitut
Wissenschaftliche Leitung:
Stefan Perini
Koordination für das AFI | Arbeitsförderungsinstitut:
Werner Pramstrahler
Konzeption und Bearbeitung:
Josef Untermarzoner
Impressum
IPL | Istituto Promozione Lavoratori
Ente pubblico di ricerca, formazione e informazione
Palazzo provinciale 12 – Via Canonico Michael Gamper 1
I – 39100 Bolzano
Tel.: 0471-418830 fax: 0471-418849
[email protected] www.afi-ipl.org
Responsabile ai sensi della legge sulla stampa:
Toni Serafini, Presidente della Giunta d’Istituto
L’utilizzo di informazioni, tabelle e grafici e la riproduzione fotomeccanica - anche per estratto - sono ammesse
solo se si indica la fonte (editore e titolo).
IPL • Istituto Promozione Lavoratori
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Indice
1. Introduzione ___________________________________________________________________________ 4
1.1 I motivi del convegno e della documentazione_________________________________________4
1.2 Prese di posizione ______________________________________________________________4
1.3 Focus tematici _________________________________________________________________5
2. Le sfide per il welfare ____________________________________________________________________ 6
2.1 Il welfare da cui veniamo e verso cui vorremmo andare (Chiara Saraceno) ____________________6
2.2 Misurare il welfare ______________________________________________________________8
2.3 Sintesi Panel I: Misurare il welfare _________________________________________________ 14
3. Il reddito minimo d’inserimento “made in Alto Adige”: Il punto della situazione e
confronto interregionale ___________________________________________________________________ 15
3.1 Reddito minimo di inserimento e assistenza economica sociale in Provincia di Bolzano
(Luca Critelli) ___________________________________________________________________ 15
3.2 Il sistema di tutela economica di base orientata al fabbisogno in Austria ____________________ 21
3.3 Il Reddito di Garanzia nella Provincia Autonoma di Trento ______________________________ 24
3.4 Rapporto Panel II: Strutturare il welfare ____________________________________________ 29
4. Quanto vale il lavoro? ___________________________________________________________________ 33
4.1 Salari minimi in Germania ed Europa (Reinhard Bispinck)_______________________________ 33
4.2 Sintesi Panel II: Il salario minimo legale: una prospettiva per l’Italia e l’Alto Adige? ____________ 48
5. Quale ruolo dare al terzo settore per il welfare locale? _________________________________________ 51
5.1 Terzo Settore: sostegno al sistema di welfare altoatesino? (Carlo Borzaga) ___________________ 51
5.2 Sintesi Panel IV: “Terzo settore”: sostegno del welfare altoatesino _________________________ 52
6. Glossario ______________________________________________________________________________ 55
6.1 Protezione sociale di base / Protezione minima di base _________________________________ 55
6. Salario minimo legale ____________________________________________________________ 57
Filmato riassuntivo del convegno
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1. Introduzione
1.1 I motivi del convegno e della documentazione
La crisi economica che perdura ormai dal 2008 comporta nuove sfide per il welfare locale. Ciò vale (1) per il crescente
fabbisogno di sostegni economici e il gruppo di destinatari in continua evoluzione; vanno inoltre (2) individuati strumenti
più adeguati per un’attenta valutazione dell’efficacia delle misure proposte. (3) Lo sgravio dei bilanci pubblici e la
correzione della distribuzione del reddito vanno perseguiti più che mai anche a livello locale attraverso politiche salariali
efficaci e intersettoriali. A partire dal 2015 l’Italia sarà l’unico grande paese UE a non disporre di un salario minimo legale
generalizzato.
Il convegno dell’IPL | Istituto Promozione Lavoratori ha favorito il dialogo e un importante scambio di informazione
tra operatori ed esperti su una serie di tematiche.
Quali principi di protezione minima di base si stanno attualmente discutendo a livello europeo?
L’Alto Adige può fungere da esempio per altre regioni? In quali settori possiamo imparare noi dalle altre regioni?
I salari minimi legali e/o la protezione minima di base sono strumenti adeguati ed efficaci per correggere la
distribuzione del reddito?
Quali opportunità e rischi comporta l’introduzione di un salario minimo legale generalizzato?
Quali modelli di unificazione delle prestazioni sociali si sono dimostrati efficaci in Europa, in particolare nei paesi e
nelle regioni confinanti?
Quale ruolo deve svolgere il “Terzo settore” nel sistema sociale?
I risultati sono documentati nella presente pubblicazione. La documentazione non rispecchia lo svolgimento del
convegno, ma raccoglie le relazioni e gli interventi per tema. Il documento viene quindi completato con un glossario.
1.2 Prese di posizione
L’opinione delle persone sulle prestazioni sociali in Alto Adige
Alla ricerca della giusta retribuzione: L’opinione delle persone
Toni Serafini, Presidente IPL | Istituto Promozione Lavoratori
Martha Stocker, Assessora provinciale alla Salute, Sport, Politiche sociali e Lavoro
Stefan Perini, Direttore IPL | Istituto Promozione Lavoratori
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1.3 Focus tematici
Le sfide per il welfare
Il welfare da cui veniamo e verso cui vorremmo andare; Chiara Saraceno, Collegio Carlo Alberto, Torino
Misurare il welfare; Daniela Mesini, IRS, Milano
Sintesi Panel I: Misurare il welfare; Stefan Perini, Direttore IPL | Istituto Promozione Lavoratori
Il reddito minimo “made in Alto Adige”: Il punto della situazione e confronto interregionale
Reddito minimo di inserimento e assistenza economica sociale in Provincia di Bolzano; Luca Critelli,
Direttore Ripartizione Sociale della Provincia Autonoma di Bolzano, Bolzano
"Bedarfsorientierte Mindestsicherung" (sistema di tutela economica di base orientata al fabbisogno) in Austria;
Marion Preßlauer, “Bundesministerium für Arbeit, Soziales und Konsumentenschutz”, Vienna
Il Reddito di Garanzia nella Provincia Autonoma di Trento; Gianfranco Zoppi, Agenzia provinciale per
l'assistenza e previdenza integrativa della Provincia Autonoma di Trento, Trento
Rapporto Panel II: Strutturare il welfare; Karl Tragust, Presidente Agenzia per lo sviluppo sociale ed
economico, Bolzano
Quanto vale il lavoro?
Salari minimi in Germania ed Europa; Reinhard Bispinck, “Wirtschafts- und Sozialwissenschaftliches Institut
(WSI)“, Düsseldorf
Sintesi Panel II: Il salario minimo legale: una prospettiva per l’Italia e l’Alto Adige?; Werner Pramstrahler, IPL |
Istituto Promozione Lavoratori
Quale ruolo al terzo settore per il welfare locale?
Terzo Settore: sostegno al sistema di welfare altoatesino?; Carlo Borzaga, European Research Institute on
Cooperative and Social Enterprises (Euricse), Trento
Sintesi Panel IV: “Terzo settore”: sostegno del welfare altoatesino; Josef Untermarzoner, IPL | Istituto
Promozione Lavoratori
Filmato riassuntivo del convegno
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2. Le sfide per il welfare
2.1 Il welfare da cui veniamo e verso cui vorremmo andare
Chiara Saraceno, Collegio Carlo Alberto, Torino
Quello italiano non è mai stato un welfare universalistico. Se guardiamo, infatti, i diversi settori del welfare allargato, solo
sanità e scuola hanno avuto un impianto universalistico, anche se non sempre e non del tutto. Sicuramente universalistico
era l’impianto originario del sistema sanitario nazionale. Lo è rimasto ancora in larga misura, anche se le differenze di
qualità dei servizi a livello locale, ancora più di quelle organizzative, unite alla gestione delle liste di attesa, hanno
consolidato disuguaglianze sia territoriali che di censo. Quanto alla scuola, è vero che quella di base è universalistica per
quanto riguarda l’accesso. Ma nei modelli organizzativi, nei criteri di distribuzione delle risorse, nei sistemi premianti per
gli insegnanti e così via, non si è mai davvero posta la questione di essere uno strumento di pari opportunità per le
successive nuove generazioni e di riequilibrio delle disparità sociali, per quanto non da sola. Non che siano mancate le
riflessioni e le esperienze, alcune delle quali tradotte anche in leggi dello Stato – si pensi all’integrazione nella scuola di
tutti dei bambini con handicap. Ma non sono riuscite a far passare in modo sistematico l’idea che, dove il bisogno, lo
svantaggio è maggiore, occorre mettere più risorse, non solo finanziarie, ma di intelligenza e di capacità di innovazione.
Al di là delle iniziative di singoli e piccoli gruppi, spesso anche eroiche, le disuguaglianze sono per lo più rimaste un dato
di contesto, più che l’oggetto del lavoro della scuola (salvo “compensarle” in modo deviato ed ex post, con promozioni
“generose”, quando non strumentali a liberarsi in fretta degli scolari difficili). Proprio per questa mancanza di messa a
fuoco di che cosa costituisca davvero l’universalismo, ha reso la nostra scuola, come macchina complessiva, non come
singoli, particolarmente impreparata ad accogliere e integrare i bambini migranti, nonostante l’esistenza di saperi ed
esperienze che potrebbero essere messe a frutto. L’idea di universalismo adottata in Italia – che si ferma alle pari
opportunità di accesso – cancella e nasconde la differenza dei punti di partenza, a favore di chi si trova in una posizione
sociale migliore.
Questa idea incompleta di universalismo anche nelle istituzioni “universali” si accompagna al forte categorialismo della
maggior parte delle misure di welfare. Il nostro Paese ha uno dei welfare più categoriali e frammentati nel mondo
sviluppato democratico. Da un lato offre protezioni e risorse diverse – si pensi al variegato sistema di protezione dalla
disoccupazione e al sistema pensionistico - non a seconda del bisogno, ma a seconda della categoria a cui si appartiene.
Dall’altro lato, specie per quanto riguarda i servizi, ma in parte anche i trasferimenti monetari, conta non tanto la
cittadinanza o residenza sul territorio nazionale, quanto la residenza locale. Al categorialismo che differenzia e frammenta
le protezioni e i diritti si somma, così, il territorialismo. Ben prima della riforma del titolo quinto della Costituzione che
ha introdotto il federalismo nel nostro ordinamento, senza prima aver definito la base comune dei diritti dei cittadini, il
nostro è stato (e continua ad essere) un paese dove vince il principio del “cuius regio eius religio”: a seconda di dove abiti
ti tocca non più la religione (anche se con le scuole paritarie confessionali può succedere anche questo), ma un pacchetto
piuttosto che un altro di servizi e risorse.
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A fronte dell’aumentare dei rischi e dell’indebolimento dei sistemi di protezione c’è il rischio di sviluppare una sorta di
nostalgia di un welfare idealizzato che avremmo perduto, dimenticandoci che in Italia, anche negli anni di maggiore
sviluppo, il sistema di welfare è stato estremamente frammentato, categoriale, con molti buchi (si pensi all’inesistenza di
un sostegno al reddito per i poveri e alla scarsa diffusione dei servizi sociali non sanitari), con forti gradi di disuguaglianza
tra gruppi sociali e a livello territoriale. Un welfare dei “diritti acquisiti” (per chi apparteneva alle categorie giuste per
acquisirli), non un welfare dei diritti sociali di cittadinanza.
In sintesi, il welfare state italiano soffriva e soffre degli stessi limiti di tutti i welfare maturi in un mutato contesto
demografico, economico, sociale di relazioni internazionali (ciò che nel dibattito internazionale si discute come l’emergere
di “nuovi rischi sociali”, per lo più non contemplati negli assetti tradizionali di welfare), senza aver del tutto
garantito/sviluppato appieno un sistema di welfare “tradizionale”. Non sosteneva la conciliazione tra famiglia e lavoro,
ma non proteggeva neppure del tutto e in modo uniforme i disoccupati. Spendeva quasi tutto in pensioni, ma non
proteggeva dalla povertà una quota di pensionati (soprattutto pensionate), mentre creava grandi disparità tra pensionati
non giustificate da analoghe disparità contributive. Non aveva una misura di reddito minimo per i poveri, ma neppure
politiche del lavoro efficaci. E così via.
