Comportamenti d'acquisto e forme del sé

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1 INDICE …………………………………………………………… Introduzione2 1. Un approccio interdisciplinare al concetto del sé 5 2. La relazione fra il sé e l’oggetto di consumo 21 3. L’acquisto compulsivo: modelli di spiegazione del comportamento di dipendenza 35 4. L’influenza della società dei consumi sui comportamenti d’acquisto….… 51 5. Il valore del brand e le sue basi neurologiche 66 6. Neuropsicologia delle decisioni d’acquisto 87 Conclusioni 106 Bibliografia………………………………………………………………………. 108

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Dove nasce l'esigenza di comprare? Per quale motivo ci capita di acquistare oggetti che raramente poi utilizziamo? Perché siamo più propensi a comprare prodotti con marchi riconosciuti, finendo inconsapevolmente vittime del potere del brand? Cosa ci spinge a idolatrare personaggi famosi senza neanche conoscerli? Cosa avviene nel cervello di soggetti durante il processo di scelta? Questo libro cerca di rispondere a queste domande inserendo il discorso sui comportamenti d'acquisto in un innovativo sfondo filosofico e psicologico

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1

INDICE

……………………………………………………………

Introduzione… 2

1. Un approccio interdisciplinare al concetto del sé 5

2. La relazione fra il sé e l’oggetto di consumo 21

3. L’acquisto compulsivo: modelli di spiegazione del comportamento

di dipendenza

35

4. L’influenza della società dei consumi sui comportamenti d’acquisto….… 51

5. Il valore del brand e le sue basi neurologiche 66

6. Neuropsicologia delle decisioni d’acquisto 87

Conclusioni 106

Bibliografia………………………………………………………………………. 108

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INTRODUZIONE

Obiettivo dell’elaborato è approfondire la relazione fra comportamenti d’acquisto e

caratteristiche del sé. Al fine di indagare al meglio questa relazione in tutte le sue

sfumature, ci approcceremo al tema con uno sguardo interdisciplinare in grado di

abbracciare diversi ambiti di studio, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicoanalisi

alle neuroscienze, cercando di unire tutti i contributi che queste discipline possono

fornirci in un unico filone concettuale in grado di non disperderne le rispettive

potenzialità, ma anzi di integrarle in un quadro teorico coerente ed esplicativo.

Approfondendo i recenti studi sui comportamenti d’acquisto, è inevitabile notare

che essi vengono quasi sempre trattati separatamente da ognuna di queste

discipline, le quali, isolando l’argomento dal suo caratteristico tessuto di interazione

teorica e traendo da esso solo le componenti analizzabili secondo modalità

rigorosamente appartenenti alla propria sfera di competenza, ne studiano soltanto

un singolare aspetto riducendo in questo modo notevolmente la complessità delle

tematiche dalle quali l’intero fenomeno è composto.

Le scienze cognitive, proprio tenendo conto della loro ragione d’essere

rintracciabile principalmente nella propria vocazione di natura multidisciplinare,

non dovrebbero certo rimanere indifferenti di fronte all’invitante possibilità di

comprendere dettagliatamente il fenomeno degli acquisti, ma dovrebbero anzi

trovare il modo di attingere alle differenti competenze che, profondamente correlate

alle scienze cognitive, caratterizzano gli ambiti di studio che se ne sono

maggiormente occupati.

Tranne rari casi (Balconi, Antonietti; 2009) dobbiamo però sottolineare che non vi

è al momento traccia di studi sui comportamenti di consumo che siano stati in grado

di fornire un quadro esaustivo dei diversi approcci presenti sulla scena teorica;

obiettivo dell’elaborato è quindi proprio quello di cercare, con i nostri mezzi, di

riempire questa lacuna presente in letteratura, in particolare tentando di appoggiare

i vari studi neuroscientifici e sociologici svolti sul tema su un robusto terreno

epistemologico costruito su basi di natura filosofica e psicologica, che, troppo

spesso ignorate a questo proposito, svolgono invece a mio avviso un ruolo centrale

ed essenziale nella spiegazione dei comportamenti d’acquisto.

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Inizieremo dunque il nostro studio cercando di porre come primo mattone di questo

edificio teorico un’analisi filosofica e psicologica del concetto di “sé”,

individuandone le componenti di base, accennando a quei possibili meccanismi che

sono alla base della sua nascita e del suo sviluppo, e studiando infine la

correlazione fra un sé di natura individuale, che fa riferimento al concetto di “io”, e

un sé di natura collettiva, che si riferisce invece alla sensazione di un “noi”.

Chiarite le basi epistemologiche della nostra indagine, introdurremo nel secondo

capitolo i comportamenti d’acquisto, rintracciando il ruolo che essi rivestono per la

vita psichica e individuando le modalità attraverso le quali questi comportamenti si

intrecciano con le componenti del sé individuale; faremo in particolare riferimento

al concetto di brand, studiando la sua funzione di esplicitazione e protezione di parti

del sé inespresse.

Nel terzo capitolo presenteremo invece alcune teorie psicologiche e

neuroscientifiche in grado di farci comprendere meglio l’adozione, da parte di molti

soggetti, di un comportamento dipendente in contesti d’acquisto, come accade con

la sempre più diffusa problematica dello shopping compulsivo.

Successivamente, il quarto capitolo avrà invece l’obiettivo di spostare la nostra

analisi da un quadro di natura esclusivamente psicologica a uno maggiormente

incentrato su spiegazioni di matrice sociologica, ponendosi infatti come obiettivo

quello di riassumere le principali ragioni e i principali cambiamenti di natura

sociale che hanno dato vita, durante gli ultimi decenni, a una vera e propria società

che si regge sui consumi e che è sempre più caratterizzata dalla presenza di uno

sfrenato bisogno umano di acquistare una quantità sempre crescente di beni.

Il quinto capitolo reintrodurrà invece nel discorso il concetto di brand, inizialmente

analizzando il suo ruolo sociale e cercando di chiarire la sua relazione con le

componenti del sé collettivo, e successivamente presentando una serie di studi di

neuro-imaging finalizzati all’individuazione di una serie di attività neurali correlate

all’esposizione di un marchio.

Infine, l’indagine neurologica sui comportamenti d’acquisto terminerà nel sesto

capitolo, nel quale, facendo riferimento a degli studi orientati alla ricerca

dell’attività cerebrale durante il momento dell’acquisto in sé, individueremo quali

aree della corteccia risultano maggiormente coinvolte durante il decision-making

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del consumatore; chiuderemo poi l’elaborato analizzando le euristiche cognitive

che possono intervenire durante la fase dell’acquisto, influenzando la validità delle

scelte consumistiche e alterando il processo decisionale che ne è alla base.

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1. UN APPROCCIO INTERDISCIPLINARE AL CONCETTO

DEL SE’.

Per comprendere come oggetti di consumo e comportamenti d’acquisto possano

entrare in relazione con diverse caratteristiche del sé, ci sembra importante iniziare

il lavoro chiarendo da quale punto di vista inquadriamo il concetto del sé e

definendo quelle che, coerentemente con il fine dell’elaborato, possono essere le

componenti alle quali dedichiamo una maggiore rilevanza.

Senza addentrarci troppo approfonditamente nei dibattiti recenti intorno alla natura

del sé che caratterizzano l’ambito filosofico e neuroscientifico, sembra ormai

assodata la visione di un sé che prende sempre più le distanze dalla concezione

cartesiana, la quale, basandosi su un radicale dualismo fra mente e corpo,

identificava il sé con la sostanza pensante, fornendolo così di una realtà ontologica

nettamente separata dalla dimensione corporea e totalmente indipendente dalle

leggi cui sottostava la materia1.

Messa da parte non senza difficoltà questa radicale visione, il cui dualismo vive

ancora oggi tentativi di riformulazione teorica2, la desostanzializzazione delle

operazioni mentali avviata dal radicale empirismo di Locke, che riduceva la mente

a una tabula rasa interamente plasmata dall’ambiente3, ha trovato il suo culmine

nella visione contemporanea di un sé che non solo si caratterizza per una stretta

integrazione con la dimensione corporea dalla quale è assolutamente

imprescindibile (Damasio 1995, Montague 2006),4 ma viene addirittura inteso

1 <<Pervenni in tal modo a conoscere che io ero una sostanza, la cui intera essenza o natura consiste

nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale.

Di guisa che questo io, cioè l’anima, per opera della quale io sono quel che sono, è interamente

distinta dal corpo>> Cottingham, R., (1992), A Descartes Dictionary, p. 36, nota 3, Blackwell,

Oxford. 2 Come sottolineato da Damasio, la metafora adottata in tempi recenti di una mente come “software”

e di un cervello come “hardware”, così come la netta separazione tuttora esistente fra medicina e

psicologia, trova le sue radici proprio nella separazione cartesiana fra mente e corpo; Damasio,

(1993), p.339. 3 <<Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere,

senza alcuna idea […] Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da

essa in ultimo deriva>> Locke, J., (1690), Libro II, cap. 1. 4 <<Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente – tra la materia del

corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente, infintamente divisibile, da un lato, e la stoffa

della mente, non misurabile, priva di dimensioni e non attivabile con un comando meccanico, non

divisibile>> Damasio, (1993), p.338. <<quasi nessuno metteva in dubbio quest’opinione: i pensieri

sono privi di base materiale; vivono in qualche posto o stato indefinibile e non posson mai venire

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come un fenomeno che privato della sostanzialità cartesiana e letto in chiave

evoluzionistica, emerge dal corpo stesso come capacità adattiva di valutare gli

stimoli ambientali garantendo all’organismo una migliore capacità di

sopravvivenza.

Importante in questa direzione è stato il contributo del neuroscienziato Damasio, fra

i più chiari sostenitori di una visione evoluzionistica della mente che, intesa come la

capacità dell’organismo di avere rappresentazioni coscienti, sarebbe emersa

dall’interazione corpo-cervello con la finalità adattiva di proteggere l’organismo

stesso: l’evoluzione ha fatto sì, per Damasio, che il corpo trovasse un potente

mezzo di autodifesa nella propria capacità di sviluppare efficaci rappresentazioni

interne dell’ambiente esterno. Il sé, in questa concezione, emerge quindi come

modalità di rappresentazione della realtà circostante, e le immagini mentali che ne

caratterizzano l’attività risultano essere principalmente delle reazioni in grado di

riprodurre l’ambiente esterno basandosi sulla modificazione che esso provoca nel

corpo stesso. Ciò che percepiamo e memorizziamo, più che la realtà in sé, è come il

nostro corpo reagisce all’incontro con essa (Damasio 1995).

In quest’ottica risuona inesorabilmente non solo l’integrazione fra mente e corpo,

ma la precedenza evolutiva del corpo stesso. Per dirla con Damasio, <<gli eventi

mentali sono il risultato dell’attività che si svolge nei neuroni del cervello; ma vi è

una storia precedente e indispensabile che essi devono narrare: la storia del disegno

e del funzionamento del corpo. La supremazia del corpo è un motivo che risuona

nell’evoluzione.>>5

Staccato da radici metafisiche e sostanziali, e ancorato alla corporeità dalla quale

esso emerge, non sorprende che in quest’ottica il sé si allontani anche dal concetto

di coscienza: a partire da Freud, è infatti conoscenza comune che la maggior parte

delle attività mentali avvengano sotto il livello della coscienza, definita proprio dal

padre della psicoanalisi come la sola punta dell’iceberg dei processi mentali6.

“catturati” da alcuna descrizione fisica. Quest’idea, se da un lato è emotivamente attraente, è però

incompatibile con quella che è una montagna di fatti circa l’ereditarietà e l’evoluzione di caratteri

biologici>> Montague, (2006), pp. 9-10. 5 Damasio, (1993), p. 312.

6 <<i processi psichici sono di per sé inconsci e di tutta la vita psichica sono consce soltanto alcune

parti e alcune azioni singole>> Freud (1915-17). Ma si veda a tal proposito anche Nietzsche: <<la

coscienza ha un ruolo di secondo piano, è quasi indifferente, superflua, forse destinata a sparire e a

far posto a un perfetto automatismo>> Nietzsche, (1887).

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Diversi filosofi e neuroscienziati7, fra i quali Montague, sostengono che la

coscienza stessa, lungi dall’essere il centro della vita psichica e l’origine delle

azioni umane, non sarebbe altro che un fenomeno emergente assimilabile alla

memoria di lavoro e finalizzato a monitorare i processi mentali che richiedono un

maggiore impegno di energie: una volta che il sé automatizza un insieme di

comportamenti, questi verrebbero messi in atto dall’individuo senza nessuna

difficoltà, evitando così di richiedere il dispendioso intervento della coscienza

(Montague 2006, Gigerenzer 2007). Altri ancora, sulla scia della filosofia di Hume8

e Nietzsche9, definiscono la volontà cosciente come una mera sensazione prodotta

da meccanismi inconsci, una pura emozione di paternità delle proprie azioni che dà

luogo all’illusione di agentività (Wegner 2010)10

.

Il sé, comunque, sia nella sua componente cosciente che inconscia, non viene più

definito come un concetto unitario: esso, più che un’entità monolitica in grado di

agire attivamente su un ambiente passivo, è piuttosto da intendersi come un insieme

apparentemente coerente di diversi processi mentali che agiscono, e che, grazie ad

una capacità di integrarsi fra loro, contribuiscono a creare nell’individuo la

sensazione dell’esistenza di un’entità unica e unitaria in grado di percepire il mondo

e reagire agli stimoli che provengono da esso; già Nietzsche aveva notato questa

importante rivoluzione nel modo di concepire l’io nel momento in cui definiva il

soggetto come molteplicità e parvenza di unità: <<ammettere un soggetto non è

forse necessario; forse è altrettanto lecito supporre una molteplicità di soggetti, il

cui gioco d’insieme e la cui lotta stanno alla base del nostro pensiero e in generale

7 Le Doux elenca fra gli studiosi favorevoli alla riduzione della coscienza a una funzione esecutiva e

di supervisione Shallice, Posner e Snyder, Shiffrin e Schneider, Norman e Shallice. Le Doux,

J.,(1996) 8 Wegner cita Hume per la sua definizione di volontà come <<niente altro che quella impressione

interna che avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a

qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della nostra mente>>

Hume (1739-1740), in Wegner, D. M., (2010) L’illusione della volontà cosciente, in De Caro, M.

Lavazza, A., Sartori, G., (2010). 9 <<l’io è considerato come soggetto, come causa di ogni azione, come autore […] la credenza in

una sostanza trova la sua forza di persuasione nell’abitudine di considerare tutto ciò che facciamo

come conseguenza della nostra volontà- così che l’io, in quanto sostanza, non scompare nella

molteplicità dei mutamenti. Ma non esiste una volontà.>> Nietzsche (1887). 10

<<Meccanismi inconsci e imperscrutabili creano infatti sia il pensiero cosciente dell’azione sia

l’azione, e producono anche la sensazione di volontà che sperimentiamo percependo il pensiero

come causa dell’azione>> Wegner, D.M., (2010).

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della nostra coscienza>>11

. La mente perde così la connotazione di teatro cartesiano

e palcoscenico di immagini mentali per frammentarsi in una serie di molteplici

funzioni: l’unità della percezione che noi percepiamo non è altro che una mera

sensazione che non trova riscontro in alcuna sostanzialità, né in alcuna area

celebrale, ma è prodotta proprio dall’integrazione di molteplicità differenti. Come

Damasio sottolinea, l’effetto di unitarietà psichica e percettiva è dovuto a una

questione di simultaneità temporale che trova la sua base in un principio di

sincronizzazione di differenti attività neurali (Damasio 1993).

Più che di un sé, dovremmo quindi parlare di diverse parti del sé che lo

costituiscono. Ponendoci in quest’ottica di pensiero, il paragone fra la dimensione

individuale e quella sociale appare intrigante: come a livello sociale l’unione di

diversi individui può dare origine a quella sensazione di gruppo come entità

indipendente e dotata di vita propria, così, a livello individuale, le diverse funzioni

del sé basate su diversi processi mentali, interagendo fra di loro, sarebbero in grado

di dar luogo alla sensazione di un sé unico che agisce sul mondo. La conseguenza è

semplice ed efficace: il “senso del sé” che è alla base sia della percezione della

soggettività del “me” che dell’entitatività12

del “noi” è quindi il prodotto

dell’integrazione fra le sue molteplici componenti elementari; è in questa direzione,

infatti, che vanno le recenti ricerche sui substrati neurali della coscienza, fra cui

quelle che fanno capo al neuropsichiatra Tononi, il quale postula una duplice

capacità alla base dell’esperienza della soggettività: da una parte la percezione di

una molteplicità di esperienze differenti, e dall’altra la facoltà di integrare queste

diverse informazioni percepite in un unico dato. Ciò che distingue l’organismo

vivente da quello artificiale non è tanto la capacità di ricevere informazioni, quanto

la capacità di integrazione di esse (Tononi 2003)13

.

Ma per quanto le teorie contemporanee ci mostrino l’unitarietà del sé come una

sensazione prodotta dall’integrazione fra diverse parti, ciò non significa che ne

svalutino l’importanza: lungi dall’essere una mera illusione poco funzionale ai fini

11

Nietzsche, F., (1887), p.275. 12

Con questo termine, nei recenti approcci della psicologia sociale, si fa riferimento al grado in cui

un aggregato sociale è percepito come entità esistente e reale da osservatori esterni. Speltini, G.,

Palmonari, A., (2007). 13

Importante notare che in questo caso il termine coscienza va inteso non come stato di meta-

consapevolezza che l’individuo ha delle proprie azioni, ma più in generale come uno stato di

“vigilanza” che permette all’organismo di essere “vivo”.

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dell’individuo, la percezione di unità dell’ente psichico è invece il presupposto

essenziale su cui si basa l’intera esistenza e su cui fondiamo tutti i nostri

comportamenti. Abbiamo già visto come sia ormai insito nella natura umana

percepire se stessi come unici e in grado di agire sul mondo: il concetto di “io” è

stato appositamente creato dall’uomo in chiave adattiva, e per quanto possa essere

fittizio, è senz’altro indispensabile per la vita umana. Di nuovo, il salto

dall’individuo alla società è breve: sarebbe infatti difficile sostenere che la

sensazione di gruppo come entità dotata di una propria autonomia trovi un suo

correlato sostanziale basato su una realtà ontologica propria e indipendente dai

membri che lo costituiscono; eppure, pur trattandosi di un’illusoria sensazione, ciò

non toglie che essa risulti fondamentale nel regolare la vita del gruppo stesso.

Il gruppo come entità in sé indipendente dai suoi stessi membri non esiste, eppure

la percezione che esso sussista concretamente emerge dall’interazione dei membri,

ed è parte fondamentale del suo sviluppo. Come noto a ogni persona chiamata a

gestire il lavoro di un team, non vi è nulla di più importante per la vita di un gruppo

del creare un’atmosfera tale che i suoi membri siano in grado di sperimentare la

sensazione di far parte di un’entità comune che trascende i confini del singolo; una

volta che viene prodotta questa sensazione, ogni membro percepirà il gruppo a

livello inconscio come entità indipendente non solo da se stesso, ma anche da tutti

gli altri membri: un potente fenomeno emergente che deve la sua origine al solo

fatto che tutti lo pensino tale. Qualcosa che non esiste concretamente, ma che nello

stesso tempo trascende tutti: l’identità, staccata da radici ontologiche, non perde

potenza, ma anzi la acquisisce.

Rispondere quindi alla domanda su quali siano i processi in grado di formare questa

sensazione di “entitatività” non sembra epistemologicamente separabile dal

ricercare i processi mentali in grado di formare il senso del sé individuale: così

come l’integrazione fra membri fornisce al gruppo quella che viene chiamata

“un’identità”, anche un buon senso di identità a livello personale sarà secondo

questa visione dato da una capacità delle parti del sé di interagire e comprendere i

propri stati a vicenda.

Detto questo, ambiti disciplinari come filosofia, neuroscienze, psicoanalisi e

psicologia sociale si trovano di fronte a una lunga strada da percorrere in

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quest’ambito: siamo infatti ancora lontani dal capire come le diverse componenti di

un sistema riescano a interagire per arrivare a produrre un senso di entità. Si può

però nel frattempo definire le caratteristiche di base di questo “senso di entità”,

nella speranza in un futuro prossimo di poter conoscere i processi in grado di

originarlo. Cosa contraddistingue quindi il sé, oltre al senso di unità? Quali sono le

sue caratteristiche di base? Non sappiamo mediante quali processi hanno origine,

ma sappiamo definire quali esse siano? In chiusura del suo libro “Che cosa

sappiamo della mente?” il neuroscienziato indiano Vilayanur Ramachandran elenca

quelle che sono per lui le componenti centrali del sé sulle quali concentrare le

ricerche:

“Che cosa si intende esattamente con <<sé>>? Ho individuato cinque

caratteristiche fondanti. La prima è l’impressione di continuità, di un

filo che corre lungo l’intero tessuto della nostra esperienza,

accompagnato dal senso del passato, del presente e del futuro. La

seconda, strettamente correlata alla prima, è l’idea di unità e

coerenza. Nonostante la varietà dei ricordi, delle credenze, dei

pensieri e delle esperienze sensoriali, ciascuno di noi esperisce se

stesso come un individuo unico, un’unità. La terza è la corporeità, o

meglio il senso del possesso del proprio corpo, al quale ci si sente

ancorati. La quarta è la facoltà di azione volontaria, quella che

chiamiamo libero arbitrio, l’idea di essere padroni delle proprie

azioni e del proprio destino […]. La quinta, e più elusiva di tutte, è

la capacità di riflessione, la consapevolezza che il sé ha di se stesso

[…] La malattia mentale perturba uno o più aspetti del sé ed è per

questo che non ritengo il sé un’entità unitaria, bensì un insieme di

varie componenti.”14

Con il concetto di continuità possiamo facilmente far riferimento alla sensazione di

sviluppo temporale riguardante le esperienze passate e le aspettative future che

caratterizza non solo il sé individuale, ma anche il sé collettivo; più che un collage

di ricordi e speranze operato grazie a una rievocazione consapevole da parte

dell’individuo, la sensazione di continuità si presenta come un fenomeno che, attivo

principalmente a livello inconscio, si avvicina al concetto di “sentimento di fondo”

introdotto da Damasio per descrivere il senso di proprietà del corpo e tramite il

quale si fa riferimento a una sensazione del sé costituita dall’associazione fra

14

Ramachandran, V., (2003), pp .97-98.

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modificazioni corporee e rappresentazioni neurali delle modificazioni stesse: una

tipologia particolare di sentimento continuamente presente in sottofondo, e della

quale si può diventare consapevoli soltanto quando vi si pone volontariamente

attenzione (Damasio 1993). Il senso di continuità potrebbe quindi trovare il suo

fondamento nell’integrazione fra diverse rappresentazioni inconsce riguardanti lo

stato passato, presente e futuro del sé.

Come accennato da Ramachandran, la correlazione fra i turbamenti a questa

componente del sé e le patologie mentali non è da trascurare: facendo riferimento

agli studi sull’attaccamento prodotti dalla psicoanalisi e in particolare da Bowlby15

,

un buon senso di continuità del sé ha la possibilità di svilupparsi quando

nell’ambito della relazione originaria e fusionale fra il caregiver e il bambino, il

primo riesce a tranquillizzare le paure di abbandono che il secondo nutre riguardo

al distacco, permettendo al bambino stesso di sviluppare una base sicura che faccia

riferimento a un sufficiente livello di fiducia nella possibilità di ritrovare il legame

con il caregiver in futuro; perché si sviluppi un buon senso di continuità del sé, è

importante che vi sia nel bambino la capacità di mantenere nella propria mente una

rappresentazione costante dell’altro anche in sua assenza: soltanto così si può

instaurare quella fiducia basata sulla possibilità di ritrovamento dell’altro in futuro,

che diventerà poi fiducia nelle proprie capacità di trovare nel mondo ciò che

procura piacere. Al contrario, una mancanza di fiducia nel ritrovare l’altro in questa

fase di separazione risulterebbe decisiva nel turbare il senso di continuità del

bambino stesso, che nel corso della sua vita potrebbe vivere traumaticamente le

separazioni (non solo da figure affettive, ma anche da situazioni, pensieri, luoghi,

oggetti..), ancorandosi così a ciò che di piacevole trova nel passato, guardando con

timore ai cambiamenti, e reiterando con comportamenti dipendenti le situazioni

presenti piacevoli, vissute come momenti ineluttabilmente destinati a non tornare

più: il sé rischia in questi casi di perdere il suo carattere di continuità trasformando

la vita psichica in una serie di momenti slegati fra di loro e frammentati in un

quadro tutt’altro che unitario e rassicurante: ogni stato emotivo si trasformerebbe in

un’ineluttabile condizione priva di uscita e scollegata dal resto.

