Conflitti Globali 1

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Conflitti globali

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Conflitti globaliPubblicazione semestrale

Comitato scientifico:Roberto Bergalli (Universidad de Barcelona), Didier Bigo (Sciences Politiques, Paris), Bru-no Cartosio (Università di Bergamo), Nils Christie (Oslo University), Roberto Escobar (Uni-versità Statale di Milano), Carlo Galli (Università di Bologna), Giorgio Galli (Università Sta-tale di Milano), Vivienne Jabri (King’s College, London), Alain Joxe (École des Hautes Étu-des en Sciences Sociales, Paris), Giovanni Levi (Università di Venezia), Michael LeVine (U-niversity of California), Giacomo Marramao (Università degli Studi Roma Tre), IsidoroMortellaro (Università di Bari), Michel Peraldi (Lames-Cnrs-Mmsh, Aix-en-Provence),Iñaki Rivera Beiras (Universidad de Barcelona), Emilio Santoro (Università di Firenze), A-malia Signorelli (Università di Napoli), Verena Stolcke (Universidad Autonoma de Barcelo-na), Trutz von Trotha (Universität Siegen), Jussi Vähämäki (Tampere University), GianniVattimo (Università di Torino), Rob J. Walker (Keele University), Adelino Zanini (Univer-sità di Ancona), Danilo Zolo (Università di Firenze).

Comitato di redazione:Alessandro Dal Lago (coordinatore), Luca Burgazzoli, Mauro Casaccia, Roberto Ciccarelli,Filippo Del Lucchese, Massimiliano Guareschi, Maurizio Guerri, Luca Guzzetti, MarcelloManeri, Augusta Molinari, Salvatore Palidda, Gabriella Petti, Fabio Quassoli, FedericoRahola, Fulvio Vassallo Paleologo.

Direttore responsabile:Roberto Ciccarelli

Copertina e progetto grafico:Rosie Pianeta

Segreteria di redazione:Dipartimento di scienze antropologiche (Disa) Corso Podestà 2 – 16128 Genovatel. 010/20953732

Conflitti globali, n. 1, in attesa di registrazione presso il Tribunale di MilanoISBN: 88-88865-07-1

La pubblicazione di questa rivista è possibile grazie al contributo della Dg XII dell’Unione euro-pea (progetti di ricerca “European Liberty and Security” denominati “Elise” e “Challenge”).

Servizio Abbonati:tel. + fax: 02/58317306; [email protected]; www.shake.it

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© ShaKeViale Bligny 42, 20136 Milano, tel. + fax 02/58317306, www.shake.it, e-mail: [email protected]

Stampato presso Bianca e Volta, Truccazzano (MI)

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SSOOMMMMAARRIIOO

PPrreesseennttaazziioonnee 5

LA GUERRA DEI MONDILLaa gguueerrrraa--mmoonnddooAlessandro Dal Lago 11

LLaa MMoobbiilliittaazziioonnee gglloobbaallee LLoo ssppaazziioo ppllaanneettaarriioo ddeellllaa gguueerrrraa iinn EErrnnsstt JJüünnggeerrMaurizio Guerri 32

RRiibbaallttaarree CCllaauusseewwiittzzLLaa gguueerrrraa iinn MMiicchheell FFoouuccaauulltt ee DDeelleeuuzzee--GGuuaattttaarriiMassimiliano Guareschi 52

IIll llaavvoorroo ddeellll’’IImmppeerroo ee llaa rreeggoollaazziioonnee ddeemmooccrraattiiccaa ddeellllaa vviioolleennzzaa gglloobbaalleeAlain Joxe 70

LLaa ppaarrttee ddeellllee vviittttiimmeeNNoottee ssuullll’’uummaanniittaarriissmmoo ttrraa gguueerrrree ddii iinnggeerreennzzaa,, ppoolliittiicchhee ddii ssiiccuurreezzzzaa ee ccoonnttrroolllloo ddeellll’’eecccceeddeennzzaaFederico Rahola 80

GGlloobbaalliizzzzaazziioonnee vviioolleennttaa,, vviioolleennzzaa gglloobbaalliizzzzaattaa ee mmeerrccaattoo ddeellllaa vviioolleennzzaaTrutz von Trotha 97

SPETTRI

UUnnaa lleetttteerraa ddii MMaaxx WWeebbeerr ssuu gguueerrrraa ee ppaacciiffiissmmooAlessandro Dal Lago 111

TTrraa dduuee lleeggggiiMax Weber 114

LLoo ssccoonnttrroo ddeellllee ddeeffiinniizziioonnii.. SSuu SSaammuueell HHuunnttiinnggttoonnEdward Said 117

MATERIALISSiisstteemmii ddii ooccccuuppaazziioonnee ee nnuuoovvee gguueerrrree nneellll’’EEuurrooppaa ssuudd--oorriieennttaalleeDevi Sacchetto 139

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LL’’eettiiccaa aammbbiigguuaa ddeeggllii aaiiuuttii.. IIll llaavvoorroo uummaanniittaarriioo ffrraa cciivviillee ee mmiilliittaarree ddaallllee ccrriissii iiuuggoossllaavvee aallllaa gguueerrrraa iinn IIrraaqqRoberto Ciccarelli e Giuseppe Foglio 160

RECENSIONI

MMaarrttiinn SShhaaww,, LLaa rriivvoolluuzziioonnee iinnccoommppiiuuttaaMMiicchhaaeell MMaannnn,, LL’’iimmppeerroo iimmppootteenntteeMassimiliano Guareschi 175

AAnnddeerrss SStteepphhaannssoonn,, DDeessttiinnoo mmaanniiffeessttooRoberto Ciccarelli 178

SSaammuueell HHuunnttiinnggttoonn,, LLaa nnuuoovvaa AAmmeerriiccaaRoberto Ciccarelli 182

EEmmmmaannuueell TToodddd,, DDooppoo ll''iimmppeerrooLuca Guzzetti 187

JJaammeess GGooww,, DDeeffeennddiinngg tthhee WWeessttAlex Foti 189

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Pensare i conflitti politici e sociali, in un’accezione molto ampia, senzaproiettarli su scala planetaria è oggi privo di senso. Ciò non significa perse-guire un’impossibile lettura unitaria o globale del conflitto – come avviene,al prezzo di un’evidente deriva ideologica, nelle teorie oggi prevalenti di de-stra (“scontro di civiltà”) o di sinistra (“guerra civile globale”) – quantopiuttosto comprendere la rete di implicazioni di cui ogni conflitto è espres-sione. Così, per esempio, la posta del controllo delle risorse energetiche inMedio Oriente è in gioco su diversi piani: egemonia americana, ruolo del-l’Europa (con le sue divisioni e diverse sfere d’influenza), economia globa-le, mercato petrolifero, crisi dei nazionalismi arabi, movimenti religiosi ecc.Ognuno di questi piani è sia locale, sia globale e interconnesso con gli altrisecondo linee di trasformazione che, fase dopo fase, producono un certoquadro strategico. Pensare di definire il quadro in modo monocausale o ri-correndo a logiche binarie (come il conflitto impero-resistenza globale) op-pure alla mera meccanica delle forze (geopolitica) è un modo per inibirsi lacomprensione dei conflitti globali.

La tentazione, oggi prevalente, di una spiegazione culturalista dei conflit-ti è priva di respiro, in quanto cristallizza in slogan cognitivi processi moltopiù complessi e sfaccettati. Questo emerge dalla situazione irachena, in cuil’evidente alleanza tattica antioccidentale di gruppi che si richiamano a cul-ture o confessioni eterogenee – laici ex baathisti e nazionalisti, gruppi di ispi-razione sunnita e sciiti di vario genere, autonomi e filoiraniani, islamici gene-rici, propaggini dell’internazionale miliardaria di bin Laden o di altre reti –ha svuotato di senso l’ipotesi di spiegazione religiosa o culturale della guerrascoppiata dopo la sensazionale dichiarazione di Bush secondo cui la “missio-ne [era] compiuta”. Non per questo, ovviamente, si tratta di ignorare il ruolo

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PRESENTAZIONE�

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delle culture (o, in senso lato, della cultura) nell’analisi dei conflitti sociali epolitici. È necessario invece abbandonare il pregiudizio secondo cui il con-flitto oppone modelli culturali più o meno compatti e riflettere, al contrario,sulla natura politica di molti supposti conflitti culturali.

Un aspetto decisivo dello stile analitico che qui si propone è l’interesse peril carattere aleatorio dei conflitti contemporanei (a partire dalla fondamentaleintuizione clausewitziana della guerra come “gioco a rischio”). Sottolineare ladimensione “aleatoria” significa semplicemente riconoscere la limitata preve-dibilità dell’esito di ogni partita, tattica e strategica, nella definizione del qua-dro conflittuale, dal singolo teatro fino alla situazione complessiva o globale.Si deve tenere conto che, date le caratteristiche dei conflitti contemporanei –ubiqui e interconnessi, e in questo senso globali – l’accelerazione dei processiè continua, e comunque superiore a quella che caratterizzava il mondo sini-stramente rassicurante del bipolarismo. I processi sono resi sempre più veloci– e quindi scarsamente prevedibili – dal ruolo che il ricorso alle armi ha nelladefinizione dei conflitti. L’ubiquità della guerra, e quindi della decisione ar-mata, eventualizza – per così dire – le dinamiche politiche e sociali che siamoabituati a pensare come lunghe o lente. Quando si sceglie di combattere, si ri-schia per definizione, ci si espone alla sconfitta (strettamente militare, strate-gica, tattica o politica a seconda dei casi). Il solo fatto di ricorrere all’uso indi-scriminato e normale delle armi produce contraccolpi inimmaginabili, diffici-li da prevedere per qualsiasi analisi strategica.

Naturalmente, alla guerra corrisponde sempre una resistenza che va al dilà della mera o apparente sconfitta sul campo dei più deboli (l’Iraq insegna).La resistenza tende a trasformarsi in vittoria quando gli sconfitti rifiutano dicombattere come vogliono i più forti. Napoleone comincia a perdere il suoimpero in Spagna in quanto gli spagnoli non accettano le battaglie campalima praticano la guerriglia, e in Russia perché gli avversari operano una riti-rata strategica in spazi sconfinati; gli americani tendono a perdere le guerreche non si adattano al loro modello strategico (Vietnam, Iraq), allo stessomodo dei russi in Afghanistan e Cecenia. Naturalmente i modelli evolvono:la resistenza popolare alla vietnamita è costosissima (1 milione e mezzo dimorti vietnamiti contro i 58.000 americani) e quindi è ragionevole pensareche il “terrorismo” – indipendentemente da considerazioni morali – rappre-senti l’inevitabile forma che assume la resistenza contro nemici armati inmodo ipertecnologico. D’altra parte, nulla di particolarmente nuovo sotto ilsole: è proprio ciò che oggi chiamiamo “terrorismo” ad avere permesso suscala limitata, non globale, i successi dei gruppi clandestini ebraici contro gliinglesi in Palestina e del Fronte di liberazione nazionale algerino contro iparà francesi...

Con queste considerazioni, non si vuole proporre una rivista di studi mili-tari, ma una rassegna di ricerche e interventi che, nell’analisi dei conflitti lo-cali-globali non ignorino la dimensione militare come interfaccia abituale –oggi, più di ieri – del sociale e del politico. Quindi, una rivista che assuma letrasformazioni del militare come piano di analisi non esclusivo ma rilevantedella conflittualità contemporanea. Ecco allora che diventano cruciali, insie-

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me all’analisi dell’ubiquità della guerra, aspetti e problemi come la militariz-zazione della società nell’era del terrorismo, la sorveglianza, il controllo ur-bano, la gestione militare delle migrazioni, le nuove modalità di internamen-to (dai campi per “combattenti illegittimi” ai Cpt per migranti “clandesti-ni”), le trasformazioni del diritto in chiave di “emergenza”, il peace keepingecc. In breve si propone un tipo di analisi che mira a comprendere la dimen-sione biopolitica e strategica dei conflitti nell’era della globalizzazione. Conil richiamo alla biopolitica e quindi a Foucault non intendiamo rivendicarealcuna filiazione teorica. Diversamente, il metodo elaborato da Foucault nel-l’ambito di una ricerca ancora legata a un ambito nazionale – appare straor-dinariamente adatto al quadro di implicazione globale che si offre al nostrosguardo per diverse ragioni:

• Non esiste il Potere globale o l’Impero, ma una rete di poteri imperiali(neocoloniali o continentali) che ridefiniscono continuamente i loro am-biti di reciproca interferenza ed esclusione (oggi il potere degli Stati unitiè in larga parte egemone, sul piano militare, ma non si deve dimenticareche la capacità di intervento americana si scontra con limiti oggettivi: siveda il peso politico-militare effettivo o virtuale di Cina, Russia e altrimondi...).

• Esistono diversi piani strutturali di potere, politico, militare, finanziario,economico, tecnologico, mediale, culturale ecc. Non ha senso presuppor-re una loro solidarietà a priori (alla lunga, se il prezzo del petrolio crescein modo esponenziale, qualcuno, negli Stati uniti o altrove, chiederà ilconto a G.W. Bush del suo avventurismo), mentre è necessario analizzar-ne le congiunzioni, le disgiunzioni, le solidarietà e i conflitti.

• I poteri, o le costellazioni di poteri occasionali o stabili, suscitano, per laloro dinamicità e produttività, le correlative resistenze, che a loro voltanon sono necessariamente solidali tra loro.

• Non si dà un Soggetto all’opposizione globale, mentre esistono i soggettiin relazione ai poteri, e questi in relazione ai soggetti. Pensare di semplifi-care il quadro unificando, se non altro su un piano categoriale, i “resisten-ti” non è altro che un escamotage chiliastico, un modo per non analizzarele costellazioni empiriche poteri-resistenze.

• Non esistono strategie unificate dei poteri globali, e tanto meno intenzio-nali o onniscienti. Le guerre imperiali in alcuni casi possono condurre avittorie spettacolari (Golfo 1991, Kosovo 1999), ma anche a ritirate preci-pitose (Somalia 1993) e a veri e propri fallimenti e impasse (Iraq, a partiredal 2003). Pertanto, i piani strategici si riformulano in continuazione, co-me politique politicienne armata su scala globale. Il linguaggio foucaltiano– strategie e tattiche, alleanze, avanzate e ritirate ecc. (sempre al plurale) –risulta quindi adeguato per descrivere le trame empiriche dei poteri.

• Internamenti, controlli, sbarramenti, barriere interne ed esterne, confinievolvono in relazione alla gestione, da parte dei poteri, dell’ubiquità delconflitto.

• La vita delle società non può essere pensata in modo autonomo dal qua-

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dro delineato di una conflittualità globale. Possiamo ritenere che il mon-do evolva – senza immaginare a breve o lungo termine una sua unificazio-ne – in una società globale dei controlli, in cui la singolarità dell’esistenza edelle sue scelte, l’espressione politica dei gruppi, l’azione in difesa delle li-bertà individuali e collettive sia sempre più condizionata dall’incomberedi un opprimente reticolo di condizionamenti.

• In poche parole, si ripropone qui il metodo dell’empirismo radicale o“positivismo” felice di Foucault, per trascenderlo nella scala molto ampiache è divenuta la nostra.

La Redazione, marzo 2005

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la guerra dei mondi�

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Poche attività umane sono così intensamen-te sociali come la guerra moderna. [...] Intutto il mondo, dopo il 1914, ogni statomaggiore ha riconosciuto che il valore indi-viduale dei soldati è inessenziale quanto laloro bellezza.1

La natura sociale della guerra

Partiamo da un semplice assunto: la guerra è un fatto sociale e quindi lesue trasformazioni tendono a riflettersi sull’assetto della società e sulle formedella vita associata. A prima vista si tratta di una di quelle ovvietà che suscita-no le ironie di chi non si occupa di scienze sociali. A uno sguardo più attento,tuttavia, questa tesi appare più complessa, perché chiama in causa l’intera-zione tra due dimensioni solitamente considerate agli antipodi: la “società”,ovvero l’insieme di relazioni che tengono assieme gli esseri umani, e la “guer-ra”, cioè la situazione estrema in cui essi si contrappongono fino al punto didarsi la morte.2 In realtà, come si cercherà di mostrare in dettaglio, guerra esocietà non sono incompatibili. Anzi, è proprio la loro implicazione a mo-

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LA GUERRA-MONDO*

di Alessandro Dal Lago�

* Desidero ringraziare, per i loro contributi critici, Didier Bigo, Massimiliano Guareschi, Luca Guz-zetti, Alain Joxe, Salvatore Palidda, Federico Rahola e Rob J. Walker, oltre agli amici e colleghi che parte-cipano al seminario su “La guerra come sistema di pensiero” organizzato presso il Dipartimento di studiantropologici (Disa), Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Genova.

1 J.G. Ballard, A User’s Guide to the Millennium. Essays and Reviews, HarperCollins, London1996, p. 13.

2 Mentre la definizione di società è più o meno ovvia, per quanto generica, quella di guerra è contro-

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strarci come tra interno ed esterno della società occidentale, tra la nostra esi-stenza apparentemente protetta o normale e la conflittualità del resto delmondo, non esista soluzione di continuità. Ciò è tanto più vero quanto più iconflitti di ogni parte del mondo tendono a connettersi, sovrapporsi e influi-re su tutti gli altri.3

In generale, le relazioni tra guerra e società appaiono abbastanza in om-bra nelle scienze sociali. Nel XX secolo (epoca del massimo sviluppo della so-ciologia e dell’antropologia), pochi autori di spicco se ne sono occupati, co-me se la guerra fosse un’eccezione, un’anomalia da ignorare.4 Esiste certa-mente un’importante tradizione di sociologia delle professioni e delle orga-nizzazioni militari, ma è proprio la guerra, come dinamica quasi sempre im-prevedibile e fattore di cambiamento, a non trovare che un posto marginalenel sapere normale della società.5 Si tratta di una lacuna, o se vogliamo di unarimozione, che si estende ad altri saperi come la filosofia politica o la polito-logia. Insomma, quando la parola spetta alle armi, la conoscenza sembra ar-restarsi. Si potrà osservare che, per secoli, la storia è stata storia di guerre, senon di battaglie, ma ciò cambia poco il quadro di reticenza a cui alludiamo.Solo recentemente, infatti, il discorso storico ha affrontato la descrizione si-

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versa. Ai fini della mia discussione, il termine guerra indica qualsiasi tipo di conflitto armato esterno in cuisiano coinvolti, ufficialmente o di fatto, stati o coalizioni di stati. Si veda, in questo senso, la voce “War”dell’Encyclopaedia Britannica.

3 R.B.J. Walker, Inside/Outside. International Relations as Political Theory, Cambridge UniversityPress, Cambridge-New York 1995. Cfr. A. Dal Lago, La sociologia di fronte alla globalizzazione, in P.P. Gi-glioli (a cura di), Invito allo studio della sociologia, il Mulino, Bologna 2005.

4 Se si prescinde da Comte e Spencer, gli scritti sulla guerra dei fondatori della teoria sociale(Durkheim, Weber, Simmel, Pareto ecc.) sono occasionali e polemici. E questo vale per il più grande ditutti, di cui più oltre, in questo numero, diamo un esempio: M. Weber, Zur Politik im Weltkrieg. Schriftenund Reden 1914-1918, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1988. Tra i teorici della generazione suc-cessiva solo Raymond Aron ha mostrato un interesse organico per la guerra: R. Aron, Penser la guerre.Clausewitz, Gallimard, Paris 1976; Id., Il Ventesimo secolo. Guerra e società industriale, il Mulino, Bolo-gna 2003. Da un punto di vista sociologico, la sistemazione più importante di Aron è Pace e guerra tra lenazioni, Comunità, Milano 1983. A quarant’anni dalla data di pubblicazione (1962), questo lavoro mo-stra limiti insuperabili, non tanto per l’assorbimento della riflessione sulla guerra nel quadro abbastanzaconvenzionale delle relazioni internazionali, quanto per l’assenza di un’analisi approfondita delle istitu-zioni militari. Un tentativo di indagare la morfologia sociale generale dei conflitti armati fu intrapreso nelsecondo dopoguerra dalla cosiddetta polemologia: G. Bouthoul, Le guerre, Longanesi, Milano 1981 (ed.or. 1951). Si tratta di un’impresa non del tutto priva di interesse, ma destinata allo scacco per le sue prete-se totalizzanti.

5 Marginale, naturalmente, rispetto alle conoscenze manualistiche. Se si prescinde dalla letteraturastorico-politica (sul ruolo della violenza e delle rivoluzioni nella modernità), l’interesse sociologico sem-bra essersi indirizzato soprattutto verso la sociologia della professione militare e delle sue relazioni con lasocietà civile. Tra i titoli più significativi: S.P. Huntington, The Soldier and the State. The Theory and Poli-tics of Civil-Military Relations, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1957; M. Janowitz, The Pro-fessional Soldier. A Social and Political Portrait, The Free Press, New York 1960; Id., The New Military,Norton, New York 1968; S. Andreski, Military Organisation and Society, University of California Press,Berkeley 1968; D.R. Segal, H. W. Sinaiko (a cura di), Life in the Rank and File, Brasseys, Washington (Dc)1986; J. Van Doorn, Armed Forces and Society, Mouthon, The Hague 1968; J. Burk (a cura di), The Mili-tary in New Times, Westview, Boulder (Co.) 1994, C. Moskos, J.A. Williams, D.R. Segal (a cura di), ThePostmodern Military. Armed Forces after the Cold War, Oxford University Press, Oxford -New York 2000.Tra i tentativi, in chiave marxista, di indagare i rapporti tra capitalismo e guerra: M. Shaw (a cura di) War,State and Society, MacMillan, London 1984, M. Mann, States, War and Capitalism, Blackwell, London1988; M. Shaw, Dialectics of War. An Essay on the Social Theory of War and Peace, Pluto Press, London1988. In generale, sullo stato dell’arte nella sociologia militare e della guerra: T. Caplow, P. Vennesson, So-ciologie militaire, Armand Colin, Paris 1999.

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stematica della guerra (o meglio del combattimento) come situazione socialelimite in cui sono implicati esseri umani in carne e ossa.6

La definizione della guerra come fatto sociale rimanda a due prospettivedistinte. Per la prima, la guerra, al pari di qualsiasi altra attività umana, comela scienza o l’arte, sarebbe comprensibile solo nel quadro di specifiche formedi società. Ogni modo di fare la guerra riflette in senso lato un tipo di ordina-mento sociale e politico. Per limitarsi all’era moderna, chiunque comprendela differenza tra le incessanti guerre dinastiche del secolo XVIII, combattuteda eserciti formati in larga parte da mercenari, e quelle totali del secolo XX, incui stati nazionali, democrazie o dittature hanno messo in campo forze arma-te di milioni di uomini per ridurre all’impotenza gli avversari. La secondaprospettiva è meno evidente, perché riguarda la natura specificamente socialedi ogni attività bellica. Benché raramente i manuali di sociologia ne trattino,la guerra è un fatto sociale per eccellenza, sia perché mette alla prova nella si-tuazione della morte di massa (e di ciò che ne consegue, lutti e distruzioni) lacoesione delle società,7 sia perché si presenta come un insieme di processi so-cialmente complessi: mobilitazione economica, innovazione scientifica e tec-nologica, disciplinamento e addestramento di vaste formazioni armate, com-plesse prestazioni intellettuali (la strategia e la pianificazione delle campagnemilitari), attività gestionali articolate (la guida e il controllo di ingenti mac-chine organizzative che devono, per definizione, affrontare la possibilità co-stitutiva di essere distrutte o menomate).8

L’assunto da cui siamo partiti non si limita a mettere in luce la comples-sità sociale della guerra ma sottolinea anche come essa trasformi la società. Laragione principale di questa capacità risiede in un’autonoma funzione propul-siva dei conflitti. Non c’è mai stata guerra che si sia conformata ai piani deglistrateghi. E ciò per un complesso di motivi: in primo luogo, è difficile che ipiani di una parte, elaborati nel chiuso degli stati maggiori, possano tenereconto delle contromosse degli avversari. In secondo luogo, ogni guerra in-corpora, al livello sia della strategia, sia della tattica, fattori inerziali e aleatoriche Clausewitz chiamava frizione e che oggi vengono definiti “nebbia dellaguerra” o “carattere non-lineare dei conflitti”.9 In altri termini, ogni guerra è

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6 J. Keegan, Il volto della battaglia, il Saggiatore, Milano 2001. Dopo la pubblicazione dell’edizioneoriginale di quest’opera (1976) si è diffusa nella storia militare la tendenza a considerare guerre e battagliaanche in una prospettiva dal basso. Cfr., per esempio, M. Gilbert, La grande storia della prima guerra mon-diale, Mondadori, Milano 1998, in cui la ricostruzione strategica e militare viene integrata, spesso mecca-nicamente, da una massa di testimonianze di combattenti.

7 Potremmo in realtà vedere nella guerra lo stesso ruolo di innovazione sociale che Durkheim attri-buiva ai fenomeni criminali. Cfr. É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico - Sociologia e filosofia, Co-munità, Milano 1963.

8 Per un’analisi, tecnica ma illuminante, della complessità organizzativa della macchina militare nel-le situazioni di guerra: M. van Creveld, Command in War, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)1985. Ma la migliore definizione della complessa socialità della guerra resta C. Ardant du Picq, Etudessur le combat, Hachette et Dumaine, Paris 1880, che può essere considerato un corrispettivo in campomilitare degli studi di Durkheim sulla solidarietà sociale. Sarebbe interessante confrontare in dettaglio idue autori.

9 K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970. L’ossessione per una strategia capace disuperare i fattori aleatori è al centro, come vedremo oltre, della Rivoluzione negli affari militari. Cfr. W.Owens, Lifting the Fog of War, Farrar, Straus & Giroux, New York 2000.

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un gioco di cui si possono prevedere tutt’al più le mosse iniziali, ma moltodifficilmente le linee evolutive. Soprattutto, l’imprevedibilità si traduce inuna mobilitazione di forze che tendono a trascinare le parti in lotta in un pro-cesso cumulativo di reciproca distruzione. L’esperienza militare del Nove-cento si può riassumere in sostanza come passaggio da conflitti teoricamentelimitati a conflitti illimitati. Quanto più una parte alza il tiro, allo scopo dibattere il nemico, tanto più questo adotterà forme di lotta nuove e totalizzan-ti. E questo significa il coinvolgimento di forze sempre più ampie e, al limite,di tutte le energie economiche e sociali nella guerra. L’esempio più noto diquesto carattere cumulativo e innovativo dei conflitti armati è senz’altro laPrima guerra mondiale.10

Nel 1914 gli stati maggiori delle potenze che stavano per affrontarsi suicampi di battaglia pensavano a campagne di pochi mesi, in quanto ancoravincolati all’idea della guerra manovrata e di movimento tipica del XIX seco-lo.11 L’offensiva tedesca a occidente, basata su un grandioso progetto di ac-cerchiamento delle forze anglo-francesi (il piano Schlieffen), sembrò in unprimo momento realizzare il suo obiettivo, la conquista di Parigi, che avreb-be dovuto porre fine al conflitto.12 Invece si arenò, sia per l’incapacità tede-sca di dominare un teatro così vasto e l’esaurimento delle forze all’attacco,sia per la tenace resistenza francese. Quello che le potenze belligeranti non a-vevano previsto era che la guerra, a causa della mobilitazione di milioni diuomini e dello sviluppo di armi sempre più potenti, non avrebbe contrappo-sto degli eserciti, ma intere società. Di conseguenza, gli stati europei furonocoinvolti in una guerra di trincea quinquennale che modificò profondamentel’equilibrio politico del continente, gettando le premesse di un conflitto an-cora più devastante. La memoria dell’immane macello, intrecciata alla gran-de depressione economica, condizionò per decenni la politica estera dellepotenze grandi e piccole. In Germania, Italia e Giappone creò un senso difrustrazione e di rivalsa che alimentò il nazionalismo estremo, il militarismo einfine il riarmo degli anni Trenta. In Inghilterra e Francia, provocò una de-pressione sociale e politica che impedì di valutare esattamente il significatodell’espansionismo nazista e fascista e dell’aggressività giapponese.13

Le guerre trasformano la società non solo in riferimento ai rapporti diforza tra le potenze. Esse modificano profondamente le forme della vita asso-ciata. In alcuni paesi, e non solo quelli sconfitti, la Prima guerra mondialescatenò nuove forme di conflitto politico, che si tradussero in rivoluzioni enell’ascesa di regimi totalitari. In altri, non fu estranea a cambiamenti come

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10 Naturalmente, il coinvolgimento totale può essere solo di una parte, come nelle guerre di popolodel secolo XX (per esempio, la guerra del Vietnam).

11 J. Keegan, La prima guerra mondiale, Carocci, Roma 2002.12 Il piano Schlieffen è un caso pressoché esemplare di utopia strategica. Schlieffen, capo di stato

maggiore dell’esercito del Reich fino a poco prima dello scoppio della grande guerra, lo elaborò a partireda una complessa meditazione sull’accerchiamento strategico, che si ispira esplicitamente al modello in-superato della battaglia di Canne, in cui Annibale distrusse l’esercito romano. Schlieffen, in altri termini,riteneva che la forma strategica fosse in qualche misura indipendente dalle circostanze storiche e materia-li: A. von Schlieffen, Cannae, in Gesammelte Schriften, 1, Mittler, Berlin 1913.

13 P. Brendon, Gli anni trenta. Il decennio che sconvolse il mondo, Carocci, Roma 2002.

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lo sviluppo industriale, l’espansione dei consumi per riavviare un’economiaimpoverita, la diffusione, a partire dagli anni Venti, dell’automobile e dell’a-viazione civile, i prodromi dell’economia sociale e dei sistemi di gestione au-toritaria del lavoro, processi che influirono profondamente sulla vita quoti-diana, famigliare e lavorativa, di centinaia di milioni di persone.14 A loro vol-ta, questi cambiamenti profondi giocarono un ruolo decisivo nella trasfor-mazione degli apparati militari e nel modo di fare la guerra. Nella fase di sot-terranea combustione internazionale che caratterizza l’apparente intermezzopacifico dell’entre deux guerres (1918-1939), il pensiero militare conobbeuna trasformazione spettacolare. Ossessionati dallo stallo della guerra ditrincea, gli stati maggiori elaborarono strategie basate sulle nuove armi mo-bili, le forze corazzate e l’aviazione, capaci di colpire il nemico a distanza e invasti spazi aperti.15 Di conseguenza, la tecnologia applicata alla guerra ebbeun nuovo impulso. Nell’imminenza del secondo conflitto mondiale, gli intericorpi sociali delle potenze grandi e piccole furono chiamati a contribuire auno sforzo economico e industriale senza precedenti.16 Ciò portò, a partiredal 1939, a realizzare forme di guerra ancora più totalizzanti.17 L’adozionedel bombardamento strategico (con l’obiettivo di distruggere le risorse eco-nomiche e industriali del nemico) ebbe l’effetto di coinvolgere massiccia-mente le popolazioni civili dei paesi belligeranti (con l’eccezione degli Statiuniti) e di provocare un numero incalcolabile di vittime. Infine, con il lanciodelle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la guerra convenzionale

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14 P. Ariès, G. Duby (a cura di), La vita privata. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1988.15 In sostanza, il principio della dinamicità strategica si sostituì a quello dell’urto statico. Non si trat-

tava più di distruggere le forze avversarie in una battaglia decisiva, ciò che aveva portato allo stallo dellaguerra di trincea, ma di paralizzare il nemico con forze mobili, anche numericamente inferiori, con il com-pito di tagliare fuori le forze avversarie e di colpire i centri nevralgici dell’avversario (B. H. Liddell Hart,La seconda guerra mondiale. Una storia militare, Mondadori, Milano 1998). Liddell Hart, che si considerail padre teorico della guerra di movimento, tende a enfatizzare l’importanza del Blitzkrieg. Come mo-strerò oltre, si tratta di una classica sopravvalutazione dell’elemento teorico della strategia. In ogni caso, ilmodo di fare la guerra convenzionale elaborato negli anni Trenta, a cui continua a ispirarsi quello contem-poraneo, si basa, oltre che sulla mobilità delle forze, sull’integrazione del combattimento terrestre (forzecorazzate) con quello aereo e navale: B.H. Liddell Hart, L’arte della guerra nel XX secolo, Mondadori, Mi-lano 1971. Per quanto riguarda la teoria del bombardamento strategico, il classico in materia è un italiano:G. Douhet, Il dominio dell’aria e altri scritti (1932), Aeronautica militare-Ufficio storico, Roma 2002. Ilmiglior saggio complessivo sull’evoluzione della guerra nella prima metà del secolo XX è a mio avviso M.van Creveld, The Transformation of War, The Free Press, New York 1991.

16 Il testo fondamentale in materia resta Aa.Vv., Le soldat du travail. Guerre, fascisme et taylorisme, in“Recherches”, 32-33, 1978.

17 Cfr. E. Ludendorff, Meine Kriegeserinnerungen (1914-1918), De Gruyter, Berlin 1919 (in cui vienedescritta, in termini auto-celebrativi, la totalizzazione del primo conflitto mondiale) e soprattutto id., DerTotale Krieg, stampato in proprio, Berlin 1936, ristampa anastatica Archiv Verlag 1986. Quest’ultimo o-puscolo si può considerare il primo tentativo di tirare le fila delle innovazioni militari della prima guerramondiale. Si tratta di contributi in larga parte ideologici, comprensibili nel quadro del revanscismo e delnazionalismo tedesco tra le due guerre. Un discorso a parte va fatto per l’espressione teorica insuperata diquesti cambiamenti e cioè l’opera di E. Jünger. Benché anch’essi alimentati dall’esperienza della guerra ditrincea, i contributi di Jünger hanno saputo individuare la fusione di guerra e vita sociale, di economia dipace e di guerra, divenuta centrale nell’epoca delle guerre totali e, sotto forme ovviamente diverse, nel no-stro tempo di guerra permanente, ubiqua o endemica. Cfr. saggi come Der Kampf al inneres Erlebnis, DieTotale Mobilmachung o Der Weltstaat, ora in E. Jünger, Sämtliche Werke, 7, Betrachtungen zur Zeit, Klett-Cotta, Stuttgart 1980; inoltre Id., L’operaio. Dominio e forma, Longanesi, Milano 1984 e i testi occasionaliraccolti in Scritti politici e di guerra 1919-1933, Libreria editrice goriziana, Gorizia 2003.

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sembrò toccare un punto di non ritorno. La pace, ancorché risultante dallapaura di distruzioni inimmaginabili, sembrava per la prima volta nella storiaa portata di mano.

Dal terrore cosmico alla guerra diffusa

Oggi sappiamo che si è trattato di un’illusione. Secondo una valutazionegrezza ma significativa, il numero di vittime causate nel mondo intero daiconflitti successivi al 1945 è di gran lunga superiore a quello della primaguerra mondiale.18 Anche prescindendo dalle innumerevoli “crisi” locali oregionali, dalle guerre tra Israele e paesi arabi o dai tardivi conflitti coloniali(degli inglesi in Kenia, dei francesi in Indocina e Algeria), il confronto tra im-pero americano e impero sovietico, o tra capitalismo e comunismo, è statotutto tranne che pacifico o freddo (Corea, Vietnam, Corno d’Africa, Angola,Afghanistan e così via).19 Solo l’Europa occidentale è stata al riparo, durantela Guerra fredda, dagli effetti del conflitto armato. Ciò ha portato i paesi u-sciti dalla Seconda guerra mondiale a proiettare, con un tipico riflesso euro-centrico, la loro condizione di pace sul resto del mondo.20 In ogni caso, l’illu-sione del “pacifismo” europeo è cessata subito dopo il 1989. Dapprima, la la-tente disintegrazione della federazione iugoslava è sfociata in una serie diconflitti armati che ha coinvolto gli interi Balcani. In seguito, varie coalizionioccidentali guidate dagli Stati uniti sono intervenute in diverse parti delmondo in nome della “legalità internazionale” (Kuwait, 1991), dell’“uma-nità” o dei “diritti umani” (Somalia, 1993; Bosnia, 1995; Kosovo, 1999), del-la “libertà duratura” (Afghanistan, 2001), della lotta al terrorismo o della pu-ra e semplice egemonia (Iraq, 2003). Lo stato di guerra dura ormai da unquindicennio e soprattutto sembra destinato a continuare per un tempo in-definito. Ma soltanto con gli attacchi dell’11 settembre 2001 vasti strati del-l’opinione pubblica occidentale hanno realizzato che la guerra, anche se ditipo nuovo, era ricomparsa nell’orizzonte della vita quotidiana.

Si tratta allora di stabilire se e come la guerra permanente a cui di fatto cisiamo abituati stia cambiando la nostra esistenza. Si tratta di un problema la

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18 Cfr. R. Leger Sivard, World Military and Social Expenditures, World Priorities, Washington (Dc)1996, ripreso in M. Renner, State of the War. I dati sociali, economici e ambientali del fenomeno guerra nelmondo, Edizioni Ambiente, Milano 1999, stima in venti milioni le vittime delle guerre della seconda metàdel secolo XX. A mio avviso, la cifra è sottostimata, perché i dati, aggiornati al 1995 sono relativi solo aiconflitti maggiori (Corea, Vietnam, intervento sovietico in Afghanistan) ma non tengono conto di una mi-riade di crisi locali, alcune dei quali pluridecennali (Angola, Eritrea, Somalia, Etiopia, Colombia) o di al-tre (come quella tra Iraq e Iran), per cui non esistono dati certi. Se a tutto ciò aggiungiamo le guerre recen-ti (Golfo, Balcani, Cecenia, intervento americano in Afghanistan, Iraq, Ruanda, Zaire ecc.) la cifra potreb-be raggiungere i 30 milioni su un totale di 120 complessivi dall’inizio del XX secolo. Il dato più significati-vo è forse la percentuale di vittime civili. Se questa era di poco inferiore al 50% per la Prima guerra mon-diale, è salita all’80% per i conflitti successivi al 1945.

19 Si calcola, per esempio, che il solo colpo di stato del 1965 in Indonesia (che può essere consideratocome un episodio della guerra fredda) abbia causato un milione di vittime.

20 Un’illusione in cui sono caduti , anche se per poco tempo, osservatori competenti. Cfr. M. Shaw,The Post-military Society, Polity Press, London 1991.

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cui corretta impostazione dipende dalla comprensione della natura dellaguerra contemporanea. È su questo punto che l’analisi incorre nelle maggioridifficoltà. Gran parte degli attuali conflitti sfuggono all’idea di guerra dive-nuta abituale nel XX secolo. Basterà citare solo un esempio, irrisorio ma rive-latore. Quando, nel febbraio 1991, fu chiaro a tutti che la coalizione guidatada George Bush sarebbe intervenuta per espellere le forze irachene dalKuwait, in alcune città italiane si diffuse il panico. Le cronache riportano chemolti, soprattutto donne e anziani, si precipitarono nei supermercati per fareincetta di scorte alimentari. L’imminenza della guerra evocava probabilmen-te, non solo in chi aveva vissuto direttamente le vicende belliche di quaranta-cinque anni prima, spettri come il razionamento, gli allarmi aerei, i bombar-damenti delle città. In seguito, nonostante le “guerre” si siano moltiplicate, ilpanico non si è ripetuto. Nella primavera del 1999, dopo qualche timore chela Serbia reagisse ai bombardamenti lanciando missili sulla costa adriatica, lecoalizioni occidentali hanno potuto combattere le loro guerre senza temereritorsioni dirette. Durante tali conflitti, la vita quotidiana dell’Occidente ècontinuata più o meno inalterata. In fondo, lo choc dell’11 settembre e lapaura generalizzata del terrorismo confermano la pretesa che si possa com-battere alla periferia senza che il centro, cioè il nostro mondo, sia coinvolto.

Ovviamente, dopo l’11 settembre 2001 a New York e l’11 marzo 2004 aMadrid, questa pretesa si è rivelata fragile. Ma la presenza della guerra nellenostre vite non si limita allo spettro del terrorismo. Essa determina piuttostouna mobilitazione che, lungi dal costituire uno stato d’eccezione, riorientastabilmente le nostre abitudini, cioè le forme in cui si volge normalmente lavita sociale. Alcuni di questi cambiamenti sono sotto gli occhi di tutti e sipossono riassumere nella formula del primato della sicurezza: inasprimentodei controlli alle frontiere, negli aeroporti e in generale nei luoghi di transi-to, potenziamento e onnipresenza dell’intelligence, sospetto generalizzatoverso gli stranieri, soprattutto se di origine nordafricana, mediorientale, ara-ba o “islamica”, allestimento di campi per prigionieri privi di uno status pre-ciso e quindi di qualsiasi garanzia (Guantanamo, campi in Iraq e Afghani-stan ecc.).21

Il primato della sicurezza significa in ultima analisi la militarizzazione delcontrollo sociale, cioè la gestione in termini militari (al limite, bellici) delle“minacce” portate alle società occidentali dall’esterno (infiltrazioni terrori-stiche) o dall’interno (cellule dormienti). La militarizzazione del controllocomporta due conseguenze principali. La prima riguarda il fatto che certecategorie di esseri umani, in quanto sospettate di connivenza con il nemico,sono sottratte alle normali garanzie giuridiche su cui l’Occidente ha costrui-to la propria rappresentazione di culla del diritto. Il Patriot Act voluto daBush e confezionato dal ministro Ashcroft, l’istituzione dei campi di deten-zione come Guantanamo, l’evidente normalità della tortura nel carcere di

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21 Il discorso si potrebbe allargare a reti di sorveglianza elettronica come il famigerato sistema Eche-lon e a tutti gli accordi di cooperazione in materia di intelligence, prevenzione e controllo che vengono sti-pulati a vari livelli dagli stati occidentali: D. Campbell, Il mondo sotto sorveglianza. Echelon e lo spionaggioelettronico globale, Eleuthera, Milano 2002.

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Abu Graib rappresentano l’istituzione di un regime militare speciale riserva-to ai “terroristi”.22 La seconda conseguenza è la messa in stato d’accusa vir-tuale e reale di quei tipi umani, in particolare i migranti, considerati inclini,per la loro “natura” sociale irregolare, ad accogliere la propaganda dei nemi-ci della libertà. In questo senso, i centri di detenzione (ormai diffusi in tutto ilmondo) per stranieri illegittimi o “clandestini”, non sono formalmente di-versi dalle carceri militari speciali, in quanto riservati a soggetti privi di qual-siasi legittimità sociale. Si può anche notare che ormai il principio dell’inimi-cizia (su cui si fonda la militarizzazione del controllo) tenda a investire qual-siasi minaccia dell’ordine costituito (ciò vale, sotto determinate circostanze,anche per l’opposizione interna all’Occidente).23

Altri cambiamenti, invece, meno evidenti ma probabilmente capaci diprovocare effetti imprevedibili, si possono compendiare nella formula delprimato della decisione armata. A partire dal 1999, quando la guerra contro laSerbia fu condotta dalla Nato senza il consenso dell’Onu, si è affermato ilprincipio di ingerenza militare dell’Occidente in tutto il mondo. La giustifi-cazione o legittimazione di questa attività di polizia globale fa leva sulla mi-naccia del terrorismo e di chi lo sosterrebbe (i cosiddetti rogue states, in pri-mo luogo) ma è, in sostanza, autoreferenziale.24 Assumendo che solo l’Occi-dente pratichi il diritto nelle relazioni interne e internazionali (si trovi cioè inuna situazione giuridica ideale), e disponga dei mezzi per farlo rispettare, sigettano di fatto le premesse per la costituzione di un potere militare globalelegittimato dalle circostanze.25 Circostanze peraltro durature, in quanto si ri-tiene che ogni prevedibile opposizione armata al suo esercizio ricada nellafattispecie del terrorismo. Non altro è il significato profondo dello slogan en-during freedom o delle dichiarazioni di Bush secondo cui la lotta al terrori-smo potrebbe durare “intere generazioni”.26 La guerra al terrorismo non ri-posa quindi su alcuna legittimazione convenzionale, bensì su un potere difatto o capacità di intervento, che naturalmente può essere giustificato con il

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22 Come sarà specificato oltre, il fatto che si tratti di “nemici della civiltà” comporta che ad essi non siapplichino nemmeno le convenzioni, per altro assai aleatorie, del diritto di guerra. Ciò non significa però,come si ritiene spesso, che le misure adottate dal governo americano (e non solo da questo) siano “illega-li”. Sono piuttosto procedure formalmente legali con cui la “guerra al terrorismo” viene sottratta al con-trollo della legge ordinaria. È un paradosso apparente che ha dei precedenti celebri, come il regime spe-ciale istituito dallo stato tedesco nei confronti degli ebrei (cfr. E. Fraenkel, Il doppio stato, Einaudi, Torino1983). Per una discussione sull’impatto delle misure eccezionali negli Stati uniti di oggi: R.C. Leone, G.Anrig jr. (a cura di), The War on our Freedoms. Civil Liberties in an Age of Terrorism, Public Affairs, NewYork 2003.

23 È per esempio divenuto normale sostenere, a destra e sinistra, che il comportamento violento, peresempio in una manifestazione di piazza, è il primo passo verso il terrorismo. Le cronache italiane riporta-no innumerevoli tentativi di collegare (da parte di inquirenti e anche magistrati) la “sovversione sociale”al “terrorismo islamico”.

24 A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, ombre corte, Verona 2003.25 La nozione di Occidente, in questo contesto, è del tutto convenzionale. In essa ricadono ovvia-

mente Usa, Europa e tutti i loro alleati in ogni parte del mondo. Vedremo come, pur essendo variabile, lanozione di occidente coincida con quella di civiltà occidentale nel senso reso popolare da S.P. Hunting-ton, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997.

26 L’espressione enduring freedom è solitamente tradotta come libertà duratura. Poiché però il verboto endure significa, oltre che durare, sopportare, potremmo anche tradurre lo slogan con “sopportare la li-bertà”. Insomma, la guerra duratura, secondo Bush è il prezzo da pagare per la libertà.

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richiamo alla superiorità culturale (economica, sociale e anche militare) della“civiltà occidentale”.27 In questo senso, il potere di intervento, cioè la guerra,assume una funzione costituente e quindi capace di ri-configurare le relazioniglobali di potere.28

Dire che la guerra assume oggi un potere o ruolo costituente significaperciò che essa è la fonte di nuove relazioni sociali e politiche. Per comincia-re, accanto alle istanze politiche nazionali e internazionali, si sviluppano po-teri di fatto nuovi o, se istituiti da tempo, capaci di mutare funzioni e ambitidi intervento. Tra i primi rientrano le alleanze ad hoc che hanno combattutole guerre in Afghanistan e in Iraq e si pongono di fatto come braccio armatodella “legalità internazionale”, con o senza mandato Onu, nonché la proget-tata forza europea di intervento rapido, il cui raggio di azione non si limitacertamente al Vecchio continente. Tra i secondi possiamo citare la Nato, chenel 1999 è intervenuta in Kosovo. In entrambi i casi, queste strutture militari,occasionali o stabili che siano, tendono a promuovere o imporre nuove for-me di organizzazione politica ed economica dei paesi in cui intervengono. Siconsiderino la presenza militare in Afghanistan, il protettorato militare dellaNato sui Balcani meridionali (Bosnia, Kosovo e, in senso lato, Macedonia eAlbania) o la coalizione che sta gestendo l’occupazione dell’Iraq. Quest’ulti-ma è composta dalle forze armate dei due stati che hanno travolto l’esercito i-racheno nel 2003 e da contingenti militari di diversi paesi europei, asiatici esudamericani con compiti di polizia militare. In realtà, queste forze non sonoche l’avanguardia armata di una struttura di occupazione che comprende ungran numero di forze private di sicurezza,29 di imprese (in maggioranza ame-ricane) con compiti di ricostruzione delle infrastrutture e del sistema econo-mico e di agenzie pubbliche o semipubbliche occidentali (servizi segreti, e-sperti di sicurezza, Ong ecc.) che gestiscono gli apparati civili, dai sistemi e-ducativi ai beni culturali. Si tratta dunque di un’occupazione politica, econo-

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27 Secondo la teoria sociale classica, la legittimazione di un ordinamento è la giustificazione del suodiritto a essere in vigore. La legittimazione può quindi riposare sulla tradizione, sul carisma e sulle proce-dure giuridiche. Nel caso del potere costituente globale, la legittimazione è basata sulla forza militare, an-che se giustificata da intellettuali e chierici globali in termini di superiore civiltà.

28 In questi anni, un buon numero di libri “revanscisti” ha riaffermato l’intrinseca superiorità del-l’Occidente su ogni altro tipo di cultura, passata o presente. Emblematici, in questo senso, V. Hanson,Massacri e cultura, Garzanti, Milano 2002 (che attribuisce la superiorità militare occidentale al razionali-smo, da Maratona alla Guerra del Golfo) e D.S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni. Perché alcu-ne sono così ricche e altre così povere, Garzanti, Milano 2001, per il quale la “nostra” superiorità economi-ca è piuttosto una faccenda di libertà di iniziativa. Per una critica di questo imperialismo retrospettivo re-sta indispensabile E. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’occi-dente, Gamberetti, Roma 1998. In un senso analogo, ma molto meno esplicita, la posizione di A. Sen, De-mocracy and its Global Roots, in “The New Republic”, 6 ottobre 2003.

29 Come vedremo, il trasferimento a imprese private di attività non solo di supporto (logistica, ap-provvigionamento, polizia, sicurezza ecc.), ma anche di combattimento è uno degli aspetti più innovatividella guerra contemporanea: N. D. Schwartz, The War Business, in “Fortune”, 3 marzo 2003. Secondo I.Traynor, The Privatisation of War, in “The Guardian”, 10 dicembre 2003, il rapporto tra soldati privati eforze armate regolari in Iraq è di circa 1 a 10 (mentre all’epoca della guerra del Golfo, nel 1991, era di 1 a100). P. Singer, Corporate Warriors. The Rise of Privatized Military Industry, Cornell University Press,Ithaca, 2003, conferma questa valutazione e stima in circa 100 miliardi di dollari il giro d’affari annuo diquesto settore. Cfr. anche M. d’Eramo, Privatizzazioni da combattimento, “il manifesto”, 6 aprile 2004.

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mica e amministrativa che trova nella vittoria militare del 2003 la sua unicafonte di legittimazione.

Ripartire da Clausewitz?

Vediamo dunque nella guerra un fenomeno capace di trasformare la societàsecondo direzioni in gran parte innovative. Potremmo esprimere lo stessoconcetto definendo la guerra contemporanea come un “sistema sociale dipensiero”. Questa espressione si ispira all’opera di Michel Foucault e indicauna formazione concettuale che, senza essere necessariamente organica, e-splicitata o rappresentata da tradizioni ufficiali e canoniche come la filosofia,è nondimeno capace di orientare il modo di pensare teorico e pratico di unacerta epoca. Foucault ha portato alla luce sistemi di pensiero come le rappre-sentazioni scientifiche minori a cavallo dell’illuminismo, l’immagine della fol-lia in età classica, il carcerario e il disciplinamento moderni, la “volontà di sa-pere” nella cultura contemporaneo della sessualità. In particolare, ha indivi-duato l’essenza del pensiero bellico moderno nel “razzismo di stato”, un’ideaquesta estremamente feconda, anche se la prospettiva sviluppata da Foucaultè ancora limitata agli stati nazionali e alle singole società, e non si estende alledimensioni trans-statuali e transnazionali che oggi vengono comprese sottol’etichetta indubbiamente usurata di globalizzazione.30

Foucault ha insistito sulla necessità di rovesciare il senso della massima diClausewitz, secondo cui “la guerra è la continuazione della politica con altrimezzi”.31 Per lui invece “la politica è la continuazione della guerra con altrimezzi” (come, in un certo senso, per Carl Schmitt). Agli occhi di Foucault il“politico” appare come il travestimento di una guerra civile fondamentaletra gruppi sociali, in sostanza tra il ceto dominante e un corpo sociale costitu-tivamente riottoso. Si tratta, a mio avviso di una posizione che fraintende lalettera dell’espressione di Clausewitz, per il quale con politica si intendeva lapolitica estera, e cioè i rapporti tra stati sovrani, ma anche di un fraintendi-mento felice e produttivo.32 Infatti, oggi più di ieri, è impossibile postulareuna netta separazione tra politica interna ed estera. E questo non per il depe-rimento degli stati nazionali, che avrebbero ceduto quote della sovranità a i-stanze globali, ma esattamente per il motivo contrario, cioè la riorganizzazio-ne degli stati nazionali in costellazioni o coalizioni, più o meno variabili, che

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30 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998.31Si prova quasi ritegno a citare l’affermazione di Clausewitz, tanto è nota (cfr. K. von Clausewitz,

Della guerra, cit. p. 38). È sintomatico però che la conoscenza di questo testo fondamentale, l’unico chemeriti la definizione di teoria generale della guerra occidentale, si arresti per lo più a tale massima e non ri-guardi invece l’altra fondamentale nozione della guerra come gioco, azzardo o strategia non lineare. Que-sto secondo punto alimenta un diffuso dibattito che sfocia anche nelle teorizzazioni più avveniristiche:D.S. Alberts, T.J. Czerwinski (a cura di), Complexity, Global Politics and National Security, National De-fense University, Washington (Dc) 1998; L.P. Beckerman, The Non-linear Dynamics of War (1999), inwww.belisarius.com.

32 Cfr. A. Pandolfi, Foucault e la guerra, in “Filosofia politica”, 16, 3, 2002. Si veda soprattutto in que-sto numero il contributo di Massimiliano Guareschi.

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agiscono su una scena globale per ragioni egemoniche. In altri termini, si po-trebbe ritradurre la (libera) versione che Foucault ha operato della massimadi Clausewitz nella proposizione seguente: “La politica globale è la continua-zione della guerra globale con altri mezzi”. Con ciò, essenzialmente, si stabi-lisce l’esistenza di una dimensione continua, anche se ovviamente articolata,di guerra e politica globale.33

L’intuizione di Foucault consente di liberarsi dall’opinione di senso co-mune secondo cui la guerra sarebbe un’anomalia, la deviazione dal rettocammino dell’umanità, l’emergere di un’irrazionalità antiprogressiva, lo sca-tenamento di pulsioni arcaiche e così via.34 Certo, c’è qualcosa di vero in que-sti giudizi, almeno se ci si colloca al livello dell’individuo combattente e degliorrori a cui partecipa. Ma le cose appaiono del tutto diverse quando l’analisiinveste i meccanismi e i sistemi militari nelle loro relazioni organiche con lapolitica e l’economia globale. Allora la guerra appare piuttosto come l’altrafaccia della politica globale, un sistema di opzioni non alternativo, ma del tut-to complementare, ai sistemi di governo pacifici. Dalla fine della Guerrafredda, la violenza militare, cioè l’imposizione di scelte politiche con la forzadelle armi, è apparsa come una risorsa continua, normale, quotidiana in unquadro politico in evoluzione. Guerre, pertanto, politiche in misura varia emiranti a obiettivi eterogenei, non sempre evidenti o del tutto comprensibilinel quadro delle apparenti razionalità che le dovevano motivare o giustifica-re. Guerre per il controllo delle risorse, per la liquidazione di resistenze loca-li (si pensi allo stato di guerra permenente in Palestina), per la ridefinizionedelle zone di influenza o per tutti questi motivi insieme. Che alcune di questeguerre non siano state dichiarate, e in alcuni casi nemmeno considerate tali,indica semplicemente che lo stato di guerra è oggi ubiquo.35

Intendiamoci, non si tratta di una novità. Piuttosto, il fatto che oggi lascala dei conflitti sia globale in ogni parte della terra (che cioè, in linea diprincipio, ogni conflitto locale abbia effetti su tutto il mondo) ha squarciato ilvelo dell’ideologia occidentale che aveva marginalizzato il ruolo della guerranell’affermazione della cultura euro-americana: ideologia liberale, economi-cista, democratica, secondo cui il successo dei “valori” dell’Occidente – be-nessere economico, libertà politica, governo rappresentativo, sviluppo scien-tifico e tecnologico – sarebbe il frutto di un’intrinseca superiore capacità, enon invece il risultato di uno stato di guerra che ha lasciato dietro di sé, nelcorso di un paio di secoli, centinaia di milioni di cadaveri. Si tratta di un’i-

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33 Per Foucault, la guerra è essenzialmente regolativa, ciò che comporta il passaggio in senso strettodal governo alla governamentalità, in cui la guerra perde ogni carattere di eccezionalità: M. Foucault, Sé-curité, Territoire, population.Cours au Collège de France. 1977-1978, Gallimard-Seuil, Paris 2004; Id.,Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Gallimard-Seuil, Paris 2004. Sull’ideadi violenza regolativa si veda ora S. Kurtenbach, P. Lock (a cura di), Kriege als [Über]Lebenswelten. Schat-tenglobalisierung, Kriegsökonomien und Inseln der Zivilität, Dietz, Bonn 2004.

34 Si tratta di una mitologia a cui la psicanalisi ha ampiamente contribuito: D. Pick, La guerra nellacultura contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1994.

35 E in questo senso oggetto di teorie che possono applicarsi indifferentemente ai fatti complessi, co-me l’economia o le catastrofi naturali: M. Buchanan, Ubiquità. Dai terremoti al crollo dei mercati, dai trenddella moda alle crisi militari: la nuova legge universale del cambiamento, Mondadori, Milano 2001.

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deologia esplicita, ma più spesso implicita, basata cioè sulla rimozione carat-teristica di una divisione esasperata del lavoro intellettuale. Espunzione dellaguerra e della sua normalità nelle scienze sociali e nella teoria economica epolitica, afasia filosofica, riduzione del fenomeno bellico nel discorso storicoa variante del “gioco” politico-diplomatico: processi di cancellazione culmi-nanti, appunto, nella bizzarra idea della patologia, come se la guerra fossecioè una malattia dell’Occidente e non invece la sua condizione fisiologica.Sarebbe interessante procedere, sulla scia di Foucault e di Warburg, a un’ar-cheologia o a una genealogia dell’assenza di guerra nell’autoedificazione delpensiero occidentale. Un lavoro tutto sommato faticoso ma non impossibile,se solo ci si affidasse al contrappunto, nel discorso filosofico, di disinteresse eoccasionali pulsioni guerresche, qualcosa che tra reticenze e furori omicidi ciriporta fino alle sorgenti della narrazione occidentale.36 Non bastano le occa-sionali intuizioni di un Machiavelli o di uno Schmitt, i contorti progetti paci-fisti di Kant, le saette di Nietzsche – e persino le brillanti affabulazioni stori-che di Foucault o Deleuze e Guattari – ad assolvere la tradizione filosoficadal sospetto di una generale connivenza, di un silenzio-assenso sulla guerra.37

Le meraviglie dell’intelligenza

Dire che la guerra assume oggi più di ieri una funzione costituente, anche seimplicita o rimossa, significa riconoscere non solo che progettualità politico-sociale e progettualità militare vanno perfettamente d’accordo, ma che, al li-mite, è la seconda a determinare il ritmo della prima. Il discorso non si limitaalle tecnologie divenute perfettamente ordinarie (e anzi assunte come simbo-lo di uno sviluppo pacifico e perfino della libertà di comunicare) che hannoun’origine militare, come Internet. Basterebbe limitarsi al fatto che nella so-cietà di mercato oggi trionfante, in cui il ruolo della mano pubblica è consi-derato scandaloso, sopravvive, anzi prospera, il più straordinario apparato diwelfare militare che la storia abbia conosciuto. Se Roma, con una trentina dilegioni attive al momento di massimo sviluppo,38 era considerata l’impero

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36 Sono gli storici della guerra antica a notare che all’ubiquità della guerra nella Grecia classica noncorrispondono, nella filosofia greca, se non riflessioni occasionali: Y. Garlan, Guerra e società nel mondoantico, il Mulino, Bologna 1987; S. Villatte, Les philosophes devant la guerre, in P. Brun (a cura di), Guerreset societés dans les mondes grecs (490-322), Editions du temps, Paris 1999.

37 A. Dal Lago, Qualcosa di impensato. Note sulle relazioni tra filosofia e guerra, in “aut aut”, 324,2004. Cfr. A. Philonenko, Philosophie de la guerre, Vrin, Paris 1976.

38 All’apogeo dell’impero romano, alla fine del I secolo d.C., il numero complessivo dei legionari, chedifendevano i confini di un territorio che andava dalla Scozia a nord alla Persia a sud est, non superava i180.000 uomini (C.M. Wells, L’impero romano, il Mulino, Bologna 1992). Come sappiamo da Procopio, learmate bizantine di Giustiniano, uno degli imperatori più militaristi, raggiungevano raramente i 15-20.000 uomini (L. Bréhier, Le monde byzantine, 2, Les institutions de l’Empire byzantine, Paris 1949). Finoall’epoca delle armate napoleoniche, e pur in un incessante seguito di conflitti, gli eserciti europei moder-ni superavano raramente la dimensione considerata ottimale di 30-40.000 uomini (J. Keegan, La grandestoria della guerra, Mondadori, Milano 1997). È vero che le dimensioni degli eserciti non sono commensu-rabili. Tuttavia, anche a prescindere dalle due guerre mondiali, il XX secolo ha visto un’incredibile espan-sione degli apparati militari. La coalizione anti-irachena del 1991 era composta da più di 700.000 uomini,di cui due terzi non combattenti.

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più militarizzato dell’antichità e la Prussia di Federico II, con un esercito dialcune decine di migliaia di uomini, un vero e proprio stato-caserma, che co-sa dovremmo dire degli Stati uniti contemporanei, che hanno sul libro pagadel Department of Defense più di due milioni di uomini, senza contare i ri-servisti, la guardia nazionale e gli altri milioni che lavorano per la parte civiledel complesso militare-industriale? E che dire dei mercenari, degli altri mi-lioni di portatori d’armi a fini civili, come poliziotti di ogni tipo o doganierioggi arruolati nella guerra senza fine al terrorismo?

Il sistema militare, apparentemente silenzioso o raggelato in tempo di pa-ce, e dispiegato e più o meno trionfante in quello di guerra, è sembrato unasorta di implicito male necessario finché, dopo il 1989, le convenzioni, intel-lettuali, politiche e giuridiche, hanno cominciato a sgretolarsi, rivelando ilmondo come un solo grande campo di battaglia. Naturalmente, si tratta diuno scenario marziale profondamente nuovo, del tutto adeguato alle direzio-ni prese negli ultimi decenni dall’economia e dalla scienza. I primi anni No-vanta hanno visto l’affermarsi dell’utopia tecnocratica in campo strategico,nota come Rma o Rivoluzione nelle questioni militari. Per comprenderne ilsignificato, è necessario ricordare che la storia militare occidentale è conven-zionalmente contrassegnata da svolte a cui si dà il nome di “rivoluzioni”.39

Per limitarsi all’epoca moderna, tali sono considerate la diffusione su largascala delle armi da fuoco (XVI e XVII secolo), l’introduzione degli eserciti dileva (tra XVIII e XIX secolo), l’adozione di forze corazzate e aviazione strategi-ca (prima metà del XX secolo). La Rma segnerebbe un’ulteriore svolta, la piùradicale di tutte, in quanto capace non solo di assumere il mondo come cam-po di applicazione, ma anche e soprattutto di realizzare, in linea di principio,la progressiva riduzione, se non sparizione, dell’elemento umano combatten-te.40 Il nucleo strategico della Rma è essenzialmente costituito dall’impiegodelle nuove tecnologie (informatiche, comunicative, robotiche) nei settorimilitari in cui l’elemento umano è sempre stato preponderante: raccolta diinformazioni sul terreno e combattimento. Qui i soldati in carne e ossa sareb-bero progressivamente sostituiti, anche se non esclusivamente, dall’automa-zione dei sistemi di informazione (infowar) e dall’impiego preponderantedella guerra aerea e missilistica per neutralizzare le forze armate nemiche.41

In un certo senso, il secondo conflitto del Golfo del 199142 rappresenta latransizione tra la guerra di tipo novecentesco e la Rma. Benché i sistemi dicomunicazione e difesa aerea (nonché le difese terrestri degli iracheni) fosse-ro stati completamente distrutti dagli alleati, alle forze di terra (corazzate e difanteria) fu affidato il compito di “completare il lavoro” e di “ripulire” il

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39 Per una sintesi del problema R. A. Preston, S.F. Wise, Storia sociale della guerra, Mondadori, Mila-no 1973; R. Hale, Guerra e società nell’Europa del Rinascimento (1450-1620), Laterza, Roma-Bari 1987;l’autorità in materia è G. Parker, La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell’Occidente,il Mulino, Bologna 1999.

40 M. O’Hanlon, Technological Change and the Future of Warfare, The Brookings Institution, Wa-shington (Dc) 2000.

41 Si veda M. De Landa, La guerra nell’era delle macchine intelligenti, Feltrinelli, Milano 1996. Cfr. C.H. Gray, Postmodern War. The new Politics of Conflict, Routledge, London 1997.

42 Convenzionalmente, il primo conflitto del Golfo è considerato quello tra Iraq e Iran (1979-1988).

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Kuwait dalle truppe di Saddam Hussein. In ogni caso, la straordinaria dispa-rità nel computo delle perdite (poco più di 300 tra gli alleati, diverse decinedi migliaia tra gli iracheni) suscitò l’illusione che l’incomparabile preponde-ranza occidentale in termini di tecnologie informatiche, aeree e missilisticherendesse ormai residuale la guerra di terra. Anche quest’ultima, basata sul-l’integrazione di forze corazzate e aviazione tattica (cannoniere volanti, eli-cotteri d’attacco) sarebbe divenuta una sorta di formalità. Nasce subito dopola Guerra del Golfo l’ideologia della guerra a “zero perdite” (occidentali), in-sieme alla propaganda sulla capacità di missili e bombe “intelligenti” di cau-sare solo poche vittime (“danni collaterali”) nella popolazione civile (guerraa “costo umano zero”). L’apogeo della Rma (un misto di utopia e propagan-da) viene toccato nella guerra del Kosovo del 1999, in cui per la prima voltanella storia l’attacco della coalizione Nato non comportò nemmeno un cadu-to tra gli attaccanti e poche centinaia (in realtà, alcune migliaia) di vittime,soprattutto civili, tra i serbo-iugoslavi.

Nasce inoltre in questo periodo la teoria della guerra “asimmetrica”. Trai teorici più visionari di parte americana comincia a circolare l’idea secondocui la risposta del nemico alla invincibilità occidentale è l’abbandono dellaguerra convenzionale e anche della guerriglia tradizionale (il cui modellopuò essere considerato la guerra di popolo teorizzata e praticata tra gli anniCinquanta e Settanta dal generale vietnamita Giap), in quanto troppo costo-sa in termini umani. La risposta asimmetrica consisterebbe soprattutto nel ri-corso a forme di guerra reticolare (netwar), in cui piccole cellule terroristi-che, autonome e prive di una struttura centralizzata, mirano a colpire i centrinevralgici dell’Occidente e degli Stati uniti, secondo il ben noto precettostrategico dello “sciame” (swarming) in cui ci si muove separatamente percolpire insieme.43 Non c’è dubbio che, fin da principio, gli strateghi america-ni abbiano avuto in mente il modello al Qaeda, che conoscevano benissimo,avendo gli Stati uniti partecipato, più o meno direttamente, al finanziamentodelle imprese di Osama bin Laden all’epoca della guerriglia contro i russi inAfghanistan.44 Il principio di fondo è che alla guerriglia terroristica si devereplicare con una controguerriglia basata sugli stessi principi strategici.45 Laprima risposta all’11 settembre, che gli analisti statunitensi avevano larga-

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43 J. Arquilla, D. Ronfeldt, Swarming and the Future of Conflict, Rand, Santa Monica 2000; J.A.Edwards, Swarming on the Battlefield. Past, Present and Future, Rand, Santa Monica 2000. È degno di no-ta del carattere iperteorico e in qualche modo utopistico di queste teorie il fatto che lo “sciame” sia consi-derata una tattica in qualche misura atemporale e che, di conseguenza, classici del pensiero strategico, an-che antico, siano utilizzati in chiave ipermoderna. Si tratta di un ulteriore esempio del carattere spesso au-toreferenziale del discorso strategico. È vero comunque che, accanto alle teorie della “grande strategia”,esiste nella tradizione anche più remota una notevole produzione in materia di “piccole guerre”, guerre difrontiera, guerra anti-insurrezionale, a partire almeno dal pensiero militare bizantino, che si trovò ad af-frontare combattenti irregolari o non convenzionali come turchi, peceneghi, arabi ecc. Cfr. lo Strategikondell’imperatore Maurizio e la Taktika di Leone VI il saggio. Ampi stralci di questi trattati, oggi tornati dimoda negli Stati uniti, si trovano in G. Chaliand (a cura di), Anthologie mondiale de la stratégie. Des origi-nes au nucléaire, Laffont, Paris 1990. Altri esempi in U. Albini, V.U. Maltese (a cura di), Bisanzio nella sualetteratura, Garzanti, Milano 2004.

44 Cfr. J. Burke, Al Qaeda. La vera storia, Feltrinelli, Milano 2004.45 La letteratura in tal senso è amplissima. Per una sintesi recente B. Berkowitz, The New Face of War.

How War will be fought in the 21st Century, Simon & Schuster, New York 2003. L’idea che la guerra evolva

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mente previsto anche se non erano stati ovviamente capaci di localizzare l’at-tacco, è la guerra del 2002 in Afghanistan, in cui la Rma sembra trovare l’ap-plicazione più completa: bombardamento strategico dei santuari talebani edi al Qaeda, delega all’Alleanza del Nord del lavoro sporco (la liquidazionedei talebani in campo aperto), utilizzo di uno sciame di piccole unità di con-troguerriglia (agenti Cia e britannici, ranger, Delta force, specialisti inglesiecc.) contro la rete di Osama bin Laden nelle montagne tra Afghanistan ePakistan.

La scelta, nel marzo del 2003, di invadere l’Iraq con una forza relativa-mente “leggera” è stata il frutto non solo della fretta e di errate valutazionistrategiche (nessuno aveva previsto la scelta degli iracheni di non sacrificare leproprie truppe in scontri di terra dall’esisto scontato e di riservarsi di combat-tere dopo la “vittoria”), ma anche di un eccesso di fiducia nel nuovo modo difare la guerra. Convinti che la vittoria del 1991 e l’embargo, insieme al consue-to e devastante attacco aereo, avrebbero annullato ogni possibile resistenza,gli americani e gli inglesi si imbarcavano in un’impresa che si sarebbe rivelatasubito infinitamente più difficile.46 È indispensabile a questo punto misurarelo scarto tra strategie teoriche e applicazioni pratiche. Esso dipende anche daiconflitti tra consiglieri civili (fondamentali nel sistema decisionale americano)e gerarchie militari, e, in queste ultime, tra diverse scuole strategiche. Tenden-zialmente, le gerarchie militari appaiono caute nello sposare le concezionistrategiche più avveniristiche e restano legate a una cultura più tradizionali-sta. In proposito, si possono segnalare almeno due conflitti rilevanti: il primo,all’epoca della guerra aerea del Kosovo portò alla rimozione del generale We-sley Clark, che riteneva indispensabile un intervento terrestre,47 il secondo,tra i capi dello stato maggiore americano e il ministro della difesa Rumsfeld. Imilitari ritenevano, a ragione, che l’invasione dell’Iraq fosse stata preparataaffrettatamente e i circa trecentomila uomini utilizzati (di cui solo un terzocombattente) non risultassero sufficienti a mantenere l’ordine dopo l’even-tuale presa di Baghdad.48 Tutto questo mostra che la Rma è solo un orizzonteteorico, e per di più controverso, da cui non dobbiamo derivare alcuna indi-cazione di lungo periodo sull’evoluzione della guerra contemporanea.49

L’attuale modo di fare la guerra sembra aperto a un ventaglio di opzioni

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necessariamente in tal senso è molto controversa. Per un punto di vista tradizionalista C.S. Gray, ModernStrategy, Oxford University Press, Oxford-New York 1999.

46 È sorprendente che uno storico e osservatore del calibro di John Keegan abbia non solo giustifica-to la guerra in Iraq, ma sostenuto che si è trattato di una guerra ben condotta e vinta: J. Keegan, The IraqWar, Hutchinson, London 2004.

47 W. Clark, Vincere le guerre moderne. Iraq, terrorismo e l’impero americano, Bompiani, Milano2004.

48 Poco prima dell’inizio della guerra in Iraq usciva sulla rivista dello Us Army War College, la piùprestigiosa istituzione accademica dell’esercito americano una drastica confutazione della dottrina Bush-Rumsfeld: J. Record, The Bush Doctrine and War with Iraq, in “Parameters. Us Army War College Quar-terly”, primavera 2003, pp. 4-21. Lo stesso autore ha duramente criticato in seguito la conduzione dellaguerra in Iraq: Id., Bounding the Global War on Terrorism, Strategic Studies Institute, Us Army War Col-lege, Carlisle 2003. Questo saggio, pubblicato da un’istituzione militare, ha avuto una notevole risonanzasulla stampa americana e ha contribuito ad incrinare la leggenda della “missione compiuta”.

49 Si ha l’impressione che la Rma sia spesso valutata più a partire dalle “visioni” dei suoi teorici che

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in larga parte politiche, spesso in contraddizione tra loro e largamente occa-sionali. Ma questo significa ammettere che non esiste alcuna soluzione dicontinuità radicale tra scelte di pace e di guerra nel sistema egemonico ame-ricano.50 Il fallimento strategico in Iraq ha condizionato largamente le elezio-ni del novembre 2004 (che non è stato affatto un referendum sulla pace masul modo ottimale di fare la guerra), mentre la conferma di Bush porterà allascelta di nuove opzioni militari. Queste a loro volta non si escludono, macoesistono in uno scenario in cui l’apparato militare è pronto in ogni mo-mento ad agire come braccio armato della politica egemonica.