Per andare oltre la crisi non possiamo quindi guardare indietro. Dobbiamo partire dai ritardi, delle carenze e delle
ingiustizie del welfare da cui veniamo, usando la crisi come occasione di riorientamento del welfare. Purtroppo non è ciò
che sta avvenendo non solo a livello di decisioni politiche, ma anche di discorsi di sinistra e dei sindacati. Si veda, per
esempio, l’attenzione focalizzata su esodati o cassintegrati, ignorando i molti che non hanno neppure lo status di esodati
o di cassintegrati, neppure in deroga (l’ultima categoria inventata da una fantasia istituzionale-sindacale pervicacemente
categoriale), ma sono lavoratori (lavoratrici) più o meno anziani che hanno perso il lavoro e non hanno diritto a nulla. O
le semplificazioni – spesso ancora categoriali - con cui si parla di “reddito di cittadinanza”, che si parli di reddito
universale, a prescindere dal reddito personale o famigliare, reddito universale per i soli poveri, reddito destinato a
particolari categorie (ad esempio studenti e/o disoccupati) e via elencando.
Istruttivo, da questo punto di vista, è stato il dibattito che ha seguito la proposta dell’allora Ministro Giovannini di
introdurre il “SIA – Sostegno di inclusione attiva”, ovvero una misura di reddito minimo per i poveri. Sono subito scattate
le obiezioni non solo di chi è contrario per principio, ma anche di chi (sindacati, membri di partiti di centro-sinistra)
ritiene che vi sia una graduatoria tra chi ha già acquisito da tempo un qualche tipo di protezione e chi no, ovvero tra
categorie di cittadini, sulla base dei “diritti acquisiti”. In questo modo, storicamente, è stata sicuramente ampliato il
numero delle categorie titolari di qualche protezione (l’ultima è quella dei cassintegrati in deroga), un meccanismo che
funzionava meglio quando i vincoli di bilancio erano meno stringenti. Ma si è costruito un sistema frammentario, poco
trasparente, utilizzabile in modo clientelare, pieno di buchi che a loro volta incentivano imbrogli e abusi. Lo scandalo
delle pensioni di invalidità ne è una conferma: se manca una misura di sostegno al reddito, chi è povero cercherà di
mimare le condizioni di una categoria a cui è riconosciuto un reddito minimo. Ed altri, anche non poveri, lo imiteranno,
visto che è possibile, e talvolta suggerito dagli stessi amministratori nella loro gestione clientelare. Questo produce anche
assenza di fiducia nel sistema e poca solidarietà. Per altro, anche nel campo della disabilità è avvenuto un fenomeno di
categorializzazione impropria, nella misura in cui le differenze nel livello di protezione (ad esempio di sostegno al reddito)
tra uno o l’altro tipo di disabilità non dipendono da una valutazione dal grado di disabilità ma dalla categoria di disabili
cui si appartiene, dalla sua forza contrattuale.
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L’Italia ha bisogno di più universalismo: di politiche sociali che, direbbe Amartya Sen, non definiscano diritti in base a
categorie, ma, da un lato, trattino in modo uguale tutti coloro che si trovano nelle stesse condizioni (ad esempio chi perde
il lavoro, o è povero, o è anziano e ha pagato contributi simili ad altri anziani), dall’altro compensino gli “handicap”
individuali e sociali che rendono gli individui disuguali tra loro ai blocchi di partenza e nel corso della vita.
Per questo, a mio parere, oggi la questione cruciale non è tanto chiedere più risorse per il sociale, bensì chiedere maggiore
equità nell’impegno delle risorse e nelle decisioni di spesa, non solo nel sociale, ma in generale. In altri termini, non si
tratta di ampliare la torta di quanto è spendibile (anche se si può lavorare su un sistema di imposizione fiscale più
efficiente), ma di valutare, dal punto di vista della equità e dell’efficacia, come quella torta è divisa. Aver deciso di togliere
l’Imu a chi poteva pagarla, certamente non va nella direzione di una spesa o di una fiscalità più efficiente; così come è
vero che l’Italia non è stata in grado di spendere bene le risorse provenienti dall’Europa, al punto che, non solo spesso
ha speso male e in modo improduttivo, ma non è neppure riuscita a spendere in tempo utile quanto le era stato assegnato.
Quando si parla di risorse bisogna parlare, quindi, non solo della scarsità e dei tagli che sono stati fatti, ma
anche delle cattive spese, degli sprechi e delle iniquità.
Intervista a Chiara Saraceno
2.2 Misurare il welfare
Daniela Mesini, IRS Milano
Nel corso dell’ultimo decennio, anche sulla spinta della legge 328/00, lo sviluppo dei sistemi informativi in ambito sociale
ha segnato una notevole accelerazione in tutto il territorio nazionale. Tuttavia, il trasferimento di competenze in materia
di politiche sociali operato dalla riforma del Titolo V della Costituzione (legge cost. 3/2001) ha di fatto un po’ frenato
questa spinta verso un sistema nazionale unitario e coordinato, contribuendo al fiorire di flussi informativi a vari livelli
istituzionali, che spesso si intersecano e parzialmente si sovrappongono a volte in maniera poco sinergica. Se si escludono
il Nomenclatore dei servizi e degli interventi sociali, il SINBA (Sistema Informativo Nazionale Bambini ed Adolescenti),
il SINA (SISS per le Non Autosufficienze) e il più recente Casellario dell’Assistenza, in fase di istituzione presso l’INPS,
il panorama dei sistemi informativi risulta alquanto eterogeneo e frastagliato.
A rilevazioni ed indagini compartimentali e tematiche (sui bisogni e sul sistema di offerta di interventi), si assommano
flussi sulla spesa, sistemi gestionali territoriali (sulle risorse umane ed organizzative) e cartelle sociali informatizzate, quali
strumenti di lavoro-monitoraggio del servizio sociale professionale. Ma flussi differenti hanno generalmente differenti
titolarità e periodicità, oltre che diversi obiettivi conoscitivi e modalità di restituzione delle informazioni; tutto ciò spesso
a scapito di una regia unitaria che talvolta comporta onerose duplicazioni, settorialità delle rilevazioni e trattamenti non
omogenei dei dati. Per costruire indicatori utili e rispondenti a specifici bisogni conoscitivi è necessario disporre di
informazioni omogenee dal punto di vista delle definizioni e della loro classificazione, delle metodologie di rilevazione e
di elaborazione.
Due dovrebbero essere le parole d’ordine per una buona misurazione del sistema di welfare: l’interoperabilità dei sistemi
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informativi, cioè la loro capacità di dialogare e di scambiare informazioni, e la confrontabilità, sia nel tempo che nello
spazio, dei dati prodotti.
Solo in questo modo la misurazione può consentire di generare conoscenza, utile a valutare, programmare e governare
con maggiore equità le politiche e gli interventi.
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2.3 Sintesi Panel I: Misurare il welfare
Stefan Perini, Direttore IPL | Istituto Promozione Lavoratori, Bolzano
Un’efficace redistribuzione presuppone la rilevazione completa delle prestazioni sociali e un’elevata qualità del dato. Lo
scopo del panel I è stato quello di valutare come andrebbe costruito un monitoraggio delle prestazioni sociali e da dove
si dovrebbe partire.
Il quadro normativo: nella legge statale 328/2000, Art.21 è radicato il principio che la pubblica amministrazione aspira a
costruire un sistema informativo unitario dei contributi sociali. Tale principio è uscito indebolito in seguito alla riforma
costituzionale del 2001, che ha previsto il trasferimento di una serie di competenze alle regioni. Di seguito i vari sistemi
informativi si sono sviluppati separatamente, spesso a livello regionale, il che ha intralciato l’integrazione ai sistemi
nazionali. Con la legge n. 78/2010 è stato previsto su scala nazionale il “Casellario dell’assistenza”. Questo dovrebbe
costruire in futuro l’anagrafe generale delle posizioni assistenziali e delle relative prestazioni. Lo scopo sarebbe riuscire
ad costruire su questa base anche studi finalizzati a valutare la bontà della spesa pubblica.
Le fonti dati inerenti il sistema del welfare sono molteplici anche in Alto Adige. Da una parte c`è la produzione statistica
ufficiale, rappresentati da ISTAT e ASTAT oppure anche altri istituti di ricerca sociale. Inoltre l’Alto Adige possiede,
anche per via del suo statuto di autonomia e delle relative competenze trasferite, una molteplicità di dati amministrativi.
I principali produttori di dati amministrativi sono ASSE (Agenzia per lo Sviluppo Sociale ed Economico) e la ripartizione
politiche sociali (SozInfo, SozInfoCase, Durp …). Ma esiste anche in altri enti della pubblica amministrazione una grande
quantità di dati in materia di edilizia (edilizia abitativa, Ipes…), sanità (aziende sanitarie), lavoro (servizio lavoro, ufficio
osservazione mercato del lavoro), scuola (intendenza scolastica tedesca e italiana).
Anche in Alto Adige la sfida del momento è l’interconnessione dei sistemi informatici. Il punto di arrivo deve essere un
sistema di tutte le prestazioni sociali erogate ai singoli individui piuttosto che alle famiglie altoatesine. Facendo tesoro
dell’esperienza Durp nell’ambito sociale, questa integrazione dovrebbe essere a poco a poco estesa sugli altri ambiti.
Inoltre vi è l’esigenza di orientarsi verso una regia unica, collocata all’interno della pubblica amministrazione stessa.
L’archivio unico delle prestazioni sociali è la premessa per poter affrontare una discussione seria inerente un sistema di
prestazioni sociali ben mirato.
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3. Il reddito minimo d’inserimento “made in Alto Adige”: Il punto
della situazione e confronto interregionale
3.1 Reddito minimo di inserimento e assistenza economica sociale in Provincia di
Bolzano
Luca Critelli, Direttore Ripartizione Sociale della Provincia Autonoma di Bolzano, Bolzano
Il sistema di assistenza economica sociale della Provincia autonoma di Bolzano è stato introdotto con legge provinciale
nel 1973 e nel corso dei decenni si è sviluppato da un sistema di sostegno economico su base comunale a sistema
strutturale di contrasto alla povertà uniforme a livello provinciale. Attualmente gli interventi vengono gestiti dai Distretti
sociali delle otto Comunità comprensoriali (associazioni di comuni) in cui è articolato il territorio, sulla base della relativa
disciplina provinciale (Decreto del Presidente della Provincia 30/2000). I Distretti sociali sono anche il servizio presso il
quale sono collocati gli interventi di natura sociopedagogica dei servizi sociali, garantendo in tale modo la necessaria
integrazione tra i due ambiti di intervento.
Il carattere universalistico del sistema altoatesino é forse il tratto che maggiormente lo contraddistingue dalle esperienze
di altre regioni italiane. Pur non trattandosi di un diritto soggettivo perfetto, non vi sono limitazioni date dalla disponibilità
finanziaria ne altre limitazioni di tipo quantitativo all'intervento, se non quelle definite dai criteri di accesso previsti. In
questo senso il sistema è molto vicino agli schemi di “Grundsicherung/Mindestsicherung” presenti in Germania, Austria
e altri stati europei. In Italia, a parte isolate eccezioni, gli interventi – dove presenti - hanno spesso visto un
contingentamento di tipo quantitativo, una limitazione temporale degli stessi o una previsione degli interventi molto
disomogenea a livello territoriale.
L‘assistenza economica sociale è „l‘ultimo gradino” del sistema di assistenza sociale. Prima dell‘intervento dell'assistenza
economica sociale devono essere utilizzate le risorse economiche disponibili del nucleo familiare (reddito e patrimonio
di tutti i componenti) e tutte le altre prestazioni di Stato, Regione, Provincia e Comune a cui la famiglia ha diritto. Tali
prestazioni vengono considerate come reddito al fine della determinazione del diritto all'intervento di assistenza
economica e della sua entità.
La finalità del sistema è un sostegno finanziario temporaneo - pur senza limite di durata prestabilito - con
accompagnamento sociale. L‘obiettivo è la riconquista dell‘autonomia economica tramite il lavoro, la riqualificazione
professionale o altre attività, nei casi in cui questo sia possibile. A tal fine è fatto obbligo a tutti i componenti adulti del
nucleo familiare di dimostrare gli sforzi intrapresi nella ricerca di un lavoro. In caso di mancata documentazione dei
tentativi intrapresi, ha luogo una graduale riduzione della prestazione erogata fino al suo eventuale azzeramento,
garantendo però in ogni caso una determinata quota per i componenti minorenni del nucleo. In questo senso l'intervento
previsto dalla Provincia di Bolzano è sì di tipo universalistico, ma non un reddito di cittadinanza di natura incondizionata
(“bedingungsloses Grundeinkommen”).
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Se si confronta il sistema altoatesino con gli schemi di tutela economica di base presenti in Austria, Germania, Trentino
e in molti altri stati europei, si riscontra che gli aspetti comuni sono molti più delle differenze. Esistono naturalmente
differenze in merito ad importi, tempi di erogazione, regole per la condizionalità della prestazione e procedure di
erogazione, ma l’impianto di fondo risulta ovunque molto simile: una integrazione della disponibilità economica delle
famiglie condizionata ad obblighi di attivazione sul mercato del lavoro e riqualificazione personale.