15

Faremo riferimento a questi studi più avanti: i nostri punti di riferimento per la teoria

dell’attaccamento sono comunque Bowlby (1969), Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002),

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Il senso di continuità, lungi quindi dall’essere una mera sensazione priva di

sostanzialità, si presenta come un sentimento di fondo con caratteristiche

fondamentali per l’attività del sé stesso; anche facendo riferimento all’attività di un

gruppo, risulta quanto mai importante fornire ai singoli l’immagine di un team

continuo nel tempo, basato su un importante passato e slanciato verso un

prosperoso futuro: si rischia altrimenti di ritrovarsi un gruppo che vive come

piccolo trauma ogni minimo cambiamento.

Se la continuità può quindi essere intesa come la sensazione di uno sviluppo

temporale dal sé, l’unità o coerenza che Ramachandran cita come seconda

componente può a mio avviso essere pensata come la sensazione di uno sviluppo

spaziale del sé: per acquisire coscienza di se stessi come una medesima entità

psichica, nonostante i cambiamenti seppur minimi che il tempo ci impone,

dobbiamo infatti far riferimento almeno a livello inconscio ad una rappresentazione

mentale dei nostri confini e di ciò che nello stesso tempo ci limita e ci

contraddistingue dall’altro e dall’ambiente: solo in presenza di tale mappa psichica

in grado di contrassegnare i nostri limiti come fattori di distinzione finalizzati a

tracciare un confine con l’altro possiamo percepirci come spazialmente distanti

dagli altri e conseguentemente come individualità uniche e invarianti rispetto al

tempo. I confini non sono in questo senso da intendersi solo come propriamente

fisici, ma anche psichici: ogni stato emotivo percepito come proprio e non attribuito

all’altro permette al sé di conoscere e percepire i propri limiti, di posizionarsi

rispetto all’altro, e di trovare quindi la propria identità.

Anche questa componente del sé sembra avere le caratteristiche di un sentimento di

fondo che scorre sotto il livello della coscienza durante ogni istante della nostra

vita: ogni sensazione percepita come propria permette la ricostruzione continua di

un confine di separazione che permette al sé di auto-delimitarsi e auto-percepirsi

nello spazio come ente autonomo e dotato di caratteristiche personali e differenti

dagli altri. Ogni qualvolta siamo in grado di percepire un contatto prettamente

fisico con l’ambiente, il sé coglie la reazione dell’organismo aggiornando la

rappresentazione dello schema corporeo e ridefinendo i propri confini fisici con lo

spazio circostante; non vi sono ragioni per dubitare che la medesima cosa possa

accadere anche con gli stati affettivi: quando il sé riconosce come proprio uno stato

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emotivo (ad esempio paura, felicità o rabbia), la rappresentazione dei propri confini

si plasma riposizionandosi rispetto agli altri e percependo i propri limiti come

fondamentali nella costituzione di un senso di unità del sé.

Più banalmente, ogni volta che evidenziamo ai nostri occhi o a quelli degli altri

alcune nostre caratteristiche quali possono essere gentilezza o onestà, piuttosto che

pigrizia o avarizia, stiamo mettendo l’accento su componenti caratteriali in grado di

distinguerci dagli altri, e quindi di definire la nostra identità. Un atteggiamento

eccessivamente orientato a mettere in rilievo le caratteristiche dell’altro

(specialmente negative) può essere a questo proposito sottolineato come una

modalità per rinforzare i propri confini laddove essi siano più fragili: se l’altro è

visto come un “non-sé”, le caratteristiche attribuitegli possono portare per

esclusione a definire i propri limiti e quindi a trovare l’identità del “sé”; sembra

questo il meccanismo rintracciabile anche a livello collettivo all’origine delle

accese rivalità fra gruppi, che trovano nella proiezione di caratteristiche negative

all’altro gruppo (o spesso proprio nella costruzione apposita di un “altro” fittizio)

una modalità per definire se stessi e per compattare i propri confini.

Anche qui, la correlazione con le problematiche legate al sé balza all’occhio: senza

entrare nel dettaglio clinico per il quale non ne abbiamo le competenze, è chiaro

anche agli occhi dei non esperti che se parti del sé e aspetti del carattere vengono

vissuti come deficit da annullare e da superare e non come sani limiti in grado di

contraddistinguerci dagli altri e di fornire i necessari confini al sé, ne deriverà non

solo un profondo senso di frustrazione per la mancata accettazione di parti del sé e

un conseguente tentativo di repressione di ciò che viene rifiutato e spesso proiettato

in figure esterne, ma anche una forte sensazione di incompletezza legata alla

percezione di uno scarto fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere: vedremo poi

come questo può essere correlato, fra le altre cose, a certi comportamenti

d’acquisto.

Il sé, quindi, sia a livello individuale che collettivo, necessita da una parte, nella sua

dimensione temporale di continuità, di una capacità di mantenere viva una

rappresentazione degli oggetti anche se assenti e di una fiducia di base nella

possibilità di poterli ritrovare con le proprie potenzialità, e dall’altra, nella sua

dimensione spaziale necessaria per percepirsi come la stessa unità, di basarsi su una

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rappresentazione dei propri limiti fisici e psichici, esperiti come caratteristiche in

grado di separarlo e distinguerlo dalle altre entità.

Dimensione spaziale e temporale sembrano decisive nel caratterizzare le reazioni

del sé agli stimoli percepiti: persone con un differente senso di continuità del sé

reagiranno diversamente a livello emotivo di fronte a situazioni simili quali, ad

esempio, distacchi affettivi. In quest’ottica, queste componenti di base del sé

sembrano interporsi fra la percezione degli stimoli e la reazione ad essi, giocando

così un ruolo decisivo nell’indirizzare i comportamenti sulla base delle loro

differenti caratteristiche: i dati sensibili percepiti dal soggetto tramite una capacità

di integrare le informazioni propria dei sistemi coscienti costituirebbero delle entità

sensibili che entrerebbero nello stesso tempo in contatto con varie dimensioni del

sé, fra cui quelle spaziali e temporali, le quali, secondo le proprie caratteristiche

sviluppatesi nel tempo, filtrerebbero gli stimoli percepiti permettendo una

rappresentazione psichica differente per ogni individuo e producendo differenti

reazioni.

Essendo meno rilevanti ai fini dell’elaborato, non dedichiamo altrettanta attenzione

alle altre componenti del sé segnalate da Ramachandran: la corporeità, o il senso di

appartenenza al proprio corpo, si delinea come una caratteristica maggiormente

ancorata alla dimensione fisica, e può fare riferimento agli studi di Damasio sul

sentimento di fondo e sulla rappresentazione corporea ai quali abbiamo accennato

prima (Damasio 1993); a proposito dell’azione volontaria, invece, ne abbiamo già

discusso precedentemente, riportando le tesi secondo cui la coscienza e il libero

arbitrio non sarebbero altro che sensazioni fondamentali per percepire se stessi

come entità che agiscono sull’ambiente, e non rappresenterebbero cause vere e

proprie delle azioni (Wegner 2010): la riflessività è probabilmente la caratteristica

che più da vicino riguarda l’uomo e può essere intesa come meta-consapevolezza e

capacità di pensare a sé stessi come esseri pensanti.

Chiarite quelle che potrebbero essere le diverse componenti del sé, non è scopo di

questo elaborato prendere in esame tutte le teorie su come queste possano arrivare a

formarsi sviluppando il senso del sé: sappiamo l’importanza che la continuità e i

confini del sé rivestono per la vita psichica, ma non è nostro obiettivo comprendere

come questi si formino. Ci sembra tuttavia utile chiudere questa prima parte

Page 15: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

15

presentando una teoria dello sviluppo psichico e delle caratteristiche del sé che ci

potrà servire in seguito per comprendere alcuni aspetti del comportamento umano:

si tratta del modello della mentalizzazione discusso da Fonagy, Gergely, Jurist e

Target (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002). Lontano dall’idea solipsistica di un

sé che fonda la sua realtà psichica indipendentemente dall’ambiente e grazie a

strutture innate16

, al centro del lavoro dei quattro psicoanalisti c’è invece l’idea di

uno sviluppo del sé che, sulla scia delle teorie dell’attaccamento proposte da

Bowlby17

, è assolutamente imprescindibile dall’interazione con l’altro: in

particolare, il bambino acquisisce una consapevolezza e una capacità di controllo

sui propri stati emotivi (chiamata regolazione affettiva e resa possibile grazie allo

stabilirsi di quelle che vengono chiamate strutture di controllo secondario) solo

grazie <<all’osservazione delle manifestazioni espressivo-affettive degli altri e

associando queste con le situazioni e gli esiti comportamentali che accompagnano

queste espressioni delle emozioni>>18

. Il “matching” operato dal bambino fra ciò

che esso sente a livello viscerale e la reazione espressiva del caregiver a questo

sentire prende il nome di bio-feedback sociale e costituisce per gli autori la base

necessaria per passare da uno stato in cui le emozioni possono essere concepite

come automatismi incontrollati a uno in cui il sé diviene cosciente dei suoi stessi

segnali, e quindi di se stesso. Come gli stessi autori sostengono <<la

manifestazione esterna dell’emozione contingente all’attuale stato affettivo del

bambino porta alla sensibilizzazione e al riconoscimento di uno stato interno che

precedentemente non era accessibile>>19

.

16

<<Le evidenze mostrano chiaramente che è ingenuo assumere che il destino genotipico di un

bambino si realizzi in un cervello ermeticamente sigillato, in qualche modo isolato dall’ambiente

sociale nel quale si verifica l’ontogenesi e il solido adattamento che costituisce il principio

organizzativo dell’intero sistema>> Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.95. 17

Le teorie dell’attaccamento trovano le proprie origini nella celebre opera Attaccamento e Perdita

dello psicologo John Bowlby, il quale fu il primo a considerare il rapporto fra bambino e caregiver

come elemento fondante dello stile affettivo e relazionale che il bambino acquisisce. Secondo

Bowlby, il livello di sensibilità e disponibilità del caregiver nel rispondere alle richieste del bambino

è quindi alla base della formazione di modelli operativi interni che andranno a definire i

comportamenti relazionali futuri. Cfr. Bowlby, J., (1969), Attaccamento e perdita, vol.1:

L’attaccamento alla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1983. 18

Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.106. 19

Ivi, p. 114. Viene fornito anche un esempio in grado di supportare questa tesi tratto da (Dicara,

L.V., (1970), “Learning in the automatic nervous system” In Scientific American, 222, pp. 30-39 e

Miller, N.E., (1978), “Biofeedback and visceral learning”. In Annual review of psychology, 29, pp.

373-404. <<in questo tipo di studi vengono effettuate continue misurazioni dei cambiamenti dello

stato di alcuni stimoli interni a cui il soggetto, inizialmente, non ha un diretto accesso percettivo,

Page 16: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

16

Così, nei primi mesi di vita il bambino sarebbe geneticamente predisposto a

ricercare nell’ambiente eventi contingenti alle proprie azioni, identificando stimoli

esterni come conseguenze di azioni messe in atto e sviluppando una

<<rappresentazione primaria del sé corporeo come oggetto distinto

dall’ambiente>>20

; allo stesso modo, osservando il rispecchiamento affettivo della

propria espressione emotiva modulato dal genitore, il bambino correlerà i propri

stati interni con le manifestazioni espressive del caregiver, cercando poi di

comprendere quali proprie azioni hanno preceduto il rispecchiamento affettivo del

genitore e giungendo così a esercitare consapevolezza e padronanza del proprio

stato emozionale. Più che un unico sé che diviene d’un tratto cosciente, abbiamo in

questo modello diverse parti del sé e stati emotivi che acquistano coscienza di se

stesse tramite il rispecchiamento con l’altro.

Tuttavia, per far sì che questo avvenga, è necessario che il bambino comprenda che

ciò che sente e che viene correlato alla manifestazione del genitore sia uno stato che

appartiene a se stesso e non al caregiver. Detto in altri termini, c’è bisogno di un

processo di categorizzazione degli stimoli (come appartenenti a sé o all’altro)

perché il sé emerga come struttura cosciente: questo, secondo gli autori, avviene

solamente quando il genitore produce una versione esagerata dell’espressione

emotiva <<marcando in modo saliente le proprie manifestazioni di rispecchiamento

affettivo per renderle percettivamente differenziabili dalle espressioni emozionali

autentiche>>21

. Se il genitore dovesse produrre delle espressioni coincidenti con

l’espressione emotiva del bambino, quest’ultimo, data la somiglianza fra il proprio

stato e la manifestazione esterna di esso, non coglierebbe la differenza e non

attribuirebbe più ciò che sente al sé, ma all’altro: lo stato emotivo, non essendo

riconosciuto come proprio (perché troppo simile al rispecchiamento del genitore)

verrebbe attribuito alla stessa persona che produce la manifestazione espressiva,

con il risultato che sarebbe impedito lo sviluppo di rappresentazioni secondarie per

quello stesso stato emotivo, con la spiacevole conseguenza di non riuscire né a

come, per esempio, la pressione sanguigna. I cambiamenti dello stato interno vengono rappresentati

da uno stimolo esterno equivalente, direttamente osservabile dal soggetto, il cui stato co-varia con

quello dello stimolo interno. L’esposizione ripetuta a una tale rappresentazione esterna dello stato

interno ha come esito finale la sensibilizzazione a e, in alcuni casi, il controllo sullo stato interno>> 20

Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.119. 21

Ivi, p.129.

Page 17: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

17

comprenderlo, né tanto meno a gestirlo. Mettendoci nei panni di un bambino che

non distingue ancora fra un “sé” e un “non-sé”, e che vede la realtà come un “tutto”

unico, non percependo la differenza fra una sensazione e lo sguardo del genitore di

fronte a tale sensazione, non avrò neanche la percezione che si tratti di due entità

distinte: è infatti lo scarto fra sensazione e comportamento rispecchiato che mi

permette di comprendere che c’è qualcosa che si distingue in quel “tutto” unico, e

quel qualcosa è il “sé”. In mancanza di questa consapevolezza, il bambino non

categorizza lo stato emotivo come suo ed è obbligato a introiettare nel sé la

rappresentazione dell’altro: <<il bambino che non è in grado di sviluppare una

rappresentazione intenzionale del sé, probabilmente, incorporerà nell’immagine di

sé la rappresentazione dell’altro, a volte quella mentale, a volte quella fisica.

L’immagine del sé, sarà, dunque “falsa”>>22

. Questo, come vedremo, porta a

ricercare l’altro e a esserne dipendenti ogni qualvolta quello stato affettivo viene

percepito: si creano nel sé delle zone di insicurezza dove il soggetto, al posto di

sentire le emozioni proprie, avrà introiettato le reazioni dell’altro a quegli stati

emotivi.

Per ora, sottolineiamo come questa teoria non solo vada incontro alla concezione

del sé come struttura tutt’altro che unitaria ma costituita da diverse parti, ma pone

anche alla base della formazione del sé la categorizzazione e l’attribuzione di stati

emotivi: soltanto quando questo procedimento avviene correttamente, il sé

costituisce dei confini fra stati sentiti come propri e stati riferiti all’altro: ecco

quindi che il procedimento di attribuzione è la base di quella che abbiamo definito

come dimensione spaziale del sé, concernente la consapevolezza dei proprio

confini. Non è possibile percepire confini propri rispetto agli stati affettivi se non vi

è stato un corretto sviluppo del bio-feedback alla base di essi: detto in parole

semplici, così come non è possibile definire i confini di un gruppo se non si è

stabilito quali persone vi appartengono e quali no, non si possono definire i confini

degli stati emotivi e quindi del sé, se non si è stabilito quali stati sono propri e quali

no. Essendo gli stati emotivi fondamentali anche per costruire la propria identità, se

essi non vengono correttamente rispecchiati il bambino rischia di introiettare gli

stati emotivi del genitore: se, ad esempio, di fronte a sensazioni di richieste di

22

Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p. 148.

Page 18: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

18

affetto, il bambino osserverà ripetutamente un comportamento evitante del genitore

che non produrrà nessuna espressione marcata della sensazione, lo stato affettivo

non verrà percepito come proprio e verrà introiettata la reazione evitante del

caregiver. La conseguenza è che il bambino non acquisirà consapevolezza della

propria richiesta d’affetto e non svilupperà in corrispondenza di questo stato

emotivo i giusti confini fra il sé e l’altro, reprimendo il sentimento e attivando al

suo posto la rappresentazione evitante del genitore, che gli imporrà di tenere a sua

volta un comportamento schivo: il soggetto, nel corso della sua vita, è probabile che

faccia di tutto per evitare l’identità di persona in cerca di affetto mostrando invece il

lato evitante corrispondente al falso-sé.

Questo ci mostra che le caratteristiche del sé che permangono nonostante il

trascorrere del tempo e che sono alla base della sensazione di unità e dei propri

confini possono corrispondere a quelli stati emotivi non rispecchiati e al “falso-sé”

che viene introiettato al posto di essi: il soggetto, al posto di percepire i propri limiti

come caratteristiche che permettono di distinguerlo dagli altri, se in corrispondenza

di essi non ha sviluppato una linea di confine fra il sé e l’altro data dall’attribuzione

di ciò che lui sente e ciò che sentono gli altri, rischia di viverli come handicap da

reprimere e confini da superare provando un senso di incompletezza del sé da

colmare attraverso l’identificazione con la rappresentazione di stati della mente

altrui.

Se il processo di attribuzione è decisivo per la coscienza dei propri confini e dei

propri limiti, esso risulta importante anche nella dimensione di continuità del sé.

Abbiamo già visto precedentemente come questa nozione sia strettamente correlata

al concetto di cambiamento: un buon senso di continuità del sé permette infatti di

vivere i cambiamenti non traumaticamente, ma con la fiducia nelle proprie

potenzialità future. Il modello di Fonagy getta ulteriore luce sull’argomento: se

infatti, di fronte alla novità che per sua intrinseca natura arreca una sensazione

inziale di paura, il bambino osserva un’espressione marcata del genitore che

“gioca” sullo spavento minimizzandolo, il bambino stesso noterà una differenza fra

la paura che sente e la manifestazione espressiva del genitore, e comprenderà lo

stato emotivo interiorizzandolo come proprio; se invece, nella medesima situazione,

il bambino vedrà un’espressione altrettanto spaventata di fronte alla novità, non

Page 19: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

19

coglierà lo scarto fra ciò che prova e ciò che vede e attribuirà la paura al genitore e

non a se stesso.

Ciò porterà a una mancata costruzione di confini fra il sé e l’altro in corrispondenza

dello stato emotivo di paura di fronte a una novità: ne segue che in futuro, in

presenza di contesti simili come i cambiamenti, il soggetto riproverà la paura del

genitore ricercando allarme negli occhi degli altri, non riuscendo a comprendere se

l’origine del sentimento sia da ricercarsi in sé o negli altri, e non riuscendo così a

esercitare un controllo su di se. È probabile, quindi, che la sensazione di continuità

del sé possa basarsi soprattutto sulla regolazione affettiva di stati emotivi

riguardanti i cambiamenti, trovando maggiori lacune proprio negli individui in cui

questi stati affettivi non trovino rappresentazioni di secondo ordine.

Abbiamo quindi visto approfonditamente come l’errata attribuzione all’altro di uno

stato emotivo primario appartenente al sé possa essere in grado di produrre nel sé,

in corrispondenza di stati affettivi non correttamente rispecchiati “zone di

insicurezza”, prive di confini fra il sé e l’altro; queste parti del sé non rispecchiate

sarebbero alla base di problematiche legate sia alla dimensione temporale di

continuità, alterando la fiducia del soggetto nell’affrontare i cambiamenti cui è

soggetto il sé, sia alla dimensione spaziale della consapevolezza della propria

unicità e dei propri confini, non permettendo al soggetto di percepire alcuni suoi

stati e alcune sue caratteristiche come propri, ma favorendo al contrario la

discrepanza fra ciò che si è e le aspettative e gli stati emotivi propri dell’altro

introiettati nei propri confini.

Concludendo, la categorizzazione è quindi vista come quel processo fondativo del

sé individuale e collettivo in grado di sviluppare comprensione cosciente dei propri

comportamenti e dal quale dipendono sia il senso di continuità, sia la percezione dei

propri confini23

. Il punto di vista dal quale partiamo è quindi quello di un sé

23

Si veda a tal proposito anche Altman: <<se posso controllare quello che sono io da quello che non sono io, se posso definire cosa è me e cosa non lo è, e se posso osservare I limiti e lo scopo del mio controllo, allora ho dato un grande passo verso la comprensione e la definizione di chi sono.>> Altman, I., (1975), The environmental and social behavior: Privacy, personal space, territory and crowding. Wadsworth, New York. Riguardo all’importanza del processo di categorizzazione per la costruzione di limiti e di senso di continuità del sé collettivo: <<il concetto di identità risponde alla necessità di individuare e comunicare gli aspetti particolarmente caratteristici e specifici di un’organizzazione, l’insieme di quegli elementi che la rendono distinguibile dalle altre

Page 20: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

20

corporeo e frammentato, identificabile più con una serie di diversi fenomeni

mentali che ne sono alla base che come concetto unitario; lo studio dei

comportamenti di consumo che intendiamo svolgere sarà quindi basato su questa

concezione, ed essi verranno conseguentemente esaminati mettendoli in relazione

non con le attività di un sé unitario, ma con l’attività di differenti funzioni del sé.

organizzazioni e che si manifestano con una certa continuità temporale>> Olivero, N., Russo, V., (2009), p. 447.

Page 21: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

21

2. LA RELAZIONE FRA IL Sé E L’OGGETTO DI CONSUMO.

Chiarito da quale punto di vista intendiamo definire il concetto del sé, occupiamoci

ora di approfondire la relazione che le sue diverse componenti e funzioni

precedentemente descritte intrattengono con i comportamenti di consumo: obiettivo

principale di questo capitolo è in particolare analizzare il ruolo simbolico rivestito

dagli oggetti e la loro importanza per l’attività psichica, cercando di comprendere al

meglio le basi della relazione soggetto-oggetto che risulta essere di estrema

rilevanza in un’epoca contemporanea che vede nel comportamento di consumo una

delle sue principali caratteristiche.

La relazione fra soggetto e oggetto viene solitamente presa in considerazione dalle

neuroscienze e dalla filosofia della mente facendo riferimento alla dimensione

puramente fisica, indagando cioè come la rappresentazione dei confini corporei

possa variare in relazione all’interazione con gli oggetti: emblematico a questo

proposito è l’articolo apparso nel 1996 sulla rivista Neuroreport24

, nel quale il

neuroscienziato Atsushi Iriki e il suo team, durante uno studio sperimentale

condotto sulle scimmie, hanno abilmente dimostrato come un gruppo di neuroni

della corteccia parietale posteriore dell’animale si attivava in corrispondenza non

solo del movimento della mano della scimmia, mettendo in atto così una funzione

di codificazione dello spazio circostante che già si sapeva appartenere a questi

neuroni, ma anche quando la scimmia cercava di raggiungere del cibo tramite un

rastrello, il quale, modificando la rappresentazione dello spazio raggiungibile

circostante, veniva quindi nel vero senso della parola incorporato nel campo

recettivo visivo di questi neuroni, andando così ad ampliare i confini di ciò che

veniva percepito come appartenente al sé.

L’espansione dei confini della rappresentazione corporea era in questo caso

strettamente legata al momento in cui lo strumento veniva usato: una volta messo

da parte il rastrello, i campi recettivi tornavano alla loro estensione usuale

delimitando i reali confini corporei (Berlucchi 1997, Rizzolatti, Sinigaglia 2006).

24

Iriki, A., Tanaka, M., Iwamura, Y. (1996), “Coding of modified body schema during tool use by macaque postcentral neurones”. In Neuroreport, 7, pp. 2325-2330.