La civiltà della guerra

La guerra esercita una funzione costituente anche in un senso più ampio, in-fluenzando le strutture globali della cultura. Consideriamo la sfera del-l’informazione. Benché apparentemente pluralistica su scala mondiale, per-ché articolata in innumerevoli sfere locali e nazionali, l’informazione globaleè in realtà influenzata da un piccolo numero di fonti e di organi, televisivi e distampa, che ricadono nell’orbita dell’Occidente e in primo luogo degli Statiuniti. Anche televisioni celebrate per la loro imparzialità dipendono, in casodi crisi internazionali, da catene molto vicine all’establishment politico-mili-tare americano, quali Cnn o Fox Tv. Inoltre, l’evento dell’11 settembre 2001ha fatto sì che quasi tutti i media occidentali si siano allineati sulle posizionidel governo americano, in nome del patriottismo o della difesa della nostraciviltà. D’altra parte, da quando l’informazione è considerata esplicitamenteelemento essenziale della strategia militare, i media sono stati di fatto arruo-lati nelle armate occidentali, così da rendere impossibile una copertura indi-pendente delle guerre.51 Nel 1991, lo stato maggiore della coalizione proibìla libertà di movimento degli inviati sul teatro delle operazioni. Nel 2003, igiornalisti sono stati embedded, cioè messi in divisa e aggregati ai reparti di

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da un’analisi del suo impatto reale. Esemplare in tale senso la divulgazione sensazionalistica di U. Rapet-to, R. Di Nunzio, Le nuove guerre. Dalla Cyberwar ai black bloc, dal sabotaggio mediatico a bin Laden, Riz-zoli, Milano 2001. Un caso analogo è costituito dall’appropriazione da parte cinese dei “segreti” dellaRma. Qualche anno fa la stampa riportava la preoccupazione degli ambienti militari americani a causadella pubblicazione di un saggio di due ufficiali dell’aviazione cinese: Q. Liang e W. Xiangsui, Guerra sen-za limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione, Libreria editrice goriziana, Gori-zia 2001. In realtà, quasi tutto il materiale citato dai due autori è facilmente reperibile su Internet.

50 In fondo, il concetto di guerra preventiva (elaborato all’epoca di Clinton) indica il permanente sta-to di allerta e di guerra, che così diviene un’opzione corrente di politica estera. Cfr. A.B. Carter, W.J.Perry, Preventive Defense. A new Security Strategy for America, Brookings Institution Press, Washington(Dc) 1999.

51 La manipolazione dell’informazione come strumento di guerra globale è teorizzata in D. Arquilla,D. Ronfeldt (a cura di), In Athena’s Camp. Preparing for Conflict in Information Age, Rand, Santa Monica1997. La Guerra del Golfo è forse l’esempio più sensazionale di fabrication militare prima che le “armi didistruzione di massa” di Saddam fossero usate come casus belli del 2003. Dall’invenzione dei crimini com-messi dagli iracheni in Kuwait fino alla censura sulle operazioni militari, tutta l’informazione sulla guerraè stata manipolata dallo stato maggiore alleato. Cfr. J. MacArthur. The Second Front. Censorship and Pro-paganda in the Gulf War, University of California Press, Berkeley 1992. In generale sulla propaganda diguerra, vecchia e nuova: A. Morelli, Principi elementari della propaganda di guerra. Utilizzabili in caso diguerra calda, fredda, tiepida..., Ediesse, Roma 2005.

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seconda linea. Un’informazione alternativa o indipendente è scoraggiata conmezzi spicci e comunque militari. Nel 1999, in Kosovo, la televisione serba fudistrutta da un attacco missilistico, mentre in Iraq diverse troupe di emittentiarabe, come al Jazeera e la televisione di Abu Dabi, sono state ripetutamentenel mirino degli americani durante la presa di Baghdad.52

La militarizzazione dell’informazione non è in contraddizione con l’ap-parente pluralismo comunicativo che si addice a una società di mercato glo-bale. Piuttosto, essa agisce in modo intermittente nelle fasi di mobilitazione edi acme dei conflitti. Inoltre, si estende ai processi ordinari che filtrano le no-tizie, attribuendo loro un rilievo globale o facendole retrocedere o sparirenel retroscena dell’offerta informativa. Anche in mancanza di Diktat da partedi militari o politici, le notizie che contraddicono le verità politiche ufficialiscompariranno, semplicemente perché nessun organo di informazione è in-teressato a riprenderle.53 Data la massa di informazione teoricamente dispo-nibile, una notizia è tale solo se politicamente sostenuta, se cioè risulta fabbri-cata, ripresa o convalidata da istituzioni dotate di autorità sulla scena globa-le. Il governo statunitense ha potuto fare credere al mondo che gli irachenifossero in grado di colpire l’occidente con armi di distruzione di massa soloperché, dopo l’11 settembre, gli si riconosceva una sorta di pretesa o dirittoalla verità.54

L’influenza della guerra sulla cultura si esercita inoltre su piani molto piùampi della semplice imposizione di un’agenda politico-mediale. Se i leaderoccidentali (con l’eccezione dei più dilettanteschi, come Berlusconi) posso-no dare prova di cautela nello stabilire l’equivalenza terrorismo-mondo ara-bo o sovversione globale-Islam, ciò non avviene ai vari livelli dei loro consi-

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52 Per un’eccellente e documentata discussione delle strategie comunicative della guerra contempo-ranea: S. Rampton, J. Stauber, Vendere la guerra. La propaganda come arma d’inganno di massa, Nuovimondi media, Bologna 2003.

53 K. Lydersen, Us Plan for Global Domination Tops Project Censored’ s Annual List, in “Alternet”, 16settembre 2003. Si considerino, per fare un esempio, i dati sulle vittime, civili e militari, in Iraq. Dopo piùdi un anno e mezzo di guerra, i caduti della coalizione superano i 1500, di cui quasi 1300 dopo “la vittoria”del 2003. Si tratta di una cifra ufficiale (Pentagono) che non comprende però i deceduti dopo il trasferi-mento dall’Iraq e i mercenari o gli “addetti alla sicurezza” valutabili intorno al 10% delle forze operative.È pertanto ragionevole ammettere che il numero dei caduti delle forze combattenti dell’alleanza si avvicinialle 2000 unità. Si tratta di una cifra che, se diventasse notizia, attirerebbe l’attenzione del mondo (e soprat-tutto dell’opinione pubblica americana) sulla gestione fallimentare dell’occupazione dopo la facile vitto-ria, o pseudoguerra, della primavera 2003. Per molto meno, e cioè la morte di una ventina di ranger a Mo-gadiscio durante un tentativo maldestro di catturare due luogotenenti di Aidid, Bill Clinton ritirò le forzeUsa dalla Somalia: M. Bowden, Black Hawk Down, Rizzoli, Milano 2002; D. Halberstam, War in Time ofPeace. Bush, Clinton and the Generals, Scribner, New York 2001). Ma questi dati non sono una notizia, peril semplice motivo che i media globali non ne fanno una notizia. Difficilmente questi dati, facilmente repe-ribili sui siti delle organizzazioni pacifiste o di istituti indipendenti di ricerca, usciranno dalla rete, dove so-no disponibili a centinaia di migliaia di navigatori. Internet, tuttavia, non costituisce un palcoscenicoinformativo globale, anche se in certe occasioni (come le mobilitazioni anti-G8 o pacifiste) favorisce unadiffusione ad ampio raggio delle informazioni. La rete, insomma, può spostare settori importanti, anche seminoritari, dell’opinione pubblica mondiale, ma non imporre determinate notizie nell’agenda politico-mediale che resta dominata dai mezzi di informazione come le televisioni e i grandi organi di stampa.

54 Anche dopo che la storia delle armi di Saddam si è rivelata priva di fondamento, i media vicini all’establishment Usa tendono ad assolvere Bush, cioè il governo, attribuendo la responsabilità a dei subordi-nati o cattivi consiglieri: M. Hosenball, M. Isikoff, E. Thomas, Cheney’s long Path to War, in “Newsweek”,17 novembre 2003.

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glieri, degli intellettuali più influenti o semplicemente degli opinionisti il cuiscopo è agitare le acque per vendere articoli o libri. Il saggio di Samuel Hun-tington sullo “scontro di civiltà” (destinato a un pubblico colto) o i pamphletoscurantisti di Oriana Fallaci (che hanno un target più generico) confermanol’opinione secondo cui sarebbe in corso una guerra tra culture e religioni, oun attacco generalizzato del terrorismo contro l’Occidente. Non è affatto ne-cessario che questa opinione sia maggioritaria (di fatto non lo è, se si crede aisondaggi degli istituti di ricerca internazionale, come Eurobarometro). Èsufficiente che sia legittimata, che venga diffusa dai media popolari e quindicostituisca lo sfondo su cui i governi occidentali ancorano le giustificazioni,implicite o esplicite, delle loro strategie.

La militarizzazione della cultura si traduce soprattutto in modi diffusi dipensiero (o di non-pensiero) che non sempre necessitano di espressioni e-splicite. In una guerra, di qualsiasi tipo, il nemico perde ogni connotazionespecifica per divenire esclusivamente un bersaglio da colpire.55 Ora, la gene-ralizzazione dell’ostilità implicita nelle guerre contemporanee – il terroristarimanda all’arabo o all’islamico, lo stato canaglia a tutta la sua popolazioneecc. – rende una porzione rilevante dell’umanità un potenziale bersaglio,deumanizzandola. Nasce qui la sostanziale indifferenza per il destino dellepopolazioni coinvolte nei conflitti contemporanei che emerge quando si è oci si sente in guerra. Pochissime voci si sono levate a denunciare gli effettidell’embargo Onu contro l’Iraq che, a partire dal 1991, ha causato, diretta-mente o indirettamente, la morte per denutrizione o mancanza di cure di unmilione e mezzo di persone. Così come pochi si sono preoccupati delle vitti-me civili delle azioni militari e dei bombardamenti in Somalia, Kosovo, Ser-bia, Afghanistan e Iraq. Massacri, torture, campi di sterminio e sofferenzedei civili vengono esclusivamente chiamati in causa quando avvengono al difuori delle guerre occidentali.56 Come è stato notato da Jacques Derrida, laterminologia politico-militare corrente degrada i nemici a nemici dell’uma-nità (terroristi, canaglie, banditi, criminali quando svolgono un ruolo attivo)o a materia inerte, animali o cose, quando si tratta delle popolazioni “altre”coinvolte nelle nostre guerre.57

La degradazione del nemico conosce sfumature diverse. Si va dalla crea-zione di categorie ad hoc, come quella di “nemico combattente”, con cui sidefiniscono i “terroristi” catturati in Afgahanistan o altrove e internati nellabase americana di Guantanamo,58 alla pura e semplice cancellazione delle

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55 È facile mostrare comunque che questa prospettiva fondata sulla paura rende fragile il sistema chela sostiene, costringendo oggi gli Stati uniti a stare perpetuamente con il dito sul grilletto: A. Joxe, L’impe-ro del caos. Guerra e pace nel nuovo disordine mondiale, cit.; B. Barber, L’impero della paura. Potenza e im-potenza dell’America nel nuovo millennio, Einaudi, Torino 2004.

56 Si tratta di uno strabismo, culturale prima che morale, che mi sembra prevalente nella letteraturaassai diffusa sui diversi tipi di genocidio, come se le “democrazie” fossero per definizione immuni da que-ste pratiche. Si veda, per esempio, S. Power, Voci dall’inferno. L’America e l’era del genocidio, Baldini &Castoldi Dalai Editore, Milano 2002, in cui si attribuisce agli Stati uniti il dovere di intervenire in ogniparte del mondo per impedire o punire i genocidi. Non nasconde invece l’implicazione diretta o indirettadell’Occidente nei genocidi del XX secolo Y. Ternon, Lo stato criminale, Corbaccio, Milano 1997.

57 J. Derrida, Stati canaglia, Raffaello Cortina, Milano 2003.58 C. Bonini, Guantanamo, Einaudi, Torino 2004.

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vittime da parte dell’informazione. Non c’è stata guerra, dal 1991 in poi, incui i vincitori si siano preoccupati di proporre una valutazione delle vittimecivili. L’uso dell’espressione “danni collaterali” per indicare le vittime civilidei bombardamenti esprime perfettamente l’equiparazione degli “altri” es-seri umani a semplici cose coinvolte fatalmente dalla guerra. Questo stile èd’altronde del tutto coerente con la pratica militare della “risposta indiscri-minata”, di cui costituisce in realtà una pura e semplice estensione linguisti-ca. Quando un’unità combattente occidentale è attaccata sul terreno, reagi-sce facendo il vuoto interno a sé. Poiché il nemico è sempre e comunque ter-rorista, si mira a distruggere il suo habitat civile e quindi non solo a colpire“qualunque cosa si muova”, ma anche la popolazione in cui presumibilmen-te si annida. La dinamica dei combattimenti urbani a Mogadiscio (1993), inPalestina, Cecenia e oggi in Iraq è sostanzialmente la stessa.59 Le forze arma-te regolari colpiscono in modo generalizzato i civili, bombardando i santua-ri di terroristi o guerriglieri situati negli agglomerati urbani,60 e quindi cer-cando essenzialmente di “obliterare” ogni appoggio, effettivo o virtuale, alnemico. In questo senso, la tattica occidentale è sostanzialmente speculare aquella dei terroristi, il cui scopo è coinvolgere i civili per mobilitarli contro ilnemico.

Come abbiamo già indicato, si tratta di un caso evidente di guerra asim-metrica, ossia di conflitto in cui una parte dotata di forza schiacciante cercadi distruggere un avversario infinitamente più debole che combatte in modonon convenzionale e “scorretto”.61 Ma l’asimmetria acquista qui un significa-to molto più ampio della sua dimensione militare. In generale, quando l’Oc-cidente combatte si può parlare di un’asimmetria di tipo antropologico. Ladefinizione militare del nemico come barbaro o criminale esclude qualsiasiriconoscimento del suo status di combattente. Di conseguenza, verrà trattatocome un mero problema tecnico, equiparandolo a un disastro o a una piaganaturale, a un’epidemia.62 Si tratta all’apparenza di una riproposizione delmodello razzista delle guerre coloniali e di conquista, i cui esempi estremi so-no costituiti dall’aggressione italiana contro l’Etiopia nel 1936 e dall’invasio-ne nazista dell’Unione sovietica nel 1942. Ma oggi per giustificare la praticadella guerra asimmetrica non è necessaria alcuna teoria esplicita dell’inferio-rità delle razze, come negli anni Trenta e Quaranta, in quanto assumendo chela sola cultura (legittima) sia la nostra, gli altri saranno inevitabilmente consi-derati privi di cultura o portatori di culture abnormi, di mostri culturali (co-me, appunto, il fondamentalismo). Quindi, la guerra asimmetrica non è com-

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59 M.C. Desh, Soldiers in Cities. Military Operations on Urban Terrain, Strategic Studies Institute, UsArmy War College, Carlisle 2001, discute le insuperabili difficoltà del combattimento urbano per un eser-cito convenzionale, anche se dotato delle armi più sofisticate.

60 Il fatto che i combattenti nemici siano raramente definiti guerriglieri offre un’idea della svaluta-zione costitutiva dell’avversario. Si noti che ciò si traduce in un indebolimento delle tattiche antiguerri-glia, poiché impedisce una reale comprensione delle motivazioni, del modo di pensare e quindi di com-battere dei nemici: I. Beckett, Modern Insurgencies and Counter-Insurgencies, Routledge, London-NewYork 1991.

61 Per questa definizione: S. Metz, Strategic Asimmetry, in “Military Review”, 4, luglio-agosto 1997.62 D. Tucker, Fighting Barbarians, in “Parameters. Us Army War College Quarterly”, estate 1999.

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battuta contro uomini diversi ma contro non-uomini. In questo senso, il trat-tamento del nemico è razzista in senso iperbolico, perché non assume la suainferiorità razziale, ma la sua esclusione a priori dal genere umano.63

Normalita della guerra-mondo

Non c’è bisogno di leggere tra le righe dei loro testi per vedere come i consi-glieri del principe americano siano del tutto consapevoli del carattere razzistadei conflitti contemporanei. Il “diritto di fare la guerra” viene oggi proclamatoin base alla pretesa di una superiorità culturale assoluta. 64 La “barbarizzazio-ne” del nemico consente sia di produrre in una larga parte del mondo occiden-tale il consenso sulla guerra permanente, sia di condurre i conflitti senza alcunriferimento alle “forme” giuridiche, alle convenzioni o ai vincoli del diritto in-ternazionale. In questo campo, l’unica formalità è ideologica e ha lo scopo dicondizionare l’opinione pubblica “interna”, giustificando in nome di fini supe-riori (la difesa della nostra civiltà) misure come l’internamento dei prigionierinemici in campi sottratti a qualsiasi controllo, l’uso sistematico della tortura el’impiego di armi di distruzione di massa.65

Se questa è la realtà, è necessario riconoscere che non disponiamo diun’attrezzatura teorica sufficiente a immaginarne gli sviluppi e tanto menocapace di prefigurare possibili vie d’uscita. Un pensiero politico che partadalla centralità della guerra nell’attuale sistema-mondo non è nemmeno agliinizi. Da una parte manca una piena consapevolezza del ruolo che la guerraha svolto e svolge nell’ascesa dell’egemonia occidentale sul globo, prima eu-ropea e poi americana. Dall’altra, se è empiricamente facile individuare le e-spressioni militari del predominio occidentale come si è sviluppato nella fasesuccessiva al 1989, regna l’oscurità o la confusione sulla natura dell’opposi-zione a tale predominio. Credo che non ci si allontani troppo dal vero se sisottolinea che è composita ed eterogenea, in quanto prodotta essenzialmentedall’autonoma logica militarista di quello che si suole definire impero.66 Unalogica che è divenuto corrente definire “eccezionalismo”, sulla scia del dibat-tito tedesco degli anni Trenta sullo “stato d’eccezione”.67 In questa definizio-ne si celano però degli equivoci. Secondo Carl Schmitt (che in questo caso e-

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63 Per una discussione dell’evoluzione dei conflitti del Novecento in questo senso: P. Sloterdijk,Schäume, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004.

64 R. Kagan, Il diritto di fare la guerra, Mondadori, Milano 2004.65 I fini superiori possono essere anche trovati, all’occasione, nei “diritti umani”:. A. Gambino, L’im-

perialismo dei diritti umani. Caos o giustizia nella società globale, Editori riuniti, Roma 2001.66 Nel loro Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (Rizzoli, Milano 2004), Mi-

chael Hardt e Antonio Negri sembrano avanzare l’ipotesi che alla guerra imperiale si opponga una sortadi movimento democratico globale che, dopo una fase di accumulazione paziente di forze, potrà sfociareprima o poi in una sorta di insurrezione generale. Una tesi del genere non è ovviamente confutabile, inquanto si basa su una petizione filosofica di principio. Mi limito a notare che il concetto di “moltitudine”passa sotto silenzio l’estrema eterogeneità (politica, economica, sociale e militare) di chi si oppone alle po-litiche imperiali. In tal modo, la debolezza costitutiva del movimento no-global viene trasformata, con unescamotage teorico, nella sua forza.

67 G. Agamben, Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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stremizzava la definizione weberiana dello stato come detentore del mono-polio della violenza), lo stato d’eccezione è la misura che il beatus possidensdel potere formalmente legittimo può strutturalmente assumere per elimina-re una situazione di guerra civile interna.68 Non si comprende perciò cometale concetto possa estendersi a una condizione planetaria che mai, se nonnella mezza finzione delle istituzioni mondiali come l’Onu, è stata governatada alcun monopolio legittimo della forza. La violenza e la guerra non sonoderive di un ordine legittimo, ma condizioni di normale esercizio del poteresulla scena internazionale.69 Ciò a cui oggi assistiamo è un nuovo tipo di nor-malità. Non si tratta di una mera questione terminologica, ma più semplice-mente dell’intima connessione tra guerra e politica (ed economia) nel nostromondo globalizzato.

Fin quando l’economia-mondo si baserà su ciò che Weber chiamava la“lotta economica per l’esistenza, atroce e priva di compassione, che la fraseo-logia borghese designa come ‘pacifico lavoro della civiltà’”,70 la guerra, inqualsiasi forma – tradizionale o innovativa – sarà l’interfaccia della vita socia-le globale. Per noi, che abitiamo nel recinto più o meno protetto dell’impero,si tratta tutt’al più dell’immersione nella cultura della paranoia e degli echi diboati lontani o vicini. Per tutti gli altri, nemici reali o virtuali, della possibilitàconcreta della distruzione e della morte. Non illudiamoci: un movimento diopposizione globale alla guerra, capace di neutralizzare la natura militaristadei poteri imperiali, è oggi poco più di un’utopia. Spetta a noi, abitanti dellacostellazione imperiale, il dovere teorico e politico di iniziare a decostruire ilrazzismo globale su cui lo stato di guerra attuale si è edificato e che ne identi-fica sempre più esplicitamente il progetto.

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68 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in Id., Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972. MichelFoucault ha mostrato inoltre come il concetto di “stato d’eccezione” possa risalire alla concezione classica(per esempio in Gabriel Naudé) del colpo di stato come misura del monarca per ristabilire l’ordine (M.Foucault, Sécurité, Territoire, Population. Cours au Collège de France. 1977-1978, cit.). È abbastanza cu-rioso che di Schmitt si citi oggi molto meno il saggio sull’ordine internazionale e la guerra, da cui traspareuna sorta di nostalgia per un’epoca in cui la guerra sarebbe stata in qualche modo “in forma”, in sostanzaun gioco cruento regolato per convenzione tra gli antagonisti: C. Schmitt, Il nomos della terra nel dirittointernazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano 2003. La lettura di questo testo (insiemead altri come Terra e mare) indica che Schmitt vede nella supremazia dei mezzi l’avvento di una guerra didistruzione a cui non si possono più applicare le vecchie categorie del diritto internazionale. Non eccezio-nalismo dunque, in questo Schmitt, ma normalità politica della guerra globale.

69 Questo si evince facilmente dal fatto che quando – dopo aver mantenuto un atteggiamento sostan-zialmente ambiguo – Kofi Annan ha definito “illegale” l’aggressione anglo-americana contro l’Iraq, ciònon ha avuto alcuna conseguenza pratica. In questo senso, è più realistico definire la situazione globalecontemporanea come una condizione di anarchia, in cui il potere militare più forte (Usa) cerca non già difondare o sostenere un ordine legittimo, bensì di sfruttare la situazione a suo vantaggio mediante una con-tinua mobilitazione militare. Per la definizione di anarchia internazionale H. Bull, The Anarchical Society.A Study of Order in World Politics, Macmillan, London 1995.

70 M. Weber, Zur Politik im Weltkrieg. Schriften und Reden 1914-1918, cit., p. 41.

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In ogni situazione e di fronte a chiunque il sin-golo può diventare il prossimo – rivelando cosìi suoi tratti originali, la sua nascita principesca.In origine la nobiltà consisteva nell’offrire pro-tezione dalla minaccia di mostri e demoni. Èciò che tutt’ora distingue un carattere superio-re: ed è quanto ancora risplende nella figuradel secondino che passa di nascosto al prigio-niero il tozzo di pane. Questi gesti non posso-no andar perduti: il mondo intero ne vive. So-no i sacrifici su cui esso poggia.1

Il secolo della notte della guerra della morte

La filosofia contemporanea quando non tace, come spesso accade, vacilla neltentativo di comprendere l’idea della guerra, nonostante proprio la guerra inversione calda, fredda o covante sotto le ceneri abbia rappresentato l’eventoche più ha segnato la storia del Novecento, sul piano politico, economico, so-ciale, giuridico. Con la fine della separazione del mondo in blocchi contrap-posti le domande intorno alla guerra si sono moltiplicate, così come i modi incui gli eventi bellici si manifestano: “guerra umanitaria”, “guerra chirurgi-ca”, “operazione di polizia internazionale”, “guerra giusta”, “guerra preven-tiva”, “guerra al terrorismo”, “guerra di pacificazione”, “guerra di civiltà”.Ma che cosa diciamo quando usiamo queste parole? Quale è la genealogia

1 E. Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 1990, pp. 115-16.

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LA MOBILITAZIONE GLOBALELo spazio planetario della guerra in Ernst Jünger

di Maurizio Guerri�

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che sta alla base di locuzioni ampiamente contraddittorie o ambigue come“guerra umanitaria” e “polizia internazionale”?

Jan Patocka, pochi anni prima che un’emorragia cerebrale provocata daun “interrogatorio” della polizia ceca ponesse fine nel 1977 alla sua vita, ave-va assunto come questione filosofica fondamentale la domanda relativa alsenso e alla funzione della guerra all’interno della storia occidentale: percomprendere il senso delle guerre contemporanee è necessario che esse sianoposte in relazione con la Prima guerra mondiale e ancor di più occorre cheesse siano concepite come il periodico riemergere di una guerra che iniziatanel 1914 non si è mai conclusa.

In Le guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra (1975) Patocka osser-va che, se si escludono rare eccezioni, i tentativi ottocenteschi e novecente-schi di comprendere la guerra sono funzionali al “punto di vista della pace,del giorno e della vita”.2 Se interpretata in questo modo, la Prima guerramondiale si mostra al pari di ogni altro conflitto solo come “una pausa spiace-vole ma necessaria di cui bisogna farsi carico in vista di determinati scopi pro-pri della continuità della vita, ma nella quale non c’è nulla da cercare di posi-tivo”.3 Patocka ritiene invece che per comprendere la Prima guerra mondialesia necessario cercare in essa qualcosa di “positivo”, poiché senza dubbio laguerra rimane il “fenomeno fondamentale di questo XX secolo”.4 Occorrecioè imparare a vedere come la Prima guerra mondiale contenga in se stessaun “valore esplicativo”, come possegga il “valore di esprimere senso”.5 È pro-prio la capacità di visione della “positività” del conflitto mondiale che risultaessere “sostanzialmente estranea a tutte le filosofie della storia e pertanto atutte le interpretazioni della guerra mondiale che ci sono note”.6 Sia che si ri-corra all’idea di uno scontro tra la civiltà slava e quella tedesca, sia che la sispieghi come “conflitto imperialistico insorto all’ultimo stadio del capitali-smo”,7 oppure quale “risultato dell’esagerato soggettivismo moderno che siobiettivizza con violenza”8 ci si perde in interpretazioni che tentano vana-mente di ricondurre il senso del conflitto mondiale a fini ideali esterni al con-flitto stesso. Tutte queste chiavi di lettura perdono di vista la questione relati-va alla comprensione della Prima guerra mondiale e tendono invece a rende-re funzionale l’evento bellico a uno degli “ideali del giorno e della pace” sorti

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2 J. Patocka, Le guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra, in Id., Saggi eretici sulla filosofia dellastoria, Cseo, Bologna 1981, p. 144. Sull’interpretazione patockiana della guerra e sulla sua funzione nellastoria europea si rinvia innanzittutto ai fondamentali studi di G. D. Neri, L’Europa dal fondo del suo decli-no, e La guerra in Id., Il sensibile, la storia, l’arte. Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003; nonché adA. Pantano, Una riflessione filosofica a partire dal mondo naturale, in J. Patocka, Il mondo naturale e la fe-nomenologia, Mimesis, Milano 2003. Si vedano anche le seguenti raccolte di studi: E. Tassin, M. Richir (acura di), Jan Patocka. Philosophie, phénoménologie, politique, Millon, Grenoble 1992; D. Jervolino (a curadi), L’eredità filosofica di J. Patocka, Cuen, Napoli 2000; M. Guerri, Dalla civiltà europea alla “pedagogiadelle bombe”. “La guerra” di G. D. Neri e “Le guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra” di J. Patocka, in“Materiali di estetica”, 10, 2004.

3 J. Patocka, Le guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra, cit., p. 144.4 Ibid.5 Ibid6 Ibid.7 Ivi, p. 143.8 Ibid.

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nel XIX secolo. “Tutt’al più”, scrive Patocka, la guerra così come è vista daHegel o da Dostoevskij “può servire a determinare quelle scosse salutari dicui la vita civile ha bisogno per non irrigidirsi e non addormentarsi nella rou-tine”.9 In tutte queste letture emerge una concezione della “vita” e della “sto-ria” quale “continuum” temporale in cui l’evento bellico appare come sem-plice passaggio sulla via del raggiungimento di uno degli “ideali del giorno edella pace”, come un istante infelice ma necessario per l’emancipazione del-l’essere umano, come uno sforzo doloroso ma finalizzabile al progresso delgenere umano. Non si tratta di affermare che “non è necessario rifarsi al pe-riodo precedente” per comprendere la Guerra mondiale, ma “sulla base di i-dee, dei programmi e degli scopi dell’epoca precedente è possibile spiegaresoltanto l’insorgere di quella terribile volontà [...] che ha spinto innumerevolialtri milioni di uomini a dedicarsi alla preparazione immensa e incessante diquesto monumentale autodafé”.10 In base agli ideali del giorno e della pace“non è possibile spiegare il contenuto di questo secolo e il suo sprofondarenella guerra”.11 La miopia o addirittura la cecità che sorprendono il pensieroche va alla ricerca del senso delle guerre contemporanee discenderebberodunque da un errore di prospettiva considerando il quale è possibile com-prendere la ragione per cui, proprio nel “secolo della notte della morte e dellaguerra”, la guerra sia la questione meno direttamente presente al pensierostesso: non si tratta di comprendere la Prima guerra mondiale con la “logicadel giorno e della vita” escludendo dalla visione “i suoi aspetti oscuri e not-turni”,12 ma di spingere la filosofia e il pensiero nel suo complesso a fissare losguardo nella “guerra”, nella “notte” e nella “morte”, fino al punto di rifon-dare sé stessa, fino a operare una “trasvalutazione di tutti i valori”, proprio apartire dalla comprensione “positiva” dell’evento bellico che secondo moda-lità differenti attraversa tutti gli ambiti della vita dell’uomo contemporaneo.In questo modo i luminosi ideali del giorno iniziano a mostrare il loro lato o-scuro e ad apparire quali mere giustificazioni ideologiche di un processo do-minato dalla “nuda Forza”. La Prima guerra mondiale se compresa in quantoevento dotato di un proprio senso, si caratterizza quindi per l’emergere di unnuovo tipo di rapporto tra l’essere umano e l’elementare. La novità di questorapporto, il suo non essere più dominabile dalla forme borghesi della “vita” edella “pace” è ciò che risulta determinante per la comprensione della dimen-sione epocale della Prima guerra mondiale. Solo se fissiamo l’occhio sullaguerra mondiale non potrà sfuggirci che il XX secolo è il “secolo della notte,della guerra e della morte”.13 Per questa ragione parlare delle guerre del XXsecolo significa concepire il XX secolo come il secolo della guerra, come l’epo-ca in cui la guerra irrompe nella normalità del giorno.

È proprio in riferimento a tali questioni che Patocka ritiene necessario ri-volgersi a Jünger come all’autore che ha saputo pensare l’elemento “positi-

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9 Ivi, p. 144.10 Ibid.11 Ibid.12 Ibid.13 Ivi, p. 144.

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vo” dell’evento bellico mondiale, riuscendo così a valutarne la dimensione“cosmica” ed “epocale”, il suo caratterizzarsi come “fondamentale muta-mento nell’esistenza umana”,14 o come scrive Jünger in Ueber den Schmerzen(1934) quale assoggettamento dell’uomo a una “nuova legalità”.15

La dimensione globale della guerra

La vita di Ernst Jünger è stata fino alla fine del secondo conflitto mondialeun’esistenza in guerra: Carl Schmitt fino all’ultimo giorno di un lungo rappor-to di amicizia non cessò mai di chiamare l’amico Ernst “il capitano”. Nel 1913Ernst Jünger si arruola nella Legione straniera, a diciannove anni combattecome fuciliere nella Prima guerra mondiale, è ferito 14 volte e in più occasionidato per morto; nel 1918 gli viene conferita la croce dell’Ordre Pour Le Méri-te. Negli anni Venti è attivo nei circoli nazionalistici antiweimariani, ma soloqualche anno più tardi rifiuta un seggio in parlamento offertogli dalle camiciebrune e l’ingresso nella cerchia dei “poeti ufficiali” della Germania, declinan-do l’invito a diventare membro della Deutsche Akademie der Dichtung. Apartire dal 1934 cessa ogni forma di collaborazione con le riviste nazionalisti-che. Nel 1939 pubblica il famoso romanzo Auf den Marmorklippen che è su-bito inteso dalle alte sfere del potere politico come un attacco al regime. Par-tecipa alla Seconda guerra mondiale ed è decorato con la croce di ferro al me-rito militare. Nel 1942 è proibita la pubblicazione del diario Gärten und Stras-sen. Il volume Der Friede (1944) deve circolare clandestinamente. Dalla finedella guerra sino al 1949 le autorità di occupazione fanno divieto a Jünger dipubblicare. Grazie anche all’intervento di intellettuali come Bertolt Brecht eHannah Arendt, Ernst Jünger può in seguito tornare attivamente alla propriavita di scrittore. Dagli anni Cinquanta fino alla morte ha condotto un’esisten-za dedita alla calma degli studi nel piccolo villaggio di Wilflingen.

Se è dunque facile aspettarsi che il tema della guerra sia ampiamente pre-sente nella opere del “capitano” Jünger sotto forma di ricordo diaristico ocome metafora di un’eterna condizione umana, non è ovvio che essa emergacome questione filosofica, ossia che la guerra sia assunta, secondo la pene-trante visione di Patocka, in modo “positivo”, quale evento in se stesso dota-to di “senso”. Nel primo paragrafo di Die totale Mobilmachung (1930)16 Jün-ger precisa infatti che la trattazione eviterà accuratamente di occuparsi dellaguerra in senso universale, quale “materia pura dell’emozione”: come la di-versità dei “paesaggi” che circondano lo Hekla e il Vesuvio “tende a svanirequanto più ci si avvicina alle fauci incandescenti del cratere”,17 così svanisco-no le differenze relative ai “mezzi” e alle “idee”, qualora si intenda osservare

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14 Ivi, p. 148.15 E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 173.16 Per una analisi delle diverse edizioni dello scritto Die totale Mobilmachung (1930, 1941, 1942, 1963,

1980) si veda C. Galli, Al di là del progresso secondo E. Jünger: “magma vulcanico” e “mondo di ghiaccio”,“il Mulino”, 5, 1985.

17 E. Jünger, La mobilitazione totale, in Id., Foglie e pietre, cit., p. 113. Sui temi plutonici e labirintici

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la guerra quale “nuda lotta per la vita e per la morte”. Ma per Jünger la que-stione fondamentale è invece quella di guardare e di comprendere i “paesag-gi” che danno forma alla superficie e quindi di riuscire a “raccogliere alcunidati che distinguono l’ultima guerra, la nostra guerra, il maggiore e più fataleevento di quest’epoca, da tutte le altre guerre di cui la storia ci ha tramandatoil ricordo”.18 Già nel 1925 Jünger aveva sottolineato l’importanza di fissare lospecifico tratto espressivo della “facies bellica”19 di ogni guerra perché

lo stile di un’epoca si manifesta in battaglia con la stessa chiarezza con cui si rivela inun’opera d’arte o nel volto di una città. Per tale ragione nessuna guerra è uguale al-l’altra, in ciascuna si combatte in nuove forme e con nuovi mezzi in vista di nuovi o-biettivi, e in ciascuna fa la sua entrata sulla scena cruenta degli eventi un nuovo tipod’uomo.20

Nel modo specifico di conduzione delle battaglie si esprime dunque lo “stiledi un’epoca” e con esso il “tipo d’uomo” che compare sulla scena della sto-ria. Quale sia lo “stile” bellico che si forma in Europa nel corso della Primaguerra mondiale emerge da una delle più nitide definizioni jüngeriane di to-tale Mobilmachung: la Mobilitazione totale è “un atto con cui il complesso eramificato pulsare della vita moderna viene convogliato con un sol colpo dileva nella grande corrente della energia bellica”.21 In questa sintetica defini-zione si coglie quel rovesciamento di prospettiva illustrato con precisione daPatocka: non si tratta di guardare alla guerra dal punto di vista degli “interes-si del giorno e della pace” o secondo prospettive estranee a una comprensio-ne “positiva” della guerra stessa, ma di riuscire ad analizzare secondo qualimodalità e con quali risultati tutta l’esistenza umana sia diventata effettiva-mente riconducibile a uno specifico stile della guerra.

Non solo un aspetto della vita, lo stato di guerra, ma la “vita moderna”nella sua totalità viene declinata sub specie bellica e alla guerra resa funziona-le. Questo significa in primo luogo che ogni ambito della vita attiva è reso u-tilizzabile per la guerra: “Accanto agli eserciti che si scontrano sui campi dibattaglia nascono i nuovi eserciti delle comunicazioni, del vettovagliamento,dell’industria militare: l’esercito del lavoro in assoluto”.22 La Mobilitazionetotale non implica solo una “disponibilità”23 illimitata del materiale utilizza-bile per scopi bellici, bensì muta il concetto stesso di utilizzabilità, in funzio-ne del sistema del lavoro. Questa mutazione è riscontrabile sul piano indivi-duale nella descrizione della figura del soldato. Per il dispiegamento dellaMobilitazione totale “non è più sufficiente armare il braccio” ma è necessa-rio “un armamento che arrivi fino al midollo, fino al più sottile nervo vita-

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nella letteratura della Guerra mondiale (compresi gli scritti jüngeriani) si veda E. J. Leed, Terra di nessu-no. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, cit., pp. 184-215.

18 E. Jünger, La mobilitazione totale, in Id., Foglie e pietre, cit., pp. 113-14.19 E. Jünger, La battaglia di materiale, in Id., Scritti politici e di guerra (1919-1933), Libreria editrice gorizia-

na, Gorizia 2003, vol. I, p. 65.20 Ibid.21 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 119.22 Ivi, p. 11823 Ivi, p. 122.

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le”.24 Sul piano individuale il simbolo e il modo effettivo di operare dellaguerra non è più rappresentato dal solo braccio che usa l’arma: ora è la tota-lità dell’individuo, il suo corpo e la sua anima, che sono disponibili a essereutilizzati come arma. Tutto ciò è reso possibile dalla sua totale sottomissionealla “legalità” del sistema del lavoro. Analogamente, sul piano collettivo lamassa non è sufficiente che sia coinvolta in senso “nazionalistico”, bensì ènecessario che si muti in “massa disciplinata” e cioè che sia assolutamente“disponibile” a funzionare per i nuovi scopi bellici secondo le leggi del lavo-ro, da intendersi secondo la visione jüngeriana esposta in Der Arbeiter (1932)non nei termini di semplice “attività tecnica”25 ma quale “totalità dell’esi-stenza” che “è in atto anche nei sistemi della scienza”.26 Come spiegava Jün-ger nelle “Annotazioni al Lavoratore” pubblicate nel 1964:

La giornata lavorativa si compone di ventiquattro ore; pertanto la distinzione tratempo del lavoro e tempo libero diventa secondaria. Quando lascia il posto di lavorol’essere umano accede a un’altra funzione del sistema trasformandosi di volta in vol-ta in consumatore, in utente della rete di trasporto o in fruitore di informazioni.27

Il fatto che Jünger parli di “esercito del lavoro in assoluto” non è casuale: lamassa borghese solo trasformandosi in massa che opera secondo le leggi dellavoro cioè in “carne disciplinata e uniformata”28 assume la disponibilità nonpiù a ordinarsi secondo secondo un sistema stabile, ma a funzionare secondoil processo di dispiegamento della forza, a vivere in conformità alle leggi del-la mobilità e del rischio al punto che la guerra non ha più uno spazio limitatonell’ordine dello stato, ma occupa illimitatamente le membra del singolo edella collettività. La Mobilitazione totale in quanto riconduzione di tutta lavita sub specie bellica non è solo descrivibile a livello “negativo” come meradistruzione dei vecchi confini tra campagna e città, tra umano e materiale, traarmamento regolare o irregolare, tra dimensione convenzionale e non con-venzionale dello scontro armato, ma è concepibile in modo “positivo”, comeconfigurarsi di un nuova dimensione spazio-temporale dominata dalla nor-malità della guerra che scorre nel corpo della collettività. Carlo Galli ha os-servato che Mobilitazione totale “significa essenzialmente che la prospettivae la rappresentazione della guerra governano anche lo stato di pace”, ovveroche il ritmo della Mobilitazione “è anche politica della mobilitazione, e chetale politica ha per scopo essenziale la potenza, la possibilità della guerra”.29

Ma questo frenetico ritmo imposto dal processo di Mobilitazione tende acaratterizzarsi come epoca definitivamente temporanea in quanto da fase ec-cezionale tende a cristallizzarsi in situazione normale, la condizione mo-struosa lascia intravedere una legge, dietro la dismisura si scorge una misura.

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24 Ivi, p. 118.25 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991, p. 82. 26 Ivi, p. 83.27 E. Jünger, Maxima-Minima. Adnoten zum ”Arbeiter“, Klett-Cotta, Stuttgart 1983, p. 46.28 E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., § 15, p. 18129 C. Galli, Ernst Jünger: “La mobilitazione totale” e il nichilismo, in L. Bonesio (a cura di), E. Jünger e

il pensiero del nichilismo, Herrenhaus, Seregno 2002, p. 75.

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Dunque, secondo Jünger l’eccezionale irruzione della logica della guerra nel-la politica finisce per rappresentare l’ingresso dell’esistenza umana in unnormale “nuovo modo di vivere che ha per oggetto l’orbe terrestre”.30 Inquesto senso la figura del Lavoratore fa la sua apparizione in un’altra dimen-sione spazio-temporale.

Carl Schmitt ha colto fino in fondo la Mobilitazione totale quale rivolu-zione spaziale osservando la funzione svolta dall’aeronautica nella meta-morfosi della guerra e la sua funzione all’interno della “storia del mondo”.Con il volo meccanico oltre alla terra e al mare la guerra conquista un ulterio-re elemento, l’aria, con un effetto “rivoluzionario” tale che, come si legge inLand und Meer (1942), l’aeronautica arriva a essere definita come “arma spa-ziale”: “L’effetto di rivoluzione spaziale che ne deriva, infatti, è particolar-mente forte, immediato, manifesto”.31 Ma, appunto, non si tratta di un meroaumento quantitativo dei luoghi deputati agli scontri armati, quanto piutto-sto di una conquista di un nuovo elemento che esprime l’avvenuta trasforma-zione dello concezione dello spazio in quanto tale: rendere disponibile lospazio come spazio della guerra in forza della diffusione totale della logicadel lavoro:

Oggi non concepiamo più lo spazio come una mera dimensione in profondità, vuotadi qualsiasi contenuto pensabile. Lo spazio è diventato per noi il campo di forze dell’e-nergia, dell’attività e del lavoro dell’uomo. Soltanto oggi diventa per noi possibile unpensiero che in ogni altra epoca sarebbe stato impossibile, e che un filosofo tedescocontemporaneo ha così espresso: non è il mondo a essere nello spazio, bensì è lo spa-zio a essere nel mondo.32

Questa inedita concezione dello spazio come “campo di forze dell’energia”ovvero del “lavoro” corrisponde all’annullamento di ogni confine interno almondo di ieri e al configurarsi di una nuova spazialità planetaria attraversatain ogni ambito dal moto di dispiegamento della Mobilitazione totale. Lo spa-zio mobilitato dal Lavoratore si pone come dimensione altra rispetto al luogocorporeo della civiltà greca, allo spazio assoluto e vuoto della scienza newto-niana o allo spazio come forma della conoscenza sensibile di Kant: le cosenon sono più conoscibili secondo l’esperienza umana, ma esistono nella mi-sura in cui sono ridotte a enti disponibili a diventare “puro oggetto” dell’e-sperimento umano, del suo “lavoro”. Lo spazio diventa così funzionale allosperimentalismo tecno-scientifico. Questa “tendenza” allo sperimentalismoè descritta sul piano dell’“astrattezza” e dell’insensatezza della comunicazio-ne mass-mediatica nel saggio Ueber den Schmerz:

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30 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, cit., p. 81; ma si veda anche Sul dolore, cit., p. 179.31 C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002, p. 107. Su

questo tema cfr. anche C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum euro-paeum”, Adelphi, Milano 1991, pp. 417-29.

32 C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 109. Il “pensiero” cui Schmitt si riferisce è il seguente: “Né lo spazioè nel soggetto, né il mondo è nello spazio. È piuttosto lo spazio ad essere ‘nel’ mondo, perché l’essere-nel-mondo, costitutivo dell’Esserci, ha già sempre aperto lo spazio”: M. Heidegger, Essere e tempo, Longane-si, Milano 1976, p. 145.

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C’è in noi una tendenza, strana e difficile da descrivere, a conferire all’evento vivo ilcarattere di un preparato scientifico. [...] In molti casi l’avvenimento stesso spariscedietro la sua “trasmissione”, e diventa perciò un puro oggetto. Abbiamo visto cosìprocessi politici, sedute parlamentari o gare sportive il cui unico significato è quello diessere trasmesso su scala planetaria. L’avvenimento non è più legato a uno spazio o untempo particolari, poiché lo si può riprodurre a piacere e infinite volte in ogni luogo.33

Circa la rivoluzione temporale connessa alla figura del Lavoratore la questio-ne è ampiamente affrontata da Jünger soprattutto in Der Sanduhrbuch(1954) e An der Zeitmauer (1959): basti ricordare come in Il libro dell’orolo-gio a polvere l’orologio meccanico appaia come la macchina che a differenzadi gnomoni e clessidre non misura gli attimi, ma produce attraverso la so-spensione di tutte le forze naturali quel tempo assolutamente uniformato(“nell’orologio meccanico si compenetrano movimenti uniformi e uniforme-mente periodici”)34 che è il tempo del Lavoratore. In particolare nella so-spensione della forza di gravità interna al meccanismo dell’orologio è conte-nuto, scrive Jünger, “se non il motivo conduttore della nostra cultura, per lomeno uno dei tratti che la contraddistinguono e la differenziano da tutte lealtre”.35 Qui si assiste alla produzione di un tempo definitivamente astratto eal rovesciamento del rapporto tra uomo e lavoro: non è più la presenza uma-na a qualificare il lavoro, ma la obiettiva tabella di marcia del lavoro automa-tizzato che prescrive la presenza all’uomo. Il tempo del Lavoratore è univer-salmente valido e impiegabile, proprio in quanto produzione seriale dell’in-distinto e dell’insensato, in quanto tempus mortuum:36 così esso diventa tem-po assoluto e planetario, in forza della eliminazione dei contenuti rituali checircolarmente tornano e del venire in primo piano della pura processualità a-stratta e obiettiva.

La facies bellica del lavoratore

L’indissolubile rapporto di “guerra” e “lavoro” nonché l’emergere all’inter-no del “sistema-lavoro”37 di una nuova dimensione spazio-temporale costi-tuisce il nucleo centrale della Mobilitazione totale. Il passaggio dalla Mobili-tazione parziale alla Mobilitazione totale viene infatti descritta da Jünger co-me la “dissoluzione dell’individuo borghese prodotta dal tipo umano del La-voratore”38 che si conclude con l’aprirsi di un altro universo spazio-tempora-le. Con il compiersi di questo processo i confini che definivano gli ambitispecifici del potere politico e della forza economica e la loro relazione con laforza militare sono svaniti e con ciò la storia della guerra come “azione arma-ta” limitata si conclude: ora “l’immagine stessa della guerra finisce per sfo-

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33 E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., p. 177.34 E. Jünger, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994, p. 101.35 Ivi, p. 74.36 Ivi, p. 127.37 E. Jünger, Sul dolore, cit. p. 181.38 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, cit., p. 109 (tr. it. modificata).

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ciare in quella ben più ampia, di un gigantesco processo lavorativo”.39 Del re-sto, come si è avuto modo di ricordare in precedenza, il passaggio dalla singo-la azione isolata alla serie dei processi già rende possibile la comprensione del-la differenza essenziale fra le antiche technai e la tecnica contemporanea,40 edunque tra lo spazio limitato dell’arte della guerra e l’illimitatezza della vio-lenza nella Mobilitazione totale.

È dunque il lavoro la forza che scardina l’ordine statico delle antiche te-chnai e con esso il vecchio gioco della guerra, trasformando il terreno dellavita civile in smisurato campo di battaglia, al punto che la figura assunta dallacollettività è quella di essere in generale “esercito del lavoro”: ora l’“ampiez-za” dello spazio della guerra è perfettamente sovrapponibile a quello della“massa disciplinata” dei lavoratori. Diventa così “sempre più arduo stabilirein quali luoghi venga compiuto il lavoro decisivo della guerra”, perché “ilfronte della guerra e il fronte del lavoro sono identici”.41 Lo stato di pace el’azione armata si fondono in unico processo lavorativo. Ciò non significa chetutti i lavoratori siano sempre coinvolti in azioni armate, ma che tutti rico-prono “almeno indirettamente un significato bellico”, che ognuno indipen-dentemente dallo stato di guerra o di pace è “energia potenziale” disponibileper l’esercizio della guerra, ovvero che la guerra come processo è sempre atti-va in ogni punto del “sistema-lavoro”. La questione più importante è rappre-sentata dall’idea che l’“esercito del lavoro” costituisca il definitivo svuota-mento di senso della contrapposizione tra guerra e pace, poiché l’essenzadella “massa disciplinata” al lavoro risiede nella convertibilità della funzionedel lavoratore in quella del soldato e viceversa. Nel mondo dominato dallaforza della Mobilitazione totale “l’immagine dell’evento bellico è già inscrit-ta nell’ordine che regola lo stato di pace”,42 laddove per “evento bellico” nondobbiamo intendere più la guerra come “azione armata” e lo “stato di pace”come condizione di vita civile che si oppone alla guerra, ma due momenti diun unico processo “in accelerazione” egualmente funzionali al dispiegamen-to della Mobilitazione totale. Per questo nel saggio Sul dolore Jünger defini-sce il motto “ultima ratio legis” inciso sui cannoni tedeschi puntati sui frontidella Prima guerra mondiale niente più che un “semplice ricordo”.43 A parti-re dalla Prima guerra mondiale la nota tesi clausewitziana ha perduto la ca-pacità di spiegare ciò che nella guerra accade: da allora assistiamo piuttostoal suo “rovesciamento”, ovvero ci troviamo nella condizione in cui “la politi-ca è la continuazione della guerra con altri mezzi”.44 La politica perde la ca-pacità di controllare e limitare la guerra poiché tutte le costruzioni politiche

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39 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 118.40 “Gli antichi non progettarono macchine più complesse di quelle che la nostra meccanica definisce

‘semplici’. Potremmo chiamarle piuttosto dispositivi, cioè un complesso di strumenti. [...] Non solo era laforza muscolare di uomini e cavalli a sostenere la parte più importante del lavoro, ma si trattava di inter-venti singoli e ben distinguibili. Si trattava di azioni, non di processi”. (E. Jünger, Il libro dell’orologio a pol-vere, cit., p. 123, corsivi nostri).

41 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, cit., p. 103.42 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 119.43 E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 172.44 A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con E. Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 83.

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della modernità vengono svuotate di senso e rese funzionali al dispiegamentodella Mobilitazione totale. L’“energia bellica” è indifferentemente operantenei diversi punti dello spazio planetario del Lavoratore. Nell’“impiego asso-luto dell’energia potenziale, che trasforma gli stati industriali belligeranti infucine vulcaniche, si annuncia nel modo forse più evidente il sorgere dell’etàdel lavoro: esso fa della Guerra mondiale un evento storico più siginificativodella Rivoluzione francese”.45

Quando osserviamo i “fenomeni” che si accompagnano all’emergeredella figura dell’Arbeiter non dobbiamo pensare tanto al valore che ricopro-no all’interno della sfera tecnica, quanto porre attenzione al loro essere e-spressioni di un “nuovo modo di vivere”: che questo sia l’aspetto determi-nante, scrive Jünger in Ueber den Schmerz, “risulta evidente dal fatto che ilcarattere strumentale non si limita all’ambito proprio dello strumento matenta di sottomettere lo stesso corpo umano”.46 Il lavoro attraverso la Mobi-litazione totale tende a esercitare un “dominio” (non più leggibile secondole categorie politiche moderne) che dà una nuova forma alle cose, diventacioè la forma dell’effettualità, il modo in cui si manifesta qualsiasi eventoche esiste e ha senso. Per questa ragione secondo Jünger la Mobilitazionetotale non può essere concepita come qualcosa che tende a compiersi secon-do una finalità a essa esterna, come una “misura” che debba essere eseguita,ma come qualcosa che “si compie da sé”.47 Carlo Galli ha spiegato con e-strema chiarezza che “la Mobilitazione totale [...] non è agita dalla raziona-lità rivolta allo scopo ma [...] dell’assenza di fini si fa un fine, [...] viene dopoil progresso e non è un fatto ideologico, ma la condizione formale per conte-nuti differenziati”.48

Un’ulteriore messa a fuoco della valenza illimitata, impersonale e ateleo-logica della totale Mobilmachung, il suo costituire un radicale mutamentodell’esistenza dell’uomo e del suo complessivo rapporto con le cose viene dalconfronto di Jünger con la nozione heideggeriana di Gestell.49 Jünger in Ander Zeitmauer intende riferirsi al Gestell quale “circostanza” o “scenografia”:“Il suo lato economico, trainante e connesso alla potenza, non ha un signifi-cato interiore per l’uomo. Il suo compito precipuo consiste nell’additare econdurre in una direzione”.50 In modo consonante alla lettura jüngeriana,Patocka in Liberté et sacrifice spiega che il Gestell non deve essere confuso

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45 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 118.46 E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 179. 47 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 12148 C. Galli, Ernst Jünger: “La mobilitazione totale” e il nichilismo, in L. Bonesio (a cura di), E. Jünger e il pen-

siero del nichilismo, cit., pp. 71-72.49 Il termine Gestell è reso con “imposizione” da Gianni Vattimo (cfr. la nota terminologica in M. Hei-

degger, La questione della tecnica, in Id. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976-1985, p. 14, n. 1) e “impian-to” da Franco Volpi (cfr. F. Volpi, Glossario, in M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 19952, pp.1003-04). La trattazione più ampia del concetto di Gestell è nella seconda conferenza di Brema (1949) in-titolata appunto Das Ge-Stell (in M. Heidegger, Gesamtausgabe, 79, Klostermann, Frankfurt a. M. 1975 esgg., pp. 24-45), ma si vedano oltre la già citata conferenza La questione della tecnica, anche Nietzsche, cit.,e lo scritto del 1957 Identità e differenza, in “aut aut”, 187-188, gennaio-aprile 1982, pp. 2-38.

50 E. Jünger, Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2000, p. 165. Un altro importante accenno alla no-zione heideggeriana di Gestell in E. Jünger, La forbice, Guanda, Parma 1996, p. 52.

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con un ente di natura tecnica, economica, sociale o altro, ma “è un modo dicomprensione di ciò che è, il modo in cui le cose e il mondo ci appaiono ainostri giorni”.51 Analogamente il lato tecnico e il lato economico, nonchél’assenza o la presenza di azioni armate non sono gli aspetti decisivi della Mo-bilitazione totale. Questo ordine di problemi riguardano solo particolari mo-di di manifestazione, condizioni contingenti in cui di volta in volta si realizzala “disponibilità”52 alla totale Mobilmachung. La guerra della Mobilitazionetotale segna in questo senso una svolta rispetto a tutta la storia mondiale del-la guerra: da “azione armata” limitata diventa “situazione” illimitata.53 Èproprio questa uniforme e illimitata “disponibilità” all’interno delle singolenazioni che costituisce il senso più profondo della Prima guerra mondiale at-tribuendo a questo evento, scrive Jünger, un aspetto di “natura cultuale”.54

Così come, per quanto “illuminanti”, le spiegazioni di genere economico sirivelano “inadeguate” per esprimere il senso profondo di “imprese” quali lacostruzione delle piramidi egizie o delle cattedrali gotiche, analogamentel’“apparire senza scopo” della Mobilitazione totale può essere compreso so-lo se concepito quale evento “di tipo cultuale”.

Jünger, in particolare, pensa al “progresso” come alla “grande religionepopolare del XIX secolo”, attraverso cui diventa comprensibile la smisuratapotenza del “richiamo che con la sua efficacia poteva conquistare le masse al-la causa dell’ultima guerra, realizzando la parte decisiva, quella religiosa, del-la Mobilitazione totale”.55 Le “grandi parole d’ordine” che richiamavano allaguerra, pur distinguendosi per la loro diversa ascendenza ideologica, per idifferenti progetti politici a cui miravano, risultavano tutte conformi circal’appello alla Mobilitazione espresso nel “contenuto di progresso”. Terribilenel suo nitore è l’immagine creata da Jünger per definire il modo in cui le di-verse parti politiche hanno tutte indistintamente richiamato le masse allaMobilitazione appellandosi con le loro “parole d’ordine” alla “fede” nel pro-gresso:

Per quanto queste parole d’ordine possano apparire rozze e chiassose, non ci sonodubbi sulla loro efficacia: esse ricordano quei pezzi di stoffa colorata con cui nellebattute di caccia, si attira la selvaggina verso le bocche da fuoco.56

Sotto questo aspetto non c’è nessuna differenza essenziale tra le forze politi-che e gli schieramenti nazionali in campo nella Prima guerra mondiale: esistesolo una differenza tra chi si è reso già disponibile alla Mobilitazione totale echi più o meno consapevolmente difende l’antica sicurezza borghese desti-nata a essere spazzata via dalla guerra, tra nazioni che hanno già trasposto laloro forza in “energia bellica”, potendo sfruttare “il vantaggio dei paesi ‘pro-

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51 J. Patocka, Liberté et sacrifice. Ecrits politiques, Millon, Grenoble 1990, p. 279. 52 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 122.53 Sulla “condizione di guerra globale” come “situazione”: C. Galli, La guerra globale, Laterza, Roma-

Bari 2002, pp. 84 e sgg.54 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 123.55 Ibid.56 Ibid.

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grediti’”57 e nazioni come la Germania che invece pretendono di opporre al-l’operante forza della Mobilitazione totale i valori ideali della Kultur o l’ideo-logia del progresso della Zivilisation. Scrive Jünger:

La Germania doveva inevitabilmente essere sconfitta [...] perché pur avendo prepara-to con tutto lo scrupolo possibile la sua mobilitazione parziale continuava a precluder-si la via di quella totale, e perché l’intima natura della sua macchina bellica le consenti-va di raggiungere, sopportare e soprattutto sfruttare solo un successo di proporzionilimitate.58

Ma per gli Stati uniti, nazione retta da un regime costituzionale democratico,la “mobilitazione poté procedere con misure di una drasticità che era risulta-ta impossibile in uno stato militare come la Prussia”.59 Questo per Jünger ècomprensibile poiché “già durante il conflitto non era più in questione seuno stato fosse o meno uno stato militare, ma in che misura fosse capace dimettere in atto la Mobilitazione totale”.60 Il tipo di regime politico in quantotale è indifferente per il dispiegarsi della Mobilitazione totale.61 Ciò che con-ta è solo la maggiore plasmabilità e dunque la minore stabilità delle figurepolitiche62 che un sistema è in grado di produrre. In questo senso il “liberali-smo” democratico appare come la condizione politica più adeguata: la “cele-bre battuta involontaria sui ‘pezzi di carta’” che Bethmann Hollweg pronun-cia dopo avere invaso il Belgio e a fronte delle proteste dei belgi stessi che siappellano ai trattati che garantivano la neutralità alla nazione, mostra che ilcancelliere non aveva compreso “che oggi un pezzo di carta come quello sucui è scritta la costituzione ha un significato simile a quello che ha per i catto-lici un’ostia consacrata”, sicché se “l’assolutismo può permettersi di straccia-re i trattati la forza del liberalismo consiste nell’interpretarli”.63 Questa capa-cità di “interpretazione” dei trattati appare come la forza determinante diuna nazione democratica già da tempo disponibile alla Mobilitazione totalecome gli Stati uniti. Il principio della “libertà dei mari” cui accenna Jünger èun caso particolare attraverso il quale si può osservare in quale modo unostato totalmente mobilitato possa operare fino a riuscire a mostrare che l’“in-teresse privato” può “assurgere al rango di postulato umanitario”, al livello

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57 Ibid.58 Ivi, p. 124.59 Ibid.60 Ibid.61 Come emerge dal quadro storico ricordato da Jünger: “Il giubilo con cui da noi l’esercito segreto

del progresso e il suo invisibile stato maggiore salutarono il crollo della Germania, mentre gli ultimi com-battenti stavano ancora affrontando il nemico, assomigliava al giubilo per una battaglia vinta. [...] Tra leforze che si erano disputate la partita non vi era alcuna differenza essenziale. [...] Così, ancora nei giornidecisivi, i ministri socialdemocratici del Reich poterono prendere in considerazione l’idea di lasciare inpiedi la corona: la cosa non avrebbe significato altro che una questione di facciata. Sull’edificio il progres-so gravava ormai da tempo con tali ipoteche da non lasciar sussistere più alcun dubbio sulla vera situazio-ne proprietaria” (Ivi, p. 132).

62 Su questi aspetti del pensiero jüngeriano si rinvia a C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età glo-bale, il Mulino, Bologna 2001 pp. 114-17; Id. Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensieropolitico moderno, il Mulino, Bologna 1996, cap. III; P. Barcellona, Lo spazio della politica. Tecnica e demo-crazia, Editori Riuniti, Roma 1993.

63 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 127.

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di “una questione generale che tocca l’umanità intera”.64 La capacità “demo-cratica” di “interpretare” i trattati tende quindi a produrre una verità univer-salmente valida sul piano politico analoga a quella universale validità scienti-fica producibile operando sperimentalmente, tecnicamente. Anche in que-sto senso occorre intendere l’idea jüngeriana secondo cui il “tipo del Lavora-tore si insinua negli spazi vuoti del sistema corporativo e vi introduce la pro-pria scala di valori”65 un sistema di valori in cui “tecnica ed ethos” sono dive-nuti “sorprendentemente sinonimi”.66 Umano diventa ciò che è assoluta-mente valido sul piano scientifico, ovvero ciò che può essere prodotto speri-mentalmente come l’universalmente valido. L’“interpretazione scientifico-tecnologica dell’universo”, scrive Carlo Sini, “si atteggia a rivelazione dei ca-ratteri universali e oggettivi dell’universo. Sicché, ciò che la tecnica fa delmondo diviene ciò che il mondo è”.67 I valori occidentali assolutamente vali-di tendono a uniformare il mondo imponendosi come universalmente veri, eproprio per questo umani in senso assoluto, fino ad aprire un abisso che li se-para rispetto a chi non può o non vuole condividerli.68

La tendenza all’identificazione di tecnica ed ethos coincide con lascomparsa dell’“ethos dello stato nazionale”69 e con l’affacciarsi di un’eracaratterizzata da un vuoto di “dominio” normativo connesso al processo diMobilitazione. A esso si sostituisce il “dominio dei concetti universali”.70

Per Jünger non si tratta di essere a favore o contro la democrazia liberale,ma di riconoscere come questa forma politica sia ora necessaria, essendoquella che più si rende disponibile alla Mobilitazione totale e come purenon abbia la possibilità di costruire un “dominio” da intendersi come quel-lo “stato nel quale lo sconfinato spazio del potere trova il suo riferimentocentrale in un punto dal quale esso appare come spazio del diritto”.71 Que-sto significa che nel mondo della democrazia universale che procede versouna Mobilitazione di carattere planetario non esiste un luogo di potere inbase a cui governare la guerra e la pace, né criteri di giudizio secondo cuivalutare la moralità e la giustizia di un’azione di tipo “imperiale” da parte diun’organizzazione statale. In Der Arbeiter la genealogia di questo processoè osservata muovendo dal confronto tra le “guerre di successione” e le“guerre nazionali”:

Nello spirito del principio di nazionalità, l’acquisto di un’esigua striscia di territorioal confine è molto meno legittimo di quanto non sia, nel sistema politico dell’equili-

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64 Ibid. Sulla dottrina di Monroe e sulla traduzione del suo significato da difensivo-continentale a ma-rittimo-aggressivo operata da Roosevelt: C. Schmitt, Il concetto di Impero nel diritto internazionale. Ordi-namento dei grandi spazi con esclusione delle potenze estranee (1939), Istituto nazionale di cultura fascista,Roma 1941; Id., Il nomos della terra, cit., pp. 207 e sgg, 325 e sgg, 368 e sgg.

65 E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 174.66 Ivi, p. 184.67 C. Sini, Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, il Saggiatore, Milano 1981, p. 331.68 Sull’idea di democrazia occidentale come “punto d’arrivo acquisito della storia umana”: G.D. Ne-

ri, Sulla guerra, e L’Europa dal fondo del suo declino, cit.69 E. Jünger, Maxima-Minima. Adnoten zum ”Arbeiter“, cit., p. 71.70 E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 150.71 Ivi, p 65.

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brio dinastico, l’acquisto di un intero regno in seguito a un matrimonio. Nelle guerredi successione si tratta quindi di due contendenti, entrambi di riconosciuto diritto, euno di essi deve essere scelto secondo un’interpretazione che tende a prevalere sul-l’altra. Nelle guerre nazionali, si tratta di due specie di diritto, in senso generale. Co-sì, anche le guerre nazionali ci riportano allo stato di natura.72

A tal punto, secondo Jünger, i “principi politici del XIX secolo”, nazione e so-cietà si rivelano inadeguati a dominare la Mobilitazione totale attuata attra-verso la diffusione globale della logica del lavoro. La concezione secondo cui“le nazioni sono modelli individuali [...] subordinati alla ‘legge morale in sé’”preclude la possibilità di “costruire autentici imperi”,73 e venendo a mancareun “tribunale superiore” esterno alla nazione stessa, qualsiasi sforzo teso adaver validità oltre i confini nazionali non può essere fondato che sul “merodispiegamento di forze”.74 Non diverso è il fallimento dell’altro principio cherappresenta la concezione statale ottocentesca, la “società”. In questo caso iltentativo di introdurre una forma di dominio è attuato attraverso l’estensio-ne di “una sfera del diritto indipendente dalla sfera del potere”:

Si giunge così a organi come la Società delle nazioni – organi il cui presunto control-lo su immensi ambiti giuridici è in singolare contrasto con il loro reale potere esecu-tivo.75

Appellandosi alle categorie politiche ottocentesche di “nazione” e “società”non è possibile ricondurre il potere in una forma fondata sul diritto e dunquegovernare la conduzione della guerra e la sua distinzione dalla pace. Questovuoto di nomos è riempito da un “dominio di fatto”76 che si realizza e si eser-cita attraverso la convergenza di tecnica ed ethos; tale passaggio segna sulpiano dei conflitti l’annullamento di qualsiasi “arte della guerra” e dunque ladestituzione di significato di qualsiasi “ethos cavalleresco”, di qualsiasi “ri-to”: “Nel mondo del Lavoratore il rito è sostituito da una sequenza tecnica-mente esatta, allo stesso tempo amorale e non-cavalleresca”.77 In questo sen-so, dunque, occorre intendere le parole di Jünger quando si riferisce a un ri-torno di modalità di conduzione della guerra assolutamente privo di regole,da “stato di natura”. È in un tale contesto che dopo la Prima guerra mondia-le diventa possibile che “vengano combattute guerre di cui non si prende at-to, poiché il più forte ama presentarle come penetrazione pacifica o comeun’azione di polizia contro bande di briganti – guerre che esistono in pratica,non in teoria”.78 Anche questi, scriveva Jünger negli anni Trenta, sono “nuo-vi e insoliti fenomeni” dai quali emerge come caratteristica comune ed essen-

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72 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, cit., p. 171.73 Ibid.74 Ibid75 Ivi, p. 172.76 M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 128.77 E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 179. Sulla distruzione di ogni forma di rito connesso alla vita del solda-

to nella Prima guerra mondiale: E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nellaPrima guerra mondiale, cit., cap. III.

78 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, cit., p. 172.

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ziale una sorta di “daltonismo umanitario” espressione di una “vera e pro-pria cecità dinanzi ai colori che rivestono il mondo reale”.79

Come ha osservato Carlo Galli, l’“età globale” si caratterizza da un pun-to di vista bellico come “l’età in cui guerra e politica [...] non formano spazio,in senso politico moderno, westfaliano”80 e Jünger inizia a riconoscere le for-me in cui questo processo si cristallizza già nello svolgimento delle guerremondiali e successivamente nella suddivisione del mondo in due blocchi.L’incapacità dello stato di produrre politica in senso moderno a opera delladiffusione su scala globale della Mobilitazione totale comporta una metaba-sis eis allo genos che esprime il definitivo annullamento di valore e di efficaciapolitica dello stato e della guerra. Nel pieno della Guerra fredda Jünger in-fatti osservava che:

La similarità dei due partner colossali che, se non attraggono a sé i territori degli statistorici, pure ne assumono la sovranità, suscita l’impressione che abbiamo qui a chefare con dei modelli, anzi con degli stampi: con le due metà di un’unica forma da im-piegarsi per fondere e costruire lo stato mondiale. Con ciò non si intende una sem-plice operazione di addizione, un raddoppio, ma una trasformazione qualitativa, l’a-scesa a una potenza che oggi non è ancora possibile rappresentarsi.81

La suddivisione in blocchi successiva alla fine dei conflitti mondiali non puòdunque essere vista come in grado di generare un ordine politico nel sensomoderno del termine, ma deve essere intesa come il primo passaggio nellaformazione di uno spazio globale in cui l’idea moderna di stato perde la fa-coltà di produrre politica e storia: “Con il raggiungimento della sua grandez-za finale, lo stato non conquista soltanto la sua massima estensione spaziale,ma anche una nuova qualità. Lo stato in senso storico cessa di esistere”.82

La “scimmia di Ercole”

La “guerra dei Lavoratori” proprio nei suoi caratteri essenziali ed epoca-li – il suo irrompere nella vita come normale e illimitato “processo lavorati-vo”, lo svincolarsi della violenza da ogni forma di ritualità e dai confini dellapolitica, nonché la tendenza dei conflitti ad assumere i tratti “irregolari”83 diuna “guerra civile planetaria”84 – appare come la “situazione” che rende pos-

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79 Ibid.80 C. Galli, Guerra globale, cit., p. 5381E. Jünger, Lo Stato mondiale. Organismo e organizzazione, Guanda, Parma 1998, p. 31. Da mettere

in relazione con la nozione jüngeriana del Weltstaat è l’idea schmittiana di Einheit der Welt: C. Schmitt,L’unità del mondo, in Id., L’unità del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma 1994.

82 E. Jünger, Lo Stato mondiale, cit., p. 78.83 In particolare è la figura del “partigiano” a interpretare per Jünger la normalità del modo di conduzio-

ne irregolare della guerra (cfr. soprattutto Sul dolore, cit., pp. 159 e sgg.). Cfr. A. Burkhardt, Die Innenseiteder Macht. Zum Partisanischen bei E. Jünger, in H. Münkler (a cura di), Der Partisan. Theorie, Strategie,Gestalt, Westdeutscher Verlag, Opladen 1990. La riflessione jüngeriana sul partigiano come “figura delmondo elementare” è ripresa da C. Schmitt in Teoria del partigiano. Note complementari al concetto di po-litico, il Saggiatore, Milano 1981.

84 La questione della mutazione della guerra regolare in “guerra civile” è presente in Jünger fin dagli

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sibile l’emergere della dimensione globale della guerra. Una “democraziadella morte” globale è l’esito del necessario sconfinamento della guerra daiconfini politici imposto dalla Mobilitazione totale, sicché l’insinuarsi del ter-rore nella vita quotidiana e la diffusione del massacro su scala industriale ap-paiono aspetti che devono essere visti non come incidenti sul percorso dellademocratizzazione del mondo, ma come gli specifici tratti espressivi della fa-cies bellica85 del Lavoratore: è questo il “volto indistinto”86 del dio della guer-ra nell’era della espansione planetaria della democrazia del lavoro. “Come o-gni vita”, scriveva Jünger in La Mobilitazione totale, “produce il germe dellapropria morte, così la comparsa delle grandi masse racchiude in sé una de-mocrazia della morte”.87 Il terrore e l’annientamento che emergono in tuttala loro eccezionale mostruosità nel fuoco totale della Prima guerra mondialeappaiono già come la situazione normale dei futuri conflitti globali:

L’età del colpo mirato ormai è alle nostre spalle. Il comandante di una squadriglia ae-rea che a notte fonda impartisce l’ordine di bombardare non fa più alcuna distinzio-ne tra militari e civili, e la nuvola di gas letale passa come un’ombra su ogni forma divita. Ma la possibilità di siffatte minacce non presuppone una Mobilitazione parzialeo generale: presuppone una Mobilitazione totale, che si estende anche al bambinonella culla. Esso è minacciato come tutti gli altri se non addirittura di più.88

Le bombe lanciate dall’alto che colpiscono indistintamente soldati e civili e igas mortali che si diffondono “su ogni forma di vita” sono le armi universali edemocratiche della guerra dei Lavoratori che mostrano come proprio all’in-terno del primo conflitto mondiale, svoltosi tra entità statali caratterizzate daun proprio sovrano ius ad bellum, abbia avuto luogo quello svuotamento disenso dello ius publicum europaeum e della organizzazione statale che sulla li-mitazione e sulla regolamentazione della guerra si fondava. Come è già statoricordato, la guerra aerea opera secondo Schmitt quella “rivoluzione spazia-le” che svolge un ruolo determinante nel declino di quella “mutual relationbetween protection and obedience” che aveva reso possibile l’“ordinamentodella guerra terrestre” secondo i principi della conferenza dell’Aja:

L’aereo arriva volando e getta le sue bombe, oppure attacca scendendo a volo raden-te e quindi riprende quota: in entrambi i casi adempie alla sua funzione di annienta-

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scritti degli anni Trenta (cfr. per esempio La mobilitazione totale, cit., p. 129: “La Mobilitazione totale cam-bia terreno ma non cambia senso quando, invece degli eserciti regolari, incomincia a mettere in movimentole masse della guerra civile”), ed è centrale in La pace, Guanda, Parma 1993, e in Lo Stato mondiale (per e-sempio, p. 32: “Il suo [dello Stato mondiale] approssimarsi si annuncia nel fatto che l’idea di una guerra ci-vile mondiale fa scomparire gli Stati dalla politica e fa sbiadire i contorni dei conflitti”). Il tema della “guer-ra civile mondiale” è affrontato da C. Schmitt in Teoria del partigiano, cit., e da H. Arendt in Sulla rivoluzio-ne, Edizioni di Comunità, Milano 1999. Si veda anche R. Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Giuffrè, Mila-no 1986.

85 E. Jünger, La battaglia di materiale, cit., p. 65.86 L’espressione è utilizzata da Qiao Liang e Wang Xiangsui nel saggio Guerra senza limiti. L’arte

della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione, Libreria editrice goriziana, Gorizia 2001, parteI, cap. II.