Il sistema di assistenza economica della Provincia di Bolzano comprende varie prestazioni. Le due più rilevanti sono
sicuramente:
Reddito minimo di inserimento, che ha lo scopo di garantire alle persone impossibilitate per cause psichiche,
fisiche e sociali a provvedere al mantenimento proprio e del proprio nucleo familiare il soddisfacimento dei
bisogni fondamentali di vita, relativi all’alimentazione, abbigliamento e igiene della persona. Si tratta di un
contributo integrativo che viene concesso per portare il reddito del nucleo familiare richiedente ad un livello
prestabilito (“fabbisogno”), che varia in funzione del numero dei componenti del nucleo. Tale “fabbisogno” è
al momento fissato, a titolo esemplificativo, in 600 € per 1 persona, 785 € per 2 persone e 1.020 € per 3 persone.
Contributo per locazione e spese accessorie, che ha la finalità di consentire alle persone e famiglie al di sotto di
una determinata situazione reddituale di far fronte al pagamento delle spese di affitto e accessorie dell'alloggio
abitato dal nucleo familiare. Dal 2013 in questa prestazione è confluito il sostegno garantito dall’Istituto per
l’edilizia sociale IPES tramite il cd. “sussidio casa”, prestazione avente caratteristiche piuttosto simili. In
presenza delle previste condizioni la prestazione è cumulabile con il reddito minimo. La condizione economica
di esclusione da tale prestazione è pari a circa il doppio del reddito minimo di inserimento, e va quindi a
sostenere anche fasce di persone che non si trovano in una situazione di deprivazione economica marcata.
Sono attualmente circa 4.600 i nuclei familiari beneficiari della prestazione Reddito minimo, pari a circa il 2% della
popolazione altoatesina e per una spesa annua di circa 10.800.000€. Complessivamente il volume di spesa degli interventi
di assistenza economica sociale è di circa 35.000.000€, dato principalmente dalla spesa per il Reddito minimo e il
Contributo per locazione.
I punti di forza e le debolezze dell’attuale sistema altoatesino possono essere così riassunti:
Punti di forza:
si tratta di una misura strutturale e uniforme a livello provinciale, non di un intervento „una tantum“;
pur non trattandosi di un diritto soggettivo perfetto, non vi sono limitazioni date dalla disponibilità finanziaria
o contingentamenti di altro tipo; le somme necessarie all'erogazione delle prestazioni vengono considerate come
„spesa obbligatoria“ dalla Provincia;
l'erogazione ha luogo da parte di Distretti sociali capillarmente diffusi sul territorio, con considerevoli vantaggi
in termini di vicinanza all‘utente, conoscenza dell‘utente, possibilità di accompagnamento e controllo sulla
veridicità delle informazioni rese;
gli interventi dell'assistenza economica sociale sono una prestazione „residuale“: devono essere prima utilizzate
le risorse proprie della famiglia e tutte le altre (numerose) prestazioni di sostegno pubblico previste;
gli interventi sono commisurati a quello che é l'effettivo fabbisogno della famiglia;
la Provincia di Bolzano è stata per decenni caratterizzata da un tasso di disoccupazione estremamente
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contenuto: chi „cade“ nel sistema di assistenza economica per fattori contingenti ha buone possibilità di uscirne
in tempi brevi; se vi è una permanenza di durata più lunga, é perché vi sono di norma ulteriori fattori personali
che rendono difficile l'ingresso o il reinserimento nel mondo del lavoro. Va però detto, che con la crisi
economica anche in Alto Adige si riscontrano crescenti difficoltà di reinserimento sul mercato del lavoro anche
per fasce che prima avevano minori difficoltà;
vi sarebbero con ogni probabilità elevati „costi sociali“ in assenza della prestazione di sostegno.
Come criticità del sistema vanno invece citati i seguenti punti:
vi è una presenza relativamente significativa di assistiti „di lungo corso“, in particolare in alcuni gruppi specifici:
disagio psichico, dipendenze, malattie croniche, lavoratori con bassa possibilità di reinserimento lavorativo. In
molti di questi casi la prestazione rischia di diventare un „reddito di ultima istanza“ incondizionato, senza reale
possibilità di reinserimento sociale;
rischio di disincentivazione della ricerca di lavoro per via delle prestazioni relativamente „generose“, con
conseguente pericolo di creare o rafforzare una mentalità di tipo assistenzialistico in alcuni utenti;
si presume una significativa presenza di persone che avrebbero i requisiti per accedere agli interventi di sostegno,
ma che per non conoscenza di tale possibilità o per altre ragioni personali decidono di non accedervi;
frequenti critiche da parte della popolazione ed anche da parte di alcuni operatori verso casi di „sfruttamento“
del sistema; anche se contenuti in termini numerici, si tratta nondimeno di casi che incidono negativamente
sull'immagine del sistema assistenziale.
Al momento attuale, sotto il nome di “Bedarfsgerechte Mindestsicherung”, è in corso una analisi sulle possibilità di
miglioramento e razionalizzazione dell’attuale sistema di sostegni pubblici in situazioni di fabbisogno economico legate
a disoccupazione, incapacità lavorativa e reddito insufficiente.
Il focus non è tanto su una rivisitazione della prestazione di Reddito minimo di inserimento, ritenuta tuttora valida nel
suo impianto fondamentale, quanto al fatto che nel corso dei decenni sono andate accumulandosi una pluralità di
prestazioni di sostegno da parte di Stato, Regione e Provincia, nate spesso con finalità simili e in modo non coordinato
tra di loro.
Questa stratificazione ha portato ad un quadro estremamente complesso di diverse prestazioni che risulta spesso di
difficile lettura anche per gli addetti ai lavori e che per gli utenti e gli enti gestori comporta un elevato onere
amministrativo.
L’obiettivo principale del progetto è razionalizzare il quadro delle prestazioni, agendo principalmente sull’integrazione di
prestazioni con finalità simili erogate dallo stesso ente o da enti diversi, nonché individuare ulteriori possibilità di
semplificazione nell’ambito della gestione delle prestazioni stesse.
Intervista a Luca Critelli
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3.2 Il sistema di tutela economica di base orientata al fabbisogno in Austria
Marion Preßlauer, Bundesministerium für Arbeit, Soziales und Konsumentenschutz, Vienna
1. Cos’è la "Bedarfsorientierte Mindestsicherung", in breve BMS, e quali sono le sue finalità?
La BMS è il risultato della riforma del sistema della “Sozialhilfe” (l’assistenza economica sociale) della quale ha tuttavia
mantenuto i principi di fondo (ricorso a mezzi propri di sostentamento e alla propria capacità lavorativa). È un pacchetto
di provvedimenti atto a raggiungere in particolare i seguenti obiettivi:
una maggiore armonizzazione dei principali ambiti di regolamentazione dell’ex sistema di assistenza economica
sociale in Austria (non riguarda l’assistenza sociale residenziale per persone non autosufficienti)
assicurazione malattia per tutti i beneficiari della BMS
legame più stretto tra i beneficiari delle prestazioni e il mercato del lavoro
La BMS non è un reddito di base incondizionato (vedi punto 4).
2. Chi può accedere alla prestazione?
La BMS è destinata a tutti coloro che si trovano in condizioni finanziarie precarie e
... non sono in grado di sopperire, con altri mezzi, alle spese giornaliere proprie e dei propri familiari
... il cui reddito è inferiore agli standard minimi previsti dalla BMS
... non dispongono di un patrimonio rilevante (vedi domanda 4)
La BMS è l’"ultima possibilità di sostegno sociale" in Austria cui ricorrere solo in via subordinata rispetto a tutti gli altri
sistemi di sussidio (ad es. eventuali diritti di previdenza sociale).
Solo il 20%-25% dei beneficiari della BMS vive esclusivamente di tali risorse. Tutti gli altri sono i cosiddetti "Aufstocker"
i quali dispongono di una qualche forma di reddito (ad es. indennità di disoccupazione, assegni per i figli, stipendio,
assegno di mantenimento), che però non è sufficiente ad assicurare loro il sostentamento.
3. Chi è competente in materia di BMS? Sulla base di quali disposizioni viene attuata?
Ai 9 Länder spetta la competenza esclusiva di legiferare in ordine alla BMS e darvi attuazione. Fino ad ora il Governo
federale non si è avvalso della competenza attribuitagli dalla Costituzione di legiferare in ordine ai principi generali in
materia di povertà (art. 12 B-VG).
In luogo di una legge sui principi generali, è stato stipulato un cosiddetto accordo art. 15a B-VG (una sorta di "contratto
quadro"), con il quale il Governo federale e i Länder si sono accordati in merito ai principi comuni e agli standard minimi.
La tutela di base viene tuttavia attuata sulla base di 9 leggi dei Länder non identiche ma comunque ispirate dalla medesima
logica (=leggi dei Länder sulla "Mindestsicherung").
Obblighi del Governo federale in base all’accordo:
Inclusione dei beneficiari della BMS privi di assicurazione malattia nel sistema obbligatorio di assicurazione
malattia
Incentivazione dell’integrazione nel mercato del lavoro dei beneficiari della BMS
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Obblighi dei “Länder” in base all’accordo:
Definizione di standard minimi nelle 9 leggi dei Länder (in particolare uniformazione delle soglie minime delle
prestazioni).
4. Verifica del fabbisogno: quali requisiti in particolare devono essere soddisfatti per beneficiare della
prestazione?
In linea di massima: diritto di soggiorno permanente
Mancanza di sufficienti mezzi propri di sostentamento (per i dettagli vedi punto 5 sull’ammontare della
prestazione) o di diritti prioritari a prestazioni che coprono il fabbisogno (ad es. quelle della previdenza sociale)
Ricorso al proprio reddito: ogni reddito deve essere conteggiato; eccezioni: ad es. assegni familiari, assegni di
cura
Ricorso al proprio patrimonio: in primo luogo si deve ricorrere al proprio patrimonio; eccezioni: ad es.
autoveicolo necessario per lavoro; franchigia sul patrimonio da valorizzare annualmente (attualmente circa €
4.070,-)
Disponibilità a svolgere un lavoro:
= condizione per beneficiare della prestazione; eccezioni: ad es. familiari che prestano assistenza, persone
che si devono occupare di bambini piccoli
sanzioni per mancata disponibilità a svolgere un lavoro (riduzione graduale fino al 50%, in taluni casi anche
oltre)
5. Prestazioni: a quanto ammonta la BMS? Quali spese vengono coperte?
L’ammontare della prestazione della "Bedarfsorientierte Mindestsicherung" (BMS) si basa sulle aliquote di riferimento
per l’integrazione al trattamento pensionistico minimo (=minimo vitale riconosciuto in Austria) e viene valorizzato
annualmente.
Per il 2014 l’importo è pari a circa 814 Euro per i beneficiari single e le famiglie monoparentali e circa 1.221 Euro per le
coppie (12 mensilità all’anno).
L’ammontare effettivo della prestazione della tutela di base per un nucleo familiare dipende sempre dalla composizione,
nonché dal reddito e dal patrimonio reali:
• gli standard minimi per i diversi nuclei familiari non spettano automaticamente in misura massima; si
deve tenere conto del reddito e del patrimonio di tutti gli appartenenti al nucleo familiare.
• L’importo della prestazione deve essere calcolato per singolo caso.
Copertura del fabbisogno:
Lo standard minimo ha lo scopo di coprire le spese di sostentamento e quelle per l’alloggio e tutelare in
caso di malattia, gravidanza e parto.
• Il 25% dello standard minimo è previsto per il finanziamento dei costi di alloggio.
• I costi eccedenti per la copertura di maggiori oneri connessi all’alloggio o altre necessità possono essere
integrati dai Länder. TUTTAVIA: non sussiste alcuna legittimazione a pretendere tale copertura!
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6. La riforma dell’assistenza economica sociale in Austria: quali sono le caratteristiche principali del
pacchetto di provvedimenti della “Bedarfsorientierte Mindestsicherung”?
Sono state introdotte soglie minime uniformi per le prestazioni (=“standard minimi”).
I beneficiari delle prestazioni privi di assicurazione malattia sono stati inclusi nell’assicurazione malattia
obbligatoria senza limiti di accesso alle prestazioni mediche (“E-Card”).
Ai beneficiari della tutela di base è stato accordato l’accesso a parità di diritti alle misure disposte dai servizi
austriaci di collocamento.