Page 22: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

22

Ciò che in questo caso viene chiamato body schema, ossia la rappresentazione

mentale del proprio corpo e dei suoi limiti spaziali, è quindi una mappa corporea

sempre presente in grado di plasmarsi a seconda delle interazioni dell’organismo

con l’ambiente e di estendersi includendo nei propri confini oggetti che, pur non

appartenenti al corpo stesso, vengono percepiti come tali se sono in grado di

aumentare il raggio di azioni potenziali del soggetto modellando la sua possibile

attività: nel momento in cui il rastrello permetteva alla scimmia di mettere in atto

una possibile azione quale raggiungere una quantità lontana di cibo, esso veniva

infatti introiettato nella rappresentazione dei confini del corpo della scimmia stessa.

Il classico esempio che viene fatto a tal proposito in riferimento all’uomo è quello

del ciclista, il cui body schema arriverebbe a includere la bicicletta durante l’uso

che di essa viene fatto (Berlucchi, Agliotti 1997). Allo stesso modo è probabile che

chiunque, dopo aver preso confidenza con la propria macchina, sperimenterà una

sensazione di sicurezza nel calcolare automaticamente gli spazi in cui essa può

muoversi e entro i quali, ad esempio, può essere parcheggiata: la rappresentazione

corporea è estesa in quei momenti fino ai confini della macchina stessa, e i nostri

neuroni si attivano come segnali in grado di codificare lo spazio circostante proprio

come se si trattasse del nostro corpo.

Scoperte e ipotesi di questo tipo ci aiutano a prendere consapevolezza della

malleabilità e della flessibilità dei confini del body schema, concetto che appare

assimilabile a quella rappresentazione corporea che Damasio aveva identificato

come sentimento di fondo sempre presente (Damasio 1993) e Ramachandran come

componente centrale del sé chiamata corporeità (Ramachandran 2002). La

sensazione di proprietà del proprio corpo e dei suoi confini è una delle

caratteristiche fondamentali del sé, e il corpo stesso, fra tutte le entità che siamo in

grado di percepire, è ciò che viene maggiormente identificato come “mio”, se non,

addirittura, come “me”25

(Belk 1988, Prelinger 1959).

25

In una ricerca del 1959 condotta dallo psicologo Prelinger, veniva chiesto a dei soggetti di

assegnare a 160 frasi, in una scala da 0 a 3, un punteggio corrispondente al grado in cui queste frasi

contenevano un elemento percepito come appartenente a sé, come “mio”. Le frasi erano raggruppate

in 8 categorie diverse. Ne risultò che, nell’ordine, il grado di correlazione con il sé era sentito più

altro in corrispondenza di parti del corpo (2,98), processi psicologici come la coscienza (2,46),

caratteristiche e attributi personali (2,22), oggetti posseduti (1,57), idee astratte (1,36), altre persone

(1,10), oggetti dell’ambiente circostante (0,64), oggetti ambientali lontani (0,19). Prelinger, E.

(1959) “Extension and Structure of the Self” in Journal of Psychology, 47, pp. 13-23.

Page 23: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

23

Se, come sostengono diverse scuole di pensiero psicoanalitico, il bambino nasce

incapace di distinguere il sé dall’ambiente circostante, è con il passare del tempo e

con l’acquisizione della consapevolezza di esercitare un certo grado di controllo su

alcune parti del proprio organismo che si incomincia a creare nella sua mente uno

schema della propria dimensione corporea costituito dalla rappresentazione neurale

di tutte le sue modificazioni (Belk 1988).

Abbiamo precedentemente visto che però, nonostante l’importanza che la

dimensione prettamente corporea riveste per la vita psichica, vi sono altre

componenti che agiscono come sentimenti di fondo e mappe mentali necessarie per

il sé: in particolare, per i nostri obiettivi, è importante far riferimento sia a quella

che abbiamo descritto come la dimensione spaziale del sé, ossia la sensazione di

unicità e unitarietà fornita dalla consapevolezza di una differenza psichica fra sé e

gli altri e da una rappresentazione mentale dei confini esistenti fra le proprie

caratteristiche e quelle altrui, sia alla dimensione di continuità, ossia una mappa

mentale del proprio sviluppo temporale.

Alla pari della flessibilità dello schema corporeo, possiamo infatti ipotizzare che

anche la percezione dei propri confini psichici e temporali sia ugualmente

malleabile e arrivi a incorporare, oltre agli stati emotivi degli altri come visto nel

modello di Fonagy, anche ciò che gli oggetti rappresentano, facendo sì che essi

vengano percepiti come vere e proprie parti del sé; un oggetto, così come nella sua

dimensione meramente fisica può venir percepito come parte integrante del corpo

qualora modifichi il rapporto del soggetto con lo spazio e il suo raggio d’azioni

potenziali, anche nella sua dimensione simbolica potrebbe essere introiettato nella

rappresentazione dei propri limiti e confini e percepito come parte del sé qualora si

presenti agli occhi del soggetto come un aggregato di significati in grado o di

esprimere alcune sue caratteristiche, andando così a rimodellare le differenze fra

esso e le altre individualità, oppure di fornirgli la concreta sensazione di un proprio

sviluppo temporale.

Per comprendere come possa avvenire questo processo, rivolgiamoci agli studi

filosofici e psicologici che si sono occupati di chiarire la relazione fra gli individui

e gli oggetti che essi possiedono: l’idea sopra esposta che alcuni oggetti siano

percepiti come vere e proprie parti del sé affonda le sue radici nelle teorie dello

Page 24: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

24

psicologo William James, il quale già nel 1890 riconduceva il concetto del sé a un

vasto insieme costituito da tutto ciò che la persona ritiene di possedere, in un ampio

agglomerato che va dai beni più concreti fino ai propri ideali e alle proprie

caratteristiche, passando per la dimensione corporea26

: gli oggetti, alla pari del

corpo e di tutto ciò che viene definito dal soggetto come “mio”, diventano quindi

fondamentali nella definizione di ciò che è “me”. Non sorprende, in quest’ottica,

che James fu tra i primi a mettere in dubbio la sottile differenza esistente fra “me” e

“mine”, collocando gli oggetti in nostro possesso in un continuum decisivo per la

definizione della propria personalità: vuoto di sostanzialità, il sé si delinea ora come

una struttura plastica in grado di modificare la sua essenza in base alla provvisoria

conformazione dei propri confini27

.

Sulla stessa scia di pensiero, Jean Paul Sartre, nel suo più importante lavoro

“Essere e Nulla”, definisce il senso del possesso come la base necessaria del senso

del sé: la motivazione prioritaria che spinge l’uomo a desiderare di possedere

qualcosa è infatti per il filosofo francese la volontà e la necessità di ampliare il

proprio sé, trovando riscontri della propria dimensione identitaria nell’osservazione

e nel tentativo di appropriazione di un’oggettualità esterna. Per Sartre, possiamo

infatti sapere chi siamo solo osservando ciò che abbiamo: l’avere è quindi

condizione di possibilità dell’essere, ed è solo tramite l’atto di possesso che il

soggetto può trovare e sentire l’essenza del proprio sé.

Approfondendo l’analisi fra individualità e oggetto, Sartre individua a questo

proposito tre principali modalità attraverso cui si esplica il fondamentale atto di

appropriazione di un’entità esterna: la prima è il gesto del controllo, tramite il quale

l’uomo arriva a percepire come proprio un determinato oggetto sul quale può

esercitare un certo grado di potere (uno scalatore può ad esempio sentire come

“sua” una montagna dopo aver raggiunto la vetta ed aver quindi esercitato un

controllo su tutto il panorama). La seconda modalità è invece la creazione, atto che

permette all’uomo di definire come proprio un oggetto da lui stesso creato: si presti

particolare attenzione al fatto che con il termine oggetto non si fa in questo caso

26

Cfr. <<a man’s self is the sum total of all that he can call his, not only his body and his psychic

poker, but his clothes and his house, his wife and his children, his ancestors and friends, his

reputation and works, his lands, and yacht and bank-account>> James, W., (1980) 27

Cfr. “But it is clear that between what a man calls me and what he simply calls mine the line is

difficult to draw” James, W., (1890).

Page 25: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

25

riferimento alla sola dimensione tangibile e concreta, e quindi esclusivamente a

beni prodotti manualmente dal soggetto, ma ovviamente anche alle entità astratte, ai

sentimenti, piuttosto che alle azioni e ai gesti messi in atto, o per così dire “creati”,

dal soggetto stesso. Anche l’atto conoscitivo dell’uomo è per Sartre un tentativo di

appropriazione di qualcosa di esterno e sconosciuto dal sé: conoscendo qualcosa,

quel dato qualcosa viene infatti introiettato nel sé e diventa una propria conoscenza,

permettendo all’individuo di ridefinire i confini della propria identità28

. Ed è

proprio l’atto del conoscere che, in virtù di questa sua natura, viene identificato dal

filosofo come la terza modalità di appropriazione.

Traducendo il tutto nel nostro linguaggio, controllare, creare e conoscere sono

quindi per Sartre non solo tre differenti modi attraverso cui l’individuo entra in

possesso degli oggetti fisici e non, ma anche tre atti tramite i quali il soggetto,

rioperando un processo di categorizzazione, introietta nella sua identità nuovi

elementi che gli permettono di trovare e costruire il proprio sé, differenziandolo

dagli altri (Sartre 1943, Belk 1988): l’oggetto è qui nuovamente visto non come

un’entità percepibile che rimane esterna ed estranea al sé, in uno spazio metafisico

indefinito e irraggiungibile, ma anzi come una costellazione di potenziali azioni e

significati che attraverso l’atto di appropriazione vengono incorporati nella propria

identità esprimendo così una parte di essa.

È in questa direzione che va anche il lavoro del filosofo americano Russel Belk, il

quale per primo fa riferimento esplicito al concetto di sé esteso, identificando con

questa nozione l’insieme di oggetti, luoghi, esperienze, idee e persone che vengono

percepiti dall’individuo come parti della propria personalità. Accanto alla struttura

di base del sé costituita da un nucleo contenente le principali caratteristiche

dell’individualità del soggetto, Belk postula infatti l’esistenza di una parte estesa e

flessibile del sé in grado di inglobare e fare propria la rappresentazione di altre

entità sostanzialmente differenti dall’individuo stesso (Belk 1988).

Questa concettualizzazione, nata sulla scia del lavoro di Sartre, è stata senza dubbio

importante poiché ha introdotto nell’ambito degli studi sui consumi alcune

argomentazioni filosofiche e psicologiche di base che hanno permesso di andare

28

Cfr. “il desiderio di conoscere, per quanto disinteressato possa apparire, è un rapporto di appropriazione. Il conoscere è una delle forme che può prendere l’avere” Sartre, J., (1943)

Page 26: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

26

oltre una ricerca sui comportamenti d’acquisto prettamente ancorata a una

dimensione oggettuale concretistica, estendendo invece il dominio di

incorporazione degli oggetti nel sé anche a una dimensione astratta riguardante

luoghi, idee e altre persone; l’immagine mentale che noi produciamo di un oggetto

non è infatti da questo punto di vista ontologicamente differente da quella che noi ci

formiamo di un’altra persona o di un'altra entità non oggettuale: tutto ciò che

percepiamo diventa nella storia della nostra mente una riproduzione ugualmente

manipolabile e soggetta ai medesimi processi cognitivi e emozionali. In questo

modo, persone, luoghi e oggetti sono messi sullo stesso piano dal punto di vista di

ciò che essi rappresentano per noi: tutto può diventare parte del nostro sé esteso e

fungere da immagine mentale in grado di essere incorporata e di rappresentare una

parte del sé.

Chiarito il ruolo dell’atto d’incorporazione di un oggetto all’interno del sé, si

comincia ora a delineare la motivazione che sta dietro a molti comportamenti di

consumo, e non solo: circondarsi di oggetti includendoli nella rappresentazione dei

propri confini significa così permettere ad alcune parti del sé di esprimersi e di

trovare una loro attualizzazione nella vita quotidiana (Balconi, M., Antonietti, A.,

2009). Allo stesso modo, tenendo conto del paritetico status ontologico attribuibile

a entità astratte e concrete, possiamo affermare che venerare una persona, votare un

politico, piuttosto che affidarsi a un brand, diventano tutte modalità attraverso cui

l’individuo esprime, sia all’interno di una rete di rapporti intersoggettivi, sia a se

stesso, una determinata parte e componente del sé che altrimenti, non trovando

nell’oggetto (concreto o meno) la sua rappresentazione sensibile e la sua immagine

mentale in grado di esplicitarlo, rimarrebbe inespressa come un personaggio

teatrale privato di un attore in grado di impersonificarlo: ogni stato affettivo è

infatti nella natura umana un contenuto che ha bisogno della sua forma, ossia di

un’immagine mentale in grado di rappresentarlo.

A titolo di esempio, il desiderio di manifestare una propria carica aggressiva può

trovare così la sua estrinsecazione in personaggi e oggetti che sono associati a

questo tipo di comportamenti forti e arroganti, così come il desiderio di esibire una

parte del sé autonoma e prevaricante può individuare in figure carismatiche e

potenti la sua rappresentazione sensibile, trasformando poi l’unione fra contenuto

Page 27: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

27

emozionale e rappresentazione oggettuale in un atto d’acquisto o di adesione a

modelli e oggetti inerenti a questi stati affettivi.

Si tratta quindi di una concezione rappresentazionale e profondamente simbolica

dell’oggetto di consumo, da intendersi in questo caso non solo come un qualcosa di

meramente acquistabile e riferito alla sola dimensione commerciale, ma a tutto ciò

che intercetta i desideri dei soggetti e che viene percepito da essi come una parte di

sé; in quest’epoca in cui è indubitabilmente vero che tutto si vende e tutto si

consuma, la venerazione e il desiderio di possesso non è solamente demandabile

agli oggetti, ma anche, e soprattutto, ad altre persone o ad esempio a brand.

Qualsiasi immagine mentale che può servire al soggetto come forma

rappresentativa in cui un contenuto e un sentire del sé trovano la loro

oggettificazione e attualizzazione viene così incorporata nei propri confini psichici

e percepita come vera e propria parte di sé. Il momento del consumo e più in

generale di adesione a ideali, persone e gruppi è diventato quindi nella realtà

moderna un fondamentale momento di espressione del sé per mezzo del quale

l’individuo può trovare forme simboliche in grado esprimere diverse componenti

della sua personalità, definendola e rimodellandola in continuazione, e permettendo

una sua manifestazione agli altri.

Lo studio dei consumi sembra avere acquisito la consapevolezza di una funzione

dell’oggetto che trascende il valore funzionale del prodotto in sé a partire dai lavori

sociologici di Douglas e Isherwood, fra i primi ad aver indicato la centralità del

processo di significazione operato dai consumatori all’interno di una teoria volta a

comprendere i comportamenti d’acquisto (Douglas, M., Isherwood, B., 1979). Tale

processo rappresenta per ogni individuo una grande opportunità di costruire e

cambiare la propria identità secondo le proprie scelte consumistiche, fornendo nello

stesso tempo uno specchio di ciò che si vorrebbe essere anche agli altri: come

sintetizzato recentemente da Olivero e Russo <<si può sostenere che i significati

condivisi socialmente orientano il consumatore verso un dato prodotto, il quale

successivamente mette in atto un’operazione di personalizzazione, di attribuzione di

significati legati alla relazione che vi instaura, come se divenissero un territorio

esteso per la rappresentazione del self>>.29

.

29

Oliviero, N., Russo, D., (2009)

Page 28: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

28

Il ruolo dell’oggetto nella definizione della personalità viene ribadito anche dal

filosofo comportamentista Mead e da Cooley, i quali, riferendosi all’insieme di

teorie già esposte nel capitolo precedente, rievocano il ruolo centrale del processo

di rispecchiamento e di osservazione dei comportamenti degli altri per la

formazione del sé, e inquadrano in quest’ottica l’acquisto come un ritorno a questa

dimensione, grazie alla quale l’opinione espressa dagli altri su di sé, e sul bene

posseduto, funge da punto di partenza per la costituzione di una propria identità;

non solo, quindi, il processo di scelta diventa una modalità di comunicazione

mediante la quale trasmettere agli altri un messaggio e una componente del sé, ma

riveste anche una grande importanza nell’auto-costruzione di un’identità (Balconi,

M., Antonietti, A., 2009).

Naturalmente questo ruolo degli oggetti d’acquisto non è sfuggito a chi è stato

chiamato alla gestione di un brand, dove con questo termine, come già ricordato,

non intendiamo designare solamente la mera dimensione oggettuale, ma anche

qualsiasi prodotto “vendibile”, persone e ideali compresi: ad ogni “oggetto” da

porre sul mercato viene infatti associata una personalità, così da favorire un

processo di identificazione da parte dei soggetti, i quali cercano nel momento del

consumo un’opportunità per narrare parti del sé inespresse, allargando i confini del

sé e percependo come appartenenti a se stessi tutte le entità in grado di fornire un

vestito concettuale a un corpo emotivo di base30

.

Un rapido sguardo alle pubblicità ci mostra infatti come <<Barilla acquista un

carattere prevalentemente affettivo e protettivo, Tim diventa amicale e affiliativa,

Vodafone dinamica e coraggiosa, Dior altezzosa e aristocratica […] La preferenza

accordata a una marca piuttosto che all’altra assume il valore di simbolo, di

stemma, con cui il consumatore esprime il suo personale stile di vita, l’adesione a

determinati valori>> (Balconi, M., Antonietti, A., 2009). Non sorprende che in

questo contesto di personalizzazione dei brand31

, un ambito che riscuote sempre

30

Riguardo all’importante concetto di identificazione, processo alla base dell’introiezione di un oggetto nei propri confini, il contributo principale deriva dalla psicoanalisi: <<Nella teoria psicoanalitica, infatti, questi processi sono strutturanti l’identità dei soggetti, spostando i confini tra il sé e realtà in modo tale che in ogni esperienza transizionale l’oggetto di identificazione divenga parte di sé (introiezione), così come parti di noi divengano elementi dell’oggetto (proiezione)>> Balconi, M., Antonietti, A., (2009). 31

Gli studi di Aaker sulla brand personality, ovvero l’antropomorfizzazione del brand hanno condotto all’individuazione di 5 caratteristiche di personalità, anche dette Big Five, riconoscibili, in

Page 29: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

29

grande successo sia quello dell’abbigliamento, tramite il quale la natura del

comportamento d’acquisto esprime tutto il suo potenziale: il vestito diventa infatti il

paradigma per eccellenza della possibilità degli individui di indossare e prendere in

prestito un’identità, trasformandola in un qualcosa di prettamente fisico e

facilmente comunicabile agli altri. I capi d’abbigliamento, così, non solo possono

essere incorporati nel proprio body schema ampliando i confini della propria

rappresentazione corporea (Berlucchi, G., Agliotti, S., 1997), ma possono anche

essere inglobati nella dimensione spaziale del sé contenente le proprie

caratteristiche, dando forma alle proprie componenti identitarie e venendo di

conseguenza percepiti come vere e proprie parti di del sé.

Chiarito l’importante ruolo che l’oggetto d’acquisto riveste nel processo di

espressione di parti del sé che l’individuo intende mostrare, occupiamoci invece ora

di comprendere le modalità tramite cui ciò che viene incorporato nel proprio sé

esteso possa contribuire a proteggere alcune zone del sé e a nascondere certi stati

affettivi per mezzo dell’identificazione in oggettualità esterne.

Lo studio della relazione fra il significato simbolico attribuito agli oggetti e le

mancanze percepite nella rappresentazione del sé trova la sua origine negli studi di

Wicklund e Gollwitzer, che nel loro volume “Self-completion theory” teorizzano

l’esistenza di un processo di completamento simbolico del sé, che, inserito in un

contesto intersoggettivo, viene operato dagli individui come tentativo di sopperire

al mancato raggiungimento di un obiettivo, ritenuto fondamentale per la propria

immagine, attraverso un oggetto che sia socialmente ritenuto rappresentativo del

medesimo scopo. Gli individui, secondo questa teoria, sperimenterebbero un senso

di completezza quando, di fronte alla percezione di un divario psichico fra il sé

attuale, ossia ciò che essi pensano di essere, e il sé ideale, ossia ciò che essi

vorrebbero essere, riescono, tramite l’esibizione di “etichette” e l’appropriazione di

oggetti, a ridurre questo gap agli occhi degli altri. Le oggettualità esterne, in virtù

della loro natura rappresentazionale, fungono in questo caso da entità in grado di

colmare un vuoto interiore.

misure diverse, in tutte le marche: sincerità, eccitazione, competenza, sofisticatezza e rudezza. Cfr. Olivero, N., Russo, V., (2009), pp. 209-210.

Page 30: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

30

Mettere in atto inconsciamente questo tipo di strategia compensatoria tesa a

nascondere preesistenti e durature mancanze del sé implica per gli autori

l’instaurazione di rapporti interpersonali non autentici, ma piuttosto improntati

solamente sull’esasperato bisogno del soggetto di essere visto e riconosciuto dagli

altri come individualità priva di imperfezioni e di quella stessa mancanza, vissuta

dal sé come limite. L’altro perde in questi casi il suo carattere di persona con cui

empatizzare, e diventa un mero specchio attraverso il quale controllare l’efficacia di

un processo di occultazione del sé reale e di sovrapposizione di una maschera

rappresentante il sé ideale (Wicklund, R., Gollwitzer, P., 1982). Esibire, in questo

senso, significa nascondere: la vergogna di mostrare le proprie mancanze viene

cancellata da un oggetto, un concetto, o una persona in grado di esprimere un

significato opposto alla propria carenza, e vicino invece a ciò che si vorrebbe

essere.

Tornando all’argomentazione di Russel Belk, è probabilmente a questo principio

che il filosofo fa riferimento quando ipotizza una relazione di proporzionalità

inversa fra la solidità del nucleo di base del sé e la necessità di acquisire entità

esterne da introiettare nel sé esteso: maggiore è il grado in cui un’individualità

poggia su basi certe e ancorate alla propria personalità, minore dovrebbe essere il

suo bisogno di fare affidamento a oggetti e personalità esterne al fine di definire e

proteggere se stessa; al contrario, una minore solidità di base e una minore

consapevolezza dei confini della propria identità sarebbero causa di un

atteggiamento del sé orientato all’incorporazione di oggettualità esterne in grado di

sopperire alle mancanze di base (Belk 1988)32

: potremmo parafrasare la questione

con un semplice “più siamo vuoti dentro, più tenteremo di essere ricchi fuori”. In

questa nuova ottica di pensiero, molti comportamenti d’acquisto troverebbero il

loro significato in un estremo tentativo del sé di trovare i propri confini non

precedentemente definiti sulla base di un sano sviluppo della personalità.

Facendo riferimento al lavoro di Fonagy esplicitato nel primo capitolo, possiamo

comprendere che ciò che viene definito “sano sviluppo del sé” è un processo

fondato su una corretta attribuzione di stati affettivi operata tramite il meccanismo

32

Cfr. “we may speculate that the stronger the individual’s unextended or core self, the less the need to acquire, save, and care for a number of possessions forming a part of the extended self”. Belk, R. (1988), p. 159.

Page 31: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

31

di rispecchiamento: categorizzare uno stato affettivo come appartenente al sé o

all’altro è infatti ciò che sta alla base della costituzione di una mappa psichica che

rappresenti i confini del sé e funga da sentimento di base in grado di fornire al sé la

necessaria consapevolezza dell’estensione della propria identità di base, delle sue

caratteristiche, dei suoi limiti, del suo sviluppo temporale e di una precisa

distinzione fra sé e altro. In mancanza di questo processo abbiamo visto che il sé

non acquisisce la corretta percezione dei propri confini e introietta lo stato mentale

dell’altro portando alla costituzione di quello che Fonagy, con riferimento a

Winnicott, chiama non a caso il falso sé33

, una personalità basata sulla negazione di

questi stessi stati mentali (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002).

Possiamo ora capire che questo falso sé, che prende forma nelle zone di insicurezza

laddove manca una percezione dei propri confini e che come detto da Fonagy

<<prende in prestito ideali>> per colmare il proprio vuoto, coincide con la fragilità

del nucleo di base del sé e con il conseguente tentativo di ricorrere ad entità esterne

per proteggersi a cui fa riferimento Belk (Belk 1988). Il concetto di base è infatti il

medesimo: un sé poco sicuro dei propri confini e delle proprie caratteristiche

ricorrerà a oggetti, personalità e ideali esterni che gli permettano di trovare i suoi

stessi limiti, mascherando così il vuoto di personalità sottostante.