87 E. Jünger, La mobilitazione totale, in Id., Foglie e pietre, cit., p. 121.88 Ivi, p. 120.

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mento e abbandona quindi immediatamente al suo destino (vale a dire: alle sue auto-rità statali) il territorio bombardato, con le persone e le cose che vi si trovano. Laconsiderazione della connessione esistente tra protezione e obbedienza, esattamentecome quella del rapporto tra tipo di guerra e preda, mostra l’assoluto disorientamen-to spaziale e il carattere di puro annientamento della guerra moderna.89

Con la fine della guerre en forme, la dimensione dell’annientamento “demo-cratico” diventa coessenziale all’esercizio della guerra stessa. Schmitt insisteinoltre su un altro aspetto connesso alla perdita di confini della violenza bel-lica: la “limitazione dei mezzi di annientamento e la limitazione della guerra”non riguardano solo il diritto di preda e il “rapporto con la popolazione col-pita dalla guerra”, ma anche la questione della “guerra giusta”. L’inevitabileverificarsi di un’asimmetria tra le forze in campo rende possibile l’acuirsi del“contrasto tra le parti in lotta”. Il conflitto tenderà allora a essere spostato sulterreno del bellum intestinum da parte di chi è in stato di inferiorità, mentrechi si trova in condizione di superiorità dovrà appellarsi alla justa causa e “di-chiarerà il nemico criminale, dal momento che il concetto di justus hostis nonè più utilizzabile”:

Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro i tur-batori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la giusti-ficazione dei metodi di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discri-minazione dell’avversario in dimensione abissali.90

In questo vuoto di dominio sulla guerra, nell’impossibilità di produrre iden-tità e senso politico attraverso l’azione violenta, lo scenario normale che siprospetta secondo Jünger è quello di una diffusione planetaria di conflitti ir-regolari in cui figure eccezionali come il “partigiano” tendono ad assumeresempre più la funzione normale di soldati regolari, decretando contempora-neamente la fine della coscrizione obbligatoria e dell’“esercito di massa”. Lacrisi della spazialità politica moderna si esprime sotto forma di mutazionedella figura del soldato che è ora difficilmente distinguibile dal “poliziotto”91

e dal “tecnico”,92 ma anche dallo “scorticatore” e dal “macellaio”.93

In un colloquio del 1995, Jünger osserva che dal punto di vista dell’artedella guerra è possibile comparare le guerre antecedenti la Prima guerramondiale a una “partita a scacchi”, ma dal 1914 l’immagine della scacchierae del gioco in generale non funziona più:

È del tutto inutile star lì a studiare quali mosse cambiare, come spostare diversamen-te alfiere o cavallo, torre o re. Il fatto è che si è ribaltato il tavolo su cui stava la scac-chiera: i guerrieri, i combattenti non esistono più come ceto o casta, e il fuoco nonviene più dai cannoni, ma è diventato assoluto.94

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89 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 429.90 Ivi, p. 430.91 E. Jünger, Il trattato del ribelle, cit., p. 111.92 E. Jünger, Il libro dell’orologio a polvere, cit., p. 12693 E. Jünger, Sul dolore, cit., p 151.94 A. Gnoli, F. Volpi (a cura di), I prossimi titani. Conversazioni con E. Jünger, cit., p. 83.

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Nelle guerre contemporanee emerge con tutta la propria forza terrifica il de-stino nichilistico della civiltà europea: non più guerra come clausewitzianacontinuazione della politica con altri mezzi condotta da potenze politichestatali, ma dispiegamento globale della Mobilitazione totale che tende a tra-sformare l’utopia del regnum hominis nell’incubo del regimen hominum.95

Per questa ragione, scrive Jünger, ora “la prospettiva più spaventosa è quellarappresentata dalla tecnocrazia, una sovranità sotto controllo, esercitata daspiriti mutili e mutilanti”.96

In quello che Alain Joxe definisce come il “caos imperiale”,97 assistiamoalla quotidiana “riduzione degli ‘altri’ a entità politicamente nulla” il che com-porta, scrive Alessandro Dal Lago, “la trasformazione della guerra in polizia-pulizia su scala globale in cui non esiste più riconoscimento del nemico”.98

Uno dei pericoli più grandi del processo di normalizzazione della guerra fun-zionale al “sistema-lavoro”, della normalità e della quotidianità della violenzache circola incessantemente e in modo sottile e impercettibile99 viene dalla i-deologica criminalizzazione di chi è considerato nemico, dallo “spingere la di-scriminazione dell’avversario in dimensione abissali”. Nella ricostruzione del-la facies bellica della Mobilitazione totale la dimensione del terrore e dell’an-nientamento appare quale elemento essenziale e non come minaccia esternaalla trasformazione della democrazia occidentale in democrazia planetaria dellavoro.100 In questo senso, la statica contrapposizione tra valori occidentali efanatismo orientale, tra democrazia dei paesi civilizzati e tirannia dei popolipiù primitivi si presenta come una di quelle forme di consapevole o inconsa-pevole produzione ideologica del nemico, che denuncia comunque la propriacecità dinanzi alla genealogia della dimensione globale della violenza e dimo-stra l’assenza di comprensione della portata intrinsecamente imperialistica etirannica di quella che Jünger già negli anni Trenta aveva definito come “de-mocrazia della morte”. La costruzione dello spazio planetario del Lavoro sirealizza come tendenza all’uniformità attraverso la distruzione sistematicadelle altre forme culturali, ma proprio in questa opera di annullamento del-l’altro, la razionalità europea tende a estraniarsi rispetto alla propria prove-nienza, a occultare la propria radice tragica essendo incontrollabile e irriduci-bile al funzionamento tecnico e alla calcolabilità economica, non essendo pro-

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95 G.D. Neri, L’Europa dal fondo del suo declino, cit., p. 281 che sulla scorta della riflessione di Pa-tocka scrive: “Quello che da Bacone a Marx era stato sognato come il regnum hominis si realizza come unregimen hominum, un dominio sull’uomo dove chi comanda è una potenza anonima, l’accumulazione dienergia come tale, la Forza che gli uomini sono inetti a controllare, che anzi tutti si dispongono a servire”.

96 E. Jünger, Al muro del tempo, cit., p. 152.97 A. Joxe, L’impero del caos. Guerra e pace nel nuovo disordine mondiale, Sansoni, Milano 2004, p. 33.98 A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, ombre corte, Verona 2003, pp.

37-38.99 Per sviluppare tale questione occorre prendere in considerazione almeno la dottrina della “seconda

coscienza” esposta nello scritto Sul dolore, cit., pp. 175 e sgg.100 Sul terrorismo come modus operandi che mira non all’eleminazione precisa dei soldati avversari,

ma all’annientamento generalizzato del nemico e del suo ambiente e sulla sua nascita nello scenario dellaguerre en forme tra Stati: P. Sloterdijk, Schäume, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2004. Sulla dimensione nichi-listica della guerra contemporanea S. Markus, M. Münkler, W. Röcke (a cura di), Schlachtfelder. Codie-rung von Gewalt in medialen Wandel, Akademie Verlag, Berlin 2003.

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ducibile come l’“equivalente-indifferente”.101 Se dunque come scriveva Jün-ger è “evidente che la figura del Lavoratore è più forte della più antica opposi-zione, che è anche l’ultima: quella tra Oriente e Occidente”,102 rimane altret-tanto vero che Oriente e Occidente continuano a vivere non in quanto “luo-ghi assoluti, bensì come metafore di due atteggiamenti umani fondamentali”,posizioni inscindibili, ineliminabili come poli in eterna tragica tensione.103

Alla democrazia occidentale accade qualcosa di analogo a ciò che secon-do Nietzsche decretò la morte della tragedia antica.104 Come il dramma tragi-co svuotato della forza aorgica, divenuto incapace di parlare la lingua stra-niera di Dioniso non può che rispecchiarsi in se stesso fino ad assumere lesembianze e gli atteggiamenti della “scimmia di Ercole”, così l’abbandono,anzi l’annullamento sistematico dell’altro da parte della tirannia dei valoridemocratici muta l’essenza della democrazia occidentale che è ora, per dirlacon Nietzsche, “dialettica sofistica”, democrazia “imitata e mascherata” pro-prio come il dramma euripideo.

La portata di questo mutazione è massimamente visibile fissando losguardo su quella “logica della forza”105 che emerge nell’esecuzione politicadell’imperativo democratico “rendere l’altro uguale a noi”. Come ha scrittoin modo lapidario Guido Davide Neri: “Mai come nell’attuale ‘pedagogiadelle bombe’ si manifesta la verità del detto che proprio ‘il medium è il mes-saggio’”.106 Nell’uso della guerra come via per una cosiddetta “civilizzazionedemocratica” si svela l’essenza della versione contemporanea della democra-zia occidentale, nonché il destino nichilistico del suo progetto. Parlano di noioggi le immagini con cui si chiude Die totale Mobilmachung: in quei “luoghi”nei quali “la maschera umanitaria è quasi cancellata” ciò che rimane della“rete” planetaria intrecciata dalla Mobilitazione totale è “un feticismo dellamacchina mezzo grottesco e mezzo barbarico”,107 lo svanire del “sogno dellalibertà” stritolato “come nella ferrea morsa di una tenaglia”:108

È uno spettacolo grandioso e terribile vedere i movimenti delle masse sempre più o-mologati, su cui lo spirito del mondo getta la sua rete. Ciascuno di questi movimentinon fa che rendere la presa più stretta e più implacabile, e qui agiscono forme di co-strizione che sono più forti della tortura: così forti che l’uomo le saluta con giubilo.109

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101 M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, cit., p. 129.102 E. Jünger, Lo Stato mondiale. Organismo e organizzazione, cit., p. 78.103 E. Jünger, Il nodo di Gordio, in E. Jünger, C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occi-

dente nella storia del mondo, il Mulino, Bologna 2004, p. 52. 104 “Che cosa volevi, empio Euripide, quando cercasti di costringere ancora una volta questo morente

a servirti? Morì fra le tue braccia violente, e allora sentisti il bisogno di un mito imitato, mascherato, checome la scimmia di Ercole sapeva ormai soltanto adornarsi con l’antica pompa. E come per te moriva ilmito, moriva per te anche il genio della musica: per quanto tu saccheggiassi con avide mani tutti i giardinidella musica, anche così giungesti solo a una musica imitata e mascherata. E poiché avevi abbandonatoDioniso, anche Apollo abbandonò te”. (F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1972-1977, p. 74.

105 G. D. Neri, Sulla guerra, cit., p. 294.106 Ibid.107 E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 134.108 Ivi, p. 135.109 Ibid.

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Sviluppando specialmente la riflessione sulla metamorfosi della guerra diErnst Jünger e di Carl Schmitt, Carlo Galli osserva che l’essenza della “guer-ra globale” è quella di “non essere una Terza guerra mondiale” e “di non es-sere neppure una guerra dei mondi (del mondo islamico contro il mondo cri-stiano), quanto piuttosto la manifestazione del fatto che la globalizzazione èun mondo di guerra”.110 In questo senso la incessante cupa proliferazione difronti avversi che si delineano sulla base della contrapposizione di ideologie,religioni e valori non dà forma a “identità politiche intese come fattori di or-dine politico, ma solo immagini fantasmatiche in reciproca immediata nega-zione”.111 Proprio nel superamento di questo deserto fantasmatico e ideolo-gico consiste il primo passo per ritessere le trame di un ethos occidentale ingrado di essere fedele al senso della propria provenienza culturale e all’altez-za della comprensione del destino di quella globalizzazione che nella impli-cazione mondiale della storia europea ha la propria ragione e che non puòcerto essere “lasciata alle spalle come un’uniforme dismessa”.112 Un ethosche si realizza praticando quella che Jünger ha definito una “nuova scienza”,oggi la più fertile di tutte, “la dottrina della libertà umana di fronte alle nuoveforme che ha assunto la violenza”.113

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110 C. Galli, Guerra globale, cit., p. 55. Su questi temi si vedano anche le riflessioni di A. Dal Lago, Po-lizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, cit.; D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordineglobale, Einaudi, Torino 2000; S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Fel-trinelli, Milano 2000; S. Vaccaro, Globalizzazione e diritti umani, Mimesis, Milano 2004; G. Buonaiuti, A.Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita, Mimesis, Milano 2004; L. Bonanate, La politica interna-zionale tra terrorismo e guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004.

111 C. Galli, Guerra globale, cit., p. 36.112 G.D. Neri, L’Europa dal fondo del suo declino, cit., p. 271.113 E. Jünger, Il trattato del ribelle, cit., p. 24.

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Sul piano geopolitico, la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio degli anniOttanta del secolo passato scorrono nel solco del declinante ordine bipolare,fra insorgenze della Guerra fredda e segni, sempre più evidenti, dell’incapa-cità di uno dei due contendenti nel tenere il passo dell’altro. Per quanto ri-guarda l’Europa, la guerra sembra essere ormai consegnata, nelle sue formepiù tipiche, alla dimensione della memoria, mentre il presente si colloca lun-go l’orizzonte di mutual destruction inscritto nella dinamica del conflitto nu-cleare, che priva la guerra dei suoi tratti di riconoscibilità più tipici, inducen-do a riflessioni che spesso abbandonano il terreno più specificamente politi-co per configurarsi, assumendo una prospettiva quasi biologica, in termini di“sopravvivenza della specie”. Certo, in quel periodo si parla molto di guerri-glia, insurrezione, lotte di liberazione, ma in riferimento all’altrove degli spa-zi della decolonizzazione o di “periferie” nelle quali i vincoli dell’ordine bi-polare appaiono meno stringenti. Questo, in sintesi, il contesto nel quale unaformula, “ribaltare Clausewitz”, con ovvio riferimento al noto adagio “Laguerra è la continuazione della politica con altri mezzi” emerge dalla tematiz-zazione della guerra di autori che hanno fortemente rinnovato i quadri dellariflessione filosofica e politica del Novecento – Michel Foucault da una par-te, Gilles Deleuze e Félix Guattari dall’altra – legati da evidenti affinità teori-che ma che in proposito, come si avrà modo di vedere, manifesteranno signi-ficative divergenze di prospettiva.

La guerra delle razze

Nel 1976 in Francia sembra manifestarsi un particolare interesse nei con-fronti di Karl von Clausewitz. In quell’anno, infatti, sono pubblicati i due vo-

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RIBALTARE CLAUSEWITZLa guerra in Michel Foucault e Deleuze-Guattari

di Massimiliano Guareschi�

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lumi di Penser la guerre. Clausewitz, in cui Raymond Aron proietta sullo sce-nario dello scontro fra Stati uniti e Unione sovietica la concettualizzazionedella guerra proposta dal generale prussiano.1 Sempre nel 1976, Michel Fou-cault tiene al Collège de France un corso, dal titolo “Bisogna difendere le so-cietà”, al cui centro si colloca l’esplicita intenzione di ribaltare l’assunto diKarl von Clausewitz secondo cui “La guerra è la continuazione della politicacon altri mezzi”.2 Punto di partenza del discorso foucaultiano è l’esigenza diriproblematizzare, a partire da un’inversione allo stesso tempo di scala e disenso, del concetto di “potere” in rottura con i modelli sedimentati da secolidi riflessione filosofico-giuridica.3 In tale prospettiva, la chiave di intelligibi-lità del potere deve essere cercata non sul piano della sovranità, della legge edell’autorità ma al livello molecolare di una “microfisica” volta a sondare ladinamica dei rapporti di forza che reggono tutte le relazioni caratterizzate daqualche forma di asimmetria.

Nella sua ricerca, Foucault intende smarcarsi da una concezione econo-micistica delle relazioni di potere che, in termini del tutto diversi, caratteriz-zerebbe le prospettive sia liberali sia marxiste. In ambito liberale si procede-rebbe a un’equiparazione delle dinamiche di potere alla circolazione dei benicome mostra il frequente ricorso alla declinazione pubblicistica di concettigiusprivatistici come il contratto, la delega, l’alienazione. Diversamente, inambito marxista la sintassi del potere tenderebbe a ricalcarsi, per ratificarla estabilizzarla, sulla struttura dei rapporti di produzione. Nelle parole di Fou-cault: “Nel primo caso abbiamo, se volete, un potere politico che troverebbenel processo dello scambio, nell’economia della circolazione dei beni, il suomodello formale. Nel secondo, un potere politico che avrebbe nell’economiala sua ragion d’essere storica, il principio della sua forma concreta e del suofunzionamento attuale”.4 Per disegnare un’alternativa ai paradigmi “econo-micisti”, che assuma quindi il potere come autonomo oggetto di indagine,vengono quindi individuati due possibili strumenti analitici, la repressione ela guerra:

A partire dal momento in cui si cerca di liberarsi dagli schemi economicisti per ana-lizzare il potere, ci si trova immediatamente di fronte a due ipotesi forti: da una par-te, il meccanismo del potere sarebbe la repressione [...] dall’altra, la base del rappor-to di potere sarebbe lo scontro bellicoso delle forze [...]. Queste due ipotesi non so-no inconciliabili, al contrario; sembrano anzi concatenarsi in modo abbastanza vero-simile. Dopo tutto, la repressione non sarebbe ancora la conseguenza politica dellaguerra, un po’ come l’oppressione, nella teoria classica del diritto politico, era l’abu-so della sovranità nell’ordine giuridico?5

In “Bisogna difendere la società” il ricorso alla coppia repressione-guerra come

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1 R. Aron, Penser la guerre. Clausewitz, Gallimard, Paris 1976.2 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998.3 M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976; Id., Microfisica del po-

tere, Einaudi, Torino 1977.4 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 21.5 Ivi, p. 23.

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criterio guida per un rinnovato approccio al potere procede non privo di per-plessità. In particolare, si può notare come Foucault in quegli stessi anni si fos-se impegnato in una serrata critica al concetto di “repressione”, al suo carattereeminentemente negativo, che avrebbe trovato una compiuta formulazione inLa volontà di sapere, uscito proprio nel 1976.6 Per quanto riguarda la guerra sipotrebbe forse fare un discorso per alcuni versi analogo, in quanto il propositodi Foucault di dedicarsi negli anni seguenti a studi di argomento bellico e mili-tare, sembra essere stato in seguito lasciato cadere, per il prevalere di altri inte-ressi o forse, più probabilmente, per l’entrata in crisi della prospettiva di ricer-ca da cui essi procedevano.7

Tornando a von Clausewitz, Foucault afferma che “il potere è la guerra,la guerra continuata con altri mezzi”.8 Il ribaltamento della formula del gene-rale prussiano si presenta come un artificio retorico utile per sottolineare co-me ogni relazione di potere si fondi su un rapporto di forza storicamente sta-bilito attraverso la guerra. La politica, quindi, sarebbe chiamata non a rias-sorbire le fratture della guerra ma a perpetuare una condizione di squilibrioe asimmetria ricodificando continuamente gli esiti delle armi nel linguaggiodelle consuetudini, delle leggi e delle istituzioni. È in tale sequenza che si ma-nifesta la correlazione fra guerra e repressione. Ciò significa che “all’internodella ‘pace civile’ ovvero in un sistema politico, le lotte politiche, gli scontri aproposito del potere con il potere, per il potere, le modificazioni dei rapportidi forza [...], non dovrebbero che essere interpretate come la prosecuzionedella guerra”.9

L’utilizzo della guerra come operatore per analizzare la pace sociale evo-ca immediatamente il nome di Thomas Hobbes, che dalla guerra partiva perdedurre la possibilità dell’ordine artificiale garantito dal Leviatano. Foucaultrigetta immediatamente una simile associazione in quanto a suo parere nellacostruzione hobbesiana la guerra, malgrado quanto comunemente si pensi,non svolgerebbe alcun ruolo. Tale rilievo non rimanda semplicemente al ca-rattere ipotetico del bellum omnium contra omnes, ma soprattutto al fattoche nello stato di natura di cui parla Hobbes in realtà non si giunge mai allevie di fatto, al dispiegamento materiale del conflitto. E in effetti nel Leviatanonon si parla di guerra quanto di “stato di guerra” per indicare il gioco di rap-presentazioni incrociate, la “diplomazia infinita”, in forza delle quali ciascunindividuo, anche il più forte, giunge alla conclusione di non essere in gradodi garantirsi la sicurezza dagli attacchi altrui:

Nella guerra primitiva di Hobbes non ci sono battaglie, non c’è sangue, non ci sonocadaveri. Ci sono solo rappresentazioni, manifestazioni, segni, espressioni enfatiche,astute, menzognere; ci sono inganni, volontà travisate nel loro contrario, inquietudi-ni mascherate da certezze [...]. Ma non siamo realmente in guerra. In ultima analisi,

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6 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 19-48.7 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 25. Cfr. Id., Sécurité, territoire, population, Galli-

mard- Seuil, Paris 2004; Id., Naissance de la biopolitique, Gallimard-Seuil, Paris 2004.8 Ivi, p. 22.9 Ivi, p. 23.

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ciò significa che lo stato di guerra secondo Hobbes non può essere caratterizzato co-me una stato di ferinità bestiale in cui gli individui si divorerebbero fra loro.10

Per Foucault, quindi, Hobbes, lungi dal presentarsi come il teorico dei rap-porti fra guerra e costituzione del potere politico, appare come un autoredeterminato a “eliminare la guerra in quanto realtà storica [...] dalla genesidella sovranità”.11 Ma quale senso attribuire a un simile tentativo volto aneutralizzare la guerra all’interno del discorso inerente l’obbligazione poli-tica? Per rispondere alla domanda a parere di Foucault è indispensabile sta-bilire contro chi abbia pensato Hobbes. Il discorso, a questo punto, nonpuò che spostarsi sulle guerre di religione, su Beemoth, la bestia marinacontro la quale viene invocato il mostro terrestre Leviatano. In tale conte-sto, Foucault individua la circolazione di un discorso storico centrato sullaguerra e l’invasione disponibile a una pluralità di usi e appropriazioni, fun-zionale a una duplice contestazione, aristocratica e popolare, del potere re-gio. Si parla di anglo-sassoni e dell’invasione normanna che avrebbe inse-diato sull’isola un nuovo sovrano, Guglielmo il conquistatore, e una nuovaaristocrazia proveniente da oltremanica. La stessa narrazione, declinata intermini differenti, può funzionare come discorso sia di legittimazione del-l’assolutismo regio in base al diritto di conquista, sia di svelamento dell’ori-gine usurpatoria dell’ordine monarchico e aristocratico, con conseguenterichiamo al diritto di resistenza dei discendenti degli oppressi sassoni. Ècontro un simile “uso politico” della storia che per Foucault opererebbe iltentativo hobbesiano di neutralizzare le guerre reali, ricorrendo all’antidotoconcettuale dello “stato di guerra”, per delineare una condizione caratteriz-zata dall’assenza di vincitori e vinti, dominanti e dominati, in quanto la su-bordinazione alla “terzietà” del sovrano, fondata sulla paura, svuota e scon-giura ogni opposizione binaria all’interno del corpo politico. Nello stato dinatura, qualsiasi rapporto di forza ha un carattere contingente, instabile ereversibile. Di conseguenza nessun uomo può essere certo della propria si-curezza, nemmeno il più forte dal punto di vista fisico, in quanto un rivalepotrebbe sempre prevalere, magari cogliendolo di sorpresa o servendosidell’inganno. Nel modello elaborato da Hobbes, l’impossibilità di “conclu-dere” la guerra di tutti contro tutti, di cristallizzare rapporti di forza che ga-rantiscano una condizione di sicurezza, spingerebbe i singoli a rinunciare alloro diritto assoluto su tutto. In tal senso, le diverse modalità di formazionedella sovranità presentate nel Leviatano, istituzione e acquisizione, vengonoriportate a una comune matrice, quella della volontà di sottomettersi a unpotere superiore per avere salva la vita, che trova un’eloquente esemplifica-zione nella soggezione dell’infante ai genitori. L’obbligazione politica, quin-di, per Hobbes deve essere svuotata di qualsiasi contenuto storico – ritenu-to terreno ambiguo e ambivalente, in grado di supportare sia la legittimazio-ne delle istanze di potere sia le rivendicazioni antagoniste di gruppi e fazioni

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10 Ivi, p. 82.11 Ivi, p. 86.

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– per essere fondata sulla funzionalità dei meccanismi artificiali preposti agarantire lo scambio obbedienza-protezione.

Per Foucault l’individuazione dell’obiettivo polemico di Hobbes coinci-de con la sottolineatura di una linea, denominata storico-politica, che iniziaad affermarsi a partire dal XVII secolo come alternativa ai modelli filosofico-giuridici della sovranità. In essa il tema del conflitto fra le razze svolge unruolo centrale e contribuisce a stabilire una visione tensiva, dicotomica econflittuale della società, vista come attraversata in permanenza da un irridu-cibile conflitto fra segmenti della popolazione che trova origine dalla fratturaindotta dalla conquista, dall’asimmetria introdotta dall’esito di una battagliastoricamente situata. In tale ottica, si potrebbe dire, la guerra non è mai fini-ta, ma continua sotto il sembiante della pace, come relazione sociale perma-nente: la pace come continuazione della guerra con altri mezzi.

In “Bisogna difendere la società” Foucault segue i passaggi e le metamorfo-si del discorso storico-politico nello spazio e nel tempo. L’analisi si sposta cosìdall’Inghilterra alla Francia, dove al centro della storia nazionale si collocano iconflitti e le convergenze fra galli, romani e germani. Un livello compiuto di e-laborazione del discorso della guerra delle razze sarà proposto nel XVIII secoloda un autore su cui Foucault si sofferma a lungo, Henry de Boulainvilliers, ca-pofila dell’opposizione nobiliare all’assolutismo borbonico, la cui problema-tica si configura nei seguenti termini: come ha potuto l’aristocrazia franca vit-toriosa perdere il potere e i privilegi derivanti dalla conquista stretta nellamorsa dell’alleanza fra assolutismo regio e borghesia gallo-romana? ConSieyès emerge un’ulteriore articolazione del discorso storico-sociale, in unaprospettiva tuttavia che vede il terzo stato ormai coincidere con la nazione e ladualità in procinto di risolversi attraverso la rimozione dei residui aristocrati-ci: “Perché non rimandare nelle foreste della Franconia tutte quelle famiglieche conservano la folle pretesa di discendere dalla razza dei conquistatori e diessersi insediati in forza di diritti di conquista”.12 Una simile prospettiva tro-verà quindi un più esteso sviluppo in autori ottocenteschi quali Guizot e i fra-telli Thierry, che a partire dall’“unificazione” postrivoluzionaria della nazionesi proporranno di ricostruire, alla luce delle rinnovate esigenze del metodostorico, la guerra delle razze intorno alla quale si era articolata per secoli lastoria della Francia. La reazione sgomenta di Augustin Thierry ai moti del1848, che segnavano l’emergere di quella che ai suoi occhi era un’inconcepi-bile frattura nel corpo sociale, mostra come per lo storico la chiusura del ciclorivoluzionario si dovesse tradurre in una completa espulsione della guerradalla trama di relazioni della nazione. Con i fratelli Thierry, inoltre, il discorsostorico-sociale passa per una profonda rielaborazione che condurrà a una ve-ra e propria biforcazione. Con Augustin Thierry la guerra delle razze tende aperdere i contenuti più propriamente “etnici” per configurarsi in termini diconflitto di classe, mentre il contrario avviene con il fratello Amédée, il cui di-scorso si incammina verso una prospettiva modernamente razzista.

Sintetizzando, per Foucault le analisi centrate sulla guerra della razze si

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12 E.-J. Sièyes, Che cosa è il terzo stato?, Editori riuniti, Roma 1989, pp. 10-11.

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presentano come opzione teorica alternativa rispetto alla tradizione filosofi-co-giuridica centrata sulla sovranità, la rappresentanza e il contratto. Le spe-cificità introdotte dal discorso storico-sociale possono essere riassunte comesegue. In primo luogo, la guerra di cui si parla non è ipotetica ma storica, unevento collocato precisamente all’interno delle vicende di un determinatopaese, i cui effetti si protraggono nel tempo definendo il terreno di disputafra contrapposti schieramenti. Nella filigrana della pace apparente, la guerracostituisce quindi il principio di intelligibilità delle relazioni sociali e delle di-namiche istituzionali. Un ulteriore elemento chiave del discorso storico-so-ciale è rappresentato dalla esplicita parzialità del soggetto che lo pronuncia:“Chi racconta la storia, chi ritrova la memoria e scongiura l’oblio è [...] ne-cessariamente situato da una parte o dall’altra; è nella battaglia, ha degli av-versari, si batte per ottenere una specifica vittoria”.13

Ai modelli filosofico-giuridici che ambiscono alla neutralità e all’univer-salità Foucault contrappone i saperi situati e belligeranti del discorso storico-sociale. Nel progetto genealogico foucaultiano, incentrato sulla sottolineatu-ra del nesso saperi-poteri, la guerra viene presentata come il luogo di gesta-zione di quei discorsi che assumono la loro internità ai rapporti di forza comecriterio di verità. Ne consegue un’apologia dello storicismo, individuato co-me stile di pensiero che anziché esorcizzare il conflitto assume la guerra co-me elemento fondamentale dei processi storici e delle dinamiche sociali. PerFoucault “si potrebbe facilmente mostrare come, dal XIX secolo in avanti,tutte le grandi filosofie siano state, in un modo o nell’altro, antistoriciste. Sipotrebbe anche mostrare come tutte le scienze umane si fondino [...] sul fat-to di essere antistoriciste”.14 La stessa storiografia, da questo punto di vista,nei ricorrenti richiami a superare la superficie dell’histoire bataille per attin-gere il livello delle strutture economiche e sociali testimonierebbe della ten-denza alla rimozione della guerra che caratterizza le scienze sociali. Diversa-mente lo storicismo, così come definito da Foucault, afferma l’ineludibile le-game tra sapere storico e pratica della guerra, muovendosi al di fuori di un’i-dea che permeerebbe da millenni il sapere occidentale e secondo la quale “ilsapere e la verità non possono non appartenere al registro dell’ordine e dellapace, e che non si possono mai ritrovare dalla parte della violenza, del disor-dine e della guerra”.15

Nel discorso sulla guerra delle razze sviluppato in “Bisogna difendere lasocietà” possono essere colti punti di contatto e incroci con gli itinerari di ri-cerca di altri autori, per esempio con il Frederick Meinecke di Le origini del-lo storicismo, ma soprattutto con Marx, che a più riprese ha indicato in Au-gustin Thierry e nella storiografia francese incentrata sulla guerra delle razzeil modello agonale sul quale avrebbe elaborato il concetto di “lotta di clas-se”.16 A tal proposito, si può rilevare come il confronto con il marxismo rap-

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13 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 50.14 Ivi, p. 151. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998, pp. 393-399.15 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 152.16 K. Marx, F. Engels, Opere, 39, Lettere 1852-1855, Editori riuniti, Roma 1972, pp. 399-400;

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presenti forse il principale sottotesto del corso. Del resto a più riprese, in te-sti minori collocabili proprio intorno al 1976, Foucault afferma come la tra-dizione marxista abbia approcciato il concetto di “lotta di classe” privile-giando la “classe” e lasciando cadere le questioni legate alla lotta:

A colpirmi, nella maggior parte dei testi se non di Marx quantomeno dei marxisti è ilfatto che, con l’eccezione forse di Trotskij, viene quasi sempre passato sotto silenziociò che si intende per lotta quando si parla di lotta di classe. Che significa lotta? Con-flitto dialettico? Scontro politico per il potere? Battaglia economica? Guerra? La so-cietà civile attraversata dalla lotta di classe non è forse la guerra continuata con altrimezzi?17

A interessare Foucault sono i punti di vista prospettici, collocati nelle mi-schie e non sulle alture da cui si suppone di avere una visione superiore, neu-tra e imparziale, della battaglia. La dialettica, da questo punto di vista, vieneesplicitamente individuata non come una concettualizzazione filosofica deldiscorso storico-sociale ma nei termini di una sua colonizzazione e neutraliz-zazione all’interno della logica della contraddizione e della ricomposizione:“La dialettica hegeliana, e con essa penso tutte quelle che l’hanno seguita,deve essere compresa [...] come la colonizzazione e la pacificazione autorita-ria da parte della filosofia e del diritto, di un discorso filosofico e politico cheè stato un tempo una constatazione, una proclamazione e una pratica dellaguerra sociale”.18 Una ricerca che a prima vista può apparire come un’eserci-tazione erudita su negletti autori del passato a una più attenta considerazionerivela quindi un’intentio politica direttamente calata nell’attualità. La stessapolemica non tanto con Marx quanto con il marxismo, nelle sue versioni piùdogmaticamente dialettiche, rimanda al contesto politico-ideologico deglianni Settanta, e alle vicende e ai dibattiti che in quel periodo coinvolgono ilFoucault militante, dalla fondazione dell’Università di Vincennes al Grouped’information sur le prisons. Ricapitolando, quindi, si può osservare come laguerra in Foucault sia chiamata in causa per due ordini di problemi stretta-mente correlati. Da una parte come operatore analitico, come ipotesi concet-tuale, in grado di supportare un’analisi del potere alternativa alle concezionifilosofico-giuridiche centrate sulla sovranità e il contratto; dall’altra cometratto distintivo di una tipologia di discorso calato nelle lotte, da recuperarein chiave attualizzante, che rifiuta ogni postura universale per affermare lapropria disposizione partigiana.

La presa di distanza da Hobbes, tuttavia, sembra avvenire sulla base del-la condivisione di un terreno comune, in base al quale la guerra viene utiliz-zata in forme differenti per sondare l’ordine interno, la pace civile perimetra-ta dalle frontiere del regno. La riflessione hobbesiana sulla guerra, come no-to, si concentra soprattutto sulla questione della costruzione dell’obbligazio-ne politica dei sudditi nei confronti del sovrano. Lo schema proposto perquanto concerne il commonwealth d’altra parte non è estendibile, nonostan-

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17 M. Foucault, Dits et ècrits, 3, Paris, Gallimard 1994, pp. 310-311. Cfr. Ivi, p. 268.18 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 56.

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te le apparenti analogie, all’arena “internazionale”. Assolutamente diverso èinfatti lo “stato di natura” che vige nei rapporti fra i regni, dove le diversitàponderali che intercorrono fra i vari soggetti si caratterizzano per la possibi-lità di stabilire rapporti reciproci improntati alla prevedibilità: il piccolo sta-to non ha alcuna possibilità, anche servendosi dell’inganno o di qualche biz-zarro escamotage, di prevalere su una formazione statuale di dimensioni e po-tenza maggiori. Ciò, peraltro, spiega come lo stato di natura, nell’arena inter-nazionale, possa condurre a una forma di ordine, attraverso la stabilizzazionedi un “equilibrio” non contingente, prescindendo dal ricorso all’artificio delLeviatano per affidarsi alla cristallizzazione “naturale” di un bilanciamentodi forze. Foucault, da parte sua, valorizza la guerra come forma limite delconflitto, come criterio ermeneutico che consente di problematizzare la paci-ficazione dello spazio all’interno delle proprie frontiere rivendicata dallo sta-to. Da qui la valorizzazione di quelle modalità di discorso che, di contro allerappresentazioni unitarie del regno, colgono nella filigrana della pace socialeil perdurare di una guerra mai conclusa. Del resto, a parere di Foucault il ro-vesciamento della massima secondo cui “La guerra è la continuazione dellapolitica con altri mezzi” altro non farebbe che ripristinare un assunto che lostesso generale prussiano intendeva ribaltare affermando la piena statalizza-zione della guerra. In tale contesto, la politica di cui la guerra può essere pro-secuzione è solo quella estera. Il processo a cui si fa riferimento è quello cheaveva provveduto a escludere la guerra dal territorio statuale per proiettarlaal di fuori delle frontiere. In sintesi, il monopolio dell’uso legittimo della for-za all’interno del territorio di cui parla Weber, che necessariamente passa perla “cancellazione dal corpo sociale, dal rapporto fra uomo e uomo, tra grup-po e gruppo, di ciò che si potrebbe chiamare ‘guerra quotidiana’ e che venivagiustappunto chiamata ‘guerra privata’”.19 È nei confronti della neutralizza-zione della dimensione politica interna, quindi, che reagisce il discorso fou-caultiano. Diversamente, alla guerra interstatale, come contrapposizione de-gli stati nell’agone internazionale, o alla sua riformulazione a partire dall’e-mergere di differenti forme di organizzazione del potere, non viene riservataparticolare attenzione.

Al di là delle differenze, Hobbes e Foucault paiono condividere il mede-simo posizionamento all’interno della spazialità politica dello stato moder-no, in fase aurorale l’uno, crepuscolare l’altro. Del resto, anche l’analisi dellasocietà disciplinare, così come su un altro registro dei regimi biopolitici, sicolloca, proprio per la dimensione storica che assume, all’interno delle logi-che di quei “contenitori di potere confinato”, per usare l’espressione diAnthony Giddens, che stabiliscono una chiara demarcazione fra il “dentro”e il “fuori”, l’interno della polizia e l’esterno della guerra. La riflessione sullaguerra di Deleuze e Guattari, diversamente, come si avrà modo di vedere,procede lungo altre linee.

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19 Ivi, p. 47.

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Macchina da guerra e apparato di cattura

Delirare la storia, addirittura la storia universale, questo il progetto che daAntiedipo arriva a Mille piani.20 Il discorso di Deleuze e Guattari si sviluppalungo scansioni temporali assai ampie, all’interno delle quali l’ordine nazio-nale-internazionale in cui resta confinata l’analisi foucaultiana costituisce unsegmento fra gli altri. I luoghi e i tempi in cui viene “ambientato” il rovescia-mento della formula di Clausewitz, di conseguenza, sono assai diversi. In sce-na è un canovaccio storico-universale che ha due protagonisti principali,l’apparato di cattura (o stato) e la macchina da guerra nomade, due differenticoncatenamenti colti nell’intrinseca instabilità delle loro relazioni.

In Mille piani Deleuze e Guattari approcciano la guerra a partire da unaprospettiva non tanto storica quanto mitica o mitologica. La loro guida èGeorges Dumézil, per il quale la sovranità politica indoeuropea avrebbe duepoli, magico e giuridico: rex e flamen, raj e brahman, Romolo e Numa, OdinoTyr, Varuna e Mitra. Da tale schema sarebbe esclusa la guerra, che si aggiun-ge come terzo polo, venendo da altrove: Tullo Ostilio, Thor e Indra. Per De-leuze e Guattari la macchina da guerra, composizione di uomini, armi e ani-mali, è invenzione dei nomadi. Lo stato in quanto tale, non possiede fra leproprie funzioni la guerra, che deve sottrarre ai nomadi, catturando la loromacchina e trasformandola in qualcosa di diverso: l’esercito, la funzione mi-litare. I grandi regni che sembrano emergere quasi dal nulla agli albori dellastoria, in Egitto, Mesopotamia, Creta o India, a un certo punto sono travoltida orde armate di carro da combattimento e arco composto che sembranoprovenire dal nulla – hyksos, hurriti, cassiti, ittiti, ariani, micenei, sciti – ri-spetto alle quali si rivelano impotenti. Salvo poi imparare la lezione, assimi-lando le innovazioni dei nomadi per dotarsi di un potenziale militare chepermetterà in molti casi agli stati di prendersi notevoli rivincite. Tuttavia, nelcorso dei secoli, dalle steppe e dai deserti si assisterà a periodiche irruzionioltre il limes degli stanziali di successive incarnazioni della macchina daguerra nomade: gli unni, gli arabi, i turchi, i manchù e soprattutto i mongoli,l’orda per eccellenza.

Notevoli sono le coincidenze fra il quadro tracciato dai due filosofi fran-cesi e le posizioni espresse da un accreditato storico militare come JohnKeegan: “Intorno alla metà del II millennio a.C. i popoli che avevano impa-rato le tecniche di costruzione e uso del carro e dell’arco composto scopri-rono [...] che contro le tecniche da loro ideate [...] i difensori delle terre co-lonizzate non erano in grado di opporre resistenza. [...] I popoli giunti suicarri insegnarono agli assiri e agli egizi sia le tecniche sia l’ethos della guerraimperialista ed entrambe le potenze [...] ne adottarono l’idea”.21 Per Deleu-ze e Guattari la cattura della macchina da guerra e la sua istituzionalizzazio-ne militare, tuttavia, non procede in modo lineare assumendo una configu-

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20 G. Deleuze, F. Guattari, L’Antiedipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975; Id., Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, CooperCastelvecchi, Roma 2003.

21 J. Keegan, La grande storia della guerra. Dalla preistoria ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1994.

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razione compiuta e definitiva ma si presenta come un processo sempre aper-to, reversibile, attraversato da una continua tensione. Ciò dipenderebbe dalfatto che la macchina da guerra e l’apparato di cattura dipendono da logi-che diverse, tanto che la loro composizione appare intrinsecamente proble-matica e instabile.

La macchina da guerra è invenzione dei nomadi, è il loro modo di occupa-re lo spazio desertico e non ha necessariamente a che fare con la guerra. O me-glio, si correla in termini esclusivi alla guerra solo quando viene appropriatada un apparato di stato. La macchina da guerra non è quindi definita dallaguerra, che incontra nel momento in cui il suo moto entra in collisione con lestriature che i sedentari hanno posto sul suo cammino, ma dalla modalità didistribuzione e composizione dei nomadi nello spazio liscio del deserto:

La guerra ne deriva necessariamente perché la macchina da guerra si scontra con glistati e le città, ossia con le forze (di striatura) che si oppongono all’oggetto positivo:da quel momento la macchina da guerra ha per nemico lo stato, la città, il fenomenostatale urbano [...]. È allora che diventa guerra [...]. L’avventura di Attila o GengisKhan mostra bene questa successione dell’oggetto positivo e negativo.22

Per cogliere il senso del discorso sviluppato in proposito da Deleuze e Guat-tari può risultare utile richiamare l’attenzione su un noto passaggio del VomKriege in cui Clausewitz sottolinea, con rigida consequenzialità, come la de-cisione della guerra spetti al difensore e non all’attaccante, in quanto que-st’ultimo sarebbe ben lieto di non incontrare alcuna resistenza nell’incedereverso la realizzazione dei suoi scopi. Con le sue parole: “Se cerchiamo filoso-ficamente l’origine della guerra, non è nell’attacco che vediamo sbocciarne ilconcetto, poiché esso non ha per scopo la lotta [...]; ma ha invece origine nel-la difesa, poiché questa ha per scopo assoluto la lotta, essendo il respingerel’attacco e il combattere una cosa unica”.23

La macchina da guerra per Deleuze e Guattari nasce come aggregazionenumerica, in rottura con l’organizzazione a stirpi e lignaggi, nella steppa onel deserto. È il suo aspetto aritmetico:

Ovunque la macchina da guerra presenta un curioso processo di replica o sdoppia-mento aritmetico, come se operasse su due serie asimmetriche e diseguali. Da unaparte infatti i lignaggi o le tribù sono organizzati e ricomposti numericamente; lacomposizione numerica si sovrappone ai lignaggi per fare prevalere il nuovo princi-pio. Dall’altra, nello stesso tempo, si estraggono uomini da ogni lignaggio per forma-re un corpo numerico speciale. Come se la nuova composizione numerica del corpolignaggio non potesse avere successo senza la costruzione di un corpo proprio, a suavolta numerico. [...] Il corpo sociale non può essere numerato senza che il numeroformi un corpo speciale.24

Gengis Khan, nel predisporre la sua formidabile orda procede a organizzarenumericamente lignaggi e guerrieri “sottomettendoli a cifre e capi (decine e

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22 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 572.23 K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970, p. 473.24 Ivi, p. 542-543.

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decurioni, centinaia e centurioni, migliaia e chiliarchi) estraendo però da o-gni lignaggio aritmetizzato un piccolo numero di uomini che costituiranno lasua guardia personale”.25 Lo stesso aveva fatto Mosé che, dopo avere censitoe organizzato numericamente le tribù, “promulga una legge secondo la qualei primogeniti da quel momento appartenevano di diritto a Yahvé; e poichénaturalmente erano troppo piccoli, il loro ruolo nel Numero sarà trasferito auna tribù speciale, quella dei leviti, che fornirà il corpo del Numero o la guar-dia speciale all’arca”.26 Deleuze e Guattari individuano in tale sistema di ri-partizione un’opzione strategica volta non solo a disattivare l’aristocrazia deilignaggi ma anche e soprattutto a impedire la cristallizzazione di un apparatodi stato. Esplicito in proposito è il riferimento alle tesi dell’antropologo Pier-re Clastres, secondo il quale le cosiddette “società primitive” lungi dall’igno-rare lo stato, sarebbero caratterizzate dalla concreta operatività di dispositi-vi, primo fra tutti la guerra, volti a scongiurarne la formazione.27 Così comeper Marcel Mauss il potlach rappresentava un meccanismo volto a impedirela concentrazione della ricchezza, allo stesso modo la guerra contribuirebbein maniera decisiva, nei contesti “primitivi”, a mantenere la dispersione e lasegmentarietà dei gruppi coinvolgendo il guerriero in un processo di accu-mulazione di gesta e imprese che lo conduce “alla solitudine e a una morteprestigiosa” ma non all’acquisizione di potere.28 Secondo Deleuze e Guattariun analogo discorso vale per i nomadi che devono essere considerati non unsemplice passaggio, arretrato, nella linea evolutiva delle società umane mauna specifica modalità di distribuzione degli uomini, delle forze, delle risorsee dei movimenti che attraversa, con declinazioni diverse, la storia universale.E così la macchina da guerra appare rivolta sia contro gli stati reali che incon-tra sul suo cammino sia contro gli stati potenziali al suo interno, di cui scon-giura il consolidamento.

I meccanismi dell’organizzazione numerica e dell’estrazione di un corpospeciale caratterizzano anche, con finalità e obiettivi ovviamente diversi, l’i-stituzione militare che per Deleuze e Guattari rappresenterebbe il tentativosempre instabile operato dallo stato di captare la macchina da guerra. Il ri-corso degli eserciti all’organizzazione decimale è cosa nota. Diversamente, èopportuno notare come in effetti il ricorso a corpi speciali incentrati su un e-lemento “estraneo” – schiavi, stranieri, infedeli – rappresenti una costantedell’istituzione militare, come mostrano i casi della guardia islamica di Fede-rico II, dei giannizzeri, dei mamelucchi oppure, per venire a tempi più recen-ti, della Legione straniera o dei gurka dell’esercito britannico:

Il corpo speciale e, soprattutto, lo schiavo-infedele-straniero è colui che diviene sol-dato e credente, pur restando deterritorializzato rispetto ai lignaggi e allo stato [...].Si tratta di un’invenzione della macchina da guerra, che gli stati continueranno a uti-

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25 Ivi, p. 543.26 Ibid.27 P. Clastres, La società contro lo stato. Ricerche di antropologia politica, ombre corte, Verona 2003.28 M. Mauss, Saggio sul dono. Forme e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino,

2002; P. Clastres, Archéologie de la violence, in “Libre”, 1, 1977; Id., Malheur du guerrier sauvage, in “Li-bre”, 2, 1977.

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lizzare, di adeguare ai loro fini, al punto da renderla irriconoscibile o di ripresentarlasotto forma burocratica di stato maggiore o in forma tecnocratica di corpi molto par-ticolari o nello “spirito di corpo” che servono lo stato almeno quanto gli resistono.29

Si è spesso parlato dei limiti politici dei nomadi, abili e scaltri come guerrierima incapaci di “mettere in forma” gli esiti delle loro imprese belliche. PerDeleuze e Guattari la questione è più complessa. La macchina da guerra, in-fatti, facendosi stato negherebbe se stessa, mutando di natura. Di conseguen-za l’alternativa che si impone sarà la seguente: restare macchina da guerra,percorrendo lo spazio imperiale come fosse un deserto (Gengis Khan) o tra-sformarsi in esercito o apparato di stato volgendosi a quel punto contro il pe-ricolo nomade che preme alle frontiere (Tamerlano). Tra queste due polaritàestreme di colloca una varietà di stati misti, in cui a diversi gradi i nomadi sisedentarizzano e i sedentari si nomadizzano, le macchine da guerra si discipli-nano come funzione militare e gli eserciti sfuggono al controllo degli apparatidi stato per disegnare traiettorie che rimandano alla macchina da guerra.

Trasformandosi in funzione militare, la macchina da guerra viene sotto-posta a un processo di disciplinamento, sul quale si sofferma anche Foucault– ovviamente assumendo una determinazione temporale più definita, la tran-sizione all’età moderna – quando individua proprio nell’esercito uno dei luo-ghi privilegiati di formazione del potere disciplinare.30 Ritornando al deliriostorico-universale di Deleuze e Guattari:

Non si può certo dire che la disciplina sia la caratteristica della macchina da guerra:la disciplina diviene il carattere indispensabile degli eserciti quando lo stato se ne ap-propria; ma la macchina da guerra risponde ad altre regole [...] che animano un’indi-sciplina fondamentale del guerriero, una continua messa in discussione delle gerar-chie, un ricatto perpetuo all’abbandono e al tradimento, un senso dell’onore spicca-tamente suscettibile che contrasta con la formazione di stato.31

Heinrich von Kleist appare così come il cantore per eccellenza di un’indisci-plina sempre emergente della macchina da guerra e della sua irriducibilità al-la cattura da parte dell’apparato di stato. Arminio, riluttante a qualsiasi al-leanza, che scaglia la sua orda barbarica contro l’impero romano; il principedi Homburg condannato per avere disobbedito agli ordini dei superiori, puravendo in tal modo conseguito una vittoria decisiva; Michel Kolhaas deter-minato a seguire fino alle più estreme conseguenze, scontrandosi con le piùalte autorità terrene, la linea germanica della faida; Pentesilea, regina dellamuta guerriera delle amazzoni che “scegliendo” Achille viola la legge del suopopolo che prescrive di attaccare il primo nemico che appare alla vista. Fra ilguerriero e il polo della sovranità la tensione appare costante: “I discendentidi Eracle, Achille e poi Aiace, hanno ancora forze sufficienti per affermare laloro indipendenza di fronte ad Agamennone, l’uomo del vecchio stato, manon possono nulla contro Ulisse, l’uomo dello stato moderno nascente, il pri-

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29 Ivi, p. 545.30 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, cit.31 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., pp. 505-506.

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mo uomo di stato moderno”.32 E sarà proprio a Ulisse che spetteranno in e-redità le armi di Achille, e non al guerriero Aiace, che sconterà con la follia iltorto fatto alla dea.

Senso dell’onore, spirito di corpo, codici particolari, una crudeltà irridu-cibile nelle sue modalità alla violenza di stato: queste per Deleuze e Guattarisono alcune delle manifestazioni dello scarto che rende intrinsecamente pro-blematica l’istituzionalizzazione del guerriero nella funzione militare. Da ciòderiva la diffidenza che gli stati hanno da sempre manifestato nei confrontidei propri eserciti, supporto necessario delle politiche di difesa ed espansio-ne ma anche presenza inquietante il cui disciplinamento appare sempre pre-cario e aperto a possibili contraccolpi. L’incorporazione della funzione belli-ca, che può assumere forme diverse (ricorso ai mercenari o milizia territoria-le, coscrizione o esercito professionale) procede, infatti, da una specifica o-perazione che snatura la macchina da guerra – volta originariamente a occu-pare lo spazio desertico e a incontrare il combattimento solo accidentalmen-te a contatto con le striature che arrestano il suo corso – affidandole la guerracome obiettivo esclusivo. Sintetizzando: “Quando lo stato si appropria dellamacchina da guerra, questa tende a prendere la guerra come obiettivo diret-to e primario, come oggetto ‘analitico’ (e la guerra tende ad assumere comeobiettivo la battaglia). Simultaneamente l’apparato di stato si appropria dellamacchina da guerra e la macchina da guerra prende la guerra per obiettivo ela guerra si subordina agli scopi dello stato”.33 Nel lessico di von Clausewitzsi tratta della subordinazione della guerra alla politica, che stabilisce gli scopiaffidandone il conseguimento all’azione militare. A questo punto viene chia-mato in causa uno dei più controversi temi del pensiero del generale prussia-no, quello relativo allo statuto della guerra assoluta, l’atto di forza condottosino al “raggiungimento dell’obiettivo senza soluzione di continuità” che se-condo il “rigore filosofico” dovrebbe caratterizzare l’attività bellica.34 Sullaquestione la letteratura critica si è ampiamente esercitata a partire dal carat-tere non sempre coerente delle osservazioni avanzate dallo stesso von Clau-sewitz che oscilla fra il configurare la guerra assoluta come ipotesi logico-teo-rica, la cui realizzazione pratica sarebbe impedita dal peso delle contingenzemateriali e politiche, o come un caso limite passibile di una concreta incarna-zione, come mostrerebbero i riferimenti all’avventura napoleonica.35 Deleu-ze e Guattari, da parte loro, considerano il problema alla luce della differen-za strutturale fra la macchina da guerra, con il suo modo di percorrere lo spa-zio liscio, e il disciplinamento dell’attività bellica agli scopi politici operatodallo stato:

La distinzione fra guerra assoluta come idea e le guerre reali si rivela fondamentale,specie se considerata alla luce di un criterio diverso da quello proposto da Clau-

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32 Ivi, p. 501.33 Ivi, p. 573.34 K. von Clausewitz, Della guerra, cit., pp. 774-775.35 R. Rusconi, Clausewitz il prussiano. La politica della guerra nell’equilibrio europeo, Einaudi, Torino 1999,

pp. 278-300.

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sewitz. L’idea pura sarebbe quella non di un’eliminazione astratta dell’avversario,ma di una macchina da guerra che appunto non ha la guerra come obiettivo e con es-sa mantiene soltanto un rapporto sintetico, potenziale o supplementare. Di conse-guenza la macchina da guerra nomade non ci sembra, come in Clausewitz, un caso diguerra reale fra gli altri, ma al contrario il contenuto adeguato all’idea.36

A partire da ciò, la massima clausewitziana per eccellenza, secondo cui “laguerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, sarebbe da leggersinon tanto come una constatazione quanto come assunto normativo, in regi-me di “guerra reale”, circa la modalità di incorporazione della macchina daguerra nell’apparato di stato, con la politica che predispone il quadro all’in-terno del quale si svolge l’attività militare. Da un simile punto di vista, si po-trebbe aggiungere, è significativo come lo stesso Clausewitz individuasse nel-la guerra di popolo promossa da Napoleone, con l’esercito che assumeva itratti di una macchina in grado di autoalimentarsi sulla base del carburantedel nazionalismo,37 l’elemento di rottura che sembra portare a concreta rea-lizzazione lo schema logico-deduttivo della “guerra assoluta”.38 La guerra,quindi, rappresenterebbe un flusso di cui gli stati si appropriano solo par-zialmente, subordinandone lo scopo, l’abbattimento totale dell’avversario, a-gli scopi della loro progettualità politica.

A parere di Deleuze e Guattari, tuttavia “quando l’oggetto della macchinada guerra appropriata diviene la guerra totale, [...] scopo e obiettivo entranoin nuovi rapporti che possono arrivare alla contraddizione”.39 Da ciò derive-rebbe l’ambivalenza dell’autore di Vom Krieg a proposito dello statuto dellaguerra assoluta e della sua possibile realizzazione nelle guerre napoleoniche:

Di qui l’esitazione di Clausewitz che in alcuni passaggi afferma che la guerra totaleresta condizionata dallo scopo politico degli stati, mentre in altri sottolinea come es-sa tenda a realizzare l’idea della guerra incondizionata. Infatti l’obiettivo rimane es-senzialmente politico e determinato come tale dallo stato ma lo scopo stesso è dive-nuto illimitato. Si direbbe che l’appropriazione si sia rovesciata e che gli stati tenda-no a ricostruire un’immensa macchina da guerra di cui sono ormai soltanto le parti,opponibili e giustapposte.40

E così lo stato, dopo essersi impadronito della macchina da guerra, si trove-rebbe a subire una sorta di effetto di ritorno che lo vedrebbe sottomettersi al-l’oggetto di cui si è appropriato che eccedendo la funzione che gli è stata as-segnata assume la figura della guerra totale, vista non semplicemente comeguerra di annientamento ma come conflitto che trascende le determinazioni,e le regole del gioco, militari per coinvolgere l’intera società. Per individuarei passaggi decisivi che scandiscono l’appropriazione dello stato da parte dellamacchina da guerra l’attenzione di Deleuze e Guattari si rivolge ai fascismistorici e alla Guerra fredda. Nel caso dei fascismi, si sottolinea come la guer-

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36 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 576.37 M. DeLanda, La guerra nell’era delle macchine intelligenti, Feltrinelli, Milano 1996.38 K. von Clausewitz, Della guerra, cit., pp. 775-776.39 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 577.40 Ibid.

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ra, pur se nominalmente sottomessa a scopi politici di tipo imperialistico, as-suma “un movimento illimitato che non ha altro obiettivo che se stesso”.41

Altro passaggio chiave è rappresentato dall’ordine bipolare della Guerrafredda, in cui una macchina da guerra planetaria assume come obiettivo lapace della “sopravvivenza” e del “terrore”. Deleuze e Guattari, nel conside-rare l’equilibrio della mutual destruction, tendono a non drammatizzare gli e-lementi di contrapposizione fra i due blocchi per sottolineare la convergenzafunzionale che conduce alla presa sull’intero globo di un’unica macchina daguerra. Un’integrazione su cui si soffermano anche le parti di Mille piani de-dicate a tematiche di ordine economico, secondo le quali l’esistenza del cam-po socialista non smentiva affatto l’ipotesi dell’unificazione del mercato ca-pitalistico, rispetto al quale l’economia di piano avrebbe rappresentato unavariante, “parassitaria” e inefficiente, e non un’alternativa.

Riassumendo, lo stato si appropria della macchina da guerra, a cui attri-buisce l’obiettivo esclusivo della guerra, subordinandola ai propri scopi poli-tici. Ed ecco la formula di von Clausewitz: “La guerra è la continuazione del-la politica con altri mezzi”. Con Napoleone e la guerra di popolo, attraversola mobilitazione patriottico nazionalistica, si rimane all’interno di tale para-digma anche se la coerenza con cui viene perseguito l’obiettivo (Ziel) corto-circuita la funzione prescrittiva e di comando dello scopo politico (Zwek).Con qualche oscillazione, von Clausewitz parla di guerra assoluta. La cre-scente integrazione fra guerra ed economia che nel secolo seguente conducealla “guerra di materiali” imprime alla dimensione bellica una svolta profon-da. Siamo nell’ambito della guerra e della mobilitazione totale che promuoveuna ristrutturazione complessiva, a partire dalle esigenze militari, delle rela-zioni sociali, politiche ed economiche:

I diversi fattori che tesero a fare della guerra una guerra totale, e specialmente il fat-tore fascista segnarono l’inizio di un inversione del movimento: come se gli stati, do-po il lungo periodo di appropriazione, ricostituissero una macchina da guerra auto-noma, attraverso la guerra che facevano gli uni contro gli altri.42

Fino a quel punto, tuttavia, la massima clausewiziana sembra conservare unminimo di capacità descrittiva, in quanto “la guerra fascista restava ‘conti-nuazione della politica con altri mezzi’ sebbene questi ‘altri mezzi’ divenisse-ro esclusivi o lo scopo politico entrasse in contraddizione con l’obiettivo”.Da qui la definizione di “stato suicida” coniata da Paul Virilio in riferimentoall’esperienza nazista.43 Diversamente, di vero e proprio ribaltamento dellaformula di von Clausewitz si può parlare a proposito della situazione che siafferma a partire dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, con l’e-quilibrio del terrore e della dissuasione. La macchina da guerra a questopunto non ha più per obiettivo la guerra ma la pace, nel quale riassorbe, sem-pre per utilizzare la terminologia del generale prussiano, lo scopo (Zwek), os-

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41 Ibid.42 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., pp. 644-645.43 P. Virilio, Velocità e politica. Saggio di dromologia, Multhipla, Milano 1981.

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sia la componente di comando politico: “Appare qui l’inversione della for-mula di Clausewitz: è la politica che diventa continuazione della guerra, è lapace che libera il processo materiale illimitato della guerra totale. La guerrasmette di essere la materializzazione della macchina da guerra, è la macchinada guerra stessa che diviene guerra materializzata”.44

Secondo Deleuze e Guattari, nello scenario dell’ordine bipolare si rico-struirebbe la macchina da guerra che assume, al di là delle opposizioni fra lesue parti, l’intero globo come spazio liscio. Quel flusso di guerra assoluta dicui gli stati si erano appropriati per subordinarlo agli scopi politici fuoriescedai limiti che le erano stati assegnati in quanto funzione militare, la subordi-nazione dell’obiettivo allo scopo, e si ricostruisce in macchina da guerra:

La macchina da guerra riforma uno spazio liscio che aspira adesso a controllare, cir-condando tutta la terra. La guerra totale stessa è superata, verso una forma di paceancora più terrificante. La macchina da guerra ha preso su di sé lo scopo, l’ordine delmondo, e gli stati non sono più che oggetti o strumenti asserviti a questa nuova mac-china. È qui che la formula di Clausewitz si rovescia effettivamente, perché per poterdire che la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi non basta invertirele parole come se si potesse pronunciarle in un senso o in un altro ma è necessario se-guire il movimento reale alla conclusione del quale gli stati, dopo essersi appropriatidi una macchina da guerra ed averla asservita ai loro scopi, producono nuovamenteuna macchina da guerra che prende su di sé lo scopo, si appropria degli stati e assu-me sempre più delle funzioni politiche.45

Con ogni evidenza, molte di queste riflessioni non sembrano solo riferirsi alpassato prossimo ma risultano per molti versi applicabili anche al contesto u-nipolare, nelle sue fasi soft e hard, che caratterizza il mutamento di scenariointervenuto con la fine della Guerra fredda. Ancora più attuali appaiono inproposito le osservazioni circa la materializzazione di un sistema di insicu-rezza organizzata o una figura, il “nemico qualunque”, che emersa nella pre-cedente configurazione geopolitica sembra oggi definire con più chiarezza lapropria funzionalità:

Abbiamo visto la macchina da guerra mondiale prendere proporzioni sempre piùgrandi [..]; l’abbiamo vista attribuirsi come obiettivo una pace ancora più terribiledella morte fascista; l’abbiamo vista mantenere o suscitare le più terribili guerre loca-li [...] l’abbiamo vista fissare un nuovo tipo di nemico che non era più un altro stato,e nemmeno un altro regime, ma il ‘nemico qualunque’ [...] multiforme, manovriero eonnipresente[...], d’ordine economico, sovversivo politico, morale.46

Perché rovesciare Clausewitz?

Per chi parla di guerra, a qualsiasi livello, citare von Clausewitz è quasi unobbligo, un’abitudine o un riflesso condizionato. E così, prima o poi, in tutti

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44 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 645.45 Ivi, pp. 577-578.46 Ivi, p. 578.

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i discorsi che toccano questioni belliche la famosa massima salta fuori, e ma-gari si finisce con il ribaltarla, soprattutto per segnalare i cambiamenti inter-venuti dal tempo delle guerre napoleoniche.47 Non stupisce quindi che siaMichel Foucault sia Gilles Deleuze e Félix Guattari, nell’incontrare la que-stione della guerra, non si siano sottratti alla tentazione di comporre diversa-mente i fattori della sentenza secondo cui “la guerra è la continuazione dellapolitica con altri mezzi”. Al di là delle convergenze di fondo di carattere filo-sofico, tuttavia, i due percorsi su cui ci siamo soffermati si incamminano lun-go territori, temporalità e nuclei problematici assai diversi.

Michel Foucault, come si diceva, si confronta con la formula clausewit-ziana all’interno di un progetto di ricerca volto a individuare, all’interno del-la tradizione della modernità, una linea di riflessione sull’ordine politico al-ternativa a quella centrata sulla neutralizzazione del conflitto, tipica delle so-luzioni filosofico-giuridiche. Ribaltare Clausewitz, in tale contesto, significainsistere sul carattere guerreggiato delle relazioni di potere, vedere nella fili-grana della pace i segni di una guerra che non è mai finita, e che la politicaconduce con altri mezzi, fissando nell’apparente neutralità delle istituzioni edelle procedure le reali dinamiche di sottomissione e assoggettamento. In talsenso, l’interlocutore privilegiato, in termini di referente polemico da “rove-sciare”, non appare il generale prussiano, che sembra in qualche modo limi-tarsi a fornire uno slogan, quanto Thomas Hobbes, autore fondamentale diquella tradizione del contratto e della sovranità in contrapposizione allaquale Foucault recupera e valorizza i discorsi sulla conquista, l’usurpazionee la guerra delle razze. La critica a Hobbes, tuttavia, si sviluppa a partire dal-la condivisione di un medesimo terreno problematico: quello relativo al rap-porto fra guerra e ordine sociale, che acquisisce significato all’interno dellaspazialità confinata dello stato. Rovesciare Clausewitz, in tale prospettiva, si-gnifica in primo luogo orientare la massima del generale prussiano dal con-testo interstatale in cui originariamente si colloca, a quello interno, per co-gliere nel conflitto, e non nella sua neutralizzazione, la base delle relazioni dipotere.

Diversamente per Deleuze e Guattari von Clausewitz non è un pretesto,ma un interlocutore privilegiato. Da questo punto di vista, il riferimento alVom Kriege, in termini espliciti e impliciti, contrappunta le sezioni di Millepiani dedicate alla macchina da guerra e all’apparato di cattura. RibaltareClausewitz significa allora proiettare gli schemi del generale prussiano, ov-viamente reinterpretati senza soverchie preoccupazioni filologiche e alla lucedi alcune ipotesi teoriche “forti”, sulla storia universale fino a raggiungere gliscenari geopolitici, sociali e tecnologici del Novecento. In tale prospettiva lamacchina da guerra appare configurarsi come un concatenamento che attra-versa i secoli e i millenni coniugandosi in forme sempre diverse e instabilicon gli apparati di stato. Tale impostazione, come ovvio, risulta decisamentemeno condizionata, rispetto a quella adottata da Foucault, dal riferimento,

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47 C. Schmitt, Il concetto di politico, in Id., Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972; A. Gnoli,F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 83.

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alle forme, alla spazialità e alle opposizioni (interno-esterno, militare-civileecc.) della modernità politica. Proprio da ciò discende il carattere “profeti-co”, rispetto al presente, di analisi calibrate su un’epoca precedente, la Guer-ra fredda, all’interno della quale tuttavia Deleuze e Guattari colgono, al disotto della continuità delle vecchie forme, l’operatività di potenti processi diintegrazione, di ridisegno degli assetti planetari, di inedite combinazioni fraspazi lisci e striati. Si tratta grosso modo di quella che con termine abusato siè oggi soliti definire “globalizzazione”. Ed è proprio a tale livello geopoliticoche con un paio di decenni di anticipo sembra collocarsi il discorso sullaguerra sviluppato in Mille piani.

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Si può parlare di “regolazione del capitalismo”, in termini sia di de-regola-zione sia di ri-regolazione, come di una pratica democratica in quanto tale a-zione opera su metodi e fenomeni che non sono meccanismi “naturali”, leggiscientifiche o volontà divine che s’impongono a tutti, ma decisioni politicheconcepite e adottate da uomini e da società concrete. A che punto siamo ri-spetto a tale questione, in quale spazio e tempo simili decisioni risultano con-trollabili dai popoli? E cosa hanno a che fare con tutto ciò le minacce di guer-ra o le guerre stesse?

Regolare il capitalismo con o senza la guerra?

È sempre stato possibile “regolare” il sistema capitalista all’avvicinarsi di unacrisi. I metodi si possono classificare in due grandi categorie:

• rilancio pacifico del sistema attraverso la redistribuzione dei redditi tra-mite la leva fiscale, la spesa pubblica, l’investimento in grandi progetti di pia-nificazione, il rilancio della domanda attraverso l’aumento dei consumi dimassa; • rilancio della spesa pubblica e dell’economia di committenza orientata a-gli armamenti, corrispondente a una sterilizzazione del capitale in un primostadio, poi alla sua distruzione violenta con la guerra.

Il rilancio attraverso il consumo comporta una forma di socialismo (Roose-velt, New Deal, keynesismo), il rilancio attraverso la guerra implica forme dipianificazione della spesa pubblica, ma anche una militarizzazione delle clas-

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IL LAVORO DELL’IMPERO E LA REGOLAZIONE DEMOCRATICA DELLA VIOLENZA GLOBALE

di Alain Joxe�

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si popolari e derive totalitarie (nazismo, fascismi). Non si è riusciti a evitare laseconda guerra mondiale; il New Deal è stato un fallimento e l’uscita degliStati uniti dalla crisi si ebbe solo con l’entrata in guerra. Poi con la ricostru-zione pianificata (piano Marshall, Alto Commissariato al piano ecc.), ma noncerto attraverso il liberismo deregolato.

La Guerra fredda, accompagnata dalla guerra di Corea e dai conflitti le-gati alla decolonizzazione, fu un periodo fasto per l’Euramerica liberale poi-ché ci si limitava a una mimica della guerra civile mondiale, sospesa dal terro-re nucleare, mentre tutte le reali operazioni belliche erano esportate verso il“Sud”. In quella fase, tutte le regolazioni capitaliste potevano essere confe-derate e armonizzate politicamente senza ricorso necessario alla grandeguerra reale. L’alleanza strategica, politica ed economica “occidentale” con-tro il comunismo sovietico legittimava la corsa agli armamenti, che poteva es-sere considerata come una regolazione attraverso una sorta di versione mili-tare del keynesismo, senza guerra mondiale. Nel corso dei “trenta gloriosi”,la transnazionalizzazione delle imprese capitaliste guadagnava terreno. L’al-ternanza di dittature militari e processi di democratizzazione mascheravasotto il velo del conflitto politico e ideologico la permanenza della linea co-stante della deregolamentazione economica organizzata a profitto del “cen-tro”, con l’estensione delle grandi società transnazionali e della gerarchiadelle imprese medie o piccole da esse dipendenti.

Dieci anni dopo la fine della Guerra fredda, sotto il dominio dell’iperpo-tenza “liberale” degli Stati uniti, il “cattivo” sviluppo attraverso la deregola-zione e l’erosione dello stato è giunto oggi a un limite. È in tale circostanzache si scatena, con il governo Bush, una nuova fase di rilancio attraverso laguerra. La guerra contro il terrorismo è proclamata “guerra senza fine” perdue ragioni.

• Il terrorismo non è un nemico ma una tecnica di resistenza a un sistemamilitarmente superiore. Poiché il sistema mondializzato accentua l’inegua-glianza e approfondisce il fossato fra ricchi e poveri, la tentazione di ricorrereal terrorismo non sembra destinata a estinguersi in tempi brevi.• A causa della transnazionalizzazione, gli interessi strategici del sistema ca-pitalista divengono progressivamente non più localizzabili nei territori nazio-nali. Ne consegue che il rilancio globale attraverso la corsa agli armamenti, ladistruzione del capitale e la guerra non trova “naturalmente” punti di cadutalocale meritevoli di un impegno bellico. Gli stati-nazione anticapitalisti comela Corea del Nord o l’Iraq sono casi rari. Perciò risulta necessario, e si proce-de in tal senso, produrre continuamente zone di intervento per creare una re-golazione militare globale permanente fondata sulla repressione dei deviantiostili alla deregolazione e ai suoi effetti catastrofici.

In effetti, all’infuori di stati che raggiungono livelli demografici e territorialida “impero”, tali che le catastrofi possono essere delocalizzate all’interno(Cina, Russia, Brasile), i casi di raggiungimento di una situazione di equili-brio nel processo di mondializzazione attraverso manovre agili (Cile, Malesia

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ecc.) rappresentano eccezioni fragili. Questi rari successi risultano un utileargomento per i dottrinari neoliberisti, ma non possono mascherare il fattoche il rischio di catastrofi prevale sulle success story nella maggioranza dellezone sottosviluppate del mondo.

La deregolazione liberista è un modo di regolazione fra i tanti, più o me-no pacifici o violenti. La questione che oggi si pone riguarda la possibilitàche la confederazione di criteri proposta dal presidente Bush, chiamata“guerra permanente contro il terrorismo”, possa porsi come modello di re-golazione globale oppure conduca a una crisi di egemonia ancora più grave,equivalente a una guerra civile mondiale. Si potrà evitare questa terza guerramondiale? Per conseguire tale fine è tuttavia necessaria una serie di riformeglobali profonde, come affermano i movimenti critici della “mondializzazio-ne” liberista. Per definire tali problematiche in modo chiaro e delineare ifronti di lotta occorre comprendere la rappresentazione strategica del mon-do fatta propria dall’impero americano, il soggetto dominante in materia diimpiego della forza.

La scomparsa dell’Unione sovietica al momento della Guerra del Golfoha aperto un periodo strategico del tutto nuovo, segnato dalla fine dell’allean-za strategica della Guerra fredda. Questa alleanza aveva legittimato nel siste-ma occidentale la coordinazione dei diversi modi di regolazione in un concer-to agile e consensuale. La caduta del muro di Berlino, la Guerra del Golfo e ilcrollo dell’Unione sovietica mettevano fine al nemico comunista, definito taledagli Stati uniti dal fin 1917. Gli Stati uniti si consideravano come centro delcapitalismo industriale mondiale già prima della Grande guerra, tuttavia la ri-voluzione sovietica rafforzò tale autorappresentazione che assorbe settantaanni di esistenza degli Stati uniti, ossia un terzo della loro storia.

La scomparsa del nemico designato crea un vuoto identitario per gli Statiuniti. Essi hanno contratto l’abitudine di definirsi in opposizione. I modellidi creazione del consenso, il populismo americano, si trovano ovviamentemessi in crisi da questa scomparsa dell’Altro. La speranza di un nuovo ordi-ne mondiale pacifico arriva alla vigilia della Guerra del Golfo (il discorso diBush padre sul “new world order”), ma si dissolve assai presto, con lo scop-pio di una serie di piccole guerre brutali accompagnate da genocidi parziali(Somalia, Ruanda, Balcani, Caucaso). Con la presidenza Clinton, su alcuniconflitti locali interminabili, la cui origine data dagli anni Quaranta, si tentadi implementare processi di pace. Qualcuno riesce (Nicaragua, Libano), altrisi trascinano senza successo (Colombia, Palestina). In quella fase, gli Stati u-niti intervenendo nei Balcani mettono fine alle guerre di pulizia etnica pro-mosse dai regimi ex comunisti diventati nazionalisti (la Croazia di Tudjman ela Serbia di Milosevic e Karadsic). L’obiettivo centrale del clintonismo, tutta-via, rimaneva l’enlargement, ossia l’egemonia globale mondo attraverso il do-minio economico.