Per il gruppo target sono stati/saranno sviluppati “provvedimenti ancora più mirati”.
Sono stati potenziati gli incentivi a favore dello svolgimento di un’attività lavorativa
... con l’introduzione della franchigia per persone in reinserimento lavorativo (temporaneo sgravio fiscale su
parte del reddito aggiuntivo);
... con l’abolizione dell’obbligo di rimborso spese da parte degli ex beneficiari della prestazione che sono stati
reinseriti nel mondo lavorativo.
In caso di mancata disponibilità a svolgere un lavoro, la “Mindestsicherung” viene ridotta e in casi particolari abolita
del tutto (TUTTAVIA: prevenzione degli sfratti e tutela dei familiari)
Per facilitare il controllo della disponibilità a lavorare è stato introdotto per la prima volta uno scambio automatico
di dati tra servizi di collocamento ed enti competenti in ambito sociale.
Aumento delle prestazioni per famiglie monoparentali (particolarmente a rischio povertà)
Sono state introdotte regole chiare per la determinazione del patrimonio
Abolizione degli obblighi di rimborso spese per gli ex beneficiari (in caso di reddito proprio). Gli obblighi di rimborso
spese per i familiari sono stati fortemente ridotti.
7. Cifre, dati e fatti: statistica BMS 2012
Nel 2012, circa 221.000 persone hanno beneficiato di una prestazione nell’ambito della "Bedarfsorientierte
Mindestsicherung".
Suddivisione dei beneficiari in gruppi:
221.000 beneficiari:
27% bambini e ragazzi
40% donne
33% uomini
61% famiglie monocomponente
16% famiglie monoparentali
12% coppie
L’importo delle prestazioni in denaro erogate dai Länder nell’ambito della “Mindestsicherung” è stato nel 2012
pari a circa 540 milioni di Euro.
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Dall’introduzione della “Bedarfsorientierte Mindestsicherung” nel 2010
• circa 67.300 beneficiari della BMS hanno iniziato a lavorare (dato aggiornato a maggio 2014);
• circa 45.000 persone sono state incluse nell’assicurazione malattia obbligatoria.
Per maggiori informazioni consultare il sito Internet del Ministero austriaco degli affari sociali,
(http://www.sozialministerium.at/site/Soziales/Bedarfsorientierte_Mindestsicherung /), dove è anche possibile
scaricare un opuscolo informativo esaustivo sulla BMS (vedi ultimo documento PDF)
3.3 Il Reddito di Garanzia nella Provincia Autonoma di Trento
Gianfranco Zoppi, Provincia Autonoma di Trento, Trento
Ci sono tanti strumenti per contrastare la povertà: reddito di cittadinanza, reddito minimo, misure categoriali. Il reddito
di garanzia si inserisce nell’ambito del reddito minimo quindi, a differenza del reddito di cittadinanza, richiede la prova
dei mezzi e rispetto alle misure categoriali, non si rivolge ad una platea predefinita di soggetti, quali potrebbero essere,
invece, i lavoratori con un minimo di versamenti previdenziali piuttosto che gli anziani oltre una certa età o piuttosto i
soggetti portatori di disabilità.
Il reddito di garanzia si sostanzia in un’erogazione monetaria ad integrazione della condizione economica del nucleo
familiare, qualora sia ritenuta insufficiente a soddisfare i bisogni generali della vita. Il valore-soglia della condizione
economica per un nucleo composto da una persona al di sotto della quale si ritengono non soddisfatti i bisogni generali
della vita, è stata fissata in 6.500 Euro in termini di reddito equivalente annuo; tecnicamente quindi il reddito di garanzia
rappresenta l’integrazione monetaria al reddito familiare tale da consentire il raggiungimento della soglia di 6.500 Euro
all’anno per nuclei composti da una sola persona, per nuclei composti da più persone la soglia dei 6.500 Euro viene
aumentata sulla base della scala di equivalenza. Per intenderci questi sono i limiti del reddito di garanzia: per una persona
6.500 Euro all’anno che corrispondono a 542 Euro al mese, per due persone il limite è 10.205 Euro all’anno che
corrispondono a 850 Euro al mese e così via. È facile rendersi conto di quanto possa crescere il valore massimo del
reddito di garanzia per i nuclei familiari di 4-5 persone ed oltre. Come si può vedere sono limiti abbastanza elevati e ciò
ha causato più di motivo di critica da parte di una certa pubblica opinione verso il reddito di garanzia, tant’è che
ultimamente la Giunta provinciale ha posto un limite massimo di euro 950 mensili.
Il reddito di garanzia è una misura che ha, sia una funzione anticongiunturale, sia strutturale. È, infatti, una misura
anticongiunturale quando serve per integrare il reddito di quelle famiglie dove magari l’unico componente che lavorava
ha perso il posto di lavoro. È strutturale, invece, quando serve anche a integrare il reddito di chi strutturalmente appunto
non ce la fa ad arrivare a fine mese. Da queste due funzioni derivano due tipi di competenze nella gestione del reddito di
garanzia: c’è una gestione a livello centralizzato della Provincia autonoma di Trento che consiste in una mera erogazione
monetaria del reddito di garanzia ed è rivolta principalmente a quei nuclei familiari per i quali la difficoltà è solo una
difficoltà di natura economica transitoria. È il caso di quelli che hanno perso il lavoro oppure di quei nuclei familiari dove
un solo componente lavora. Pensiamo al caso delle ragazze madri dove, ad esempio, una donna con uno-due figli piccoli
è costretta a trovarsi un lavoro part-time perché deve organizzarsi il tempo anche per la cura dei figli: il reddito di garanzia
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diventa allora un’integrazione al suo reddito da lavoro part-time. Per queste tipologie di soggetti l’intervento si traduce,
come ho detto, in una mera erogazione monetaria ed è gestita direttamente dalla Provincia autonoma di Trento, mentre
laddove oltre a problemi economici si riscontrano anche problemi di natura sociale, il reddito di garanzia, accompagnato
da misure di integrazione/recupero sociale, è gestito dai Servizi Sociali territoriali. In Provincia di Trento i Servizi Sociali
non sono di competenza dall’Ente Provincia che corrisponderebbe all’Ente Regione, ma sono gestiti da quelle che noi
chiamiamo “Comunità di Valle”, cioè un ente intermedio tra la Provincia e i Comuni, che in Trentino sono numerosi e
con pochi abitanti.
I destinatari dell’intervento che gestisce la Provincia autonoma di Trento, tra i vari requisiti fondamentali richiesti devono
avere almeno due mesi di versamenti previdenziali contributivi derivanti da lavoro, nell’ultimo anno e mezzo. Ciò vuol
dire appunto che ci rivolgiamo prevalentemente a nuclei familiari che hanno perso il lavoro “di recente” oppure che non
hanno la possibilità con il lavoro che svolgono di soddisfare i bisogni primari.
Un altro requisito fondamentale è quello di avere una residenza continuativa di almeno tre anni nella Provincia di Trento;
questo requisito è stato necessario per evitare l’attrazione di soggetti da altre Regioni. Chiaramente una volta che tutta
l’Italia avrà uno strumento analogo a quello della Provincia di Trento, questo requisito sparirà.
Ovviamente il requisito fondamentale è quello economico: ed è rappresentato da un indicatore della condizione
economica ICEF inferiore a 0,13. In Provincia di Trento, grazie alla nostra autonomia abbiamo sviluppato un indicatore
della condizione economica familiare in parte simile all’ISEE ma con caratteristiche proprie. L’ICEF di Trento si
differenzia dall’ISEE nazionale soprattutto per la sua flessibilità o adattabilità al tipo di politica cui deve essere applicato.
A dire il vero non si dovrebbe parlare dell’indicatore ICEF trentino ma di più indicatori ICEF. Bisogna però ammettere
che questa flessibilità é giunta a un punto tale per cui nessuno sa più quale sia il suo ICEF: a seconda del tipo di politica
alla quale uno vuole accedere cambia anche lo strumento per misurare la condizione economica del suo nucleo familiare:
per cui non è raro vedersi riconoscere un beneficio per la propria condizione economica e al contempo rimanere esclusi
da un altro beneficio in quanto la condizione economica – misurata in termini diversi – è superiore al limite stabilito.
Per il reddito di garanzia abbiamo sviluppato un indicatore della condizione economica particolare rispetto all’ICEF
standard; il reddito di garanzia è dato da questa semplice formula: il limite che abbiamo visto prima meno il reddito
familiare equivalente e, ovviamente, siccome viene erogato in mensilità, diviso dodici, per un massimo di 950 euro al
mese.
Vediamo come i nostri uffici calcolano la condizione economica dei nuclei familiari: esaminiamo cioè le differenze tra
ICEF e ISEE. Innanzitutto la composizione del nucleo familiare: per ISEE la composizione è data dal nucleo anagrafico
e dai familiari fiscalmente a carico e non ci sono possibilità di adeguare il nucleo familiare; invece con l’ICEF non esiste
un nucleo familiare predefinito che può essere ampliato o ristretto a seconda del tipo di politica. Possiamo quindi avere
politiche, come quelle per la famiglia, dove il nucleo familiare è ( o meglio era fino all’anno scorso) quello ristretto,
composto da marito e moglie e figli minori; politiche rivolte agli anziani non autosufficienti per le quali si potrebbe
prevedere anche l’inclusione nel nucleo familiare da valutare di altri soggetti che non risiedono nel nucleo ma che sono
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chiamati a compartecipare alle spese di assistenza.
Redditi netti: un’altra grossa differenza tra l’ICEF Trentino e l’ISEE nazionale è che noi consideriamo i redditi netti, vale
a dire che noi togliamo dal reddito lordo le imposte che uno paga e le spese deducibili. Esempio tipico: famiglia
monoreddito e famiglia con due redditi. A parità di reddito e a parità di componenti il nucleo familiare, le due famiglie
per l’ISEE sarebbero uguali mentre la famiglia monoreddito, pagando più tasse rispetto alla famiglia con due fonti di
entrata, dispone di un reddito netto minore; spese deducibili: noi ammettiamo in deduzione il canone di locazione, anche
se entro certi limiti, come peraltro gli oneri del mutuo sulla casa, le spese mediche e così via. A differenza dell’ISEE
invece includiamo, nella valutazione della condizione economica, i redditi esenti e questo ha suscitato inizialmente nella
Provincia di Trento non poche proteste proteste. Ciò vuol dire che nella valutazione della condizione economica alla fine
inseriamo pensioni di invalidità, indennità di accompagnamento, rendite Inail ma anche i contributi e i sussidi pubblici
che uno riceve. La Provincia autonoma di Trento eroga molti tipi di sussidi analoghi al reddito di garanzia, penso ad
esempio all’assegno regionale al nucleo familiare, al contributo a sostegno del canone di locazione. Per questo motivo si
è reso necessario inserire nella valutazione complessiva della condizione economica del nucleo familiare anche i redditi
esenti per determinare quello che è effettivamente il reddito disponibile delle famiglie e non il reddito lordo.
Deduzioni in luogo di maggiorazioni della scala di equivalenza: Per esempio è previsto un aumento della scala di
equivalenza se ci sono nel nucleo componenti disabili; questo aumento della scala di equivalenza ha un effetto
proporzionale. Faccio un esempio concreto: un nucleo di tre persone di cui una invalida, ha un incremento della scala di
equivalenza di 0,5, cioè il divisore del reddito passa da 2,04 a 2,54, il che si traduce in un beneficio di circa il 10% nel
senso che a parità di reddito lordo il reddito familiare equivalente è inferiore del 10% rispetto a quello di una famiglia di
tre componenti senza persone invalide. Capite quindi che maggiore è il reddito maggiore è la differenza. In termini
monetari se il reddito lordo è di 100.000 Euro, il reddito netto equivalente è di circa 10.000 euro inferiore per la famiglia
con disabile rispetto a quella senza disabile (circa 39.000 rispetto a 49.000). Se però il reddito lordo è di 10.000 Euro, la
differenza fra le due famiglie è di soli 10.000 Euro. Paradossalmente, il coefficiente della scala di equivalenza agisce a
vantaggio dei nuclei familiari più abbienti. L’ICEF, in luogo dell’aumento della scala di equivalenza prevede per i disabili
deduzioni di importo prefissato. Ciò vuol dire che togliere 10.800 Euro dal reddito di una famiglia di 100 mila per tener
conto di un familiare non autosufficiente vuol dire riconoscere a questa famiglia un risparmio del 10%, se invece il reddito
della famiglia con il famialiare non autosufficiente è di soli 10 mila Euro, la deduzione porta ad azzerare il reddito. Sono
evidenti gli effetti in termini di equità che si ottengono con le deduzioni in somma fissa.