Ritornando all’esempio trattato nel primo capitolo, possiamo, a scopo meramente

didattico e mettendo fra parentesi per un momento la complessità di fattori che

concorrono alla formazione della personalità, ipotizzare che un soggetto il quale,

causa il reiterato comportamento evitante del genitore, non acquisisca

consapevolezza della propria richiesta d’affetto e tenda quindi a reprimere quel

sentimento imponendo a se stesso di assumere invece un comportamento a sua

volta evitante, dovrebbe fare di tutto per evitare l’identità di persona in cerca di

affetto: è probabile dunque che, per mascherare lo stato affettivo e il vuoto di

personalità sottostante ad esso, acquisirà ideali di forza e aggressività, orienterà i

33

Cfr. “un sé il cui stato costitutivo no ha ottenuto riconoscimento è un sé vuoto. Il vuoto riflette l’attivazione di una rappresentazione secondaria che manca delle connessioni corrispondenti con l’attivazione affettiva all’interno del sé costitutivo. L’esperienza emozionale sarà priva di significato, e l’individuo potrà ricercare altre figure potenti con cui fondersi, o ricercare l’induzione per causa esterna (attraverso droghe) di esperienze fisiche di attivazione per riempire il vuoto con una forza o ideali presi in prestito.” (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002), pp. 146-147.

Page 32: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

32

suoi consumi e i suoi gusti in tale direzione, e prenderà come modelli di

identificazione personalità che esibiscano questi tipi di comportamento.

Una zona di insicurezza del sé contenente uno stato affettivo non compreso diventa

dunque terreno fertile per la ricerca di oggettualità esterne che, introiettate nel sé,

definiscano la personalità. Accade così che l’acquisto esasperato di oggetti, la cieca

adorazione di una personalità e l’espressione esacerbata di estremi ideali possano

rappresentare in questo senso modalità tramite cui il sé nasconde a se stesso e agli

altri un’insicurezza sottostante; essendo quest’area di insicurezza, come abbiamo

visto, territorio in cui non vi è confine fra un proprio sentire e quello di un altro, e

in cui regna sovrana la confusione, un qualcosa di esterno viene mentalmente

incorporato e sentito come proprio con la speranza che possa aiutare il sé a

ricostruire il proprio confine con l’altro definendo così la propria identità:

comprando un oggetto, piuttosto che attraverso l’identificazione con qualcuno, ho

infatti l’opportunità di ribadire una personalità, di esprimere una parte di me, e in

poche parole, di definirmi e posizionarmi rispetto agli altri. Maggiore sarà la mia

insicurezza, maggiore sarà la necessità di ricorrere a queste entità esterne per

definirmi.

Il riferimento a dimensioni oggettuali utilizzate per mascherare aspetti del sé viene

identificata in psicoanalisi con il concetto di strategia feticista: facendo riferimento

in questo ambito al brillante saggio scritto dalla psicoterapeuta americana Louise J.

Kaplan e intitolato “falsi idoli”, con il termine feticismo non si fa riferimento a un

comportamento attinente alla sola sfera sessuale, come si è soliti pensare, ma più in

generale ad un concetto che rimanda ad un qualsiasi atteggiamento di venerazione

per certi oggetti: il feticcio, in quest’ottica, diventa quindi la sintesi di tutto ciò che

fino ad ora abbiamo identificato come dimensione oggettuale incorporata nei

confini del sé per esprimere o mascherare parti del sé. Per la Kaplan, in particolare,

la strategia feticista è quel processo messo in atto dal soggetto per trasformare tutto

ciò che è immateriale, ambiguo e per sua natura incontrollabile, come possono

essere quelle emozioni e quegli stati affettivi non compresi, in qualcosa di

materiale, conosciuto, manipolabile e distante da sé. Nel feticismo sessuale, ad

esempio, la forza pulsionale dell’erotismo, ambigua e mai compresa fino in fondo,

costituisce un’ombra pericolosa che viene esorcizzata e mascherata dalla presenza

Page 33: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

33

di un oggetto su cui concentrare le proprie attenzioni e i propri desideri: proiettando

infatti su un’entità esterna un qualsiasi sentimento imprevedibile e pericoloso, il

soggetto allontana l’ignoto da sé, prendendone le distanze e sperimentando una

sensazione di controllo su di esso. Naturalmente, questo atteggiamento inconscio

pervade molti istanti della nostra quotidianità; come ci ricorda la Kaplan, <<la

nostra vita quotidiana è basata sulle culture del feticismo che sostituiscono i valori

spirituali con oggetti materiali che catturano la nostra attenzione con il loro

scintillio in modo da nascondere più agevolmente il loro contenuto traumatico>>34

.

La smodata venerazione per oggetti, ma anche per persone, ideali e concetti che

vengono, in termini di marketing, brandizzati, e cioè trasformati in icone, è in

buona parte rimandabile a questo bisogno di coprire un sentimento sottostante

vissuto come imprevedibile e inquietante perché, come direbbe Fonagy, non

mentalizzato e non rispecchiato; senza una capacità riflessiva di comprendere i

propri stati emotivi l’individuo è infatti facilmente portato a percepirli come ignoti

e quindi pericolosi, ricorrendo così a dimensioni oggettuali che deviino la sua

attenzione, reprimano il sentire, mascherino le sue carenze, ed esprimano parti del

sé: <<quando l’oggetto del desiderio è vivente e incontrollabile, il desiderio, per

proteggersi si posa su un oggetto inanimato.>>35

Il brand e l’oggetto rivestono in questo senso l’importanza di etichette da

sovrapporre alle ferite del sé per coprire un doloroso sentire sottostante: la stessa

Kaplan fa riferimento al marketing ricordando che <<senza saperlo distintamente,

la sterile cultura contemporanea fa leva su questi timori primordiali per sviluppare

strategie di marketing che inducano i consumatori ad acquistare molte più merci di

quante gliene occorrerebbero>>36

Concludendo questo capitolo, abbiamo dunque visto come le dimensioni del sé e le

conseguenti percezioni di una propria unicità e di un proprio sviluppo temporale cui

faceva riferimento Ramachandran siano flessibili e malleabili rappresentazioni

inconsce che, essendosi sviluppate sulla base di un corretto processo di

categorizzazione, possono anche essere alla base di certi comportamenti d’acquisto

tesi non solo all’incorporazione di oggetti esterni mirata a dare una veste sensibile e

34

Kaplan, L.,J., (2006), p. 17. 35

Ivi, p. 147. 36

Ivi, p, 165.

Page 34: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

34

rappresentativa alle proprie parti e caratteristiche, ma anche a proteggere e

difendere il sé nelle sue zone più vulnerabili, cercando la ricostruzione di un

confine e di una personalità laddove non vi sia stato un corretto processo di

sviluppo di distinzione fra il sé e l’altro.

Page 35: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

35

3. L’ACQUISTO COMPULSIVO: MODELLI DI SPIEGAZIONE

DEL COMPORTAMENTO DI DIPENDENZA.

Dopo aver attentamente analizzato il rapporto fra il sé e gli oggetti d’acquisto, e

prima di dedicarci allo studio dell’influenza esercitata dalla società dei consumi su

questa relazione, è giunto ora il momento di concentrare le nostre attenzioni su un

tema che svolge un ruolo centrale nei comportamenti d’acquisto, e non solo: la

dipendenza.

Obiettivo di questo capitolo non è ovviamente fornire una panoramica completa di

tutti gli ambiti in cui questo concetto può essere studiato, e neanche rintracciare un

quadro esaustivo delle sue possibili cause, ma bensì, coerentemente con i

precedenti capitoli, analizzare la possibile relazione fra il comportamento

dipendente e la sfera degli acquisti, correlazione che trova la sua attuazione in un

fenomeno che negli ultimi decenni è stato chiamato acquisto o shopping

compulsivo.

Prima di addentrarci nell’analisi di questo fenomeno, è tuttavia necessario porre

come doverosa premessa un rapido quadro generale del concetto di dipendenza: se

è senza dubbio vero che con questa espressione, attualmente, si è sempre soliti far

riferimento ad un qualsiasi comportamento compulsivo di ricerca di una

determinata sostanza o ad una reiterata messa in atto di un comportamento, ed è

dunque da intendersi come un concetto che racchiude in sé una serie di molteplici

significati che vanno ben oltre la sfera attinente agli acquisti e gli intenti di questo

elaborato, è però fondamentale sottolineare che tradizionalmente il termine

dipendenza veniva esclusivamente usato in riferimento al reiterato abuso di

sostanze alcooliche o tossiche da parte di un individuo non in grado di esercitare un

controllo su questa azione (Pani, Biolcati, 2006).

Nonostante il suo significato originario affondi quindi le radici in un contesto di

abuso di alcool o droga, tuttavia, negli ultimi decenni, il concetto si è esteso fino a

inglobare una serie di determinate azioni non per forza orientate all’assunzione di

tali determinate sostanze: in particolare, in ambito psicologico, a fianco del

tradizionale modo di intendere la dipendenza, ha fatto la sua comparsa il concetto di

“addiction”, termine con il quale recentemente si è soliti designare una condizione

generale di <<dipendenza psicologica che spinge alla costante ricerca dell’oggetto,

Page 36: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

36

dell’attività, senza i quali l’esistenza dell’individuo sembrerebbe perdere di

senso>>37

.

Il concetto di dipendenza esce quindi da una condizione di forte imprescindibilità

dalla presenza di una concreta sostanzialità per arrivare invece a includere tutte le

generiche circostanze in cui vi è un abuso, da parte del soggetto, di un determinato

comportamento, ripetuto in modo incontrollato poiché dettato da un sottostante

bisogno urgente che richiede immediato soddisfacimento.

Ciò che è importante rimarcare per il prosieguo della nostra analisi è che,

indipendentemente dall’oggetto del comportamento dipendente, vi sono importanti

aspetti che accomunano le recenti “addictions” con le tradizionali dipendenze:

primo fra questi lo stato di forte desiderio compulsivo verso il raggiungimento

dell’oggetto/comportamento, accompagnato secondariamente da un malessere

dovuto all’astinenza da esso e da correlate radicali alterazioni del tono dell’umore

in corrispondenza dell’inizio o della fine dell’attività dipendente; quest’ultima,

inoltre, recita un ruolo di dominanza nel pensiero e negli atteggiamenti del

soggetto, arrivando a interferire con la quotidianità della sua vita e rischiando di

compromettere non solo la stabilità psichica del soggetto stesso, ma anche le

relazioni che esso intrattiene con coloro che gli stanno vicino (Pani, Biolcati, 2006).

Così inteso, il comportamento dipendente può quindi arrivare a includere i più

svariati ambiti di applicazione, che vanno dal gioco d’azzardo a internet, fino allo

shopping, sul quale concentriamo i nostri studi in questo capitolo; se infatti, come

abbiamo precedentemente visto, l’acquisto è sicuramente un importante momento

di espressione del sé grazie alla sua capacità da una parte di offrire al consumatore

un mezzo di identificazione di parti del sé, e dall’altra di porsi come potente

strumento comunicativo tramite il quale manifestare un determinato ruolo sociale,

non è finora chiaro come, e per quali ragioni, esso possa passare da rituale

momentaneo e episodico quale comunemente è, a vera e propria ossessione ripetuta

anche contro la propria volontà.

Posta quindi come premessa inamovibile del discorso la rilevanza dei beni materiali

nell’auto-definizione del sé e nella costruzione di una propria manifestazione

espressiva vicina a un sé ideale tanto agognato quanto internamente irraggiungibile,

37

Pani R., Biolcati R., 2006, pp. 3-4.

Page 37: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

37

e messo momentaneamente fra parentesi il considerevole impatto dell’influenza

sociale nel far sì che questi comportamenti dipendenti vengano dirottati sui

consumi, è possibile tracciare un quadro concettuale che sia in grado di fornire una

spiegazione il più possibile completa e corretta dell’acquisto compulsivo?

Nonostante qualche sporadico cenno di interesse a questo tema sia stato riscontrato

anche all’inizio del ventesimo secolo38

, la psicologia ha provato seriamente a

rispondere a questa domanda solo in tempi recenti, dove la tematica dello shopping

compulsivo è diventata di stringente attualità grazie anche a una serie di indagini

specifiche sull’argomento condotte sia in ambiti di competenza prettamente

psicologica e psichiatrica, che in campi di studio attinenti alla sfera del marketing,

merito di un sempre crescente interesse sul tema da parte soprattutto degli studiosi

di mercato; naturalmente, trattandosi ancora di un’area di ricerca abbastanza

giovane, soprattutto se confrontata con gli studi relativi ad altre dipendenze, è

impossibile pervenire ad un esauriente elenco di tutte le sue caratteristiche, ma

ricerche scientifiche e resoconti clinici sono abbastanza numerosi per poter

permettere un discorso abbastanza preciso sul tema39

.

Malgrado i dati empirici sembrino mostrare una maggiore presenza di questo

disturbo nella popolazione femminile40

, il fenomeno è segnalato in crescita anche

nel genere maschile41

, a testimonianza del fatto che la differenza di genere finora

riscontrata non è tanto rimandabile a una diversità intrinseca nella natura di uomo o

38

I primi a parlarne furono Kraepelin (1915) e Bleuler (1924), che coniarono il termine <<oniomania>> per descrivere la mania degli acquisti, considerandola appartenente alla categoria degli impulsi patologici. Dopo di loro, tuttavia, non se ne è parlato per più di 60 anni. Cfr. Pani R., Biolcati R., 2006, p. 22. 39

Per un buon elenco delle principali fonti bibliografiche sul tema dell’acquisto compulsivo, si veda Pani, R., Biolcati R., 2006, p.25. 40

Vi sono numerose evidenze empiriche a sostegno di una prevalenza del genere femminile per quanto riguarda il problema dello shopping compulsivo: “Nello studio di D’Astous e Tremblay (1988), le donne hanno ottenuto un punteggio significativamente più elevato alla scala che valuta lo shopping compulsivo. Inoltre, quasi tutti i casi di acquisto compulsivo, presentati in letteratura psicoterapeutica, riguardano donne. Nell’indagine compiuta da Scherhorn, Reisch e Raab (1990) nella Germania occidentale, le donne hanno ottenuto punteggi più elevati al German Addictive Buying Indicator rispetto agli uomini” Pani, R., Biolcati, R. (2006), p.36 41

“lo shopping compulsivo rimane un disturbo più rappresentato nella popolazione femminile, seppur ci sembra, dalla nostra pratica clinica, che in Italia l’aumento registrato, negli ultimi cinque anni, vada a carico percentualmente più degli uomini che delle donne. I dati di cui siamo in possesso sono ricavati da esperienze cliniche più che strettamente sperimentali e sospettiamo che tale aumento sia di natura socioculturale, parallelo al cambiamento che vede gli uomini più attenti all’estetica e a una sorta di identificazione con l’atteggiamento femminile” Pani, R., Biolcati, R. (2006), p.37

Page 38: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

38

donna (teorie queste che rischiano di aprire un pericoloso dibattito sull’innatismo

delle differenze fra i sessi) quanto ad un’influenza sociale dettata da pubblicità,

mercato e coscienza collettiva, che tradizionalmente associano maggiormente alle

donne l’attività dello shopping.

Per comprendere da più vicino il fenomeno dello shopping compulsivo, facciamo

ora riferimento a queste ricerche: per quanto riguarda una precisa definizione del

problema, possiamo innanzitutto dire che vi è in letteratura un ampio consenso di

base nel determinare l’acquisto compulsivo come un disturbo che non consiste

tanto nell’episodico e comune impulso a comprare che produce improvvisi e

singolari atti di acquisto non pianificati; piuttosto, esso viene definito come la

perdita cronica del controllo su questi impulsi, che evolvono quindi in un pattern

ripetitivo in grado di assorbire drammaticamente l’individuo in una catena di

acquisti, reiterata fino al punto in cui essa determina effetti dannosi per il soggetto

stesso e per le persone che gli stanno vicine. Alla pari delle altre dipendenze, il

soggetto che sviluppa una dipendenza nei confronti degli acquisti sperimenta quindi

un desiderio ossessivo di ricerca dell’attività dello shopping, con una relativa

compulsione a comprare in continuazione che, seppur spesso riconosciuta come

esagerata, solo in pochi casi sfocia in una consapevolezza dell’individuo riguardo la

gravità della problematica.

Come primo aspetto del disturbo, ci pare importante sottolineare che l’acquisto di

beni è in questi casi indipendente dalla funzionalità di essi: ciò che emerge dalle

ricerche indica infatti che i soggetti compulsivi comprano oggetti non perché utili di

per sé, ma perché spinti dal desiderio frenetico e irresistibile di comprare più di

quanto effettivamente necessitano (Raab, Elger, Neuner, Weber, 2010); la maggior

parte di articoli acquistati da questi soggetti viene infatti usata in minima parte, se

non addirittura conservata intatta e chiusa in pacchetti senza poi mai essere

utilizzata42

.

Questa svalutazione della funzionalità del bene induce a pensare che, similmente a

quanto avviene nelle altre “addictions”, i soggetti affetti da shopping compulsivo

sviluppino una dipendenza non tanto verso una concreta sostanza esterna quale può

essere droga o alcool piuttosto che beni materiali, quanto piuttosto verso un preciso

42

Cfr. Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 41.

Page 39: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

39

comportamento, in questo caso l’acquisto, che viene ossessivamente ricercato; sono

infatti numerose, a questo proposito, le testimonianze di soggetti che descrivono

l’esperienza dello shopping in sé come eccitante e portatrice di soddisfazione,

felicità e benessere43

: << alcuni pazienti dipingono lo shopping come qualcosa di

eccitante, di pazzo, che dà un brivido, il cosiddetto thrilling o buzz […] Alcuni

soggetti, interrogati sulle sensazioni corporee, hanno parlato di vibrazioni, di calore,

vampate, energia che si diffonde>>44

.

Più che dal possesso dei beni in sé, si può quindi diventare dipendenti dall’atto

d’acquisto: è l’azione, più che l’oggetto, la determinante della compulsione. A

dimostrazione di questo concetto, centrale per comprendere la dipendenza,

sembrano esserci anche alcune evidenze neurologiche: in un recente esperimento

svolto in presenza di soggetti affetti da shopping compulsivo, i ricercatori idearono

un contesto sperimentale volto ad analizzare l’attività di due aree cerebrali, che,

come vedremo dettagliatamente più avanti, vengono spesso associate agli atti

d’acquisto, e non solo: il nucleo accumbens (NAcc) e l’insula. Se la prima è infatti

notoriamente coinvolta durante i processi che generano piacere nell’individuo,

come ad esempio la semplice presentazione di una ricompensa, la seconda sembra

invece giocare un ruolo fondamentale nei processi di aspettativa del dolore e del

dispiacere, quale può essere ad esempio la percezione del prezzo da pagare per

l’ottenimento di un bene (Babiloni, Meroni, Soranzo, 2007; Lugli, 2010; Knutson,

2007). Partendo da queste conoscenze, un gruppo di ricercatori coordinato dal

professore tedesco Gerhard Raab, radunò un gruppo di 49 donne, 23 delle quali

riconosciute grazie a diversi test come affette da shopping compulsivo, e studiò,

tramite la tecnica di visualizzazione cerebrale nota come FMRi (risonanza

magnetica funzionale), l’attività del nucleus accumbens e dell’insula durante un

semplice compito: a tutti i partecipanti, compulsivi e non, venivano mostrate in un

primo tempo le immagini di vari prodotti, successivamente accostate al loro prezzo;

poi, in un terzo momento, gli veniva chiesto, per ogni oggetto mostrato, di decidere

se acquistarlo o meno.

43

<<molti sostengono che solo l’attività dello shopping possa farli sentire meglio>> Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 40 44

Cfr. Ivi, p. 47

Page 40: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

40

Secondo le previsioni teoriche dell’esperimento, i soggetti compulsivi, solitamente

più inclini ad agire d’impulso acquistando beni senza badare a spese, avrebbero

dovuto manifestare, rispetto ai soggetti non-compulsivi, una maggiore attivazione

del nucleo accumbens durante la presentazione dei prodotti, a testimonianza di un

maggior coinvolgimento dei processi legati all’ottenimento di una ricompensa, e

successivamente una minore attivazione dell’insula, segno di una scarsa percezione

del dispiacere legato al prezzo del prodotto.

I risultati empirici hanno effettivamente dato ragione a queste previsioni:

confrontando i soggetti non-compulsivi con quelli compulsivi, questi ultimi hanno

sistematicamente mostrato una maggiore attività del NAcc durante la semplice

presentazione dei prodotti e una minore attività dell’insula durante la

visualizzazione dei prezzi relativi agli articoli acquistabili: segno che effettivamente

i soggetti compulsivi, di fronte alla possibilità di un generico e non pianificato atto

d’acquisto, sperimentano una vera e propria esigenza di comprare, molto più

intensa di quella provata dagli altri individui, e da mettere in atto anche a costi

proibitivi. (Raab, Elger, Neuner, Weber, 2010.)

Quanto detto finora sulla centralità di questa azione nello shopping compulsivo si

sposa con quanto detto nei capitoli precedenti, nei quali indicavamo come

componente fondamentale dei comportamenti d’acquisto l’atto di incorporazione di

un’oggettualità esterna nei confini del sé; il piacere dello shopping sembra infatti

intrinsecamente legato all’azione dell’acquisto come importante momento che ci

permette di entrare, mediante un’estensione dei propri limiti, in contatto con una

oggettualità esterna in grado di esprimere una parte del nostro sé.

Se, come ipotizziamo, questo piacere è la base di molti comportamenti d’acquisto, è

da questo medesimo piacere che gli individui soggetti allo shopping compulsivo

sviluppano una dipendenza; l’atto di rimodellare i propri confini incorporando

entità in grado di dare loro una nuova definizione e posizione nello spazio di

interazione psichica e sociale diventa una attrazione irresistibile tale che alcuni

soggetti ne diventano dipendenti. Non è un caso, in questo senso, che in cima alla

classifica dei beni maggiormente acquistati durante lo shopping compulsivo vi

siano prodotti principalmente legati all’apparenza e all’immagine esteriore, come

Page 41: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

41

vestiti, scarpe e gioielli45

(Dittmar, Drury, 1998); tutti questi sono infatti oggetti

molto personali, che a detta degli acquirenti sono in grado di modificare

l’immagine di se stessi che si intende mostrare: <<con questo acquisto posso far

sembrare diverse le mie gambe, o il soggiorno di casa, posso fare in modo che altri

mi vedano diversa>>46

. Stando alle testimonianze, il nucleo di piacere dello

shopping compulsivo risulta quindi essere il momento dell’acquisto, vissuto dai

soggetti come una scossa libidica dovuta all’incorporazione di un determinato

prodotto, ricco di importanza simbolica, nell’immagine del sé.

Com’è possibile, però, che un semplice piacere come quello procurato dall’attività

dello shopping, da momento di svago e occasionale opportunità di ridefinizione dei

limiti del sé, diventi invece una vera e propria ossessione in grado di dominare la

mente di migliaia di persone influenzandone la quotidianità?

Rispondere a questa domanda in modo esaustivo non è certo facile e neanche di

nostra stretta competenza, ma possiamo provare a raccogliere una serie di

motivazioni derivanti sia dall’osservazione clinica, sia da studi neurologici.

Un primo elemento di interesse deriva da quanto detto poco fa: lo spostamento

concettuale del focus dei comportamenti d’acquisto dall’oggetto in sé all’atto

dell’acquisizione è infatti in grado anche di spiegare l’eterna insoddisfazione

provata dopo l’acquisto, che come vedremo successivamente, viene da molti

ritenuta il motore della società consumistica; se infatti ciò che ci muove a comprare

determinati oggetti è il piacere legato all’attività dell’acquisto e il relativo desiderio

di possesso del bene precedente alla sua acquisizione, è inevitabile che una volta

terminata questa azione ed entrati in una fase di contatto definitivo con l’oggetto, il

piacere e il desiderio subiranno una progressiva diminuzione per poi riaccendersi

solo grazie alla spinta verso l’ottenimento di altri oggetti: il tutto in un circolo

vizioso che ci rende dipendenti dall’attività dell’acquisto.