Tale unilateralismo si militarizza lentamente a causa dell’influenza cre-scente dell’estrema destra repubblicana e delle nuove formulazioni strategi-che che si diffondono fra i militari a seguito dell’applicazione della rivoluzio-ne elettronica agli strumenti militari. Soprattutto dopo l’elezione presiden-

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ziale di Bush jr., la frazione minoritaria dell’estrema destra del partito repub-blicano (emersa sotto Reagan) prende la direzione degli affari sulla base diuna dottrina semplificata, appoggiandosi a un neoliberalismo dogmatico, ac-compagnato da un militarismo da fumetti e da un fanatismo religioso d’altritempi. Ne discende un pensiero unico che tende a indebolire la capacità dinegoziazione pluralista e ad imporre la regolazione militare come linea stra-tegica unificata, alla maniera bolscevica (o wahabita). L’intento è quello di ri-mettere in forma dalla fondamenta lo spazio-tempo della violenza in mododa incidere sullo spazio-tempo dell’economia per giungere a una sorta di si-stema integrato. Tale militarizzazione permanente, con ogni evidenza, po-trebbe condurre a immani disastri.

La globalizzazione dell’economia di mercato si è accelerata negli anni deldopo Guerra fredda e ha modificato le poste in gioco economiche nella lororelazione con le dinamiche politiche relative alla pace e alla guerra. Un com-plesso di vecchi dispositivi mentali, politici e strategici, sembra girare a vuotonel nuovo scenario, al punto che è lecito chiedersi se la morale politica tradi-zionale e il diritto internazionale non siano destinati a morire sotto i nostriocchi. Si assiste alla cancellazione dei limiti tradizionali fra pace e guerra, frastati in grado di “dichiarare la guerra” e “firmare la pace”. La “guerra del Be-ne contro il Male” proclamata da Bush all’indomani dell’attentato dell’11settembre non può finire con una negoziazione, un accordo o una divisionedelle zone di influenza. Nessuna pace è possibile fra il Bene e il Male. Nessunarmistizio fra Dio e il Diavolo. Quindi, in prospettiva, nessuna pace apparepensabile. Ci si può rassegnare ad accettare una simile rappresentazione? Sipuò ammettere che possa imporsi in base ai semplici proclami di un presi-dente americano? O di un terrorista saudita? Sicuramente no. In effetti, oc-corre relativizzare la metamorfosi messa in scena da un governo statunitenseradicale sotto lo choc di un attentato estremista. Il mantenimento della pacee lo sviluppo economico reale restano gli obiettivi prioritari dell’umanità, e lacontrocorrente ostile al militarismo dell’attuale leadership americana comin-cia a organizzarsi.

Nuovi spazi-tempo

La globalizzazione finanziaria conduce alla fine dei conflitti economici stret-tamente localizzabili. Di conseguenza le crisi e le guerre locali rimandano acause globali e la pace locale non dipenda più dalle poste in gioco o dagli atto-ri locali. In un simile contesto, sin dal 1997, emerge negli Stati uniti un pensie-ro strategico che con lucidità prevede che non ci sarà più pace e il mondo co-noscerà conflitti senza fine, cioè allo stesso tempo senza termine e privi di unoscopo delimitato.1 È la fine della nozione di pace sociale, gestita nel quadrodello stato-nazione, considerato come garante del buon vicinato sociale.

Le due globalizzazioni in corso si presentano strategicamente e tecnica-

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1 R. Peters, Constant Conflict , in “Parameters” dicembre 1997, pp. 4-14

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mente come sottoprodotti della rivoluzione elettronica, militare ed economi-ca. Prima di creare nuovi spazi, la globalizzazione economica e militare lavo-rano sul tempo, sulla scala della temporalità. L’economia e la guerra sono ca-ratterizzate, rispettivamente, dalla produzione e dalla distruzione. La produ-zione e la distruzione, non essendo improntate alla stessa temporalità, deter-minano differenti fenomeni di spazialità geografica: lo spazio-tempo dellaproduzione economica deve essere distinto dallo spazio-tempo della distru-zione militare. Ma la rivoluzione elettronica introduce nell’economia lo spa-zio-tempo della decisione rapida, tipica del tempo militare della distruzione,e nella strategia militare la messa a fuoco degli obiettivi (ciblage o focussing dialta precisione) che caratterizza l’azione politica o poliziesca. Il sapere eco-nomico diventa potere finanziario, il sapere militare potere poliziesco.

Torniamo alla questione del tempo nei rapporti di forza economici, socia-li, politici, militari e scientifici. Si può affermare che il fattore decisivo nel rap-porto di forza fra paesi o classi risieda nelle forze disponibili, quantificabili,accumulate dalle diverse parti in causa. In materia di superiorità o inferioritàstrategica, tuttavia, occorre stabilire una distinzione fra la determinazione so-cio-economica e la decisione politico-strategica, che operano con temporalitàdiverse: una su tempi lunghi, l’altra su tempi corti. Questa precisazione fa rife-rimento ad Antonio Gramsci, che nelle Note su Machiavelli distingue tre livel-li del rapporto di forza, essi stessi divisi in sottolivelli gerarchizzati dalla strut-tura (economico-sociale) alla sovrastruttura (politica-militare-tecnica).2 Ladeterminazione economica gioca sul lungo periodo. Nei sistemi di produzio-ne preindustriali, i tempi lunghi presiedono alla produzione e allo stoccaggiodelle riserve, nel sistema capitalista all’investimento e alla produzione.

Il tempo corto della decisione presiede all’azione militare in quanto intera-mente destinata alla distruzione, ed è “più facile distruggere che produrre”.3Nel sistema di produzione capitalista, l’investimento dei profitti nella ricerca esviluppo e nella produzione futura rende il ciclo di riproduzione del capitaleun sistema a tempi lunghi. Il problema teorico attuale è quello di dare uno sta-tuto esplicativo all’irruzione della rivoluzione elettronica e alla preminenzaapparente del “tempo breve” e della messa a fuoco di precisione, comuni allalogica militare e alla logica finanziaria, e ai danni che ne conseguono.

Secondo Gramsci, la “scala di ascesa” dalla struttura alla sovrastruttura(nella colonna di sinistra della figura) implica l’innesco della mediazione: o-gni livello, tranne quello puramente strutturale o sovrastrutturale, assume ilsignificato di una mediazione fra il piano inferiore e superiore. Questo sche-ma permette di pensare la causalità storica come oscillante (senza che le con-traddizioni divengano necessariamente antagoniste) fra un polo determinan-te del lungo termine e un polo decisivo del breve termine con la mediazione(“egemonica”) della politica che naviga (o tergiversa) nel tempo medio delcommercio, delle elezioni, dei bilanci.

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2 A. Gramsci, Note sul Machiavelli, Editori riuniti, Roma 1973, pp. 68-72. Cfr. A. Joxe, Le Rempart so-cial, Galilée, Paris 1979, pp. 160-163.

3 T.C. Schelling, Arms and Influence, Yale University Press, New Haven 1966.

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Lo schema di Gramsci offre una chiara rappresentazione del rapporto diforza militare riassunto da von Clausewitz nella formula secondo cui “laguerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Esso permette anchedi evidenziare come i rapporti di forza militari siano inscindibili, per il lega-me tecnologico che intercorre fra il tecnico-militare e il tecnico-economico,dai rapporti di forza economici.

La scala che qui rappresento come “mediazione bis” (tecnologica) nontrova corrispondenza in Gramsci, che da parte sua non ammetteva l’esisten-za autonoma di un rapporto di forza tecnologico. A nostro avviso, invece, ta-le scala è diventata una sorta di anello, attraverso la mediazione – provviso-riamente non politica (sino al trionfo delle tesi ecologiste) – della scienza edella tecnologia (produttiva e distruttiva). Fra il tecnico-economico e il tecni-co-militare si situano, infatti, i mezzi materiali, che propongono una media-zione “software” fra decisione distruttiva (il tempo corto) e la determinazio-ne produttiva (il tempo lungo). Questo “momento” resta indefinito inGramsci. Si trattava di una casella vuota, ma oggi il tecnico-militare e la suadipendenza reciproca con il tecnico-economico sembrano chiudere il cer-chio fra i due poli. Si può allora dire che Gramsci situava a monte il ruolo og-gi svolto dalla rivoluzione elettronica nel riassetto del rapporto di forza mili-tare ed economico.

A proposito delle temporalità, si può affermare che:

• la determinazione socio-economico è propria al sistema di gestione a lun-go termine della produzione e a medio termine della commercializzazione;• la decisione politico-strategica è propria al sistema di gestione:

– a medio termine della minaccia di repressione virtuale dello stato di di-ritto;

– a breve termine della distruzione e la morte reale della guerra.

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• Polo decisivo – sovrastruttura decisione – tempo breve

3. forza militare 3.2 tecnico-militare accelerazione informatica 3.1 politico-militare (tecnico-poliziesca)

2.3 politica2. forza politica 2.2 lobby 2bis. forze tecnologiche

2.1 economico-corporativo

1.2 relazioni sociali di produzione1. forze sociali 1.1. forza produttive

(tecnico-economica) accelerazione informaticatecnico-finanziaria

• Polo deterrminante – infrastruttura produzione – tempo lungo

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È per certi versi fra questi due poli (minaccia di morte virtuale e commercia-lizzazione) che si situa lo spazio della manovra egemonica, nel senso in cuiGramsci pensa l’esercizio e la riproduzione del potere attraverso il consenso.4

I tempi brevi e la decisione accelerata della speculazione di borsa rinvianopiù alla temporalità distruttiva politico-militare che a quella lunga dell’inve-stimento produttivo. L’affermarsi (borsistica o manageriale) di una tempora-lità accelerata, caratteristica del tecnico-militare, rappresenta quindi una fal-sa mediazione per quanto riguarda la temporalità economica “determinan-te” e produce catastrofi economiche attraverso decisioni di breve termine (siveda il caso dell’Argentina), siano esse involontarie o perfettamente consape-voli, il cui unico fine è il profitto immediato. È il rapporto di forza fra questiquattro insiemi di cause, e l’effetto dell’accelerazione dell’operatività dellesfere economiche e militari senza mediazione della politica spinta dall’ambi-to scientifico-tecnologico che “ordina il mondo” in un tipo di spazio misto: diproduzione di distruzione. Il padroneggiamento dello spazio-tempo dellaviolenza economica e militare dovrà rimanere politico, o ridiventarlo, pena lamorte della sovranità popolare (democratica).

Causalità complesse e controllo democratico sull’opzione guerra-pace

Al di là del grado di unificazione o sovrapposizione dei diversi spazi (econo-mico, politico, militare), come definire in termini di “causa e effetto” le rela-zioni che collegano la violenza militare, il discorso politico, le scelte econo-miche, l’innovazione tecnologica? Con ogni evidenza stiamo assistendo auna tendenza all’informatizzazione della guerra e dei conflitti economici. Laspinta impressa dalla rivoluzione informatica produce un processo di tra-sformazione delle mansioni militari in compiti puramente polizieschi, e dellemansioni economiche in funzioni puramente finanziarie. Ma come si deveconsiderare la “modifica” intervenuta nei settori militari ed economici dalpunto di vista del controllo democratico che può ancora essere esercitatosull’opzione guerra-pace?

Il controllo politico sovrano è oggi contrario agli obiettivi imperiali. Se-condo la terminologia strategica americana, che si interessa più agli effettiche alle cause, più alla sanzione che alla prevenzione, l’espressione “to shapethe world” designa un modellamento antidemocratico. Il ricorso alle tempo-ralità accelerate della repressione o alla produzione del consenso mediaticopermette di dare forma allo spazio politico (di guerra) sottraendo ogni effica-cia alla sovranità popolare. Tale sistema di rapporti di forze sta cambiandoprofondamente da sedici anni a questa parte, e non si è ancora stabilizzato:esso genera nuove forme di intervento, di spedizione, di repressione. Ovvia-mente anche la resistenza a tale sistema si vede costretta ad assumere nuoveforme.

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4 Per la comparazione fra questo schema gramsciano e i “criteri” di Carl Schmitt: A. Joxe, Voyage auxsources de la guerre, Puf, Paris 1991, pp. 70-82.

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L’esigenza di decifrare, con riferimento ai casi concreti, il mistero del po-tere imperiale è tanto più urgente quanto maggiormente esso appare più vir-tuale che reale, più sistemico che decisionale. Bisogna costringere il diritto dipace e di guerra a ripassare sotto il controllo dei cittadini per concrete esi-genze politiche interne ed esterne, e quindi costituzionali e diplomatiche.

Ridimensionare penalmente la sovranità dell’impresa. Nella congiuntura at-tuale, occorre rinnovare la definizione teorica della globalizzazione dell’eco-nomia mondiale, alla luce della crisi finanziaria sopraggiunta nel 2002, in ter-mini più caricaturali e rapidi di quanto ci si potesse aspettare, sull’onda dellebancarotte fraudolente avvenute al centro del sistema. La crisi della globaliz-zazione finanziaria sorge dopo il 2002 come fattore politicamente destabiliz-zante per la “sovranità delle imprese”.5 La disgiunzione stabilita dalla dog-matica ideologia liberista fra razionalità economica di impresa e violenza ra-gionata dello stato subisce, negli Stati uniti, lo choc di una domanda populi-sta di repressione nei confronti dei dirigenti d’azienda truffatori e dei ban-chieri o revisori loro complici. La globalizzazione economica è diventataquindi un processo politico e giudiziario che mette in causa il potere presi-denziale americano e quello del padronato transnazionalizzato. Il potere fe-derale ha scelto di colpire duro i singoli truffatori senza mettere in discussio-ne la libera impresa. In Europa siamo in attesa di una reazione più politica.

Controllare i poteri di guerra degli esecutivi. L’esecutivo americano ha di-chiarato dopo l’11 settembre una guerra “globale”, fatta di spedizioni loca-li, in nome della “lotta antiterrorista globale”. Questo bellicismo pezzenterisulta attualmente negli Stati uniti funzionale a neutralizzare con la paura lacritica populista nei confronti delle élite economiche. L’articolazione fraguerre ed effetti finanziari perversi sta modificando la globalizzazione. Ineffetti, oggi non è più possibile avanzare una definizione teorica della globa-lizzazione che non tenga conto del ruolo centrale rivestito dalla violenza mi-litare o paramilitare dell’impero. Opporsi alla guerra contro l’Iraq non si-gnificava schierarsi dalla parte di Saddam Hussein ma frenare il trattamentomilitare delle crisi politiche e sociali del Medio Oriente, il cui esempio piùscandaloso resta la Palestina.

Non perdere di vista il Pentagono. Considerare separatamente l’economia li-berista e la violenza globale conduce a un’impasse, nella quale finisce anchel’opera di Antonio Negri e Michael Hardt Impero. La mancata considerazio-ne del potere militare imperiale come mezzo e non come semplice fautoredella guerra – compresa quella sicuritaria nelle banlieue e nelle periferie – è laconseguenza di un approccio economicista (marxista tradizionale) ai rappor-ti di forza. La sottovalutazione dei mezzi repressivi moderni è una lacuna ti-

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5 Propongo di precisare questa nozione di sovranità delle imprese che sorge di fronte alla sovranitàpopolare situandola al cuore del problema politico scatenato dalla globalizzazione economica: A. Joxe,L’impero del caos. Guerra e pace nel nuovo disordine mondiale, Sansoni, Milano 2003, pp. 34-38.

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pica dei teorici sia marxisti sia liberali che considerano l’economia come lasola causa determinate dei rapporti di forza. Se non si precisa sufficiente-mente il ruolo svolto dalla rivoluzione informatica nei rapporti di forza e sisostituisce il termine spinozista di “moltitudine” a quello di “popolo” – persfuggire ai limiti obsoleti della scala dello stato nazione – si rischia di appro-dare a una sorta di clintonismo ideale. Diversamente, occorre accompagnarela riflessione sui cambiamenti innescati dall’informatica con uno studio pre-ciso della topografia della violenza, della non violenza e della localizzazionedella lotta democratica nello spazio transnazionale deregolato.

L’importanza della resistenza in Europa

L’Unione europea resta un ambito democratico in grado di resistere politica-mente, economicamente e militarmente alla deregolazione economica del-l’impero in quanto dotata delle dimensioni di scala degli Stati uniti. Essa puòquindi resistere anche alla “regolazione militare” in cui si lancia l’impero a-mericano. Affinché l’Unione europea sia nelle condizioni di svolgere taleruolo in modo reale e non virtuale occorre che le forze democratiche e socialisi impegnino fortemente su obiettivi che possono sembrare formali mentrein realtà costituiscono le poste in gioco e i simboli della sovranità democrati-ca che possono assumere un valore paradigmatico anche senza avere nell’im-mediato effetti globali.

• Dal punto di vista politico, la futura costituzione democratica dell’Unio-ne europea non deve essere una maschera per il mantenimento, dietro unalegittimità fondamentalmente diplomatica, di un potere più burocratico chedemocratico. I dibattiti sulla costituzione devono essere molto più vivaci etransfrontalieri. La questione è quella di passare all’organizzazione della so-vranità popolare a scala dell’Europa unita.• Dal punto di vista della sicurezza, la guerra e la pace nei dintorni dell’Eu-ropa devono essere vigilate dall’opinione pubblica con molta più precisionee sensibilità, senza concessioni al vocabolario e agli stereotipi lanciati dallemode americane. Bisogna esigere la soluzione degli scandali più eclatanti:l’indipendenza dei palestinesi, la fine degli orrori in Iraq, la ripresa di un pro-getto di sviluppo concertato nel Mediterraneo. Sul piano interno, cercandodi risalire alle cause dei problemi, si può bloccare lo scivolamento verso ilmodello della “guerra contro le banlieue e le periferie”. L’allontanamentodello stato repressivo dallo stato di diritto deve essere scongiurato e la difesadei diritti dell’uomo rafforzata attraverso una critica permanente.• Dal punto di vista economico, i problemi della perequazione dei reddi-ti, del trattamento sociale delle diseguaglianze, della lotta al razzismo e al-l’esclusione devono essere affrontati in modo che la definizione concretadell’Europa come repubblica che privilegia le soluzioni sociali diventi unluogo comune dei dibattiti politici in tutti i paesi, nel Vecchio continente ealtrove.

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Per concludere, i successi che gli europei possono conseguire in questa resi-stenza alla deregolamentazione militarizzata attraverso l’alleanza con le forzedemocratiche globali, comprese quelle statunitensi, potranno condurre arappresentazioni capaci di fare concorrenza su tutti i piani agli stereotipi pa-ranoici del puntamento globale (ciblage o targeting) e dell’assassinio preven-tivo che ci giungono attualmente dall’America. Si contribuirà così a rovescia-re la tendenza all’emergere di una sorta di reazione nobiliare fascistoide suscala globale, che sembra del tutto incline a seppellire l’habeas corpus, a rista-bilire la lettre de cachet (o editti del principe), a generalizzare i campi di de-tenzione in nome della difesa dal terrorismo e dell’espansione della “demo-crazia”. (Traduzione Salvatore Palidda)

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Tra lo stupore e l’orrore: con questa sensazione siamo costretti a convivere,per lo più impotenti, nel presente della guerra preventiva – un tempo scandi-to dalla barbarie quotidiana di conflitti infiniti, funestato da attentati suicidied esecuzioni in diretta, segnato da luoghi come Abu Ghraib e Guantanamo.Stupore e orrore, per esempio, hanno accompagnato le reazioni internazio-nali al massacro compiuto nel teatro di Mosca nell’ottobre del 2002, per poirimpossessarsi ingigantiti, a due anni di distanza, di tutti coloro che seguiva-no gli sciagurati sviluppi del sequestro dei bambini nella scuola di Beslan. Lì,tra quei cadaveri, i filosofi della politica avranno potuto scorgere l’immaginedefinitiva della crisi in cui è precipitata l’idea stessa di stato, di uno stato,cioè, che non opera più distinzioni tra amici e nemici, tra civili inermi e “ter-roristi”. Il conflitto ceceno, in ogni caso, si inserisce a tutti gli effetti nelloscenario imposto dalla permanent war, dove la serialità di orrori e stuporisembra superare ogni limite politico e soprattutto non concedere spazio allamemoria. Così i cadaveri dei terroristi “gasati” dalla miscela di droghe vaso-dilatatorie e sarin, quelli occultati in sacchi dei civili “che non ce l’hanno fat-ta” e quelli iperesposti e inguardabili dei bambini del Daghestan disposti infila lungo le mura devastate della loro scuola, sono stati rapidamente neutra-lizzati e archiviati, come del resto le indagini che avrebbero dovuto accertarecause e responsabilità di quelle morti, previste o meno, volute o meno. Ilmessaggio suonava piuttosto chiaro: si trattava dell’ennesimo fronte di unconflitto che è “infinito” soprattutto perché in esso ogni confine appare de-stinato a saltare.

In nome della sicurezza, quindi, e della guerra preventiva, anche la di-stinzione tra civili e terroristi (un vero finis terrae nelle retoriche post 11 set-tembre 2001) finisce per assumere un’assoluta indeterminazione. Certo, è

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LA PARTE DELLE VITTIMENote sull’umanitarismo tra guerre d’ingerenza, politiche di sicurezzae controllo dell’eccedenza

di Federico Rahola�

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un’idea di sicurezza davvero estrema quella suggerita dallo “specialista” Pu-tin, dove l’elemento di “rottura” consiste proprio nella direzione paradossalee nella dimensione totalizzante che le si attribuisce. Ma se il segno è “nuovo”(e di una novità che in Russia riporta indietro, azzerando il tempo), il sensonon lo è affatto, limitandosi a riprodurre all’interno di confini nazionali ciòche la dottrina della guerra preventiva ha esteso globalmente. La differenzatra il sacrificio di alcuni cittadini per colpire i “terroristi” e quello di interepopolazioni sottoposte a bombardamenti e a un fuoco incrociato che è sem-pre nemico per punire gli stati “terroristi” cui appartengono, risulta infattidavvero sottile, praticamente inesistente. Allude a esistenze il cui status for-male in un caso viene travolto, nell’altro non si è mai dato se non come finzio-ne. E porta alla luce il grado zero di una figura che accompagna come un bas-so continuo le guerre del presente, oscillando tra una visibilità mediaticaspesso ridondante e quasi ossessiva, e un’assoluta inconsistenza politica:quella della vittima.

Intenzione di queste pagine è interrogarsi sullo status tanto immediatoquanto nei fatti negato e irrappresentabile che appartiene alle vittime. Oggi“vittima” è categoria in cui ci si imbatte ovunque e comunque: dall’estremodei genocidi (per lo più evocati a sproposito, rischiando così di banalizzarenel paragone sia la parola sia i soggetti coinvolti) alle deportazioni in massa,dalla cronicità di intere popolazioni costrette alla fame alla banalità del maledi abusi e vessazioni, fino al fumo passivo. Ma dietro all’apparente autoevi-denza, dietro a una definizione che sembra spiegarsi da sola, che cosa davve-ro è in gioco quando si parla di vittime? L’impressione è che in un campo se-mantico così vasto si celi un inganno, o meglio un’insidia: il fatto di avere ache fare con una categoria, al limite giuridica, ma eminentemente morale, ecome tale essenzialmente impolitica, o forse metapolitica, se si segue fino infondo la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith. Siamo sicuri allora chevittima sia la parola giusta per definire soggetti la cui condizione è invecequasi sempre politica, ma il cui status non emerge mai, resta come scopertodal lessico della politica?

Per questo, a una definizione che per la sua indeterminatezza rischia diassolvere tanto chi la pronuncia quanto soprattutto la situazione che denota,suggerisco di affiancarne un’altra, collocata probabilmente agli antipodi diogni categoria morale, e in ogni caso altrettanto immediata: quella di “ecces-so”. A partire da una distinzione, questa sì tutta politica, che riguarda in a-stratto una generica capacità “di voce”: ci sono vittime che parlano, che sidefiniscono come tali (e quindi “agiscono”, mettono in atto un processo divittimizzazione), e vittime che invece non hanno voce e vengono così definiteda altri. Questa quota di umanità cumulativamente ascritta a vittima, in sédecisamente maggioritaria, comprende soggetti che, come suggerisce Gaya-try Spivak, sono quasi sempre “geopoliticamente situati”: dalle masse in fugada conflitti e carestie ai corpi esanimi dei cittadini sacrificati da Putin, a quel-li dei civili afghani, iracheni, kosovari, serbi o palestinesi, colpiti accidental-mente o, peggio ancora, per avere essi stessi confuso una bomba a frammen-tazione con un aiuto umanitario, fino ai migranti naufragati nel Mediterra-

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neo. Si tratta di individui collocati definitivamente aldilà delle frontiere sta-tuali-nazionali, e quindi oltre ogni idea di cittadino, la cui vita e la cui mortediventano irrilevanti, non contano e non si contano – e per i quali la morte,quando incombe, è per lo più accidente tecnicamente ineludibile, rubricatonel lessico osceno del warfare management come un “danno collaterale”.

Proprio la formula danno collaterale, corollario inesorabile delle altret-tanto inesorabili vittime di tutti i conflitti contemporanei, è un sintomo chetradisce la specifica “idea di umanità” che ha agito come presupposto impli-cito e costante delle operazioni di ingerenza armata degli ultimi anni, lungoun filo rosso che dalla Somalia e dal Kosovo “salvati ” da un intervento uma-nitario arriva all’Afghanistan e all’Iraq “scioccati e domati”. L’impressione èche, a seguirlo davvero, questo filo finisca per relativizzare o comunque con-testualizzare meglio il presente, il suo porsi come ipotetica cesura perentoriarispetto al tempo che l’ha preceduto – un tempo da cui le guerre parevanodefinitivamente bandite o ridotte alla cifra progressiva di operazioni di inge-renza umanitaria, e in cui tutto sembrava cooperare nel segno dell’apertura,verso la realizzazione di uno scenario di enlargement e di condizioni ottimaliper l’operare dei mercati.

Se infatti ci si affranca dalla versione mainstream che interpreta la guerrapreventiva come legittimata esclusivamente dalla minaccia terrorista, si sco-pre la trama di un “ordine” (e le virgolette sono obbligatorie) che è stato co-stitutivamente attraversato da conflitti, perlomeno a partire dal 1991, annodella prima crociata irachena.1 Un “ordine”, cioè, che ha restituito alla guer-ra quella centralità che la stagnazione bipolare sembrava aver attenuato – eche in realtà aveva solo concentrato localmente, lontano da Occidente –2 fa-cendola agire, al di là di ogni lettura eccezionalista, come autentica condizio-ne di possibilità, principio regolativo di un capitalismo oggi interamente glo-balizzato, che per mantenere gli squilibri su cui si alimenta non può non ri-correre alla forza.3 Ciò, tra le altre cose, consente di problematizzare ognitentativo di rappresentare il presente di guerra come congiuntura assoluta,inciampo temporaneo nel processo lineare di costituzione di una superficieglobale che si vorrebbe sconfinata e potenzialmente liscia, priva di attriti edesteriorità. Al contrario, credo che solo a partire dal ruolo centrale dellaguerra sia possibile comprendere il tipo di esteriorità, siderale e assoluta, chequest’“ordine” continuamente produce ed esige come residuo costante e i-nesorabile, e cioè come eccesso.

Detto in altri termini, dietro a un presente che sembra sovvertire il tempo

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1 Per un quadro sintetico, si veda A. Dal Lago, Polizia globale. Note sulla trasformazione della guerrain Occidente, ombre corte, Verona 2003.

2 Indagando la contabilità di conflitti e di vittime che hanno accompagnato gli anni della Guerra fred-da, si scopre come una tale stagnazione sia stata l’effetto più o meno oggettivo di un’instabilità e di unaconflittualità altrettanto endemiche e solo meno “visibili”. Per un’analisi delle “guerre postcoloniali” del-la Guerra fredda, si veda M. Mazower, Dark Continent, Penguin Book, London 1998.

3 Del resto, e stiamo parlando di oggi, l’esito del vertice di Cancun, dove Europa e Stati uniti hannoimposto il libero scambio a intere aree del mondo esigendo poi il rispetto di gabbie di protezione nei rap-porti commerciali che li riguardano direttamente, dimostra come un tale “equilibrio” si possa manteneresolo su uno stato di guerra permanente.

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e la stessa idea di spazio che l’hanno immediatamente preceduto, è possibilecogliere elementi di continuità che incrinano ogni tentativo di lettura linearee immediata tanto del processo di costituzione “imperiale” quanto dellaguerra permanente che sembra averne sconvolto la trama. Linee che possonoagire sia orizzontalmente (e che Alain Joxe invita a disporre su un continuum,dalle operazioni di ordine pubblico fino allo scontro teologico di civiltà)4 siaverticalmente (sull’escalation che salda la prima Guerra del Golfo all’ultima),trovando nella cifra della sicurezza il proprio punto di non ritorno. Nelle pa-gine che seguono ci proponiamo in ogni caso di recuperare il significato diuna tale continuità concentrando l’attenzione su un tratto apparentementesecondario, rintracciabile a 360 gradi nei presupposti e negli esiti delle guerredi ingerenza degli ultimi dieci anni, e deducibile dalla generalizzata indiffe-renza per gli effetti politici, sociali e materiali dei conflitti sulle popolazionicolpite. È ovvio, immediatamente evidente, che un tale atteggiamento nonpossa venire attribuito esclusivamente alle guerre del presente. Le proporzio-ni che assume oggi, però, tendono a conferirgli un particolare carattere sinto-matico, direttamente riscontrabile nelle modalità tecniche in base a cui leguerre vengono condotte (l’uso massiccio dell’aviazione, le vittime accidenta-li perché indistinguibili, gli aiuti umanitari che si confondono con le bombe),nelle conseguenze immediate che producono sui territori colpiti (gli esodiforzati, la devastazione ambientale), nelle forme attraverso cui si governa lavita delle popolazioni (la militarizzazione delle operazioni di assistenza, le i-dentificazioni in massa di civili). E ancora, nella produzione a ciclo continuodi sfollati, nella creazione di enormi campi profughi, in uno stato di guerrache si protrae ben oltre la fine delle operazioni militari, e di morti quotidiane,normali, “naturali”. Ora, è proprio da questi tratti, reperibili senza soluzionedi continuità in ogni territorio teatro di guerra, che, a grandi linee, emergel’autentico significato politico di un’umanità in eccesso, quale sottoprodottocostante delle guerre di ingerenza: un’umanità, cioè, che le guerre sovrae-spongono e contemporaneamente costringono, arginano. Ed è per questomotivo che si possono leggere tali guerre (anche) come dispositivi di controllodell’eccedenza. Si tratta di un’ipotesi ulteriormente rafforzata dal tipo di “or-dine” che accompagna l’aftermath delle operazioni militari: un ordine che siafferma nella forma costante di “protettorati” attraverso il dispiegamento diingenti presidi internazionali, che territorializza intere popolazioni impeden-do ogni possibilità di asilo in paesi terzi,5 un ordine che è esclusivamente etni-co e per questo risulta inesorabilmente infestato da conflitti a “bassa inten-sità”. Dalla Somalia abbandonata a se stessa dopo il fallimento dell’operazio-ne Restore Hope al Kosovo monoetnico e popolato da minoranze perseguita-te (che con la loro presenza “legittimano” il protettorato internazionale im-posto dalla risoluzione 1244 delle Nazioni unite), all’Afghanistan dilaniato

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4 Cfr. A. Joxe, L’impero del caos. Guerra e pace nel nuovo disordine mondiale, Sansoni, Milano 2003.5 È infatti sulla base di una presenza internazionale in loco che è possibile respingere o comunque non

ammettere rifugiati in paesi terzi, evadendo il principio di non refoulement contemplato dallo Statuto in-ternazionale in materia di asilo del 1951. Rimando, in proposito, a R. Cohen, F. Deng, Masses in Flight.The Global Crisis of Internal Displacement, Brooking Institution Press, Washington 1998.

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del dopoguerra, per non parlare dell’Iraq, dove il “dopoguerra” (termine chepare assurdo) provoca più vittime della guerra stessa, la prima impressione èdi qualcosa di davvero imparagonabile alla minima nozione di ordine.

La domanda da porsi è quindi piuttosto diretta: come saldare questa fe-nomenologia costante all’idea di sicurezza, parola chiave delle guerre delpresente? Gli elementi appena indicati, infatti, contribuiscono a delineareun quadro molto lontano dai proclami di law and order che hanno accompa-gnato le bombe su Belgrado, Kabul e Baghdad. A questo proposito, moltevoci hanno denunciato la “superficialità” dell’establishment americano nelgestire la pianificazione delle operazioni militari e soprattutto il dopoguerrain Afghanistan e Iraq: la totale ignoranza della specifica realtà politica, socia-le, culturale e “umana” di quei paesi, dietro cui è possibile cogliere un’ine-quivocabile attitudine razzista.6 “Errori” analoghi, perlomeno nella sostanza,li si potrebbe imputare alla gestione militare e politica della guerra umanita-ria del Kosovo (visibili in primo luogo nell’accidentalità “seriale” delle vitti-me, oltre che nella gestione dell’emergenza profughi durante i bombarda-menti e nelle attuali condizioni delle minoranze). E, in tutti i casi evocati (laSomalia non occorre neppure citarla), di razzismo davvero si tratta: un razzi-smo coloniale, “orientalista”, che informa ideologicamente l’unilateralismoegemonico, statunitense e non solo, e si costruisce su categorie rozze, stilizza-te, cumulative (gli “arabi”, l’“Islam”, l’“Occidente”), su confini netti, dico-tomici, polarizzati, à la Huntington. Ma non basta. Perché il razzismo, dalcolonialismo in poi, non è pensabile come “semplice” fatto culturale, ma co-me rapporto geopolitico che direttamente produce una cartografia e si sor-regge su una trama di confini perentori. In altre parole, non credo si possaguardare agli esiti contraddittori e agli errori che hanno costellato tre conflit-ti diversi, accomunati però da un generico principio di ingerenza, come asemplici accidenti, liquidandoli con quella che Weber avrebbe definito una“eterogenesi dei fini”. Occorre invece ricondurli alla dimensione di confinecui immediatamente rispondono, per scoprire una sistematicità nella produ-zione di vittime e di disordine che trova proprio nell’involontarietà e nell’in-differenza il proprio carattere politico di fondo.

Tutto ciò chiama direttamente in causa le politiche di sicurezza, concettola cui assoluta centralità nella trama della modernità politica si può far risali-re genealogicamente alla costruzione hobbesiana dello stato. Parlare oggi disicurezza, in ogni caso, significa soprattutto doversi misurare con il progres-sivo rovesciamento che il termine ha subito negli ultimi quattro decenni, pas-sando da una declinazione essenzialmente rivolta verso l’interno, tesa a forni-re garanzie e un senso materiale alla parola inclusione, a una proiezione e-sclusivamente esterna, come insieme di dispositivi di law enforcement, a pre-sidio di confini sempre più esclusivi.7 Proprio quest’azione “sui confini”

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6 Si vedano, per esempio, E. Said, Sogni e fissazioni. “Democrazia”, “liberismo” e “terrorismo”: parolenuove per un antico razzismo, in “Internazionale”, 508, 2003; A. Dal Lago, Polizia globale. Note sulla tra-sformazione della guerra in Occidente, cit.

7 Cfr. M. Dillon, Politics of Security. Towards a Political Philosophy of Continental Thought, Routled-ge, London-New York 1996.

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conferisce un rinnovato significato “biopolitico” alla nozione di sicurezza,insistendo su quel limite minacciato e in prospettiva sempre più evanescenteche separa un’area in cui si governa la vita della popolazione, dove si “fa vive-re”, da un’esterno di abbandono, in cui si “lascia morire”.8 Un limite, per in-ciso, che il gesto di Putin dimostra di avere decisamente oltrepassato.

Per cogliere meglio il senso di questo confine e il ruolo decisivo che su diesso gioca la sicurezza è utile riprendere Michel Foucault, e più precisamenteun suo corso del 1978 al Collège de France, dedicato a Sécurité, territoire, po-pulation.9 Argomento centrale di quel corso era il progressivo investimentopolitico sulla sicurezza che accompagna la transizione “moderna”, processoche Foucault riconduce all’intreccio e al progressivo avvicendamento di unpotere disciplinare con una vera e propria scienza di governo, e che genealo-gicamente fa risalire alle innovazioni introdotte nella Francia del XVIII secolodai fisiocratici. È qui, infatti, che il concetto di sicurezza entra con forza nelregno della politica. Ma a differenza della disciplina, che lavora sul certo, suun’idea di tempo e di spazio regolarmente (pre)costituiti (un calendario,un’istituzione totale), la sicurezza è statistica, indica possibilità ottimali, cur-ve virtuali, probabilità. Se cioè il potere disciplinare agisce attraverso unasorveglianza costante e una punizione latente, la sicurezza, pur prevedendospecifici fenomeni e determinate insorgenze sociali, non li inibisce e tendeinvece ad assecondarli, per governarne in un secondo tempo le conseguenzee “assicurarne” i possibili effetti. Anticipando di un ventennio i lavori di Ul-rich Beck sulla società del rischio e quelli di James Rosenau sulla turbolenzanelle relazioni internazionali, Foucault individuava nella “gestione del disor-dine” il dirompente carattere di rottura introdotto dalle politiche di sicurez-za: insomma, dove la disciplina impone un ordine, la sicurezza permette digovernare il disordine. Ma come? Non certo eliminandolo, e neppure ridu-cendolo. Semplicemente spostandolo in là: controllando a distanza il caosche inevitabilmente si produce e gestendone poi in qualche modo gli esiti.Ora, proprio l’allontanamento del disordine, la sua gestione territorializzata,riporta alla luce l’azione dello specifico confine cui ricondurre la nuda vitadelle popolazioni civili, delle vittime delle “nuove guerre”. Un confine essen-zialmente politico, che appare ben più determinato e determinante delle fa-glie di civiltà preconizzate da Samuel Huntington. Un confine che le guerredel presente esasperano nel segno della prevenzione.

L’ipotesi che si vuole sviluppare, dunque, è che al di là di questo confineesista lo spazio “abitato” dalle vittime, da soggetti rappresentabili solo neitermini astratti di un eccesso, la cui vita e la cui morte diventano irrilevanti: èil caso dei civili somali seviziati dalle truppe “umanitarie” italiane, dei serbi edei kosovari colpiti accidentalmente durante la “guerra celeste” del Kosovo,del numero oscuro di morti afgani e iracheni, rimossi da una contabilità qua-si esclusivamente rivolta ai militari “occidentali”, fino ad arrivare ad Abu

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8 Cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 2000.9 Oggi in M. Foucault, Sècurité, territoire, population. Cours au Collège de France 1977-1978, Galli-

mard, Paris 2004.

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Ghraib e Guantanamo. Altrove ho tentato di dimostrare come questo spaziofinisca per precipitare in un (non)luogo che ipostatizza il confine cui ricon-durre l’eccedenza, e cioè i campi di internamento che in forme diverse (cam-pi profughi, campi per rifugiati temporanei, campi per asylum seeker e mi-granti irregolari) affollano il presente globale.10 Qui, come già accennato,tenterò di introdurre alcuni elementi di riflessione sul soggetto che abita untale spazio incerto, sulla sua rappresentazione politica e discorsiva e sulle lo-giche di confinamento che presiedono alla sua esistenza.

Dalla parte delle vittime

In un libro apparso in Francia una decina di anni fa, Lo spettacolo del dolore,Luc Boltanski affrontava direttamente il nodo politico rappresentato dallostatuto delle vittime con l’intenzione di fornire solide basi teoriche e politi-che al principio-dovere di ingerenza.11 Ciò significava dimostrare la politicitàintrinseca di una morale, quella umanitaria, necessariamente inscritta in unospazio metapolitico, che non aderisce ad alcuna rivendicazione di parte e siproclama anzi super partes, autenticamente universale. Va detto che quel li-bro risentiva di un dibattito (su democratizzazione globale e primato dei di-ritti umani) e di un soggetto (l’idea predittiva di una “società civile globale”)che appaiono oggi piuttosto lontani, travolti dalla logica unilaterale dellaguerra preventiva. Già si è accennato al carattere superficiale di tale rottura,agli elementi di continuità che non permettono di liquidare facilmente il do-vere di ingerenza come espressione esclusiva della breve estate della “social-democrazia globale”. Del resto, le stesse guerre del presente si rappresenta-no in continuità con uno specifico principio di ingerenza, anche umanitaria,per quanto nel segno della farsa: la liberazione delle donne afghane dalburkha, quella dell’Iraq dalla dittatura di Saddam Hussein... Ma al di là ditutto ciò, le tesi di Boltanski risultano ancora attuali nella misura in cui costi-tuiscono un tentativo di aggirare il confine prodotto dalle politiche di sicu-rezza, intervenendo direttamente nello spazio caotico, nello “stato di natura”abitato dalle vittime.

La presenza sempre più marcata di attori non istituzionali e organizza-zioni non governative sulla scena internazionale costituisce senza dubbio untratto immediato e distintivo del presente “globale”: soggetti transnazionaliattivi nel soccorso alle vittime di catastrofi “umanitarie”, nella ricostruzionedi aree devastate da conflitti, nella cooperazione internazionale, che espri-mono spesso la volontà di non rassegnarsi “alla forbice di disuguaglianza eall’ingiustizia che segna il presente”. E che realizzano così – seguendo Bol-tanski – un decisivo passaggio all’azione, trasformando posizioni aporetiche(fondate cioè su atteggiamenti spesso sovrapposti, originati però da presup-

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10 F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, ombre corte, Vero-na 2003.

11 L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Cortina, Milano 2000.

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posti eterogenei e per lo più inconciliabili, a cui il sociologo francese si riferi-sce come “topica della denuncia”, “topica del sentimento” e “topica esteti-ca”) in un’immediata forma di agency. Il sostegno a distanza, l’attivismo vo-lontario e l’intervento diretto in loco permetterebbero quindi di colmare lo“iato di esperienza”, l’impotenza cui è condannato chi assiste a distanza allo“spettacolo del dolore”, e risponderebbero in modo immediato e pragmati-co alla necessità di agire senza delegare, non limitando la propria azione auna denuncia a parole, a una pietà indeterminata o a una semplice afferma-zione narcisistica (tutte esperienze che sconterebbero il limite implicito di ri-cadere sul soggetto stesso o di venire manipolate strumentalmente).

Non si tratta qui di mettere in discussione gli effetti immediati e la neces-sità per lo più indilazionabile dell’azione svolta da molte agenzie umanitarie.La questione riguarda piuttosto la possibilità di affermare realmente una col-locazione super partes (impolitica, apolitica) come presupposto essenziale diogni discorso umanitario. E la risposta di Boltanski, articolata nelle ultimepagine del libro, non sembra lasciare spazio a dubbi: contro ogni critica “po-litica” dell’umanitarismo, si rivendica la dimensione assoluta e universale delprincipio di ingerenza, che, proprio in quanto universale, può sovrapporsi aparticolari istanze politiche e di denuncia, senza però mai condividerle deltutto, e anzi eludendone la partigianeria, la logica “comunitaria, strumentalee giacobina”. Questa universalità insindacabile viene motivata in base a unaposizione super partes che Boltanski ricava direttamente dalle parole di duetra i massimi teorici del devoir d’ingerence nel gesto semplice, all’apparenzaimmediato, di “stare dalla parte delle vittime”.12 Le vittime, cioè, in quantofigure “ontologicamente universali” e immediatamente riconoscibili, legitti-mano l’universalità del dovere di ingerenza.

Ora, è chiaro anche a Boltanski (lo si desume se non altro dal titolo delsuo libro) il fatto che una tale universalità non possa in alcun modo conside-rarsi immediata, e dipenda necessariamente da forme mediate di rappresen-tazione: non può cioè presupporsi, ma deve sempre essere costruita.13 A par-tire da qui, si possono muovere perlomeno due obiezioni alla tesi di Boltan-ski, accanto a una critica più generale, che chiama in causa la posizione e ilparticolare (s)oggetto su cui ricostruire una fenomenologia della morale u-manitaria. La prima obiezione, in sé piuttosto immediata, riguarda la collo-cazione super partes considerata dirimente nella rivendicazione universaledel dovere di ingerenza; la seconda coinvolge invece la particolare universa-lità delle vittime o, meglio, gli effetti politici che la loro rappresentazione de-politicizzata può provocare.

Affermare l’imparzialità assoluta, e quindi l’impoliticità, dell’azione dimolte organizzazioni non governative è gesto che, oltre a sminuire le non rarerivendicazioni politiche delle stesse Ong, sembra sottovalutare (e implicita-mente assolvere) la trama di sovrapposizioni complesse in cui questi nuovi at-

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12 M. Bettati, B. Kouchner, Le Devoir d’ingerence. Peut-on les laissez mourir?, Denoel, Paris 1987.13 Motivo per cui, piuttosto che definire una tale universalità come apriori, sembra più corretto assu-

merla come processo, come “universalizzazione”. Si veda a questo proposito S. Zizek, Il grande Altro, Fel-trinelli, Milano 1999, pp. 228 sgg.

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tori “globali” operano. In particolare, sembra eludere la progressiva simbiosiche caratterizza il rapporto tra organizzazioni non governative e istituzionipolitiche, la reciproca implicazione di umanitario e politico e soprattutto dicivile e militare che contraddistingue molte operazioni di assistenza – quel fe-nomeno che Michael Dillon e Julian Reid definiscono di “contemporanea po-liticizzazione/militarizzazione dell’umanitario e umanitarizzazione del milita-re”.14 Presso numerose Ong si impone infatti una vera e propria mimesi delpolitico – si comportano come attori istituzionali, i loro membri parlano comespeaker ufficiali, sono per lo più dirette o presiedute da ex uomini di governoe diplomatici – sintomo di una reale assunzione di potere che trova in BernardKouchner, ex presidente di Medecins sans Frontiérès e successivamente inca-ricato di coordinare e dirigere la missione delle Nazioni unite in Kosovo, un e-sempio paradigmatico.15 Oggi, sostengono Dillon e Reid, “molte organizza-zioni umanitarie e non governative sono reclutate all’interno di quelle struttu-re e pratiche di potere, di quel progetto essenzialmente politico, contro il qua-le erano nate e si erano definite politicamente.”16

Altrettanto immediato è il parallelo processo di “umanitarizzazione” delmilitare. Al mito del buon soldato subentra oggi quello del soldato buono.Tutte le campagne di arruolamento negli eserciti nazionali si affidano a spotche riprendono militari intenti a prestare soccorso a vittime, a donare viveri eaiuti, a tenere in braccio bambini. E l’eticizzazione si traduce a sua volta informule apparentemente anodine (peace-keeping, peace-enforcing, forze diinterposizione e di mediazione internazionale) o in sigle decisamente più a-struse – Peace Support Operations (Pso), Operations other than War(Ootw) – occultando così quello che è il senso ultimo di questo slittamento, ecioè il costante ricorso a eserciti nella gestione “umanitaria” delle popolazio-ni civili, su un’escalation che dai caschi blu dell’Onu, passando per le truppedella Nato, arriva ai contingenti americani, inglesi, italiani e polacchi stanzia-ti in Iraq. Si può citare l’esempio del Kosovo (dove l’emergenza umanitaria“scatenata” dalla guerra, con l’esodo di oltre 800.000 profughi ricoverati inenormi campi in Macedonia e in Albania, è stata delegata dall’Onu alla Na-to), ma i conflitti successivi, per i quali si può parlare solo di occupazione mi-litare, superano di gran lunga quella situazione specifica, portando al diapa-son un fenomeno le cui conseguenze appaiono ben più complesse di quantonon preveda l’introduzione illuminista di norme internazionali che regolinol’interazione tra militari e civili,17 e riguardano essenzialmente il ruolo e i li-

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14 M. Dillon, J. Reid, Global Governance, Liberal Peace and Complex Emergencies, in “Alternatives”,5, 1, 2000.

15 A tale obiezione politica, inoltre, se ne somma una più prosaica, o meglio materiale, relativa al fattoche molte Ong oggi spendono più risorse nelle campagne di sensibilizzazione mediatica e di fund raisingche nelle operazioni di assistenza diretta. Si veda a questo proposito il numero speciale di “Que choisir”su Aide humanitaire, 46, 2000.

16 M. Dillon, J. Reid, Global Governance, Liberal Peace and Complex Emergencies, cit., p. 121.17 Esiste una letteratura piuttosto ampia che tenta di definire e ottimizzare “umanitariamente” l’inte-

razione tra poteri militari e civili e soprattutto tra forze militari e popolazione civile nei territori teatro diinterventi “umanitari”. Si veda per esempio P. Weiss, Military-Civilian Interaction. Interventing in Huma-nitarian Crisis, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham-NewYork-Oxford 1999.

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miti del potere militare, il raggio d’azione non definito, ambivalente e quindivirtualmente illimitato che gli conferiscono le politiche di sicurezza.18

Gli effetti “perversi” di questa simbiosi, in ogni caso, risultano a dir pocoparadossali: frequente è il ricorso a gruppi militari privati, cui vengono su-bappaltati specifici servizi “umanitari” – valga per tutti il caso di una Ong at-tiva in Sierra Leone che ha reclutato milizie locali per la distribuzione di aiutiin un campo profughi.19 Più in generale, questo rapporto stretto precipitanell’indeterminazione assoluta di network internazionali dove ogni distinzio-ne tra militare e civile, politico e umanitario, diventa impossibile: agenzie mi-litari pubbliche e private che vendono contemporaneamente armi e “misuredi sicurezza” per demilitarizzare paesi teatro di crisi politiche; analisti finan-ziari e consulenti di organizzazioni per lo sviluppo che si interessano di stra-tegie di sicurezza e di tecniche di warfare...20 L’elenco sarebbe lungo, e fini-rebbe inesorabilmente per ricondurre all’Iraq di oggi, dove sedicenti body-guard, militari e operatori umanitari convivono fianco a fianco, svolgendospesso le stesse funzioni di controllo.

Ciò, tra le altre cose, contribuisce a restituire un’immagine decisamentemeno lineare dell’umanitarismo, lontana anni luce dai proclami di imparzia-lità e di universalismo cui fa riferimento Boltanski, e assai prossima, nella suaproduttività immediata, alle logiche di sicurezza e di controllo dell’ecceden-za che definiscono le nuove guerre. Si tratta del resto di logiche quantomenoesplicite, se non proprio istituzionalizzate: già ho accennato a come si possanegare il diritto di asilo a individui in fuga, anche da situazioni di persecuzio-ne e di rischio oggettivo, se nei luoghi da cui provengono esiste già un inter-vento di assistenza umanitaria. Succede oggi in Kosovo (dove la presenza diUnhcr e di numerose Ong impedisce di riconoscere come potenziali rifugiatigli appartenenti a minoranze non albanesi) e nel Sud dell’Afghanistan (grazieai “corridoi umanitari” allestiti al confine con il Pakistan che vincolano defi-nitivamente la popolazione a quel territorio). Ma è successo anche a Srebre-niça, all’apice del conflitto che ha polverizzato la (ex) Iugoslavia, o nel norddell’Iraq, con le safe havens predisposte da una risoluzione Onu del 1991 eattive ancora oggi.

Privatizzazione delle operazioni di assistenza, collusione tra militare e u-manitario, funzioni dirette di controllo e di territorializzazione coatta: sem-bra questa la materializzazione distopica del sogno “globalista” di un sogget-to sovranazionale super partes, sia esso istituzionale o ascritto a un’indefinitasocietà civile globale, che oggi appare sempre più come una delega in bianco

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18 Oltre a Dal Lago, Polizia globale. Note sulla trasformazione della guerra in Occidente, cit., si veda D.Bigo, Sicurezza e immigrazione. Il governo della paura, in S. Mezzadra, A. Petrillo (a cura di), I confini dellaglobalizzazione, manifestolibri, Roma 2000.

19 Si veda a questo proposito il saggio di Barbara Hendrie, Knowledge and Power: a Critique of Inter-national Relief Operation, in “Disasters”, 21, 1, 1997, pp. 57-76, che offre un quadro critico decisamentelontano dallo scenario prefigurato da Boltanski, indicando, oltre alle frequenti collusioni tra attori militarie civili, politici e umanitari, locali e globali, le contraddizioni e l’imbarazzo con cui molti soggetti umanita-ri reagiscono a rivendicazioni dirette e direttamente politiche da parte delle vittime.

20 Si veda M. Duffield, Postmodern Conflict: Warlords, Post-adjustment States and Private Protection,in “Civil Wars” 1, 1, 1998, p. 66.

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di Onu e Unhcr a Ong e gruppi privati. In questa prospettiva, allora, l’uma-nitarismo tradisce un’implicazione irriducibile, per certi versi “strutturale”,con le situazioni politiche su cui interviene, manifestando una presenza “re-dentiva”, e cioè raramente oppositiva e quasi sempre funzionale alla legitti-mazione morale di interventi di ingerenza armata per lo più illegittimi. Delresto, la logica “missionaria” cui risponde suona molto affine a quella checonnota le guerre di ingerenza. In entrambi i casi si assiste a uno spostamen-to dalla politica all’etica, in forza del quale non esistono più nemici ricono-sciuti come tali, ma solo il bene (soldati buoni e buoni volontari) contro ilmale (rappresentato da “nemici dell’umanità” o da sofferenze che si devonolenire ma non si potranno mai abolire). In altre parole, da un asse politico in-centrato sulle opposizioni uguaglianza/differenza o amico/nemico, il discor-so si sposta sul piano etico del giusto e dell’ingiusto, fino all’imponderabiledel bene contro il male, riproducendo in toto il clima teologico della guerrapreventiva...

Il ragionamento di Boltanski, in ogni caso, sembra eludere queste obie-zioni. O meglio, dà l’impressione di poterne essere anche consapevole, ma dipuntare ad altro, in quanto la cifra di fondo in base a cui è possibile rappre-sentare le ragioni e il dovere “morale” di ingerenza come autenticamente su-per partes ritorna sempre e inevitabilmente sulla figura della vittima. Il prin-cipio di ingerenza nasce infatti sulla rivendicazione della necessità indilazio-nabile di “intervenire” in soccorso di quella figura che si suppone universale,su un’etica dei principi che impone di abbandonare ogni considerazione po-litica e ogni atteggiamento di laissez faire e di prendere parte, di schierarsi“universalmente”. Si tratta di un movimento che presuppone “indifferenza”per le vittime e discorsivamente si legittima più o meno in questi termini: “Difronte allo spettacolo del dolore non si può restare indifferenti, né andaretroppo per il sottile, e noi scegliamo di agire stando con chi soffre, con chi stasotto le bombe”.21

A tale assunto apparentemente insindacabile si può obiettare l’incon-gruenza che un’etica dei principi così formulata inevitabilmente incontra sulterreno delle responsabilità, a partire dall’analisi degli effetti immediati epratici cui il “dovere di ingerenza” può andare incontro. L’obiezione riguar-da, in primo luogo, l’universalità aprioristica che una simile argomentazioneattribuisce alle vittime, figure la cui neutralità-naturalità appare, invece,tutt’altro che immediata e rimanda a forme inevitabilmente mediate di co-struzione sociale e di produzione discorsiva: in particolare, nel caso dellarappresentazione di sofferenze “a distanza”, alla specifica performatività dellinguaggio mediatico. È infatti solo attraverso la continua produzione e defi-

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21 È sostanzialmente questo l’atteggiamento in base a cui, secondo Boltanski, è possibile superare lecontraddizioni cui è necessariamente consegnata l’azione passiva di uno spettatore a distanza: una moraleumanitaria fondata sulla prassi (o meglio su una parola che è comunque azione) che riscatta la parzialità eil carattere aporetico condiviso da quelle che Boltanski identifica come le tre “topiche” cui ricondurre larappresentazione della sofferenza: quella “giacobina” della denuncia, quella “cristiana” del sentimento equella estetica, sostanzialmente di derivazione nietzscheana. Cfr. L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore.Morale umanitaria, media e politica, cit.

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nizione di realtà operata dai media che risulta possibile attribuire consisten-za e significato “globali” alla figura “locale” della vittima, e, secondariamen-te (orientando atteggiamenti, “voci” e forme di agency nell’opinione pubbli-ca), mobilitare soggetti non direttamente coinvolti dall’esperienza della sof-ferenza.

Sia chiaro, ciò non significa che ogni situazione in cui vengano rappre-sentate delle vittime sia “falsa” e manipolata. Analizzare i modi in cui tale vi-sibilità è costruita o negata, le procedure attraverso cui si possono strategica-mente sovra o sottorappresentare le vittime, e più in generale le oscillazioni ei codici discorsivi cui si ricorre per definirle e renderle “leggibili”, diventaperò essenziale nella misura in cui ribadisce come e quanto una tale “univer-salità” sia costruita socialmente. Un caso evidente e relativamente noto di so-vrarappresentazione delle vittime, per esempio, è costituito dal cosiddetto“massacro di Timisoara”, evento decisivo sul corso della “rivoluzione” ru-mena del dicembre 1989, del quale si dimostrò come televisione locale enetwork internazionali avessero montato più volte le stesse immagini aggiun-gendone altre di repertorio per sovradimensionare l’entità della repressionedel dittatore Ceaucescu e la portata della rivolta contro il regime. Di segnoopposto è invece l’assoluta invisibilità cui sono state relegate le vittime civili emilitari irachene durante la prima Guerra del Golfo: un occultamento fun-zionale tanto ai vertici dell’Alleanza occidentale, per non indebolire il con-senso internazionale sulle ragioni del conflitto, quanto al regime di SaddamHussein, per non rivelare la portata e gli effetti reali della guerra.22

Esempi di questo tipo, pur non riguardando direttamente attori umani-tari, restituiscono in modo eloquente la sostanziale ambiguità e la profondamanipolabilità di una figura che si presume invece “naturale”, immediata-mente comprensibile e per questo universalizzabile. Soprattutto, restituisco-no la problematicità intrinseca di una figura che “per noi” esiste essenzial-mente in quanto immagine. Susan Sontag ci ricorda come il contenuto eticodelle immagini sia di per sé fragile, e vada sempre riempito e rafforzato da te-sti che le rendano leggibili.23 Se l’universalità delle vittime appare spessofunzione diretta delle strategie attraverso cui le si rappresenta, di “leg(g)en-de” che si sovrappongono a immagini, la possibilità stessa di assumere unatale universalità come presupposto per “prendere parte”, e come metro perrivendicare l’universalità del proprio schierarsi, sembra quindi meno scon-tata. Una simile affermazione potrà risultare “volgare”, nella misura in cui

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22 Per una ricostruzione delle diverse strategie di occultamento delle vittime e degli effetti del conflit-to durante la Guerra del Golfo si veda D. Wolton, War game. L’information et la guerre, Flammarion, Pa-ris 1991. Per un’analisi sostanzialmente convergente, tesa a evidenziare le pratiche di neutralizzazione co-gnitiva e rimozione in un caso di politica interna, si veda invece il lavoro di Robin Wagner Pacifici sullosterminio del movimento “Move” di Filadelfia da parte della polizia federale statunitense (R. Wagner Pa-cifici, Discourse and Distruction. The City of Philadelphia versus Move, Chicago University Press, Chicago1994). Un riferimento più generale, sulla funzione decisiva dell’occultamento e della rimozione della mor-te dal campo semantico della guerra e sugli effetti di censura indotti dal linguaggio strategico e militare, èofferto dal lavoro di Elayne Scarry sulle rappresentazioni e i significati politici del dolore (E. Scarry, Lasofferenza del corpo. La distruzione e costruzione del mondo, il Mulino, Bologna 1989).

23 S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 1992.

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contrappone situazioni estreme, dove la sofferenza è fuori discussione, aspecifiche strategie di rappresentazione del dolore. In altre parole, nella mi-sura in cui assume l’universalità delle vittime come semplice funzione dellaloro visibilità e della loro leggibilità. Alla base delle rivendicazioni del dove-re di ingerenza, infatti, l’universalità che investe le vittime riguarda la lorocondizione “ontologica”, il loro porsi come soggetti inermi, puniti per colpeche non gli appartengono ma di cui espiano ingiustamente la pena, e il cuisacrificio immotivato e intollerabile è contrapposto spesso all’impunità dei“veri responsabili”. Una tale universalità, presumibilmente, perlomeno nelleintenzioni di chi intende “fare qualcosa”, va cioè al di là e contro ogni tipo dirappresentazione.

Occorre a questo proposito rilevare come con frequenza diverse Ong, inforza della “partigianeria” espressamente rivendicata, si spingano a denun-ciare pubblicamente le strategie di occultamento e l’invisibilità cui sono si-stematicamente relegate molte vittime “globali”, contrapponendosi alla logi-ca selettiva che governa la rappresentazione “ufficiale”, mediatica e politica,delle vittime (il caso probabilmente più eclatante in proposito ha riguardatogli oltre un milione di civili iracheni “in eccesso”, morti per le conseguenzedevastanti di dieci anni di embargo internazionale). Più in generale, l’eticadel fare che spinge molti individui al coinvolgimento in iniziative umanitariesi oppone spesso a quella “vuota delle parole”, e si costruisce su una contrap-posizione forte tra esperienza diretta e rappresentazione.

Più significative tuttavia, perlomeno in riferimento al nostro discorso,appaiono le conseguenze su un tale atteggiamento “partigiano” di situazioniperaltro sempre più frequenti in cui le vittime sono di fatto rappresentate eaddirittura sovrarappresentate. In altre parole, le circostanze in cui sistemadei media e morale umanitaria coincidono, e la denuncia nasce e cresce con ilsupporto di imponenti campagne mediatiche. Un esempio relativo alla guer-ra del Kosovo aiuta a comprendere la profonda ambiguità che in simili casifiniscono inevitabilmente per scontare proclami assoluti e universali.

Molti ricorderanno le immagini drammatiche dell’enorme massa di pro-fughi kosovari in fuga dalla pulizia etnica serba. Si trattava senza ombra didubbio di vittime, nel senso assoluto che la parola può evocare. Su questa fi-gura a grado zero si è legittimata l’azione internazionale di soccorso: una “ga-ra di solidarietà”, scandita da appelli e continui richiami mediatici, in cui sisono inserite tutte le principali agenzie umanitarie mondiali e che è culmina-ta con la paradossale delega alle forze militari della Nato delle operazioni disoccorso e assistenza. Tutto questo avveniva mentre le bombe della stessaNato contribuivano in modo decisivo a determinare e alimentare quell’eso-do, innescando l’orribile rappresaglia serba e quella che veniva rappresenta-ta (e oggettivamente era) come una “catastrofe umanitaria” dalle proporzio-ni immani.

Casi come questo, per quanto straordinari, sono in realtà molto più fre-quenti di quanto non affermino sostenitori e teorici del dovere d’ingerenza.Gli effetti di una tale coincidenza sono spesso quelli di una vera e propria e-terogenesi. Valga per tutti l’esempio dei campi profughi ai confini sud-occi-

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dentali del Ruanda, dove trovò rifugio la maggioranza dei miliziani dell’hutupower direttamente responsabili del genocidio dei tutsi, che finivano per es-sere i collettori degli aiuti umanitari destinati dall’Onu al Ruanda.24

Denunciare tali situazioni non significa ovviamente affermare che in queicasi il soccorso umanitario non fosse assolutamente necessario. Significa inve-ce sostenere che quelle figure “universali” di vittime “rappresentavano” inrealtà il prodotto contingente di una situazione specifica, e soprattutto politi-camente determinata. Cosa ancora più importante, significa che aderire aquella rappresentazione voleva dire aderire alle condizioni che materialmentedefinivano-provocavano quella situazione e quella dimensione di vittime, perpoi assumerle come universali, e cioè tradurle al di fuori di ogni contesto sto-rico e politico. In casi come questi l’affermazione apparentemente anodina“stare dalla parte delle vittime” rivela tutta la sua insufficienza, parzialità eambiguità. O meglio, rivela l’impossibilità di affermare una “partigianeria”motivata su presupposti universali e come tali impolitici. In Kosovo, in Ruan-da, era davvero possibile limitarsi a dire di stare dalla parte delle vittime?

(S)oggetti

Le obiezioni e gli interrogativi avanzati contribuiscono a incrinare lo scenariolineare in base a cui Boltanski legittima universalmente il dovere di ingerenza,ma non eliminano del tutto il presupposto di fondo della sua operazione poli-tica, non ne scalfiscono cioè l’assunto decisivo: la dimensione universale divittima evocata come giustificazione assoluta dell’azione umanitaria. Si puòconcedere senza esitazioni il punto centrale dell’argomentazione di Boltanski:nell’assoluta indeterminatezza che la caratterizza in quanto categoria etica, lavittima è ontologicamente universale, non importa se innocente o “compli-ce”: “Nessuno tocchi Caino”. Più difficile, ma non impossibile (stando al li-vello di astrazione cui costringe il suo ragionamento), è sorvolare su ciò che ilsociologo francese elude (la collusione di umanitario, politico e militare; ilruolo dell’umanitario nelle nuove guerre, nelle politiche di sicurezza, nel con-trollo dell’eccedenza). Mettiamo tra parentesi anche le contraddizioni che l’e-tica dei principi umanitari incontra sul campo, le aporie che la rivendicazionedi un universalismo a-politico inesorabilmente riproduce.

Concedere tutto questo a Boltanski è più di quanto sembri teoricamentelegittimo, se non altro per il fatto che dall’universalità della vittima non è det-to che derivi automaticamente l’universalità dell’azione umanitaria. Restaperò un punto centrale che il suo lavoro non solo non chiarisce ma evita diporre, e che si può riassumere in una domanda diretta: quale idea di soggettosorregge la rappresentazione delle vittime? Si tratta di una domanda checonviene scomporre, chiedendosi in primo luogo che cosa si intenda per vit-tima quando se ne assume l’universalità, e in second’ordine se davvero è leci-to parlare di un soggetto.

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24 G. Prunier, Rwanda. Before the genocide, Columbia University Press, New York 1994.

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La rappresentazione “universale” delle vittime presuppone infatti un’as-soluta impoliticità, e cioè la totale assenza di voce e di agency. Una condizio-ne per così dire naturalizzata, in cui ogni possibile elemento di identificazio-ne, ogni principio causale viene sospeso. Solo così diventa possibile costruireuna figura “universale” in base a cui motivare un intervento super partes. Sla-voj Zizek, sia pure nel quadro di un discorso non del tutto convincente, ci re-stituisce un esempio efficace di questa condizione “naturale”, citando un re-portage pubblicato sul “New York Times”, sempre relativo alla guerra delKosovo, dal titolo assai sibillino: In One Kosovo Woman, an Emblem of Suffe-ring. L’articolo si incentra su una donna kosovara testimone della persecuzio-ne serba e coinvolta nel tragico destino di displacement cui è stata condanna-ta la maggioranza kosovaro-albanese. La sua è una voce che dichiara solida-rietà a tutte le vittime dei bombardamenti, non rivendica nulla di politico(del tipo, un futuro albanese per il Kosovo) ed esprime quale unica aspirazio-ne il desiderio di vedere cessare tutto ciò a cui aveva assistito e stava assisten-do. A qualsiasi condizione, “rivendicando” solo un futuro di pace in cui tuttipossano “continuare a vivere”.25

Ora, è essenzialmente su questo tipo di figure indeterminate (la cui soffe-renza è universale, e quindi immediatamente accessibile ma non collocabile)che si fonda l’universalità rivendicata da Boltanski, anche quando motivatadalla necessità di prendere parte. Figure che sono innanzitutto rappresenta-te, e che, nel caso specifico, prima e durante i bombardamenti su Pristina eBelgrado sono state ossessivamente sovrarappresentate dai circuiti interna-zionali dell’informazione. Figure, però, del tutto depoliticizzate, che non e-sprimono alcuna posizione se non rassegnazione: un atteggiamento di asso-luta delega, in cui non si aspira ad avere diritti, ma a vivere; a cui non si rico-nosce il diritto di avere diritti, solo un indeclinato diritto a sopravvivere.

Il fatto è che proprio sulla rappresentazione di queste figure “passive” siè fondato il processo di legittimazione dell’intervento “umanitario” in Koso-vo, ed è esattamente questo tipo di figure che, in nome dei diritti umani, laguerra umanitaria ha riprodotto:

Incontriamo qui la costruzione ideologica del concetto di soggetto-vittima ideale, indifesa del quale interviene la Nato: non è un soggetto politico con un chiaro pro-gramma, ma è un soggetto inerme e sofferente, che simpatizza con tutte le parti chesubiscono il conflitto, intrappolato nella follia di uno scontro locale che può venirplacato solo dall’intervento di una benevola potenza straniera: un soggetto il cui piùprofondo desiderio è ridotto all’istinto animale di “sentirsi bene di nuovo”.26

Da vittime “ideali” come quella di cui parla Zizek – che per essere ricono-sciute in quanto tali debbono perdere ogni contenuto, rinunciare a ogni tipo

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25 S. Zizek, Il godimento come fattore politico, Cortina, Milano 2001. L’analisi di Zizek eccede a mioparere nel voler opporre a questa figura depoliticizzata, e per questo “funzionale” alle necessità “univer-sali” dell’intervento umanitario, quella invece sovversiva della vittima che rappresenta istanze politiche edi parte, arrivando a proporre una paradossale rivalutazione della radicalità dell’Uck, le milizie paramili-tari kosovaro-albanesi, interlocutori privilegiati dell’Alleanza occidentale prima della guerra.

26 Ivi, p. 142.

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di rivendicazione, venire “bonificate” – siamo oggi continuamente “interpel-lati”: figure di cui si esibiscono anche elementi personali, ma che alla fine ri-sultano totalmente spersonalizzate; immagini che si soffermano su volti, no-mi, storie, e che individuano le vittime nella misura in cui le dequalificano.Così ogni volto diventa intercambiabile, assolutamente seriale, collocandosiin un tempo vuoto, privo di spessore, profondità, memoria: in un tempo pri-vo di storia – o in cui la storia diventa qualcosa di naturale e il biografico si ri-duce al biologico (come nel caso della copertina del “National Geographic”costruita sull’accostamento di due immagini della stessa donna afgana ritro-vata dal fotografo a vent’anni di distanza).

La vittima kosovara ha però qualcosa in più rispetto al grado zero diun’immagine: possiede la voce, la parola. Ma di quale parola, di quale possi-bile testimonianza si tratta? Quella del testimone è una figura problematica,su cui precipita un continuo lavoro di riattualizzazione, un cortocircuitotemporale, un percorso di soggettivazione. Se solo si considera la dimensionecritica della testimonianza che emerge da un testo come I sommersi e i salvatidi Primo Levi, ci si accorge che le vittime iper-rappresentate, quelle onnipre-senti in tutte le campagne di sottoscrizione delle agenzie umanitarie, costitui-scono quasi il rovesciamento della figura del testimone. Nella testimonianzadei sopravvissuti dell’Olocausto, per esempio, al prezzo altissimo di un pre-sente ipotecato dal passato e di un passato che non riesce a riscattarsi nel pre-sente, è in gioco la possibilità di recuperare un’individualità da un evento eun contesto il cui senso era precisamente quello di ridurre ogni individuo aun corpo, a un numero, a una massa indistinta. Per “rappresentare” la di-mensione di vittima veicolata dai media, al contrario, è necessario smarrire o-gni traccia di individualità e di memoria, così da rendere quelle figure “credi-bili”, universalmente accessibili, infinitamente sostituibili. Per questo le vitti-me oggi si assomigliano drammaticamente tutte. E proprio in questa serialitàrisiede la loro universalità.

Questo soggetto individuato ma totalmente decontestualizzato (pochefrasi inarticolate, un viso, un profilo, un corpo) sembra aderire in toto alla fi-gura indeterminata di vittima sulla quale è possibile affermare l’universalitàdel dovere di ingerenza. E porta alla luce la contraddizione intrinseca di unalogica umanitaria che si proclama “dalla parte delle vittime” e rivendica lapoliticità della propria posizione in base a una figura depoliticizzata, ridottaa pura icona, e per questo universale, iperrealistica, versatile, manipolabile,al limite “pop” (come nelle fotografie di Oliviero Toscani). Ciò conferisce aquella religione laica che è l’umanitarismo un carattere paradossale, dove lapoliticità rivendicata nell’identificare una parte universale nella figura dellavittima risulta alla fine del tutto depoliticizzata, per il fatto di depoliticizzarela dimensione storica e assolutamente politica di vittima che assume come fi-ne ultimo della propria azione.

In altre parole, l’impotenza, la totale assenza di agency e l’indetermina-tezza della vittima citata da Zizek sembrano definire le “qualità” del soggettoche Boltanski assume come metro di universalità del principio di ingerenza.La domanda, l’ultima, è allora immediata: davvero si può parlare di un sog-

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getto? Anziché rispondere direttamente conviene opporre a questo “gradozero” il soggetto umanitario: un soggetto indiscusso, implicito (e cioè bianco,occidentale, maschio, cartesiano), di cui Boltanski delinea una vera e propriafenomenologia, finendo per perdere di vista ogni dimensione intersoggetti-va, ragion per cui l’altro non esiste se non come mero oggetto o astrattaproiezione “eidetica”. Un altro per il quale si può provare simpatia ma concui è impossibile, sostanzialmente fuori discussione, ogni interazione, il rico-noscimento del fatto di insistere con gli stessi diritti sullo stesso mondo. Delresto, il titolo originale del libro di Boltanski era La souffrance à distance, e,delle due parole, sembra proprio che la seconda rappresenti una chiave dilettura costante, un punto fermo che resta inalterato e indiscutibile nelle pa-gine del libro, producendo l’effetto involontario di una distanza rassicuran-te: lo spettacolo del dolore è soprattutto uno spettacolo. Il messaggio è che lavera sofferenza è comunque lontana, altrove (e deve restare lì): che ci puòtoccare emotivamente ma non è necessario che ci tocchi da vicino, e cioè po-liticamente.

Ritroviamo qui, per vie tortuose, il senso del confine cui ricondurre le vit-time, l’umanità in eccesso continuamente prodotta dalle politiche di sicurez-za e dalle guerre del presente. Un confine che risulta immediatamente tangi-bile nella contrapposizione astratta tra un soggetto chiaramente situato e unamassa indifferenziata, tra chi assiste a distanza allo “spettacolo del dolore” epuò decidere di intervenire sul luogo, e chi invece vive il senso del luogo co-me una condanna. Un confine che separa chi (e il pronome ha qui un valoresoprattutto interrogativo) è soggetto di diritti da chi invece, nel migliore deicasi, diventa un semplice oggetto di assistenza. Il fatto che questo confine siamobile, che si sovrapponga a quelli statuali, che penetri dentro alle città e ri-guardi anche molti cittadini la cui appartenenza appare destinata a divenireuna questione quasi esclusivamente formale, sembra altrettanto reale: nonoccorre guardare alla “fantascienza” estrema di Putin. Nella crisi che investeogni forma di appartenenza, l’eccesso è dappertutto. La Russia è vicina.