Valutazione del patrimonio: noi abbiamo una valutazione del patrimonio graduale. L’ISEE è secco al 20%; nell’ICEF
abbiamo delle franchigie e poi passiamo dal 5 al 20 e al 60% in base a scaglioni di patrimonio crescenti.
Infine, l’ICEF consente di avere determinati parametri variabili: a seconda delle politiche aumentano le franchigie, i limiti
massimi, i limiti minimi, permettendo al nostro ICEF di adattarsi a tutte le situazioni. Come ho già detto prima questa
possibilità di adattarsi ha determinato un fiorire di tanti indicatori, creando al cittadino Trentino qualche problema di
orientamento. Dicevo del canone di locazione, come potete vedere dalla diapositiva questi sono gli importi mensili da
moltiplicare per dodici che noi ammettiamo in deduzione dal reddito.
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La valutazione della condizione economica di chi richiede il reddito di garanzia si compone di due ulteriori strumenti,
per riuscire a cogliere in maniera ancora più puntuale l’effettiva situazione reddituale-patriomoniale di quanto riesca il
solo indicatore ICEF. Il primo strumento è l’attualizzazione dell’ICEF. L’ICEF, così come l’ISEE, prende in
considerazione i redditi dell’anno precedente: se oggi presento una domanda mi vengono chiesti i redditi del 2012. Ora,
questo criterio va bene se io chiedo un beneficio ordinario come potrebbe essere la tariffa agevolata per il trasporto
alunni. Se invece chiedo un intervento perché mi si venga data una risposta immediata ad un problema insorto di recente,
come la perdita del lavoro, non posso essere valutato con i redditi di un anno fa, magari prodotti con il lavoro che ho
perso. Quindi in determinate situazioni, che noi sintetizziamo con l’espressione “variazioni significative della situazione
lavorativa”, non si considerano i redditi dell’anno precedente ma i redditi degli ultimi due mesi: più precisamente la media
aritmetica delle buste paga percepite nei due mesi precedenti la domanda.
Il secondo strumento che accompagna la valutazione della condizione economica di chi richiede il reddito di garanzia, è
la valutazione della congruità dei redditi dichiarati in base ai consumi. Questo strumento di valutazione è stato introdotto
partendo da questa semplice considerazione suffragata da dati reali: chi viene a chiedere il reddito di garanzia sicuramente
sono persone che dichiarano poco o nulla come redditi e patrimonio. Ora, sia l’ICEF trentino sia l’ISEE nazionale hanno
senso come strumenti di misurazione della condizione economica se io mi trovo di fronte una platea di beneficiari che
presentano una variabilità della condizione economica entro uno spettro sufficientemente ampio. Se, invece, il mio
obiettivo è quello di contrastare la povertà avrò invece a che fare con una platea di famiglie dove tutte saranno, o meglio
si dichiareranno, mediamente povere, cioè poste al di sotto sia del livello della povertà relativa che di quella assoluta.
Quindi, in altri termini, si è reso necessario affiancare all’indicatore ICEF un ulteriore strumento che misurasse le
differenze effettive fra nuclei familiari tutti risultanti in difficoltà economica e che fornisse una prova di plausibilità a
dichiarazioni di redditi e patrimonio molto bassi, prova da effettuare al momento della domanda senza dover ricorrere
alle verifiche sulle autocertificazioni, che come sappiamo richiedono tempi lunghi non compatibili con i tempi di risposta
del reddito di garanzia.
La Provincia autonoma di Trento ha sviluppato la cosiddetta verifica della congruità dei redditi dichiarati in base ai
consumi. Più precisamene sono state individuate, in primo luogo, alcune voci di spesa relative a consumi ritenuti
necessari. La maggior parte di queste voci di spesa non sono valorizzate sulla base dei consumi effettivi ma sulla base di
valori medi statistici, opportunamente ridotti per tener conto del fatto che si tratta di famiglie in difficoltà economica. La
scelta di utilizzare dei valori parametrici è dipesa dalla esigenza di semplificare la domanda di reddito di garanzia, evitando
al cittadino di dover rendicontare la spesa. In sintesi in funzione del numero dei componenti la famiglia, individuiamo
quella che potrebbe essere la spesa per abbigliamento, alimentazione e la conduzione della casa; in base ai metri quadri
calcoliamo quale potrebbe essere il consumo medio per il riscaldamento della casa; in base al numero delle automobili
deduciamo, non il valore delle automobili, ma la spesa per il loro utilizzo, infine consideriamo quanto uno ha
effettivamente pagato di canone di locazione: il canone di locazione è contemporaneamente una spesa deducibile (dai
redditi dichiarati) ma anche una componente dei consumi. Quindi completato l’elenco delle voci di spesa connesse ai
consumi, noi mettiamo a confronto da un lato i redditi dichiarati dall’altro redditi presunti desunti dai consumi. Tenete
presente che tra il reddito dichiarato ci sono anche le provvidenze e i benefici che uno ha ricevuto dall’Ente Pubblico,
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quindi se uno ha perso il lavoro ma ha delle entrate dall’Ente Pubblico può giustificare un certo livello di consumi alla
luce di redditi fiscali bassi. In sintesi, se il reddito dichiarato è più basso del reddito desunto dai consumi presunti,
valutiamo la condizione economica in base ai consumi altrimenti valutiamo la condizione economica in base a quanto
uno ha dichiarato. Come evidenziato nella mia diapositiva, i cosiddetti “falsi positivi”, quelli che sulla base dei redditi
dichiarati risultavano avere un reddito inferiore ai consumi presunti, raggiungevano inizialmente nel primo anno di
applicazione del reddito di garanzia - parlo del 2010 – una percentuale del 25% dei casi. Adesso siamo ad un livello del
10% di casi di incongrui.
L’ultimo requisito del reddito di garanzia è l’impegno a dare la disponibilità immediata al lavoro: quindi tutti i componenti
il nucleo familiare di coloro che chiedono il reddito di garanzia - cioè non solo il richiedente ma anche tutti i componenti
del suo nucleo familiare - in età di lavoro e non esentati dal lavoro, hanno l’obbligo di iscriversi ai Centri per l’Impiego e
di accettare le offerte di lavoro o di formazione che i Centri per l’Impiego propongono loro. Chiaramente anche in
Trentino c’è la crisi economica per cui non c’è stata la possibilità di offrire tanti posti di lavoro; c’è stata invece un’azione
volta ad erogare servizi di formazione al lavoro e in particolare per le donne extracomunitarie è stato possibile fare
formazione linguistica e di integrazione.
Brevemente ricordo che il reddito di garanzia viene erogato per soli 4 mesi; poi si deve fare domanda di rinnovo proprio
perché non vogliamo che il reddito di garanzia diventi un incentivo a tempo indeterminato.
Un’altra cosa importante per la riuscita di questo strumento è stata la valutazione della sua efficacia. La Provincia
Autonoma di Trento ha incaricato un suo Istituto di ricerca di valutare gli effetti del reddito di garanzia. Tenete presente
che noi siamo partiti dal novembre 2009 e siamo tuttora in attività.
Sono state condotte due ricerche, valutando con il sistema contro-fattuale della “differenza nelle differenze”: in poche
parole si è preso un campione significativo di nuclei familiari destinatari dell’intervento e un campione altrettanto
significativo di famiglie che invece erano leggermente al di sopra di quel famoso limite dello 0,13 di ICEF per l’accesso.
Si è analizzata la condizione dei nuclei familiari di questi due campioni, prima dell’avvio dell’intervento e dopo un “tot”
di mesi che beneficiavamo del reddito di garanzia. Si sono potute rilevare alcune caratteristiche fondamentali: innanzitutto
i beneficiari della misura risultano essere una fascia ristretta di popolazione cioè, nella stragrande maggioranza dei casi
abbiamo “beccato” le famiglie bisognose e non famiglie di falsi positivi; in secondo luogo l’intervento si configura come
una misura strutturale di lotta alla povertà, idonea non solo per combattere episodi transitori ma anche duraturi. Per
quanto riguarda la valutazione degli effetti, interessante è stata la differenza tra le famiglie di italiani e le famiglie di
extracomunitari; per quanto riguarda le famiglie degli italiani, il reddito di garanzia è servito per lo più a sostenerle
nell’acquisto di beni durevoli, dove per beni durevoli si intendono gli elettrodomestici mentre, per le famiglie di
extracomunitari l’intervento è servito per lo più a sostenerli per i bisogni di alimentazione; questa differenza di
comportamento può essere spiegata perché le famiglie di italiani tendenzialmente erano quelle di anziani e senza minori
mentre le famiglie di extracomunitari erano famiglie giovani con molti figli minori. La ricerca ha evidenziato però che
l’erogazione di denaro che ha caratterizzato il reddito di garanzia, non è stata accompagnata in misura sufficiente – almeno
in relazione al numero di nuclei familiari coinvolti – da azioni complementari in termini di politiche attive del lavoro.
Tuttavia come dicevo, la crisi economica c’è anche in Trentino, anche se non nelle dimensioni che ho sentito qui in
Liguria. Ciò ha comportato anche da noi la difficoltà di reperire posti di lavoro ai beneficiari del reddito di garanzia.
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Proprio in questi giorni ci stiamo confrontando in Trentino con la prossima chiusura di una importante fabbrica di
elettrodomestici che metterà molte famiglie sulla strada e sarà molto difficile proporre ai licenziati un lavoro sostitutivo.
Il reddito di garanzia costa attorno ai 16 milioni di euro all’anno, tenete presente che il bilancio della Provincia è di 4
miliardi e mezzo quindi si parla di millesimi del bilancio della Provincia Autonoma di Trento, una cifra del tutto sostenibile
tant’è che viene rifinanziata ogni anno. Riguarda mediamente 3.500 nuclei familiari all’anno, su una popolazione di 520
mila abitanti, considerato che i nuclei familiari sono intorno ai 300.000 se consideriamo anche i nuclei mono-personali,
quindi vuol dire che siamo intorno all’uno e mezzo percento circa di famiglie coinvolte nell’intervento.
3.4 Rapporto Panel II: Strutturare il welfare
Karl Tragust, Presidente Agenzia per lo sviluppo sociale ed economico, Bolzano
L’obiettivo del presente panel era confrontare i vari sistemi di reddito minimo garantito esistenti in Alto Adige, Austria
e nella Provincia autonoma di Trento in vista di un maggiore scambio reciproco per affrontare le sfide comuni del futuro.
Dopo un’approfondita discussione i partecipanti al panel sono giunti ai seguenti risultati:
1. I sistemi delle prestazioni legate al reddito minimo garantito in Austria, Alto Adige e nella provincia
di Trento sono molto simili:
a. sono mirate al fabbisogno,
b. il nucleo sociale assistito è rappresentato dalla famiglia / dal nucleo famigliare,
c. la prestazione corrisponde alla differenza tra il fabbisogno e i mezzi propri disponibili,
d. i mezzi propri sono costituiti dal patrimonio e dal reddito,
e. si richiede la disponibilità a lavorare; in caso di inadempimento dell’obbligo al lavoro la prestazione
viene ridotta.
2. Peculiarità del sistema austriaco:
a. Il sistema si basa su un accordo tra lo stato federale e le regioni; è un sistema nazionale con alcune
peculiarità regionali.
b. Esiste uno stretto collegamento tra le autorità addette all’assistenza sociale e il servizio del mercato del
lavoro che facilita l’erogazione del reddito minimo garantito e il reinserimento attivo nel mondo lavoro;
è particolarmente importante in presenza di disoccupazione di lunga durata.
c. I contributi alle famiglie non sono considerati reddito.
3. Peculiarità della Provincia Autonoma di Trento:
a. Il reddito di garanzia è una prestazione standard gestita dall’Agenzia provinciale per l'assistenza e la
previdenza integrativa; i casi più complessi sono gestiti dai servizi sociali territoriali.
b. Ai fini della determinazione del reddito si utilizza un modello standard basato sui dati di consumo.
c. Se il destinatario della prestazione si rifiuta di lavorare, la prestazione dell’Agenzia viene sospesa per 12
mesi. È possibile presentare la richiesta ai servizi sociali territoriali.