45

Cfr. Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 40. In una ricerca svolta da McElroy, Philips, Keck risalente al 1994, i prodotti più acquistati durante gli episodi di shopping compulsivo risultano essere vestiti (95,8%), scarpe (75,0%), gioielli (41,7%), articoli per make-up (33,3%). Solo successivamente subentrano altri tipi di prodotti come articoli da collezione in generale (25%), antichità (25%), dischi (20,8%), arte (16,7%), auto e accessori (16,7%), articoli per la casa e libri (12,5%). 46

Ivi, p. 48.

Page 42: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

42

Sintetizza bene la questione la Franchi, quando citando Albert Hirschman, ricorda

che:

<< Hirschman spiega la spinta al consumo sulla base del sentimento

di delusione che nasce nel momento stesso in cui un individuo entra

in contatto con un bene: il progetto sotteso all’acquisto è basato sui

suoi desideri, in esso inserisce le immagini degli oggetti disponibili;

poiché questi non potranno mai soddisfare il desiderio proiettato

sull’oggetto materiale, ne deriva un meccanismo di delusione che si

perpetua a ogni atto d’acquisto>>47

Se questa argomentazione ha senza dubbio il pregio di ricordare in primo luogo che

il ruolo chiave rivestito dagli oggetti nei processi d’acquisto è più che altro dovuto

alla loro capacità di offrire forme rappresentazionali grazie alle quali il sottostante

desiderio di possesso trova una necessaria estrinsecazione, essa tuttavia mette in

luce un meccanismo di eterna insoddisfazione, dovuto alla prevalenza del piacere

dell’azione dell’ottenimento di un bene sul possesso del bene stesso, che è però

presente in ognuno di noi, e anche in ambiti che vanno ben oltre la sfera degli

acquisti.

Il piacere legato all’inseguimento di qualcosa, pronto a spegnersi quando ciò viene

raggiunto, è sì un elemento che spinge le persone a crearsi continui obiettivi e, nel

caso degli acquisti, a comperare sempre nuovi oggetti che siano in grado di

restituire la momentanea scossa data dall’entrata in contatto con un’entità esterna

ricca di significato simbolico per il sé, ma non è però sufficiente a spiegare i

comportamenti di dipendenza da questo piacere: tutti noi infatti ricerchiamo

occasionalmente il piacere legato alla novità e all’inseguimento di essa, ma solo

alcuni di noi diventano schiavi di inseguimenti continui di oggettualità esterne che

finiscono poi con il privare ai soggetti stessi la possibilità di godersi ciò di cui

realmente sono già in possesso.

La mera attrattività dell’atto di appropriazione di qualcosa di esterno e il correlato

desiderio legato al fascino di questo inseguimento non sono quindi condizioni

47

Franchi, M., (2007), p.23. Il riferimento a Hirschman è tratto da Hirschman, A.O., (1983), Ascesa

e declino dell’economia dello sviluppo e altri saggi, trad. it. A cura di A. Ginzburg,

Rosenber&Sellier, Torino.

Page 43: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

43

sufficienti per dare origine a una dipendenza da questa tensione e attività; devono

esserci altri fattori che concorrono alla formazione del comportamento compulsivo.

Il DSM IV-TR, ossia la versione attualmente in vigore del manuale diagnostico e

statistico dei disturbi mentali, ci aiuta a comprendere l’origine delle compulsioni,

definendole innanzitutto come <<comportamenti ripetitivi o azioni mentali il cui

obiettivo è quello di prevenire o ridurre l’ansia o il disagio e non quello di fornire

piacere o gratificazione>>48

e precisando poi che <<la persona si sente spinta a

mettere in atto la compulsione per ridurre il disagio che accompagna un’ossessione

o per prevenire qualche evento o situazione temuti>>49

.

Attenendoci a questa definizione, possiamo quindi primariamente identificare

l’azione compulsiva come un atto che, indipendente dalla ricerca del piacere, trova

invece la sua principale finalità nell’alleviare un disagio sottostante; essa si

configura infatti come una <<possibilità di allontanamento e negazione, seppur

momentanea, da negativi sentimenti di sé>>50

, permettendo inoltre all’individuo di

spostare la sua attenzione su differenti attività transitorie ed evasive che vengono

ritenute in grado, in un modo quasi magico, di ridurre il senso di paura e l’ansia.

È ormai del tutto evidente che non è possibile separare questi ultimi stati del sentire

dai comportamenti compulsivi; più che fenomeni correlati, l’ansia e la paura si

pongono infatti come potenti cause della dipendenza: è questo il caso dei soggetti

che, non tollerando alcune sensazioni dolorose poiché vengono vissute come prove

di inadeguatezza personale, sperimentano in corrispondenza di queste un forte stato

di ansia e paura e un immediato bisogno di rimpiazzare tali pericolosi sentimenti

con attività a loro più congeniali (come può essere l’atto di acquisto), rischiando

così di sviluppare un comportamento dipendente da questo stesso atto.

Lo stesso shopping compulsivo, inserendosi così in un quadro più ampio di

dipendenze che vanno dal gioco d’azzardo all’abuso di droghe, dall’alcolismo ai

disordini alimentari, può quindi essere definito come <<un cronico, ripetitivo

acquistare che si verifica in risposta a eventi o sentimenti dolorosi>>51

o come un

transitorio ed effimero <<rimedio contro il senso di vuoto e la depressione, che si

48

Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 31. 49

Ibidem. 50

Ivi, p.65. 51

Ivi, p.28.

Page 44: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

44

cerca di colmare attraverso l’acquisto di beni>>52

; non solo, infatti, il circolo della

dipendenza ha il risultato di coprire momentaneamente un doloroso sentire

mediante azioni che esauriscono il loro effetto benefico nel momento stesso in cui

vengono messe in atto, ma anche quello di rinchiudere la vita mentale

dell’individuo in una concatenazione di atti che, tanto prevedibile quanto

rassicurante, possa costruire una sorta di riparo dal terreno psicologico del vuoto e

dell’incerto contatto con il quotidiano.

Lungi dall’essere un mero accumulo di beni, lo shopping compulsivo trova quindi

il suo senso profondo in una tensione ad agire finalizzata a mascherare un’altra

pericolosa azione, intendendo con questa espressione un qualsiasi evento mentale

ritenuto pericoloso; in quali condizioni e per quali motivazioni questo meccanismo

difensivo di dipendenza investe la sfera degli acquisti piuttosto che altri ambiti

quali il gioco d’azzardo, l’alcool ed altri oggetti che si prestano a questo tipo di

attività, è difficile a dirsi: sicuramente vi sono da una parte, come vedremo nel

prossimo capitolo, una serie di variabili e trasformazioni sociali che hanno costruito

un contesto storico-culturale adatto per lo sviluppo di questi comportamenti, e

dall’altra un insieme di fattori di tipo individuale che spingono a questo tipo di

dipendenza solo soggetti già inclini, per gusti e predisposizione personale, a un

certo tipo di acquisti.

Inoltre, l’importanza del comprare nella vita psichica di ognuno di noi è stata già

messa in evidenza nei capitoli precedenti; l’acquisto rappresenta un’estensione dei

propri confini, l’estrinsecazione di parti inespresse e l’espressione di zone di

insicurezza del sé, fornendo inoltre una dimensione tangibile che permette

all’individuo di sentire la propria integrità e di fondare la propria immagine sulla

costruzione di un’identità ben visibile agli altri. Acquistando beni di consumo,

l’individuo può acquisire un’immagine di sé flessibile e modificabile a seconda

delle esigenze e del momento: il nuovo acquisto viene visto dalla persona affetta da

shopping compulsivo come una possibile svolta per rendere se stessi diversi,

migliori e più stimati agli occhi degli altri.

Non stupisce quindi che l’attività dell’acquisto possa essere oggetto frequente di

comportamenti dipendenti, offrendosi come categoria ricca di simboli attraverso la

52

Pani, R., Biolcati, R., (2006), p.29.

Page 45: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

45

quale la tattica difensiva della dipendenza agisce: <<gli individui addicted si

sentono ricompensati dalle spese, […] si sentono eccitati, sognano di appartenere a

gruppi esclusivi, di essere ricchi, belli e affascinanti; […] comprare dà loro un

senso di sicurezza e funziona da stimolante che fronteggia la noia del vivere; si

tratta di una droga universale>>53

.

Prima di passare a una trattazione neurologica del problema, concludiamo questa

parte accennando alle possibili origini del disturbo; senza entrare in dettagli clinici,

quanto abbiamo ricordato nel primo capitolo a proposito del meccanismo di

regolazione affettiva di Fonagy può essere utile per comprendere la base anche di

alcuni comportamenti dipendenti; individui che, in virtù di una mancata costruzione

di confini fra stati mentali propri e stati mentali altrui, non hanno sviluppato una

corretta funzione riflessiva in corrispondenza di certi stati del sentire, perdono

infatti la capacità di esercitare controllo su questi stessi affetti, i quali, esperiti come

pericolosi stati non appartenenti al sé, vanno inesorabilmente a formare determinate

zone di insicurezza del sé che non solo, come abbiamo visto, sono alla base di

alcuni comportamenti d’acquisto finalizzati a colmare questo vuoto, ma possono

anche dare origine ad alcune dipendenze: un bambino non aiutato a sviluppare la

funzione riflessiva e incoraggiato invece ad un ritiro quasi autistico verso stati

mentali alternativi, messi in atto per evitare di provare emozioni devastanti poiché

incontrollabili, sarà infatti propenso ad adottare posizioni passive rispetto alla realtà

e comportamenti dipendenti di fuga dal puro contatto con essa.

Vi è inoltre da sottolineare che disturbi nella dimensione della continuità del sé

possono facilmente essere messi in relazione a comportamenti compulsivi: se infatti

è caratteristica tipica di questi ultimi una ricerca continua dell’oggetto della

dipendenza, ciò può anche essere dovuto ad uno scarso senso di continuità

temporale e ad una poca fiducia in se stessi nel ritrovare tale oggetto in un futuro:

da qui l’idea che la separazione sia un evento traumatico da evitare per mezzo di un

contatto diretto che si trasforma presto in una dipendenza da tale oggetto.

Concludendo questa parte, siamo così ora in grado di comprendere come una

generica dipendenza da una continua ed ossessiva ricerca di stimoli esterni in grado

di catturare la nostra attenzione e di porci come passivi spettatori di fronte ad essi

53

Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 49.

Page 46: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

46

non sia altro che un’efficace modalità di fuga messa inconsciamente in atto per

allontanarsi da un doloroso sentimento sottostante che non viene affrontato;

l’occasione di un’attività del soggetto volta a comprendere il proprio sentire viene

così scambiata per una condizione di passività della mente nel farsi trascinare da

una serie di scosse transitorie in grado di annullare l’ansia.

Se la dipendenza risulta essere una delle modalità utilizzate dalla nostra mente per

evitare una paura interna, e suona quindi come un’evoluzione di un più primitivo

istinto umano quale la fuga di fronte al pericolo, siamo in grado di comprendere

quale circuito celebrale sia responsabile di questo tipo di operazione?

La risposta non è univoca, e varia a seconda che si parli di dipendenza da sostanze

o da comportamenti. Se infatti nel primo caso vi sono sufficienti elementi di

spiegazione intrinsecamente legati alla sostanza stessa, nel secondo la situazione è

più oscura e difficile da delineare; faremo a tal proposito riferimento agli studi in

merito del neuroscienziato americano Read Montague, il quale con una brillante

esposizione teorica ipotizza l’estensione del modello di Redish riguardante la

dipendenza da droghe anche alle dipendenze dai comportamenti.

Il punto di partenza dell’intero lavoro di Montague è lo studio dei neuroni

dopaminici: raccolti a grappolo in piccoli gruppi nel tronco encefalico, questo tipo

di neuroni presente in un numero piuttosto esiguo di unità, è connesso con diverse

aree celebrali e trasmette loro, attraverso scariche (bursts) di dopamina, un segnale

orientato a guidare l’organismo verso una ricompensa prevista. Come sottolinea

Montague, il sistema dopaminico fornisce al cervello informazioni in ogni istante,

grazie ad un meccanismo di trasmissione facilmente codificabile:

“le scariche nell’attività degli impulsi significano: “la ricompensa

supera le aspettative”; le pause: “la ricompensa è inferiore

all’attesa”; infine, l’assenza di variazioni: “la ricompensa equivale a

quanto ci si aspettava”. Tali neuroni emettono di continuo

informazioni, anche quando non modificano la frequenza di

riferimento degli impulsi”54

54

Montague, R., (2006), p. 107. La spiegazione del funzionamento dei neuroni dopaminergici è

principalmente dovuta agli studi pioneristici di Wolfram Schultz, un neuroscienziato che all’inizio

degli anni ’70, studiando le cellule celebrali delle scimmie, notò che i neuroni dopaminergici si

attivavano subito prima che una scimmia ricevesse una gratificazione come ad esempio una pallina

di cibo o un pezzo di banana. Cfr. Lehrer J., (2009), p. 31.

Page 47: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

47

Questo costante segnale, prodotto dalla codifica continua di uno scarto fra la

situazione presente e le aspettative future basate sull’esperienza passata, è detto

errore per predizione della ricompensa, ed è quindi reso possibile grazie ad una

duplice informazione che giunge al sistema: da una parte un feedback che

rappresenta l’esperienza immediata e che informa sulla situazione qui e ora vissuta

dal soggetto (<<che esperienza sto avendo adesso?>>55

), e dall’altra un giudizio a

lungo termine sul futuro (<<che esperienza è probabile che io abbia nel

futuro?>>56

). Il sistema dopaminergico, confrontando quindi la condizione presente

con quella ipotizzata come possibile, è in grado di fornire un segnale diverso a

seconda che la prima sia ritenuta migliore, uguale o peggiore della seconda.

In base a questo segnale, il cervello è in grado di costruire una mappa delle azioni

potenziali associando ad ognuna di esse un grado di desiderabilità legato alla

ricompensa predetta dal flusso dei neuroni dopaminici, la cui attività è quindi

decisiva nell’orientare il processo decisionale dell’individuo; ed è proprio questa

capacità del sistema dopaminergico di fornire al cervello gli obiettivi da perseguire

la base della correlazione fra questo tipo di neuroni e la corteccia prefrontale.

Come ricordato da Montague, infatti, quest’ultima è tradizionalmente associata ad

un ruolo di centrale importanza nella formazione e nel mantenimento degli scopi

generali dell’individuo; assumendo, come attualmente si ritiene in letteratura, che

gli obiettivi siano configurazioni stabili di attività neurale (patterns) rappresentati

nella corteccia prefrontale, quest’ultima area svolgerebbe non solo un compito di

selezione fra diversi pattern (ossia diversi scopi) in competizione fra di loro, ma

anche di stabilizzazione della configurazione selezionata, e infine di trasmissione di

questa informazione ad altre aree celebrali.

Nel compiere quest’attività di selezione degli obiettivi da perseguire, è stato notato

(da un gruppo di studiosi formato da O’Ewilly, Cohen e Braver) che la corteccia

prefrontale può agire sia in solitaria, chiudendo, secondo quel processo denominato

controllo del gating, il flusso di informazioni proveniente da altre aree celebrali, sia

dialogando con altre parti del cervello, permettendo tramite lo spegnimento del

cosiddetto scudo anti-informazione, l’accesso di segnali provenienti da esse.

55

Montague, R., (2006), p.102. 56

Ibidem.

Page 48: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

48

La correlazione fra questa attività della corteccia prefrontale e il sistema

dopaminico è individuabile nella capacità di quest’ultimo di alterare il processo di

selezione e mantenimento degli scopi: secondo l’ipotesi del controllo dopaminico

del gating, sviluppata dal medesimo gruppo di studiosi a cui fa riferimento

Montague, una scarica di dopamina sarebbe in grado infatti di abbassare lo scudo

per le informazioni della corteccia prefrontale, facendo sì che l’informazione

corrente stabilisca un nuovo scopo. In questo modo la dopamina segnalerebbe la

presenza di una possibile ricompensa prevista dall’organismo e manderebbe il

segnale alla corteccia, che prenderebbe in considerazione il nuovo possibile

obiettivo: <<è proprio il tipo giusto di segnale da impiegare per abbassare lo scudo

per le informazioni e far sì che la corteccia prefrontale prenda in considerazione un

altro obiettivo! Esso dice alla corteccia che potrebbe accadere qualcosa di meglio

del previsto, e la prepara a cercare un nuovo scopo>>57

.

Che relazione c’è fra tutto questo e la dipendenza? La risposta è in questo caso

abbastanza immediata: abbiamo visto come i neuroni dopaminergici siano decisivi

nell’orientare il comportamento comunicando all’organismo quali scopi perseguire

e spingendolo a considerare le azioni che offrono una maggiore ricompensa

immediata; nella maggior parte dei casi, però, quando questi neuroni incontrano

ripetutamente la medesima ricompensa in un breve lasso di tempo, vanno incontro

ad un progressivo stato di assuefazione dovuto al fatto che, aspettandosi la

ricompensa stessa, lo scarto fra la situazione attuale e quella attesa diminuisce, e la

scarica dopaminica, da uno stato di flusso in cui <<la ricompensa è superiore alle

attese>>, si interrompe poiché <<la ricompensa equivale a quanto ci si aspettava>>.

Questo è ciò che avviene ad esempio con ricompense primarie come cibo, acqua e

sesso, ma non solo: in un certo periodo di tempo successivo all’ottenimento

dell’oggetto desiderato, i neuroni dopaminergici non scaricheranno più, diminuendo

la loro attrattività e influenzando la selezione degli obiettivi generali operata dalla

corteccia prefrontale, finché, passato un certo periodo, la loro desiderabilità tornerà

alta e tale informazione giungerà a modificare l’atteggiamento dell’organismo di

fronte ad essi.

57

Montague, R., (2006), p. 134.

Page 49: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

49

Quello che succede nella dipendenza, stando al modello di Redish riguardante la

dipendenza dalla cocaina, è proprio una perdita della capacità di apprendimento dei

neuroni dopaminergici: essi, in presenza della droga, continuerebbero infatti a

scaricare segnalando all’organismo la presenza di un qualcosa che va oltre le

aspettative, e ciò a causa della capacità di sostanze come la cocaina di scardinare i

freni che consentono al sistema di <<arrestare l’apprendimento delle ricompense

una volta che siano state adeguatamente predette.>>58

; in particolare, la cocaina

sarebbe in grado di produrre questo fatale meccanismo grazie a una duplice

capacità di potenziare la trasmissione della dopamina da una parte, e di bloccare i

trasportatori che la ricatturano nello spazio sinaptico dall’altra (vedi fig.1)59

.

Fig. 1. Rappresentazione dell’effetto della cocaina sulla trasmissione dopaminergica

Nella mente del dipendente, quindi, la sostanza rimane sempre uno stimolo che

mantiene il suo valore irresistibile proprio a causa del fatto che i neuroni

dopaminergici, perdendo la capacità di apprendere, continuerebbero a scaricare

inviando alla corteccia prefrontale un continuo segnale di positività rispetto alle

attese che spingerebbe l’individuo a mantenere fra le sue priorità la continua ricerca

della sostanza.

58

Montague, R., (2006), p.151. 59

http://disintossicazionecocaina.myblog.it/apps/media.php?url=http%3A%2F%2Fdisintossicazione

cocaina.myblog.it%2Fmedia%2F02%2F00%2F911194070.jpg

Page 50: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

50

Secondo Montague, nei disturbi compulsivi come la dipendenza dai propri pensieri,

piuttosto che dallo shopping o dal gioco d’azzardo, potrebbe intervenire un

problema analogo: il sistema dopaminergico non sarebbe più in grado di apprendere

il valore delle ricompense, e il comportamento in questione sarebbe trasmesso alla

corteccia prefrontale come un obiettivo da perseguire in continuazione, per poter

raggiungere la ricompensa attesa.

L’affascinante ipotesi è quindi che l’intero insieme delle dipendenze, al di là delle

differenze rimandabili a caratteristiche intrinseche delle differenti sostanze,

ricadrebbe sotto un unico grande disturbo di valutazione degli stimoli. Detto questo,

la strada per la comprensione neurologica dei disturbi di dipendenza, soprattutto per

quanto riguarda le recenti addictions è ancora molto lunga e richiederà, nel

prossimo futuro, un continuo dialogo fra discipline e un’intensa attività di ricerca

per far sì che si possa far luce sui meccanismi cerebrali alla base di questi

comportamenti, che rappresentano una minaccia sempre maggiore per la salute

mentale delle persone.

Page 51: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

51

4. L’INFLUENZA DELLA SOCIETà DEI CONSUMI SUI

COMPORTAMENTI D’ACQUISTO.

Fino ad ora, il nostro lavoro è stato orientato all’individuazione di alcune

motivazioni sottostanti all’atto d’acquisto; questo obiettivo è stato prima di tutto

perseguito delineando una triplice funzione insita in questa determinata azione:

fornire una necessaria estrinsecazione formale e un’interpretazione di contenuti

sensibili sottostanti, esprimere e ostentare parti del sé, e infine mascherare zone di

insicurezza attraverso un atto di incorporazione di un’oggettualità esterna in grado

di ricostruire una linea di confine fra il proprio sé e l’alterità, coprendo così un

proprio difetto o sulla dimensione temporale o su quella spaziale del sé.

Successivamente, abbiamo tentato di spiegare il frenetico ciclo consumistico

caratteristico della società odierna sulla base sia di una proprietà intrinseca dell’atto

di acquisto, che trova il suo nucleo di piacere fondamentale nell’azione

dell’ottenimento di un bene e non nel mero possesso di esso, sia sulla base di

possibili comportamenti di dipendenza dovuti al tentativo di reprimere uno stato

ansioso preesistente.

Quanto detto finora fa però capo a motivazioni di natura prettamente psicologica e

individualistica, non tenendo conto, come abbiamo sottolineato in precedenza, di

possibili ragioni sociologiche alla base dei comportamenti d’acquisto; obiettivo di

questo capitolo è quindi riequilibrare il piano argomentativo del nostro lavoro,

spostando il focus dell’analisi su parte delle trasformazioni e dei meccanismi sociali

che possono aver giocato un ruolo di primo piano sia nel condizionare la relazione

fra il sé e gli atti d’acquisto, sia nel porre questi ultimi come componente centrale e

assolutamente imprescindibile della cultura occidentale. Non si tratta, tuttavia, di

spostarsi su una linea teorica che va alternativamente da un polo di spiegazione

psicologica a uno di natura sociologica, quanto piuttosto di mettersi nelle

condizioni di accettare un contributo teorico da entrambe le discipline, le cui

argomentazioni non sono sempre e necessariamente incompatibili.

Se è infatti chiaro, come abbiamo descritto nel primo capitolo, che alla base della

costituzione del sé vi è un principio psicologico che fa principalmente riferimento

al contesto dell’attaccamento come primo ambito nel quale il sé trova una sua

condizione di possibilità di sviluppo, ciò non significa che si debbano svalutare

Page 52: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

52

meccanismi sociologici in grado di intervenire successivamente, non tanto nel

processo di costituzione della psiche, quanto nel suo inserimento in un tessuto

sociale volto a governare le sue relazioni con l’ambiente e con le altre alterità.

Affacciarsi alla realtà e interagire con il mondo nella sua totalità non è infatti una

fase totalmente indipendente dal processo di crescita del sé, ma bensì un periodo

che, profondamente intrecciato con esso, è in grado di esercitare la sua influenza

orientando i comportamenti del singolo e rafforzando abitudini che si manterranno

lungo qualsiasi futuro contesto di interazione.

La natura sociale della mente è rimarcata anche dal filosofo comportamentista e

sociologo George Mead, il quale, partendo dalla già discussa ipotesi che alla base

del sé vi sia un complesso processo che vede il bambino impegnato a osservare le

reazioni degli altri per capire che tipo di soggetto possa essere, mette in risalto

come l’identità stessa sia un’entità <<composta da molte sfaccettature che trovano

espressione in base ai diversi contesti e stimolazioni che provengono

dall’ambiente>>60

; posto quindi come principio la priorità del contesto psicologico

di attaccamento sul processo di formazione del sé, vi è comunque un’ingente

quantità di variabili e stimoli provenienti dal contesto sociale che si pongono come

fattori in grado di influenzarne lo sviluppo.