Quel che è certo è che solo aspirando ad abbattere questo confine l’uma-nitario (e cioè il discorso sulle vittime) potrà riscattarsi dal sospetto di nonessere altro che un dispositivo di controllo dell’eccedenza. Per farlo, però,dovrebbe riconoscere un soggetto in grado di esprimere istanze politiche diuguaglianza più che suscitare la condanna morale di mali assoluti e irredimi-bili.27 Un soggetto nella cui concretezza materiale risiede la sola possibile ga-ranzia di universalità. E che per questo mal si identifica con l’universalità a-stratta della vittima.

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27 Per una critica politica dell’umanitarismo che insiste sugli effetti di cancellazione di ogni tensioneegualitaria, si veda P. Mesnard, Attualità della vittima. La rappresnetazione umanitaria della sofferenza,ombre corte, Verona 2004.

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La globalizzazione si presenta come la costituzione e l’istituzionalizzazionedi catene di interazione e network di segni e gerarchie simboliche a livello so-ciale transcontinentale, e comporta il trasferimento di istituzioni economi-che, politiche, sociali e culturali da un continente all’altro. Se ci si interrogasulla violenza insita in tale processo, ci si trova davanti a una sorta di mutoimbarazzo, come se un fattore ritenuto estraneo allo sviluppo della globaliz-zazione si fosse manifestato all’improvviso nei termini di una deformazionepatologica, di un’arma irrazionale in mano ai perdenti della modernizzazionee della globalizzazione.

In questo saggio mi propongo in primo luogo di affrontare il versanteviolento della globalizzazione, prendendo le mosse dalla storia del coloniali-smo. La guerra atomica intercontinentale, inoltre, ci permetterà di conside-rare una forma di minaccia globalizzata della violenza sorta ben prima dellacomparsa del nuovo terrorismo e che rappresenta uno dei fattori responsabi-li del suo sviluppo. Infine considererò il fallimento di un processo di globa-lizzazione strettamente connesso al colonialismo: la globalizzazione dell’uto-pia dello stato e del monopolio statale dell’esercizio della violenza a essa col-legato. Un aspetto di tale fallimento è costituito dalla progressiva affermazio-ne dei mercati della violenza, i quali da un lato segnano alcuni confini deiprocessi di globalizzazione, ma dall’altro sono coinvolti in altri processi, fracui la privatizzazione e la commercializzazione della guerra. Il presuppostodelle mie riflessioni è quindi che le nuove forme della violenza bellica devonoessere situate in quel contesto storico più ampio all’interno del quale si sonosviluppate più generali modalità interdipendenti di violenza.

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GLOBALIZZAZIONE VIOLENTA, VIOLENZA GLOBALIZZATA E MERCATO DELLA VIOLENZA

di Trutz von Trotha�

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Il colonialismo: la storia violenta della globalizzazione

La storia della globalizzazione coincide con la vicenda dell’espansionismo,del colonialismo e dell’imperialismo europei.1 Parimenti, gli attuali processisi innestano su un’esperienza storica del mondo extraoccidentale, in base al-la quale la globalizzazione può essere ricondotta a una rivendicazione euro-pea di dominio e alla sua pretesa armata di sottomissione. Parlare di globaliz-zazione significa riferirsi a una storia di guerre e genocidi, all’interno dellaquale la tendenza occidentale al dominio non può essere disgiunta dall’im-magine di macerie fumanti disseminate di cadaveri. Ci troviamo dinanzi,dunque, a una storia di violenza inaudita. Il modello coloniale di globalizza-zione della violenza può essere colto in quattro ambiti: nella diffusione a li-vello planetario dell’utopia legata alla pretesa di conseguire il monopolio sta-tale sulla violenza, nella globalizzazione della tecnologia e dell’organizzazio-ne militare occidentali, del dispotismo del dominio coloniale e infine del di-scorso ipocrita che legittima la violenza e la sua critica.

Il colonialismo ha globalizzato l’utopia dello stato territoriale moderno econseguentemente anche quella del monopolio statale della violenza, chedell’utopia dello stato territoriale è parte integrante. La fondazione degli sta-ti coloniali si è quindi regolarmente combinata con guerre di pacificazioneche in molti casi – si veda l’esempio dell’intervento della Germania in Africasud-occidentale – hanno assunto i tratti del genocidio. La vittoria nelle guer-re di pacificazione è stata resa possibile grazie alla superiorità nella tecnolo-gia militare e nelle modalità di conduzione della guerra. L’espansione colo-niale si configura come un processo di globalizzazione dell’esercito perma-nente, della tattica e della tecnologia militare occidentale. Le guerre colonialihanno quindi rappresentato un significativo banco di prova per le armi di ul-tima generazione. L’impiego della mitragliatrice Maxim costituisce uno deicollaudi più gravidi di conseguenze. Le cosiddette “battaglie” delle guerrecoloniali furono, in realtà, quasi sempre autentici massacri portati a terminecon l’uso della mitragliatrice.

A proposito di queste guerre di pacificazione è opportuno rammentaretre circostanze. A differenza dei coevi scontri bellici europei, le guerre colo-niali di pacificazione miravano alla sottomissione duratura delle popolazionisconfitte. Nella maggior parte dei casi, inoltre, si trattava di small war, nellequali le convenzioni di guerra contavano ben poco. Infine è necessario ricor-dare che lo stesso concetto di small war (piccola guerra), fu coniato nel 1906dal teorico militare, giornalista e scrittore inglese generale Charles Callwell ri-ferendosi alle guerre coloniali a cui aveva partecipato in India e Afghanistan.2

La globalizzazione è sempre legata a un processo di “doppia localizzazio-ne”: le istituzioni economiche, politiche, sociali e culturali non vengono, in-fatti, localizzate solo dagli “importatori”, bensì anche dagli “esportatori”. Nel

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1 T. von Trotha, Was war Kolonialismus? Einige zusammenfassende Befunde zur Soziologie und Geschi-chte des Kolonialismus und der Kolonialherrschaft, in “Saeculum. Jahrbuch für Universalgeschichte”, 55,1, 2004, pp. 49-95.

2 C.E. Callwell, Small Wars. Their Principles and Practice, Harrison, London 1906.

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caso della globalizzazione del modello statuale occidentale, il tipo di localizza-zione introdotto dagli esportatori nelle colonie consisteva nel privare tale mo-dello di tutti gli aspetti costitutivi della democrazia e dello stato di diritto.

Violenza e arbitrarietà erano e sono ovunque fonti di menzogna e ipocri-sia, giacché il potere e soprattutto la violenza necessitano di essere costante-mente giustificati. Quindi, riprendendo lo studio di Ronald Daus, si può af-fermare che la “caratteristica principale delle relazioni coloniali” sia da indi-viduare nell’“ipocrisia”.3 La strumentazione che forniva una legittimazionealla violenza del colonialismo altro non era che un arsenale di menzogne a cuiappartenevano le ideologie relative alla mission civilisatrice o al white man’sburden di Rudyard Kipling.4

La guerra di pacificazione: dal colonialismo al postcolonialismo

Ricostruendo lo sfondo storico degli aspetti più oscuri della globalizzazione,potremmo riportare alla luce sia gli aspetti di continuità sia quelli di disconti-nuità che dalla fine della Guerra fredda delineano sempre più spesso quegli“interventi militari” caratterizzabili come “guerre di pacificazione postcolo-niali”, volti a fondare o ripristinare una o più organizzazioni statali.5

La legittimazione di queste guerre poggia su quattro elementi, l’impor-tanza dei quali varia in funzione del tipo di conflitto. Il primo elemento è rap-presentato dai molteplici interessi politico-economici, egemonici e di sicu-rezza propri degli stati nazionali e segnatamente della superpotenza statuni-tense che, inaugurando la preemptive war, è tornata a legittimare la guerra of-fensiva. Il secondo rimanda al diritto internazionale classico, che attribuiscealla potenza occupante la responsabilità della sicurezza e dell’ordine nel pae-se vinto e occupato militarmente. Il terzo è la legittimazione garantita in virtùdel mandato delle Nazioni unite. Il quarto è formato dal complesso di giusti-ficazioni che ha permesso di definire “democratizzatrici” o “umanitarie” leguerre di pacificazione postcoloniali.

I protagonisti di questi conflitti sono da una parte i “conquistatori pacifi-catori”, attori singoli o coalizioni funzionali a quel determinato evento belli-co che a livello politico e militare risultano solitamente dominate dall’egemo-nia globale degli Stati uniti; dall’altra le varie fazioni e i centri di potere dellaregione in cui l’intervento militare avviene. I criteri di legittimazione, le com-binazioni di attori e gli obiettivi dei cosiddetti conquistatori pacificatori rive-lano differenze sostanziali rispetto alla guerra di pacificazione coloniale. A li-vello di legittimazione, la guerra di pacificazione postcoloniale è costretta a i-

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3 R. Daus, Die Erfindung des Kolonialismus, Hammer, Wuppertal 1983, p. 189.4 R. Kipling, The White Man’s Burden (1899), in The Writings in Prose and Verse of Rudyard Kipling,

21, Scribner, New York 1908, pp. 78-80.5 T. von Trotha, Forms of Martial Power, Total Wars, Wars of Pacification, and Raid. Some Observations

on the Typology of Violence, in G. Elwert, S. Feuchtwang, D. Neubert (a cura di), The Dynamics of Violen-ce. Processes of Escalation and De-Escalation in Violent Group Conflict, “Zeitschrift Sociologus”, 1, 1999,pp. 35-60.

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gnorare tutti i riferimenti storici che la legano alla dominazione coloniale. Diconseguenza, nel dibattito pubblico prevalgono argomenti incentrati sulleragioni della sicurezza, della democratizzazione e dei diritti umani.

La guerra di pacificazione postcoloniale non mira ad appropriarsi in viadefinitiva, sotto forma di colonia, dei territori e della relativa popolazione. Alcontrario gli obiettivi principali sono quelli di restare nel paese conquistatoper il minor tempo possibile, di restituire al più presto la sovranità formalealle forze locali e, nel migliore dei casi, di assicurarsi il controllo sulla regionee sui suoi abitanti grazie alle tecniche di dominio improntate all’imperiali-smo informale. A ciò si aggiunge lo scopo dichiarato di instaurare tramite laguerra di pacificazione una sovranità locale conforme a quanto lo stato colo-niale applica al suo interno, vale a dire la democrazia e lo stato di diritto.

La proclamazione di simili finalità, inconciliabili con il colonialismo sto-rico, rende possibile il fatto che i conquistatori pacificatori entrino in scenasotto forma di coalizioni di guerra, che si sono lasciate alle spalle la politica direciproca concorrenza tipica delle potenze coloniali storiche. Questo tipo diguerra è determinato dal conflitto finora irrisolto interno a una politica di o-rientamento globale che in molteplici varianti è alla ricerca di un equilibriofra i poli rappresentati da un lato dal multilateralismo, dall’altro da un’unila-terale politica imperiale egemonica statunitense.

Diversamente, rispetto a quanto emerge nelle argomentazioni di chi ap-poggia le guerre di pacificazione, gli osservatori in loco e le popolazioni con-quistate individuano chiaramente gli aspetti di continuità tra le guerre di pa-cificazione contemporanee e le guerre di pacificazione coloniali. Prendiamoin considerazione alcuni di questi aspetti. Come ai tempi della dominazionecoloniale, le guerre di pacificazione sono all’origine di una situazione cheGeorges Balandier, nel 1982, ha definito “coloniale”, perché caratterizzatada inconciliabili contraddizioni sociali, culturali e psicologiche tra conqui-statori e conquistati.6 Il fatto che ad alcune unità militari venga politicamenteassegnato il ruolo di cooperanti armati allo sviluppo non porta che a irrile-vanti modifiche rispetto alla “situazione coloniale” prospettata da Balandier.Agli occhi dei conquistatori pacificatori tale processo rappresenta una muta-zione del soldato in poliziotto, per coloro che cooperano allo sviluppo, sitratta di una militarizzazione della cooperazione stessa. Quest’ultima si con-figura così come la via diretta verso la “cooperazione allo sviluppo della si-tuazione coloniale”.

Come nella presa di potere coloniale, le guerre di pacificazione agisconosull’intreccio delle istanze contrapposte di gruppi e società locali, nel quale lastessa cooperazione agisce come resistenza contro i conquistatori pacificato-ri. Anche i conquistatori postcoloniali perseguono la strategia del divide etimpera. Lo stesso vale per i destinatari della guerra di pacificazione. Da sem-pre i colonizzati devono vedersela con la politica del divide et impera. In Iraqtale schema viene applicato con notevole rigore.

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6 G. Balandier, La Notion de situation coloniale, in Id., Sociologie actuelle de l’Afrique noire. Dynami-que sociale en Afrique centrale, Puf, Paris 1982, pp. 3-38.

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L’esperienza coloniale, nonostante gli strenui tentativi di rimozione, rie-merge inesorabilmente dalla realtà violenta di ogni conquista bellica. Un so-stenitore della terza guerra irachena ha successivamente riconosciuto che:“gli iracheni considerano le baionette americane innanzi tutto per ciò che so-no: baionette”.7 La forma della guerra di pacificazione postcoloniale è lastessa della piccola guerra e, come nelle guerre coloniali, non è raro che ci siserva del massacro come del più normale dei metodi.8 I nomi di località af-ghane come Mazar-i-Sharif, Sheberghan o Zadran riportano immediatamen-te alla mente altrettanti massacri. Due anni e mezzo dopo l’inizio delle azionimilitari la vita di ampie regioni dell’Afghanistan è contraddistinta da insicu-rezza, resistenza sanguinosa e operazioni militari non meno cruente da partedelle unità americane. In Iraq si ripropone uno scenario analogo.

Nel caso delle guerre di pacificazione postcoloniali, è necessario sottoli-neare come esse siano direttamente collegate all’aspetto più disastroso dellastoria della globalizzazione, ovvero al colonialismo. Si tratta di conflitti che sisvolgono nel solco storico di alcune importanti vittorie militari sugli invasorieuropei, di numerose sconfitte, nonché dell’inesorabile fallimento della con-quista coloniale. In tutti i casi questi conflitti pregressi possono sfociare nellaresistenza e rafforzare il germe della vendetta. Si pensi alla terribile sconfittainflitta ai britannici dai Pashtun nel 18429 o al ritiro delle truppe sovietichenel febbraio 1989; oppure alla sconfitta assolutamente inattesa subita dall’e-sercito italiano da parte delle truppe di Menelik II nel marzo 1896 e quasicento anni dopo alla rapida fuga delle truppe americane dalla Somalia. Allostesso modo, nell’Iraq occupato è ancora vivo il ricordo della rivolta e dellasanguinosa sconfitta inferta ai nazionalisti iracheni dai britannici nel 1920.La guerra è una realtà paradossale, poiché la vita pur essendo dominata dal-l’urgenza esistenziale del presente, rimane estremamente sensibile ai richia-mi della storia e dei suoi miti. Ma non possiamo perdere di vista il fatto chenella storia coloniale non sono stati i conquistati bensì i conquistatori-pacifi-catori che alla fine hanno perso.

Dalla minaccia atomica alla piccola guerra

Nel tentativo di comprendere il processo di globalizzazione della violenza èessenziale considerare quella minaccia globalizzata di esercizio della violenzache è direttamente collegata allo sviluppo della piccola guerra e della guerri-glia globale: parliamo di quel nuovo tipo di minaccia che nasce con la scoper-ta delle armi atomiche dotate di sistemi di lancio a gittata intercontinentale.

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7 Th. Kleine-Brockhoff, Stellungskrieg im Korridor, in “Die Zeit”, 18, 22 aprile 2004, p. 3.8 T. von Trotha, Koloniale Herrschaft. Zur soziologischen Theorie der Staatsentstehung am Beispiel des

“Schutzgebietes Togo”, Mohr, Tübingen 1994; Id., The Fellows Can Just Starve. On Wars of Pacification inthe African Colonies of Imperial Germany and the Concept of Total War, in M.F. Boemeke, R. Chickering,S. Förster (a cura di), Anticipating Total War. The German and American Experiences, 1871-1914, Cam-bridge University Press, Cambridge-New York 1999, pp. 415-435.

9 Sotto la guida di Akbar Khan furono massacrati nella gola Khurd-Kabul circa 4500 soldati britanni-ci e altre 12.000 persone al seguito delle truppe, tra i quali un numero cospicuo di donne e bambini.

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Quando il 6 e il 9 agosto 1945 furono lanciate le bombe atomiche su Hiroshi-ma e Nagasaki, che uccisero 170.000 persone in un colpo solo, non si trattòesclusivamente dell’utilizzo di una nuova arma di sterminio ma del dispiega-mento della prima tipologia di violenza destinata ad assumere una valenzarealmente globale. La catastrofe conseguente all’incidente del reattore diCernobyl nel 1986 ne ha suggerito una pallida immagine. In secondo luogo, idue lanci atomici dell’agosto 1945 hanno inaugurato lo sviluppo drammaticodella piccola guerra della seconda meta del secolo scorso, il cui esito più re-cente è rappresentato dalla guerriglia globale.10 Di seguito, mi limiterò a con-siderare questo secondo aspetto.

Per comprendere il nesso tra guerra di sterminio nucleare e guerrigliaglobale è opportuno ricorrere a una sorta di teorema proposto dall’antropo-logia del diritto che concerne l’interdipendenza delle forme di risoluzionedei conflitti. Il teorema afferma che ogni società prevede una serie di misureper affrontare le controversie. Tali procedure trovano un diverso grado di i-stituzionalizzazione e legittimazione, e presentano un doppio legame reci-proco. Da un lato, ogni forma di risoluzione di un conflitto è influenzata dal-la sue alternative; dall’altro, l’interdipendenza di queste forme viene deter-minata dal predominio della violenza legittima. Tradotto sul piano delle for-me fenomenologiche della guerra, il teorema dell’interdipendenza ci spingead affermare che i diversi tipi di guerra devono essere considerati nel lorocomplesso e non singolarmente. Le forme di guerra sono interdipendenti. Lesingole guerre sono parti integranti di un ordine di guerre, nel quale ogni for-ma di conflitto subisce l’influenza delle altre. In tale ordine prevale la formadi guerra che dispone del maggior potenziale di distruzione sul piano milita-re e tecnico. Il conflitto predominante ai nostri giorni è la guerra di sterminiotermonucleare, che ha modificato radicalmente le sue due opzioni alternati-ve e cioè la guerra “convenzionale” e la piccola guerra.

Martin van Creveld ha avanzato la provocatoria tesi secondo cui la guerraconvenzionale nella migliore delle ipotesi è destinata a svolgere in futuro unruolo marginale.11 Pur senza aderire integralmente a tale prospettiva, non sipuò negare che la guerra convenzionale stia perdendo importanza rispetto allaminaccia di tipo nucleare. La guerra convenzionale si colloca all’ombra di quel-la nucleare e, inserita negli immediati ambiti di interesse delle potenze atomi-che, ha finito per uscire dai confini di quella logica della guerra che secondo ildetto di Clausewitz consiste nella “prosecuzione della politica con altri mezzi”.

A proposito del teorema dell’interdipendenza è necessario sottolineareche anche la guerra “convenzionale” ha sviluppato un potenziale di distru-zione che non conosce paragoni nella storia e che quindi finisce per porre inombra tutte le altre forme di guerra. Il potenziale di distruzione è così altoche una guerra convenzionale tra gli stati maggiormente industrializzati sem-

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10 T. von Trotha, When Defeat is the Most likely Outcome. The Future of War in the Twenty-First Cen-tury, in M. Geyer (a cura di), War and Terror in Historical and Contemporary Perspective, American Insti-tute for Contemporary German Studies-The John Hopkins University, Washington Dc, 2003, pp. 70-94[www.aicgs.org/publications/pdf/warandterror.pdf].

11 M.L. van Creveld, The Transformation of War, Free Press, New York 1991.

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bra annullare la nozione di “interesse”. Invece una guerra convenzionale tradue stati che presentano livelli assai differenti di industrializzazione e di or-ganizzazione militare, si risolve con l’inevitabile disfatta del più debole. Laseconda e la terza Guerra del Golfo ne sono un esempio.

Nell’era della minaccia nucleare e del potenziale di distruzione totaledella guerra convenzionale prevale una forma bellica che può essere indivi-duata con differenti definizioni in base alla molteplicità delle sue varianti edelle sue forme di legittimazione. Sulla scia di Charles Callwell, la definisco“piccola guerra”, per mettere in evidenza la rottura radicale che è in atto ri-spetto alla forma della guerra convenzionale, ma non dimenticando che essaassume alcune caratteristiche tipiche della guerra di sterminio totale nonchédel conflitto termonucleare.

La guerriglia globale

L’invenzione più recente nella storia della piccola guerra è la “guerriglia globa-le”, che associata a una data, l’11 settembre 2001, è ormai un ricordo più vivonella memoria collettiva e individuale rispetto alla stessa minaccia atomica.12

La guerriglia globale è una specie di guerra che si regge su una combinazioneinedita di diverse forme di violenza di tipo terroristico e militare. Essa procedeattraverso “attacchi” pianificati che portano alle estreme conseguenze lo chocprovocato dagli attentati. Gli atti di violenza mirano a suscitare sia una diffusainsicurezza generale sia la simpatia e il sostegno di coloro che riconoscono neiguerriglieri globali la loro avanguardia operativa. La guerriglia globale intendecolpire le fondamenta sociali del suo obiettivo, prendendo di mira il mondodella quotidianità, attaccandola a tre livelli: mutando lo stato di emergenza inesperienza fondante della vita normale dei cittadini; rivolgendosi alle tecnolo-gie della quotidianità e utilizzando gli stessi mezzi tecnologici che intende col-pire; la forma di questo genere di attentati rappresenta, dunque, una sintesi tral’attacco bellico, il massacro contro persone inermi e il proposito di infliggereil maggior danno possibile a livello materiale.

La guerriglia globale conduce a un conflitto in cui l’aggressore né vuole,né può conquistare un territorio o impadronirsi del potere. Lo stesso princi-pio vale naturalmente per gli aggrediti. Agli occhi dell’aggressore la guerri-glia globale è un conflitto anonimo. La potenza attaccante resta più o menoindeterminata. La decisione degli aggrediti in merito al nemico da colpire èsottratta alle istituzioni politiche centrali e all’opinione pubblica, e conse-gnata ai servizi segreti e alle agenzie di polizia investigativa. Il fatto che il “ne-mico” non disponga di alcuna organizzazione formale, né sia un insiemestrutturato di organizzazioni rappresenta un fattore di rafforzamento di talidinamiche. La guerriglia globale radicalizza e globalizza, infatti, il principiodella rete e delle “cellule”.

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12 H. Münkler, Über den Krieg. Stationen der Kriegsgeschichte im Spiegel ihrer theoretischen Reflexion,Velbrück Wissenschaft, Weilerswist 2002; M.L. van Creveld, The Transformation of War, cit.

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Tra le principali innovazioni apportate dalla guerriglia globale si registrauna rivoluzione nella tecnologia delle armi. L’“arma” si presenta, infatti, co-me la tecnologia quotidiana dell’avversario trasformata in trappola mortaleper colpirlo. L’“arma” principale della guerriglia globale tuttavia non deveessere cercata in un’arma specifica o in qualche particolare strumento tecni-co bensì è individuabile nell’inedito rapporto di due disposizioni operativeche costituiscono i presupposti fondamentali di ogni guerra: la disponibilitàa uccidere e la disponibilità a essere uccisi. Con l’invenzione dell’attentatoterroristico suicida, tuttavia, la guerriglia ha trasformato la disponibilità a es-sere uccisi nella principale disposizione bellica dei suoi combattenti.

Altrettanto importante è mettere in luce come la guerriglia globale recu-peri e radicalizzi quell’espressione esistenziale e religiosa della violenza cheda decenni svolge un ruolo centrale in numerosi conflitti etnici anche in Eu-ropa come mostra l’esempio della guerra nella ex Iugoslavia. Ma in quellaparte di Europa che da secoli si è lasciata alle spalle le guerre di religione talidinamiche tendono a suscitare una generale incomprensione e a rafforzare laconsapevolezza dell’abisso che si spalanca dinanzi al tentativo di trovare unalegittimazione religiosa alla violenza. Per la civiltà europea contemporanea la“religiosizzazione” della violenza appare semplicemente come un fenomenoinaccettabile.13 Per il devoto spirito americano, invece, questo rapporto di-retto tra violenza e religione non è del tutto incomprensibile se si pensa chel’attuale amministrazione federale continua a contribuire in modo essenzialealla politicizzazione del fondamentalismo protestante, che negli ultimi de-cenni è arrivato a conoscere una rapida ascesa culturale e sociale, finendocon il costituire una parte integrante di un movimento di proselitismo parti-colarmente attivo ed efficace anche in America latina e in Africa.14

Come già la guerra nucleare, il fenomeno della guerriglia globale aboliscela classica categoria di vittoria, essendo assorbita da una categoria più ampiae ambigua composta dalla “riuscita” dell’attentato terroristico e dalla neces-saria serie di “sconfitte” che seguiranno. Una situazione analoga si verificaper la “sconfitta” degli aggrediti: conoscono solo la paura, che è direttamen-te proporzionale a quella suscitata dalle dichiarazioni di guerra al terrorismointernazionale. Ma l’illimitata lontananza della “vittoria” si traduce in un in-controllabile delirio di potere. “La nostra lotta finirà”, ha dichiarato l’attualepresidente degli Stati uniti, “quando tutti i terroristi del mondo saranno statiindividuati, catturati e sconfitti”.15 Una definizione confusa di “guerra” e“sconfitta” comporta pesanti oneri per le democrazie impegnate a contrasta-re la guerriglia globale. Herfried Münkler ha sottolineato come le democra-zie odierne fatichino a condurre guerre simmetriche, mentre sono assoluta-

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13 G. Davie, Europe: The Exceptional Case. Parameters of Faith in the Modern World, Darton, Long-man,Todd, London 2002.

14 H.B. Hansen, M. Twaddle (a cura di), Christian Missionaries and the State in the Third World., James Cur-rey-Ohio University Press, Oxford-Athens 2002; K. Armstrong, The Battle for God. Fundamentalism in Judaism,Christianity and Islam, HarperCollins, London 2000.

15 Dal discorso “Freedom at War with Fear” del presidente George W. Bush davanti al Congresso a-mericano il 20 settembre, 2001 (cfr. “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 22. settembre 2001, p. 8).

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mente disposte a sostenere il peso di conflitti asimmetrici, “purché le perditee i costi economici non diventino troppo gravosi”.16 Ma all’interno di questopresupposto necessario alla conduzione delle guerre contemporanee si celaun importante cambiamento rispetto al passato, al punto che una “piccolaguerra” globale può portare agli stessi esiti disastrosi cui si verrebbe condottinel corso di un classico conflitto simmetrico. In quanto terrorismo, la guerri-glia globale è innanzi tutto una tattica di guerra morale e psicologica che in-tende colpire la pace civile e i presupposti razionali degli oppositori demo-cratici della guerra.

Tuttavia, le conseguenze più gravi della guerriglia globale sulle democra-zie possono verificarsi quando queste ultime reagiscono militarmente alla sfi-da sviluppando un irrigidimento delle misure repressive a cui si accompagnanecessariamente una pesante erosione dello stato di diritto classico.17 Ciò chesembrava impensabile prima dell’11 settembre 2001, è tornato a essere legit-timo quando non addirittura sancito dalla legge dello stato. Basti pensare alriaprirsi del dibattito sulla tortura, ai contenuti del Patriot Act, alla soppres-sione della distinzione tra guerra e criminalità e quindi all’istituzionalizzazio-ne della giurisdizione militare nell’ambito del diritto penale o alla strumenta-lizzazione fatale di innocenti cittadini prevista nel paragrafo 14 comma 3 del-la legge tedesca del 18 giugno 2004 sulla sicurezza dello spazio aereo.

L’11 settembre ha evidenziato in quale misura la violenza in generale, lapiccola guerra in particolare e la guerriglia globale al livello più estremo sia-no diventate realtà simboliche nella sfera mediatica. Si pensi alla messa inscena della violenza che ha per oggetto sia i carnefici sia le vittime e al relativo“mercato degli oggetti di devozione”: la foto che ritrae il guerrigliero con ilKalashnikov alzato e la t-shirt raffigurante il volto di Osama bin Laden. Leforme organizzative e le tipologie espressive della violenza terroristica e dellapiccola guerra sono da decenni fatte su misura per i media: dal portavoce aviso coperto, fino al massacro delle vittime sotto lo sguardo vigile dalla tele-camera. Con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, ogni guerraproduce le proprie “battaglie” mediatiche. Nel mondo della guerriglia glo-bale il rapporto tra vittoria e sconfitta sul piano delle battaglie mediatiche èdiventato assolutamente decisivo: da qui la necessità di esercitare il massimocontrollo sui mezzi di comunicazione di massa e la tendenza ad avvicinarsi aforme di controllo sui media tipiche della guerra totale. Peter Waldmann,muovendo dalla teoria del terrorismo come strategia provocatoria di comu-nicazione, arriva a ipotizzare che la sequenza cronologica delle collisioni ae-ree dell’11 settembre sia stata concepita secondo la logica temporale del re-portage televisivo.18

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16 H. Münkler, Die neuen Kriege, Rowohlt, Reinbek 2002, p. 219.17 J. Rösel, T. von Trotha (a cura di), Reorganisation or the End of Constitutional Liberties? Essays on

Globalisation, the State and the Law, Köppe, Köln 2005; P. Hanser, T. von Trotha, Ordnungsformen derGewalt. Reflexionen über die Grenzen von Recht und Staat an einem einsamen Ort in Papua-Neuguinea,Siegener Beiträge zur Soziologie, Köppe, Köln 2002.

18 P. Waldmann, Das terroristische Kalkül und seine Erfolgsaussichten, in W. Schluchter (a cura di),Fundamentalismus, Terrorismus, Krieg, Velbrück Wissenschaft, Weilerswist 2003, p. 93.

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Dal mercato della violenza alla privatizzazione della guerra

Lo sviluppo della piccola guerra è strettamente connesso a quello dei “mer-cati della violenza” che possono essere visti come mercati in cui operano im-prenditori e imprese che sfruttano i vantaggi della competizione di tipo com-merciale della violenza per conseguire potere economico, sociale e politico.19

In tali contesti, la violenza rappresenta l’elemento dominante di tutte le rela-zioni, rivelandosi uno degli strumenti più efficaci per l’affermazione politica,sociale ed economica. I “signori della guerra” e i mercati della violenza, tut-tavia, non sono fenomeni storici nuovi. Il loro spazio è da sempre costituitodai confini degli imperi e degli ordinamenti politici, luoghi in cui non ha af-fatto il monopolio statale della violenza, oppure dagli “spazi aperti alla vio-lenza” che spesso si creano nelle fasi di formazione e declino degli stati.

I mercati della violenza da un certo punto di vista impongono alla globa-lizzazione barriere precise. Essi infatti limitano l’esportazione dei diritti u-mani e dello stato costituzionale progettata dalle agenzie occidentali di svi-luppo sulla base di programmi volti a promuovere la democratizzazione e ladecentralizzazione. Si creano così luoghi di grande insicurezza sociale, carat-terizzati dalla migrazione di masse di profughi e da una assoluta arretratezzaeconomica. Sebbene occasionalmente possano attirare qualche “imprendi-tore avventuriero”, non offrono certo l’ambiente ideale per le piccole e me-die imprese che in linea di massima garantiscono uno sviluppo costante a li-vello economico. D’altra parte queste limitazioni imposte alla globalizzazio-ne dei mercati della violenza non escludono che esse funzionino efficace-mente come elementi di potenziamento di alcuni precisi aspetti del processodi globalizzazione. È il caso della privatizzazione e della commercializzazio-ne della guerra. Nei suoi studi, Herfried Münkler sottolinea con insistenzacome il monopolio statale sulla violenza sia legato alla separazione tra com-mercio e violenza, nonché alla professionalizzazione e al disciplinamento de-gli uomini in armi.20 Solo tali processi hanno consentito di normare la guerra,in forza delle convenzioni dell’Aia e di Ginevra, promuovendo, per esempio,la distinzione fra combattenti e civili. La crescente affermazione dei mercatidella violenza annuncia l’inversione di questa tendenza. I loro protagonistisono signori della guerra refrattari a ogni disciplinamento, e per i quali gliambiti del commercio e della violenza tornano a coincidere perfettamente. Imercati della violenza appaiono quindi come forme fenomeniche della guer-ra privatizzata e commercializzata.

La privatizzazione e la commercializzazione della violenza raggiungonouna dimensione globale combinandosi con la generale privatizzazione diprerogative sovrane che si sta diffondendo in tutte le società occidentali e nel

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19 M. Bollig, Afrikanische Kriegsherren. Überlegungen zur Entstehung von Gewaltmärkten im präkolo-nialen und postkolonialen Afrika, in Aa.Vv., Afrika und die Globalisierung. Schriften der Vereinigung vonAfrikanisten in Deutschland, Hans-Peter Hahn, Gerd Spittler, Münster 1999, pp. 425-444; G. Elwert,Gewaltmärkte. Beobachtungen zur Zweckrationalität der Gewalt, in T. von Trotha (a cura di), Soziologieder Gewalt, Westdeutscher Verlag, Opladen 1997, pp. 86-101.

20 H. Münkler, Die neuen Kriege, cit., p. 238.

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mondo nel suo complesso. Tali processi non si fermano neppure di fronte al-le forze armate che rappresentano il nucleo istituzionale della sovranità stata-le: al fine di ridurre i costi economici, politici e giuridici, il modo di condu-zione delle guerre da parte degli stati occidentali prevede un ricorso semprepiù frequente e massiccio a imprese private e a mercenari al loro stabile servi-zio o arruolati per l’occasione.

La tendenza alla privatizzazione ha condotto a una proliferazione di so-cietà operanti nel settore bellico e della sicurezza. Nella sola Gran Bretagnasi registrano attualmente circa 100 imprese annoverabili tra le società privatemilitari.21 Tali imprese sono responsabili della sicurezza del presidente af-ghano nonché impegnati nella lotta ai narcos e ai guerriglieri colombiani.Quasi tutte specializzate nella ricerca di informazioni, le società private mili-tari offrono servizi nelle cosiddette operazioni “psicologiche”, agiscono daintermediari sui mercati internazionali degli armamenti o da istruttori, rice-vono in subappalto dalle forze armate funzioni come la logistica, formanomercenari e altri specialisti militari, garantiscono la custodia di importanti ri-sorse economiche o intervengono direttamente come unità armate in teatridi guerra quali la Krajina e la Sierra Leone. La loro offerta spazia dall’adde-stramento del personale a sofisticate tecniche di sicurezza alla vendita di ae-rei ed elicotteri. La Military Professional Ressources Incorporated (Mpri) èoggi forse la società più importante del settore. Diretta da ex-militari statuni-tensi di alto grado, già prima dell’11 settembre proponeva sulla propria ho-mepage servizi e consulenze riguardanti anche la conduzione di guerre ato-miche, biologiche e chimiche. “Solo nella guerra civile in Angola hanno ope-rato circa 80 aziende di questo tipo”, riportava “Der Spiegel” il 3 maggio2004. Secondo le informazioni fornite dallo stesso settimanale, in Iraq gli al-leati schierano “circa 25.000 mercenari e altri prestatori d’opera militari”.

Le imprese private militari offrono numerosi vantaggi ai loro clienti: ri-sparmi significativi sui costi, elevate capacità tecniche e professionali, non-ché flessibilità operativa, requisito imprescindibile per le numerosissimemissioni di intervento determinate dal moltiplicarsi di piccole guerre di ognitipo in molte regioni del mondo. Agli occhi delle democrazie occidentali,tuttavia, il vantaggio principale di tali servizi risiede nel fatto che queste im-prese offrono una comoda soluzione al problema legato all’accettazione e al-la motivazione della guerra nelle cosiddette “società posteroiche”.22 A frontedelle piccole guerre, dei genocidi e della guerriglia globale in atto a livellomondiale, i contractor privati riducono la tensione suscitata da alcuni interro-gativi pressanti: è strettamente necessario difendere gli interessi legati alla si-curezza nazionale nell’Hindukush con i soldati degli eserciti nazionali o ad-dirittura con quelli di leva, per dirla con il ministro della Difesa tedesco?Nelle iperindividualistiche società posteroiche è ancora possibile reclutaresoldati facendo riferimento a motivazioni non legate alla gratificazione eco-

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21 W. Ruf, Private Militärische Unternehmen (Pmu), in Id. (a cura di), Politische Ökonomie der Gewalt.Staatszerfall und die Privatisierung von Gewalt und Krieg, Leske-Budrich, Opladen 2003, pp. 76-90.

22 H. Münkler, Die neuen Kriege, cit., p. 238.

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nomica? A differenza dei “propri” soldati e soprattutto dei coscritti, i con-tractor caduti e feriti non fanno parte dell’elettorato con il quale si devonoconfrontare i responsabili politici. Dietro questi morti e feriti non stanno va-lori eroici, bensì più prosaicamente questioni di paga e di interesse privato.La de-eroicizzazione e la privatizzazione dell’impegno bellico rimandanodunque a una prospettiva di progressiva commercializzazione della guerra.

Nelle attuali procedure di conversione degli eserciti in unità altamentespecializzate e flessibili composte da soldati di professione, Münkler ravvisaun compromesso tra la tradizionale leva obbligatoria degli stati nazionali e laprivatizzazione e commercializzazione della guerra.23 Egli interpreta tali mi-sure come “forse l’ultima possibilità per fermare la privatizzazione della vio-lenza bellica, se non altro nei centri economico-politici, e per mantenere laguerra sotto il controllo degli stati”. Alla luce del legame storico tra democra-zia e leva obbligatoria, questi provvedimenti possono tuttavia essere conside-rati anche come il primo passo incerto verso una nuova privatizzazione ecommercializzazione della condotta bellica.

Solo il futuro ci farà capire la portata effettiva di queste misure. Münklerha cercato di richiamare l’attenzione sull’abisso nel quale rischia di sprofon-dare la concezione moderna non solo della guerra, ma anche della politica,dell’economia e della società: “Se questa riforma fallisce, non vi saranno piùostacoli a una nuova e diffusa privatizzazione della guerra con imprese dimercenari quotate in borsa”. Ci si incamminerebbe infatti verso una violenzamilitare che “non tollera alcun limite”. Il ritorno all’unione di violenza ecommercio rappresenterebbe il rilancio di una violenza militare sconfinataed estranea al diritto. Come lettore ho avuto l’impressione di scorgere nelleaffermazioni di Münkler una forte inquietudine. Sarebbe opportuno che tut-ti provino sgomento di fronte a una tale prospettiva di destatalizzazione dellaguerra, sebbene la storia del monopolio statuale della violenza e della guerranon autorizzi un atteggiamento meno critico e più sereno. (Traduzione Ales-sandra Armaroli)

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23 H. Münkler, Über den Krieg. Stationen der Kriegsgeschichte im Spiegel ihrer theoretischen Reflexion,cit., p. 234.

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spettri�

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Il testo di Max Weber di cui qui proponiamo una traduzione apparve nelfebbraio 1916 nella rivista “Die Frau”.1 Si tratta di una lettera di sostegnoa Gertrud Bäumer, che era stata attaccata da una pacifista svizzera dopo a-vere pubblicato sulla stessa rivista un saggio, intitolato Zwischen zwei Ge-setzen, in cui, pur ammettendo in linea di principio l’incompatibilità di pa-triottismo e cristianesimo, prendeva posizione a favore della politica di po-tenza del Reich. Al di là della brevità e del carattere occasionale, l’inter-vento è veramente rivelatore dello stile intellettuale weberiano. La sua ten-denza all’intransigenza nelle scelte politiche e morali – nei conflitti di que-sto mondo si può stare sempre solo da una parte o dall’altra, senza media-zioni – è qui al servizio di una sostanziale adesione alla politica di potenzadel Reich. La germanicità era assunta da Weber, che pure non ha mai sotto-scritto alcun pangermanismo, come un dato di fatto indiscutibile e ineludi-bile. Si tratta di un esempio di quel radicamento dei valori personali in cuiWeber ha visto il fardello di ogni intellettuale onesto. È vero che uno scien-ziato deve lavorare indipendentemente da tali valori, in una complessa dia-lettica personale di conquista dell’imparzialità, ma a essi non si sfugge, so-prattutto quando si agisce nel mondo. Ed è in loro nome che il nazionalistaWeber assumerà nel corso della guerra posizioni di dura critica nei confron-ti della strategia avventuristica del Kaiser e dei militari e si impegnerà,quando la sconfitta appariva imminente, nell’impossibile compito di colla-

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UNA LETTERA DI MAX WEBER SU GUERRA E PACIFISMO

di Alessandro Dal Lago�

1 M. Weber, Zwischen zwei Gesetzen, in “Die Frau. Monatsschrift für das gesamte Frauenleben unse-rer Zeit”, 23, 5, febbraio 1916, pp. 277-279. Ora ripubblicato in Max-Weber-Gesamtausgabe, 15, Zur Poli-tik im Weltkrieg. Schriften und Reden 1914-1918, a cura di W. J. Mommsen in collaborazione con G. Hü-binger, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1988, pp. 39-41. Tra le traduzioni più recenti segnaliamoM. Weber, Scritti politici, a cura di A. Bolaffi, Donzelli, Roma pp. 39-42.

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borare a una soluzione del conflitto onorevole e non distruttiva per la Ger-mania.2

Le poche pagine di Weber sono fitte delle espressioni ricorrenti nella sua ul-tima produzione – come “la nostra responsabilità di fronte alla storia”, il “poli-teismo” o conflitto tra dèi inconciliabili, “i doveri storici” derivanti dall’esserela Germania una grande potenza –, delle sue idiosincrasie (come l’avversioneper la society inglese o la “barbarie” dei russi), e anche del sorprendente ricono-scimento del pacifismo coerente di Tolstoj. A questo pacifismo assoluto, espres-so nella rinuncia definitiva a ogni bene terreno, Weber contrappone il farisai-smo “svizzero” o “americano”, cioè la neutralità da commercianti o “parassiti”.È il polemista liberale e patriottico che parla, ma anche il sociologo della reli-gione e della cultura che, nello stesso periodo, approfondisce la diagnosi dellamodernità dispiegata come “gabbia d’acciaio”, arido terreno di scontro tra dèi,demoni o “valori” inconciliabili (in sostanza, tra i nazionalismi europei).

È bene ribadire che questo Weber è stato a lungo ignorato, se non censura-to, dal mainstream sociologico e storico-critico che, non solo sulla scia di TalcottParsons, ne ha fatto il fondatore della sociologia, oppure da chi, come KarlLöwith o Karl Jaspers, ha visto in Weber il grande saggio indipendente e am-mantato di tragicità che sicuramente, se fosse vissuto abbastanza, si sarebbe op-posto alla degenerazione della repubblica di Weimar.3 La verità, più che in mez-zo, sta altrove. Di fronte al retaggio, in cui si identificava totalmente, della po-tenza tedesca, Weber non ha dato segni di cedimento. Poteva – come ha fatto –criticare anche aspramente l’annessionismo e l’estremismo della corte e dei mi-litari, ma in nome dei superiori interessi della Germania. Ed è per lo stesso mo-tivo, salvare il salvabile, che lo troveremo nel primo dopoguerra come collabo-ratore dei Consigli degli operai e dei soldati; non per qualche simpatia per il so-cialismo – a cui in tempo di guerra aveva dedicato un grande saggio critico –,ma perché vedeva nella serietà dei socialdemocratici (di cui peraltro non potevaaccettare il dilettantismo) un residuo di quel senso del dovere terreno che, comesi vede anche in questo testo, era per lui la sola stella polare nella catastrofe deitempi.

C’è da aggiungere che altri fondatori della sociologia (come Durkheim) nonescono granché bene dalla prova della guerra, insieme a una folla di poeti e ro-manzieri nazionalisti. Sarebbe insensato osservare i dilemmi di un secolo fa congli occhi di oggi. Eppure – oltre alla posizione degli intellettuali marxisti, alcunidei quali, come Lukàcs, ruppero con Weber proprio sulla guerra (così come Blo-ch con Simmel) – esistevano altre possibilità. Non tanto nel campo del pacifi-smo assoluto di un Tolstoj (che per Weber rappresentava un’alternativa religio-sa, e quindi ammissibile ma impraticabile), bensì del disincanto critico di chisapeva vedere, dietro la retorica e la truculenza militariste, il collasso dell’interacultura borghese.

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2 Cfr. i testi in appendice a W.J. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca1890-1920, il Mulino, Bolo-gna 1993, pp. 663 e sgg.

3 Mi permetto di rinviare, in tal senso, a A. Dal Lago, L’ordine infranto. Max Weber e i limiti del razio-nalismo, Unicopli, Milano 1983. In anni recenti l’appiattimento epistemologico e metodologico di Weberè stato ampiamente discusso e variamente criticato.

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Nel periodo in cui Weber si lacerava tra il dèmone nazionalista e quello del-la Wertfreiheit scientifica, Karl Kraus metteva mano al suo impossibile, irra-presentabile dramma – anzi, tragedia in cinque atti con preludio ed epilogo –Gli ultimi giorni dell’umanità, in cui, facendo impallidire la rêverie di JulesLaforgue sulla morte della terra, il grande austriaco, fustigatore dei delitti lin-guistici e politici, ha riassunto il precipitare di innumerevoli tipi di stupidità,fellonia, crapula borghese e cecità militarista nel nichilismo della Prima guerramondiale.4 In settecento pagine di irresistibili parodie dei monumenti della let-teratura tedesca, vaudeville, operette, gergo giornalistico e chiacchere quotidia-ne, Kraus non solo decretava l’abietta fine del mondo di ieri tra caffè viennesi estati maggiori prussiani, demi-monde e trincee insanguinate, ubriacature pa-triottiche e scene di fucilazioni, stupri e carestie, ma portava a compimento lapiù radicale distruzione dell’ idea di guerra. Nella scena finale del dramma, e-serciti di fantaccini votati alla morte, guidati da generali ottusi e seguiti da in-viati al fronte menzogneri, si scannano su una terra ormai desertificata. Nau-seate dallo spettacolo di un’umanità che storpia la creazione, le potenze celesticercano di fermare il massacro. Poiché i loro moniti, sotto forma di una pioggiadi lapilli e di cenere, restano inascoltati, si decidono a farla finita con gli esseriumani e bombardano la terra di meteoriti. Mentre il globo va in pezzi, gli ulti-mi combattenti non desistono dalle armi. Anzi, cantando i loro inni patriottici,si felicitano per l’arrivo dei missili celesti, scambiati per l’ultimo ritrovato delleproprie artiglierie. Infine, un tuono scuote l’universo e la terra svanisce. Nel si-lenzio dei cieli s’ode la voce di Dio: “Io non l’ho voluto”. È la frase che France-sco Giuseppe avrebbe pronunciato nel 1914, allo scoppio della guerra.

Qui siamo ben al di là della critica e anche dell’invettiva, perchè la stessavoce di Kraus, che interviene nella tragedia nei panni del Criticone, suona co-me poco più di un patetico borbottio. Invece, si tratta dell’iscrizione funerariasu qualsiasi pretesa di sensatezza del progresso storico. Se Kraus fosse vissutoabbastanza per sapere di Auschwitz e Hiroshima, avrebbe probabilmente sceltoil silenzio. Tutto era stato detto. Infatti, benché l’umanità tra il 1939 e il 1945abbia profuso i suoi talenti in materia di produzione della morte di massa, il da-do era stato tratto irreversibilmente nel 1914. A novant’anni di distanza, le po-sizioni di Weber hanno qualcosa di datato e di patetico. Invece, se qualcuno fos-se oggi capace, non dico di attualizzare Kraus, ma di ispirarsi a lui nella dissa-crazione del militarismo – che oggi non rinvia alle caricature sanguinarie di Ot-to Dix, ma alla modesta malvagità di un Bush o di un Blair –, questo sì sarebbeun tributo all’intelligenza. Ma, al di là della diffusa opposizione sociale allaguerra, tanti nostri intellettuali di grido hanno altro da fare – come emetteregiudizi snobistici sui film di Michael Moore. E forse lo stesso Weber avrebbe a-vuto parole di fuoco, non per i pacifisti – tra cui non sembra che si annidino og-gi molti profittatori di guerra – ma per i loro critici sussiegosi, che probabilmen-te hanno accettato, senza saperlo, l’ineluttabilità delle catastrofi a venire.

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4 K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità. Tragedia in cinque atti con preludio ed epilogo, Adelphi, Mi-lano 1980.

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La discussione sul senso della nostra guerra (in “Die Frau”) meriterebbeforse di essere ampliata accentuando più decisamente un punto di vista chedi sicuro apprezzerete: la nostra responsabilità di fronte alla storia, riesco so-lo a trovare questa espressione un po’ patetica. La stessa questione in giocoè abbastanza semplice.

Un popolo numericamente “superiore”, organizzato come potenza stata-le, si trova, per il solo fatto di essere tale, ad affrontare compiti completamen-te diversi da quelli che toccano a popoli come gli svizzeri, i danesi, gli olande-si e i norvegesi. Dovunque, naturalmente, si ritiene che un popolo “piccolo”,in termini quantitativi e di potenza, abbia per ciò stesso meno valore o menoimportanza davanti al giudizio della storia. Ma, solo per il fatto di essere tale,esso ha altri compiti e proprio per questo altre possibilità dal punto di vistadella civiltà [Kulturmöglichkeiten]. Vi sono note le considerazioni spesso ac-colte con stupore di Jakob Burckhardt sul carattere diabolico della potenza.Ora, questa valutazione è del tutto conseguente, dal punto di vista dei tesoridella civiltà custoditi da un popolo come quello svizzero, che non può porta-re la corazza di un grande stato militare (e che non ha nemmeno storicamen-te il dovere di farlo). Anche noi abbiamo tutti i motivi per ringraziare la sorteche esista una cultura di lingua tedesca più ampia dello stato di potenza na-zionale. Non solo le semplici virtù civiche e un’autentica democrazia, nonancora realizzata in alcun grande stato di potenza, ma anche i valori più inti-mi, e tuttavia eterni, possono sbocciare unicamente sul terreno di quelle so-cietà che rinunciano alla potenza politica. Un tipo di artista genuinamente te-desco come Gottfried Keller non sarebbe diventato così particolare e irripe-tibile in quella sorta di caserma che il nostro stato è obbligato a essere.

Al contrario, i compiti che spettano a un popolo organizzato in una po-

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TRA DUE LEGGI

di Max Weber�

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tenza statale sono ineludibili. Le generazioni future, e in particolare i nostridiscendenti, non considereranno responsabili i danesi, gli svizzeri, gli olan-desi e i norvegesi se il potere mondiale – e ciò significa, in ultima analisi, lacapacità di influire sulla civiltà futura – fosse spartito pacificamente tra i re-golamenti dei funzionari russi, da una parte, e le convenzioni della society an-glosassone, magari con un’iniezione di raison latina, dall’altra. Ma noi invecesì. E giustamente, perché noi siamo uno stato di potenza e anche perché, di-versamente da quei “piccoli” popoli, possiamo gettare sul piatto della bilan-cia il nostro peso in relazione a questo problema della storia – e proprio perciò pesano su di noi, e non su quelli, il dannato dovere e il fardello morale da-vanti alla storia [Schuldigkeit vor der Geschichte], cioè davanti alla posterità,di opporci alla sommersione del mondo intero da parte di quelle due poten-ze. Se sfuggissimo a questo dovere, il Reich tedesco non sarebbe che un lussocostoso, inutile e dannoso per la civiltà, qualcosa che non avremmo dovutoconcederci e a cui dovremmo rinunciare senza indugio, a favore di una “sviz-zerizzazione” della nostra struttura statale – cioè, a favore del suo sciogli-mento in piccoli cantoni politicamente impotenti, provvisti magari di piccolecorti amanti delle arti. In questo caso attenderemmo a lungo che i nostri vici-ni ci permettano di dedicarci serenamente alla cura dei valori culturali dapiccolo popolo, che così rimarrebbero per sempre il senso della nostra esi-stenza. Sarebbe inoltre un errore ancora più grave pensare che una compagi-ne politica come il Reich tedesco possa adottare con una decisione spontaneauna politica pacifista come quella, mettiamo, della Svizzera; che possa cioè li-mitarsi a intervenire con la sua valorosa milizia solo in seguito alla violazionedelle sue frontiere. Una compagine politica come la Svizzera – che pure senoi dovessimo soccombere sarebbe presto soggetta agli appetiti annessioni-stici da parte dell’Italia – non è dì ostacolo, almeno in linea di principio, aiprogetti delle altre potenze. E questo non solo per la sua impotenza, ma an-che per la sua posizione geografica. Ma la semplice esistenza di una grandestato, quale noi siamo divenuti, è un ostacolo sul cammino delle altre poten-ze: in primo luogo, della fame di terra, determinata dall’assenza di civiltà, deicontadini russi e della politica di potenza della chiesa di stato e della buro-crazia russe. Tra le grandi potenze, l’Austria era sicuramente quella più im-mune da voglie espansionistiche, ma proprio per questo – cosa che viene spes-so dimenticata – la più minacciata. Avevamo solo la scelta, nell’attimo prece-dente la sua distruzione, di impedire la catastrofe oppure di limitarci a stare aguardare, lasciando che dopo pochi anni travolgesse anche noi. Se non si riu-scisse a deviare altrimenti la spinta espansionistica russa, le cose rimarrannole stesse in futuro. Questo è un destino che nessun discorso pacifista puòcambiare. Ed è parimenti chiaro che non potevamo e non possiamo più sot-trarci senza vergogna, anche se lo volessimo, alla scelta fatta quando abbiamofondato il Reich e ai doveri che a noi ne derivano.

Il pacifismo tipico delle dame americane (di entrambi i sessi!) è davveroil cant [l’ipocrisia] più pericoloso che – del tutto in buona fede – sia stato esi-bito e messo in mostra in modo salottiero, con il farisaismo del parassita, cherealizza buoni profitti sulle forniture, nei confronti dei barbari delle trincee.

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Nella “neutralità” antimilitarista degli Svizzeri e nel loro rifiuto della poten-za statale c’è anche, in questo momento, una buona parte di incomprensionefarisaica circa la tragicità dei doveri storici che spettano a un popolo che si èorganizzato come grande potenza. Con tutto ciò, rimaniamo abbastanza o-biettivi per valutare come, dietro questo atteggiamento, rimanga un noccio-lo genuino che tuttavia noi tedeschi, dato il destino che ci attende, non pos-siamo accettare.

In queste discussioni si dovrebbe lasciare da parte il Vangelo – oppure fa-re sul serio. E qui c’è solo la coerenza di un Tolstoj, e nient’altro. Per uno cheriscuote solo un pfennig di rendita, altri devono – direttamente o indiretta-mente – pagare; possedere un bene d’uso o utilizzare un bene di consumo,che sa ancora del sudore del lavoro altrui, e non del proprio, significa alimen-tare la propria esistenza sfruttando il meccanismo di quella lotta economicaper l’esistenza, atroce e priva di compassione, che la fraseologia borghese de-signa come “pacifico lavoro della civiltà”: un’altra forma di quella lotta del-l’uomo con l’uomo, in cui non milioni, ma centinaia di milioni di uomini si a-trofizzano nel corpo e nell’anima, sprofondano o conducono un’esistenza acui qualsiasi riconoscibile “senso” è in realtà ancora più estraneo del sensocollettivo dell’onore (anche delle donne, perché anche loro “partecipano”alla guerra se fanno il loro dovere), ciò che significa soltanto: senso dei doveristorici del proprio popolo imposti dalla storia. Nei punti decisivi la posizionedei Vangeli a questo riguardo è assolutamente univoca. Essi stanno in oppo-sizione non esclusivamente alla guerra – a cui non fanno particolare riferi-mento – ma a tutte le istituzioni del mondo sociale – in quanto mondo dellaciviltà terrena – e cioè alla bellezza, alla dignità, all’onore e alla grandezza del-la “creatura”. Chi non ne trae le conseguenze – e questo l’ha fatto lo stessoTolstoj, quando si avvicinava alla morte – dovrebbe sapere di essere legato al-le istituzioni [Gesetzlichkeiten] del mondo terreno, che per un tempo indefi-nibile contengono la possibilità e l’ineluttabilità delle guerre di potenza eche può soddisfare le “esigenze del momento” solo all’interno di tali istitu-zioni. Ma questa esigenza aveva e ha per i tedeschi del Reich un significatodel tutto diverso da quello che può avere per i tedeschi della Svizzera. E saràsempre così. Infatti, tutto ciò che rientra tra i beni di una grande potenza è ir-retito nelle regole “pragmatiche” della potenza [Gesetzlichkeit des “Macht-Pragma”] che dominano ogni storia politica.

Il vecchio e lucido empirista John Stuart Mill ha detto una volta che dalnudo terreno dell’esperienza non si perviene ad alcun dio; a me sembra chetantomeno si pervenga a un Dio di bontà, quanto piuttosto al politeismo. Difatto, chi vive in questo “mondo” (in senso cristiano) non può fare altra espe-rienza di sè che una lotta tra una pluralità di serie di valori ognuna delle qua-li, presa per sé, appare vincolante. Egli deve scegliere quali di questi dèi oquale degli altri vuole e deve servire. Ma si troverà sempre in lotta con qual-cuno degli dèi di questo mondo e soprattutto sarà lontano dal Dio del cristia-nesimo, e più di tutti da quello che veniva annunciato nel Sermone dellaMontagna. (Traduzione Alessandro Dal Lago)

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Pubblicato per la prima volta su “Foreign Affairs” nell’estate del 1993, ilsaggio di Samuel Huntington The Clash of Civilization si apre con un’affer-mazione stentorea: “La politica mondiale sta entrando in una nuova fase”.Tali parole alludono alla transizione da un passato recente, in cui i conflittiinternazionali erano riconducibili a schieramenti ideologici che facevanodel primo, secondo e terzo mondo campi in permanente tensione, a unnuovo scenario politico, attraversato da conflitti tra diverse, e presumibil-mente incompatibili, forme di civiltà: “Le maggiori divisioni che attraverse-ranno l’intera umanità e le principali cause delle guerre del futuro, sarannoculturali [...]. Lo scontro tra civiltà dominerà la scena politica globale”.

Nel corso dell’articolo Huntington definisce meglio il clash destinato ascatenarsi lungo la faglia che separerebbe l’Occidente dalle altre civiltà: granparte del saggio, infatti, è dedicato al tentativo di esaminare motivi potenzialio attuali del dissidio irrecuperabile tra ciò che viene cumulativamente defini-to “Occidente”, da una parte, e la civiltà islamica e quella confuciana dall’al-tra. In termini di analisi dettagliata, però, l’attenzione si concentra quasi e-sclusivamente sull’Islam ben più che su altre civiltà, Occidente incluso.

A mio parere gran parte dell’interesse suscitato dall’articolo di Hunting-ton, così come dall’imponente quanto inutile volume che lo ha seguito nel1995, è dovuto più al momento specifico della sua pubblicazione che alle ar-gomentazioni che in esso vengono sviluppate. Come riconosce lo stesso au-tore, già si erano registrati diversi tentativi di mappare politicamente e teori-camente la situazione globale emersa dalle ceneri della Guerra fredda. La li-

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LO SCONTRO DELLE DEFINIZIONI. SU SAMUEL HUNTINGTON*

di Edward Said�

* Il presente saggio comparirà in E. Said, Dall’esilio, Feltrinelli. La redazione ringrazia l’editore per a-verne consentito la pubblicazione sulla nostra rivista come anticipazione.

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sta in questo caso risulterebbe piuttosto lunga, spaziando dalla tesi di Fran-cis Fukuyama sulla “fine della storia” alla teoria sul “nuovo ordine globale”circolata negli ultimi giorni dell’amministrazione di Bush senior. Più di re-cente, Paul Kennedy, Conor Cruise O’Brien ed Eric Hobsbawm – tutti conlo sguardo puntato sul nuovo millennio – si sono inseriti nel dibattito esami-nando attentamente le possibili cause di futuri conflitti e ricavandone più diuna legittima ragione di allarme. Al centro della visione di Huntington – chenon appare affatto originale – è l’idea di uno stato di guerra permanente cheirrompe “spontaneamente” nello spazio politico rimasto “orfano” della tota-lizzante contrapposizione di idee e valori che ha scandito il corso della lunga,e di certo non rimpianta, Guerra fredda. Ritengo quindi che non sia affatto i-nopportuno sottolineare come il tentativo di Huntington – soprattutto secontestualizzato in riferimento ai suoi interlocutori immediati, e cioè agli o-pinionisti e ai politici “Washington-based” abbonati a “Foreign Affairs”,principale rivista americana di politica internazionale – sia in primo luogouna versione riciclata della tesi “forte” della Guerra fredda, in base alla qualei conflitti di oggi e di domani più che esplicitamente “economici” o “sociali”si presentano come sostanzialmente ideologici e, ammesso ciò, che un’unicaideologia – quella occidentale – sarà ancora e sempre il nucleo centrale attor-no a cui, a detta di Huntington, ogni altra è necessariamente costretta a orbi-tare. In questa prospettiva la Guerra fredda sembra destinata a persistere, or-ganizzandosi però su più fronti, attraverso sistemi di valori e di idee ben piùnumerosi e radicati – Islam e confucianesimo in primis – in grado di conten-dere l’egemonia e lo stesso predominio all’Occidente. Non sorprende allorache Huntington chiuda il saggio con una sintetica valutazione di ciò chel’Occidente debba fare per conservare la propria leadership, ossia mantene-re debole e diviso il fronte dei suoi presunti oppositori. Si tratterà, cioè, di“sfruttare le differenze e i conflitti tra stati islamici e confuciani, [...] suppor-tare direttamente gruppi che in altre civiltà condividono i valori e gli interessioccidentali, consolidare quelle istituzioni internazionali e sovranazionali cheriflettono e legittimano tali interessi e valori, [...] promuovere il coinvolgi-mento di paesi non occidentali in tali istituzioni”.1

Il tono con cui Huntington sostiene che altre civiltà entreranno in colli-sione con quella occidentale è talmente assertivo e insindacabile, e le prescri-zioni sul da farsi per mantenere l’egemonia aggressive e scioviniste, da farpensare che l’autore sia molto più interessato a perpetuare ed estendere laGuerra fredda con altri mezzi che ad avanzare ipotesi e congetture in gradodi leggere il nuovo scenario internazionale o, a maggior ragione, di conciliareculture differenti. Ben poco di ciò che afferma tradisce il minimo dubbio o ilpiù blando scetticismo. Non solo la guerra continuerà – come si sostiene dal-la prima pagina dell’articolo – ma “il conflitto di civiltà rappresenterà l’ulti-mo capitolo dell’evoluzione della guerra nel mondo moderno”. Quel saggio,allora, in sé decisamente schematico e nell’articolazione di fondo piuttostorozzo, deve essere letto e interpretato come un manuale di “arte della manu-

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1 S. Huntington, The Clash of Civilization, in “Foreign Affairs”, estate 1993, p. 49.

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tenzione di uno stato di guerra permanente” a uso e consumo della mentalitàamericana e globale. Potrei spingermi fino a sostenere che l’autore abbia agi-to direttamente per conto di alcuni strateghi del Pentagono e di determinatigruppi di interesse legati all’industria militare, soggetti che, dopo il crollo delregime bipolare, hanno temporaneamente smarrito le loro funzioni e risco-prono ora una nuova vocazione bellicista grazie a cui rilanciarsi. A Hunting-ton, da questo punto di vista, se non altro va riconosciuto il merito di averesottolineato il ruolo decisivo della componente culturale nelle relazioni trapaesi, tradizioni e popolazioni diverse.

Ma l’aspetto più desolante dell’intera questione è dato dal fatto che lo“scontro di civilità” preconizzato da Huntington si rivela strumento utilissi-mo per drammatizzare e rendere quindi inaffrontabili tutta una serie di pro-blemi politici ed economici reali. È piuttosto facile, per esempio, fare notarecome negli Stati uniti da tempo l’evocazione dell’“aggressione” economicadel Giappone si alimenti di continue sottolineature sui presunti aspetti mi-nacciosi e sinistri della cultura nipponica; o, ancora, come la vecchia sindro-me del “pericolo giallo” sia rispolverata e mobilitata di continuo nei dibattitisull’ormai annoso “problema” rappresentato da Corea del Nord e Cina. Undiscorso nella sostanza analogo, ma di segno opposto, si può fare sugli argo-menti riguardanti l’“occidentalismo” che dilagano in Asia e in Africa, facen-do dell’“Occidente” una categoria monolitica supposta ostile a qualsiasi ci-viltà che non sia bianca, europea e cristiana.

Mostrandosi decisamente più incline alla prescrizione di ricette politicheche alla ricostruzione storica e all’analisi circostanziata delle diverse forma-zioni culturali, la tesi di Huntington e le argomentazioni attraverso cui vienesviluppata suscitano – almeno al sottoscritto – una sensazione di ingannevo-lezza. Buona parte dei suoi assunti si fondano su opinioni di seconda o terzamano, che prescindono da tutti i considerevoli progressi compiuti nella com-prensione pratica e teorica del modo in cui le culture “lavorano”, si trasfor-mano e possono essere meglio conosciute e capite. Del resto, è sufficiente unrapido sguardo agli autori e alle opinioni citate per constatare come le solefonti cui l’autore faccia riferimento, costituite da articoli di giornale e da unatipica demagogia di senso comune, di certo non siano supportate da uno stu-dio rigoroso e da una teoria “scientifica”. Basarsi su pubblicisti tendenziosi,giornalisti o studiosi del calibro di Charles Krauthammer, Sergei Stankeviche Bernard Lewis significa pregiudicare ab origine il senso del proprio discor-so, facendolo precipitare nel conflitto e nella peggiore vis polemica a scapitodi ogni autentica comprensione del tipo di cooperazione di cui il pianeta a-vrebbe bisogno. Le fonti di Huntington, inoltre, non si riferiscono mai alleculture stesse, ma a una congerie di documenti raccolti in base alla necessitàimmediata di accentuare la bellicosità latente delle posizioni, a proposito diquesta o quella cultura, espresse da sedicenti portavoce ufficiali. A rivelareun simile approccio è addirittura il titolo dell’articolo – The Clash of Civiliza-tions – che è farina del sacco non di Huntington, ma di Bernard Lewis. Nelleultime pagine del saggio The Roots of Muslim Rage, pubblicato nel settembredel 1990 su “The Atlantic Monthly” (rivista che non perde occasione per di-

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vulgare testi volti a descrivere il carattere patologico, folle e alienato di arabie musulmani), Lewis si sofferma su una serie di problemi “attuali” nei rap-porti con il mondo islamico:

Dovrebbe sin d’ora essere chiaro che ci troviamo di fronte a un atteggiamento e unmovimento che trascendono ogni tipo di discorso o di logica politica, e lo stesso valeanche per i governi in questione. Ciò che ci si prospetta è un vero e proprio scontrodi civiltà: la reazione, probabilmente irrazionale ma di certo storicamente fondata, diun vecchio antagonista quale l’Islam contro il nostro patrimonio giudaico-cristiano,il nostro presente secolarizzato e l’espansione globale di entrambi. È quindi di cru-ciale importanza, da parte nostra, non lasciarci trascinare in un’analoga reazione, an-ch’essa storicamente motivata ma altrettanto irrazionale, contro questo tipo di anta-gonista.

Non voglio qui perdere tempo a discutere gli aspetti deplorevoli del saggiodi Lewis. Altrove mi sono soffermato sui discutibili metodi cui è solito ri-correre tale autore: le generalizzazioni approssimative, la sistematica distor-sione dei fatti storici, la grossolana stereotipizzazione di civiltà complesse incategorie astratte come l’irrazionale, il vendicativo e via dicendo.2 Oggi so-no davvero poche le persone che, in qualsiasi regione e per qualsiasi ragio-ne, si sentono inclini a aderire a caratterizzazioni indiscriminate come quel-le proposte da Lewis: la pretesa di definire in modo univoco più di un mi-liardo di musulmani disseminati come minimo in cinque continenti, cheparlano decine di lingue differenti e appartengono a un’infinità di storie etradizioni. La sola cosa “certa” che Lewis riesce a dire di loro è che sareb-bero tutti indistintamente dominati da una furia cieca contro la modernitàoccidentale: come se un miliardo di persone potesse essere riassunta in unsentimento individuale e la stessa civiltà occidentale non fosse qualcosa dipiù complesso di una semplice formula.

Detto ciò, non posso fare a meno di rilevare come Huntington abbia mu-tuato da Lewis sia l’idea di parlare di intere civiltà come di qualcosa di mono-litico e assolutamente omogeneo sia il carattere statico e immutabile della di-cotomia noi/loro. In altre parole, ritengo assolutamente necessario non per-dere di vista il fatto che, tanto Bernard Lewis quanto soprattutto SamuelHuntington, non scrivano in una forma neutra, descrittiva, oggettiva, ma sipresentino come dei veri e propri ideologi, la cui retorica non si limita a rici-clare in modo massiccio vecchi argomenti e toni da “guerra di tutti controtutti” ma nei fatti li perpetua e riproduce. Lungi dall’essere un arbitro impar-ziale, allora, Huntington si dimostra un partigiano dello scontro di civiltà,l’avvocato della supremazia di una presunta civiltà su tutte le altre. Al pari diLewis, definisce l’Islam in termini a dir poco riduttivi, come se il suo solo ca-rattere distintivo, destinato a compendiarne ogni altro, fosse dato da un nonmeglio identificato sentimento antioccidentale. Se però Lewis tenta almenodi offrire una serie di argomenti a sostegno della propria tesi (il fatto che l’I-slam non sia mai riuscito a modernizzarsi, a distinguere tra chiesa e stato, a

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2 E.W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 312-320,339-344.

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comprendere altre forme di civiltà), Huntington non sembra nemmeno porsiil problema. Ai suoi occhi, l’Islam, il confucianesimo e le altre cinque o sei“civiltà” che ancora sopravvivono (induista, giapponese/scintoista, slavo-or-todossa, latinoamericana e africana) sono indubitabilmente separate una dal-l’altra e quindi potenzialmente destinate a un conflitto che, nelle intenzionidell’autore, si può esclusivamente gestire e non certo risolvere. La sua scrit-tura è tipica di chi deve intervenire in una crisi: sicuramente non è quella dichi studia determinate civiltà, e tantomeno di chi tenta di conciliarle.

Al centro del saggio – ed è questo il tratto che gli ha fatto toccare cordetanto sensibili tra i decisori politici post Guerra fredda – l’esplicita intenzio-ne di farla finita con tutti i dettagli superflui, con schiere infinite di studiosi especialisti, con l’enorme esperienza accumulata in anni di studi, per conden-sare tutto in due o tre idee orecchiabili e a presa rapida, che vengono poispacciate per “pragmatiche”, pronte all’uso, efficaci e soprattutto chiare. Maè davvero questo il modo migliore per comprendere il mondo in cui vivia-mo? È saggio, ed eticamente corretto, che un intellettuale o uno specialistaproponga una mappa del mondo così semplificata e la consegni nelle mani dilegislatori civili e militari come ricetta ready made per comprendere la realtàe quindi agire? O un tale modo di procedere non finisce invece per protrar-re, esacerbare e approfondire i conflitti? In che senso può operare, in con-creto, per ridurre il rischio di guerre “di civiltà”? C’è forse qualcuno fra noiche desidera uno scontro di civiltà? Non si finisce così per mobilitare i peg-giori istinti nazionalisti che riportano alla memoria i più orridi crimini del na-zionalismo? Dovremmo allora chiederci per quale motivo sia possibile pen-sare e scrivere una cosa del genere: per capire o per agire, per ridurre la pos-sibilità di conflitti o per farla precipitare?

Vorrei iniziare indagando la situazione mondiale nei termini assoluti pro-posti da Huntington, spendendo qualche parola sulla tendenza, oggi dila-gante, a parlare in nome di astrazioni ampie – e a mio modo di vedere sciagu-ratamente vaghe, generiche e manipolabili – come Occidente, cultura giap-ponese o slava, Islam o confucianesimo: si tratta di etichette che fanno preci-pitare religioni, “razze” ed etnie in discorsi ideologici che si rivelano ancorapiù sgradevoli e provocatorii di quelli esposti da Arthur de Gobineau ed Er-nest Renan un secolo e mezzo fa. Per quanto strano possa sembrare, simili e-sercizi di psicologia di gruppo non sono una novità, né, ovviamente, hannomai portato a qualcosa di costruttivo. In particolare, essi si sviluppano in mo-menti di generale insicurezza, quando genti diverse sono violentemente avvi-cinate, come spinte una contro l’altra, in seguito a un’espansione, una guerra,l’imperialismo, l’immigrazione, come effetto più generale di un cambiamen-to improvviso e senza precedenti.