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4. Problematiche presenti in tutti tre i sistemi:
a. Spesso le prestazioni non vengono richieste, soprattutto nelle zone rurali (meno invece in città). Se i
potenziali richiedenti sono conosciuti e l’ufficio competente agisce direttamente in loco, subentra una
“soglia di vergogna”.
b. La combinazione di universalità e adeguatezza della prestazione erogata comporta regolamentazioni,
procedure, metodi di valutazione, tracciabilità delle decisioni molto complessi, oltre al rischio dell’esercizio
di discrezionalità. Ciò indebolisce anche la situazione giuridica delle persone interessate.
c. Domanda: È possibile parlare di universalità se:
• l’adeguatezza dell’assistenza erogata esclude un gruppo consistente di persone dal godimento della
prestazione (tale problematica non riguarda piuttosto la questione dell’erogazione di natura
incondizionata?);
• le difficoltà di accesso (ad es. per i cittadini di paesi terzi o non del posto) escludono determinati
gruppi di persone dall’accesso alla prestazione?
d. Il reddito minimo garantito così strutturato è uno strumento troppo debole per combattere efficacemente
la povertà? Sì, se è l’unica prestazione prevista. Deve essere invece parte di un insieme di prestazioni e
misure per combattere la povertà in cui svolgere un ruolo importante.
e. Il reddito di cittadinanza di natura incondizionata potrebbe essere uno strumento per affrontare i punti
deboli del reddito minimo garantito mirato al bisogno, essendo universale, semplice, di molteplice
applicazione e in linea con l’obiettivo dello stato sociale di garantire i diritti sociali di base e tutelare la
dignità personale (sicurezza materiale, abitazione, istruzione, salute). Ciò soprattutto alla luce del calo
dell’attività lavorativa retribuita. Non è stato possibile approfondire nel corso della discussione la
realizzabilità concreta dell’approccio.
Qualora le varie prestazioni di reddito minimo garantite attualmente esistenti vengano accorpate in un’unica prestazione
unitaria, si pone la questione del grado di adeguatezza dell’assistenza ovv. dei requisiti previsti per l’erogazione;
attualmente tali criteri sono regolamentati in maniera differente a seconda della prestazione.
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4. Quanto vale il lavoro?
Alla ricerca della giusta retribuzione: L’opinione delle persone.
4.1 Salari minimi in Germania ed Europa
Reinhard Bispinck, Wirtschafts- und Sozialwissenschaftliches Institut (WSI), Düsseldorf
Dopo dieci anni di confronti politici, anche la Germania ha deciso di introdurre il salario minimo garantito.
La coalizione di governo nero-rossa formata da CDU/CSU e SPD ha presentato un disegno di legge che
prevede l’entrata in vigore il 1° gennaio 2015 di un salario minimo garantito universale di 8,50 € l’ora. In questo
modo la Germania si allinea ai 21 (su 28) Stati membri dell’UE nei quali è già in vigore il salario minimo di
legge. Attualmente il dibattito politico in Germania è concentrato sulle possibili eccezioni a tale
provvedimento. Il fatto che il disegno di legge presentato escluda dal salario minimo i giovani sotto i 18 anni
e i disoccupati di lungo corso ha suscitato molte critiche da parte dei sindacati ("La dignità non conosce
eccezioni!"), mentre sono proprio ulteriori eccezioni che l’economia richiede. È previsto un periodo di
transizione di due anni durante il quale rimarranno in vigore i contratti collettivi in essere che prevedono
compensi inferiori.
Fino ad oggi in Germania esistevano due modi per definire i salari minimi vincolanti: 1) Retribuzione e
contratti collettivi possono essere ritenuti generalmente vincolanti in base alla legge tedesca sulla
contrattazione collettiva, quando ciò è di interesse pubblico, i contratti collettivi raggiungono già un'efficacia
soggettiva del 50% e il comitato negoziale paritetico presso il Ministero federale del lavoro rilascia la propria
approvazione. Siffatte dichiarazioni di vincolatività universale sono attualmente in essere solo per pochi
settori. 2) I salari minimi possono inoltre essere definiti anche in base alla legge tedesca sul distacco dei
lavoratori (Arbeitnehmer-Entsendegesetz) e si applicano anche ai lavoratori stranieri distaccati in Germania.
Tali salari minimi sono attualmente in vigore in 14 settori nei quali sono impiegati circa 4 milioni di persone.
In Europa i regimi di minimi salariali si distinguono in universali e settoriali. I primi sono caratterizzati dalla
definizione di una soglia salariale minima fissata a livello nazionale. Nella maggior parte dei casi il minimo
salariale viene fissato per legge, in pochi Paesi per contratto collettivo o accordi tripartiti tra Stato, datore di
lavoro e sindacati.
Attualmente 21 dei 28 Stati membri dell’Unione Europea prevedono un regime minimo salariale universale
con un salario minimo generalmente valido a livello nazionale. In sette Stati dell'UE esistono invece
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esclusivamente sistemi di minimo salariale settoriale. Molti di questi paesi dispongono tuttavia di un'efficacia
soggettiva tanto alta da garantire un’elevata diffusione dei salari minimi settoriali.
Dando uno sguardo ai salari minimi nazionali dentro e fuori l’Europa, è possibile notare notevoli differenze.
All'interno dell'Unione Europea è possibile distinguere 3 gruppi in base al livello dei salari minimi calcolati in
Euro. Il primo gruppo, con salari minimi relativamente elevati, è composto fino ad ora da sette Stati
appartenenti all'Europa occidentale. Il minimo salariale più elevato lo troviamo in Lussemburgo con una tariffa
di 11,10 € all'ora. Al secondo posto la Francia con una tariffa oraria di 9,53 €, seguita dai Pesi Bassi con 9,11
€, dal Belgio con 9,10 € e dall'Irlanda con 8,65 €. Con un salario minimo pari a 7,43 € all'ora, la Gran Bretagna
rappresenta il fanalino di coda del gruppo guida in Europa. Tuttavia il salario minimo britannico calcolato in
Euro subisce una forte distorsione dovuta al cambio della sterlina che dal 2007 si è svalutata di un quarto
rispetto all'Euro. Senza tale svalutazione il minimo salariale in Gran Bretagna sarebbe pari a 9,22 € all'ora, un
valore elevato a livello europeo. Per quanto riguarda la Germania invece, il minimo salariale previsto di 8,50 €
all'ora la porterebbe a posizionarsi ai margini del gruppo guida dell'Europa occidentale.
L’importanza del salario minimo non è data unicamente dal suo valore assoluto, ma anche dalla sua posizione
all'interno dei vari assetti salariali nazionali. Tutti i minimi salariali di legge in Europa si trovano al di sotto
della cosiddetta soglia dei bassi salari. In molti Stati dell'UE i salari minimi garantiti non superano nemmeno
la soglia di povertà. Basandosi sull'Indice di Kaitz che misura l'incidenza del salario minimo su quello medio
(salario mediano) di un Paese, si nota una cospicua fascia di oscillazione che nella maggior parte dei paesi si
muove tra il 40 e il 50%. Un valore elevato è raggiunto dalla Francia con il 62%.
15 paesi dell'UE hanno alzato i propri minimi salariali garantiti con effetto dal 1° gennaio 2014 o poco prima.
Tuttavia, la crisi nell'Eurozona e le misure di risparmio che molti Governi nazionali continuano a perseguire
hanno nuovamente e fortemente rallentato l'adeguamento dei minimi salariali in Europa. Soltanto in alcuni
paesi dell'Europa orientale i salari minimi sono decisamente aumentati anche al netto dell'inflazione, nel
complesso esigua. Nella maggior parte degli Stati dell'Europa occidentale e meridionale gli aumenti hanno
invece, nel migliore dei casi, controbilanciato l'inflazione. Nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna il salario minimo
ha perso addirittura di valore in termini reali. Questo vale anche per i paesi dell'UE, tra cui Belgio, Spagna e
Irlanda, che hanno congelato i propri salari minimi.
Soprattutto l'UE spinge ancora per una politica restrittiva che in diversi Paesi prevede il congelamento dei
salari minimi o addirittura la loro riduzione. Considerato il pericolo di deflazione sempre più incombente in
tutta Europa, sarebbe invece necessario mettere in atto una politica che vada in senso contrario.
IPL • Istituto Promozione Lavoratori
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Fonti e letteratura
Banca dati WSI sui salari minimi: http://www.boeckler.de/mindestlohndatenbank
Th. Schulten, Mindestlohnregime in Europa… und was Deutschland von ihnen lernen kann, Studio FES-Studie, febbraio
2014 (http://www.library.fes.de/pdf-files/id-moe/10529.pdf)
R. Bispinck/archivio contratti collettivi WSI, WSI-Niedriglohnmonitoring 2013. Tarifliche Vergütungsgruppen im
Niedriglohnbereich 2013. Eine Untersuchung in 41 Wirtschaftszweigen, in: Elemente qualitativer Tarifpolitik, Nr. 77,
Düsseldorf, gennaio 2014 (http://www.boeckler.de/pdf/p_ta_elemente_77_2014.pdf)
Intervista a Reinhard Bispinck (in tedesco)
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4.2 Sintesi Panel III: Il salario minimo legale: una prospettiva per l’Italia e l’Alto
Adige?
Werner Pramstrahler, IPL | Istituto Promozione Lavoratori, Bolzano
Il panel ci ha permesso da un lato di approfondire alcuni aspetti della relazione di Reinhard Bispinck, e dall’altro di
discutere delle opportunità e dei rischi che comporterebbe l’introduzione di un salario minimo legale in Italia ovv. in Alto
Adige.
1. Il salario minimo legale è previsto in una serie di paesi europei ed extra europei caratterizzati da economie,
istituzioni e relazioni collettive di lavoro molto differenti tra loro. L’introduzione di un salario minimo legale
non è di per sé una soluzione generale contro i salari bassi e la destabilizzazione del sistema di contrattazione
collettiva. L’esempio della Germania ha evidenziato che la discussione sulla regolamentazione di legge pone il
tema dei salari bassi al centro del dibattito sociale. Analogamente a quanto accaduto in Germania, anche in Alto
Adige e in Italia il tema dei limiti minimi di salario dovrà essere oggetto di un’ampia discussione che a sua volta
potrebbe portare ad un innalzamento delle retribuzioni stabilite attraverso la contrattazione collettiva.
2. Non esiste un livello di salario minimo legale che possa essere scientificamente definito; esso è infatti sempre il
risultato dell’accettazione politica e include già di per sè precise indicazioni politiche. Per questo motivo
in Germania esiste a 25 anni dall’unità tedesca anche un salario minimo legale unitario che vale sia per le
regioni occidentali, sia per quelle orientali. Questo aspetto viene ampiamente discusso nel panel, poiché anche
in Italia esistono divergenze significative tra il nord, economicamente più stabile, e il sud più fragile in relazione
al costo della vita e allo sviluppo della produttività. Un salario minimo legale non esclude però una distinzione
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territoriale; importante è il messaggio politico implicito a tale differenziazione. Inoltre è possibile prevedere un
aumento graduale dei salari minimi di legge. Occorre anche definire chiaramente le categorie di persone
interessate dal salario minimo fissato per legge: i lavoratori dipendenti, ma anche gruppi di occupati affini (quali
i parasubordinati in Italia).
3. In Italia continuano ad esistere salari minimi contrattuali inferiori a 7 € / ora. Bisogna però capire quali
elementi rientrino nella retribuzione oraria. Si tratta di un aspetto che va tematizzato e analizzato
dettagliatamente, seppure sembri cristallizzarsi il criterio della retribuzione base oraria (quindi senza
maggiorazioni). Come includere allora nel calcolo le quote di tredicesima, il trattamento di fine rapporto o altri
elementi retributivi aggiuntivi? Proprio questo aspetto è stato oggetto di discussioni controverse in Germania.
In alcuni settori le associazioni tedesche dei datori di lavoro hanno cercato clausole di uscita, ad esempio
includendo indennità e contributi sociali.
4. Un altro parallelismo tra Italia e Germania si riscontra nella contrattazione collettiva di prestazioni sociali
aggiuntive, in particolare in settori in cui non ci sono quasi più margini monetari di contrattazione. Bisogna
fare però attenzione che non venga compromessa la funzione sindacale di concordare aumenti salariali
percepibili. Le organizzazioni sindacali ricadono così nel ruolo improprio di “legislatore secondario”.
5. Il salario minimo legale può essere una misura adeguata contro il dumping salariale nel settore
pubblico? Il settore delle pulizie e altri servizi alla persona sono anche in Alto Adige settori per i quali sono
state concordate retribuzioni particolarmente basse. Attraverso le gare pubbliche si fa pressione sulle imprese,
arrivando in alcuni casi anche al “dumping salariale”. In Germania sono state elaborate per questi settori
cosiddette “regolamentazioni per il rispetto della fedeltà contrattuale” (Tariftreueregelungen), diventate legge in una
serie di regioni; possono contenere anche particolari criteri sociali (ad esempio promozione delle donne, posti
di formazione, etc.). Anche a livello europeo si sta cercando di impedire il dumping salariale nelle gare.