È dunque importante, a fianco di motivazioni psicologiche delle dinamiche

d’acquisto, anche cercare di fornire un quadro di spiegazioni sociologiche che

rendano conto di questi comportamenti, spaziando in un contesto più ampio di

trasformazioni sociali; dobbiamo inevitabilmente tenere conto del fatto che

acquistare, ancor più di altre azioni umane, oltre che fenomeno palliativo e

importante per il sé, è anche un atto che trova la sua origine e il suo sviluppo in una

serie di meccanismi sociali che è necessario studiare e comprendere a fondo.

Come premessa alle tesi di natura sociale che stiamo per esporre, dobbiamo prima

di tutto precisare che il concetto di identità trova negli studi sociologici, a

differenza di quanto avviene in altri campi disciplinari come filosofia e psicologia,

una diversa definizione, facendo infatti riferimento non ad un sé psichico ed alla

sua evoluzione, ma ad un processo di costruzione e ricostruzione operato

dall’individuo e finalizzato alla produzione di un’immagine di sé da mostrare agli

60

Balconi, M., Antonietti, A., (2009), p.141.

Page 53: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

53

altri in un quadro socioculturale di interazione nel quale i consumi rappresentano

occasioni uniche per creare e trasformare le sembianze della propria personalità a

seconda delle esigenze sociali; in quest’ottica, l’identità assume quindi un

significato che, diversamente dall’idea psicologica di entità formata sì da una

molteplicità di componenti, ma in fondo unitaria, si spezza invece in un indistinto

agglomerato di potenziali peculiarità da comunicare in un ambito esclusivamente

relazionale: più che di un sé, parliamo ora di un’immagine del sé da ritoccare e

mostrare come necessario biglietto da visita in un mondo complesso e

estremamente competitivo.

Ne scaturisce un fondamento di provvisorietà che caratterizza l’identità stessa, la

quale deve porsi come entità mutevole per stare al passo con i cambiamenti

repentini di una realtà che condanna la fissità e promuove al contrario il concetto di

novità. Ecco quindi che l’oggetto di consumo trova un suo ruolo e una sua

dimensione sociale nella sua capacità di fornire continuamente al soggetto diverse

modalità di presentazione al pubblico: acquisire un bene può infatti essere

l’opportunità di mostrare agli altri una precisa e costruibile immagine di sé ritenuta

idonea a un determinato contesto, permettendo così al soggetto stesso di

identificarsi con essa. In questo senso l’identità finisce con il coincidere con gli

oggetti acquistati e diventare essa stessa un qualcosa da indossare in particolari

esigenze, e da gettare in altre (Franchi, 2007; Balconi, Antonietti 2009).

Questa funzione dell’atto d’acquisto non è tuttavia altro che un’esplicitazione, a

livello sociale, di una medesima funzione già ricordata a livello individuale: che

l’acquisizione di un bene volta a evidenziare un certo tratto della propria personalità

sia infatti finalizzata ad esibire tale componente a se stessi, piuttosto che agli altri,

ciò non cambia lo scopo dell’azione, che rimane comunque l’espressione di una

parte del sé. Ma quali sono le motivazioni esclusivamente sociali che, a fianco di

quelle individuali, influenzano gli individui sia nei singoli atti d’acquisto che nella

messa in pratica di un ciclo reiterato e continuo di consumo di beni?

Vi è unanimità, fra gli scienziati sociali, nel definire l’epoca in cui viviamo come

era postmoderna, per differenziarla nettamente dall’epoca precedente, la quale,

distanziandosi dal concetto di dubbio, si caratterizzava per la presenza di forti

autoritarismi politici e religiosi, per la diffusione di ideologie dominanti, e

Page 54: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

54

soprattutto per l’instaurarsi di verità che, ritenute uniche e stabili, erano in grado di

fornire a tutti una solida ed univoca chiave interpretativa della realtà (Olivero,

Russo, 2009). Nell’era postmoderna, venendo meno questi forti ancoraggi

epistemologici che rappresentavano inamovibili punti di riferimento per la

costruzione di precise identità sociali, l’assenza di tali vincolanti indicatori di

direzione ha fatto sì che sopraggiungessero alcune importanti trasformazioni

sociali61

(Franchi, 2007).

Un primo sostanziale cambiamento è stato senza dubbio l’improvviso avvento di un

relativismo gnoseologico, e la conseguente frammentazione dei modelli culturali a

cui fare riferimento: se le guide di natura istituzionale e spirituale perdono la loro

capacità di imporsi come autorità unica sulla quotidianità dell’individuo,

conseguenza naturale è infatti il moltiplicarsi dei valori e dell’incertezza. Il soggetto

dell’epoca postmoderna si è quindi trovato di fronte ad una pluralità di fonti di

informazione; emblematico di questo processo di democratizzazione della vita è

stato il recente sviluppo delle tecnologie quali internet, che hanno fatto in modo non

solo di mettere in comunicazione diverse parti del mondo fornendo ad ogni persona

un ingente quantitativo di informazioni su ciò che avviene a chilometri di distanza,

ma anche di esporre ogni soggetto ad un grande numero di modelli in grado di porsi

come punti di riferimento: secondo alcuni, questo fiorire di esempi da imitare ha

prodotto negli individui una spinta ad avvicinarsi ad ognuno di essi nel tentativo di

colmare il gap fra il proprio sé e il sé ideale, aumentato proprio a causa

dell’incremento di possibili identità sociali da emulare (Gergen 1991). Ciò avrebbe

avuto come naturale conseguenza l’instaurarsi di frequenti meccanismi di

venerazione o di forte adesione a valori, ideali e personaggi, con un relativo

incremento dei consumi legati ad essi.

Un altro cambiamento prodotto dalla caduta <<del baricentro ideologico e

istituzionale della vita sociale>>62

è stato sicuramente l’imporsi di un veloce

processo di individualizzazione, inteso come improvviso ed insperato

accrescimento della centralità e della libertà decisionale del soggetto nella fase di

61

Cfr. <<le istituzioni che prima rappresentavano la guida per l’interpretazione della realtà e per la

costruzione della propria identità hanno lasciato il posto alla ricerca di valori a cui sembra che si

aderisca sempre più al livello astratto e di principio, alla ricerca di un modo per poter esprimere la

propria personalità>> Balconi, M., Antonietti, A. (2009), p. 150. 62

Ibidem.

Page 55: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

55

costruzione della propria identità. All’apparenza estremamente positiva, questa

eccessiva autonomia dell’uomo nel dare forma al proprio destino è stata invece

foriera di un’evidente insicurezza cronica; non potendo più far riferimento a schemi

precostituiti o ad autorità esterne, il soggetto si è infatti trovato in una possibilità di

auto-determinazione che lo ha obbligato a prendere delle decisioni in un contesto di

complessità e incertezza, con una conseguente e costante paura di compiere la

scelta sbagliata: <<La biografia delle persone, staccata da determinazioni prefissate,

viene messa nelle loro mani, aperta alle loro decisioni, ma anche al rischio della

sconfitta>>63

.

Questa condizione di paura e ansia che accompagna la solitudine sociale

dell’individuo è stata in grado di esercitare una sua influenza sui comportamenti

d’acquisto nel momento in cui ha dettato uno stato di passività e di conseguente

incapacità del soggetto nel resistere alle sollecitazioni esterne e interne, lasciando

quindi spazio a una serie di consumi patologici, compulsivi e dipendenti: staccato

da verità ontologiche e metafisiche e da autorità centrali, l’uomo è giunto infatti a

percepirsi come perso ed abbandonato, con il susseguente rischio di essere spesso

trascinato in una qualsiasi corrente di passaggio; la condizione umana di incertezza

è infatti da sempre terreno fertile per mode transitorie, che possono approfittare di

questo stato di flebilità intellettuale dell’individuo per agire più facilmente

plasmando e influenzando i pensieri dei consumatori (Lipovetsky, 2006).

Ma non è questa l’unica possibile conseguenza della ritrovata autonomia

decisionale dell’individuo nell’era postmoderna; come rilevato recentemente dalla

filosofa e sociologa Renata Salecl, lo stato di dubbio e ansia correlato alla troppa

scelta spinge i soggetti ad un’auto-limitazione e alla creazione di un nuovo rigoroso

modello di autorità al quale sottostare:

“Questo connubio tra la ricerca di un potere superiore che si faccia

carico dei nostri problemi e l’insistenza sulla libertà di scelta non

deve stupire. Quando siamo ansiosi, e scegliere implica sempre un

elemento di ansia […] spesso ci guardiamo intorno per trovare

qualcuno o qualcosa che si prenda la responsabilità. Nella speranza

di placare l’ansia, possiamo decidere di consultare una guida

religiosa, un guaritore, o perfino un astrologo”64

63

Franchi, (2007), p.14. 64

Salecl, (2010), p. 58.

Page 56: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

56

L’auto-imposizione di un principio di autorità in grado di restringere il nostro

campo di scelta è un tipico aspetto del comportamento umano, ed è in questa fase in

grado di spiegare anche l’incremento dei consumi successivo alla caduta del potere

istituzionale o religioso: molte persone hanno infatti trovato riparo dall’ansia di

scegliere in autorità e modelli auto-vincolanti presenti nella società, orientando di

conseguenza i propri consumi in modo da rassomigliare a tali esempi sociali il più

possibile; una maggiore autonomia decisionale ha dato paradossalmente il via

all’instaurarsi di un maggiore grado di dipendenza da un’alterità, trasformando così

l’identità sociale in un’entità flessibile e plastica che l’individuo cerca di plasmare

tramite frequenti identificazioni con modelli di riferimento esterni.

Sempre seguendo la linea argomentativa della Salecl, una decisiva spinta verso

l’attuazione di questo meccanismo è stata data dall’ideologia capitalista del “self-

made man”, rea da una parte di aver posto eccessivamente l’accento sulla

possibilità dell’individuo di decidere da solo, senza vincoli sociali, il proprio futuro,

e dall’altra di aver oltremodo diffuso la mentalità dell’uomo vincente che,

scavalcando gli ostacoli senza l’aiuto di nessuno, si impone sulla massa come un

vero conquistatore. In quest’ottica, chiunque, nell’era postmoderna, è diventato

non solo pieno artefice e unico responsabile del proprio destino, ma anche soggetto

dotato di tutte le potenzialità necessarie per poter ergersi come eroe della propria

epoca, sempre ammesso che ne abbia la voglia e la capacità, e che sia soprattutto in

grado di compiere le scelte giuste.

Trasformando l’uomo in una sorta di azienda la cui sopravvivenza è interamente

dipendente dalla qualità delle sue decisioni, la visione capitalista ha inevitabilmente

radicalizzato l’ansia di compiere la scelta giusta, costringendo così l’individuo a

ricorrere all’auto-imposizione di nuovi tipi di autorità che possano indicargli la

strada corretta per la scalata verso la vetta della società. È così che quindi <<il

nuovo individuo che si fa da sé tende a prendere qualche vip come modello>>65

,

creandosi <<una struttura simbolica che lo sollevi dall’ansia della scelta […] e

65

Salecl, (2010), p. 45.

Page 57: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

57

dandogli vita, sceglie l’opzione di non scegliere, di lasciare che altri scelgano per

lui>>66

.

Comprendere questo punto è fondamentale per capire a fondo la spiegazione

sociale di molti atti d’acquisto: è infatti del tutto evidente che alcune componenti

della società hanno tentato di sfruttare al massimo questo meccanismo, cavalcando

l’insicurezza delle persone e cercando di costruire e proporre il maggior numero

possibile di modelli ed esempi sociali che siano in grado di offrire agli individui

diversi schemi comportamentali da seguire, facendo così in modo da una parte di

alleviare la loro ansia di scelta riguardo le scelte di vita da intraprendere, e dall’altra

di incentivarli all’acquisizione di una molteplicità di beni legati a tali personalità,

ideali, o valori. Comprare, nell’era postmoderna, è diventato così sinonimo di

acquisire un preciso stile di vita: un vero e proprio surrogato della decisione, che,

slegato dal valore del bene in sé, si impone come atto di fondamentale importanza

per segnalare ed ostentare alla comunità, grazie all’adesione a modelli sociali, un

preciso modus vivendi.

La capacità della società di canalizzare il sentire degli individui in determinate

categorie sociali non è d’altronde un’esclusiva del mondo dei consumi e della

pubblicità: nel suo brillante saggio Disgusto e umanità, la filosofa Martha

Nussbaum porta l’esempio di quanto avviene con il sentimento del disgusto, che

nella sua forma proiettiva, ossia quando non è diretto verso oggetti primari in grado

di suscitarlo universalmente, viene intenzionalmente indirizzato dalla società verso

alcune minoranze, come può accadere con omosessuali e immigrati.

In questi casi, sfruttando un bisogno profondamente umano di allontanare da sé un

lato di animalità tanto pericoloso quanto nascosto in ognuno di noi, la società fa in

modo che un comune sentire umano come il disgusto, nato con lo scopo evolutivo

di allontanare l’organismo da ciò che può essere realmente contagioso e dannoso,

venga proiettato, grazie ad una associazione continua e martellante con alcune

categorie umane, verso tali minoranze che, interpretando una sorta di condizione

“semi-umana” e ponendosi quindi come livello intermedio fra lo stato animale e

quello umano, possano rassicurare la maggioranza facendola sentire ancora più

lontana da quel temuto lato del sé (Nussbaum, 2010): così come il disgusto viene

66

Salecl, (2010), p. 61.

Page 58: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

58

quindi utilizzato dalla società come strumento per regolare le distanze fra parti del

sé, in questo caso allontanando ciò che viene etichettato come pericoloso, non è

improbabile pensare che lo stesso meccanismo entri in gioco anche con altre

tipologie del sentire umano, come ad esempio l’attrazione.

Possiamo infatti ipotizzare che, indirizzando appositamente quest’ultimo

sentimento verso determinate categorie sociali che si ergono come esempi da

seguire, il mondo della pubblicità e la società dei consumi facciano leva su questo

procedimento al fine di porre questi modelli come unici intermediari fra il sé attuale

e il sé ideale, proiettando di conseguenza su di essi un’aurea di fascino fornita dalla

possibilità, data a ciascun individuo, di colmare, tramite identificazione con essi, la

distanza fra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere.

Variano quindi i sentimenti, ma il meccanismo di proiezione utilizzato dalla società

è il medesimo: gli individui, così come indirizzando la loro attrazione verso questi

modelli trovano il modo di ridurre le distanze con quella parte del sé che

rappresenta i loro ideali, allo stesso modo, rivolgendo il loro disgusto verso

categorie etichettate come inferiori, raggiungono invece l’obiettivo di aumentare il

divario con quel lato del sé che esprime ciò da cui fuggono; questo è naturalmente

reso possibile dal fatto che alcune categorie sociali, soprattutto se in una situazione

di minoranza, si prestano particolarmente bene al ruolo di esplicitazione di un

comune sentire: se nei primi capitoli avevamo parlato di una funzione dei beni di

acquisto di interpretare un’estrinsecazione sensibile di una parte del sé priva, per

sua stessa natura, di un’espressione formale, ora possiamo ribadire con forza il

concetto anche in riferimento alle categorie sociali, le quali possono facilmente

fungere da contenitori in grado di assorbire un contenuto sensibile altrimenti

inespresso e privo di una forma rappresentazionale.

L’atto d’acquisto trova quindi anche una sua spiegazione sociale nel momento in

cui la sempre crescente importanza che ha assunto nel tempo si è sviluppata anche

grazie alla capacità della società di canalizzare alcuni sentimenti umani, come

l’attrazione, verso preconfezionati modelli da seguire e predefiniti beni da

acquistare.

Un differente e originale punto di vista sulla funzionalità sociale dell’atto

d’acquisto è rappresentato invece dalla posizione del sociologo Gilles Lipovetsky,

Page 59: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

59

il quale, a differenza di molti suoi colleghi ipercritici verso una tipologia di società

basata principalmente sui consumi, non esprime una dura condanna per l’acquisto

in sé, che a suo dire non trova più tanto la sua finalità principale nel rimarcare

distinzioni sociali e affermare status di classe, quanto piuttosto in un puro e

semplice piacere edonistico di matrice prettamente individuale.

In particolare, per Lipovetsky, la società postmoderna ha subito notevoli

trasformazioni, passando attraverso tre principali momenti di sviluppo: se una

prima fase, costituita dall’emergere dei consumi e dalla nascita dei concetti di

marca e pubblicità, si caratterizzò per uno spiccato ruolo sociale dell’atto di

acquisto, vissuto da un’élite di persone come un momento simbolico intriso di

ostentazione e volto a segnare una profonda distanza con la massa, una seconda

fase, coincidente con gli anni ’60-’70 e con la relativa grande diffusione di beni

durevoli industriali anche ai ceti più poveri, ha invece cominciato a minare la logica

delle spese come obiettivo di considerazione sociale, promuovendo al contrario un

modello di consumo di tipo individualistico, mirato principalmente a una

soddisfazione personale.

L’attuale terza fase, chiamata la società dell’iper-consumo, anche grazie alla

progressiva caduta di autorità centrali di tipo istituzionale e religioso, ha portato

alle estreme conseguenze questo processo di individualizzazione dei consumi,

spostando definitivamente il baricentro degli atti d’acquisto da una dimensione

sociale e di gruppo a una questione maggiormente legata ad un’affermazione

solipsistica ed a una ricerca di felicità puramente privata: cadendo le rigide ed

immutabili distinzioni di classe e con esse il relativo bisogno narcisistico di

distanziarsi dalla massa, si è infatti instaurato un meccanismo d’acquisto

maggiormente incentrato da una parte sulla ricerca di un piacere meramente

evasivo ed edonistico, e dall’altra su una profonda esigenza di non apparire “da

meno” rispetto agli altri singoli individui.

Questi ultimi assumono quindi attualmente il ruolo di iper-consumatori che,

sopperendo alle proprie lacune intrapsichiche grazie all’identificazione con la

personalità delle marche, inseguono così nel mondo dei consumi l’estasi, il confort,

il piacere della novità e il brivido dell’avventura che permettano loro una rapida

fuga dalla ripetitività del quotidiano e dalla fossilizzazione nella routine; in una

Page 60: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

60

sorta di condizione narcisistica, per Lipovetsky, l’uomo contemporaneo che volge il

proprio sguardo a se stesso finisce con l’acquistare più con lo scopo di rivivere una

propria giovinezza emotiva e trovare uno stato di massimo godimento dei sensi, che

con quello di sbandierare un proprio status e manifestare una propria appartenenza

sociale (Lipovetsky, 2006).

Fornita quindi un’esaustiva panoramica di differenti punti di vista riguardo il ruolo

sociale dell’atto d’acquisto, che va da puro momento di evasione estatica a modalità

di canalizzazione di paure e desideri, da auto-limitazione della propria libertà di

scelta fino a occasione di avvicinamento a identità sociali prossime al sé ideale, è

ora opportuno vedere quali possibili ragioni di natura sociale hanno spinto l’uomo

non solo a fare dell’acquisto in sé un momento di fondamentale importanza per la

vita quotidiana, ma anche a dare vita ad un vero e proprio ciclo consumistico

dettato dall’urgenza di un continuo consumo di beni.

In questo ambito è d’obbligo il riferimento al sociologo Zygmunt Bauman, che

nelle pagine del suo trattato Homo consumens, descrive la vita del consumatore

come basata non sull’acquisto in sé e sul possesso di un determinato bene, ma più

che altro sulla perenne condizione di continuo movimento; ciò che caratterizza l’era

dei consumi è infatti per Bauman la volontà, da parte della società stessa, di tenere

l’umanità in uno stato di profonda penuria e insoddisfazione, spingendola così a

un’estenuante e interminabile attività di ricerca e utilizzo di beni in grado di

promettergli il raggiungimento, in realtà impossibile, di uno stato di serenità.

Il grado di soddisfazione dell’uomo è quindi per Bauman inversamente

proporzionale al successo della società dei consumi, la quale se vuole sopravvivere,

deve per forza alimentare la spirale dei bisogni:

“Per una cultura consumista, coloro che si accontentano di ciò di cui

credono di avere bisogno, e che si sforzano di realizzare questo e

nulla di più, sono dei consumatori avariati: quasi dei reietti sociali,

rispetto alla società dei consumi. La minaccia di esclusione, o il

timore di essere esclusi, incombe anche su quanti sono soddisfatti

dell’identità che possiedono […] la cultura consumista, invece,

racchiude in sé un’inestirpabile pressione a essere qualcun altro. I

mercati dei beni di consumo tendono sistematicamente a svalutare le

Page 61: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

61

proprie offerte precedenti, per lasciare spazio libero alla domanda

pubblica di nuovi beni e prodotti>>67

Accade così che nella società di oggi si faccia di tutto per inculcare nell’uomo fin

dalla nascita l’idea del mondo come <<enorme contenitore di parti di ricambio che

vengono rifornite in continuazione>>68

, da una parte elogiando la forza del

cambiamento, del rinnovamento continuo e dell’ambizione che non conosce mai

limiti, e dall’altra svalutando l’instaurarsi di relazioni stabili e la capacità di

accontentarsi di ciò che si possiede; l’imperativo categorico di questa società è

quindi il movimento continuo, e il desiderio è ciò su cui fare leva per pervenire a

questo stato.

La moda, ad esempio, riveste in questo senso un ruolo di catalizzatore di questo

processo, spingendo le masse a rinnovare in continuazione il loro guardaroba per

evitare di essere marchiate come inferiori ed escluse dalla vita sociale69

. Un

consumatore che si accontenta di ciò che possiede rischia infatti di portare il

mercato a una fase di stagnazione, motivo per il quale la società dei consumi è

impegnata in continuazione a creare bisogni tramite un ripetuto scoraggiamento di

ciò che è vecchio e usato; ai giorni nostri, la pazienza è una qualità da reprimere:

ciò che non funziona va gettato immediatamente per far posto a un nuovo bene che,

nonostante sia presentato come perfetto, dopo poco tempo incapperà

inesorabilmente nello stesso destino.

Per Bauman, la conseguenza di questa mentalità è, contrariamente a quanto ci si

attenderebbe, la disgregazione dell’entità “gruppo” e la sua sostituzione con il più

fuggevole e provvisorio concetto di sciame: l’homo consumens, vittima di questa

mentalità consumistica, tende infatti a scontrarsi casualmente in agglomerati in cui

tutto ciò che conta non è, al contrario di quanto avviene in un gruppo, un’attiva

interazione fra i suoi membri finalizzata al raggiungimento di uno scopo, ma

piuttosto una passiva e reciproca imitazione orientata principalmente a evitare una

fuoriuscita dal perimetro dello sciame stesso; ovviamente, tale riproduzione passiva

67

Bauman, Z., (2006), p. 24. 68

Ivi, p. 30. 69

Emblema di questo processo è, come ricorda Bauman, il caso della compagnia produttrice di

Barbie, che nel 1996 ha promesso ai suoi consumatori di vendere loro la nuova Barbie a prezzo

scontato, purché restituissero quella usata in un loro negozio. Come evidenzia il sociologo,

<<scambiare una Barbie usata per una “nuova e migliore” è il primo passo di una vita di legami e di

relazioni che ricalcano fedelmente la logica dello scambio commerciale>> Ivi, p. 31.

Page 62: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

62

di ciò che fanno gli altri spinge alla semplice e frettolosa formazione di legami

superficiali che durano semplicemente il tempo dell’atto di consumo (Bauman,

2006).

La società dei consumi, per espandersi e incamerare un guadagno sempre maggiore,

non può quindi far altro che mettere l’accento su concetti come provvisorietà e

superficialità, scoraggiando da una parte una fissità relazionale che bloccherebbe il

ciclo consumistico, e allontanando dall’altra una profondità intellettuale che

rischierebbe di portare gli individui a un punto di massima soddisfazione e minimo

bisogno.

L’evidente correlazione fra la nascita della società dei consumi e la crescente

instabilità relazionale è dovuta anche al fatto che la mentalità consumistica, se da

un lato si nutre di uno stato di eterna insoddisfazione, dall’altro è in grado di

promuovere nell’uomo una perenne speranza di poter raggiungere, con i propri

mezzi, un agognato stadio di soddisfazione: portando sempre più in là l’asticella

della felicità, la società fa sì che l’uomo tenti in continuazione di pervenire a questo

stato (fittizio?) di godimento, consumando così sempre più beni per raggiungerlo.