Avanziamo un paio di esempi per illustrare meglio la questione. Il lin-guaggio dell’identità di gruppo irrompe in modo particolarmente violento ametà dell’Ottocento e accompagna il corso di quel secolo sino alla fine, alculmine di decenni di competizione internazionale tra le grandi potenze eu-ropee e gli Stati uniti per i territori dell’Asia e dell’Africa. Nelle guerre diconquista degli sterminati “spazi vuoti” del dark continent africano, Francia

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e Gran Bretagna, come del resto Belgio e Germania, non ricorrono solo allaforza per giustificare il saccheggio indiscriminato, ma evocano un intero ar-senale di teorie e retoriche. L’esempio più immediato di questo atteggiamen-to è probabilmente rappresentato dal discusso concetto francese di missioncivilisatrice, cui soggiace l’idea che la storia conceda a certe razze e culture fi-nalità più elevate che ad altre. Ciò conferisce al popolo più potente, sviluppa-to e civilizzato il diritto di colonizzare gli altri, e in nome non della forza bru-ta di cui dispone o del volgare bottino che può derivarne – entrambi elemen-ti distintivi e costanti nell’esercizio di un tale diritto – ma di un nobile ideale.Il più famoso romanzo di Joseph Conrad, Cuore di tenebra, non è che l’ironi-ca e terrificante messa in scena di questa tesi. Nelle parole dello scrittore: “Laconquista della terra, che in generale vuol dire portarla via a chi ha una pellediversa dalla nostra o un naso un po’ più schiacciato, a pensarci bene non èproprio una bella cosa. Ciò che la riscatta è soltanto l’idea. Un’idea che la so-stenga; non una finzione sentimentale, ma un’idea, e una fede disinteressatanell’idea – qualcosa che si possa innalzare, davanti a cui inchinarci, a cui of-frire un sacrificio”.3

Per rispondere a questo tipo di logica è necessario chiamare in causa al-meno due ulteriori elementi di analisi. Il primo, assai evidente, è dato dal fat-to che le potenze in competizione, per giustificare in qualche modo le loroimprese internazionali, hanno sempre avuto bisogno di inventarsi una speci-fica teoria sui destini delle culture e delle civiltà. L’Inghilterra ne elaborò unasua propria, la Germania ne propose una variante, il Belgio un’altra ancora e,come risulta evidente nell’idea stessa di “destino manifesto”, anche gli Statiuniti lo hanno fatto e continuano a farlo. Tali potenti visioni redentive fini-scono per attribuire dignità a forme di competizione e scontro i cui veri o-biettivi, come già intravedeva lucidamente Conrad, non sono che l’espansio-ne, il potere, la conquista, la razzia, un senso smisurato dell’orgoglio naziona-le. Ci si può spingere fino a suggerire che quel fenomeno diffuso e oggi attua-lissimo che risponde al nome di retorica dell’identità – il sentimento per cuiogni membro di un determinato gruppo etnico, religioso, nazionale o cultu-rale fa del proprio gruppo il centro del mondo – risalga genealogicamenteproprio alle competizioni imperialistiche che imperversarono alla fine del-l’Ottocento. Ciò, a sua volta, innesca l’idea che esistano “mondi in conflitto”,ipotesi che costituisce il presupposto implicito dell’articolo di Huntington etrova la più agghiacciante trasfigurazione futuristica nel racconto di H.G.Wells La guerra dei mondi dove, per chi non lo ricordasse, il concetto si e-stende fino a includere un conflitto stellare contro la Terra. Nei campi conti-gui dell’economia politica, della geografia, dell’antropologia e della storio-grafia, la teoria che interpreta ogni “mondo” come racchiuso in se stesso, de-limitato da confini “naturali” e compreso in determinati territori, viene este-sa all’intera mappa mondiale, alla specifica geografia delle civiltà, alla tesi percui ogni razza possiede un destino, una psicologia e un ethos suoi particolari.Si tratta di idee che, senza eccezioni, di certo non si fondano su un’idea di ar-

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3 J. Conrad, Cuore di tenebra, Feltrinelli, Milano 2001, p. 51.

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monia e equilibrio, ma al contrario preconizzano il conflitto, “vedono” loscontro tra i mondi. Per averne una dimostrazione evidente basta forse ri-spolverare vecchie opere come quelle di autori noti come Gustave Le Bon(La Révolution française et la psychologie des révolutions, 1912) o oggi pres-soché dimenticati come Francis Sydney Marvin (Western Races and theWorld, 1922) o George Henry Lane e Fox Pitt Rivers (The Clash of Cultureand the Contact of Races, 1927).

Il secondo elemento di riflessione, ammesso dallo stesso Huntington, ri-guarda il fatto che i popoli “inferiori”, oggetto dello sguardo e delle “cure”imperiali, hanno risposto alla violenza e all’imposizione coloniale resistendotenacemente. Oggi sappiamo come il primo atto di insubordinazione all’uo-mo bianco sia coinciso con il momento stesso del suo approdo in luoghi co-me l’Algeria, l’Africa orientale, l’India. A quella prima e immediata forma diresistenza ne è poi subentrata una seconda, più articolata, che ha visto nasce-re e svilupparsi movimenti politici e culturali decisi a raggiungere l’indipen-denza, a liberarsi dal giogo imperiale. Esattamente nel momento in cui, tra legrandi potenze coloniali del XIX secolo, si impone una retorica redentiva chelegittima la conquista in termini di civiltà, i popoli colonizzati rispondonocon una reazione uguale e contraria, parlando il linguaggio dell’unità, dell’in-dipendenza e dell’autodeterminazione in nome dell’intero continente africa-no, dell’Asia, del mondo arabo. In India, per fare un esempio, il Partito delcongresso, la cui fondazione risale al 1880, al giro di boa del secolo aveva giàdefinitivamente persuaso le élite indiane che la libertà sarebbe potuta arriva-re solo sostenendo direttamente la lingua, la produzione e il commercio in-diani: “perché sono nostri e solo nostri” questa, ridotta all’osso, l’articolazio-ne del discorso “e solo opponendo il nostro mondo al loro potremo essere ingrado di sostenerci da soli”. Una logica simile, costruita sulla contrapposizio-ne assoluta “noi-loro”, la si può trovare all’opera nel Giappone moderno delperiodo Meiji. Ma qualcosa di analogo a questa forte retorica di appartenen-za agisce come motore di tutte le forme di nazionalismo che innervano i mo-vimenti indipendentisti, conducendo, dopo la Seconda guerra mondiale, allosmantellamento degli imperi moderni e all’indipendenza di decine e decinedi colonie: India, Indonesia, la maggior parte dei paesi arabi, Indocina, Alge-ria, Kenia (la lista sarebbe interminabile), tutti stati la cui irruzione sulla sce-na mondiale è avvenuta pacificamente o come esito di un articolato processointerno (il Giappone), oppure in conseguenza di violenti conflitti coloniali edi guerre di liberazione nazionale.

Nel periodo sia coloniale sia della transizione postcoloniale, quindi, i di-scorsi e le retoriche su una generica specificità culturale o di civiltà agisconoin due direzioni potenzialmente opposte: la prima, utopica, che insiste su unmodello complessivo di integrazione e di armonia fra i popoli, la seconda chesuggerisce invece come ogni civiltà sia tanto specifica e gelosa di sé, tantospontaneamente monoteista, da rifiutare tutte le altre e dichiarare loro guer-ra. Nella prima direzione, per fare un esempio, si collocano il linguaggio e leistituzioni di cui si sono dotate, dalla loro fondazione dopo l’abisso della se-conda guerra mondiale, le Nazioni unite, come del resto i tentativi successivi,

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anche esterni al raggio d’azione diretto dell’Onu, di dare vita a forme di go-verno mondiale basate sul presupposto di una coesistenza pacifica, di unavolontaria limitazione della sovranità e di un’armonica integrazione di popo-li e culture. Al secondo orientamento, invece, aderiscono la teoria e la prassiche hanno accompagnato la Guerra fredda, sfociando nell’idea più recentesecondo cui, in un mondo così profondamente diviso, uno scontro di civiltàsi rivela se non logicamente necessario quantomeno inevitabile nei fatti. Inquesta prospettiva, ogni cultura e ogni presunta civiltà si percepiscono comeirrimediabilmente separate l’una dall’altra. E, sia chiaro, ciò vale a 360 gradi:l’emergere nel mondo islamico di retoriche e movimenti che rivendicanoun’assoluta ostilità verso l’Occidente corrisponde all’atteggiamento diffuso,in Africa, in Europa e in Asia, di gruppi più o meno organizzati che esprimo-no la stessa necessità di escludere chiunque venga definito come altro e inquanto tale risulti indesiderato. Ne sono prova l’apartheid in Sud Africa, co-me del resto l’attuale successo dell’afrocentrismo, il sogno di una civiltà to-talmente indipendente dall’Occidente che affiora perentorio tanto in Africache negli Stati uniti.

Questo breve excursus storico-culturale sull’idea di “scontro di civiltà”mostra come personaggi del tipo di Huntington non siano che il prodotto diquesta tradizione, come la loro scrittura ne sia totalmente permeata. Inoltreil linguaggio utilizzato per descrivere il presunto clash è funzionale allo svi-luppo di strategie di potere: chi è potente vi ricorre per proteggere ciò che hao che fa; chi si trova in posizioni più o meno svantaggiate lo utilizza per pa-reggiare i conti, per aspirare all’indipendenza o a un vantaggio relativo ri-spetto al potere dominante. Per questo, costruire un frame concettuale attor-no alla retorica del “noi-contro-di-loro” significa in realtà avallare la finzionein base alla quale l’assunto principale di quel discorso risulterebbe epistemo-logicamente fondato e soprattutto naturale (“la nostra civiltà la riconosciamoe l’accettiamo, la loro è diversa, inconcepibile, anomala”), mentre in realtà lacornice di senso che interviene a separare “noi” da “loro” si fonda solo sullaguerra, ed è qualcosa che occorre sempre costruire, qualcosa di storicamentee politicamente situato. Occorre infatti tenere a mente che all’interno di ogniforma culturale o di civiltà esistono e agiscono rappresentanti ufficiali che as-sumono il ruolo di portavoce, autoinvestendosi del compito di articolare ilsenso di ciò che verrà definito e accettato come essenza esclusiva (e cioè la“nostra” e all’occorrenza anche la “loro”). Si tratta di un esercizio che richie-de sempre un considerevole sforzo di sintesi, di riduzione, di esagerazione.Per questo, come prima cosa, ogni affermazione su ciò che la “nostra” cultu-ra o civiltà è dovrebbe essere necessariamente vagliata alla luce dello specifi-co contesto in cui quel tipo di definizione prende forma. Ciò ovviamente valeanche per Huntington, che scrive il suo saggio in un momento particolaredella storia americana in cui lo stesso concetto di civiltà occidentale si trova aessere messo radicalmente in discussione, travolto da un’ondata di critiche divario genere. Non bisogna infatti dimenticare come durante gli ultimi duedecenni numerosi campus universitari americani siano stati attraversati daun duro scontro sullo statuto della civiltà occidentale, sui libri da inserire nei

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programmi, su quelli da leggere o da non leggere, da considerare legittimi o acui prestare comunque attenzione. Tale dibattito, di cui luoghi comeStanford e la Columbia University sono divenuti l’epicentro, ha suscitatograndi polemiche in quanto in gioco non erano solo questioni “normali” peril mondo accademico ma la definizione stessa di Occidente, e quindi le basipolitiche della società americana.

Chiunque abbia una nozione anche minima del modo in cui le culture o-perano ed evolvono, sa perfettamente che definire una cultura, stabilire checosa rappresenti per chi ne è parte, si rivela sempre uno dei più immediati edecisivi enjeu democratici, anche in società che democratiche non sono. Esi-stono forme codificate di autorità che devono essere continuamente selezio-nate, rielaborate, dibattute, eventualmente riselezionate e nel caso accanto-nate. Ci sono idee sul bene e sul male, sull’appartenenza e la non appartenen-za, sull’uguale e il diverso: intere gerarchie di valori che devono essere vaglia-te, discusse, ridiscusse e di volta in volta accettate o rifiutate. Ogni culturadefinisce i propri nemici ufficiali, tutto ciò che sta al di fuori di essa e la mi-naccia. Per i greci, fin dai tempi di Erodoto chiunque non parlasse la loro lin-gua era automaticamente un barbaro, un Altro la cui esteriorità era pensatacome assoluta tanto che lo si poteva solo combattere. In un libro molto bello,Lo specchio di Erodoto, lo studioso del mondo classico François Hartog ha a-nalizzato lo zelo ai limiti dell’accanimento con cui Erodoto si adoperò per re-stituire un’immagine barbara e definitivamente Altra degli sciti, ricorrendo atermini ben più perentori di quelli utilizzati per gli stessi persiani, e cioè per inemici “riconosciuti”.4

La cultura ufficiale è quella dei sacerdoti, degli accademici, dello stato,che elaborano la cornice che permette di imprimere un senso e una direzioneal patriottismo, alla lealtà, ai confini, a ciò che ho definito come “sentimentodi appartenenza”. È la forza che permette di parlare in nome dell’intera so-cietà, di esprimere la volontà generale, l’ethos comune e le idee collettive: chestabilisce le versioni ufficiali sul passato, i padri fondatori e i testi fondativi, ilpantheon degli eroi e dei nemici, ed esclude o relega nel passato chiunque siastraniero, diverso, indesiderabile. Da qui, in altre parole, provengono le defi-nizioni di ciò che può o non può essere detto, le prescrizioni e i veti cui ognicultura ricorre per potere esercitare una certa autorità.

Accanto alla cultura mainstream, ufficiale e codificata, esistono tuttaviaforme culturali di dissenso, alternative, non ortodosse, eterodosse, per lo piùespressione di elementi anti-autoritari che competono e confliggono con leversioni ufficiali. Si potrebbero chiamare controculture, intendendo con ciòun insieme di pratiche associate a diversi tipi di outsider: i poveri, i migranti,i movimenti operai, i bohemien, i ribelli, gli artisti. La controcultura producesempre una critica dell’autorità costituita, attacca tutto ciò che è codificato eortodosso. Il grande poeta arabo Adonis, autore di un imponente lavoro sul-le complesse relazioni tra ortodossia ed eterodossia nella cultura araba, hadimostrato come le due polarità si siano sempre collocate in una specifica

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4 F. Hartog, Lo specchio di Erodoto, il Saggiatore, Milano 1992.

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tensione dialettica. Nessuna cultura può davvero essere compresa senza te-nere conto della continua e pervasiva sfida che il non ufficiale lancia all’uffi-ciale. Non riconoscere il ruolo decisivo di questo dissidio, e affermare quindila più assoluta omogeneità di cultura e identità, significa perdere di vistaquanto nelle culture si manifesta come più vitale e produttivo.

Negli Stati uniti, il dibattito sul significato della parola “americani” èpassato attraverso una serie infinita di trasformazioni e slittamenti, spessoanche drammatici. Durante la mia adolescenza, per esempio, ricordo un in-tero filone di film western che restituiva un’immagine dei nativi americanicome indemoniati da sterminare o sottomettere con ogni mezzo: li si chiama-va indiani pellerossa, e se proprio si doveva attribuire loro una funzione al-l’interno della cultura americana – e ciò vale sia per i film sia per la storiogra-fia ufficiale, accademica – essa consisteva nell’avere rappresentato un intral-cio al processo di progressiva affermazione della civiltà bianca. Oggi quel-l’immagine si è totalmente invertita: i nativi sono visti come vittime, e nessu-no ha più il coraggio di considerarli apertamente come i malvagi oppositoridell’occidentalizzazione del paese. Un capovolgimento analogo, ma di segnoopposto, ha coinvolto anche la figura di Colombo. E rovesciamenti ancorapiù potenti e radicali riguardano la rappresentazione degli african-american edelle donne. Toni Morrison ha mostrato con chiarezza quanto la letteraturaclassica americana sia stata attraversata da una vera e propria ossessione – fa-cilmente rintracciabile in opere come Moby Dick di Melville o Gordon Pymdi Poe – nei confronti della purezza razziale, della whiteness. Toni Morrison,però, non si limita a questo, e sottolinea come tutti i maggiori scrittori del-l’Ottocento e del Novecento, quelli che hanno stabilito il canone di ciò checonosciamo come “letteratura americana”, tutti rigorosamente maschi ed e-sclusivamente bianchi, abbiano costruito le loro opere utilizzando il fattore“uomo bianco” per negare, rimuovere e rendere del tutto invisibile la pre-senza africana all’interno della società statunitense. Il fatto che Toni Morri-son possa oggi scrivere romanzi e saggi il cui valore assoluto è riconosciuto u-niversalmente rivela la portata enorme del cambiamento che separa il mondodi Melville e di Hemingway da quello di DuBois, di Baldwin, di LangstonHughes, della Morrison stessa. Qual è allora la vera immagine dell’America?Chi può avanzare la pretesa di rappresentarla una volta per tutte? La que-stione è complessa quanto affascinante, e di certo non può essere risolta ri-ducendola a una serie di cliché.

Il breve testo di Arthur Schlesinger The Disuniting of America ci offreuna visione sintetica della problematicità di questo tipo di conflitti culturali,la cui posta in gioco non è niente di meno che la definizione di una civiltà. Inquanto storico mainstream, Schlesinger si dimostra comprensibilmentepreoccupato del fatto che la rappresentazione ufficiale e unitaria elaboratadalla storiografia “classica”, da autori come Bancroft, Henry Adams e, più re-centemente Richard Hofstadter, sia stata progressivamente messa in discus-sione e implicitamente offuscata dalla presenza e dalle rivendicazioni semprepiù pressanti dei gruppi etnici emergenti e dei migranti. A suscitare l’inquie-tudine del noto storico è, più precisamente, il loro desiderio di (ri)scrivere

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una storia che porti alla luce non solo l’idea di un’America concepita e gover-nata esclusivamente da ristrette élite di possidenti, ma la realtà di un paese al-la cui costruzione materiale schiavi, braccianti, lavoratori e immigrati hannocontribuito in modo tanto sostanziale quanto ufficialmente non riconosciutoe negato. Le narrazioni di questi soggetti, ridotti al silenzio in tutta una seriedi grandiosi affreschi il cui unico soggetto “risiedeva” a Washington piutto-sto che nelle grandi banche di investimento di New York, nelle università delNew England, nelle enormi fortune industriali del Middle West, infliggonoun duro colpo all’incedere inesorabile e trionfale della storia ufficiale: solle-vano questioni di visibilità, intercettano esperienze di emarginazione socialee fanno proprie le rivendicazioni di ogni tipo di minoranza: donne, asian, afri-can-american e ogni altro gruppo etnico o di genere. Che si condivida o menoil grido di dolore di Schlesinger, la sua tesi di fondo – e cioè che la scritturastorica sia sempre la strada maestra nella definizione di un paese, che l’iden-tità di una società sia in primo luogo funzione di un’interpretazione storicache si carica di rivendicazioni e controrivendicazioni – resta comunque nellasostanza inconfutabile. Gli Stati uniti di oggi si trovano esattamente a questotipo di crocevia, confrontati a questo specifico dilemma.

Dibattiti nella sostanza analoghi coinvolgono il mondo islamico, anche sespesso finiscono per essere totalmente sommersi dalle grida isteriche dei me-dia occidentali sul pericolo rappresentato dal fondamentalismo e dal terrori-smo. Al pari di ogni altra grande cultura mondiale, l’Islam contiene in sé unastraordinaria proliferazione di correnti e sottocorrenti, la maggior parte dellequali misconosciute o semplicemente ignorate dalla parzialità di quegli o-rientalisti che lo considerano esclusivamente oggetto di paura e ostilità, o dagiornalisti che senza la più pallida idea dei linguaggi e delle storie che ne han-no segnato il corso si limitano a riprodurre stereotipi che in Occidente circo-lano come minimo dal X secolo. L’Iran di oggi – bersaglio costante di attacchipolitici tanto feroci quanto opportunistici da parte degli Stati uniti – è alleprese con un conflitto interno straordinariamente intenso e violento, checoinvolge concetti come il diritto, la libertà, le responsabilità individuali, ilsenso della tradizione. E tutto questo avviene senza che la stampa occidenta-le si degni di riservargli la minima attenzione. Predicatori e intellettuali – nonnecessariamente appartenenti al clero – si fanno interpreti della tradizionedel Shariati, sfidando i centri del potere e dell’ortodossia senza per questovenire puniti, beneficiando a quanto sembra di un ampio sostegno popolare.In Egitto, due inquietanti casi di ingerenza diretta delle autorità religiose nel-la sfera delle libertà individuali, che hanno visto coinvolti un intellettuale eun cineasta di fama mondiale (rispettivamente Nasir Abu Zeid e YousefChaine) si sono risolti con l’affermazione dei diritti di entrambi contro l’or-todossia. Io stesso, in un libro del 1994 (The Politics of Dispossession), ho sot-tolineato come il mondo arabo contemporaneo, lungi dal limitarsi a sancirel’ascesa del fondamentalismo islamico – come invece sommariamente paven-tato dalla stragrande maggioranza dei media occidentali – si caratterizzi so-prattutto per un’opposizione al fondamentalismo e all’ortodossia senza pre-cedenti, che procede in forme diverse, tutte caratterizzate da un violento di-

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battito sull’interpretazione della sunnah in materie come il diritto, il compor-tamento individuale, le decisioni politiche ecc. Del resto – ed è cosa che si fi-nisce significativamente per perdere di vista – anche movimenti estremi co-me Hamas e Jihad islamica si presentano in primo luogo come forme imme-diate di protesta contro le continue capitolazioni politiche dell’Olp, come e-spressione della volontà di opporsi alla prassi sistematica di occupazione edespropriazione dei territori palestinesi messa in atto da Israele.

Trovo a dir poco sorprendente e in sé piuttosto inquietante che, nel corsodi tutto l’articolo, Huntington non degni della minima attenzione tale, benpiù complesso, livello di conflitti: che si riveli così assolutamente inconsape-vole del fatto che la natura e l’identità stessa di una civiltà non appaiono maicome assiomi insindacabili agli occhi di chi ne fa parte. Se proprio si deve in-dividuare un elemento in grado di sintetizzare il carattere politico di fondodegli ultimi decenni, anziché continuare a cercarlo nella Guerra fredda, cre-do occorra partire proprio dall’atteggiamento diffuso di sfida e sfiducia neiconfronti di ogni forma consolidata di autorità che attraversa l’intero dopo-guerra, a Est come a Ovest. Fenomeni come il nazionalismo e la decolonizza-zione hanno forzato i termini del discorso, portando intere popolazioni a ri-mettere in discussione la questione della nazionalità nei termini in cui si è af-fermata all’indomani della ritirata dei colonizzatori bianchi. Prendiamo l’e-sempio dell’Algeria di oggi, teatro di un atroce conflitto tra frange islamichee forze governative sclerotizzate e ormai del tutto screditate, dove lo scontro,nonostante abbia preso una piega particolarmente violenta, resta pur semprel’effetto (tragico) di un dibattito reale e di una contestazione indomita. Dopoavere sconfitto i francesi nel 1962, il Fronte di liberazione nazionale si è di-chiarato portatore di una nuova, finalmente libera, identità algerina, araba,musulmana. Per la prima volta nella storia moderna di quell’area, l’arabo di-venne lingua ufficiale nelle scuole, il socialismo di stato suo principio politi-co, il non allineamento la bussola in base a cui orientare le relazioni interna-zionali. Nel processo che ha portato a sintetizzare tutte queste aspirazioni inun solo partito, l’Fln ha finito per assumere la dimensione ipertrofica di un’e-norme macchina burocratica, l’economia si è impoverita e la leadership poli-tica è degenerata in rigida oligarchia. L’opposizione, cresciuta non solo tra ilclero e i leader islamici, ma anche fra le minoranze berbere, ha finito persommergere il discorso ormai logoro e abusato sulla presunta unità/unicitàdell’identità algerina. La crisi politica degli ultimi anni è allora il precipitatodi una contestazione che appartiene a più voci e ambiti sociali, in lotta per ilpotere e per il diritto di stabilire le forme dell’identità algerina, di dire, cioè,quanto in essa vi sia di islamico e a quale tipo di Islam si riferisca, e quanto in-vece di nazionale, di arabo o di berbero.

Huntington, quando parla dell’“identità di una civiltà”, si riferisce sem-pre a qualcosa di stabile, certo, indiscusso, come può esserlo un ripostiglioper gli attrezzi sul retro di casa. Una tale visione si rivela totalmente fuorvian-te, in riferimento non solo al mondo islamico, ma all’intera superficie del pia-neta. Ribadire in questo modo le differenze tra culture e civiltà – e, detto perinciso, l’uso che Huntington fa di termini come “cultura” e “civiltà” appare

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sciatto proprio per il fatto che essi sono riferiti a oggetti fissi e cristallizzati,anziché dinamici e costantemente in fermento – significa ignorare l’intermi-nabile dibattito e le infinite lotte (alludendo al significato più attivo e propo-sitivo evocato dalle due parole) sul senso di una cultura e/o una civiltà, che apartire da tutti i vari possibili “occidenti” attraversano ogni civiltà. Dibattitie lotte che minano alla radice ogni ipotesi identitaria fissata una volta per tut-te e quindi ogni immagine delle relazioni tra identità – aspetto che Hunting-ton ritiene invece un tratto ontologico della loro esistenza politica – che im-plichi uno scontro di civiltà. Per rendersene conto non occorre essere specia-listi della Cina piuttosto che del Giappone o della Corea. Basta riprenderel’esempio già avanzato riguardante la situazione americana, o il caso dellaGermania, dove a partire dal secondo dopoguerra si è sviluppato un dibatti-to enorme e nella sostanza ancora aperto sulla natura della cultura tedesca,nel tentativo di stabilire quanto il nazismo sia stato derivazione logica deisuoi presupposti di fondo, o quanto invece ne abbia rappresentato un’aber-razione.

Le questioni sollevate dall’identità, però, non si esauriscono qui. Grazieagli sviluppi e agli approcci elaborati nel campo degli studi culturali e deirethorical studies disponiamo oggi di una percezione molto più articolata echiara non solo della natura conflittuale e dinamica dell’identità culturale,ma anche del fatto che la stessa idea di identità sia sempre da associare a con-tinue operazioni di manipolazione, invenzione, costruzione, fantasia. Sonopassati quasi trent’anni da quando Hayden White pubblicò Metahistory, li-bro destinato a esercitare una decisiva influenza sulla storiografia.5 Oggettodell’opera era uno studio ravvicinato di numerosi storici e teorici dell’Otto-cento – tra gli altri, Marx, Michelet e Nietzsche – e di quanto il ricorso co-stante a uno o più tropi e specifiche figure discorsive abbia determinato lanatura della loro particolare visione storica. Hayden White, per esempio, no-tava come Marx ricorresse nei suoi testi a una particolare poetica che gli con-sentiva di inquadrare la natura del progresso e delle forme di alienazione nelcorso della storia in base a uno specifico modello narrativo, fondato sulla di-cotomia di fondo tra forma e sostanza. E l’elemento decisivo dell’analisi e-stremamente rigorosa che White conduce su Marx e molti altri autori consi-ste proprio nel riuscire a dimostrare come le loro ricostruzioni storiche pos-sano essere meglio comprese se riferite non tanto a criteri fondati sul “reale”,quanto piuttosto al modo in cui le strategie retoriche e discorsive cui ricorro-no lavorano dentro e sotto i testi. Sono queste strategie, ben più della presen-za di un qualche elemento esterno oggettivamente riscontrabile nel cosiddet-to mondo reale, a far sì che le prospettive di Tocqueville, Croce o Marx fun-zionino in realtà come sistemi coerenti.

Il principale contributo offerto dal libro di Hayden White, come del re-sto da molti studi di Michel Foucault, consiste nell’invito ad abbandonare lastrada che conduce a cercare nel mondo “naturale” conferme oggettive a de-

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5 H. White, Metahistory. The Historical Immagination in Nineteenth-Century Europe, Johns HopkinsUniversity Press, Baltimore-London 1975.

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terminate idee, per fare convergere l’attenzione sullo specifico linguaggio cuisi fa ricorso, interpretato come una componente che informa gli elementi co-stitutivi della particolare prospettiva dell’autore. Anziché assumere l’idea diuno scontro di civiltà derivandola da un conflitto reale nel mondo reale, do-vremmo allora riuscire a vederla come qualcosa che origina dalla specificastrategia sottesa alla prosa di Huntington, che a sua volta si fonda su ciò che sipotrebbe chiamare una “direttrice poetica”, una logica cioè, che permette diassumere l’esistenza di entità stabili e metaforicamente definite, chiamate ci-viltà, su cui l’autore interviene manipolandole emotivamente, come si evinceda frasi del tipo: “Il blocco islamico che si estende a macchia d’olio dal cornod’Africa al centro dell’Asia, ha confini sanguinosi”. Con ciò non intendo sem-plicemente affermare che il linguaggio di Huntington si rivela connotato e-motivamente mentre non dovrebbe esserlo ma piuttosto che il modo in cui loè, se si accetta il presupposto secondo cui ogni linguaggio opera secondo lestrategie poetiche analizzate da Hayden White, diventa in sé rivelatorio, percerti versi sintomatico. A emergere in modo evidente dalla prosa di Hunting-ton è il ricorso sistematico a determinate figure che accentuano la distanza trail “nostro” mondo – normale, accessibile, familiare, logico – e, come esempioestremo, quello islamico, dai confini insanguinati e i contorni indefiniti e mi-nacciosi. Ciò non si limita a riprodurre analisi in sintonia con quella di Hun-tington, ma genera una serie di assunti che, come ho già avuto modo di sugge-rire, producono direttamente quello stesso scontro che nel corso del saggioHuntington sembra progressivamente delineare e rivelare.

Un’attenzione eccessiva ai modi di gestire e risolvere lo “scontro tra cul-ture” finisce sistematicamente per occultare la trama decisamente più signifi-cativa di dialogo e scambio, tanto più intensa, quanto discreta e silenziosa,che definisce le relazioni tra culture. Esiste oggi una cultura – sia essa giappo-nese, araba, europea, coreana – che possa affermare di non avere mai avutorapporti prolungati, intimi e straordinariamente ricchi con le altre? Tale vor-ticoso regime di scambi non ammette eccezione alcuna. Potrà sembrareun’illusione, ma sarebbe davvero auspicabile e necessario che chi oggi è chia-mato a gestire conflitti “tra culture” ne fosse consapevole e tentasse di capi-re, per esempio, la straordinaria compenetrazione di diverse tradizioni musi-cali alla base dei lavori di Olivier Messiaen piuttosto che di Toru Takemitsu.Nonostante il richiamo potente e l’influenza diretta delle singole tradizioninazionali, l’aspetto di gran lunga più dirompente della musica contempora-nea consiste proprio nell’assoluta impossibilità di tirare una linea di demar-cazione certa e univoca intorno a ogni specifica tradizione. Spesso le culturesono più vicine alla loro “natura” quando entrano in contatto reciproco. È ilcaso della musica, della sua straordinaria ricettività nei confronti di ogni tipodi tradizione sviluppata in altre società e in altri continenti. Ma un discorso a-nalogo vale anche per la letteratura: i lettori di Garcia Marquez piuttosto chedi Nagib Mahfuz o Kenzaburo Oe sono disseminati ben al di là dei confiniimposti dalle lingue e dalle nazioni. Il mio stesso campo disciplinare, lo stu-dio comparato delle letterature, si fonda sull’assunto epistemologico dell’esi-stenza di relazioni forti tra diverse tradizioni letterarie e scommette sulla pos-

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sibilità di una conciliazione e una relazione armonica tra esse, al di là dell’esi-stenza di confini nazionali e ideologici comunque potenti e significativi. Ora,in ogni rivendicazione di un permanente clash of civilization ciò che si finisceper smarrire è proprio questo spirito di cooperazione, questa aspirazione al-l’impresa collettiva, testimoniata dalla presenza costante, in tutte le societàmoderne, di studiosi, artisti, musicisti, visionari e “profeti” che hanno dedi-cato la loro vita al tentativo di venire a patti e accettare l’Altro, di compren-dere culture e società che appaiono diverse, straniere e lontane. Si pensi soloa Joseph Needham, alla sua esistenza dedicata in toto allo studio della Cina,o, per spostarsi in Francia, a Louis Massignon e al suo pellegrinaggio infinitonell’Islam. Se non sapremo accentuare e rafforzare di continuo questo senti-mento umanistico improntato alla cooperazione e allo scambio – e per scam-bio non intendo certo una passione non informata e deformante per l’esoti-co, ma al contrario un profondo impegno esistenziale e una costante atten-zione reciproca – credo proprio che saremo inesorabilmente destinati a rul-lare i tamburi “facili” e stridenti della “nostra” cultura contro tutte le altre.

A tal fine due ricerche dedicate all’analisi della cultura, entrambe piutto-sto recenti e decisamente importanti, possono esserci di aiuto. Nei saggi rac-colti in L’invenzione della tradizione, Eric Hobsbawm e Terence Ranger sug-geriscono come ogni forma tradizionale, lungi dal riflettere un ordine fisso eimmutabile di conoscenze e pratiche ereditate verticalmente, sia per lo più ilprecipitato di tutta una serie di rituali e credenze cui le moderne società dimassa ricorrono per produrre un qualche senso di identità, in un’epoca incui ogni forma di solidarietà organica – rappresentata dalla famiglia, dal vil-laggio o dal clan – sembra andare in frantumi.6 In questa prospettiva, l’enfasisui valori della tradizione che ha percorso il XIX e il XX secolo si rivela soprat-tutto un espediente a cui chi governa può ricorrere per ottenere una legitti-mità più o meno artificiale. In India, per esempio, gli inglesi si sono dovutiinventare un impressionate dispiegamento di rituali per celebrare nel 1872 ilconferimento del titolo di imperatrice alla regina Vittoria. Affermando che iricevimenti secondo il rituale indiano e le imponenti processioni per com-memorare l’evento gettassero profonde radici nella storia locale, il governocoloniale si attribuì una legittimità che in realtà non aveva mai posseduto,ma che poteva ora rivendicare come tradizione inventata. Un discorso ana-logo, sia pure riferito a un contesto ben più generale, vale per rituali sportivicome il calcio, che viene percepito come culmine di una lunga tradizione diattività sportive mentre in realtà non è che una forma molto recente di loisircollettivo. Tutto ciò per sottolineare come un gran numero di fatti e di tradi-zioni che si suppongono geograficamente/territorialmente radicati si riveli-no nei fatti un’invenzione costruita per un immediato e altrettanto situatoconsumo di massa.

Ora, il sospetto di una tale possibilità non sfiora minimamente coloroche parlano esclusivamente il linguaggio dello scontro di civiltà. Ai loro oc-chi, culture e civiltà possono anche cambiare, evolvere, regredire, eventual-

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6 E.J. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987.

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mente sparire, ma resteranno sempre misteriosamente ancorate alla loro spe-cifica identità, alla loro essenza scolpita nella roccia. Inoltre è lecito chiedersise esiste da qualche parte un consenso “universale” circa l’esistenza delle seiciviltà che Huntington assume quali altrettanti postulati fin dalla prima pagi-na del suo saggio. È mia opinione che un tale consenso non abbia alcuna ra-gione di esistere e, se anche l’avesse, difficilmente riuscirebbe a reggere l’im-patto di un esame critico sviluppato a partire dall’approccio proposto daHobsbawm e Ranger. A partire da una simile prospettiva, nel leggere le paro-le che preconizzano un clash of civilization si è decisamente meno propensiad approvare l’idea di uno scontro che non a domandarsi per quale motivooccorra avvolgere ogni civiltà in un abbraccio tanto stretto e mortale: perché,in altre parole, sia necessario descrivere le loro relazioni solo ed esclusiva-mente in termini di conflitto, come se lo scambio ininterrotto e le continuesovrapposizioni tra culture non fossero argomento in sé decisamente più in-teressante e significativo.

Un terzo e ultimo esempio, ricavato ancora una volta dallo studio delleculture, richiama la nostra attenzione sulla possibilità assolutamente reale dicreare una civiltà retrospettivamente, a posteriori, producendo poi una defi-nizione congelata e impermeabile di quella creazione, a dispetto di ogni in-negabile esperienza di ibridità e fusione. Il libro in questione è Black Athenadi Martin Bernal, nel quale è sviluppata la tesi secondo cui l’immagine oggiradicata e “naturale” della Grecia antica non corrisponda affatto alla realtàvissuta e tramandata dagli autori classici.7 La “rottura” in questione risale a-gli albori del XIX secolo, quando europei e americani iniziarono a elaborareuna dimensione idealizzata della società attica quale regno di assoluta com-postezza e di rarefatta levità. Atene diventava così il luogo in cui illuminati fi-losofi occidentali del calibro di Platone o Aristotele potevano distillare la lo-ro saggezza, la patria della democrazia, il luogo in cui, in ogni suo aspetto, unmodo di vivere specificamente occidentale, e in quanto tale del tutto distintoda quello asiatico o africano, per la prima volta si affermava incontrastato.Eppure, sulla base della testimonianza di un considerevole numero di autoriantichi, si scopre che la vita attica era costitutivamente segnata dalla presenzadi specifici tratti di derivazione semitica e africana. Il passaggio successivoproposto da Bernal consiste quindi nel rivelare, attraverso il ricorso circo-stanziato a un numero considerevole di fonti testuali, come la Grecia fosse inorigine una colonia africana, più precisamente egizia, e quanto la presenza dicommercianti, marinai e intellettuali fenici ed ebrei abbia pesato sulla nascitae lo sviluppo di ciò che oggi conosciamo come la cultura greca classica, inter-pretata dallo storico come amalgama piuttosto coerente di specifici tratti a-fricani, semitici e, solo in un secondo tempo, nordici.

Nella parte più suggestiva e interessante del libro, Bernal arriva a dimo-strare come, con il montare del nazionalismo europeo e soprattutto tedesco,la consapevolezza della dimensione originariamente mista e ibrida della Gre-cia attica, che ancora persisteva durante il XVIII secolo, sia stata totalmente e-

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7 M. Bernal, Atene nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Pratiche, Parma 1997.

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spunta di ogni suo elemento non ariano, innescando quel processo che moltianni più tardi avrebbe portato i nazisti a bruciare tutti i libri e a bandire ogniautore considerato non tedesco e quindi non ariano. Così, da esito di un’in-vasione da sud, e cioè dall’Africa, quale in realtà fu, la Grecia classica si tra-sformò progressivamente nel prodotto mitologico di un’invasione prove-niente dal nord ariano. Una volta purificata da ogni problematico elementonon europeo, quell’immagine si sarebbe quindi installata – quale esito diun’evidente manipolazione – al centro di ogni definizione di sé della civiltàoccidentale, divenendone sua origine incontestabile, parametro assoluto diilluminata perfezione. L’elemento decisivo portato alla luce dal lavoro di Ber-nal, quindi, consiste proprio nello svelare la misura in cui intere genealogie,dinastie, lignaggi e individui del passato possano venire trasformati e mani-polati in base alle esigenze politiche di periodi successivi. Sugli esiti sciagura-ti che un simile atteggiamento ha prodotto, sugli effetti a dir poco esiziali delmito di una civiltà ariana e di un’Europa bianca, non credo sia necessario ag-giungere ulteriori parole.

Se possibile ancor più inquietante mi sembra, nei proclami riguardanti loscontro di civiltà, la totale rimozione della consapevolezza, maturata daglistorici e da altri studiosi, di quanto le definizioni delle culture si rivelino a dirpoco controverse. Anziché accettare l’idea incredibilmente ingenua e delibe-ratamente riduttiva secondo cui ogni civiltà sarebbe sempre perfettamenteuguale a se stessa, e che sia tutta qui, dovremmo piuttosto chiederci a qualeciviltà si alluda, e da chi o per quale ragione sia stata prodotta e definita così.La storia recente è fin troppo ricca di casi in cui la difesa dei valori giudaico-cristiani è stata brandita come pretesto per soffocare ogni tipo di dissenso edi differenza affinché si possa assumere pacificamente il fatto che “ognuno”sappia esattamente che cosa tali valori implichino in sé, come li si debba in-terpretare, come li si possa o meno affermare all’interno di ogni società.

Molti arabi possono riconoscere nell’Islam la propria civiltà, nella stessamisura in cui non pochi occidentali – in Australia, in Canada, in parte neglistessi Stati uniti – possono non desiderare affatto di essere inclusi in una ca-tegoria tanto vasta e generalizzata quale quella di Occidente. Quando Hun-tington parla di una serie di “oggettivi elementi comuni” che si suppone esi-stano all’interno di ogni cultura, sceglie deliberatamente di abbandonare o-gni terreno analiticamente e storicamente fondato, preferendo cercare rifu-gio in categorie assolutamente indefinite e nella sostanza prive di senso.

Come ho avuto modo di sostenere in diversi miei studi, nell’Europa e ne-gli Stati uniti di oggi ciò che si descrive come “Islam” appartiene a quel parti-colare ordine discorsivo che ho definito “orientalismo”: lo specifico costrut-to ideologico elaborato per organizzare sentimenti di ostilità e di antipatianei confronti di quella parte del mondo cui è toccato in sorte il fatto di occu-pare un posto strategicamente essenziale per il petrolio, la minacciosa prossi-mità al mondo cristiano, la sua straordinaria storia di competizione con l’Oc-cidente. Ma l’immagine prodotta dal discorso orientalista si rivela cosa bendiversa da ciò che l’Islam in realtà rappresenta agli occhi di chi ci vive all’in-terno. Tra l’Islam diffuso in Indonesia e quello praticato in Egitto le differen-

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ze sono enormi. In proposito l’Egitto, dove forme di potere secolarizzate so-no in permanente conflitto con movimenti islamici riformatori e di protesta,costituisce un esempio evidente della forte articolazione delle lotte intorno alsignificato da attribuire all’Islam. Di fronte a fenomeni di questa portata, larisposta in assoluto più facile e meno adeguata consiste nel sostenere che ilmondo dell’Islam sia solo quello, vedendovi esclusivamente terroristi e fon-damentalisti e ricavando di conseguenza la sensazione di una differenza side-rale che ci allontana proprio da loro.

Ma il punto in assoluto più debole della tesi sullo scontro di civiltà consi-ste proprio nell’assumere una frattura rigida e indiscutibile tra civiltà, negan-do il carattere di gran lunga più evidente del mondo di oggi, fatto di commi-stioni e migrazioni, di incroci e attraversamenti. Una delle ragioni piùprofonde della crisi che investe paesi come la Francia, l’Inghilterra, gli stessiStati uniti, risiede nel fatto di dovere in qualche modo fare i conti con il datodi realtà, oggi riscontrabile dappertutto, che nessuna cultura e società puòconsiderarsi semplicemente una cosa sola. Minoranze sempre più consistenti– di nordafricani in Francia, di afro-caraibici e indo-pakistani in Inghilterra,di asiatici e africani negli Stati uniti – contestano implicitamente l’idea che o-gni civiltà possa vantare e perpetuare una qualche pretesa di omogeneità.Non esistono culture isolate, civiltà “insulari”. Ogni tentativo di separarle edisporle in compartimenti stagni come quelli evocati da Huntington finiscesistematicamente per soffocarne e comprometterne la straordinaria varietà,la differenza, la formidabile compresenza di elementi diversi e complessi, laradicale ibridità. Più si insiste sull’intrinseca separatezza di culture e civiltà,più si diventa insensibili e si tradisce ogni senso di sé e degli altri: del resto,credo che l’idea stessa di una civiltà ermeticamente chiusa ed esclusiva risultisemplicemente insostenibile, priva di senso. La sola vera domanda da porsi,allora, è se davvero vogliamo andare verso civiltà che siano rigidamente sepa-rate o se invece non dovremmo intraprendere la strada probabilmente piùdifficile, ma certamente più gratificante, che conduce all’integrazione, il chesignifica tentare di vedere ogni forma culturale come parte di un insieme su-periore e più complesso, i cui esatti contorni si rivelano impossibili da deli-neare, ma la cui indubbia esistenza si può certamente intuire. Che lo si vogliao meno, da un po’ di anni scienziati politici, economisti e studiosi della cultu-ra hanno iniziato a parlare di un sistema mondiale caratterizzato da una pro-gressiva integrazione, essenzialmente economica, certo, ma nondimeno de-stinata a travolgere molti dei presunti scontri e delle faglie di cui parla con al-larmismo e imprudenza Samuel Huntington.

Ciò che Huntington finisce incredibilmente per perdere di vista è pro-prio quell’insieme di fenomeni complessi, e nei loro caratteri di fondo preva-lentemente iniqui, che una letteratura sempre più consistente definisce co-me globalizzazione del capitale. Già nel 1980, Willy Brandt pubblicò insie-me ad altri politici e studiosi un articolo, North-South: a Program for Survi-val, in cui si denunciava come il mondo si stesse dividendo in due macrore-gioni profondamente diseguali: un piccolo Nord industrializzato che com-prendeva le principali economie europee, americane e asiatiche, e un enor-

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me Sud che inglobava ciò che un tempo si definiva Terzo mondo accanto aun ampio numero di nazioni nuove ed estremamente impoverite. La princi-pale sfida che ci impone il futuro dovrebbe allora essere quella di immagina-re nuove relazioni lungo questa linea di frattura, in cui il Nord diventa ten-denzialmente più ricco, il Sud più povero e il mondo sempre più interdipen-dente e interconnesso. Lasciatemi qui citare ampiamente un saggio delloscienziato politico della Duke University Arif Dirlik che ripercorre moltedelle tematiche esplorate da Huntington, in modo però decisamente più ri-goroso e convincente:

La situazione creata dal capitalismo globalizzato permette di comprendere tutta unaserie di fenomeni che sono divenuti via via più evidenti nel corso degli ultimi due otre decenni, subendo una particolare accelerazione durante gli anni Ottanta: il movi-mento globale di persone (e quindi di culture), l’indebolimento dei confini (tra di-verse società e categorie sociali), la riproduzione all’interno di singole società di ine-guaglianze e squilibri in passato riconducibili a differenze coloniali, la simultanea o-mogeneizzazione e frammentazione all’interno e attraverso le società, l’interconnes-sione di globale e locale, la profonda alterazione della realtà rispetto a una visionedel mondo in termini di tre mondi o di relazioni fra stati-nazione. Alcuni di questi fe-nomeni hanno contribuito a un apparente riequilibrio delle differenze all’interno eall’esterno delle società, così come a una certa democratizzazione interna e trasversa-le alle società. Ma l’aspetto paradossale di tutto ciò consiste essenzialmente nel fattoche proprio chi “gestisce” questa situazione mondiale attribuisce a sé (o alle organiz-zazioni che rappresenta) il potere di mettere da parte tutto ciò che è locale in nomedi ciò che è globale, di annettere culture diverse sussumendole al dominio del capita-le (unicamente per poterle distruggere e poi ricostruire in sintonia con le nuove esi-genze della produzione e del consumo), e pure di ricostituire soggettività al di là diconfini nazionali per creare produttori e consumatori più ricettivi rispetto alle ope-razioni del capitale. Tutti coloro che non rispondono, i “basket case”, quelli che nonhanno nulla da perdere e si rivelano non essenziali a questo tipo di operazioni – iquattro quinti della popolazione mondiale, stando alle stime fornite dagli stessi ma-nager globali – non devono neppure essere colonizzati: basta marginalizzarli. Lanuova produzione flessibile ha reso obsoleto il ricorso a forme esplicitamente coerci-tive e disciplinari nei confronti del lavoro vivo, tanto “a casa” quanto all’estero, nellecolonie. Tutte le persone e i luoghi che non rispondono alle necessità (e alla specificadomanda) del capitale, o che sono ormai troppo lontani per poter rispondere effica-cemente, finiscono semplicemente per trovarsi fuori dai suoi calcoli. Oggi poi, si ri-vela ancora più facile, rispetto all’apogeo del colonialismo o all’apice del percorso dimodernizzazione, affermare senza esitazione: è colpa loro.8

Di fronte a uno scenario tanto deprimente quanto allarmante, appare dav-vero una politica da struzzi sostenere che l’Europa e gli Stati uniti per con-solidare la loro egemonia debbano difendere la civiltà occidentale tenendoa distanza tutte le altre culture e accentuandone le spaccature. È questa, neifatti, la tesi di fondo di Huntington. E risulta piuttosto facile comprendereil motivo per cui il suo saggio sia stato pubblicato su “Foreign Affairs” e unnumero così elevato di policy-maker statunitensi lo abbia immediatamentefatto suo, individuandovi la possibilità di estendere lo scenario “mentale”

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8 A. Dirlik, The Postcolonial Aura. Third World Criticism in the Age of Global Capitalism, in “CriticalInquiry”, 20, autunno 1994, p. 351.

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della Guerra fredda a una congiuntura radicalmente diversa e a un pubbli-co del tutto nuovo. In opposizione a tutto ciò, allora, decisamente più pro-duttiva e utile risulterebbe lo sviluppo di una nuova mentalità globale capa-ce di affrontare i pericoli che ci si prospettano dinnanzi a partire dal pre-supposto della comune appartenenza alla razza umana. E si tratta di perico-li davvero ingenti, che comprendono l’impoverimento della maggior partedella popolazione mondiale, l’emergere di violenti sentimenti locali, nazio-nali, etnici e religiosi, già forieri di enormi lutti in Bosnia, in Ruanda, in Li-bano, in Cecenia e in mille altri luoghi, la regressione indotta da una nuovaforma di analfabetismo (culturale e politico) veicolato dalla comunicazioneelettronica, dalla televisione, dalle autostrade informatiche, la frammenta-zione e la potenziale estinzione di tutte le grandi narrazioni illuministe di e-mancipazione che hanno attraversato il Novecento. La risorsa più preziosadi cui disponiamo per fare fronte a queste trasformazioni dirompenti, chetravolgono ogni tradizione e ogni storia, risiede proprio nella possibilità chesi affermino nuovi sentimenti di reciprocità, di comprensione, di empatia edi speranza: l’esatto opposto di quanto sollecitato da Huntington nel suosaggio. Mi si lasci allora citare alcune righe, cui già ho fatto ricorso in Cultu-ra e imperialismo, del grande poeta martinicano Aimé Césaire:

Ma l’opera dell’uomo è solo agli inizie resta ancora all’uomo dominare tuttala violenza annidata nei recessi della sua passione,ché nessuna razza possiede il monopolio della bellezza, dell’intelligenza, della forza,e c’è posto per tutti all’appuntamento con la vittoria.

Nel loro significato più profondo, questi sentimenti aprono la strada alladefinitiva dissoluzione di ogni confine culturale e di qualsiasi tipo di orgo-glio etnocentrico, preconizzando quella forma “benigna” di globalità giàcontenuta, per esempio, nei nuovi movimenti sociali e ambientalisti, nellacooperazione scientifica, nella tensione verso il rispetto di diritti umani uni-versali, in forme di pensiero globale che affermano esperienze di comunitàe di condivisione contro ogni tipo di dominazione razziale, di genere o diclasse. A mio parere, infatti, il tentativo di fare regredire ogni civiltà allostadio primitivo di un conflitto narcisistico non deve essere interpretatotanto come descrizione del modo in cui le civiltà realmente si comportano eagiscono, quanto piuttosto come incitamento a guerre sempre più rovinosee a uno sciovinismo distruttivo. Insomma, a tutto ciò di cui davvero non ab-biamo bisogno. (Traduzione Federico Rahola)

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materiali�

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L’ultimo decennio del Novecento si è caratterizzato per un intervento ar-mato nei Balcani che per potenze statuali e organizzazioni internazionali in-teressate si è qualificato come il più vasto in Europa dopo la Seconda guer-ra mondiale. In particolare, dopo la débâcle del Patto di Varsavia, il lungoconflitto bellico iugoslavo emerge come momento propulsivo delle ristrut-turazioni istituzionali volte a definire l’organizzazione politica della nuovaEuropa. L’allargamento dell’Unione europea e della Nato riposano quindisulle rovine iugoslave.

In questo articolo non si cercherà di ricostruire il dibattito in merito allecause delle guerre iugoslave, quanto piuttosto di analizzare la situazione la-vorativa postbellica nell’area kosovara e le trasformazioni indotte dalla pre-senza di un apparato militare e umanitario senza precedenti, addirittura este-so oltre i confini di tale area. Il Kosovo costituisce uno dei molti spazi di ec-cezione del mondo contemporaneo. Come vedremo, le recinzioni simboli-che o materiali plasmano la mobilità, costringendo a una diversa organizza-zione delle attività quotidiane e lavorative. Se la loro funzione principale è se-parare, quella secondaria è gerarchizzare le relazioni tra chi sta dentro e chista fuori. E la recinzione è prodotta dall’esterno, secondo un movimento chestringe e risospinge gli individui verso l’interno.

Il protettorato, il lord protettore e i neoprotetti

Nel protettorato kosovaro dell’immediato periodo postbellico, attraverso lacostituzione di una specifica struttura (Unmik – United Nations InterimAdministration Mission in Kosovo) l’insediamento Onu cerca di coprire il

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SISTEMI DI OCCUPAZIONE E NUOVE GUERRE NELL’EUROPA SUD-ORIENTALE

di Devi Sacchetto�

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vuoto istituzionale contrattando le modalità di gestione politica complessi-va dell’area con i rappresentanti albanesi e delle altre comunità.1 Al di làdell’effettivo potere delle diverse minoranze, la definizione della forma or-ganizzativa appropriata comporta un sistema di relazioni e responsabilitàreciproche tra i confini dei due sistemi paralleli – Onu e locale – caratteriz-zati dalla compresenza di molteplici autorità. A tale sistema di relazioni siaggiunge la presenza di una forte istituzione militare (Kfor) sotto il formalecontrollo Onu.

La partecipazione degli esperti locali all’amministrazione del protettora-to è stata in alcuni casi poco più che simbolica, ma proprio su tali immaginidi facciata vengono costruiti i principali passaggi politici ed economici. Sitratta di una continua contrattazione basata sui rapporti di forza, veri o pre-sunti, e sulla necessità del rispetto almeno formale dell’Onu. In questo sensoè indicativo quanto recentemente affermato dal governatore del Kosovo, Mi-chael Steiner: “Hanno sempre bisogno di un boss. Pensare che siano giàpronti a gestire l’intera amministrazione è un’illusione”.2 Molte sono le orga-nizzazioni che hanno tentato di orientare le scelte dell’esperimento istituzio-nale-giuridico, economico e sociale di un’area a regime speciale gestita daforze internazionali, un vero e proprio “stato di eccezione”. Nel rimodella-mento dei Balcani, accanto alle più influenti e conosciute istituzioni interna-zionali – Banca mondiale e Fondo monetario internazionale – che hanno di-spensato conoscenze e capitali, e alle varie agenzie dell’Onu intervenute mas-sicciamente nel primo dopoguerra, si allineano altre organizzazioni private epubbliche.

Le istituzioni italiane non sono state immuni da tali frenetiche attività,partecipando alla ricostruzione con numerose iniziative, che si moltiplicanosoprattutto dopo il conflitto bellico del 1999.3 Con le macerie ancora fuman-ti, le regioni nordorientali (Trentino, Friuli e Veneto) creano una task forceinterregionale con lo scopo di coordinare e sostenere gli interventi nei Balca-ni già promossi dai vari enti e associazioni presenti sul territorio. L’obiettivoprimario è un’accelerazione dello sviluppo del “sistema Nord-est” attraversol’appoggio a iniziative imprenditoriali nei Balcani, sulla falsariga di un mo-dello di liberismo che parta dal basso, ma con l’appoggio degli strumenti fi-nanziari e delle risorse messe a disposizione dalle maggiori istituzioni pubbli-che.4 Un altro ente che partecipa alla riformulazione della cornice giuridicaed economica è la Fondazione Nord-est, un istituto privato di ricerca soste-

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1 Il protettorato, istituito di fatto con la risoluzione Onu n. 1244 del 19 giugno 1999, consiste nell’am-ministrazione complessiva del territorio kosovaro da parte delle Nazioni unite. Nel tentativo di fornireun’aura di democrazia e di abbassare il livello di violenza, le forze Onu nel dopoguerra hanno coinvolto lapopolazione locale secondo uno schema che riproduce e approfondisce le divisioni presenti, affidandosi areferenti più o meno legittimi delle cosiddette “comunità”.

2 Y. Trofimov, Kosovo Shows Difficulty in Rebuilding a Nation After Casualties of War, in “Wsje”, 3-5gennaio 2003, pp. 1, A4.

3 L’acquisizione di Telekom serba nel 1997, sotto il governo Prodi, è un primo passo in questa direzio-ne e si inserisce nell’ambito dell’attenzione verso la Serbia dimostrato, a più riprese, da una parte dei go-verni italiani.

4 F. Degrassi, Le imprese alla sfida Balcani, in “Il Sole 24 Ore-Nordest”, 6 marzo 2000, p. 4.

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nuto dal padronato nordestino, mentre a livello nazionale sono le principaliistituzioni di supporto economico alle imprese – Simest, Finest, Uce e Infor-mest – ad avviare programmi di “assistenza tecnica” per la ricostruzione e laprivatizzazione delle imprese.5 D’altra parte, alla fine degli anni Novanta gliscambi commerciali tra Serbia-Montenegro e Italia rappresentavano il 95%dell’intero valore di scambio della Federazione iugoslava.6

A livello internazionale, l’influente International Crisis Group (Icg) fon-dato dal finanziere George Soros nel 1995 si poneva l’obiettivo di fornireconsulenza ai nuovi governi.7 L’Icg non manca di offrire suggerimenti ancheai nuovi governanti del protettorato. Secondo l’importante istituto, compitodell’Unmik è stabilire un’economia di mercato poiché il progresso economi-co può avvenire solo grazie a privatizzazioni, investimenti e ristrutturazioni,limitazione della corruzione e del crimine, miglioramento dell’istruzione enormalizzazione delle relazioni con i paesi confinanti. Le proposte dell’Icg siappuntano poi sulla rimozione delle notevoli differenze salariali tra quantilavorano direttamente per le organizzazioni internazionali e coloro che sonoalle dipendenze delle amministrazioni locali.8

Questo assillo dell’economia di mercato e della necessità di privatizza-zioni è il leit motiv di tutti i principali organismi internazionali. Ma il ritardocon cui i kosovari sono giunti al processo di trasformazione permette lorouna migliore lettura di quanto successo in altri paesi dell’Europa centrale eorientale. Ciò li spinge a reclamare una partecipazione attiva nelle privatiz-zazioni. Nell’area circostante, già il governo macedone aveva provato a resi-stere al processo di privatizzazione delle sue industrie del tessile e dell’a-groalimentare. Solo dopo la guerra del 1999, con l’espansione nel suo terri-torio della guerriglia albanese, ha acconsentito a drastiche riduzioni nei ser-vizi pubblici e alla chiusura di alcune aziende statali. In quello che rimanedella ex Iugoslavia, oltre al cambiamento dei leader politici, la ristrutturazio-ne forse più evidente verso un’economia di mercato è legata all’introduzionedella nuova legge sul lavoro, varata nel dicembre del 2001, che sancisce la fi-ne dell’autogestione e riduce la contrattazione collettiva e il potere del sin-dacato. Inoltre, la nuova legislazione prevede il lavoro a tempo determinatoe intermittente, la possibilità di accordi territoriali, ma esclude un salario mi-nimo di base.9

Uno dei nodi centrali nella questione kosovara è la protezione dei dirittidi proprietà e l’approvazione di una legislazione all’altezza della nuova si-

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5 Tale attività si rivolge principalmente a quello che rimane della Federazione dell’ ex Iugoslavia dovela privatizzazione è sostanzialmente “decollata” nel dopo-Milosevic. Nel 2002 gli investimenti stranierihanno raggiunto i 400 milioni di dollari, mentre le aspettative per il 2003 sono di 500 milioni di dollari:Serbia, Italia partner per le privatizzazioni, in “Il Sole 24 Ore-Mondo&Mercati”, 18 ottobre 2001, p. VIII;Privatizzazioni in Serbia: aspettative e piani per il 2003, in “Balcani Economia”, 8, 24 dicembre 2002, p. 13.

6 F. Degrassi, Le imprese alla sfida Balcani, cit.7 Dall’estate del 2000 nel comitato direttivo dell’Icg siedono Wesley Clark, già comandante delle ope-

razioni Nato in Europa, Louis Arbour ex procuratore alla Corte internazionale per i crimini della ex Iugo-slavia, Zbigniew Brzezinski, già consigliere del presidente Usa in tema di sicurezza, ed Emma Bonino, e-sponente del Partito radicale italiano.

8 Icg (International Crisis Group), Balkans Report No. 123, Pristina-Brussels 19 dicembre 2001, p. II.9 Icftu, Serbia: Annual Survey of Violations of Trade Union Rights, London 2001.

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tuazione. L’appropriazione da parte di Unmik del diritto di amministraretutte le proprietà mobili e immobili della Federazione iugoslava, della Re-pubblica di Serbia e dei loro organi che si trovavano sul territorio del Koso-vo non sembra avere contribuito a una rapida soluzione delle controversie.L’assenza di un catasto aggiornato, la distruzione o l’asportazione da partedelle truppe serbe dei documenti e il caos seguito alla guerra provocanocontinui ricorsi alla Commissione sui diritti di proprietà istituita dalle forzeinternazionali (Housing and Property Claims Commission, Hpcc).10 Nel pe-riodo postbellico si è inoltre diffusa la costruzione illegale di abitazioni,spesso su terreni altrui e senza alcuna autorizzazione. Infine, gli attacchi alleproprietà delle minoranze consolida un clima di violenza e intimidazione,tanto che è stata vietata per decreto la compravendita dei beni immobili fraalbanesi e serbi.

La questione principale è forse il kombinat minerario di Trepca, il piùgrande complesso industriale della Iugoslavia – e uno dei maggiori d’Europa–, già sulla lista delle aziende da privatizzare stilata dal governo di Belgradoprima del conflitto kosovaro. Esso comprende una quarantina di miniere estabilimenti di cui fanno parte Stari Trg e la fonderia di Zvecan situata a norddi Mitrovica e gestita fino all’agosto del 2000 dai serbi. I bombardamenti Na-to, rivolti prevalentemente verso obiettivi industriali di Serbia e Voivodjna,hanno risparmiato l’industria kosovara, compreso il kombinat di Trepca chenon ha subìto particolari danni strutturali. A impedirne il ripristino sono lamancanza di manutenzione, i bassi salari offerti che rendono scarsamenteappetibili i posti di lavoro e la questione della proprietà. Tra gli stessi albane-si la divisione è palese: un gruppo rappresentato dall’ex direttore kosovaroalbanese legato a Ibrahim Rugova ritiene che il complesso debba essere con-segnato ai lavoratori espulsi dai serbi negli anni Ottanta in base a un’idea diproprietà sociale, mentre l’altro, guidato dal leader dell’ex Uck Hasim Tha-qi, sostiene invece che Trepca sia proprietà dello stato del Kosovo.11 Di benaltro avviso sono i consulenti occidentali che ne prevedono la privatizzazio-ne. Sulla definizione degli assetti proprietari lo scontro è violento e interessa,oltre a Unmik, anche le principali organizzazioni internazionali, gli stati pre-senti militarmente nell’area, le comunità e quel che rimane della Federazioneiugoslava.12

Il trapianto delle forme di democrazia occidentale in Kosovo comprendequindi anche le norme che regolano i rapporti di produzione. L’ideologia u-

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10 Alla fine del luglio 2002 vi erano quasi 20.000 ricorsi presentati, di cui il 95% rivendicavano pro-prietà perse durante il conflitto del 1999: Osce, The Osce and Residential Property Rights, Prishtina, 22 di-cembre 2002.

11 In Kosovo vi sarebbero anche alcune riserve petrolifere, situate ironicamente proprio dove le trup-pe statunitensi si sono installate. Le risorse minerarie presenti sono bauxite, bismuto, cadmio, cromo, li-gnite, manganese, nichel, piombo, zinco, argento e oro (L. Bozzo, C. Simon-Belli, La “questione illirica”,Franco Angeli, Milano 1997). Nel kombinat si producevano accumulatori, batterie, prodotti chimici, co-lori, munizioni, refrigeratori, parti meccaniche e gioielli.

12 In alcuni casi le divisioni sono palesi. I rappresentanti dell’Onu (Unmik), per esempio, sono favore-voli alla ristrutturazione delle aziende pubbliche, mentre la Banca mondiale e il Fondo monetario interna-zionale propugnano il sostegno al settore privato e agli investimenti esteri.

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manitaria, dopo avere coperto l’intervento armato e gestito il processo di pa-cificazione, anima anche la missione civilizzatrice volta alla costruzione dellademocrazia. L’incerta sovranità del Kosovo rappresenta forse uno degli e-sempi a livello mondiale in cui “la sovranità è concessa ai governanti a pattoche trattino bene i governati”.13 Ma la sovranità limitata e a tempo determi-nato produce una società deferente e uno spazio istituzionale incerto che èmotivo di contrattazioni quotidiane sul campo.

La riconversione postbellica come esperimento umanitario

Nel periodo postbellico, con uno dei suoi primi provvedimenti, l’Onu assi-curava il pagamento dei salari in modo da permettere – come nelle miglioristrategie keynesiane – il riavviarsi della catena produttiva e del consumo.Nell’ambito di tale progetto si instaurano regimi lavorativi e salariali diffe-renziati, soprattutto in considerazione del fatto che l’Unmik e le organizza-zioni internazionali presenti costituiranno, almeno per i primi anni, i princi-pali datori di lavoro. Nell’immediato dopoguerra occorreva fare fronte allasecca diminuzione del reddito a disposizione delle famiglie, passato da 494a 298 marchi nell’arco dei sei mesi. Il processo di desalarizzazione costringecosì tutti i kosovari a fare affidamento sulle rimesse e, in subordine, sugliaiuti umanitari. Anche la dissipazione del patrimonio provocata dal conflit-to è stata consistente: dopo la guerra solo un quinto delle famiglie potevaancora contare su televisione e computer, poco più di un quarto su lavatri-ce, frigorifero e cucina. Se nel periodo prebellico il valore dei beni domesti-ci durevoli era pari a una media di 46.500 marchi per famiglia, la distruzio-ne e i furti da parte dei paramilitari hanno ridotto tale valore a 7800.14

L’esigenza di garantire un livello di vita adeguato e le necessità dellacomplessa macchina dell’Onu e delle organizzazioni militari-umanitarieportarono ad aumentare il numero di assunti, anche se con contratti precari.L’opera di reclutamento del personale “statale”, come di quello operanteper le Ong, non è stata priva di ambiguità. Una parte dei kosovari albanesiritornarono invece volontariamente ai posti di lavoro che occupavano neldecennio precedente, espellendo di fatto le altre minoranze; un atteggia-mento, questo, reso sovente inutile dato il ridimensionamento complessivodel settore pubblico.

Nei primi quattro anni di vita del protettorato, i principali datori di lavo-ro sono stati senza dubbio gli “internazionali”, mentre l’economia kosovararimane fortemente sovvenzionata e il magro bilancio si basava nel 2001 perl’85% sui dazi doganali.15 Oltre all’Unmik, altre organizzazioni – compresecirca 300 Ong – si sono avvalse di personale locale in qualità di assistenti, in-terpreti, segretarie, autisti, portinai. Un’altra occasione di occupazione è sta-

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13 D. Rieff, Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario, Carocci, Roma 2003.14 Riinvest, Post-War Reconstruction of Kosova, Riinvest, Prishtina 2001, pp. 168-169.15 Onu, Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Ko-

sovo, Pristina 15 gennaio 2002, p. 10.

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ta offerta dai programmi di ricostruzione condotti da organizzazioni qualiUndp, Unicef, Unifem, Iom o dalla Kfor.16 Si tratta quasi sempre di contrattidi lavoro a tempo determinato, anche se, vista l’inesistenza di norme contro illicenziamento, si sarebbero potuti stilare anche con clausole che contempla-no il tempo indeterminato.

Le organizzazioni statali e non statali17 fungono da principali datori di la-voro provvedendo a garantire un’occupazione diretta o indiretta a una parteconsistente della manodopera locale. Si tratta in alcuni casi di una posizionelavorativa privilegiata dal punto di vista monetario, e tale da fornire ulteriorioccasioni di guadagno. Ancora alla fine del 2002, secondo alcune stime, visono in Kosovo circa 30.000 militari, oltre a 11.000 cooperanti internazionalinello staff di Unmik, cui devono essere aggiunti 5-10.000 espatriati che lavo-rano nelle organizzazioni e agenzie non statali.18 Pur essendo in via di dimi-nuzione, tali presenze esercitano un’influenza rilevante sull’economia e sullasocietà kosovara, favorendo un doppio sistema di prezzi e una conseguentespinta inflazionistica. Mentre una parte dei salari del personale internaziona-le non tocca il territorio kosovaro, essendo immediatamente depositato nellebanche dei paesi di origine, un’altra parte ha incentivato lo sviluppo dei ser-vizi locali specie per il consumo immediato.

I livelli salariali per i lavoratori locali stabiliti da Unmik subito dopo ilsuo insediamento si sono modificati rapidamente mostrando come la lorofissazione sia frutto anche di convenienze politiche. Il salario è un indicatoredei rapporti di forza politici non sempre strettamente connesso con i valori e-conomici prodotti. D’altra parte, i fondi per i salari dei dipendenti pubbliciprovengono, direttamente o indirettamente, dai bilanci statali dei paesi chefanno parte dell’Onu.

Per i kosovari, la scala salariale è al momento favorevole a quanti sonooccupati direttamente dall’Onu, pagati dai 500 fino anche ai 1500 euro almese, seguiti dai dipendenti delle Ong, dai 300 fino ai 1000 euro al mese. Idipendenti delle amministrazioni locali – pagati dal bilancio del Kosovo –quali insegnanti, giudici e poliziotti devono invece accontentarsi di salari piùleggeri; un aspetto questo che ha indotto molti docenti ad abbandonare ilsettore per “lavorare come autisti o interpreti con gli organismi internaziona-

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16 Undp, Unicef, Unifem sono agenzie dell’Onu; la prima interviene per aiuti a favore dello sviluppoumano, l’Unicef si dedica degli aiuti per l’infanzia, l’Unifem promuove e sostiene l’assistenza per la parte-cipazione economica e politica delle donne. L’Iom viene creata nel 1989 e prende il posto dell’Icm (già I-cem), un’organizzazione indipendente sorta agli inizi degli anni Cinquanta su iniziativa statunitense pergestire i rifugiati politici dell’ex blocco sovietico. La Kfor, la forza militare internazionale presente dal do-poguerra, occupava, ad esempio, più di 9000 persone nella primavera del 2000; l’Undp nell’ambito delprogramma Verp (Village Employment and Rehabilitation Program) dava lavoro a più di 11 mila persone:L. Héthy, Employment and Workers’ Protection in Kosovo, Ilo, Géneva 2001, p. 3.

17 Adotto qui il termine “statale”, piuttosto che il più consueto “governativo” poiché la “non govern-ment organization” in anglo-americano si riferisce allo stato federale: M. D’Eramo, Mercato della sfiga esanti laici, in “il manifesto”, 1° luglio 2003, p. 18.

18 Per questi dati, si veda Imf (International Monetary Fund), Kosovo. Institutions and Policies for Re-construction and Growth, Imf, Washington 2002, p. 7; secondo Trofimov (Kosovo Shows Difficulty in Re-building a Nation After Casualties of War, cit.) vi sarebbero 30 mila soldati Nato, 6330 cooperanti interna-zionali che lavorano nello staff dell’Onu e 4440 poliziotti dell’Onu, popolarmente chiamati Coca-Colaper la loro divisa bianca e rossa.

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li”.19 A un gradino ancora inferiore, si trovano i lavoratori dell’industria edelle costruzioni.20

Il Kosovo si sta quindi costituendo come un sistema fortemente stratifi-cato la cui principale differenza – tra esterni e locali – rimanda alla divisionedel lavoro a livello mondiale e al movimento migratorio: per certi aspetti citroviamo qui di fronte a una scala rovesciata in cui agli “stranieri” sono ga-rantite migliori condizioni di vita e salari superiori. Tuttavia, anche in questocaso, come nei paesi occidentali, è fornita la possibilità per la manodopera digodere di una certa mobilità interna ed esterna al paese di residenza che ga-rantisce livelli salariali e condizioni di lavoro migliori, nonché la possibilità difare carriera nel sistema di eccezionalità temporanea. Le pressioni dei koso-vari albanesi sono dirette a conquistarsi il diritto alla visibilità e alla residenzain uno spazio sociale limitrofo a quello europeo e nordamericano che vienequi messo in scena dagli “internazionali”. Per le minoranze si tratta invece diun lungo momento di attesa, quasi un purgatorio, di cui però si fatica a vede-re la conclusione.

Nonostante le evidenti disparità, dalla fine della guerra del 1999 al di-cembre 2002 si stima che in Kosovo siano stati riversati 2,29 miliardi di eurodi aiuti internazionali.21 Le rimesse dei migranti, pur in calo, rimangono fon-damentali costituendo circa 600 milioni di euro, cioè poco meno del 40%del prodotto nazionale.22 Nel 2000 sarebbero stati 200.000 i migranti kosova-ri che hanno inviato denaro a casa, con una media di 3000 euro a testa.23 Maper molti kosovari la linea che separa la miseria più profonda dalla “norma-le” povertà generale è molto tenue e le probabilità di scivolare in basso per-mangono elevate.

La vastità dell’intervento internazionale induce la popolazione locale adadattarsi alle nuove opportunità, modificando i comportamenti e le abitudi-ni. In particolare, il flusso di denaro giunto in Kosovo rende palese la vacuitàdell’ideologia meritocratica e altera “i valori sociali che promuovono le re-sponsabilità comuni”.24 Con la promessa di guadagnare fino a dieci volte piùdel salario dei propri genitori, i giovani capaci di parlare l’inglese hannospesso abbandonato gli studi, accettando occupazioni a termine e di breveperiodo per conto delle agenzie internazionali. Ma tali impieghi nelle areemeno prospere possono giungere a dilaniare le “comunità” preesistenti:

La presenza degli internazionali ha in qualche modo modificato le dinamiche fami-liari: nel momento in cui una ragazzina di 17 anni ti porta – era un lavoro part-time –

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19 G. Arcadu, B. Carrai, Il sistema sanitario, in F. Strazzari, L.R. Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai (acura di), La pace intrattabile, Asterios, Trieste 2000, p. 76.

20 L. Héthy, Employment and Workers’ Protection in Kosovo, cit.; Icg (International Crisis Group),Balkans Report No. 123, cit.

21 Y. Trofimov, Kosovo Shows Difficulty in Rebuilding a Nation After Casualties of War, cit.22 Imf (International Monetary Fund), Kosovo. Macroecnomic Issues and Fiscal Sustainability, Imf,

Washington Dc 2001; Riinvest, Post-War Reconstruction of Kosova, cit.23 Imf (International Monetary Fund), Kosovo. Institutions and Policies for Reconstruction and

Growth, cit., p. 24.24 J. Mertus, The Impact of Intervention on Local Human Rights Culture: A Kosovo Case Study, in “The

Global Review of Ethnopolitics”, 1, 2, 2001, p. 32.