6. Stabilizzazione del sistema di contrattazione collettiva attraverso salari minimi legali. In quasi tutti i
paesi europei la rilevanza di regolamentazioni contrattuali collettive sta diminuendo: o attraverso una riduzione
del grado di copertura (vedi esempio Germania) oppure attraverso la ridotta esigibilità degli accordi stabiliti nella
contrattazione collettiva (vedi Italia). Grazie a un limite salariale inferiore e ad altre misure quali la dichiarazione
di applicabilità generale, il sistema di contrattazione collettiva può essere stabilizzato. Così si riduce la possibilità
di concorrenza sleale mediante salari bassi (e cattive condizioni di lavoro). Le parti contrattuali possono
contrattare su aspetti centrali quali la promozione della produttività, l’organizzazione del lavoro, la qualità del
lavoro e la distribuzione degli utili. Soglie salariali minime possono contribuire a garantire che la politica salariale
rimanga una materia principalmente sindacale.
7. Un problema centrale per l’Italia è il carente sviluppo della produttività; una forte deregulation del mercato
del lavoro, l’inefficienza del sistema politico-decisionale, delle regole istituzionali e del sistema contrattuale
nonché a livello aziendale la mancata modernizzazione dell’organizzazione del lavoro ne sono considerati i
motivi principali.
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8. Europeizzazione della contrattaziona collettiva. Soprattutto a livello europeo si sta tentando di espletare
una forte concorrenza attraverso i salari (“svalutazione interna”). Nell’interesse dei lavoratori dipendenti le
organizzazioni sindacali devono sottrarsi a questo processo. Gli obiettivi a breve e medio termine sono uno
sfruttamento dei margini di contrattazione (produttività e inflazione) e il coordinamento a livello europeo. Quote
di salario in calo o stagnanti sono fatali dal punto di vista della politica economica in quanto portano ad un
permanente indebolimento della domanda. Allo stesso modo in cui la Commissione europea promuove degli
indici di politica economica per realizzare i propri obiettivi, i sindacati devono stabilire un sistema di indici sociali
e di politica salariale.
9. Che valore attribuiamo al lavoro? Non solo l’utilità sociale ed economica, ma anche l’opinione pubblica
suggeriscono la possibilità di avviare anche in Alto Adige e in Italia un processo di ampio dibattito sociale su
soglie salariali efficaci in tutti i settori. Una campagna europea potrebbe arricchire la discussione a livello locale.
Per approfondimenti
Banca dati salari minimi in Europa (WSI): http://www.boeckler.de/wsi-tarifarchiv_43610.htm
Rapporto WSI sui salari minimi in Europa: 2014:
http://www.boeckler.de/pdf/wsi_mindestlohnbericht_2014.pdf
Salario minimo legale: Gabbia o opportunità: http://www.ingenere.it/articoli/salario-minimo-gabbia-o-
opportunita
Regolamentazioni per il rispetto della fedeltà contrattuale:
http://www.boeckler.de/pdf/wsi_ta_tariftreue_uebersicht.pdf
Coordinamento europeo dei salari: Competitivo o solidale?
http://www.boeckler.de/pdf/v_2014_05_08_schulten.pdf
Antonioli, Davide / Pini, Paolo (2013). Contrattazione, dinamica salariale e produttività: ripensare gli obiettivi
ed i metodi. http://docente.unife.it/paolo.pini/contrattazione-produttivita-crescita-ripensare-gli-obiettivi-ed-i-
metodi/contrattazione-dinamica-salariale-e-produttivita-ripensare-gli-obiettivi-ed-i-metodi-di-davide-
antonioli-e-paolo-pini-gennaio-2013/at_download/file
Bellavista, Alessandro: Il salario minimo legale. http://www.bollettinoadapt.it/wp-
content/uploads/2014/07/dri_3_2014_bellavista.pdf
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5. Quale ruolo dare al terzo settore per il welfare locale?
5.1 Terzo Settore: sostegno al sistema di welfare altoatesino?
Carlo Borzaga, European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises Trento
In Italia e in Europa, l’interesse per le organizzazioni che compongono il terzo settore – associazioni di vario tipo,
fondazioni e cooperative in generale e soprattutto sociali - è andato via via crescendo negli ultimi vent’anni proprio a
seguito del loro sempre maggior coinvolgimento nella erogazione di servizi di welfare. Un coinvolgimento che ha
determinato oltre che una crescita del numero di organizzazioni e dei lavoratori (volontari e remunerati) in esse impegnati,
anche alcune profonde modificazioni degli assetti organizzativi e giuridici. Le forme più tradizionali, come le fondazioni
e le associazioni, si sono impegnate in modo crescente nella erogazione di servizi piuttosto che nella tutela dei diritti e
nel sostegno alla partecipazione dei cittadini. Sono inoltre nate nuove forme organizzative e giuridiche, ormai
generalmente definite “imprese sociali” con l’obiettivo esplicito e principale di offrire servizi di welfare. Inoltre si sono
venute progressivamente strutturando e diffondendo modalità nuove di collaborazione tra organizzazioni di terzo settore
e pubbliche amministrazioni che sempre più spesso si sono alleate per garantire i servizi richiesti dai cittadini, soprattutto
da quelli in condizioni di maggior bisogno.
In Italia lo sviluppo del terzo settore è stato particolarmente marcato. Da una situazione di quasi irrilevanza fino agli anni
’80 del secolo scorso il settore ha registrato una crescita che si può definire straordinaria. Dalle prime esperienze assai
poco strutturate e largamente basate sull’apporto di volontari il settore si è progressivamente rafforzato soprattutto grazie
alla creazione di nuove forme organizzative, come le organizzazioni di volontariato e soprattutto le cooperative sociali e
il loro successivo riconoscimento a partire dall’inizio degli anni ’90. Secondo i dati dei Censimenti del 2011 (di cui uno
specifico sul terzo settore) tra il 2001 e il 2011 le organizzazioni del terzo settore hanno registrato una crescita sia del
numero di organizzazioni che di occupati superiore a quella sia del settore privato che di quello pubblico. Nel 2011
operavano in Italia oltre 300 mila organizzazioni di terzo settore con quasi 5 milioni di volontari e quasi un milione di
addetti.
Sullo sviluppo del terzo settore e sul suo crescente impegno nella erogazione di servizi di welfare hanno inciso in modo
determinante le relazioni di collaborazione instaurate con le pubbliche amministrazioni, soprattutto locali, che ne hanno
incentivato e sostenuto finanziariamente l’attività prima attraverso l’erogazione di contributi e successivamente sulla base
di accordi contrattuali. Terzo settore e offerta di servizi di welfare sono quindi cresciuti allo stesso ritmo e insieme hanno
contribuito a creare anche in Italia un’offerta diffusa di servizi sociali.
Questa crescente importanza del terzo settore nelle politiche di welfare è stata ed è ancora oggetto di giudizi assai diversi.
Studiosi e politici si sono divisi tra chi sosteneva la collaborazione tra organizzazioni di terzo settore e pubbliche
amministrazioni e chi invece avrebbe preferito che i servizi sociali fossero direttamente gestiti da enti pubblici. Nel tempo
è prevalsa la strategia della collaborazione che ha poi trovato sostegno dall’introduzione in Costituzione del principio di
sussidiarietà orizzontale.
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Questa evoluzione, se ha avuto il merito di creare anche in Italia una rete diffusa di servizi di welfare, ha però anche reso
le organizzazioni di terzo settore molto dipendenti dai finanziamenti pubblici. La crisi economica scoppiata nel 2008 e
tuttora in corso e la necessità di ridurre la spesa pubblica stanno ora creando a queste organizzazioni una serie di difficoltà
e le stanno costringendo a ripensare le proprie attività e il modo in cui sono organizzate. La tendenza generale è quella di
una riduzione dei finanziamenti pubblici a cui le organizzazioni stanno cercando di far fronte attraverso interventi di
razionalizzazione e la ricerca di fonti di finanziamento alternative. E’ tuttavia reale il rischio che ciò determini anche una
riduzione dell’offerta di servizi, nonostante il continuo aumento dei bisogni.
L’Alto Adige è una delle realtà dove le organizzazioni di Terzo Settore sono più diffuse e da più tempo. E sono da sempre
sostenute da finanziamenti pubblici, anche a seguito di una cultura della sussidiarietà molto più antica e consolidata
rispetto al resto del paese. Diffusa è in particolare la presenza di associazioni e di cooperative sociali. Anche in Alto Adige
tuttavia sta emergendo la necessità di razionalizzare la spesa pubblica e ciò impone una nuova riflessione sia sul ruolo
effettivo e potenziale delle organizzazioni di terzo settore che operano in provincia, sia sulle forme di collaborazione con
l’amministrazione provinciale.
Le questioni su cui riflettere nel corso del seminario sono quindi le seguenti (anche se l’elenco non deve considerarsi
esaustivo):
quale è oggi in provincia il grado di copertura della domanda di servizi? Vi sono differenze territoriali? Ci sono
bisogni ancora privi di risposte e se si quali? In particolare sono soddisfacenti gli interventi volti a favorire
l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate?
Quale è la situazione delle organizzazioni di terzo settore dal punto di vista sia della capacità di erogare servizi,
dell’efficienza e della consistenza economica e patrimoniale (e quindi della capacità di garantire l’offerta nel
medio-lungo termine)?
Quale è lo stato delle modalità di collaborazione con le amministrazioni pubbliche, soprattutto con riferimento:
alle modalità contrattuali, all’adeguatezza dei finanziamenti alla gestione dei servizi e alla pianificazione e
gestione degli interventi?
Quali sono le condizioni di lavoro nel settore?
5.2 Sintesi Panel IV: “Terzo settore”: sostegno del welfare altoatesino
Josef Untermarzoner, IPL | Istituto Promozione Lavoratori, Bolzano
Ogni discussione sul sistema di welfare è incompleta se non include anche il terzo settore. Negli ultimi decenni il terzo
settore è diventato in Europa, e quindi anche in Alto Adige, un supporto importante del welfare. Dovrà quindi a sua
volta reagire al cambiamento del sistema e affrontare nuove sfide e compiti. Non sempre è ben chiaro cosa comprenda
il cosiddetto “terzo settore” (a volte detto anche “settore non profit”); esistono infatti varie definizioni. In generale si
intendono tutte le organizzazioni e istituzioni che operano aldilà (o, a seconda del punto di vista, tra) lo Stato e il mercato.
Tali istituzioni non fanno quindi parte né del settore pubblico (Stato) né del mondo delle imprese private dell’economia
(mercato); esse formano piuttosto una terza sfera a parte in aggiunta a Stato e mercato. Citiamo alcuni esempi di istituzioni
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del terzo settore: tutti i tipi di cooperative, le organizzazioni volontarie, le fondazioni, le associazioni e le federazioni. Il
terzo settore non va assolutamente confuso o comparato con il settore terziario (ovvero il settore dei servizi), dove
operano anche operatori pubblici e economici. Le istituzioni e le organizzazioni del terzo settore non hanno scopo di
lucro (gli utili vengono reinvestiti) e perseguono come obiettivo primario la promozione del bene comune (pubblica
utilità). In esse i cittadini si impegnano volontariamente oppure si raggruppano in forma volontaria; le organizzazioni del
terzo settore possono pertanto assumere varie forme giuridiche.
L’obiettivo del panel IV era discutere – alla luce delle 4 domande poste da Carlo Borzaga al termine della sua relazione –
delle attuali sfide e delle nuove funzioni del terzo settore, del suo ruolo di oggi e di domani e delle sue problematiche.
Come esperti sono intervenuti il prof. Carlo Borzaga e Alberto Stenico che hanno introdotto la tematica con due brevi
relazioni.
Dalle loro relazioni è emerso che la situazione del terzo settore in Alto Adige presenta delle peculiarità sotto due aspetti:
per prima cosa la situazione nazionale si è sviluppata diversamente da quella in altri paesi europei; secondo, l’Alto Adige
rappresenta un caso eccezionale anche all’interno dell’Italia. Già negli anni ottanta il sistema del welfare italiano era basato
più su categorie e trasferimenti finanziari; numerose altre prestazioni sociali in Italia sono state assunte o affidate già
molto presto al terzo settore (ad es. alle cooperative sociali), anche perché la mano pubblica non possedeva le competenze
necessarie per svolgere direttamente tali funzioni. Per questo motivo anche gli operatori privati attivi sul mercato italiano
non sono mai riusciti ad entrare così massicciamente nel settore delle prestazioni welfare come in altri paesi europei.