Siccome questa immaginaria vetta di felicità, rappresentata così bene nella

pubblicità e negli schermi cinematografici, risulta il più delle volte essere

nient’altro che un’abile costruzione fantasiosa priva di possibili riscontri nella

realtà, accade frequentemente che la delusione per il mancato raggiungimento di

essa porti a scaricare le colpe sulle persone più vicine, ad esempio il partner, e al

conseguente abbandono di relazioni profonde e durature in nome di fugaci contatti

in grado di fornire scosse di felicità momentanee; ipotizzando in continuazione

l’avvento di un ipotetico “principe azzurro” e il relativo raggiungimento di uno

stato di serenità totalizzante, molte persone etichettano come negativa la

quotidianità dei problemi della vita di coppia, privandosi così di valide persone che

hanno come solo difetto quello di essere “non-perfette”, e nello stesso tempo dando

inizio a un ciclo continuo di interminabile ricerca del partner-perfetto (Salecl,

2010).

Sia nel contesto delle relazioni interpersonali che in quello dei consumi, viviamo

quindi un’epoca che fa della transitorietà il suo unico imperativo, e che, rendendo

gli uomini schiavi di un’inesistente perfezione, li condanna ad un’eterna condizione

Page 63: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

63

di insoddisfazione tanto penosa quanto necessaria per alimentare il ciclo

consumistico.

Dello stesso parere è anche Lasch, secondo il quale la società postmoderna, era

delle identità individualizzate, si contraddistingue non tanto per l’imporsi di

un’umanità in grado di provvedere al suo futuro, quanto per un patologico

ripiegamento narcisistico della personalità, per il quale i soggetti sfuggono un tipo

di coinvolgimento profondamente affettivo e dialogico impegnandosi invece in una

continua e frenetica ricerca di conferme circa la validità delle loro scelte che ha

come unica conseguenza l’instaurarsi di una pluralità di contatti fugaci e non

impegnativi con l’altro (Lasch, 1984).

La possibile influenza esercitata della società dei consumi sulla qualità delle

relazioni umane e sull’avvio e il mantenimento di un reiterato e frenetico ciclo di

acquisizione e smaltimento dei beni viene invece notevolmente ridimensionata da

Lipovetsky, il quale, manifestando un costante atteggiamento critico nei confronti

di gran parte dei suoi colleghi, sposta le cause di queste trasformazioni da una

dimensione esclusivamente sociale ad una sfera squisitamente psicologica; se infatti

l’epoca in cui viviamo è senza dubbio caratterizzata dalla ferrea volontà di

mantenere l’uomo in uno stato di eterna insoddisfazione, sollecitando quindi

continuamente ogni suo desiderio e spingendolo alla ricerca di una felicità sempre

più distante, com’è possibile, si chiede Lipovetsky, che questa condizione di

penuria, nonostante l’accento posto su di essa da parte della società, non si presenti

mai in uno stato esagerato, mantenendo invece sempre un suo rapporto con la

realtà?

Secondo diverse indagini, infatti, i desideri dei consumatori non vanno mai molto al

di là di ciò che essi possono plausibilmente ottenere, stabilizzandosi, generalmente,

intorno ad una realtà che, per quanto difficilmente realizzabile, è quasi sempre alla

loro portata; la maggior parte delle persone, ad esempio, aspira in futuro

all’ottenimento di un reddito che superi soltanto di circa un terzo il loro reddito

attuale: la condizione di penuria non è mai uno stato totalizzante e privo di vie

d’uscita, ma lascia quasi sempre spazio a una speranza di miglioramento.

Inoltre, molti sondaggi svolti nel continente europeo mostrano come gran parte

della popolazione metta ancora caratteristiche come amore, figli, coppia e famiglia

Page 64: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

64

in cima alla lista degli elementi in grado di condurre alla felicità: questo a

dimostrare, secondo Lipovetsky, che non vi è stato un vero e proprio degrado di

valori portato dalla società dei consumi, la quale non è quindi riuscita totalmente

nel suo intento di porre il desiderio dei beni al centro dell’esistenza umana.

Nonostante un quantitativo considerevole di messaggi pubblicitari e sociali volti

alla distruzione dei legami stabili e alla promozione di contatti fugaci con l’alterità

e con gli oggetti di consumo, l’uomo ha quindi mantenuto non solo come finalità

principale della sua vita l’instaurazione di stabili legami con altri individui, ma, ed

è questo quello che conta nel contesto consumistico, ha mantenuto la felicità a

portata di mano, concentrando le sue aspirazioni nell’ottenimento di una condizione

solo relativamente migliore a quella in cui è; in parole povere, ci accontentiamo, da

sempre, di migliorarci.

Secondo lo studioso, ciò sarebbe spiegabile sulla base di una volontà unicamente

umana di porre la propria ipotetica felicità non in una dimensione utopica

irraggiungibile, cosa questa che porterebbe a uno stato di depressiva rassegnazione,

ma piuttosto in uno stato raggiungibile, ma non ancora raggiunto; questo fenomeno

comportamentale, al quale abbiamo già accennato nel precedente capitolo, trova le

sue origini nella superiorità dell’atto di conquista in sé rispetto al semplice possesso

del bene ottenuto; incapace di godere a fondo la mera realizzazione di un obiettivo

ormai acquisito, sappiamo infatti che l’uomo ha bisogno di agire, lottare, inseguire

e superare se stesso per avere in continuazione un’immagine positiva di sé e per

sentire un continuo contatto con la vita e con le emozioni che soltanto una ripetuta

attività può dare: spostare la felicità un gradino più in là di quello in cui siamo ci

obbliga ad agire per raggiungerla, e l’azione, ribadiamo, è l’unica modalità in grado

di generare piacere (Lipovetsky, 2006).

Il merito dell’argomentazione di Lipovetsky è senza dubbio quello di aver posto

l’attenzione sul fatto che la ragione dell’esistenza di un continuo ciclo consumistico

non è interamente rintracciabile in un atto di creazione volontaria da parte della

società di un eden terrestre da inseguire invano, ma trova piuttosto la sua origine

fondante in un meccanismo profondamente umano, applicato, così come in altri

ambiti, anche in quello dei consumi; ci sembra però un errore ridurre al minimo

l’influenza esercitata dalla pubblicità e dalla società su questo frenetico ciclo

Page 65: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

65

consumistico: se è pur vero che esso inizia con un puro e comune atto di piacere

dell’inseguimento e di bisogno di auto-determinazione tramite un’azione, e trova un

suo possibile sviluppo soprattutto grazie all’instaurarsi di un processo di

dipendenza volto a reprimere ansie sottostanti e a sfuggire alla stabilità tramite una

continua ricerca di scosse momentanee, la società ha senza dubbio le sue

responsabilità non solo nell’avere canalizzato questo tipo di comportamento sui

consumi, ma anche nell’aver contribuito a diffondere una mentalità del contatto

fugace, della svalutazione della stabilità e della ricerca di una perfezione

inarrivabile che ha trovato una sua propagazione non solo nell’ambito

consumistico, ma anche in quello relazionale.

Malgrado le persone possano mettere al primo posto nei sondaggi di una vita felice

il raggiungimento di una relazione stabile, questo obiettivo è di fatto sempre più

difficilmente raggiunto; nonostante le intenzioni, molti soggetti agiscono infatti

schiavi di un’ideologia della perfezione che è sì, sviluppata su basi prettamente

psicologiche rintracciabili nel mantenimento volontario di una ricerca che li tenga

lontani da ansie e paure sottostanti, ma che deve in parte la sua diffusione anche

all’accento posto dalla società su un continuo elogio dell’ambizione senza fine e su

un costante svilimento di ciò che è stabile e longevo.

Convinti quindi che, come accade spesso, la verità stia nel mezzo, e dunque la

società dei consumi non sia né un cancro da estirpare, né un qualcosa da benedire

come portatore di salvezza, ma semplicemente trovi il suo senso più profondo

nell’aver esercitato i propri effetti esaltando alcune caratteristiche della nostra vita

mentale, possiamo ora passare invece a un’analisi più approfondita di ciò che è alla

base della società dei consumi, ossia il concetto di brand.

Page 66: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

66

5. IL VALORE SOCIALE DEL BRAND E LE SUE BASI

NEUROLOGICHE.

Nel secondo capitolo, una volta definito il concetto di identità e alcune delle sue

componenti principali, fra le quali la dimensione temporale di continuità e la

consapevolezza spaziale dei propri limiti, abbiamo preso in considerazione la

funzione psicologica del brand mettendo soprattutto l’accento sulla sua stretta

correlazione con queste componenti: andando infatti ben oltre il ruolo di semplice

esplicitazione di parti inespresse del sé, l’associazione di una personalità ad un

brand si è rivelata un’operazione in grado di offrire all’identità personale una

preziosa opportunità di mascherare eventuali difetti delle proprie componenti

psichiche di base; questo ruolo del brand, come abbiamo ricordato, trova le sue

condizioni di possibilità in un atto di incorporazione nella propria mappa mentale di

un’entità esterna, in questo caso il brand stesso, che si ponga come oggettualità in

grado di ricostruire momentaneamente un confine fra il sé e l’altro proprio in

corrispondenza di quelle determinate zone psichiche di insicurezza dove è venuto a

mancare un corretto processo di categorizzazione.

Come abbiamo visto, la bravura di chi crea e gestisce un brand, e con questo

concetto facciamo come sempre riferimento ad un vasto insieme di prodotti

acquistabili che va dal semplice oggetto di consumo fino a comprendere ideali,

persone e team, non sta soltanto nella capacità di associare al marchio una precisa

personalità, intercettando i gusti più diffusi e fornendo un vestito concettuale a

comportamenti impliciti che non trovano altre modalità di attualizzazione nella

realtà quotidiana, ma risiede soprattutto nell’abilità di offrire alle persone un

marchio che sopperisca adeguatamente alle loro lacune intrapsichiche, andando a

colmare i possibili difetti propri sia delle singole dimensioni temporali e spaziali del

sé, sia del senso generale di appartenenza alla propria corporeità.

Nella realtà odierna non si fatica certo a trovare esempi di brand rafforzatosi

proprio grazie a questi meccanismi di natura prettamente psicologica; fra tutti, basti

pensare al successo della popstar Madonna, incentrato principalmente sulla sua

capacità di fornire un’illusoria protezione alle zone di insicurezza delle principali

componenti del sé: la ormai trentennale carriera della cantante, ricostruita abilmente

durante i suoi concerti grazie a filmati riassuntivi finalizzati a mettere in luce la

Page 67: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

67

totale assenza di periodi infelici, offre infatti ai suoi fan la possibilità non solo di

brillare di luce riflessa sentendosi parte integrante del suo successo, ma anche di

sentire come proprio, per mezzo di un atto di incorporazione della sua immagine

nel proprio schema del sé, uno stato di perfetta continuità che può così colmare le

lacune legate alla propria dimensione temporale. Difficilmente, infatti, persone con

un buon senso di continuità di base e una conseguente fiducia nel futuro e nei

cambiamenti, rimangono eccessivamente abbagliate da questo tipo di fenomeno,

volto interamente a far sentire come propria la capacità della star di cavalcare i

cambiamenti traendo da essi sempre e solo novità di natura positiva. Dall’altra

parte, determinate carenze legate alla dimensione spaziale del sé, come ad esempio

una percezione negativa delle proprie caratteristiche, piuttosto che un continuo

senso di incompletezza, possono essere saturate dalla spiccata personalità della

cantante, la quale, come accade spesso con altri divi dello spettacolo, mette

ripetutamente l’accento su alcune caratteristiche identitarie come una personale e

sfrenata ambizione, piuttosto che un illimitato desiderio di fama; identificandosi

con questa nietzscheana volontà di potenza, ogni fan può infatti esorcizzare la

propria paura di confondersi nell’anonimato introiettando nella dimensione spaziale

del proprio sé una serie di immagini di potenza e completezza che facciano da

contraltare ad una profonda insoddisfazione legata ad alcuni aspetti di sé.

Infine, la capacità di Madonna di cambiare frequentemente aspetto e musica pur

rimanendo sempre se stessa è l’emblema di una forte capacità di integrare una

molteplicità di lati diversi del sé in una sintesi unitaria e coerente, processo che è

psichicamente alla base della formazione dell’identità, e che può quindi, tramite

identificazione, suscitare nel fan una rappresentazione di se stesso, laddove è

mancante, come entità unica e resa tale proprio grazie ad una coesistenza armonica

di differenti parti del sé.

Non servirà certo fornire altri esempi per comprendere come dietro il successo di

molti personaggi dello spettacolo, e non solo, vi sia ormai una forte capacità di fare

del proprio nome e della propria immagine un vero e proprio brand di successo,

nettamente riconoscibile e perfettamente in grado di allargare il proprio dominio di

competenza a causa di una stimolazione continua di tali profondi meccanismi di

identificazione.

Page 68: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

68

Fin qui, non abbiamo però fatto altro che mostrare, grazie a qualche esempio,

l’importanza del brand in una chiave di lettura esclusivamente individualistica,

soffermando infatti la nostra analisi all’interno di un quadro finalizzato solamente a

mettere in rilievo la relazione che si può instaurare fra il brand stesso e una singola

entità psichica che, tolta momentaneamente da un contesto di interazioni nel quale

svolge la sua attività quotidiana, è stata quindi principalmente considerata in

un’ottica puramente solipsistica; ma, pur tenendo conto della validità di tutto ciò

che è stato detto a questo proposito, un’analisi del valore del brand non può certo

dirsi completa se si limita esclusivamente alla spiegazione della sua funzione nel

processo di sviluppo e di mantenimento di un sé individuale: è necessario, dunque,

a fianco di tali argomentazioni, cercare di rintracciare anche i fattori che rendono il

marchio un potente strumento di aggregazione di identità diverse.

Al fine di considerare al meglio il ruolo sociale giocato dal brand, è doveroso porre

due premesse di carattere fondativo: in primo luogo, riprendendo l’argomentazione

esposta nel primo capitolo, dobbiamo rimarcare la correlazione esistente fra un sé

di natura strettamente soggettivistica e un sé fondato invece su un’identità

collettiva; non essendo la dimensione individuale ontologicamente separabile da

quella sociale, entrambe le sensazioni di esistenza di un “io” e di un “noi” poggiano

le loro basi su un medesimo terreno epistemologico, che, costituito da una parte

dalla consapevolezza di una continuità temporale e dall’altra da una conoscenza

delle rispettive caratteristiche in grado di contraddistinguere l’ “io” e il “noi” dalle

altre entità, trova il suo senso più profondo nella sensazione di appartenenza ad una

medesima identità da parte dei diversi elementi che la compongono, che siano essi

parti del sé o membri di un gruppo.

Successivamente, è bene fornire alcuni elementi di base che possano aiutarci a

comprendere meglio la necessità, da parte di singole identità, di varcare i confini

puramente soggettivi per inserirsi in un contesto di più ampia interazione sociale;

senza addentrarci in una spiegazione dettagliata propria della psicologia sociale, è

comunque nostro obiettivo individuare le motivazioni principali che fanno del

desiderio di appartenenza ad un gruppo una necessità fondante della vita psichica;

se da una parte questo primitivo bisogno di affiliazione sembra rispondere a una

duplice esigenza umana di evitare l’isolamento sociale e di ottenere riconoscimenti

Page 69: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

69

personali da parte di altri soggetti con gusti ed obiettivi simili ai propri, dall’altra, la

semplice appartenenza a un gruppo vincente sembra produrre nell’individuo una

tendenza a brillare di luce riflessa, facendolo sentire parte integrante di un successo

comune (Cialdini, Borden, 1976).

Inoltre, far parte di un’entità collettiva può assolvere anche una funzione di

deresponsabilizzazione dell’individuo; facendo infatti riferimento a ciò che è noto

nell’ambito della psicologia sociale come fenomeno della “deindividuazione”, la

semplice partecipazione alle attività di un gruppo sembra sufficiente per provocare

in ogni suo membro una serie di conseguenze che vanno dallo sviluppo di una

sensazione di anonimità alla totale perdita del senso di individualità: questi effetti

producono in ogni membro del gruppo un rapido allentamento dei limiti

normalmente posti al proprio comportamento, dando quindi origine ad un aumento

di azioni impulsive, inconsuete e devianti che non troverebbero mai realizzazione in

un contesto puramente solipsistico (Aronson, 2010). Sulla base di questo fenomeno,

possiamo quindi dire che ritrovarsi in un gruppo e imitare il comportamento di un

altro membro produce per l’individuo un duplice vantaggio, da una parte sul piano

cognitivo, sgravandolo dal compito di dover pensare a quale azione intraprendere, e

dall’altra proprio sul piano delle responsabilità dell’azione, che vengono

automaticamente trasferite alla persona imitata. Secondo il filosofo Simmel, fra

l’altro, il fenomeno della deindividuazione è tipico anche di alcune caratteristiche

della moda, che, alla pari di altre azioni di massa, farebbe in modo di soppiantare la

vergogna dei soggetti e di <<manifestare, in certi tratti, un’assenza di pudore che

come pretesa individuale troverebbe nel singolo un immediato rifiuto>>70

(Simmel

2011).

Poste quindi come premesse inamovibili del nostro discorso da una parte la stretta

correlazione di base fra il “senso-dell’-io” e il “senso-del-noi”, e dall’altra

l’importanza per un sé individuale di percepirsi anche come parte di una più ampia

identità collettiva, è conseguenza diretta del ragionamento l’affermazione di una

capacità intrinseca del brand di interagire sia con la dimensione individuale del sé,

incidendo sulle sue principali componenti e potenziando il “senso-dell’-io” che ne è

70

Cfr. Simmel, G., (2011), p. 37.

Page 70: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

70

alla base, sia con una dimensione di natura sociale, sollecitando la formazione di

un’identità collettiva basata sulle medesime componenti di base.

Obiettivo di questo capitolo è quindi far luce sui meccanismi psicologici che hanno

permesso a molti brand di fondare il loro successo proprio sulla costruzione di un

comune “senso-del-noi” in grado di includere in una medesima entità tutti i

potenziali fruitori del marchio stesso; se, come abbiamo visto, espandere i confini

del sé ritrovando il proprio nucleo identitario in un sé collettivo è da sempre una

primaria esigenza umana, il mondo della pubblicità e dei brand, soprattutto in tempi

recenti, ha guardato questa necessità con occhio piuttosto interessato, nel tentativo

tutt’altro che vano di offrire ai consumatori luoghi metaforici di interazione sociale

in grado di sopperire alla caduta, nell’età postmoderna, di sentimenti di

appartenenza riferiti a gruppi di natura istituzionale e religiosa (Lipovetsky, 2006).

Se infatti un tempo questo indispensabile bisogno di affiliazione trovava la sua

realizzazione nell’esistenza di gruppi socialmente e politicamente impegnati,

piuttosto che nella rigida divisione di classe presente prima dell’avvento della

società dei consumi, nell’ultimo secolo abbiamo assistito ad un vero e proprio

decadimento di queste tipologie di comunità, prontamente sostituite dall’avvento di

altre modalità di aggregazione, più lontane dal parametro della vicinanza geografica

e di status, e più vicine al mondo consumistico in continua e rapida ascesa; attorno

ai beni di consumo, ai personaggi resi famosi dal notevole impatto della televisione,

ai team sportivi e a qualsiasi entità individuale o collettiva in grado di porsi come

brand, si sono quindi instaurate delle vere e proprie comunità, tanto da spingere

molti studiosi a coniare il termine “brand community” in riferimento ai <<gruppi

basati su una rete sociale di relazioni fra gli ammiratori di un brand>> (Muniz,

O’Guinn, 2001).

I beni di consumo sono diventati nell’età postmoderna utili strumenti per entrare in

gruppi sociali, e i brand hanno prontamente assunto il ruolo di centri simbolici

finalizzati al ritrovo di identità differenti, rispondendo a un profondo bisogno

umano di affiliazione. Anche l’esperto di marketing Martin Lindstrom ha

prontamente sottolineato la correlazione fra tali comunità e gruppi di altra natura,

precisando infatti che il ruolo odierno di tali aggregazioni consiste nel rispondere a

quella medesima esigenza di appartenenza che è da sempre anche alla base della

Page 71: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

71

costituzione di gruppi di diverso genere; persone religiose, tifosi di una squadra

sportiva, e ammiratori di un marchio commerciale trovano così un comune

fondamento psicologico che è necessario studiare in ogni suo aspetto per poter

comprendere i meccanismi di base che muovono questo tipo di aggregazioni

(Lindstrom, 2008).

Naturalmente, è proprio l’intensità di questo desiderio di affiliazione, insieme alla

capacità del marchio di indirizzarlo verso se stesso, a decretare il successo della

funzione sociale del brand: se è senza dubbio vero che tutti noi siamo soggetti a

questo meccanismo di appartenenza, il grado in cui siamo disposti ad ampliare i

nostri confini inserendoci in un tessuto sociale interattivo varia a seconda delle

persone e delle occasioni. Come fa notare a questo proposito Simmel,

contrariamente a quanto si pensa, la sicurezza di base del sé è in molti casi

direttamente proporzionale rispetto alla capacità di inserirsi volontariamente in un

gruppo: sottolineando che <<l’opposizione alla collettività non è sempre sintomo di

forza personale>>, il filosofo ricorda infatti che è proprio una solida fiducia del sé e

una sana consapevolezza della propria unicità che permette all’individuo di

ampliare serenamente i propri confini, accettando di buon grado di inserirsi in un sé

collettivo senza la paura di perdere la propria individualità. Al contrario,

<<l’atteggiamento del demodé può anche essere caratteristico di una personalità

piuttosto debole, come se l’individuo temesse di non poter conservare quel suo

poco di individualità adattandolo alla forma, al gusto e alle norme della

collettività>>71

(Simmel, 2011). Ciò ovviamente non significa che una buona

sicurezza di base porti all’adesione acritica dell’individuo ad una qualsiasi

collettività, ma piuttosto ci aiuta a prendere consapevolezza dell’importanza e della

normalità del processo di costituzione del gruppo, che rimane un momento di sana e

fondamentale aggregazione delle diversità.

Chiariti questi fondamentali aspetti, siamo ora in grado di definire su quali

caratteristiche comuni si basano la maggior parte delle comunità e in che modo è

possibile suscitare un senso di appartenenza intorno a semplici oggetti di consumo?

Quali sono, a questo proposito, per un brand, le mosse da effettuare per costruire un

71

Simmel, G., (2011), p. 29.

Page 72: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

72

efficace “senso-del-noi” che abbia come baricentro il marchio stesso e come

elementi costitutivi del gruppo i propri consumatori?

Il primo passo verso il raggiungimento di questo obiettivo, così come accade per

una sfera puramente individuale, è generalmente il tentativo di dare vita a una

dimensione di continuità che, caratterizzando il gruppo stesso, sia in grado di

muoverlo lungo un asse temporale che coinvolga i propri membri: ciò avviene

soprattutto nel caso di brand che, potendo contare su una gloriosa storia costituita

da ripetuti successi, creano e rafforzano un’identità collettiva semplicemente

mettendo in mostra la propria solida tradizione; basti pensare a questo proposito a

molti team sportivi che basano il loro tentativo di costituire un condiviso senso di

appartenenza su operazioni di natura commerciale quali l’allestimento di musei che

esibiscano i trofei vinti e la promozione di iniziative volte a rendere partecipi dei

successi del passato i propri tifosi. Stimolando così un coinvolgimento generale che

si pone come motore primario della costruzione di un “senso-del-noi”, il team

allontana il rischio di trasformare l’atto di ostentazione delle proprie vittorie in

un’azione meramente auto-referenziale.