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650 marchi al mese, laddove il fratello maggiore con il lavoro porta 200 marchi, in-somma... e i genitori non portavano niente a casa... Per cui in qualche modo questosicuramente influisce nelle dinamiche... Questo a livello familiare. A livello di comu-nità, cosa s’era creato? Invidia di altre famiglie. Il fatto che c’erano alcuni ragazzi chelavoravano per l’agenzia internazionale come traduttori... queste persone venivanoprese un po’ di mira, insomma. Non erano ben viste, sentivi del malcontento... In unpaese dove prima tutti lavoravano – erano impiegati nella fabbrica – non lavoravapiù nessuno, perché nessuno dei serbi lavorava più... l’internazionale arriva, scegliealcuni come mediatori, e altri però rimangono esclusi, in una situazione dove nessu-no lavora, e chiaramente fai di tutto per accaparrarti quello che c’è. (Intervista in Ita-lia a R. S., operatrice umanitaria italiana, marzo 2002)

La principale capacità lavorativa richiesta ai locali per operare per conto delleorganizzazioni internazionali è la conoscenza più o meno passabile dell’ingle-se, una certa destrezza nel reperire informazioni e risolvere i problemi quoti-diani e una comune abilità nelle mediazioni. Ma i kosovari-albanesi godonodi un vantaggio incommensurabile rispetto a quanti sono riconosciuti comeminoranze, poiché in quest’area per la prima volta “l’internazionale umanita-ria si era, a tutti gli effetti, completamente identificata con una sola delle partiin lotta”, quella albanese.25 Nella ristrutturazione in corso della società, i saltinei processi di mobilità sociale possono essere rapidi, anche per la percezionedi un ventaglio di chance superiore a quello reale; così anche chi magari erasolo un semplice manovale si è improvvisato capomastro.

Il processo di desalarizzazione è continuato con forza anche negli annisuccessivi al conflitto, trasformando i salariati in percettori di sperequati red-diti diversi. Tale condizione è tipica di un protettorato che richiede la modifi-ca delle capacità professionali e la messa in mora delle qualifiche e delle co-noscenze precedenti a tutto vantaggio della classica arte dell’arrangiarsi. Co-sì un’altra entrata considerevole per gli albanesi e assai minore per i serbi ècostituita dall’affitto a cifre elevate di abitazioni e dal contrabbando.

Sebbene le differenze salariali esistessero anche nel periodo precedente,la forbice che si è determinata dopo il conflitto si è ampliata con le conse-guenti tensioni provocate dall’improvviso aumento del costo del vivere quo-tidiano. Le proteste incentrate sul salario sono state costanti durante la fasepostbellica, in particolare nel settore pubblico: sia nella sanità (134 euro) do-ve lavorano quasi 13.000 persone sia nell’istruzione (140 euro) con circa24.000 insegnanti e 6000 amministrativi permangono bassi livelli salariali.Alla fine di giugno 2002, la media salariale nel settore pubblico era compresatra i 131 e i 191 euro mensili.26

Tra i pochi dipendenti kosovari che percepiscono uno stipendio pari circaa quello di quanti lavorano con gli internazionali vi sono i bancari. Nel periodo

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25 D. Rieff, Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario, cit., p. 203.26 Riinvest, Undp, Usaid, Early Warning Report. Kosovo. Report # 1, (May-August), Riinvest, Pristina

2002, pp. 7-8. Per i dati relativi al numero di occupati, si veda Unmik, The New Kosovo Government 2002Budget, Prishtina 2002, p. 7; un’altra fonte riporta dati parzialmente diversi: nella sanità gli occupati sa-rebbero circa 13.500 persone, mentre i soli insegnanti raggiungerebbero le 20 mila unità: World Bank,Kosovo, Fr Yugoslavia, Medium-Term Public Expenditure Priorities, Reports n. 24880-Kos, Washington2002, pp. 59, 75.

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successivo alla guerra, le aperture di sportelli bancari sono state molte. Tutta-via il numero di banche è molto limitato e perlopiù concentrato a Pristina e inpoche altre città. Al momento vi sono sette banche e 15 istituzioni di microcre-dito che hanno ricevuto la licenza a operare in Kosovo.27 La scarsa fiducia po-polare sia nelle banche sia nelle transazioni commerciali costringe a un uso e-steso del contante che è l’unico mezzo di pagamento agevolmente accettato.

Escludendo la macchina Unmik e le organizzazioni internazionali, il prin-cipale datore di lavoro privato è probabilmente la Kellogg Brown & Root,un’azienda statunitense che provvede a tutti i servizi per la base statunitensedi Camp Bondsteel. Oltre ai 5000 dipendenti che prestano servizio alla base,altri quindicimila risultano nei libri paga dell’azienda che ha selezionato per-sonale esclusivamente di origine albanese. Il salario è compreso tra l’uno e itre dollari l’ora poiché, come ha spiegato sarcasticamente il manager dei lavo-ratori locali, una retribuzione più elevata provocherebbe “inflazione”.28 LaKellogg Brown & Root, a cui sono andati i primi dollari stanziati dal governostatunitense dopo la seconda spedizione nel Golfo, insieme ad altre aziendegestisce l’immane impianto logistico nelle aree di conflitto dal Kosovo all’I-raq, garantendo il supporto necessario per i soldati al “fronte”.29

Pur con i suoi bassi salari, il settore pubblico rimane ancora centrale, no-nostante sia già stata creata un’agenzia per le privatizzazioni. Le principali a-ziende pubbliche oltre alla Trepca sono l’Azienda elettrica del Kosovo (Kek),la compagnia di poste e telecomunicazioni (la sola in attivo nel 2001 grazie alsuo monopolio), l’aeroporto di Pristina, le ferrovie e alcune aziende idriche,dei rifiuti e del gas.

L’espansione del settore privato è stata rapida e focalizzata nel terziariotradizionale (pulizie, commercio, costruzioni) o di più recente attivazione (a-genzie immobiliari, assicurative, trasporto). Alla fine del 2002 sarebbero atti-ve oltre 54.000 imprese (+25% rispetto al 2001), con una media di addetti inprogressiva riduzione: 4,4% nel 2000, 3,9 nel 2001, 3,4 nel 2002.30 Ma se lamacchina militare-umanitaria è l’occupazione del presente, una delle più im-

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27 Imf (International Monetary Fund), Kosovo. Institutions and Policies for Reconstruction andGrowth, cit.

28 P. Stuart, Camp Bondsteel and America’s Plans to Control Caspian Oil, 29 aprile 2002,http://www.wsws.org/articles/2002/apr2002/oil-a29.shtml.

29 La Kellogg Brown & Root è salita alla ribalta per la prima volta nel 1992, quando Dick Cheney, l’al-lora segretario alla Difesa dell’amministrazione Bush senior, assegnò alla società il suo primo contratto perla fornitura dei servizi all’esercito americano nelle sue operazioni globali. Cheney lasciò poi la politica perentrare nella Halliburton (che controlla la Kellogg Brown & Rooot) come direttore generale nel periododal 1995 al 2000. La Kellogg Brown & Root ha ottenuto appalti per l’esercito statunitense in Somalia e adHaiti. Nel 1999 ha concluso un contratto della durata di 5 anni, del valore di 180 milioni di dollari all’an-no, per la costruzione di strutture militari in Ungheria, Croazia e Bosnia. In Kosovo essa rifornisce la basedi 600.000 galloni d’acqua al giorno e corrente elettrica, lava 1200 sacchi di panni sporchi al giorno, forni-sce 18.000 pasti, controlla il 95% delle attrezzature ferroviarie e aeroportuali della base: P. Stuart, CampBondsteel and America’s Plans to Control Caspian Oil, 29 aprile 2002, http://www.wsws.org/arti-cles/2002/apr2002/oil-a29.shtml. 2002; M. D’Eramo, Deregulation a mano armata, in “il manifesto”, 21gennaio 2003, p. 20.

30 Unmik, The New Kosovo Government 2002 Budget, Prishtina 2002; Statistical Office of Kosovo,Business Directory, Europrint, Prishtina 2001; Id., Statistical Overview of Registered Businesses till Decem-ber 31.2002, Prishtina 2003.

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portanti risorse economiche del futuro prossimo in Kosovo sarà senza dub-bio la Trepca su cui, come abbiamo visto, stanno concentrandosi gli appetitidelle principali imprese internazionali. Nei libri-paga della Trepca vi sonoancora 4000 persone, per la maggior parte in attesa di capire il proprio desti-no e il futuro del complesso minerario. I costi per la rimessa in opera delleminiere sono stimati, probabilmente per difetto, in 50 milioni di euro.31 For-se proprio in quell’azienda avverranno le prime importanti verifiche dellanuova regolamentazione del lavoro.

La polivalenza lavorativa e l’opacità del sistema di occupazione

La scarsa formalizzazione di occupazione e disoccupazione coniugata conuna carente regolazione delle attività rende ostico delineare con precisione itratti generali della situazione lavorativa odierna della popolazione kosovara.Il sistema di occupazione è vischioso e l’area grigia assorbe quote enormidell’economia, dal sommerso al nero, ma anche il lavoro dipendente occa-sionale e stabile non sempre è registrato. D’altra parte, la struttura degli aiutiin Kosovo ha incoraggiato un atteggiamento passivo e scarsamente solidari-stico nella popolazione che si affida alle strutture delle Ong anche quandonon è strettamente necessario.32 A questo si aggiungono condizioni lavorati-ve e salariali poco allettanti nelle imprese private per cui si preferisce spessorimanere a casa e ricorrere alle Ong. Si tratta di comportamenti facilmenteetichettabili come opportunistici, ma che celano una risposta a sistemi im-personali verso i quali la popolazione locale non avverte obblighi morali.

La definizione della popolazione attiva è resa difficile sia dalla ristruttura-zione generale delle istituzioni sia dalla lenta ricostruzione dell’Ufficio di sta-tistica: le stime più attendibili sembrano comunque attestarne il livello tra il55 e il 65 per cento.33 La proliferazione della situazione di disoccupazione – il49% nel novembre del 2002 – è connessa tra l’altro alla contemporanea pre-disposizione di schemi legislativi che garantiscono una qualche forma di assi-stenza sociale per alleviare i disagi e favorire l’attivazione individuale. Dopo laprima ondata di iscrizione ai registri contabili, il numero di disoccupati sem-bra essersi stabilizzato: nel marzo del 2003 il numero di disoccupati era pari aquasi 270.000 persone con una crescita prevista di circa 25.000 all’anno. Ladisoccupazione formale si caratterizza per essere di lunga durata – cioè supe-riore all’anno – e coinvolge prevalentemente i giovani, le donne, quanti di-spongono di uno scarso livello di qualificazione formale e coloro che risiedo-no in aree rurali. La formalizzazione dello stato di disoccupazione provocauna crescita del malcontento e della sfiducia nelle istituzioni kosovare.

Uno studio del Centro per i servizi occupazionali in Kosovo descrivequesto fenomeno come un mercato in cui vi è un continuum che va dalla to-

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31 Imf (International Monetary Fund), Kosovo. Institutions and Policies for Reconstruction andGrowth, cit., p. 11.

32 J. Mertus, The Impact of Intervention on Local Human Rights Culture: A Kosovo Case Study, cit., p. 31.33 A. Simonyi, The Role of Social Security in an Employment Strategy for Kosovo, Ilo, Géneva 2001, p. 9.

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nalità grigia costituita dal lavoro famigliare a una parte più chiara caratteriz-zata da un limitato settore privato formale e dal settore pubblico. La gammadei possibili livelli di partecipazione al lavoro è amplia: dalle attività occasio-nali e marginali al doppio lavoro, fino a forme più o meno regolari di presta-zioni per lo stato o per le organizzazioni internazionali. Un numero elevato dipersone è impegnato nella caotica attività edile, soprattutto nelle città, dovela proliferazione dei cantieri è ben superiore ai compiti della ricostruzione.34

La presenza degli “internazionali” ha infatti messo le ali ai prezzi degli im-mobili e della terra, favorendo lo sviluppo del settore.35

La febbrile attività che ha coinvolto il Kosovo nel periodo postbellicorende però difficilmente reperibile personale qualificato quali elettricisti, i-draulici, falegnami, mentre sono esplose le attività informali, già presenti nelperiodo prebellico a causa del “sistema parallelo”;36 qui l’orario è di 8-10 oreper un guadagno giornaliero intorno ai 5-10 euro.37 Secondo alcune stime,nel 2001 vi erano circa 550.000 persone che disponevano di un lavoro. Diqueste quasi un terzo operava in imprese private, il 15-6% nell’agricoltura, il13-4% nei servizi pubblici, poco meno del 10% nelle imprese in “proprietàsociale” e altrettanti nel mercato informale, mentre i rimanenti erano anno-verati nelle attività legate alla diaspora e alle organizzazioni umanitarie.38 Neldopoguerra, in una fase in cui la formalizzazione delle attività produttive ecommerciali procede con una certa precarietà, la manodopera spesso prefe-risce cogliere le occasioni che le vengono offerte senza particolare attenzioneal futuro.

Per quanto riguarda le fabbriche serbe e montenegrine, l’occupazione èdiminuita a causa delle possenti ristrutturazioni e di una temporanea ricon-versione. Come nella vicina Romania colpita da una profonda crisi economi-ca,39 anche nella ex-Iugoslavia postbellica si è innescato un rapido processodi migrazione interna che spinge gli abitanti delle città verso le campagne,poiché nelle prime le difficoltà economiche si percepiscono con più inten-sità. Nella Vojvodina, per esempio, la popolazione agricola è aumentata dal4% del 1992 a quasi il 10% nel 1999, con una modifica nella stessa strutturadel prodotto sociale medio, dato che l’incidenza della produzione agricolasul Pil iugoslavo è in crescita.40

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34 La sola Unione europea, ad esempio, ha finanziato la costruzione di 120.000 nuove case. 35 Un appartamento di 50 mq costa almeno 45 mila euro, un prezzo inaccessibile per molti kosovari

dato che lo stipendio medio si aggira sui 200 euro mensili.36 A seguito dell’abolizione dell’autonomia del Kosovo nel 1990, i kosovari albanesi organizzarono

una sorta di governo ombra che contribuirà a istituire in modo autonomo alcune attività, come per esem-pio l’istruzione, finanziandole grazie ai contributi provenienti prevalentemente dalla diaspora.

37 Unmik-Department of Labour and Employment, Information on the Situation of Persons that Operateand Work in the “Black” Labour Market, Central Service for Employment, Prishtina luglio 2001, pp. 2-3.

38 Il rapporto Undp che riporta i dati tratti da stime della Riinvest non definisce gli “employed in thediaspora” e non cita neppure il numero di persone occupate nelle organizzazioni internazionali: UndpUndp, Human Development Report. Kosovo 2002, Prishtina 2002, p. 69; per dati parzialmente diversi ve-di Unmik, The New Kosovo Government 2002 Budget, Prishtina 2002, pp. 6, 34.

39 D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, ombre corte, Verona2004.

40 B. Deric, Regional Development Prospects In South-East Europe Yugoslav Case Challenge, Paper

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In Kosovo si è invece assistito a un processo violento di urbanizzazione:la stessa Pristina che prima della guerra aveva poco più di 200.000 abitanti,nel 2003 è probabilmente vicina a una popolazione di mezzo milione dipersone. Tra i kosovari albanesi è diffusa la sensazione che nelle città le ri-sorse occupazionali, pur precarie, siano ben più consistenti rispetto al pe-riodo precedente, anche se le persone oltre i 45 anni faticano a reperire unlavoro salariato. Occorre sapere cogliere le “opportunità” nel momento incui si manifestano, senza tralasciare nessuna rete comunicativa e relaziona-le che possa valorizzare ulteriormente le capacità, vere o presunte, di cui sidispone.

In tale processo sembra essersi inserita prepotentemente l’ultima genera-zione di donne, impegnata in una forte attività sia lavorativa sia formativa. Legiovani donne escono più frequentemente di prima dalla famiglia, assimilan-do i modelli di vita occidentali, anche se la segregazione lavorativa non sem-bra venire meno.41 L’evento bellico e il periodo successivo hanno contribuitoal processo di emancipazione delle donne kosovaro-albanesi, solitamente se-gregate all’interno di reti familiari fortemente patriarcali. Si manifesta cosìuna evidente rottura delle forme tradizionali, di cui il boicottaggio del trasfe-rimento nella casa dei genitori del marito è il segnale più evidente.

Le donne che svolgono un lavoro esterno alla famiglia sono poco più diun quarto e le loro chance di reperire un’occupazione sono connesse stretta-mente al luogo di abitazione: se nelle aree urbane quasi una su due é disponi-bile al lavoro salariato, tale proporzione scende a una su sei nelle aree rura-li.42 I settori economici in cui le donne sono occupate risultano l’istruzione, lasanità e le organizzazioni internazionali, mentre il settore privato offre lorominori opportunità.43 L’attiva, seppure ancora incerta, partecipazione fem-minile è legata a vari fattori, non ultimo la presenza degli internazionali, oltreche all’ambivalente concetto di “libertà” e al coinvolgimento di donne ebambini nei progetti delle Ong. Le donne serbe, che con più frequenza di-sponevano di un lavoro salariato nel periodo precedente la guerra, sembranooggi rispondere alle difficili condizioni di vita nelle enclave con maggiore e-nergia, tenacia e fantasia rispetto ai maschi.

Per il momento quindi i/le kosovari/e albanesi possono contare su un si-stema occupazionale alquanto composito che permette, in particolare ai gio-vani delle aree urbane in possesso di capacità di rapido adeguamento, di con-tare su una qualche forma di reddito. Tuttavia, non è detto che nel medio pe-riodo, quando gli internazionali se ne andranno, non possano riprendere conpiù forza i movimenti migratori. Come ha sottolineato Musa Limani, diretto-re dell’Istituto economico di Pristina: “Ora tutti sono interessati a rimanere alavorare qui, ma se non saranno in grado di mantenere le loro famiglie se ne

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presented at the 1st International Conference, Restructuring Stability and Development in SoutheasternEurope, 1-3 giugno 2001, Volos (Greece), p. 7.

41 R. Surtees, Women at Work, Unifem e Dfid, Prishtina 2000.42 Statistical Office of Kosovo, Kosovo. Demographic, Socio-economic and Reproductive Health Survey,

Prishtina 2000; R. Surtees, Women at Work, cit. 43 Undp, Human Development Report. Kosovo 2002, cit.

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andranno, perché la migrazione è considerata come un atto di avanzamentoprofessionale e un’opportunità per una vita migliore”.44

È però nelle enclave e nei campi profughi, cioè nelle aree più o meno vi-gilate in cui vivono le minoranze e i rifugiati del Kosovo e di altre aree dellaex Iugoslavia, che i processi migratori di portata regionale e internazionalesono più consistenti. La segregazione nelle enclave implica la perdita delleproprie competenze e determina una secca svalutazione del proprio status. Ibassi tassi di attività tra le minoranze si spiegano sia con la loro involontariascarsa mobilità territoriale sia con l’impossibilità di reperire un’occupazionenel settore privato che è gestito esclusivamente dalla popolazione albanofo-na. Le minoranze languono così in un ozio forzato, lavorano i campi secondoi ritmi stagionali, partecipano alle scarse iniziative delle Ong che operano inloco. Come avviene anche per i fenomeni economici, nei momenti di preca-rietà il sentimento prevalente è l’attesa, perché non si investe di fronte a unfuturo incerto e le minoranze, in particolare i giovani, percepiscono unachiusura definitiva degli spazi di agibilità. Si ricorre così all’economia infor-male: dall’apertura di chioschi, bar e ristoranti alla vendita di sigarette e di al-tri articoli, compresi i biglietti dell’inossidabile lotteria.

La mobilità non costretta permette solitamente la scelta del padrone, manel caso di quanti vivono recintati non vi è neppure la possibilità di trovareun padrone qualsiasi, come raccontano questi kosovari:

Nessuno di noi lavora più, nessuno dei serbi lavora più. Prima lavoravo in Comuneprendevo 50 marchi, adesso non faccio niente. Mi piacerebbe lavorare dove lavora-vo prima oppure qualsiasi cosa, é da sei mesi che non prendo soldi invece mio maritoè da due mesi che non prende soldi. Lui insegnava in una scuola guida a Pristina; a-desso lavorerebbe in qualsiasi cosa. (Intervista in Kosovo a G. M., kosovara ashka-lija, 5 giugno 2001)

Adesso non lavoriamo più [in fabbrica], ma abbiamo la terra, i figli lavorano uno èdottore, lavora per fare crescere le patate, la farina, l’olio... ha un orto recintato e so-lo lì possono lavorare, perché fuori è degli altri. (Intervista in Kosovo a B.C., kosova-ra serba, 5 giugno 2001)

La degradazione più acuta la si ritrova nei campi profughi dove la storia la-vorativa e le competenze professionali sono violentemente azzerate. La ge-stione dei campi – in cui sono presenti non solo rom precedentemente stan-ziali, ma anche gruppi di serbi – è affidata alle Ong, anche se la popolazio-ne locale considera l’aiuto umanitario come una tra le opzioni, preferendomantenere un certo controllo sulla propria vita.45 Il reperimento di un lavo-ro salariato è raro, legato ad amicizie e parentele; esso rappresenta, comun-que, il modo per uscire anche solo momentaneamente dalla routine soffo-cante dei campi e disporre di denaro contante. La richiesta di quanti sono

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44 M. Scott, Un dopoguerra sia di boom che di degrado per gli albanesi del Kosovo, in “Notizie Est”, 27ottobre 1999.

45 D. Sogge, Subalterns on the Aid Chain, in Id. (a cura di), Humanitarian Studies Unit. Reflections onHumanitarian Action, Pluto, London 2001, p. 130.

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presenti nei campi è quindi una sorta di ritornello: “La libertà, quando c’e-ra libertà potevo lavorare, la vita in campo non è interessante, non è Au-schwitz ma è come una prigione, ogni minuto che stiamo qua è negativo”(intervista in Kosovo a Z.G., kosovaro ashkalija, 6 giugno 2001).

La nuova organizzazione societaria è quindi fortemente stratificata sullabase innanzitutto dell’appartenenza “etnica”.46 Si tratta di un processo diviolenta coazione che esclude una parte della popolazione non solo dal lavo-ro salariato, ma anche dalla possibilità di svolgere altre attività economiche.

La produttività della paura di cadere

A quattro anni dalla fine della guerra, il Kosovo attraversa forse la sua pri-ma vera crisi economica a seguito della progressiva fuoriuscita dal paesedelle Ong, di un’incertezza negli assetti proprietari e della strutturazione diun sistema di occupazione che si vorrebbe simile a quello dei paesi occiden-tali. Si tratta di una diversa messa al lavoro di tutta l’area dell’Europa sud-orientale che però si scontra quotidianamente con le resistenze espresse dauna manodopera che aveva manifestato una discreta capacità di auto-orga-nizzazione nei luoghi di lavoro. La definizione del nuovo ordine passa cosìattraverso la frantumazione delle esperienze precedenti e la ricostruzione diuna nuova razionalizzazione più direttamente indirizzata alla creazione divalore. L’egualitarismo salariale e il blando controllo sui ritmi di lavoro di-ventano qualità immediatamente obsolete e inadatte al nuovo ordine pro-duttivo. Per quanti non vogliono sottostare alle nuove regole rimane la stra-da della migrazione o della costruzione autonoma di percorsi lavorativi: unaparte consistente del personale più qualificato abbandona il lavoro a causadei bassi salari, per lo più pagati irregolarmente, e si mette in proprio o e-migra all’estero.47 In particolare, Serbia, Montenegro e Vojvodina rappre-sentano oggi un serbatoio eccezionale di manodopera qualificata a bassi sa-lari la cui vicinanza territoriale ai principali mercati europei ne riduce ulte-riormente i costi.

Per quanto riguarda il Kosovo, il ritmo dei cambiamenti impresso da Un-mik deve confrontarsi non solo con i differenti gruppi politici degli albanofo-ni e delle minoranze istituzionalizzate, ma anche con un pronunciato indivi-dualismo manifestato da quella parte di popolazione – quasi esclusivamentealbanese – che intende mettere a frutto il particolare momento storico vissutoda quest’area. Il Kosovo, il “paese in rosso”,48 si regge su un’economia di turi-smo militare-umanitario caratterizzata da temporaneità e precarietà, ma in cuila possibilità di raggranellare cospicue somme di denaro può risultare elevata.

Come rileva Goffman, in situazioni tese e difficili “avviene una cele-brazione della autodeterminazione” e la fatidicità può trovare approva-

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46 D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, cit.47 B. Deric, Regional Development Prospects In South-East Europe Yugoslav Case Challenge, cit., p. 7.48 Il “paese in rosso” è un’espressione legata alle numerose case in costruzione che “colorano” il pae-

saggio di rosso.

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zione.49 La spinta all’individualismo e alla concorrenza minimizza la perce-zione del pericolo e spinge verso l’illusione di essere completamente arteficidel proprio destino. Si tratta di una forma di compensazione a fronte dellarealtà di un incerto avvenire agevolata in Kosovo dagli attuali protettori.D’altra parte, lo scambio quotidiano con la macchina militare-umanitaria egli atteggiamenti degli internazionali contribuiscono ad acclimatizzare com-portamenti più adeguati ai nuovi rapporti sociali. In effetti, la costruzionedel nuovo “stato” kosovaro ricorre pesantemente a narrazioni che fanno levasulla mascolinità e sulla capacità degli individui di mostrare coraggio e co-stanza nelle varie attività necessarie alla difficile impresa forse anche perché“in una società dinamica chi è passivo si trova nei guai”.50 L’attivismo implicaanche la cancellazione delle vecchie abitudini e l’emarginazione di quantinon concorrono – volontariamente o per esclusione – all’edificazione di que-sta nuova organizzazione sociale. Un giovane albanese, fortemente permeatoda questa ideologia, testimonia proprio tale approccio:

Intervistatore: che aziende ci sono oggi?Intervistato: posta e telecomunicazioni e hotel sono le migliori ‘aziende’, stanno fa-cendo bei soldi. Poi ci sono le organizzazioni umanitarie, ma sono sicuro che quandose ne andranno il Kosovo collasserà... perché ora danno impiego a 40.000 persone,quindi 40.000 famiglie, ovvero 500.000 persone circa, contano su quel lavoro, equando se ne saranno andate non ci sarà lavoro per nessuno.Intervistatore: pensi di sposarti?Intervistato: tra quattro anni, perché l’organizzazione per cui lavoro non ci sarà più eio non voglio vedere i miei figli aspettare per qualcosa che non posso dargli, come éstato per me, perché i miei genitori non potevano, non che non volessero, acconten-tarmi; perciò prima voglio sistemarmi economicamente. (Intervista in Kosovo ad A.D., kosovaro albanese, 4 giugno 2001)

Questa tendenza al movimento, alla partecipazione attiva e alla costruzionedella propria esistenza si scontra però con la mancanza reale di opportunitàlavorative formali. In genere, la quotidianità nelle aree urbane è scandita daun forte movimento, una febbre dell’azione diffusa in particolari tra i giova-ni maschi che sembrano perennemente occupati in qualche “business”.Grazie a questo attivismo migliaia di abitazioni sono state costruite e picco-le imprese commerciali avviate. La popolazione, che precedentemente vive-va grazie alle aziende statali, oggi sopravvive con piccoli lavori casuali. Ilfervore di Pristina, “la città vetrina”, non è però diffuso in tutto il Kosovo enon coinvolge neppure tutte le aree “albanesi”. Come abbiamo visto prece-dentemente, nelle zone in cui sono presenti le minoranze le attività formaliscarseggiano è piuttosto l’inerzia la principale compagna della quotidianità,data la mancanza di attività e il sentimento di sconfitta.

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49 E. Goffman, Il rituale dell’interazione, il Mulino, Bologna 1988, pp. 211-246. Mi discosto parzialmen-te da quanto sostiene Goffman, secondo il quale le basi di un carattere forte sono il coraggio, la capacità distare al gioco, l’integrità e la compostezza (ivi, p. 262). In Kosovo accanto al coraggio e alla capacità di stareal gioco, le caratteristiche principali richieste sono altre quali il sapersela cavare nelle diverse situazioni e ilcogliere le opportunità nel momento in cui si presentano.

50 R. Sennett, L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 1999, p. 87.

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L’apertura al libero mercato prescrive relazioni lavorative e sociali im-prontate a un certo laissez faire nel cui spazio la regolazione dei rapporti dilavoro è scarsa o inesistente. La protezione legale e i diritti sindacali sonoquindi fortemente limitati e i rapporti di lavoro si strutturano sul livelloinformale, senza alcuna contrattazione collettiva. In mancanza di una capa-cità di contrattazione forte, le difese messe in atto sul posto di lavoro sono li-mitate e spesso coincidono con una gestione individuale che consiste quasisempre nell’autolicenziamento. Il trascorrere del tempo, la povertà, oltre allacultura della diaspora, giocano a favore del dinamismo del “privato è bello”,così diffuso anche nell’Occidente più industrializzato.

Le agevolazioni per la strutturazione di un sistema di imprese miniaturiz-zate non mancano, grazie a un sistema di tassazione sul fatturato poco incisivoe ancora basato sull’incertezza contributiva. Solamente nel 2002 è stata intro-dotta un’imposta sui salari e profitti,51 mentre nei primi mesi del 2003 è statavarata una tassazione più capillare su tutti i redditi superiori ai 600 euro, se-condo un sistema progressivo che per il momento non oltrepassa comunque il20% del reddito. Al momento, il completamento del sistema produttivo dellepiccole e medie imprese è sostenuto principalmente dalle organizzazioni u-manitarie internazionali che hanno sostituito di fatto le organizzazioni econo-miche, anche se queste ultime iniziano a compiere i primi passi.52

A differenza della legislazione sul commercio e l’industria, il progetto dilegge sul lavoro, nonostante le pressioni sindacali locali e internazionali – diStati uniti, Giappone, Unione europea – ha incontrato notevoli resistenze,mostrando come anche tra gli amministratori delle Nazioni unite la contrat-tazione collettiva sia considerato un lusso. Dopo un lungo travaglio, nell’ot-tobre del 2001 un regolamento di massima sul lavoro è stato varato da Un-mik.53 La preoccupazione generale sembra quella di inserire il Kosovo all’in-terno del quadro della legislazione europea e internazionale, assicurandogliperò alcune importanti peculiarità e la non ingerenza delle autorità pubbli-che nella contrattazione tra le parti.

Accanto al diritto di organizzazione sindacale si pone il divieto di ogni ti-po di discriminazione, un minimo salariale stabilito a livello “statale”, la pos-sibilità di concludere contratti collettivi di durata non superiore ai tre anni,infine accordi definiti su tre livelli (area territoriale, settore e impresa). Comegià nel caso della Federazione iugoslava, il periodo di maternità è limitato a12 settimane, la settimana lavorativa viene fissata in 40 ore, esclusi gli straor-dinari, ponendo al contempo 12 ore come limite massimo della giornata la-vorativa. Da tali limitazioni sono significativamente esenti gli assunti in qua-lità di dirigenti.54 È soprattutto nella discrezionalità di licenziamento che il

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51 Imf (International Monetary Fund), Kosovo. Institutions and Policies for Reconstruction andGrowth, cit., p. 15.

52 M. Sadiku, Priorities on Revitalization of the Economic and Exports Activities, in Riinvest (a cura di),Post-war Reconstruction of Kosova, Riinvest, Prishtina 2001, p. 67.

53 Unmik, “Regulation N. 2001/27 on Essential Labour Law in Kosovo”, 8 ottobre 2001.54 L’importanza delle miniere è in questo caso evidente, dato che per il settore minerario viene esplici-

tamente fissata una giornata lavorativa massima della durata di 8 ore; chi è occupato nei trasporti deve in-vece accontentarsi di un limite di 9 ore giornaliere.

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nuovo regolamento lascia margini di manovra al futuro padronato kosovaro:i contratti di lavoro infatti potranno terminare quando la condotta della ma-nodopera venga giudicata, dall’imprenditore, inappropriata o le prestazioniofferte risultino insoddisfacenti. Una convincente prova del significato dellanuova legislazione è stata fornita dalla stessa Unmik che, nel marzo del 2003,ha licenziato i macchinisti delle ferrovie che si rifiutavano di porre termine auno sciopero.55

Siamo quindi in presenza di una legislazione che contiene importanti ele-menti di discontinuità rispetto al passato. Significativamente, il primo artico-lo esclude dall’applicazione della nuova normativa le relazioni lavorative dicoloro che operano per Unmik, nelle forze militari della Kfor e nelle organiz-zazioni internazionali. La mancata subordinazione dei contratti di lavoro sti-pulati con le organizzazioni internazionali alla legislazione locale, secondoun sistema vigente anche nella vicina Macedonia,56 pone i “cooperanti” loca-li su un piano di sostanziale extraterritorialità.

Cooperanti: dalla proliferazione di gruppo allo spaesamento del singolo

La fine della Guerra fredda ha condotto a un incremento nel numero e nel-la complessità delle emergenze internazionali, finendo per aumentare e ren-dere maggiormente visibili le organizzazioni umanitarie che manifestano unpotere crescente nel suscitare dinamiche di mutamento nelle aree oggettodi intervento. Il ruolo delle organizzazioni umanitarie in relazione ai con-flitti armati è visibile a partire dagli incrementi dei bilanci delle principali a-genzie quali, per esempio, l’Acnur.

Dal punto di vista degli stanziamenti, gli “interventi umanitari” nella exIugoslavia sono stati senza precedenti, vista anche la necessità di “chiudere iconfini alla popolazione che scappava dal conflitto e di incoraggiare il conte-nimento dei profughi”.57 Ma è l’assistenza umanitaria come pratica di inter-vento nei teatri bellici a essere cresciuta complessivamente per tutti gli anniNovanta, attraendo un esercito di organizzazioni profit, non profit, militari ealtre agenzie di sicurezza.58 Nel 2002 in operazioni di peacekeeping eranoimpiegate circa 110.000 persone, un numero comunque risibile rispetto ai400.000 soldati dispiegati all’estero con compiti militari. Le sole Nazioni uni-te avrebbero speso circa 2,6 miliardi di dollari per operazioni di peace-kee-ping tra il luglio 2002 e il giugno 2003, mentre le spese militari mondiali nel2001 erano pari a ben 839 miliardi di dollari.59 Alle spese dell’Onu vanno ag-

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55 L’Unmik licenzia i ferrovieri in Kosovo, “Balcani Economia”, 17, 11 marzo 2003, p. 12.56 P. Dimitrov, Circa l’80% degli aiuti esteri torna al mittente, in “Notizie-Est Balcani”, 3 ottobre

2003.57 M. Barutciski, Guerra e migrazione forzata: la Jugoslavia, in M. Buttino (a cura di), In fuga. Guerre,

carestie e migrazioni nel mondo contemporaneo, L’ancora, Napoli 2001, pp. 202-204. 58 D. Sogge, Subalterns on the Aid Chain, cit., p. 124; M. Kaldor, Le nuove guerre, Carocci, Roma

2001, p. 148.59 M. Renner, Peacekeeping Expenditures Down Slightly, in “Vital Signs fact of the Week”, 18 settem-

bre 2003.

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giunti gli stanziamenti di istituzioni pubbliche e private che spesso finanzia-no direttamente le Ong. Una parte consistente di questi fondi rientra poi neipaesi di origine, sia sotto forma di costosi ingaggi per consulenti e tecnici, siaper l’acquisto di apparecchiature.60

Le organizzazioni umanitarie attingono fondi sia dalle varie agenzie del-l’Onu, sia dai governi nazionali e finanziatori privati. Nonostante le moda-lità di intervento delle Ong siano spesso progettate autonomamente e inparte autofinanziate, le organizzazioni umanitarie si caratterizzano per laloro funzione di appaltatori e subappaltatori che offrono i propri “servizi”.Come in altri settori economici, il sistema umanitario è dominato da un ri-stretto numero di organizzazioni che controllano le operazioni e si aggiudi-cano i progetti, delegandone poi la realizzazione a Ong meno strutturate: ametà degli anni Novanta si stima che una ventina di Ong, prevalentementeeuropee e statunitensi, ricevessero il 75% di tutti i fondi pubblici per le o-perazioni di emergenza umanitaria.61 Sebbene le principali organizzazioniumanitarie intervengano in settori diversi, la tendenza è alla specializzazio-ne, secondo i dettami della divisione del lavoro: alcune si occupano preva-lentemente della consegna del cibo, altre provvedono ai trattamenti sanitariprimari o all’infanzia. Ma queste multinazionali del settore, quali Oxfam,Care, Médicins sans frontières, Save the Children e World Vision, oltre adisporre di uffici e operare in decine di paesi, investono in borsa parte deiloro fondi.62

Accanto alle principali Ong, nel corso degli anni Novanta si è assistito al-la proliferazione di organizzazioni umanitarie meno strutturate che contri-buiscono alla creazione di un enorme dispositivo privatistico fondato sul su-bappalto con una corsa indecente e precipitosa per acquisire “quote di mer-cato del dolore”, cioè finanziamenti.63 Negli anni recenti, il coordinamentotra Ong è aumentato e sono stati creati veri e propri consorzi che operanosulla base dei principi di mercato. La professionalizzazione del mondo uma-nitario procede insieme alla sua militarizzazione: la neutralità tipica delleOng viene così abbandonata in nome di un ideale superiore, quello dei diritti

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60 Nella vicina Macedonia, alcuni contratti di Ong locali con le loro controparti estere mostrano comedel budget complessivo il 30% venga impegnato per consulenti esteri, il 50% per le spese generali dellasede della Ong nel paese di origine e solo il 20% rimanga nel paese. Oltre a compensi faranoici per i con-sulenti esteri, compresi tra i 700 e i 1500 dollari giornalieri, è da rilevare come talvolta vengano acquistateapparecchiature, direttamente nel paese dei donatori, per la cui costosa manutenzione e riparazione oc-corre rivolgersi agli esperti stranieri.

61 T.G. Weiss, Reforming the International Humanitarian Delivery System for Wars, in A.R. Zol-berg, P.M. Benda (a cura di), Global Migrants, Global Refugees, Berghahn Books, New York-Oxford2001, p. 227.

62 Save the Children, per esempio opera in 121 paesi e dispone di 32 sedi nazionali affiliate “fatturan-do” 253 milioni di dollari nel 2001; Care invece dispone di 10 sedi nazionali affiliate, opera in 70 paesi e“fattura” 446 milioni di dollari. Save the Children e Care ricevono circa la metà dei loro fondi attraverso ilgoverno statunitense. Le Ong europee sembrano invece in grado di ricorrere più frequentemente a fondidi privati: A. Stoddard , Humanitarian Ngo’s: Challenge and Trends, in J. Macrae, A. Harmer A. (a curadi), Hpg Report. Humanitarian Action and the “Global War on Terror”. A Review of Trends and Issues, Hu-manitarian Policy Group, London 2003, pp. 26-29.

63 Si calcola che vi siano circa 3-4000 Ong solo negli stati più industrializzati di queste il 33% sarebbenegli Usa, il 57% in Europa e il 10% in altri paesi (ivi, p. 25).

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umani universali, di un’etica modesta e precaria.64 Ma le Ong concedono tu-tela e beneficenza solo a quanti sono disponibili a redimersi e a impegnarsinella direzione da loro imposta.

Le Ong dipendono in larga misura dal lavoro a contratto a tempo deter-minato di giovani occidentali, per i quali l’umanitarismo può costituire an-che una carriera. La maggior parte dei “cooperanti”, tuttavia, dopo alcunimesi o qualche anno ritorna a casa, dove dovrà darsi da fare per trovare unlavoro. Aggregarsi a un’agenzia umanitaria costituisce spesso l’occasione persostenere una sorta di crociata adolescenziale tipica degli ideali giovanili. Lecompetenze di tale personale non sono sempre di grande rilievo, anche se sisono affinate notevolmente nel corso degli ultimi anni.65 L’attrattiva degli altistipendi si combina con l’immagine di una forte carica etica che sembra tut-tavia limitata al normale orario di lavoro, dopo il quale ci si rifugia nelle stan-ze d’albergo o nei ritrovi per stranieri. Gli internazionali presenti in Kosovo– nell’esercito, come nelle organizzazioni Onu e nelle Ong – si dispongonosu un ampio ventaglio culturale e comportamentale che comprende ancheuna certa “mentalità neocoloniale”. Ciò contribuisce a determinare la perce-zione di quelle che sarebbero le necessità della popolazione, interpretando lecrisi in termini di prodotti o servizi, nella cui fornitura gli internazionali si so-no specializzati, dato lo scetticismo diffuso sulle capacità dei locali di provve-dere a tali bisogni.

Le differenze di salario e di condizioni di lavoro, che abbiamo visto esse-re una delle caratteristiche del nuovo protettorato kosovaro, risultano rile-vanti anche tra gli stessi internazionali, rendendo frequenti i cambi di datoredi lavoro resi possibili dalle reti relazionali sviluppate all’interno della “co-munità d’accoglienza”. Nella forma istituzionale del protettorato, cioè in uncontesto di eccezionalità, si rivela appropriata l’analisi di Mark Granovetter,secondo il quale le probabilità di trovare lavoro è legata sia all’ampiezza direlazioni di cui l’individuo dispone sia, in particolare, ai suoi “legami deboli”derivanti, per esempio, da esperienze di lavoro, piuttosto che ai ‘legami forti’della parentela. Gli operatori umanitari operano in un ambiente pregno diindividualismo nel quale i legami deboli, attivati attraverso incontri più omeno occasionali, possono garantire discrete opportunità per una rapidamobilità occupazionale ascendente. Se l’interpretazione di Granovetter nonpuò spiegare le modalità generali del reperimento di un’occupazione, è tutta-via interessante notare che, come nel caso del “terziario ricco”, anche in unambiente “artificial-umanitario” la manodopera deve ricorrere all’auto-atti-vazione di relazioni amicali.66 D’altra parte, tale regola non sembra valere per

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64 D. Rieff, Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario, cit.; S. Visentin, Umani, troppo umani. Idiritti dell’uomo e la sovranità dello stato, in “Altreragioni”, 6, pp. 63-76.

65 T. Cross, Comfortable with Chaos: Working with Unhcr and the Ngos. Reflections from the 1999 Ko-sovo Refugee Crisis, New Issues in Refugee Research (Unhcr) Working Paper, 42, 2001, p. 25; J. Mertus,The Impact of Intervention on Local Human Rights Culture: A Kosovo Case Study, cit.

66 M. Granovetter, La forza dei legami deboli e altri saggi, Liguori, Napoli 1998; R. Pahl, Polarizzazionesociale e crisi economica, in “Inchiesta”, 74, 1986, pp. 4-11; E. Morlicchio, L’irrilevanza dei legami deboli el’impotenza dei legami forti, in “Sociologia del lavoro”, 73, 1999, pp. 189-199.

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i kosovari, pure inseriti in un’economia di servizi ma dove la lunga catena fa-miliare garantisce migliori risultati.

Nel caso degli internazionali si tratta di percorsi lavorativi centrati spessosulle esigenze di carriera, non infrequenti nelle situazioni di intervento “u-manitario”, secondo una logica particolarmente strumentale che lascia scar-so spazio ai princìpi morali. Come racconta questa operatrice umanitaria:

Conosci un po’ di persone, ti dai da fare, scrivi il curriculum, aspetti il momento giu-sto. Ho conosciuto due casi. Ho conosciuto una ragazza che è venuta a Pristina conun’associazione, e dopo tre mesi che lavorava con loro, con cui aveva firmato un con-tratto di due anni, ha lasciato ed è passata volontaria alle Nazioni unite. Lei era unache dall’inizio voleva lavorare per le Nazioni unite, il suo obiettivo era quello, a leiinteressava proprio la carriera internazionale... Tanto ha fatto e tanto ha detto, e allafine è riuscita. Anche un’altra ragazza, che lavorava per [una Ong], ha lasciato per-ché le è stato offerto un posto come volontaria delle Nazioni unite. Lei si trasferì aPristina per lavorare per Unmik. (Intervista in Italia a R. S., operatrice umanitaria i-taliana, marzo 2002)

La trasformazione degli individui suscitata dallo stato di eccezione proiet-ta la sua ombra lunga oltre il periodo della missione. In particolare, la di-stonia tra la propria posizione nelle situazioni di eccezionalità e quella chesi “ritrova” nel paese di origine provoca in molti soggetti una certa diffi-coltà nel reinserimento in patria. L’autorità di cui si dispone viene meno ecosì si ricade nella forzata inerzia provocata dalla “sindrome del missiona-rio di ritorno”.

Se gli internazionali sono spesso un corpo staccato rispetto ai locali, è purvero che in Kosovo le relazioni sociali quotidiane tra i due gruppi si dispiega-no in luoghi pubblici. Il sovrapporsi degli stranieri a un ordine precedente ela loro diversità di usanze e pratiche generano attriti, inserendosi nelle spac-cature tra la già claudicante egemonia patriarcale e il comportamento deigiovani ammaliati dalle promesse occidentali. Si tratta di un cambiamentoche tocca in profondità gli equilibri delle comunità locali ristrutturando glispazi di potere interni sui quali agiscono con forza le presenze degli interna-zionali e la loro disponibilità di denaro. Anche il patriarcato subisce così at-tacchi che ne sconvolgono le fondamenta.

Conclusioni

Per la popolazione di origine albanese il ritorno in Kosovo, intriso di gioiaper la vittoria e di prospettive di liberazione nazionale, è stato caratterizzatodalla presenza di migliaia di persone provenienti dai paesi più diversi cheha trasformato il Kosovo in una zona multinazionale. Nei quattro anni se-guiti alla guerra l’area è stata continuamente sottoposta all’emergenza gra-zie a flussi di aiuti sproporzionati rispetto alla debole economia nazionale.67

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67 La sola missione Onu in Kosovo costerebbe, per esempio, circa 300 milioni di dollari all’anno: Ren-ner, Peacekeeping Expenditures Down Slightly, cit.

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Il confronto con la molteplicità delle realtà presenti ha significato, per ilocali, un’interazione quotidiana con stili di vita occidentali che rimandano adissonanti relazioni sociali e lavorative. In questo violento processo di “smi-namento” delle tensioni tra gli individui e le diverse “comunità”, le organiz-zazioni non statali sostituiscono il welfare precedente contribuendo alla de-gradazione dei cittadini dotati di diritti lavorativi e sociali alla condizione diprofugo, tutt’al più migrante. Gli aiuti umanitari e militari recano con sé unnuovo ordine che viene innestato sulle vecchie abitudini con la giustificazio-ne della presunta incapacità dei locali.

I conflitti bellici nella ex Iugoslavia hanno assunto significati che travali-cano i confini dell’area: essi rappresentano per la manodopera di tutta l’Eu-ropa centrale e orientale un momento di crisi e spoliazione sociale e politica.L’indebolimento della forza lavoro è avvenuto in primo luogo attraverso ilsuo depauperamento relativo in termini di valore e di contenuto professiona-le. In secondo luogo, si è assistito a una ristrutturazione della divisione inter-nazionale del lavoro e della regionalizzazione tra paesi, e porzioni di paesi,che si riallineano attraverso logiche produttive e di mercato piuttosto che suquella dei confini nazionali. Il nuovo ordine mondiale è sempre più caratte-rizzato dalla linea che separa chi sta dentro da chi sta fuori, ma “la principaleposta in gioco della crisi negli ex paesi socialisti consiste proprio nella lotta diciascuno per il proprio posto” di cui la ex Iugoslavia è l’esempio più chiaro.68

La stabilità del protettorato kosovaro è quindi strettamente connessa alsuo essere uno stato di eccezione dove sperimentare nuove strutture sia pro-duttive sia sociali, alle quali i kosovari dovrebbero adeguarsi. Ma dietro la re-torica dell’europeizzazione che sostiene tale processo si celano fragili pro-messe, anche perché le potenze occidentali, negli ultimi anni, sembrano ave-re rivolto lo sguardo verso aree economicamente più promettenti.

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68 S. Zizek, Il Grande Altro, Feltrinelli, Milano 1999, p. 107.

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Sono diverse, e talvolta contrastanti, le immagini che gli operatori umanita-ri hanno fornito di sé in questi ultimi anni: missionari di civiltà, soggetti po-litici loro malgrado, oppure volontari con una forte carica etica. Negli anniNovanta, per esempio, lo spirito di servizio degli operatori era consideratonon solo un’etica civile, come ai tempi della fondazione di Médecins sansfrontières nel 1971, ma espressione di una forte politicizzazione. Erano itempi in cui gli operatori umanitari erano considerati parti di un movimen-to internazionale che avrebbe agito, con le parole di Michael Ignatieff, una“rivoluzione della partecipazione etica”, al di là della creazione di nuovenorme giuridiche e della continua affermazione dell’idea che la cultura deidiritti umani potesse esercitare un’influenza per sanare gli effetti, se nonproprio prevenirli, delle guerre, delle carestie e degli “stati al collasso”.

Quella “rivoluzione” postulava l’esistenza di una “comunità internazio-nale” che sarebbe riuscita a giuridicizzare i rapporti tra gli stati come tra lepersone e sanzionarli responsabilmente in nome dei diritti umani e di un’au-torità giuridica superiore. Questa impostura avrebbe trovato nell’ossimorodella “guerra umanitaria” la sua degna rappresentazione e contestualmenterivelato l’impossibilità di una comunità mondiale del diritto, e dei diritti, pro-prio perché problematica rimaneva la definizione di un’autorità mondiale su-per partes e allo stesso tempo sufficientemente potente da prevenire, o sanzio-nare, gli stati o le persone che avessero ripudiato uno dei principi fondamen-tali della legge morale: il rispetto dell’umanità che si trova in ogni persona.

L’autobiografia di Jean Sélim Kanaan offre l’immagine più nitida e con-sapevole di tale convinzione.1 Spirito cosmopolita, Kanaan lavorò per un de-

1 J. S. Kanaan, La mia guerra all’indifferenza Marco Tropea, Milano 2004.

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L’ETICA AMBIGUA DEGLI AIUTIIl lavoro umanitario fra civile e militare dalle crisi iugoslave alla guerra in Iraq

di Roberto Ciccarelli e Giuseppe Foglio�

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cennio al servizio dell’Onu, a partire dal programma di ricostruzione coordi-nato da Bernard Kouchner in Bosnia, e morì a Baghdad nell’attentato dell’a-gosto 2003 contro la sede Onu. Il suo libro descrive una fase di passaggio delvolontariato professionale da testimonianza soggettiva nella lotta per i dirittiumani, la dignità della persona e l’umanità in generale a impegno professio-nale: “All’inizio degli anni Novanta si pensava che le Ong avessero superatola fase in cui si basavano unicamente sulla militanza degli operatori. In uncerto senso si erano democratizzate aprendosi a volontari con un buon livellodi studi”. Malgrado l’improvvisazione delle reti costruite in quegli anni, “al-cune Ong compresero una cosa che i militari sanno da anni, sia nel campodella logistica sia delle risorse umane: se in missione non ti senti a tuo agio seipericoloso per te e per gli altri”.

Il livello di integrazione e di cooperazione tra i civili e i militari raggiuntoin quel decennio servì a combattere, a suo avviso, “l’inerzia e l’obbligo dineutralità delle grandi istituzioni umanitarie internazionali come le Nazioniunite, la Croce rossa e l’Alto commissariato per i rifugiati”. In quegli anniNovanta, il moltiplicarsi degli interventi umanitari annunciava per alcuni lanascita di un nuovo ordine mondiale fondato sui diritti umani. Non manca-rono i premi Nobel assegnati a Médecins sans Frontières nel 1999 e a KofiAnnan nel 2001 che consacrarono l’idea di una pace garantita dalla comunitàinternazionale rappresentata dall’Onu con il sostegno militante delle Ong.La formazione di agenzie internazionali per gli affari umanitari, come l’euro-pea Echo (1992), diede vita a una rete internazionale nelle zone di crisi diconcerto con le agenzie Onu per gli affari umanitari (Unhcr) e lo sviluppo(Undp). Era una rivoluzione del mercato umanitario. Dal 1988 al 1996 laspesa annua per gli aiuti umanitari crebbe da 410 a 3066 milioni di euro neipaesi Ocse. Solo in Italia, tra il 1979 e il 2002, le Ong aumentarono quasi del300%, passando da 40 a 154.2

La crescita del mercato umanitario seguiva l’espandersi dei nuovi conflit-ti. Negli anni Novanta la quasi totalità dei conflitti (94 su 111) era dovuta acause di natura interna o internazionale. I profughi, i rifugiati e gli sfollatipassarono nel frattempo da 4 a 22 milioni, mentre i caschi blu dell’Onu in-viati nelle zone di crisi crebbero da 10 a 38 mila. Erano guerre non statali e a-simmetriche quelle che, soprattutto nel continente africano, colpivano i civilicreando drammatiche crisi umanitarie e moltiplicando i conflitti tra le fazio-ni in lotta per la conquista dei mercati locali delle armi e delle risorse strategi-che. Si diffondeva tra le Ong l’idea che queste crisi dovessero essere affronta-te solo con il dispiegamento di mezzi tecnici e logistici. L’intervento umanita-rio si poneva programmaticamente sul piano del servizio e non su quello, po-litico, del consenso.

In questo contesto maturava un’altra immagine dell’operatore umanita-rio, nettamente opposta alla prima, quella del missionario di civiltà. Alla fine

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2 Cfr. T. Pech, M.-O. Padis, Le multinazionali del cuore. Le organizzazioni non governative tra politicae mercato, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 20 e ss.; Giulio Marcon, Le ambiguità degli aiuti umanitari. Indagi-ne critica sul Terzo settore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 15 e ss.

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dello scorso decennio, gli eserciti Nato iniziarono una riconversione strategi-ca delle attività militari verso le attività di peace-keeping in un’ottica di difesaproiettiva della pace, dei “valori della democrazia” e della stabilità geopoliti-ca in diverse zone del pianeta: i Balcani, Timor Est, Ruanda, senza dimenti-care la Somalia. Fu nel 1993, secondo il generale Bruno Loi, che maturò unanuova consapevolezza della natura delle operazioni di peace-keeping.3 L’in-tento di portare la pace attraverso un’operazione armata non sottraeva i mili-tari a una logica di guerra. Li spingeva, anzi, ad assumere un ruolo di sup-plenza rispetto alle strutture civili distrutte nei conflitti. Come scrive Loi siproduce “un continuo intersecarsi delle attività di soccorso umanitario conattività più spiccatamente militari tendenti al conseguimento di un adeguatogrado di controllo del territorio”.

L’ottica dell’intervento di polizia internazionale non mirava alla creazio-ne del consenso tra le fazioni, operazione alquanto problematica nel contestosomalo mortificato dallo scontro tra bande, ma alla neutralizzazione del con-flitto in atto. La teoria dell’ingerenza umanitaria non escludeva l’uso delle ar-mi per debellare il nemico, ma anzi lo teorizzava come strumento per “nor-malizzare” il terreno e impostarne la ricostruzione civile. In questa prospetti-va, nessuna forza di pace militare avrebbe potuto resistere a lungo sul teatrodi intervento, a meno che non si fosse costituita una rete di Ong capaci di la-vorare sul campo. Ma il problema rimane sempre lo stesso: chi protegge imissionari nel quotidiano esercizio di evangelizzazione civile?

Le commistioni tra militari e civili, tra interessi strategici e umanitari, di-vennero pressoché indistinguibili nell’operazione Arcobaleno organizzatadal governo D’Alema con l’apporto della protezione civile italiana. L’uso po-litico della cooperazione tendeva, durante il bombardamento della Serbia,“a costruire un consenso umanitario dell’opinione pubblica italiana”.4 Quel-la missione rappresentava una chiara manifestazione dell’umanitarismo mili-tare che insidiava la “diplomazia dal basso” della cooperazione non governa-tiva tramite massicci aiuti economici veicolati dai colossi del mercato umani-tario globale e dai governi che intendevano proteggere i propri interessi na-zionali nell’area. In quel 1999 i confini tra politica e umanitarismo scompar-vero del tutto. Per Bernard Kouchner, il diritto d’ingerenza per la difesa deidiritti umani segnava la nascita del “movimento pacifista del nuovo millen-nio”. “Il velleitarismo morale” di Kouchner poneva la guerra al riparo da o-gni contestazione.5

Se in Kosovo è probabile che “si sia persa la battaglia in favore di un u-manitarismo indipendente”, la “guerra contro il terrorismo” è stata la sua di-sfatta.6 Mentre negli anni Novanta “l’umanitarismo diventava, per quantoinconsapevolmente, un principio totalitario”,7 in Afghanistan, e poi in Iraq,

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3 B. Loi, Peace-keeping. Pace o guerra? Una risposta italiana: l’operazione Ibis in Somalia, Vallecchi, Fi-renze 2004.

4 G. Marcon, Le ambiguità degli aiuti umanitari. Indagine critica sul Terzo settore, cit.5 D. Rieff, Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario, Carocci, Roma, 2003.6 Ivi, p. 170. 7 Ivi, p. 195.

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il paradosso appare ormai parte integrante della realtà al punto che l’ex se-gretario di Stato americano Colin Powell ha affermato nell’ottobre 2003: “LeOng sono per noi un enorme moltiplicatore di forza, una parte importantis-sima della nostra squadra di combattimento”. In questo articolo si cercheràdi descrivere questa parabola attraverso alcune interviste a testimoni privile-giati realizzate negli ultimi tre anni

Kosovo: Il punto di vista del Consorzio italiano di solidarietà (Ics)

Il 2 aprile 1999 iniziava in Italia la prima fase della cosiddetta missione Arco-baleno, il cui obiettivo era quello di fornire sostegno nella costituzione e nel-la gestione di centri di accoglienza, postazioni sanitarie e cucine, per un tota-le di circa 25.000 posti in favore dei profughi kosovari in Albania. La Prote-zione civile italiana partecipò per la prima volta nella sua storia a una missio-ne fuori dei confini nazionali. Secondo le testimonianze conosciute, l’instal-lazione di questi campi sarebbe avvenuta di concerto con l’esercito, che fra il1991 e il 1997 aveva compiuto in territorio albanese le ricognizioni necessa-rie per selezionare i siti idonei a tale scopo. Si riconoscono soltanto due even-tualità nelle quali è consentito l’ingresso della Protezione civile in territoriostraniero: in caso di eventi disastrosi, come per esempio il recente terremotoin Turchia, oppure di occupazione militare di un territorio. L’operazione Ar-cobaleno fu organizzata per assistere i profughi e gli sfollati del conflitto inKosovo, convogliati in Albania per frenarne l’afflusso verso l’Italia e i paesicomunitari.

Durante i primi mesi del 1999, si realizzava il mutamento strategico dellapolitica umanitaria all’interno del paradigma del nuovo modello di difesa:sul mare continua il pattugliamento e il cordone sanitario per opera dellaMarina militare, mentre l’intervento della Protezione civile si estende al terri-torio di partenza e non solo a quello di arrivo. Naturalmente, lo stato italianoorganizzò campi anche all’interno delle frontiere nazionali (a Comiso, 6000profughi ospitati, ai quali fu concesso un permesso temporaneo di soggiornoper motivi umanitari), dimostrando di aver perfezionato l’organizzazionesperimentata nel 1991, al momento dello sbarco degli albanesi in Puglia.8

L’emergenza umanitaria è l’altra faccia della guerra: le strutture un tempo a-dibite alla gestione delle emergenze fungono da “retrovia” alle operazionibelliche, sono dirette da personale militare e inquadrate in protocolli d’inte-sa, come quello stipulato nel 1997, nel quale lo stato albanese autorizzava lapresenza di contingenti militari italiani sul proprio territorio.

Il processo di conversione del militare in poliziesco e del poliziesco nelmilitare,9 si dispiegava in quel momento non solo come “chirurgia” all’inter-no della gestione delle migrazioni sul territorio, ma anche nel rapporto tra lo

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8 Per una descrizione dettagliata dell’organizzazione della missione Arcobaleno si rimanda al numeromonografico di “Dpc Informa. Periodico informativo del Dipartimento della protezione civile”, 17, lu-glio-agosto 1999.

9 Cfr. S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000.

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stato e il suo esterno. L’intreccio tra protezione civile e forze armate, in altreparole la cooperazione civile-militare, attiva nel campo della sicurezza-prote-zione-prevenzione nei confronti dei migranti, come nella risoluzione dell’e-mergenza umanitaria prodottasi in Kosovo dopo la guerra, portava al dispie-gamento della stessa logica organizzativa dall’accoglienza nei campi alla dife-sa delle coste, al controllo in acque internazionali, fino agli interventi umani-tari nei Balcani e quindi alla cancellazione delle frontiere geografiche. Si assi-steva alla progressiva “esternalizzazione” dei rischi interni e alla contempo-ranea trasformazione delle politiche di “difesa civile” in politiche di ordinepubblico.

Alla luce di questo processo, in base alla propria esperienza di coordina-trice del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) dei campi in Albania dal 1997al 1999, Anna Maria Gravina sostiene che l’intervento umanitario non si mi-sura sui tempi delle crisi o dei rovesci militari:

L’intervento che in quell’occasione fu elaborato, era sì di carattere umanitario, ma a-veva anche un certo respiro, andava a lavorare anche su aspetti di cooperazione lega-ti non soltanto all’emergenza, ma soprattutto allo sviluppo. E, diciamo, il program-ma del Tavolo di coordinamento agli aiuti sull’Albania in particolare aveva come tar-get d’intervento donne, minori e handicap, quindi andava ad agire su tre soggettivulnerabili in una situazione di grande disordine sociale, quindi si pensò che, in unasituazione di eccessivo disordine sociale, questi erano i tre soggetti più vulnerabiliche avrebbero in qualche modo risentito maggiormente della crisi che c’era in quelperiodo.10

L’intervento umanitario progettato in Albania coinvolgeva l’intero territorionazionale. Il suo scopo era quello di coinvolgere “realtà locali già esistenti,quindi Ong locali, albanesi, tant’è che una prerogativa per accedere al bandoper poi ottenere i vari progetti era quella di dimostrare di avere un partneria-to con Ong locali.”

Prima che scoppiasse la crisi umanitaria in Albania, l’intervento era di-versificato, procedeva “dal basso”, a partire dai soggetti interessati alla rico-struzione della società civile devastata dalla crisi economica e politica degliultimi anni:

Per noi l’associazionismo era qualcosa che partiva dal basso, dal coinvolgimento del-la popolazione, dal coinvolgimento diretto, forte, con i ragazzi del territorio, per loroera più una struttura fatta di statuti, regolamenti, che poi forse poco si rapportavacon i reali bisogni dei ragazzi a cui loro si rivolgevano.

Era un approccio contrario a quello che veicola massicci aiuti economici at-traverso le Ong internazionali e i governi che intendono proteggere i loro in-teressi nazionali. Quello promosso dalle Ong indipendenti era un progettodi cooperazione che valorizzava un approccio multilaterale tra soggetti isti-tuzionali e non, al fine di sganciare, nel periodo lungo, i paesi interessati dalladipendenza assoluta nei confronti della comunità internazionale:

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10 Intervista a Annamaria Gravina realizzata a Roma il 5 luglio 2002.

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Lo scopo di questa cosa era sia, appunto, responsabilizzare anche le amministrazionilocali e andare a creare un rapporto con la realtà locale, come dire andare a creare unrapporto tra noi e le amministrazioni, in modo tale che i nostri progetti non fosseropercepiti come qualcosa che si andava a sostituire, diciamo, al lavoro di un’ammini-strazione locale o di un ministero per la Gioventù ma quello che volevamo fare era,compatibilmente con la realtà che trovavamo, andare a sostenere, lavorare in colla-borazione e non sostituirci allo stato, soltanto perché avevamo dei soldi e la possibi-lità di gestire delle realtà associative.

Lo strenghning institutional building vagheggiato andava però a confliggerecon il sistema tradizionale della cooperazione internazionale. Sostiene PaoloTamiazzo, del Consorzio italiano di solidarietà:

Se leggiamo i dati rispetto alle partnership con l’Unione europea, i criteri di presen-tazione dei progetti, sono criteri che implicano la necessità di essere strutturati inmaniera molto forte, come Ong, e questo taglia tante piccole Ong a favore, diciamo,di queste Ong dei paesi del nord dell’Europa, o comunque anglosassoni, che sonoOng ormai quasi solo sulla carta, cioè sono delle vere e proprie istituzioni, dei colos-si, che è una logica, se mi si permette il termine, dell’ipermercato, anche in questocampo, per cui quando tu dai, per esempio rispetto ai quantum della presentazionedi un progetto, cifre così alte, che poi la tua quota di finanziamento implica che o tusei molto forte, oppure tu non puoi presentare un progetto.11

Il sistema della cooperazione internazionale impone una stabilizzazione dellepartnership tra le più potenti Ong multinazionali e l’Onu o l’Unione euro-pea. Lo spazio di azione riservato alle Ong indipendenti risulta essere di con-seguenza ristretto, dato che le operazioni umanitarie generalmente promosserispondono a logiche economiche e politiche affini agli interessi dei paesi do-minanti. In questo modo, lo sviluppo (economico e sociale) di un territorio èsoppiantato dalla gestione della crisi postbellica, la cui logica rientra piena-mente tra gli obiettivi strategici di questi paesi. Commenta Paolo Tamiazzo:

Negli ultimi anni i fondi per la cooperazione e lo sviluppo sono complessivamentediminuiti e dall’altro tutti gli uffici umanitari hanno a disposizione strumenti e dena-ro per poter operare e andare a tamponare le varie crisi che ci sono in giro per ilmondo. Questo secondo noi corrisponde a una visione non più preventiva dell’azio-ne internazionale, per cui incomincia anche a usare strumenti di politica internazio-nale e di azione sul campo che sono propedeutici alla nascita dei conflitti, poi invecei conflitti nascono, e ce ne sono tanti, quelli più vicini noi li sentiamo più presenti,perché magari succedono a pochi chilometri di distanza dai nostri confini e il nume-ro delle guerre regionali che ci sono anche attualmente è altissimo. E questo la dicelunga anche sull’incapacità di mettere in piedi strumenti che attraverso lo sviluppo, enon solo lo sviluppo economico, ma lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, come in-dicato dalle Nazioni unite. Si è un po’ perso questo tipo d’impegno e ci si è concen-trati invece diciamo nella fase di ripristino però molto emergenziale dei traumi che cisono già.

Nel corso degli anni Novanta, la prospettiva dell’ingerenza umanitaria, ele-mento chiave della strategia della “global security”, si affermava nel contesto

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11 Intervista a Paolo Tamiazzo, realizzata a Roma il 3 luglio 2002.

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della politica internazionale. Durante la guerra in Kosovo, la Nato ha riven-dicato le ragioni etiche di un nuovo diritto internazionale umanitario a favo-re di un intervento militare contro uno stato che aveva violato i diritti del-l’uomo. In questo nuovo diritto di guerra era previsto uno spazio non secon-dario per gli interventi umanitari a favore dei soggetti direttamente coinvoltiin tale violazione. I profughi erano diventati nel frattempo oggetto di ritor-sione militare della Repubblica iugoslava contro i paesi confinanti (tra cui l’I-talia). Si trattava allora di impedire che questa arma “impropria” sortisse l’ef-fetto di terrorizzare le opinioni pubbliche evocando il pericolo dell’invasio-ne. Da parte degli stati neointerventisti nasceva l’esigenza di intervenire di-rettamente sul campo della ricostruzione della società civile, prima ancorache la guerra terminasse, rilevando le funzioni svolte dalle Ong.

La missione Arcobaleno è così descritta da Paolo Tamiazzo:

Era un tentativo di ridurre la complessità degli interventi, che è tipica di un mondo,quello delle Ong, che è fatto da una marea di organizzazioni che poi lavorano anchesu basi politico-culturali diverse. Era un tentativo di razionalizzare questi interventie di comprimerle, invece, in una visione, diciamo, monocentrica dell’intervento, do-ve poi è lo stato che ne definisce i canoni e gli strumenti. Noi abbiamo fatto una di-scussione sul merito, per esempio rispetto agli sprechi, alle poche competenze, allapoca esperienza di lavoro in questo tipo di crisi, forti anche dei dati che l’Alto com-missariato aveva in quel periodo, bastava leggerli! Sono avvenuti un sacco di sprechiin Kosovo. C’è stata una gara, anche molto generosa, nel raccogliere i profughi in Al-bania, però con una serie di strumenti che avrebbero potuto, per dirla così, sfamaretre persone al posto di una. I criteri non sono stati rispettati.

La differenza viene dunque posta tra un intervento di tipo “monocentrico” eun altro, presumibilmente, di tipo “policentrico”, affidato cioè a una serie diOng che lavorano a stretto contatto e a lungo termine con i rappresentantipiù attivi della società civile locale. L’intervento umanitario “monocentrico”del governo italiano rispecchiava le scadenze dell’azione di guerra. L’appa-rente scopo di “democratizzazione” del tessuto della società civile iugoslavae kosovara risultava invece del tutto funzionale alla piena realizzazione dellacooperazione tra militari e civili. Come afferma Paolo Tamiazzo:

Il punto è proprio questa logica dell’intervento a spot, dove c’è la notizia si va, si in-terviene e poi, nel momento in cui la notizia passa in sesta pagina, in settima pagina,oppure non c’è più nei giornali, quel paese si dimentica. E paradossalmente, si di-mentica nel momento in cui ci sarebbe bisogno maggiore, invece, di un interventointegrato con l’idea di costruire una partnership con la società civile che si va a rico-struire. Questo non è successo in Bosnia, non è successo in Kosovo e tutto finiscecon l’emergenza.

L’intervento “monocentrico” del governo italiano creò una divisione politicanetta tra le Ong che lavoravano già da qualche tempo sul campo e quelle cheavevano accettato di realizzare gli scopi della guerra umanitaria. AffermaAnna Maria Gravina:

Ci sono stati dei soggetti con cui ci siamo rapportati, altri con cui non abbiamo avuto

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niente a che fare, come la Protezione civile. In tutto il periodo dell’emergenza io miricordo per esempio di una sola riunione coordinata da Barberi, dopodiché non mene ricordo altre, comunque non abbiamo più avuto nulla a che fare.

Nella sua testimonianza, Giulio Marcon contrappone l’esperienza del Tavolodi Coordinamento a quella della missione Arcobaleno:

Sotto una finta veste di managerialità [...], la missione ha spaccato il mondo del vo-lontariato tra le organizzazioni che vi hanno aderito e quelle che (come l’Ics e la Cari-tas) hanno deciso di operare in autonomia. Inoltre, la missione ha emarginato queisettori dell’amministrazione pubblica che avevano aiutato, senza strumentalizzazio-ni, il volontariato pacifista durante l’emergenza in Bosnia Erzegovina: il Dipartimen-to affari sociali della Presidenza del consiglio, il ministero Affari esteri, l’Alto com-missariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Grazie a un martellante battage – maiconcesso dai media alle organizzazioni del volontariato per le loro autonome iniziati-ve – sono stati raccolti, attraverso un’impropria sottoscrizione popolare dei fondi or-ganizzata dallo stato, 132 miliardi, in gran parte male utilizzati, distribuiti in mododiscrezionale e da persone prive di competenze specifiche nel campo dell’emergenzaumanitaria nei Balcani.12

Quello dell’intervento umanitario di guerra è un orientamento che matura inItalia fin dal 1998, anno in cui fu presentata la proposta di legge per la rifor-ma della cooperazione allo sviluppo. Commenta Giulio Marcon:

Questa prevedeva che l’intervento umanitario delle organizzazioni non governativenelle aree di conflitto fosse coordinato con le forze militari italiane presenti nel territo-rio. In questa prospettiva l’intervento umanitario avrebbe perso ogni autonomia e sa-rebbe stato subordinato alle politiche dei governi e alle strategie militari sul campo.13

Al di là delle differenti visioni politiche, il lavoro sul campo, durante l’emer-genza provocata dall’esodo dei profughi kosovari subì gravi ritardi e ineffi-cienze, dovute alla non comunicazione tra la Protezione civile e il Tavolo dicoordinamento delle Ong presenti in Albania. Ricorda Anna Maria Gravina:

Quando comunque è scoppiata l’emergenza eravamo pronti ad affrontare una seriedi situazioni e ci siamo attivati immediatamente per affrontarle, anche perché i cam-pi si sono riempiti dall’oggi al domani. Prima erano vuoti, il giorno dopo ci siamo ri-trovati con mille persone in un solo campo. Diciamo che noi con la Protezione civilenon abbiamo avuto nulla a che fare. La Protezione civile in quel contesto si è coordi-nata pochissimo con chi lì già da tempo lavorava concretamente con l’Acnhur, che a-veva un mandato istituzionale sulla gestione dei campi, ma che appunto, occupando-si da tempo di questo, era il soggetto istituzionale con cui loro avrebbero dovutocoordinarsi. In queste situazioni il rischio più grosso è quello della sovrapposizionedegli interventi. Se non c’è un coordinamento forte tra le Ong che lavorano a variotitolo in questo ambito, si rischia di andare a lavorare tutti nella stessa zona, lascian-done altre scoperte, o di andare a lavorare tutti sugli stessi problemi o temi.

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12 G. Marcon, Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costituzione della pace, Asterios, Trieste 2000,p. 197.

13 Ivi, p. 198.

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L’intervento umanitario della Protezione civile non intendeva costruire unapartnership con la società civile albanese, ma affrontare soltanto l’emergenzadei profughi nei termini stabiliti dal governo italiano. Una volta terminatal’emergenza, venivano meno anche le ragioni dell’intervento umanitario. Sulcampo rimanevano soltanto le forze militari con il compito di effettuare ope-razioni di peace-keeping. Lo stesso destino, a parere di Paolo Tamiazzo, è sta-to riservato agli obiettivi del Patto di stabilità:

Il dato della diplomazia che non sa o non vuole mi sembra fondamentale per l’analisidi quello che è successo anche dopo il conflitto. E dall’altro, l’idea che poi, finita l’e-mergenza che ha a che fare con la guerra, o con le guerre, questi paesi possono tran-quillamente morire d’inedia. Ci sono strade che sono state iniziate in pompa magnadurante il periodo in cui queste sarebbero servite a eventuali sviluppi della guerra,poi sono state lasciate lì, da un giorno all’altro. È un paradosso che in Albania tu haidelle strade, che sembrano strade newyorkesi, sino a un certo punto... e poi c’è la ter-ra. Risponde a un’altra logica, che non è quella della pacificazione, ma è la logica del-l’intervento continuo che risponde ad altre leggi, quella del mercato delle armi, a lot-te geopolitiche, alla questione Nato o a quella nazionalista.