Grazie all’autonomia, in Alto Adige il settore ha seguito in parte uno sviluppo diverso rispetto al resto d’Italia. In provincia
di Bolzano il terzo settore non è sorto tanto in seguito al fallimento o all’incompetenza della mano pubblica. Rispetto ad
altre regioni italiane, in Alto Adige la mano pubblica continua ad essere molto presente nei servizi welfare assumendosi
direttamente molte funzioni. Oltre al settore pubblico molto sviluppato contribuiscono ovviamente anche le peculiarità
linguistiche e etniche dell’Alto Adige a creare una dinamica particolare nel terzo settore locale. In Alto Adige il terzo
settore è molto presente: la cittadinanza è fortemente legata alla organizzazioni del terzo settore, anche a causa della
cultura radicata del volontariato; ciò nonostante si riscontrano talvolta ancora dei punti deboli nell’organizzazione.
Anche le organizzazioni altoatesine del terzo settore dovranno comunque affrontare le sfide nazionali, soprattutto perché
dipendono da finanziamenti pubblici che diventano sempre più problematici: lo Stato si sta infatti ritirando da alcuni
settori del welfare effettuando tagli alle spese pubbliche. Si arriva così ad un vero paradosso: da un lato si potrebbe
pensare che in seguito al ritiro dello Stato da determinate funzioni ci sia più “lavoro” per il terzo settore, dall’altro però
molte organizzazioni dispongono di meno soldi a causa dei tagli e sono così impossibilitate ad affrontare le nuove sfide.
Spesso accade anche che gran parte delle prestazioni finora realizzate dal terzo settore continui ad essere utilizzata e
finanziata dallo Stato, ma che non ci sono risorse aggiuntive per le nuove sfide che nascono ad esempio dal cambiamento
demografico. È evidente che una delle principali sfide per il terzo settore sarà quella di cercare nuove forme di
cooperazione con la mano pubblica. Parallelamente si pone anche la necessità di cercare fonti di finanziamento alternative
e di razionalizzare e aumentare l’efficienza. Soprattutto queste ultime due operazioni comportano però anche dei rischi
che vanno assolutamente considerati. È sicuramente comprensibile se le organizzazioni del terzo settore si rifiutano di
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affrontare le sfide imprenditoriali attraverso razionalizzazioni e aumento dell’efficienza. Il principio della “concorrenza”
non appartiene allo spirito delle organizzazioni del terzo settore, nate soprattutto dalla necessità e dalla volontà di
cooperare per risolvere problemi della comunità. Ne consegue che la produttività in questo settore non può essere
semplicemente aumentata con le stesse strategie applicate in altri settori. Il pericolo è che le condizioni di lavoro per gli
occupati del terzo settore peggiorino a causa della maggiore concorrenza; bisogna quindi intervenire ora per impedire tali
tendenze. Fondamentalmente il problema sorge se la mano pubblica affida i suoi servizi al terzo settore solamente per
“risparmiare”, applicando quindi rispettivi criteri sia nella selezione e nelle gare che nella gestione corrente. Un rischio
specifico è rappresentato anche dalle organizzazioni di fuori provincia che a causa delle nostre retribuzioni elevate rispetto
al livello nazionale potrebbero scatenare un dumping salariale nel terzo settore. L’unica soluzione per evitare tale
fenomeno è garantire agli occupati del terzo settore un minimo salariale e ridurre il costo del lavoro a carico delle
organizzazioni del terzo settore.
Per il momento la situazione del terzo settore è ancora abbastanza buona: è l’unico settore dinamico ad essere cresciuto
negli ultimi anni e a creare ancora posti di lavoro, di cui gran parte a tempo indeterminato. È difficile stabilire la quota di
“precari” sugli occupati del terzo settore; la risposta varia a seconda di quali tipi di organizzazioni e di attività si
comprendano nel terzo settore; ci sono infatti tuttora alcune aree poco definite. Nei prossimi anni si dovrà sicuramente
monitorare attentamente il rischio di una crescente precarizzazione e trasformazione del terzo settore verso un settore
caratterizzato da bassi salari.
Nei prossimi anni le organizzazioni del terzo settore dovranno quindi affrontare queste e altre sfide; esistono però anche
delle opportunità da sfruttare. Alberto Stenico ha ipotizzato un maggiore impegno di istituzioni del terzo settore nel
campo del reinserimento nel mercato del lavoro di disoccupati o di persone che usufruiscono del reddito minimo di
inserimento. Le misure “di attivazione”, ad integrazione del reddito minimo garantito, potrebbero essere affidate in futuro
in misura maggiore al terzo settore (ovviamente in stretta collaborazione con la pubblica amministrazione), anche perché
il concetto dell’autoaiuto rientra nello spirito originario di molte organizzazioni del terzo settore.
Gli attori del terzo settore non possono quindi restare fermi allo stato attuale se vogliono continuare ad essere un
supporto per il welfare altoatesino (e in futuro dovranno comunque esserlo): le nuove sfide richiedono innovazioni
sostenibili nelle prestazioni, nei processi interni delle istituzioni e delle organizzazioni e nelle strutture organizzative stesse.
Un’esigenza centrale che è stata evidenziata dal panel è quella di rinnovare e rafforzare la cultura di rete all’interno del
terzo settore. Per contrastare una sempre maggiore frammentazione del settore che potrebbe avere effetti collaterali
pericolosi, le organizzazioni del terzo settore potrebbero anche in questo caso riprendere i principi della cooperazione e
dello scambio reciproco da cui sono nate e che sono una parte fondamentale della loro storia.
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6. Glossario
Josef Untermarzoner, IPL | Istituto Promozione Lavoratori
Reddito minimo garantito
Condizionato (adeguato al fabbisogno) Incondizionato
Reddito minimo di inserimento (Alto Adige)
Reddito di garanzia (Prov. Aut. di Trento)
“Bedarfsgerechte Mindestsicherung” (AT)
“Arbeitslosengeld II” - Hartz IV (DE)
Reddito di cittadinanza di natura incondizionata (o
universale)
Salario minimo
Salario minimo regolamentato per legge Salario minimo regolamentato dal contratto collettivo
Si stabilisce per legge un importo minimo (salario netto
orario) e ogni lavoratore/lavoratrice dipendente deve
ricevere almeno quell’importo come retribuzione oraria – in
genere senza calcolare eventuali indennità e maggiorazioni.
Retribuzioni più elevate per determinati comparti o gruppi di
lavoratori possono in ogni caso essere stabilite in aggiunta
ovv. mediante la contrattazione collettiva.
In alcuni paesi europei le retribuzioni sono stabilite per legge
previa consultazione delle parti contraenti.
Sindacati e associazioni dei datori di lavoro contrattano vari
salari minimi per le singole categorie. Problematicità: cosa
succede ai lavoratori (dipendenti) senza contratto collettivo
o con contratto collettivo scaduto?
6.1 Protezione sociale di base / Protezione minima di base
(“Mindestsicherung”)
Per “protezione sociale di base” o “protezione minima di base” si intende un insieme di prestazioni sociali di base che
spetta a ogni cittadino. Lo scopo di tali prestazioni è evitare la povertà assoluta dei destinatari, garantendo alle persone
in difficoltà un mantenimento adeguato e la possibilità di far fronte a esigenze fondamentali.
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La principale prestazione prevista per la protezione sociale di base in Alto Adige è sicuramente il “reddito minimo di
inserimento”; esistono inoltre altre prestazioni quali le pensioni sociali, la pensione di invalidità, le prestazioni regionali
in caso di disoccupazione e altri ammortizzatori sociali che rientrano nel sistema di protezione minima di base. In Alto
Adige si sta discutendo di accorpare tutte queste prestazioni in un’unica prestazione finalizzata alla protezione minima
di base.
In Alto Adige il “reddito minimo di inserimento” è una prestazione erogata in base al fabbisogno; ciò significa che i
richiedenti devono dimostrare il loro stato di bisogno per poter usufruire della prestazione. Prestazioni simili sono
previste anche in altri paesi. Citiamo alcuni esempi:
a) Protezione sociale di base adeguata al fabbisogno (reddito di cittadinanza di natura condizionata)
Terminologie usate: Reddito minimo garantito (RMG), Reddito minimo di inserimento (RMI), Reddito di inclusione sociale
(REIS), Sostegno per l’inclusione attiva (SIA)
Alto Adige: Reddito minimo di inserimento | „Soziales Mindesteinkommen“
“Le persone singole e tutte le famiglie hanno diritto al soddisfacimento dei bisogni fondamentali, come alimentazione,
vestiario, igiene e salute. Coloro che non dispongono di un reddito minimo possono fare domanda presso i servizi
dell'assistenza economica sociale dei distretti sociali per ottenere un sostegno anche economico.”
(Fonte: http://www.provincia.bz.it/politiche-sociali/prestazioni-contributi/reddito-minimo-
inserimento.asp)
Provincia Autonoma di Trento: Reddito di garanzia
“L’articolo 35, comma 2 della legge provinciale n.13 del 2007 (Politiche sociali in provincia di Trento) prevede
l’attivazione di interventi di sostegno economico volti al soddisfacimento di bisogni generali a favore sia di soggetti
che lavorano o sono comunque in grado di assumere o riassumere un ruolo lavorativo sia di soggetti non idonei ad
assumere un ruolo lavorativo.” (Fonte: http://www.apapi.provincia.tn.it/reddito_garanzia)
Austria: „Bedarfsorientierte Mindestsicherung (BMS)“
“Die Bedarfsorientierte Mindestsicherung ist eine Sozialleistung des österreichischen Staates, die von der
Bundesregierung zur Bekämpfung der Armut eingesetzt wird. Sie ersetzt die bisher in jedem Bundesland
unterschiedlich geregelte Sozialhilfe. Die Vereinbarungen zwischen dem Bund und den Bundesländern zur
Vereinheitlichung der Bedarfsorientierten Mindestsicherung werden in Bundes- und Landesgesetzen umgesetzt.”
(Fonte: http://www.ams.at/sfa/23618.html)
Germania: „Arbeitslosengeld II“ (detta anche: „Hartz IV“)
„Mit der Einführung des Zweiten Buch Sozialgesetzbuch SGB II ist ein Sozialleistungssystem geschaffen worden,
das bei Hilfebedürftigkeit Hilfe zur Selbsthilfe anbietet, auf die die Betroffenen einen Rechtsanspruch haben. […] Das
Arbeitslosengeld II umfasst Leistungen zur Sicherung des Lebensunterhalts in Form des maßgebenden
Regelbedarfs einschließlich der angemessenen Kosten für Unterkunft und Heizung.“
(Fonte: http://www.bmas.de/DE/Themen/Arbeitsmarkt/Grundsicherung/arbeitslosengeld-2.html)
b) Reddito di base incondizionato o reddito di cittadinanza universale
In tedesco: bedingungsloses Grundeinkommen
A differenza del reddito minimo di inserimento e alle altre prestazioni sociali citate, lo stato di fabbisogno
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non deve essere comprovato. Ogni cittadino ha fin dalla nascita diritto alla prestazione, indipendentemente
dalla sua situazione economica e senza obbligo di controprestazione. Esistono varie posizioni in merito e
diverse varianti; a parte alcuni isolati esempi o tentativi locali, il reddito di cittadinanza universale non è stato
ancora concretamente realizzato su un intero territorio nazionale.
6. Salario minimo legale
(„Gesetzlicher | nationaler Mindestlohn“)
Salario minimo orario stabilito per legge che deve essere corrisposto a lavoratori e lavoratrici: esistono vari approcci in
Europa (ad esempio solo per determinate categorie e branche professionali, fasce di età, etc.). Per un quadro della
situazione attuale vedasi il “Mindestlohnbericht des WSI”: http://www.boeckler.de/wsi-tarifarchiv_43610.htm
Il salario minimo orario può essere stabilito per legge, diventando così vincolante per tutti i lavoratori dipendenti,
oppure stabilito per ogni settore dalla contrattazione collettiva. In quest’ultimo caso sussiste però il rischio che vengano
esclusi dal salario minimo alcuni gruppi di lavoratori, ad esempio i lavoratori con contratti atipici o precari. Inoltre, in
alcuni paesi europei sta calando il grado di copertura della contrattazione collettiva. Seppure l’Italia vanti un grado di
copertura elevato, i cosiddetti contratti pirata, l’efficacia ridotta dei contratti collettivi e i ritardi nella stipulazione dei
contratti rappresentano comunque un grande problema.