Da queste tre testimonianze dirette della guerra umanitaria in Iugoslavia e inKosovo si possono trarre alcuni elementi a conferma della nostra ipotesi ini-ziale: gli interventi di polizia internazionale a difesa dei diritti umani, la vo-lontà di riavviare all’interno delle società civili un processo di democratizza-zione, rispondono alla logica di una rinnovata cooperazione tra militari e ci-vili. Questa cooperazione non mira a incoraggiare l’autosufficienza delle po-polazioni che ricevono l’aiuto umanitario, ma a rinsaldare l’obiettivo dellaprevenzione dei conflitti locali in chiave repressiva. Le strategie adottate dal-l’Unhcr o dall’Echo, nell’ambito della guerra umanitaria, hanno direttamen-te o indirettamente agevolato la cooperazione civile-militare, laddove nonsono subentrate le strutture civili della Nato e dei singoli stati nell’interventoumanitario. Ciò che dunque è definita come politica di aiuto umanitario –che ha come obiettivo quello di “encourager l’autosuffisance des popula-tions qui reçoivent l’aide humanitaire afin d’éviter autre dépendance”, comerecita lo statuto dell’Echo – è in verità qualcosa che fa a meno della sovranitàdegli stati interessati. La strategia della “global security” istituisce un diretto-rio tecnocratico-umanitario, a nome delle strutture militari implicate nelconflitto umanitario, che dirige l’institutional building senza il controllo dellesocietà locali.

Iraq: il punto di vista di un “Ponte per...”

Nel conflitto iracheno l’integrazione delle Ong nell’umanitarismo militare ègiunta a una nuova svolta. Gli operatori umanitari vengono considerati,senza sfumature, “guerrieri democratici”. E ciò comporta conseguenzepiuttosto gravi. Rispetto al Kosovo, infatti, l’esplicito carattere di guerradell’intervento che ha suscitato una fortissima reazione della società locale

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coinvolge gli operatori umanitari nella dialettica amico-nemico. In quantooccidentali, gli operatori vengono identificati come nemici e perdono la lo-ro naturale “terzietà”. Dall’altra, in particolare in Italia, si è verificata laprogressiva estensione del codice militare di guerra a tutte le missioni dipeace-keeping (Mozambico, Somalia, Bosnia, Kosovo e l’Iraq), prospettatadalla riforma delle leggi penali e della giurisdizione militare approvata inSenato il 18 novembre 2004, e ben avviata alla Camera. Il suo scopo è quel-lo di ridurre la differenza tra il personale militare e gli operatori umanitari, iquali non saranno più considerati parti neutrali nel conflitto, ma addiritturamembri delle forze belligeranti, con la possibilità di incorrere in pene del ti-po “reclusione non inferiore a 5 anni” per “somministrazione al nemico diprovvigioni” (l’articolo è il 248 del codice penale militare riformato).14

Rispetto a questa caratterizzazione, l’esperienza degli operatori dellaOng Un Ponte per... in Iraq può risultare significativa in quanto si tratta diun intervento di più antico insediamento (1991) e basato sulle relazioni conla società locale piuttosto che sulla logica emergenzialistica degli interventi disoccorso. In merito alle trasformazioni del lavoro umanitario in zone di guer-ra dal Kosovo all’Iraq, Domenico Chirico, responsabile per gli interventi dicooperazione internazionale di Un Ponte per..., così si esprime:

Per lo specifico dell’umanitario, a mio parere, l’Iraq rappresenta un po’ il compi-mento del percorso cominciato in Kosovo nel 1999. Durante e dopo quel conflitto igoverni di centro-sinistra a livello mondiale cooptarono le Ong e crearono un siste-ma in cui, con il coordinamento dell’Onu, tutti armoniosamente collaboravano. Al-cuni degli strumenti che erano già stati utilizzati in Bosnia vennero perfezionati e tut-ti gli eserciti si dotarono di uffici ad hoc per rendere operativa la collaborazione: i Ci-mic (Civil Military Co-Operation). Il dialogo era necessario se non utile. Le Ong ita-liane operavano soprattutto nel settore italiano del Kosovo e se avevano bisogno diun mezzo pesante per un intervento non si facevano scrupolo di chiederlo ai militari.La missione Arcobaleno, in Italia, rappresenta un buon esempio di questo meccani-smo di concertazione.15

Tale continuità deve comunque essere confrontata alla luce delle trasforma-zioni dell’intervento militare, dei suoi obiettivi e dei suoi strumenti. Indub-biamente la progressiva incidenza della forma guerra negli interventi in Af-ghanistan e in Iraq ha prodotto trasformazioni notevoli. Domenico Chiricoosserva:

La guerra in Afghanistan, invece, ben esemplifica l’iniziativa diretta di molte forzemilitari in campo umanitario [...]. In Iraq aumenta la confusione, la presenza massic-cia di militari e imprese occidentali sottrae progressivamente spazio alle Ong. Lospazio umanitario diventa appunto più ampio e confuso. Tutti questi soggetti sonoimpegnati anche in mansioni simili: riparazione di edifici scolastici, di impianti per iltrattamento delle acque anche se impiegando metodologie differenti. Un Ponteper..., per esempio, cerca di stimolare percorsi partecipativi nelle comunità, di auto-

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14 cfr. C. De Fiores, La revisione dei codici militari: una riforma per la guerra, in http://www.costituzio-nalismo.it/articolo.asp?id=135.

15 Intervista a Domenico Chirico, rilasciata a Roma il 1° febbraio 2005.

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responsabilizzazione delle persone; le imprese operano, ovviamente, secondo ilprincipio del profitto.

Sotto la spinta dell’aziendalizzazione, come di quella di una sempre più ac-centuata militarizzazione delle operazioni civili in teatri di guerra, le Ongnon possono che confrontarsi a crescenti difficoltà:

In realtà il grosso del mondo delle Ong cerca prima di crearsi un coordinamento au-tonomo ma progressivamente diventa evidente che lo spazio umanitario è eroso. Glioccidentali sono, nella percezione comune degli iracheni, i militari o le ditte. Del re-sto in molti luoghi del mondo arabo l’idea di Ong sul modello occidentale non è co-nosciuta e praticata. Il volontariato e l’aiuto si esprimono in altre forme legate allasolidarietà familiare, al rispetto del quinto pilastro della fede, lo zakat, l’elemosina, equindi in ambito prettamente religioso.

Fin dal maggio 2004 Un ponte per... aveva aderito “a un coordinamentoalternativo a quello americano per portare avanti interventi in maniera indi-pendente, neutrale e imparziale, come vogliono i principi fondamentali deldiritto umanitario”.16 “Non volevamo esportare o imporre niente, solo facili-tare un processo che nasce dal basso” ha aggiunto Simona Pari. La difficoltàdi un’azione alternativa sul terreno inquinato dalla cooperazione tra i militarie le altre Ong era evidente: “Quando vidi gli ulema” racconta Simona Torret-ta “mi accorsi che non avevano una percezione nitida di chi fossimo e cosafacessimo. Non noi in particolare, ma le associazioni umanitarie in generale”.

I tentativi di controllo da parte dei governi, come precisa Domenico Chi-rico, sono diventati sempre più pressanti:

Il governo italiano si premura di affidare i fondi per gli aiuti direttamente all’esercitoe alla Croce rossa, che in Italia dipende dal ministero della Difesa, in modo da evitarefastidiose posizioni di Ong dissenzienti ed altrettanto presenti in Iraq. Alcune Ong,dichiaratamente legate al centro-destra, affermano con candore che la collaborazio-ne con gli eserciti è l’unico modo per operare in Iraq.

In una situazione sempre più tesa si registra dunque lo spostamento dellefunzioni umanitarie nelle mani degli eserciti; un maggior controllo da partedei governi sull’operato delle Ong che assume per sua natura un caratterestrategico (la ricostruzione di una “società civile” che rispecchia la prima esi-genza del nation-building) e da ultimo trasforma la loro posizione costringen-dole alla scelta di schierarsi decisamente da una delle due parti violando cosìla natura delle stesse organizzazioni. In uno scenario di guerra come quello i-racheno, anche una Ong indipendente rischia di non comunicare la propriaposizione e il proprio ruolo e di essere percepita come “occidentale”.

L’ambiguità di questa posizione è ben rappresentata dalla rinnovata at-tenzione del governo statunitense, e dai neoconservatori, al rapporto tra mi-litari e civili. A tal proposito, tuttavia, bisogna innanzitutto notare come leposizioni americane riguardo alle Ong siano varie e rappresentabili in due

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16 S. Torretta e S. Pari, Il nostro inferno a Bagdad, “L’Espresso”, 4 novembre 2004, p. 35.

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tendenze: una delle quali, ben espressa dalle parole di Powell, tendente allacooptazione. A Baghdad nel maggio 2003 Usaid, l’agenzia di cooperazione a-mericana, ha subito cercato di avvocare a sé il coordinamento degli interventiumanitari. Un Ponte per... assieme ad alcune Ong francesi ha invece creatoun coordinamento indipendente ed autonomo con l’aiuto dell’Onu e succes-sivamente della Commissione europea per evitare appunto ogni forma diconfusione tra spazio militare e spazio umanitario.

In realtà, soprattutto in ambienti conservatori, da parte americana esisteanche una forte tendenza critica verso le Ong che vorrebbe marginalizzarle.L’iniziativa Ngowatch (ngowatch.org), l’osservatorio sulle Ong ne è un esem-pio. In questi ambienti, infatti, ci si è resi conto che non essendo le Ong stru-mentalizzabili vanno tenute sott’occhio, monitorate, eventualmente metten-dogli i bastoni tra le ruote. Si tratta pur sempre di espressioni pacifiste e anti-militariste delle società occidentali, che non sono embedded.

La parabola delle Ong sembra così in questi anni concludersi nel segnodella sconfitta. È una sconfitta perché chi porta avanti un discorso umanita-rio che vuole essere anche di relazione non ha spazio in postconflitti comequello iracheno. La diplomazia dal “basso” che la società italiana ha espressocon forza e coraggio durante gli anni Novanta nella ex Iugoslavia non ha al-cun posto in luoghi dove la violenza e le logiche militari hanno il sopravven-to. Non c’è posto per espressioni non embedded, anche se il loro peso relativoè tendenzialmente insignificante.

La logica paradossale della nuova guerra globale, tuttavia, potrebbe an-che sortire l’effetto di ripoliticizzare il progetto della cooperazione civile in-ternazionale, come si può inferire dalle parole di Domenico Chirico:

Si può ipotizzare la fine del percorso che ha visto molte Ong farsi cooptare da gover-ni, eserciti e autorità varie, non comunicare la propria alterità ma rincorrere finanzia-menti in giro per il mondo, alimentare il sospetto che molte strutture della coopera-zione internazionale siano agenzie di mediazione tra soldi e bisogni, ben specializzatee affidabili per i donatori dell’Onu e della Commissione europea. In realtà questa èuna speranza, l’autonomia, a mio parere, si conquista quando sono chiari e coerentigli scopi del proprio lavoro e non quando l’unico fine per una Ong è il buon funziona-mento aziendale.Infine gli eventi iracheni rappresentano un’opportunità che è generalizzabile. L’usci-ta delle Ong internazionali dal paese ha reso protagoniste le organizzazione locali.Molte di queste naturalmente sono nate anche in funzione dei finanziamenti dispo-nibili, ma molte altre stanno diventando le protagoniste del discorso politico e socia-le iracheno, ed in ogni caso non sono mediate da altri nella rappresentazione delle lo-ro esigenze. Penso sia giusto così e chi è sinceramente interessato a relazionarsi conquel paese si deve adoperare per stabilire saldi legami con le associazioni irachene.

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recensioni�

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�Martin Shaw, La rivoluzione incompiu-ta. Democrazia e stato nell’era dellaglobalità, Università Bocconi editore,Milano 2004.

Michael Mann, L’impero impotente,Piemme, Casale Monferrato 2004.

Nella mole pressoché infinita di lettera-tura sulla globalizzazione che si è rove-sciata sugli scaffali di librerie e bibliote-che negli ultimi anni, lo stato è un sog-getto che non ha attirato particolari at-tenzioni. In genere, l’analisi tende a ri-volgersi alle dinamiche economiche, fi-nanziarie o comunicative, per stabilireil livello in cui i flussi planetari di mer-ci, capitali e informazioni abbiano con-dotto a una perdita delle prerogativesovrane di quella forma di spazialità po-litica, lo stato, intorno a cui si è struttu-rata la modernità. In tali prospettiva, isoggetti statuali appaiono come attoritutto sommato passivi, attraversati dadinamiche che si rivelano incapaci digovernare e costretti a cedere il passo,più o meno volontariamente, ad altricentri di potere. Altri autori, da parte

loro, si impegnano per sottolineare lasignificatività del ruolo ancora svolto dafrontiere e contesti statuali, allo scopodi mettere in discussione gli assunti piùcomunemente accettati riguardo allaglobalizzazione. Entrambi gli approcci,tuttavia, al di là delle differenze di me-rito, tendono ad assumere una conce-zione statica dello stato, nella formadello stato-nazione westfaliano, trala-sciando di portare l’interrogazione sullemutazioni che hanno profondamentemodificato la statualità negli ultimi de-cenni. Anche un concetto come quellodi governance, parola magica a cui si ri-corre assai spesso per invocare il nuovoorizzonte di formazione della decisionepolitica nello scenario globale spessoprescinde da ogni considerazione ri-guardo alla struttura dei soggetti legitti-mati, a differenti livelli, all’esercizio del-la violenza e della coercizione.A rendere particolarmente interessanteil volume dello studioso inglese MartinShaw Theory of the Global State, recen-temente tradotto in Italia con il titolo Larivoluzione incompiuta. Democrazia estato nell’era della globalità è proprio

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l’esplicito proposito di proporre unatrattazione delle specificità assunte dallastatualità nel nostro tempo a partire dal-la premessa secondo cui i processi diglobalizzazione avrebbero condotto nona un logoramento ma a una ricostruzio-ne e ad una ristrutturazione della formastato. A parere dello studioso inglese,infatti, “non è affatto vero che siamo en-trati in un ordine post-stato, o che la go-vernance multicentrata abbia rimpiazza-to o stia per rimpiazzare lo stato, la teo-ria globale ha fallito soprattutto nellasua incapacità di comprendere le muta-zioni e il permanere del potere dello sta-to nel cambiamento globale”.Nella prima parte del volume MartinShaw sottolinea le sfide che la globalitàlancia alle categorie e ai concetti che sisono forgiati nella cornice del mondonazionale-internazionale, in cui lo spa-zio dello stato nazione appare come ilcontesto più ovvio delle relazioni socia-li, anche quando fuoriescono dai confi-ni e acquisiscono lo statuto di inter-na-zionali. La modernità appare segnata inproposito da una costante tensione frauniversale e particolare, in cui i due ter-mini si declinerebbero in termini di na-zionalità e internazionalità. La dichiara-zione dei diritti dell’uomo e del cittadi-no risulta in proposito paradigmatica: sienunciano diritti di carattere universa-le, spettanti all’uomo in quanto tale, maimmediatamente si pone l’appartenenzaalla “comunità nazionale”, il cittadino,come necessario criterio al loro accesso.Le stesse scienze sociali appaiono per-corse da un’analoga schizofrenia, il loroconcetto chiave, quello di società, è in-fatti egualmente duplice: può alludere aun significato universale oppure riferir-si alle relazioni perimetrate all’internoconfini politici (la società tedesca ofrancese). In tale contesto, si è così af-fermata la tendenza a fare coincidere lefrontiere politiche con quelle sociali as-sumendo come oggetti analitici autoevi-denti l’economia o la società nazionale.Anche il marxismo, da questo punto di

vista, pur definendo il proprio orizzon-te a partire da concetti risolutamentetrasversali rispetto alle partizioni nazio-nali, capitale e classe, nelle sue espres-sioni concrete assume la dimensioneparticolarisitica in termini sia politico-organizzativi sia analitici, affidando al-l’internazionalismo la realizzazione del-la dimensione universalistica. Il retag-gio di simili tradizioni è ovviamente as-sai forte, e inerzialmente spinge ad ap-plicare vecchi schemi In proposito sipotrebbe parlare di un vero e proprio“nazionalismo metodologico”, per ilquale isolare i singoli contesti nazionalicostituisce un’operazione scontata e ov-via. Tali limiti si possono cogliere anco-ra oggi, in particolare nella letteraturasulle relazioni internazionali, in cui con-cetti assai problematici come “interessenazionale” vengono spesso utilizzati inmaniera disinvolta, come si trattasse direaltà autoevidenti, in uno scenario incui gli interessi concorrenti che si fron-teggiano all’interno delle frontiere ma-gicamente si ricompongono nel mo-mento in cui lo stato, agendo come unasorta di individuo, si presenta sul pro-scenio internazionale.Altro rilievo condivisibile che MartinShaw muove alle scienze sociali e il lorospiccato disinteresse per la guerra, spes-so considerata come un dato accidentalee catastrofico estraneo alla normalitàdelle relazioni sociali. Si tratta di un’im-postazione che si potrebbe fare risalireaddirittura al copywriter del termine“sociologia” Auguste Compte, per ilquale la guerra – costituendo un retag-gio della società dei guerrieri e dei sa-cerdoti destinato a lasciare il campo adaltre forme di regolazione del conflittocon la progressiva affermazione dellasocietà degli industriali e degli scienziati– non rappresentava certo un tema me-ritevole dell’interesse di una scienza po-sitiva orientata al futuro. Successiva-mente, anche autori assai meno incliniall’ottimismo progressista come MaxWeber ed Émile Durkheim, nonostante

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gli eventi bellici avessero profondamen-te segnato le loro biografie, non hannoriservato particolari attenzioni alla guer-ra. Nel volume di Martin Shaw, tuttavia,la condivisibile enunciazione dell’esi-genza di integrare a pieno titolo le dina-miche belliche nell’analisi sociologica epolitologica non trova una compiutarealizzazione e resta spesso limitata alladichiarazione di intenti o a qualche ge-nerico riferimento a Clausewitz. In La rivoluzione incompiuta vengonoindividuate tre fasi di organizzazionedella statualità. La prima forma è quelladello stato nazionale-internazionale, incui i “contenitori di potere confinato”,sovrani all’interno delle proprie frontie-re, si contrappongono e legittimano re-ciprocamente nello spazio “anarchico”delle relazioni internazionali. A tal pro-posito, Shaw sottolinea opportunamen-te come l’immagine di un sistema inter-nazionale centrato sullo stato nazionesia comunque per molti versi fuorviantein quanto i soggetti che lo strutturavanoerano per la maggior parte imperi, do-tati di propaggini coloniali più o menoestese. Tale situazione viene profonda-mente modificata dagli esiti della Se-conda guerra mondiale, che oltre a in-nestare i processi di decolonizzazioneconducono all’emergere dell’ordine bi-polare. Intorno alle due superpotenze sistrutturano due blocchi all’interno deiquali gli stati procedono a una ridefini-zione delle loro prerogative. Shaw parlain proposito di stato blocco in quanto siha a che fare non con semplici alleanzema con livelli crescenti di integrazione,militari ma anche politici, economici esociali. Nato e Seato sottraggano ai sin-goli stati le funzioni di difesa mentre i-stituzioni quali il Fondo monetario in-ternazionale, la Banca mondiale, l’Oc-se, il Gatt, nominalmente mondiali, main realtà espressione del blocco occi-dentale, procedono a fissare criteri e i-stanze di governo delle dinamiche eco-nomiche che eccedono le specifiche a-ree di sovranità. Nell’analisi dello stato

blocco emerge uno dei maggiori limitidell’approccio di Shaw: la sottovaluta-zione del ruolo della potenza egemone,che si colloca in una posizione ambi-gua, allo stesso tempo all’interno e all’e-sterno del complesso reticolo di istitu-zionalizzazione sovranazionale prima“occidentale” poi globale. All’internodello stato blocco, al di là dei diversi li-velli di integrazione, si colloca infatti unsoggetto, gli Stati uniti, che mantienecon risolutezza l’integrità delle proprieprerogative “sovrane”.La fine della Guerra fredda, secondoShaw aprirebbe la strada all’emergeredello stato globale attraverso la progres-siva integrazione allo stato blocco occi-dentale, in forme diverse, di un crescen-te numero di stati e il crescente irraggia-mento dell’azione delle organizzazioni eagenzie internazionali. Ciò non compor-ta una sparizione degli stati, che anzi ne-gli ultimi anni sono proliferati. Diversa-mente l’azione dello stato globale divie-ne fattore cruciale della riproduzionedelle forme statali, che in riferimento aesso definiscono i propri livelli di inter-vento. Lo studioso inglese è ovviamenteconsapevole di limiti e squilibri che ca-ratterizzano i processi di integrazionedello stato globale. In proposito parla di“rivoluzione incompiuta”, individuandotuttavia nel conglomerato globale l’uni-co orizzonte politico lungo il quale divie-ne possibile l’articolazione del progettodi una democrazia cosmopolita. In talsenso, la prospettiva di Shaw, che pre-senta diverse analogie con le proposteteoriche di autori quali David Held eAnthony McGrew, appare come un inte-ressante tentativo di tradurre in terminisociologici molti degli schemi che fannocapo a quello che Danilo Zolo definisce“globalismo giuridico”.Rispetto agli scenari evocati da La rivo-luzione incompiuta, significativo risultail contrasto con le tesi espresse di re-cente da Michael Mann, sociologo an-glo-statunitense autore di un’importan-te sintesi sulle forme di esercizio del po-

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tere nella modernità, The Sources of So-cial Power (di cui sono usciti i primidue volumi, mentre è annunciata l’im-minente uscita del terzo, dedicato allaglobalizzazione) che senza dubbio rap-presenta un riferimento teorico fonda-mentale per Martin Shaw, specie perquanto riguarda la sottolineatura dellacentralità della guerra e delle questionimilitari nella definizione delle strutturepolitiche e delle preponderanze socialie il tentativo di superamento, in chiavestorico-sociologica, delle concettualiz-zazioni relative allo stato di improntagiuridico-filosofica. Mann, tuttavia, co-me mostra il suo più recente volume In-coherent Empire, proposto in Italia conil titolo L’impero impotente, chiamato aesprimersi sulla contemporaneità nonindulge in valutazioni ottimistiche circail progressivo consolidamento di unostato globale e di una democrazia co-smopolita ma parla di imperialismo a-mericano. O meglio di militarismo,confrontando con le esperienze impe-rialiste del passato (Roma, Inghilterra eFrancia) la politica di potenza statuni-tense conseguente alla fine della Guerrafredda. A emergere è il fatto che la su-perpotenza non risulta in grado di eser-citare un reale ruolo egemonico su scalaplanetaria. La preponderanza bellica atal fine non risulta sufficiente L’incapa-cità politica di accompagnare la presen-za militare a stabili forme di controllodel territorio conduce infatti alla diffu-sione di un reticolo di presidi quasicompletamente isolati, fisicamente epoliticamente, dai contesti territoriali incui sono insediati. Impero incoerente,dunque, come recita il titolo originaledell’opera, in quanto incapace di tra-durre il proprio potenziale militare nel-la stabilizzazione di strutture di con-trollo del territorio o nella promozionedi forme negoziali di risoluzione delleturbolenze regionali. A fronte di ciò lacondivisibile domanda che si poneMann è la seguente: “Lo stato ‘occiden-tale’ e ‘globale’ di Shaw andrà in fran-

tumi sotto la pressione dell’unilaterali-smo americano?”.

Massimiliano Guareschi

Anders Stephanson, Destino manifesto.L’espansionismo americano e l’imperodel Bene, Feltrinelli, Milano 2004.

Mano destra sul cuore. Ogni mattina,nelle scuole degli Stati uniti, si canta ladelicata tensione di “America the beau-tiful”, s’intonano le cadenze stridenti di“Hail to the Chief” e di “The Stars andStripes forever”. Una nuova giornata èspuntata alle porte dell’Impero e il pre-sidente Bush ringrazia dio aprendo lasua bibbia su un versetto del libro del-l’Apocalisse. L’ouverture mattutina, intutta la sua complessa partitura simbo-lica, viene spiegata nota per nota in De-stino manifesto. L’espansionismo ameri-cano e l’Impero del Bene, un volume diAnders Stephanson, svedese di originema di formazione inglese che, comespesso accade negli ambienti cosmopo-liti della ricerca, ha scelto di insegnarestoria negli Stati uniti, alla Columbia U-niversity di New York. Ma c’è stato un giorno, un anno, unaguerra in cui la celebrazione mattutinadel “destino manifesto”, un’espressio-ne coniata a metà degli anni quarantadel XIX secolo dall’imprenditore JohnO’Sullivan per definire la missione de-gli Stati uniti di espandersi sul conti-nente, cambiò di senso. Non era piùsoltanto il rito millenaristico per ringra-ziare la “provvidenza” per il ruolomondiale assegnato alla nazione, un pa-triottismo che ha ispirato tanto Alexan-der Hamilton quanto Martin LutherKing, ma annunciava il rombo dei can-noni. Era l’inizio del 1898 e il futuropresidente degli Stati uniti Teddy Roo-sevelt saliva a bordo di una lancia dellamarina diretta a Cuba per dare batta-glia agli spagnoli. Il focoso neocolon-nello dei Rough Riders, un reggimentodi cavalleria costituito da cowboy e cac-

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ciatori della costa occidentale e da atletie studenti dei college di quella orienta-le, non solo trovò appagante sparare auno spagnolo ma, pochi anni dopo, a-vrebbe usato la stessa retorica patriotti-ca evocando la missione “civilizzatrice”degli Stati uniti nei confronti dei popoli“non civilizzati”, abbandonati alla nottedel dispotismo e della barbarie cultura-le, in nome del destino manifesto dellapropria nazione. Non era la prima volta che l’imperiali-smo americano si esprimeva nel teatromondiale, l’annessione delle isoleHawaii e quella mancata delle Filippineerano state le sue manifestazioni piùfragorose, ma solo allora diventava pro-gramma di governo all’interno di unapolitica di potenza che nulla aveva dainvidiare a quella degli stati europei.Celebre era stata la battaglia del presi-dente Grover Cleveland per distinguerel’imperialismo “europeo”, tipicamentecolonialista ed “estraneo alla tempra eal genio di questo popolo libero e ma-gnanimo” e opposto al sentimento, alpensiero e allo scopo dell’America”,destinato a “diffondere la pace e la giu-stizia nel mondo”. Ma ugualmente de-terminante fu la mediazione geopoliticadi Teddy Roosevelt che trasportò la vo-lontà egemonica dei suoi predecessoriall’interno dello spazio geografico e, al-lo stesso tempo, la ridefinì all’internodell’espansione dei mercati agricoli emanifatturieri mondiali nei quali gliStati uniti erano diventati leader alla fi-ne del XIX secolo. La crescita del paese dell’aquila calva a-vrebbe ben presto travolto l’egemoniabritannica che dominava all’epoca ilmercato mondiale. Intorno al 1850, in-fatti, al momento della nascita del mer-cato mondiale, gli Stati uniti diventava-no leader sul mercato delle macchineper la produzione su grande scala di ar-mi di piccolo calibro. Era il primo gra-dino che avrebbe portato il paese neiprimi anni del secolo successivo alla co-struzione di un warfare su scala mon-

diale. Dapprima potenza regionale, li-mitata dall’egemonia britannica, il gi-gante americano conquistò posizioni acavallo della Prima guerra mondialequando, nel 1910, giunse al controllodel 31% delle riserve auree mondialimentre, dopo la guerra, ripagò il debitocon l’Inghilterra, diventandone a suavolta creditore. In meno di un decennioil vecchio sistema monetario mondialefu schiacciato dalla spinta del capitaleamericano. L’espansione industriale e finanziariadel capitale americano si accompagnavaalla definizione di un’egemonia cultura-le ispirata a una doppia matrice: quelladel messianesimo protestante e quelladel determinismo positivistico. La pri-ma matrice, precisa Stephanson, deriva-va dal tema biblico del popolo elettoche uno dei giganti della politica ameri-cana, Thomas Jefferson, con il consen-so di John Adams e Benjamin Franklin,inserì nell’estate del 1776 nella Costitu-zione. Da allora, quello dell’Apocallisseè probabilmente il libro della Bibbiapiù letto dai presidenti americani: rac-conta dello scontro tra le forze del Benee quelle del Male e si conclude con lavittoria finale del Bene e il ritorno delMessia. Ciò rende la narrazione godibi-le per il grande pubblico, soprattuttoquando interseca la storia americanacome non può che essere con l’ultimafase, quella determinante, prima del-l’avvento del “nuovo millennio”: il cieloscenderà sulla terra, gli uomini sarannogiudicati secondo il loro merito e verràistituita l’ultima epoca pacifica primadella fine dei tempi, lo “Shabbat perpe-tuo” una metafora protestante per an-nunciare quello che Francis Fukuyamaavrebbe molto più tardi definito “la fi-ne della storia”. Nel XIX secolo il messianesimo prote-stante dei coloni anglosassoni giunti sulnuovo continente tra il 1620 e il 1660veniva innestato sulla pianta del socio-biologismo di Herbert Spencer, un exingegnere delle ferrovie che divenne

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l’intellettuale di lingua inglese più in-fluente della seconda metà dell’Otto-cento. Le teorie spenceriane affermava-no “la superiorità dei più idonei” nellalotta per la sopravvivenza dei popoli,una lotta che avrebbe portato l’umanitàa uscire dallo stato della barbarie e del-l’anarchia politica per giungere alla ci-viltà. Spencer aggiungeva che solo il ca-pitalismo laissez-faire, una deregola-mentazione selvaggia delle strutture so-ciali a danno delle classi più povere e innome della razionalità dell’impresa, a-vrebbe dato la spinta per trasformare lalotta per la sopravvivenza in una pacifi-ca competizione tra le nazioni. All’alba del nuovo secolo, quello che a-vrebbe sancito la realizzazione dellaprofezia del “destino manifesto”, la su-premazia economica statunitense si ac-cingeva a diventare potere egemonicomondiale partendo dal connubio tra ilsocio-biologismo di Spencer, il capitali-smo liberticida e il messianesimo prote-stante. Accanto alla nuova, e rivoluzio-naria, organizzazione fordista del lavo-ro, infatti, l’americanismo diffondeva alivello mondiale anche i suoi contenutisociali di cui Stephanson non manca diricostruirne la genealogia intellettuale:filosofi come John Burgess, esperto del-la teoria dello Stato di Hegel e profes-sore di legge di Theodore Roosevelt,storici militari come Alfred T. Mahan,tutti affermavano il carattere razziale edi classe del dominio dei bianchi suipopoli “altri”, non importa se entro iconfini nazionali o sullo scenario mon-diale. Fu poi la visione utopistica di Woo-drow Wilson della Lega delle nazioni esoprattutto quella di Franklin D. Roo-sevelt a chiarire definitivamente la na-tura della nuova egemonia americana,fondandola su basi egemoniche ispiratea un contesto culturale meno imbaraz-zante: il liberalismo politico inglese cheuniva il tema della predisposizione cri-stiana della nazione americana conquello della sicurezza collettiva, fonda-

mentale per creare con Alfred Kahn,nel secondo dopoguerra, gli strumentidella Guerra fredda contro il comuni-smo, in primo luogo la “politica delcontenimento”. Una volta sconfitta l’e-gemonia britannica, scriveva Karl Po-lanyi in La grande trasformazione, cade-va infatti il miraggio liberoscambista,secondo il quale il mercato poteva au-toregolarsi portandosi dietro l’automa-tismo della base aurea e il libero scam-bio internazionale. Sconfitti poi i nazi-sti, il mercato capitalistico postbellicodivenne un prodotto politico dell’ege-monia americana, costruito apposita-mente da una decisione politica consa-pevole. Ciò consentì di aggirare i pro-blemi strutturali del mercato mondialebritannico, inseparabile dalla dipen-denza del centro dominante dal com-mercio estero, dall’influenza pervasivadelle sue istituzioni commerciali e fi-nanziarie, dalla fondamentale dipen-denza tra le politiche economiche na-zionali e quelle utili all’integrazione e-conomica mondiale. L’estensione del ruolo del governo ame-ricano nella politica mondiale iniziò aincidere profondamente sul bilancio fe-derale. Il Fair Deal, teorizzato sin dalsettembre 1945 da Truman, andava nel-la stessa direzione del New Deal diRoosevelt: uno stato sociale dispendio-so che ostacolava lo sviluppo dell’ege-monia americana, assorbendo una quo-ta troppo alta di risorse finanziarie. L’i-dea di un governo federale forte, capa-ce di una politica fiscale sufficiente-mente redistributiva, diventava incom-patibile con una politica estera moltoaggressiva in nome degli interessi ege-monici americani. La sicurezza socialeandava così a compromettere quella in-ternazionale, rinnovando il classicoscontro tra protezionisti e liberoscam-bisti. Truman cambiò presto idea e sischierò con questi ultimi, concedendopriorità agli interessi dell’egemonia a-mericana, finanziando il piano Mar-shall, oltre che la nascita della Nato nel

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1949, avviandosi così verso il conflittopluridecennale con l’Unione sovietica. In quel quinquennio fu necessario offri-re al Congresso e all’opinione pubblicauna rappresentazione semplificata dellanuova politica strategica. “L’Unione so-vietica venne perciò equiparata all’e-spansionismo nazista per mezzo dellacategoria concettuale del totalitarismo.Questa visione deliberatamente allarmi-stica culminava nella consueta esorta-zione a scegliere il Bene, sfidando il de-stino della storia” scrive Stephanson. Lacompetizione per il potere globale ba-sata sulla proliferazione delle armi ato-miche, e sulle politiche di deterrenzatra le nuove potenze, non ultima la Ci-na, costituì la principale infrastrutturapolitica del tempo. L’idea imperiale del-la democrazia americana nasceva dun-que da un’esigenza strategica: quella dicontenere l’antagonista globale sovieti-co all’indomani della fine della Secondaguerra mondiale. La democrazia ameri-cana intesa come fondamento e difesadella civiltà occidentale, sostenuta dal-l’ideologia del libero scambio e delmercato mondiale, contro il totalitari-smo comunista fondato sul socialismodi stato e l’economia pianificata. Era questo lo scenario politico dal qua-le scaturiva la “politica del contenimen-to”, una formula di George Kennan cheha avuto una considerevole fortuna nel-l’ambito della politica e dello studiodelle relazioni internazionali durante laGuerra fredda. Testimone privilegiatodel dibattito che si svolgeva, tra il 1947e la fine del 1949, ai vertici del potere a-mericano, al momento della creazionedella cosiddetta “dottrina Truman”,Kennan deve la sua fama a un saggioapparso sulla rivista “Foreign Affairs”nel luglio 1947. Pur riaffermando i con-cetti sui quali si era a lungo soffermatonell’anno precedente, Kennan assume-va la politica del contenimento come o-biettivo della “grand national strategy”americana sin dai primi anni Quaranta,quando gli Stati uniti erano ancora al-

leati con l’Urss nella guerra antinazi-fa-scista. Originariamente ideata e appli-cata alla politica di equilibrio in Euro-pa, la formulazione basilare del conte-nimento veniva estesa fino a compren-dere il perimetro della Cina e dell’U-nione sovietica. L’idea di Kennan era quella di difender-si dalla presenza sovietica in Europa econtrastava significativamente con laprospettiva espressa dalla Casa bianca.Il 28 aprile 1947, infatti, in una preoc-cupata dichiarazione alla radio, il segre-tario di Stato, generale Marshall, affer-mava: “La ripresa dell’Europa è statamolto più lenta. Forze di disintegrazio-ne stanno diventando evidenti, il pa-ziente sta morendo mentre i dottori di-scutono”. La dottrina Truman era laversione offensiva dell’intuizione diKennan e teorizzava una nuova guerra:quella ispirata dallo scontro tra “popoliliberi” e “regimi totalitari”. Gli Stati u-niti avrebbero dovuto vincerla perché,sosteneva retoricamente Truman, “i po-poli liberi del mondo guardano a noiper mantenere le loro libertà”. Insoddi-sfatto della volgarizzazione della suateoria, di cui si preferiva accentuare illato militare nel contenimento della“minaccia” sovietica all’interno delquadrante euro-asiatico, Kennan ci te-neva a precisare che tale risultato sareb-be stato ugualmente conseguito graziealla creazione di un sistema politico edeconomico stabile e prospero. Era l’in-tuizione di una strategia complessa,centrata sul libero scambio e sul siste-ma capitalistico, che avrebbe creato neimesi successivi istituzioni finanziariecome il Fondo monetario internaziona-le e la Banca mondiale, ma anche il Pia-no Marshall. La svolta imperiale impressa dalla poli-tica del “contenimento” e dalla “dottri-na Truman” portò gli Stati uniti ad ab-bandonare la tradizione secolare isola-zionista e a pensare l’Europa come ilteatro nel quale i sovietici avrebberodovuto essere “contenuti”. Emergeva

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in maniera netta il paradosso costituti-vo dell’americanismo: quella americanaè una civiltà nella quale la vita, la li-bertà, la ricerca della felicità e la produ-zione di massa non sono distinguibili.Per difendere il proprio livello di be-nessere, la propria sicurezza sociale e ilproprio stile di vita sul mercato mon-diale, gli Stati uniti avrebbero dovutoassumere un profilo aggressivo in poli-tica estera.Nel libro di Stephanson forte è il sensodella continuità nella costituzione del-l’egemonia imperiale. Se questa conti-nuità è indiscutibile, almeno nel secon-do dopoguerra, crediamo sia anchesoggetta a un certo numero di fratture ediscontinuità: il Vietnam, la rivoluzioneneoliberista di Reagan e la dottrina del-la global security inaugurata da GeorgeBush padre dopo la prima Guerra delGolfo. Queste fratture di natura essen-zialmente politica incidono sulla tenutapiù generale dell’egemonia, al punto dacondizionarne pesantemente l’equili-brio. La guerra contro il terrorismo i-naugurata da Bush figlio dopo l’11 set-tembre non è solo l’esplicitazione diuna linea autoritaria presente sin dalleorigini della formazione dell’egemonia,ma anche il suo punto di non ritorno. Illibro di Stephanson ha il merito, noncerto trascurabile, di spiegare la svoltaneoimperiale statunitense in termini diuna crisi del suo consenso. Con l’ultimapresidenza, infatti, i limiti dell’egemo-nia americana sono sotto gli occhi ditutti: alla grande repressione del dissen-so interno avvenuto negli anni intornoalla Prima e alla Seconda seconda guer-ra mondiale, con la “guerra al terrori-smo” è subentrato oggi il drammaticoaumento della povertà di massa. E il ri-chiamo ideale a una democrazia mon-diale governata da un nucleo normativoa livello internazionale per sua naturarigido e inapplicabile su una scala cosìvasta da parte di un’autorità, quella del-l’Onu, della Banca Mondiale e del Fon-do Monetario Internazionale che non

riescono più a tenere saldo l’ordine po-litico mondiale. È dal 1991, dal momento del suo massi-mo fulgore, che l’egemonia americanasconta paradossalmente la crisi più ge-nerale del liberalismo politico. Essa,conclude Stephanson, non ha più glistrumenti utili per garantirsi la legitti-mazione, troppo deboli e comunquenon garantiste sono le sue risposte alleminoranze che chiedono il riconosci-mento dei diritti, inesistenti sono quelleper i popoli che pretendono pace, li-bertà e democrazia. Una crisi che nonsarà certo risolta ricorrendo alle chiac-chiere sul match tra il Bene e il Male ocamminando sulle ginocchia e invocan-do l’avvento del Nuovo millennio dellalibertà.

Roberto Ciccarelli

Samuel Huntington, La nuova Ameri-ca. Le sfide della società multiculturale,Garzanti, Milano 2005.

O lui o noi, ma soprattutto l’America, isuoi valori e la sua sicurezza. Nonostan-te la sconfitta elettorale alle presiden-ziali del novembre 2004, il ticket Kerry-Edwards ha centrato l’obiettivo: l’Ame-rica “è in guerra contro un nemico chenon avevamo mai conosciuto prima” e idemocratici sono pronti a prendere ilbastone del comando di “una nazionein guerra” contro il terrorismo. Un’esi-bizione di patriottismo che ha prodottoun buon effetto politico nella competi-zione con Bush. Perché gli americanisono un popolo patriottico e nell’ulti-mo quarto di secolo hanno creduto chei democratici non lo fossero altrettanto,almeno nella stessa maniera schietta edappassionata. Kerry e Edwards hannocosì dimostrato di non avere perduto lavirtù guerriera, anzi ne hanno profuso avolontà, con richiami all’identità ameri-cana, fondata sui “valori comuni”. I va-lori, una parola molto popolare in poli-tica, una stampella che sorregge i di-

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scorsi elettorali e le parti eroiche dellebiografie dei candidati. Ma è una paro-la a dir poco vaga, buona per tutte lestagioni, l’equivalente verbale del tofu:significa tutto quello che si vuole signi-fichi. Per i repubblicani è sinonimo di“non essere squinternato come un hyp-pie”, mentre per i democratici non si ri-ferisce necessariamente alla trinità con-servatrice (Dio, patria e pistole). Pertradizione, quello dei valori è un temamolto caldo per i repubblicani, ma i de-mocratici si sono sintonizzati sulla stes-sa lunghezza d’onda.Ricorrere all’identità di una nazione inguerra, ai suoi valori, per essere ricono-scibili sul mercato politico, allora. Mal’idea che quella statunitense sia un’i-dentità in qualche modo limitata ad al-cuni salienti caratteri culturali tradizio-nali e ontologici va ben oltre le ragionidi una competizione elettorale e segueun dibattito ormai consolidato. L’ulti-mo volume di Samuel Huntington Lanuova America. Le sfide della societàmulticulturale costituisce un’occasioneconsiderevole per comprendere i risvol-ti, e le trappole, di una cultura di guerrache va sviluppandosi da molto tempoanche in ambiente accademico.Due sono i momenti della “rinascita”dell’identità americana, scrive Hunting-ton: la fine della Guerra fredda ha pri-vato gli Stati uniti di un nemico perico-loso, l’“impero del male” contro il qua-le definire la propria identità. L’11 set-tembre le ha invece fornito la certezzadella direzione verso la quale procede-re, consolidare cioè l’identità nazionalecontro tutte le altre, subnazionali, tran-snazionali, binazionali, che si sono af-fermate fin dalle battaglie per i diritticivili, linguistici e multiculturali delleminoranze negli anni Sessanta e Settan-ta “corrompendo” il suo nucleo origi-nario, quello fondato sugli imperatividella supremazia anglosassone (wasp):razza bianca, cultura liberale (Locke eAdam Smith) e, cosa più importante,religione protestante. È questo il “nu-

cleo” del credo americano: etica prote-stante, culto del lavoro e della pro-prietà, e infine capitalismo innestatosulle radici del rule of law britannico.Lingua ufficiale: l’inglese parlato a Yalee Harvard.Quella americana, avverte Huntington,non è mai stata un’identità razziale, maculturale, non ha mai fatto riferimentoa una comunità originaria territoriale,sul modello “sangue e suolo” tipico delnazionalismo tedesco sconfitto nella Se-conda guerra mondiale. Diversamente,essa si richiama a un nazionalismo “ci-vico e liberale”, ispirato ai principi delliberalismo politico inglese importatocon la prima ondata colonizzatrice pro-veniente dalle coste britanniche. È que-sta la differenza tra la cultura wasp etutte quelle giunte con le successive on-date migratorie. Ciò ha permesso la ma-turazione presso gli americani bianchi eprotestanti, aggiunge Huntington, delsenso di superiorità che si ritiene con-naturato a una nazione “eccezionale” e“universale”, destinata a essere egemo-ne per i prossimi secoli.La missione imperiale degli Stati unitiprende in queste pagine le sembianze diun’identità culturale e religiosa in guer-ra non soltanto con i suoi due potenzia-li nemici, la Cina e il mondo arabo-isla-mico, ma anche con le numerose “sub-culture” presenti sul so territorio nazio-nale (nera, cinese, latina). Il nucleo fon-dante dell’egemonia, quella che Hun-tington definisce la “religione civile a-mericana”, è infatti composto da quat-tro elementi: un protestantesimo senzadio, ma con un “Essere supremo”, il“Bene”, a capo dell’intero edificio co-stituzionale; un ethos sociale impronta-to alla glorificazione del lavoro e dellaproprietà privata; la religione patriotti-ca e infine l’idea, propagandata sin daitempi di Lincoln, dell’elezione divinadegli Stati uniti. La coscienza imperialeamericana, quindi, non si caratterizzaper alcun particolare attaccamento, oidentificazione, con un luogo, ma si ri-

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volge al mondo, si sente nel mondo, eda ciò trae il suo intrinseco universali-smo e cosmopolitismo. In secondoluogo, questa coscienza necessita di unnemico, interno o esterno, per radicar-si. L’“altro” è stato di volta in volta i-dentificato nel vecchio impero colo-niale inglese, nei nativi americani (an-che se Huntington sembra non ricor-darli affatto), nel comunismo, oggi ne-gli “stati canaglia”. L’“altro” è quindiun elemento costitutivo dell’identità edella vocazione imperiale americana.A differenza del precedente Lo scontrodelle civiltà, dove l’impero era impe-gnato insieme all’intera “civiltà occi-dentale” (attraverso la preziosa protesidella Nato) in una lotta mortale controi suoi antagonisti culturali e ideologici,in questo volume Huntington si soffer-ma sul conflitto che ha segnato dall’in-terno l’identità americana nel secondodopoguerra. Fin dal Civil Rights Actdel 1964 e dal Voting Rights Act del1965, infatti, potenti movimenti di con-testazione hanno sfidato l’egemonia wa-sp a favore di un’estensione, e di unarelativa snaturalizzazione, del “concettodi America”, a favore della maggioran-za della popolazione composta per lopiù da neri e latinos che, pur essendonati negli Stati uniti, erano esclusi dallafruizione dei diritti civili. Scrive Hun-tington: “L’America non era per lorouna comunità nazionale di individuiche condividono una cultura, una storiae un credo comuni, ma un conglomera-to di razze, etnie e culture subnazionalidifferenti, nelle quali gli individui veni-vano definiti dalla loro appartenenza algruppo, non a una comune naziona-lità”. La crescita di queste identità sub-nazionali ha preceduto la fine dellaGuerra fredda e ha trasformato l’origi-nario nucleo monoculturale in un mel-ting pot che ha favorito la crescita delleaffermative actions, oltre che dell’edu-cazione bilingue, facendo dell’inglesesolo una delle lingue parlate negli Statiuniti, e non quella principale.

Per Huntington, dopo l’11 settembre imovimenti per i diritti civili hanno e-saurito la loro funzione. È iniziata infat-ti l’epoca in cui i popoli verranno defi-niti principalmente in base alla loro cul-tura e alla loro religione, e non a partiredalla rivendicazione di principi politicicome la libertà individuale o l’ugua-glianza. Il ritorno a forme integraliste dicristianesimo, assai attive nella societàcivile americana grazie ad associazionidi ispirazione religiosa impegnate ad af-frontare i problemi legati alla droga, al-la criminalità minorile, alle ragazze ma-dri, nonché la pervasiva retorica pseu-doreligiosa usata da Bush rappresenta ilsegnale che la componente religiosadell’identità culturale sta tornando agalla in vista dello scontro con i militan-ti islamici e il nazionalismo cinese. Aquesto punto Huntington prende le di-stanze sia dal cosmopolitismo dei libe-ral sia dall’imperialismo dei neo-conser-vative protetti sotto l’ala di Bush. I pri-mi, infatti, spingono l’egemonia ameri-cana ad abbracciare il mondo, condivi-dendo con esso la propria identità cul-turale, i principi politici ispirati al libe-ralismo politico. I secondi cercano alcontrario di imporre al mondo la vo-lontà politica degli Stati uniti, al fine diaffermarne i valori presso popoli chenon hanno il minimo desiderio di di-ventare americani e di condividere ilnucleo protestante e anglosassone dellaloro religiosità e cultura.Cosmopolitismo e imperialismo tenta-no in maniera differente, ma conver-gente, di ridurre o addirittura eliminarele differenze sociali, politiche e culturalitra l’egemonia americana e le altre so-cietà. Quello di Huntington è invece unapproccio nazionalistico che tende asottolineare ciò che distingue gli Statiuniti dalle altre società: la sua religio-sità. Storicamente, aggiunge Hunting-ton, religione e nazionalismo sono an-dati a braccetto: “Parti significative del-le élite americane sono favorevoli al fat-to che l’America diventi una società co-

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smopolita. Altre invece desiderano cheassuma un ruolo imperiale. La maggiorparte del popolo americano si affida al-l’alternativa nazionalistica per preserva-re e potenziare l’identità statunitenseche ha resistito per secoli”. A ben guar-dare, la soluzione proposta da Hunting-ton non esclude per principio l’adozio-ne della strategia cosmopolita o impe-rialista. Si può governare il mondo at-traverso il ricorso a una democrazia ditipo multiculturale e a una governanceeconomica senza per questo rinunciarealla prerogativa nazionalistica. In ognicaso, tutte e tre le opzioni mirano a di-fendere l’egemonia americana propo-nendo soluzioni ampiamente conver-genti sulla base dell’adesione a un’ana-loga prospettiva apocalittica, e sostan-zialmente falsa, che evoca scenari fattidi scontro tra le civiltà e le identità cul-turali e religiose. Da ciò risulta la condi-visione, all’interno di un ampio spettrodi posizioni, di un medesimo criteriometapolitico: la divisione del mondo inamici e nemici. È stato Étienne Balibara segnalare la presenza più che visibilenell’argomentazione di Huntington del-la famosa teoria di Carl Schmitt. Laguerra contro il fondamentalismo isla-mico (che Huntington potrebbe defini-re una “guerra di frattura”), rappresen-terebbe quindi un nuovo modo di gra-duare l’ostilità e individuare i nuovi ne-mici in base a un criterio di tipo mora-le-religioso. Huntington pensa l’egemonia in un’ot-tica difensiva. Da qui il suo suggeri-mento di riconoscere le aspirazioni ci-nesi sull’Estremo Oriente, a costo di ri-nunciare alla presenza americana nellaregione, ricostruendo così un equilibriobipolare sul modello della Guerra fred-da. E tuttavia Huntington, una volta re-gistrata la crisi del cosmopolitismo edell’imperialismo, le due versioni estre-mizzate della classica alternativa dellapolitica estera americana, non si accor-ge che la logica profondamente essen-zialista che pervade la sua teoria della

guerra tra le civiltà è essa stessa produt-trice di nuove conflittualità al puntoche il suo preteso universalismo è co-munque sinonimo di imperialismo. Siachiaro, Huntington è pienamente con-sapevole del fatto che la teoria, rivendi-cata sia a destra sia a sinistra, dell’impo-sizione dei valori occidentali alle altreciviltà è “falsa, immorale e pericolosa”,in quanto ogni tipo di universalismo ri-sulta portatore di guerre. E tuttavia egliriconosce che quella occidentale, e amaggior ragione quella americana, seb-bene sotto la forma di una falsa co-scienza o di un’illusione bella e buona,sia l’unica civiltà portatrice dell’univer-salismo.Questo senso comune hegeliano, che hapervaso la politica delle grandi potenze,e in particolar modo di quella america-na, durante il XIX e il XX secolo, è venu-to meno da quando la legittimità dell’e-gemonia americana è entrata in crisi, di-ciamo a partire dal 1989. Da allora lastoria mondiale non può più essere in-terpretata come storia americana. L’uni-ca ragione oggi per guardare agli Statiuniti rimane il valore politico avuto dal-le rivendicazioni incrociate di diritti ci-vili e sociali da parte dei lavoratori edelle minoranze che hanno caratterizza-to il Novecento statunitense, così comene hanno parlato C.L.R. James in Ame-rican Civilization e Eric Foner in Storiadella libertà americana. Ciò detto, Hun-tington ha lanciato la propria sfida aquesta lettura democratica e radicaledella storia americana proponendo uncredo mistico-religioso che fa degli Sta-ti uniti la reincarnazione di un Franke-stein crociato che si aggira tra le sabbiemediorientali alla caccia mortale del-l’infedele, canaglia e terrorista.Quella di Huntington è la parabola diuno studioso accusato di razzismo efondamentalismo protestante, ma an-che di un grande conservatore, di quelliin via di estinzione ormai. Professoreall’università Albert J. Weatherhead epresidente dell’Harvard Academy of In-

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ternational and Area Studies, SamuelHuntington può essere considerato po-liticamente un conservatore e, comestudioso di relazioni internazionali, unrealista. Nel corso della sua carriera,non ha trascurato di frequentare i pianialti del potere nelle vesti di coordinato-re del National Security Council dellaCasa bianca nel biennio 1977-78 o dimembro autorevole della Commissionetrilaterale, fondata nel 1973 per soste-nere la cooperazione tra quei paesi in-dustrializzati che condividevano unaposizione egemonica nel sistema dellerelazioni internazionali. In un celebrerapporto scritto per la Trilaterale nel1975, Huntington rivela la sua critica,ai confini con l’ostilità, nei confrontidei movimenti politici di base, auspi-cando nuovi limiti all’esercizio dei di-ritti civili e politici: “L’essenza delle ri-volte democratiche degli anni Sessantaera una sfida generalizzata alle autoritàesistenti, sia pubbliche sia private. Lavitalità di queste proteste ha posto ne-gli anni Settanta un problema di gover-nabilità della democrazia. Dobbiamoriconoscere che esistono potenzialmen-te dei limiti all’indefinita estensionedella democrazia politica”. Alla luce diqueste considerazioni, non si può direche la sua ricerca abbia nel frattemposofferto di contraddizioni. Anzi, sia inLo scontro delle civiltà , sia nell’ultimovolume pubblicato Huntington estendel’idea di una democrazia “limitata” adalcuni soggetti, (le civiltà dominanti ele élite bianche) escludendo le mino-ranze che hanno animato negli ultimitrent’anni la battaglia politica statuni-tense.Ma al cuore dell’idea di questa demo-crazia wasp c’è il nemico. Prima erano icomunisti, il classico “nemico interno”che scatenò la caccia alle streghe di Mc-Carthy, oggi è il “pericolo marrone”,dal colore della pelle dei latinos cheaffollano i sobborghi delle grandi me-tropoli americane. Come afferma loscrittore e critico letterario Carlos

Fuentes in una recensione apparsa su“New Perspectives Quarterly”, “perHuntington il ‘pericolo marrone’ è in-dispensabile per una nazione che esige,per esistere, una minaccia esterna iden-tificabile”. È Moby Dick, il modello pertutti i nemici dell’America, oggi imper-sonificato “dai messicani che lavorano earricchiscono le nazioni del Nord delpianeta”. Ma dietro questa crociatacontro i latinos manca una seria ricercademografica. Nel suo recente libroHuntington si limita “a elencare aned-doti, articoli di giornale e sondaggi, icui risultati sono spesso contraddittori”scrive Jim Sleeper sul “Los Angeles Ti-mes”, stabilendo le differenze tra l’i-dentità americana e quella del meltinpot multiculturale sulla base delle tradi-zioni culinarie (la seconda reprime ledifferenze, mentre la prima è rimastaimmutata nonostante le spezie e i crautiimportati dalle ultime ondate migrato-rie). Nessuna mescolanza, nessuna assi-milazione, dunque. Ma quello cheHuntington teme di più, aggiunge Slee-per, è la “denazionalizzazione” delle éli-te statunitensi: la borghesia globale cheviaggia per affari, compra casa a Parigi,parla le lingue del mondo e insegna nel-le più diverse università costituisce unserio attacco all’identità americana. Laloro è forse intelligenza con il nemico?Anche Francis Fukuyama, americano diorigini giapponesi, stigmatizza la sin-drome da assedio degli otto milioni dilatinos (il 27 per cento degli immigrati)di Huntington: “Culturalmente gli im-migrati messicani sono molto menolontani dagli anglosassoni degli immi-grati che provenivano dall’Italia delSud o dall’Europa dell’Est. Alcuni, co-me il generale Ricardo Sanchez, servo-no il loro paese. Senza considerare chemolti giovani ispanici sono assorbitidalle sottoculture delle città america-ne”. Perché allora rifiutarli? Gli anglo-protestanti non lavorano più abbastan-za, “perché non hanno più la religionedel lavoro”. Oggi sono i coreani, i mes-

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sicani, i russi, gli indiani a farlo per lo-ro. E poi, a ben guardare, chi può direche la supremazia bianca sia così u-niforme? Congregazionalisti, anglicanie presbiteriani sono diversi e, per dipiù, nota Fukuyama, sono gruppi chelottano per una società multiculturale.Potrà mai accettarlo, questo, misterHuntington?

Roberto Ciccarelli

Emmanuel Todd, Dopo l’impero. Ladissoluzione del sistema americano,Marco Tropea Editore, Milano 2003.

Gli Stati uniti hanno un problema ur-gente da risolvere, ovvero quello dimantenere i propri standard di vita,benché questi siano ben al di sopra del-le loro reali possibilità economiche. Ne-gli ultimi cinquant’anni, da grandi pro-duttori agricoli e soprattutto industrialie di servizi, gli americani si sono trasfor-mati in grandi consumatori, con una bi-lancia commerciale costantemente efortemente in passivo, e un deficit fede-rale che è esploso parallelamente al lan-cio dell’attuale guerra permanente. Inaltre parole, gli Stati uniti sono diventatiun paese predatore. Da qui l’apparenteossessione per il controllo delle fonti diapprovvigionamento energetico. Ma inrealtà le compagnie petrolifere america-ne già controllano la produzione e ilcommercio internazionale del petrolio,allora perché scatenare costosissimeguerre per andare a prendere una mate-ria prima che è già di fatto loro? Perchémai gli Stati uniti, da fonte di stabilitàed equilibrio internazionale, si stannorapidamente trasformando in una co-stante fonte di tensione, adottando la“strategia del pazzo” che davanti all’av-versario, per intimidirlo, si mostra deltutto irresponsabile e capace di qualsia-si atto (l’invasione di uno stato o un pri-mo colpo nucleare, per esempio)?A giudizio di Emmanuel Todd, quelloche la potenza americana sta rappresen-

tando sulla scena mondiale nel dopo 11settembre – con la guerra in Afghani-stan, l’invasione dell’Iraq (non ancoraavvenuta al momento della stesura dellibro, ma ampiamente prevista) e laconseguente politica di guerra contro ilterrorismo – è un “militarismo teatrale”che si sceglie antagonisti infinitamentepiù deboli (oltre ai paesi medio-orienta-li come Siria, Iraq e Iran, troviamo dit-tature personali come Cuba e la Coreadel Nord) per nascondere la propriadebolezza e la propria dipendenza eco-nomica: “È come se, per un’oscura ra-gione, gli Stati uniti cercassero il mante-nimento di un certo grado di tensioneinternazionale, una situazione di guerralimitata ma endemica”. Potremmo cioèinterpretarla come una sorta di “strate-gia della tensione” (nel senso italianodell’espressione), estesa a livello globa-le. Questo stato di insicurezza interna-zionale serve a nascondere il fatto chel’America ha bisogno del resto delmondo, mentre il resto del mondo nonavrebbe più bisogno degli Stati uniti sequesti ridivenissero una nazione cometutte le altre, e soprattutto il resto delmondo non avrebbe più bisogno deldollaro. La vera posta in gioco nelloscenario internazionale contemporaneoè la valuta americana: senza l’attualecentralità del dollaro nell’economia glo-balizzata, gli Stati uniti sono destinati aldeclino economico e alla perdita dellaloro egemonia politica e culturale.Le “guerre del petrolio” servono inrealtà come arma di ricatto nei con-fronti di alleati fortemente dipendentidall’importazione di energia, comeGiappone ed Europa, e come diversivodal vero pericolo per gli Stati uniti, ov-vero che il dollaro perda il suo ruolo dimoneta di riserva e principale mezzo discambio internazionale. Non è un casoche tutti i paesi che gli Stati uniti hannocollocato nel cosiddetto “asse del ma-le”, contro il quale l’esercito americanoinscena le sue sanguinose iniziative mi-litari, abbiano in un’occasione o in

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un’altra minacciato di adottare l’eurocome mezzo di pagamento per il pro-prio petrolio o come valuta di riserva.È solo grazie al ruolo del dollaro suimercati finanziari mondiali, infatti, chegli Stati uniti possono permettersi diconsumare molto di più di quanto pro-ducano. Il problema degli Stati uniti èche hanno bisogno dei prodotti indu-striali e delle risorse finanziarie del re-sto del mondo, mentre il resto del mon-do non ha bisogno degli Stati uniti e,ora come ora, sarebbe ben contentoche la superpotenza diventasse una de-mocrazia liberale e fondamentalmentepacifica, invece che una costante mi-naccia per la pace nel mondo. Oggi ilrischio non è quello di un isolazioni-smo deciso dagli Stati uniti, bensì quel-lo di una marginalizzazione dell’Ameri-ca quale risultato dello sviluppo delcontinente euro-asiatico.D’altro canto, dopo il collasso dell’U-nione sovietica, gli Stati uniti sono ri-masti l’unica grande potenza mondiale,ma non dispongono dei mezzi – mate-riali e morali – per dominare il mondo,per creare un vero e proprio impero a-mericano. Dal punto di vista militare,nonostante i forti aumenti nella spesadestinata a tale settore decisi dall’am-ministrazione Bush dopo l’11 settem-bre, gli Stati uniti non sembra potrannomai avere la possibilità di dominare unimpero territoriale in senso classico:“L’apparato militare americano è sovra-dimensionato per garantire la sicurezzadella nazione, ma sottodimensionatoper controllare un impero”. Ma i pro-blemi più gravi per la creazione di unimpero americano sono di carattereculturale e derivano dalla mancanza diun universalismo capace di integrare lepopolazioni sottomesse. “Gli Stati uni-ti, durante la loro epoca autenticamen-te imperiale, erano curiosi e rispettosidel mondo esterno. Osservavano e ana-lizzavano con simpatia le diversità dellesocietà del mondo usando la politolo-gia, l’antropologia, la letteratura e il ci-

nema. Il vero universalismo trattiene ilmeglio da tutti i mondi. [...] L’Americaindebolita e improduttiva del 2000 nonè più tollerante”. Il nuovo “differenzia-lismo” americano si esplica, per esem-pio, nel totale dispregio per la conven-zione di Ginevra nel corso dell’attualeguerra in Iraq; oppure con il conteggiodei propri soldati caduti, ma con l’asso-luta indifferenza per i 150.000 civili ira-cheni morti nel primo anno di guerra(secondo il calcolo compiuto dalla rivi-sta medica Lancet), con la protezionedel ministero del petrolio ma l’abban-dono al saccheggio del museo archeo-logico.

Per creare un impero bisogna inve-ce cooptare le classi dirigenti dei paesisottomessi e integrare progressivamentenella propria cittadinanza le popolazio-ni, come aveva fatto Roma a suo tempo.E il monopolio di fatto della violenzalegittima a livello internazionale da par-te degli Stati uniti, deve appunto trova-re una legittimità, che attualmente solole Nazioni unite potrebbero eventual-mente fornirle, ma verso le quali gli Sta-ti uniti – almeno nel corso del primomandato della presidenza di Bush jr –hanno invece ostentato indifferenza senon disprezzo. Da questo punto di vi-sta, bisogna notare che per spiegarel’attuale unilateralismo e differenziali-smo statunitense, Todd utilizza argo-mentazione di carattere storico, ma a-dotta anche un dubbio determinismoantropologico, per cui “l’attitudine diun popolo conquistatore a trattare inmodo egualitario i gruppi vinti non na-sce da fattori esterni, ma si trova inseri-ta in una sorta di codice antropologicoiniziale. Si tratta di un apriori culturale.“I popoli che hanno una struttura fami-liare egualitaria in cui i fratelli vengonodefiniti come equivalenti – fu il caso diRoma, della Cina, del mondo arabo,della Russia e della Francia della pianu-ra parigina –, tendono generalmente aconsiderare come uguali gli uomini e ipopoli.” E, tuttavia, dato che Todd an-

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nuncia un suo nuovo lavoro sulla que-stione, vale forse la pena di sospendereil giudizio su questo punto, almeno peril momento.Per il resto, il libro di Emmanuel Toddè molto originale e in gran parte con-vincente, offrendoci un quadro dell’at-tuale situazione politica internazionaleche deriva contemporaneamente dauna puntuale analisi sociologica e dauna più ampia sintesi di carattere antro-pologico e demografico. Da questopunto di vista, tuttavia, l’autore ognitanto ci sembra ostentare un’eccessivafiducia nella forza dell’alfabetizzazionee dell’educazione in generale, quali fon-ti di democratizzazione e di pacificazio-ne internazionale. La sua tesi di fondo èche il processo di alfabetizzazione dellasocietà in generale, e della popolazionefemminile in particolare, conduca ne-cessariamente a un rallentamento dellacrescita demografica che, dopo un’ine-vitabile fase di tumulti sociali (Todd pa-ragona l’attuale jihad nel mondo islami-co alla rivoluzione inglese del Seicento),condurrà a sua volta a una fase di mo-dernizzazione democratica. E, tuttavia,Todd riprende anche le teorie aristoteli-che sulla trasformazione dei regimi po-litici, per cui non esclude che, mentregrazie all’alfabetizzazione anche le so-cietà islamiche più retrive stiano evol-vendo verso la democrazia, senza biso-gno di sanguinari interventi esterni, glistati industrialmente più avanzati stianomuovendo verso regimi oligarchici.D’altro canto, anche la fede un po’scientista dell’autore nei dati demogra-fici appare senza dubbio eccessiva, maTodd può vantare al suo attivo la previ-sione del crollo dell’Unione sovietica,sulla base di statistiche economiche edemografiche, in un’epoca nella qualetutti gli osservatori e gli analisti stima-vano che il sistema sovietico fosse estre-mamente stabile e destinato a durarenel tempo (si veda, Emmanuel Todd,La chute finale. Essai sur la décomposi-tion de la sphère soviétique, Laffont, Pa-

ris, 1976). Come del resto, oggi, amici eavversari in egual misura celebrano odeprecano grandezza e potenza dell’im-pero americano...

Luca Guzzetti

James Gow, Defending the West, Po-lity Press, Cambridge-Boston 2005.

A detta sia di Philip Bobbitt sia di Mar-tin Shaw, autori di due fra i più impor-tanti lavori degli ultimi tempi sul rap-porto fra stato, costituzionalismo eguerra – rispettivamente The Shield ofAchilles. War, Peace, and the Course ofHistory (Knopf, New York 2002); La ri-voluzione incompiuta. Democrazia e sta-to nell’era della globalità (UniversitàBocconi editore, Milano 2004) – Defen-ding the West di James Gow, professordi International Peace and Security alKing’s College di Londra, è un libro im-portante. Del testo viene sottolineato inparticolare l’intento di ricongiungeregli imperativi della politica di potenzabushista con le necessità regolative diun sistema internazionale in grado digarantire “ordine e stabilità”, assurticome significanti dell’idea stessa di Oc-cidente, almeno quella vissuta e abbrac-ciata dai ceti medi di Casablanca e Bali,di Helsinki e Yokohama. James Gow incarna tutti i pregi e i di-fetti di una nuova generazione di scien-ziati sociali. Estrema competenza nell’e-saminare in dettaglio le scuole di pen-siero della geopolitica contemporanea,ma forti limiti culturali e politici nell’a-nalizzare la congiuntura storica e le for-ze che si contendono il campo. Comedirebbe Weber, Gow è un tecnicosenz’anima, e l’Occidente che vuole di-fendere sembra coincidere con la piat-tezza apolide dei centri commerciali edelle produzioni hollywoodiane che ali-mentano il consumismo della classe me-dia globale. Defending the West è diviso in sette ca-pitoli che delineano una strategia espo-

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sitiva ben precisa di qualificazione egiustificazione della ricerca di egemo-nia globale del quadrumivrato Bush,Rice, Cheney, Rumsfeld. Dopo l’intro-duzione che apre con una trattazionedella pre-emption e dei valori occidenta-li che da essa devono venire difesi, il te-sto si sviluppa con una successione qua-si aristotelica delle questioni crucialidella geopolitica contemporanea: teo-ria, ordine, minacce, alleanze, partner-ship, azione preventiva.Dalla guerra del Vietnam fino all’avven-to di Bush il giovane (tralasciando i fre-miti umanitari di Carter e Clinton), ilrealismo ha informato il pensiero deicircoli della politica estera americana.Henry Kissinger di sicuro appartiene aquella schiera, così come James Baker,il pessimo architetto dell’immediatodopo Guerra fredda. Anche l’ammini-strazione Reagan, malgrado la valenza i-deologica delle esternazioni sull’Imperodel male, rimase saldamente ancoratanel cinico pragmatismo della balance ofpower. Con Samuel Huntington il reali-smo assume una torsione offensiva e siattrezza al prossimo scontro di civiltàcon stati e ideologie che ripudiano l’a-merican way of life. Al realismo si è storicamente alternatol’interventismo liberale di presidenticome Wilson e Franklin Roosevelt (eKennedy), volto a espandere la sfera deivalori (e degli interessi) americani nelmondo. Altri approcci alla politica in-ternazionale, che però non hanno avutogrande impatto negli Stati uniti al difuori dell’accademia, sono il razionali-smo progressista kantiano (vedi l’ulti-mo Habermas di L’Occidente diviso) e iltransnazionalismo dell’interdipenden-za, approccio sociologico al problemadella globalità in cui convivono mode-rati come Joseph Nye, liberalimperiali-sti come Michael Ignatieff e leftist comeMichael Mann.James Gow manifesta una posizioneper molti versi vicina a quella di Hun-tington. A suo parere la guerra preven-

tiva appare come una risposta giustifi-cabile di fronte alle minacce asimmetri-che che l’Occidente deve affrontare. Irischi da fronteggiare, infatti, non pro-vengono più principalmente dall’ag-gressione di altri stati sovrani, ma dal-l’instabilità di stati falliti o in procintodi esserlo, da sciagure finanziarie o epi-demiologiche, da attacchi imprevedibilidi sette fondamentaliste e/o apocalitti-che. A livello di stati, le minacce fonda-mentali che richiedono se non l’allean-za, perlomeno la partnership strategicafra attori occidentali sono essenzial-mente rappresentati dai due sopravvis-suti dell’axis of evil, Corea del Nord e I-ran. La Cina è invece vista come rivalemilitare certa nel medio periodo, sullacui potenza Gow non esclude potrebbeincardinarsi un futuro bipolarismo si-mile a quello della Guerra fredda. Se-condo il libro, sull’Iran gli Stati uniti la-voreranno di concerto con l’Europa esulla Corea del Nord con il Giappone,anche se Gow, come il dipartimento diStato statunitense, sembra fidarsi piùdello spirito occidentalista (e anticine-se) di Koizumi che della determinazio-ne di resistere agli ayatollah di XavierSolana o di Francia, Germania e GranBretagna.Passando dall’analisi della contingenzapolitica a considerazioni di natura teo-rica, si può notare come Gow si distan-zi dal realismo propriamente detto indirezione di un approccio che denomi-na “realismo costruttivo”. Secondo loschema proposto, i comportamenti e ledecisioni di politica internazionale si i-spirano al realismo, ma il loro ripetersie accumularsi costruisce istituzioni e si-stemi che condizionano l’azione succes-siva delle forze dotate di qualche gradodi autonomia decisionale. In una for-mula, might makes right, il che significache la dottrina Bush starebbe costruen-do le istituzioni destinate a sorreggerlae a riprodurla e che il vuoto di dirittointernazionale in cui agisce sarà prestocolmato da un sistema alternativo (c’è

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chi direbbe opposto) a quello eretto aYalta e San Francisco.Dal punto di vista politico, la sintesi diGow risponde alle nuove sfide concet-tuali poste dalla controrivoluzione neo-con, che ricombina il militarismo eredi-tato dalla guerra fredda con l’idealismomissionario tradizionalmente appannag-gio del Partito democratico. Bush, infat-ti, per esportare con le armi e l’intimida-zione la libertà americana in ogni angolodel globo arruola il vangelo democraticodi Franklin Delano Roosevelt insieme algingoismo di Reagan e della destra sudi-sta repubblicana. È all’interno di un si-mile sincretismo che Gow tenta di defi-nire la propria prospettiva teorica. Lafede occidentalista tuttavia gli giocabrutti scherzi, quando per esempio lospinge a ritirare fuori la bufala delle ar-mi di distruzioni di massa che avrebberopotuto cadere nelle mani di al Qaeda segli Stati uniti non avessero invaso l’Iraq.Anche l’ottimismo che Gow nutre sulruolo futuro della Nato sembra mal ri-posto, pur se la cicatrice atlantica mo-stra di rimarginarsi dopo la conferma diBush e la nuova nomina di CondoleezaRice a segretario di Stato. Ma il profes-sore londinese è più pronto di altri a ri-conoscere la discontinuità storica deglianni Novanta, allorché il Consiglio di si-curezza delle Nazioni unite abiurò dalladottrina westfaliana della sovranità perpostulare un diritto/dovere di interven-to. Ciò avvenne soprattutto nel caso delKosovo, dove i bombardamenti di We-sley Clark vennero ratificati post festumdal Consiglio di sicurezza. L’evoluzionebalcanica della Nato e il ruolo juniordell’Unione europea nello svolgere lafunzione di forza pacificatrice dopo cheè calato il sipario sul teatro bellico, sonoa opinione di Gow fatti consolidati e ne-

cessari alla mutua difesa dell’alleanzaeuratlantica alla base dell’Occidente edei suoi interessi comuni in un’epoca diminacce imprevedibili alla sua sicurezza.Nel recente incontro di Monaco fra di-plomazia americana ed europea, Schroe-der ha richiesto un profonda revisionedel funzionamento della Nato, in quantol’alleanza non rappresenterebbe più illuogo di incontro privilegiato fra le duesponde dell’Atlantico, vista la nascita diuna politica estera e di sicurezza unitariadell’Unione europea. Rumsfeld ha reagi-to con un misto di sprezzo e sorpresa(nella stessa assise dove due anni fa po-stulò la famosa distinzione fra Old Euro-pe francotedesca e New Europe filoame-ricana), ma è un fatto che la Nato non a-vrà un ruolo in Iraq e si fatica a vedereun futuro di interventi per l’alleanza mi-litare sopravvissuta alla Guerra fredda.Defending the West si chiude dove siera aperto: il bisogno e la necessità del-l’azione militare preventiva nel nuovomondo del dopo 11 settembre. Secon-do Gow, esiste una connessione direttafra la riqualificazione delle dottrinestrategiche portata avanti da StrobeTalbott sotto l’amministrazione Clinton(dopo lo smacco a Mogadiscio e in vistadegli interventi contro la Serbia) e ladottrina Bush. Agire preventivamente èrischioso e potrebbe non rivelarsi giu-stificato ex post facto, ma non ci sonoalternative nello scenario di insicurezzageneralizzata del primo XXI secolo:“Per quanto discutibile, e anche qualo-ra le prove a suo sostegno non possanoessere addotte o prima o dopo l’azionepreventiva, tale azione potrebbe ren-dersi necessaria, prima che le minaccesiano troppo vicine o prima che siatroppo tardi.” Auguri.

Alex Foti

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