Probabilmente ereditata da gruppi di ambito sportivo, questa modalità di creazione

di un’identità collettiva è diventata ormai anche peculiarità di marchi prettamente

commerciali; la nota azienda produttrice di macchine Saab, ad esempio, durante il

raduno annuale dei suoi dipendenti, punta molto sulla condivisione con essi della

propria storia, mostrando ripetutamente immagini dei modelli passati che rendano

giustizia all’importanza del brand (Muniz, O’Guinn, 2001). Anche nel mondo della

pubblicità, l’accento sulla dimensione temporale del gruppo è un leit-motiv sempre

più ricorrente; ad esempio, in un recente spot dell’Enel che si apre con la frase

“ogni volta che abbiamo costruito un futuro, non ci siamo fermati a guardarlo

mentre diventava passato, ma siamo andati avanti a immaginare un altro futuro”

l’obiettivo non è solo quello di fornire un’immagine dell’azienda come gruppo di

lavoro sempre proiettato verso la dimensione futura, promuovendo quindi un

meccanismo di identificazione di natura strettamente individualistica, ma anche,

grazie alla frase conclusiva “il futuro è un viaggio all’infinito. Facciamolo insieme”

quello di non escludere da questo slancio ottimistico verso il futuro il consumatore

stesso, il quale, più che individuo escluso dal piano rappresentazionale e relegato a

Page 73: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

73

una dimensione di passivo ed estraneo potenziamento del sé individuale, viene

letteralmente coinvolto a sentirsi parte attiva di una comunità che fonda il suo senso

di entitatività proprio su una strutturazione condivisa di una precisa linea temporale.

Ancora più emblematiche, in questo senso, le pubblicità di Calzedonia e della

Telecom: mentre la prima tenta di fare dell’intero genere femminile un unico

gruppo <<da 25 anni insieme>>, la seconda, grazie ad una suggestiva serie di

immagini raffiguranti lo sviluppo della telefonia negli ultimi cinquanta anni, punta

anche attraverso lo slogan <<le emozioni non cambiano, il modo di comunicarle

sì>> a creare fra i suoi consumatori un senso di appartenenza ad una medesima rete

sociale, che deve la sua solida coesione proprio alla capacità dell’intero gruppo di

condividere lungo una striscia temporale tutti i passaggi di un complesso processo

di trasformazione tecnologica.

Se da una parte è quindi evidente che un brand che può vantare un’importante

tradizione può far leva sul tema della continuità al fine di costruire un’identità

collettiva, dall’altra possiamo tuttavia affermare che anche un marchio neonato, pur

non essendo certamente nella condizione di poter raccogliere i frutti di un lavoro

passato, è in grado di interagire con la medesima dimensione del sé collettivo:

caratteristica vincente dei brand che cercano di muovere i primi passi nel complesso

mondo della comunicazione è infatti la possibilità di sopperire alla mancanza di un

passato esprimendo una sconfinata ambizione per il futuro. Questo aspetto, tipico di

aggregazioni di stampo religioso o sportivo che, facendo puntualmente leva su una

particolare “missione” da raggiungere insieme trovano il modo di compattare i

propri membri indirizzandoli verso un futuro comune, è stato preso in

considerazione anche da gruppi organizzativi di lavoro, i quali sempre più spesso

ricorrono al concetto di mission per dar vita, al loro interno, ad un comune senso di

appartenenza: quando nacque la Apple, il suo storico manager Steve Jobs ha

giocato molto su questo effetto, creando un senso di identità collettiva proprio

grazie alla condivisione con tutti i fruitori del marchio di una battaglia futura che

aveva come obiettivo la messa in atto di un processo di continua innovazione

guidato dai giovani (Lindstrom, 2008).

Anche la psicologia sociale, d’altronde, ci insegna che un insieme piuttosto casuale

di persone arriva immediatamente a percepirsi come un’entità unica, se messo di

Page 74: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

74

fronte a uno scopo condiviso o a una precisa missione (Aronson, 2010); ipotizzare

quindi una direzione o un obiettivo comune per un determinato gruppo di persone

significa dunque stimolare la creazione di un senso di continuità collettivo che è poi

il primo essenziale mattone da porre per dare il via alla costruzione di un vero e

proprio “senso-del-noi”: facendo sentire il consumatore parte integrante di uno

sviluppo temporale che muove continuamente da due alternativi poli rappresentanti

il passato e il futuro, il marchio fa in modo di piantare le radici per lo sviluppo di un

profondo e condiviso senso di entitatività intorno a se stesso.

Intervenire sul senso di continuità non è tuttavia l’unico modo tramite cui un brand

può creare una precisa identità collettiva; facendo riferimento alle principali

dimensioni del sé, un’altra efficace modalità per costruire un “senso-del-noi”

consiste nel delineare le caratteristiche di fondo che permettono di distinguere un

determinato gruppo dagli altri. Oltre alla condivisione di un medesimo scopo,

un’altra motivazione che spinge le persone a espandere i propri limiti personali

aggregandosi in comunità è infatti la presenza, comune a tutti i membri del gruppo,

di determinate peculiarità, le quali, tracciando i confini delle identità collettive,

permettono ad ogni gruppo di trovare la propria dimensione spaziale e di collocarsi

all’interno di un determinato perimetro di interazione sociale.

Un meccanismo spesso utilizzato per la costruzione di questa dimensione identitaria

è la definizione di se stessi e del relativo gruppo di appartenenza sulla base di una

netta contrapposizione con altre entità; l’atteggiamento del “noi contro loro”, già

considerato in precedenza, permette infatti ad ogni comunità, tramite la negazione

delle caratteristiche dell’altro gruppo, di rafforzare la propria identità. Se, anche in

questo caso, questa mentalità affonda le sue radici nel tentativo delle aggregazioni

di natura religiosa o sportiva di individuare un avversario da combattere per

compattare i propri membri, ora questo meccanismo ha trovato una sua diffusione

anche in ambito commerciale (Lindstrom, 2008); la catena telefonica Tre, per

rimarcare un concetto di identità collettiva, ha ad esempio puntato sullo slogan “se

hai Tre si vede”, sottolineando in questo modo un suo tratto caratteristico, quello

delle videochiamate, in grado di distinguere il proprio gruppo di consumatori da

quello di altre compagnie telefoniche. Anche la Volkswagen, in un recente spot in

cui un sedicente consulente di riduzione dei costi offre ai produttori della macchina

Page 75: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

75

la possibilità <<come fanno altri nella categoria>> di tagliare le spese di

produzione eliminando componenti fondamentali della vettura, mira a suscitare nel

consumatore, attraverso gli sguardi perplessi dei produttori, un orgoglioso senso di

appartenenza ad un gruppo automobilistico caratterizzato, a differenza di altri brand

della medesima categoria, dalla serietà e dalla ferrea volontà di offrire ai clienti

prodotti di elevata qualità; la catena di parrucchieri Jean Louis David obbliga

invece i suoi dipendenti all’utilizzo di una particolare ed unica tecnica di taglio, la

quale viene anche ripetutamente mostrata ai clienti mediante filmati presentati

durante il trattamento, permettendo così al marchio di mettere l’accento su un forte

tratto identitario in grado di distinguerlo nettamente dagli altri.

Interagire con la dimensione spaziale del sé fornendo all’identità collettiva limiti

caratteristici ben definiti risulta quindi essere un altro potente strumento per la

creazione di un ben radicato senso del sé collettivo; la mentalità “noi contro loro” è

d’altronde anche la base del fenomeno della moda, che muove su un duplice binario

di appartenenza e distinzione: se da una parte, infatti, essa fornisce un senso di

coesione ed unità rinchiudendo entro i propri limiti quella determinata cerchia

sociale che sceglie di aderire al movimento, dall’altra, per delimitare i confini di

questo indistinto agglomerato di identità, non può far altro che rimarcare una forte

separazione con tutti coloro che scelgono di non farne parte. Sfruttando una doppia

esigenza umana di affiliazione a un gruppo e di distinzione da un altro, la moda

deve la sua sopravvivenza proprio a chi non la pratica; non a caso, essa ha trovato il

suo sviluppo proprio nel momento in cui le classi sociali più agiate necessitavano di

segni differenziali grazie ai quali auto-classificarsi in un gruppo separato dai ceti

sociali meno abbienti: quando questi ultimi, dopo un’affannata rincorsa sociale,

riuscivano ad impossessarsi di questi medesimi modelli di consumo, diffondendo

così la moda fra la maggior parte delle persone e annullando di fatto il suo potere

di creare un criterio di distinzione sociale, la classe privilegiata si trovava

puntualmente nella posizione di dover creare altri segni di superiorità sociale

(Balconi, Antonietti, 2009; Simmel 2011).

Nonostante questi meccanismi di ostentazione di status sociali si siano ora

abbastanza affievoliti, la moda continua a esercitare il suo potere soddisfacendo un

primitivo bisogno di prestigio e di differenziazione che, rimasto immutato nel

Page 76: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

76

tempo, necessita di trovare uno sfogo pratico non più in una mera esibizione di

criteri di classificazione sociale, ma nella possibilità di appartenere a gruppi

esclusivi caratterizzati dalla distanza da altre generiche realtà.

Anche simboli, icone e rituali, in quest’ottica, si pongono come preziosi strumenti

di ri-attualizzazione di proprie caratteristiche distintive; molti brand, facendo eco ai

grandi rituali religiosi finalizzati a perpetuare la tradizione della comunità,

organizzano frequentemente eventi promozionali con il medesimo scopo di

rimarcare la propria dimensione identitaria; anche il logo, d’altronde, ha la stessa

funzione di permettere non solo un riconoscimento immediato del marchio stesso,

ma anche una rievocazione continua delle caratteristiche che rendono il brand

unico. I rituali, lungi dall’essere singoli atti dotati di un potere fugace,

rappresentano invece veri e propri momenti a cui ogni gruppo guarda con interesse:

in pochi istanti, essi sono infatti in grado di scolpire nel tempo, tramite un atto ricco

di potenzialità comunicative, le peculiarità di un’identità collettiva, sollecitando,

tramite questo potere di rimarcare la dimensione spaziale del gruppo, la

costituzione e il mantenimento di un “senso-del-noi”.

Prese quindi in esame le due principali componenti del sé e le modalità attraverso

cui il brand può intrecciare una relazione con esse garantendosi il successo, rimane

da vedere un ultimo elemento costitutivo dell’identità sul quale un marchio può far

leva per fondare attorno a se un vero e proprio “senso-del-noi”: l’instaurarsi di un

legame fra i membri del gruppo. Giocando infatti sull’interazione fra gli individui,

si può raggiungere un rapido sviluppo di un senso di comune appartenenza ad unica

entità. Molti brand e aggregazioni di altra natura cercano a questo proposito di

favorire il dialogo reciproco fra i propri membri, fornendo, attraverso forum online

e meeting, non solo alcuni luoghi di scambio di informazioni inerenti al gruppo

stesso, ma anche centri di comunicazione e condivisione delle più svariate

esperienze; è il caso della Apple, che deve gran parte del successo dei suoi lettori

mp3 alla creazione di una community online, come I-Tunes, che ha accompagnato

il lancio del prodotto favorendo un processo di conoscenza reciproca fra i suoi

consumatori (Balconi, Antonietti, 2009). Così come a livello individuale una

profonda interazione fra diverse parti del sé porta quindi alla costruzione di una

sensazione di unità dell’io, anche a livello sociale l’instaurazione di una rete

Page 77: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

77

comunicativa fra i membri di un gruppo si pone come elemento strutturante dello

sviluppo dell’identità collettiva.

Molti spot, come ad esempio quelli della Mulino Bianco, della Barilla e della

Nutella, giocano in questo senso proprio sulla creazione di questa rete sociale,

cercando di suscitare nei propri consumatori, tramite l’identificazione con le

famiglie rappresentate nella pubblicità, la sensazione di far parte di un’unica

comunità familiare che vive in totale e pacifica armonia; anche la Saab, a questo

proposito, cerca di fare leva su questo meccanismo nel momento in cui, durante i

suoi raduni, mostra diverse lettere e immagini di fan provenienti da tutte le parti del

mondo, dando così a dipendenti e consumatori la sensazione di appartenere a un

grande gruppo in cui vi è la possibilità di conoscere persone con gusti affini anche a

chilometri di distanza (Muniz, O’Guinn, 2001).

Abbiamo dunque portato diversi esempi di brand che hanno costruito la propria

immagine basandosi o su un meccanismo di identificazione puramente individuale,

o su un bisogno di appartenenza ad una sfera collettiva. Ma sappiamo dire qualcosa

riguardo alle basi neurali del concetto di brand?

Parziali risposte a questa domanda ci giungono dal neuromarketing, termine con il

quale ci si riferisce, più che ad una precisa disciplina, a un insieme di studi che,

tramite l’utilizzo di metodi neuroscientifici, sono orientati all’individuazione di

possibili correlati neurologici del comportamento del consumatore; Read

Montague, uno degli studiosi più attivi in questo ambito, è stato tra i primi a

mettere in luce la correlazione fra il concetto di marca e il funzionamento dei già

citati neuroni dopaminergici: come abbiamo precedentemente visto, la funzione di

queste cellule cerebrali è principalmente quella di segnalare all’organismo la

presenza nell’ambiente di determinate ricompense, suscitando poi in noi la

sensazione di un qualcosa che va piacevolmente oltre le aspettative. Spingendo più

in là l’analisi di questo circuito neurale, Montague ricorda che il sistema

dopaminico non ricopre solo il prezioso ruolo di assegnazione di un valore a ogni

stimolo percepito, ma si pone anche come potente strumento predittivo in grado di

trasferire il segnale della percezione di qualcosa di positivo anche ad una serie di

stimoli precedenti che preludono al raggiungimento della ricompensa; come infatti

è stato costantemente notato in contesti sperimentali, se ad una scimmia viene

Page 78: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

78

ripetutamente presentata la sequenza luce-succo in un breve intervallo di tempo, si

ha modo di osservare che la reazione dopaminica incaricata di informare

l’organismo che <<le cose stanno andando meglio del previsto>>, se inizialmente

ha luogo solo in corrispondenza dell’erogazione del succo, dopo una serie di

ripetizioni avviene invece solo nel momento in cui si accende la luce, ossia qualche

istante prima della presentazione della ricompensa vera e propria: i neuroni

dopaminergici, aspettandosi infatti grazie alle costanti ripetizioni il momento

dell’erogazione e la relativa quantità di succo erogata, non scaricano più quando

effettivamente percepiscono la ricompensa, ma, avendo trasferito il valore di essa

alla luce in qualità del suo potere di predizione della ricompensa stessa, scaricano

solo in corrispondenza della presentazione dello stimolo antecedente.

Il valore ottenuto dalla luce può poi essere esteso per delega a ulteriori stimoli

antecedenti, dando così avvio ad un ciclo che, partendo da ricompense primarie, si

estende a macchia d’olio, da una parte permettendo al sistema di acquisire la

capacità di prevedere il valore di eventi futuri possibili, e dall’altra andando a

incrementare il numero di avvenimenti e oggetti esteriori che provocano nel

cervello degli individui piacevoli sensazioni dovute alle scariche di dopamina.

Questa modalità del sistema dopaminergico di trasferire il valore per delega ad altri

stimoli anticipatori di esperienze positive è secondo Montague anche alla base del

valore acquisito dal brand: stando al parere del neuroscienziato, infatti, la marca

agirebbe come un potente segnale in grado di predire la qualità di un determinato

prodotto. Ciò accadrebbe perché, da sempre, il cervello umano è abituato a

etichettare tramite il flusso dopaminico le esperienze che anticipano le ricompense;

così, la marca, agendo da segnale predittivo stimolerebbe l’attività dei neuroni

dopaminergici, informando il nostro sistema percettivo circa la possibilità di

raggiungere un determinato bene di consumo che procura piacere. Questo tipo di

piacere non dev’essere per forza una ricompensa di natura primaria, come possono

essere cibo, acqua o sesso, ma può anche rappresentare esigenze apparentemente

secondarie, che in realtà nel corso dell’evoluzione hanno assunto proprio grazie ad

un sistema di delega un valore primario: il bisogno sociale di riconoscimento, ad

esempio, sfruttando lo stesso meccanismo neurale grazie al quale la luce, in virtù di

anticipatrice del valore del succo, è diventata per la scimmia un premio a sé stante,

Page 79: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

79

ha progressivamente assunto nel corso dell’umanità un’importanza primaria grazie

ad una costante associazione con una maggiore possibilità di sopravvivenza e di

procreazione della specie.

Molte pubblicità fanno implicitamente leva su questi bisogni secondari divenuti col

tempo primari, associando a loro volta ad essi un forte brand che rivesta il ruolo di

anticipatore della ricompensa, e stimolando di conseguenza l’attività del circuito

dopaminergico: capita spesso, infatti, che acquistiamo prodotti di marca con il solo

scopo di sentirci riconosciuti dalla società; il nostro cervello, in questo caso,

associando la marca a questa primaria esigenza affiliativa, produce piacevoli bursts

di dopamina proprio nel momento in cui percepisce il brand, spingendo così

l’individuo all’acquisto (Montague, 2006).

Fig. 2. Riproduzione generale della diffusione cerebrale

del sistema dopaminergico72

.

Il sistema dopaminico di predizione della ricompensa qui descritto è una complessa

rete che coinvolge più aree cerebrali (vedi fig.2), che vanno dal corpo striato

ventrale al nucleus accumbens, fino ad alcune zone della corteccia prefrontale; sono

stati di conseguenza molti gli studi che hanno cercato di mettere in relazione

l’attività di queste aree con la preferenza per una certa marca. Un’area cerebrale

particolarmente studiata a questo proposito è stata una regione della corteccia

72

Cfr. http://www.leonardoscienze.it/joomla/biologia/la-dopamina-un-secondo-uso.html

Page 80: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

80

prefrontale situata al centro del cranio, proprio appena sopra le nostre cavità

oculari: la corteccia media orbitofrontale, anche detta ventromediale.

L’origine degli studi su questa zona cerebrale, che corrisponde a una porzione

dell’area 10 di Brodmann (vedi fig. 3), è senza dubbio da rintracciarsi nel già citato

Antonio Damasio, il quale, partendo dall’analisi del cranio del celebre Phineas

Gage, un minatore americano diventato tristemente famoso in seguito all’infortunio

che lo ha visto protagonista sul posto di lavoro (una sbarra di metallo ha trapassato

il suo cervello nella zona ventromediale, lasciandolo incredibilmente vivo, fig.4),

ha condotto diverse analisi per comprenderne il ruolo.

Osservando attentamente il comportamento di diversi pazienti che riportavano

lesioni in questa regione cerebrale, Damasio non ha potuto fare a meno di notare la

loro totale incapacità di produrre un qualsiasi tipo di reazione corporea anticipatrice

in grado di segnalare l’avvicinamento o l’allontanamento degli individui stessi a

una possibile ricompensa: al contrario di quanto avviene per i soggetti sani, che

sono soliti accompagnare il processo di valutazione di un’azione con una correlata

reazione corporea (anche detta da Damasio marcatore somatico73

) che non si limita

al ruolo di semplice conseguenza motoria, ma anzi aiuta l’individuo ad indirizzare

la propria decisione verso la ricompensa attesa, i pazienti di Damasio non

sembravano invece manifestare risposte somatiche di disagio né di fronte a

immagini particolarmente disturbanti, né, durante giochi d’azzardo, di fronte alle

diverse opportunità di perdere un’ingente cifra di denaro, le quali anzi venivano

puntualmente ignorante portando l’individuo a scommettere e perdere ancora più

soldi; la lesione nella zona ventromediale sembrava quindi aver annullato non tanto

la loro comprensione razionale dei fenomeni, che rimaneva nel più dei casi intatta,

quanto la capacità del loro cervello di generare una vera e propria risposta somatica,

che, basandosi sull’apprendimento, avrebbe dovuto e potuto guidarli verso

73

<<si immagini che, prima di cominciare a ragionare verso la soluzione del problema, accada qualcosa di molto importante: quando viene alla mente, sia pure a lampi, l’esito negativo connesso con una determinata opzione di risposta, si avverte una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco. Dato che ciò riguarda il corpo, ho definito il fenomeno con il termine tecnico di stato somatico; e dato che esso “contrassegna” un’immagine, e l’ho chiamato marcatore. […] Cosa fa il marcatore somatico? […] agisce come un segnale automatico di allarme che dice: attenzione al pericolo che ti attende se scegli l’opzione che conduce a tale esito- il segnale può farvi abbandonare immediatamente il corso negativo d’azione e portarvi cos’ a scegliere fra alternative che lo escludono; vi protegge da perdite future, senza ulteriori fastidi, e in tal modo vi permette di scegliere entro un numero minore di alternative>> Damasio, (1996), p.245.

Page 81: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

81

l’attuazione di un comportamento in grado di condurli lontani da situazioni di

pericolo e vicini a determinate ricompense.

Il ruolo della corteccia ventromediale, situata in un più ampio circuito cerebrale che

trova la sua base nella capacità dei neuroni dopaminergici di codificare il valore

delle ricompense, sarebbe quindi quello di raccogliere le informazioni sensoriali

provenienti da altre zone, integrarle in un quadro unico e, tramite l’associazione ad

un determinato stimolo di un valore di ricompensa, dare origine ad un segnale

somatico anticipatorio che orienti la decisione dell’individuo informandolo sulla

attrattività o meno delle opzioni di scelta: un vero e proprio centro di generazione di

marcatori somatici in grado di connettere il processo decisionale ad una dimensione

corporea; Phineas Gage aveva quindi perso un’area di fondamentale importanza, e

non a caso, dopo il tagico incidente, la qualità della sua vita si abbassò

notevolmente, trascinandolo in una concatenazione di comportamenti irragionevoli

e in uno stato di drammatica indecisione cronica. (Damasio, 1996).

Fig. 3. A sinistra, rappresentazione della superficie laterale del cervello umano, diviso per aree di

Brodmann. La regione ventromediale corrisponde approssimativamente ad una parte dell’area 10. A

destra, invece, raffigurazione del cranio di Phineas Gage trapassato dalla sbarra di metallo.74

La tesi di un coinvolgimento dell’area ventromediale nella generazione di

preferenze nei soggetti è stata poi confermata in tempi recenti da diverse evidenze

empiriche: in uno studio condotto da Erk e basato su giovani rappresentati del

74

Cfr. Krawczyk, (2002); cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Phineas_Gage

Page 82: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

82

genere maschile appassionati di automobili, è infatti emerso, grazie all’uso della

risonanza magnetica funzionale, un forte segnale di attivazione di questa zona

cerebrale solo in corrispondenza della presentazione di macchine sportive, le quali

ovviamente esercitavano sui ragazzi un valore di ricompensa molto più alto di

quanto potessero fare automobili utilitarie (Erk et al. 2002). Il legame fra

l’attivazione di questa area e la presentazione di ricompense è stato poi ribadito

anche da uno studio di Paulus e Frank, i quali mettendo a confronto, sempre grazie

all’utilizzo della FMRi, una condizione di “judgment task” in cui i soggetti

dovevano esprimere la propria preferenza fra due bibite visualizzate, e una di

“visual discrimination task” in cui dovevano solamente indicare quale delle due

fosse in bottiglia, riscontrarono nel primo caso una maggiore attivazione proprio

dell’area ventromediale e dell’insula anteriore (Paulus, Frank; 2003).

Queste recenti scoperte ci permettono non solo di comprendere la vera natura del

processo decisionale, intimamente legata all’ascolto di segnali automatici di

carattere emozionale e corporeo, ma anche di mettere a fuoco il ruolo centrale

svolto dall’area ventromediale nel predire future ricompense e nel generare il

piacere soggettivo che ne deriva, ponendosi quindi come zona critica per

l’espressione delle proprie preferenze. Aveva dunque ragione Montague nel

sostenere che il brand sfrutta questo meccanismo neurale di predizione della

ricompensa per imporsi come anticipatore di un premio, e successivamente come

premio in sé?

Più ricerche sperimentali hanno confermato l’attivazione dell’area ventromediale e

del relativo circuito cerebrale della ricompensa in contesti di esposizione ad una

marca: in uno studio del 2005, Deppe e colleghi hanno tentato di studiare i possibili

correlati neurali dell’impatto del brand sul processo decisionale, sottoponendo

diversi soggetti all’esame della FMRi durante un compito di decision-making di

natura commerciale; i risultati ottenuti hanno messo in luce una significativa

differenza nell’attività corticale tra decisioni in cui era presente una marca forte e

universalmente riconosciuta e decisioni in cui non vi era. Se nel secondo caso le

aree maggiormente attive erano infatti quelle coinvolte nei processi di

pianificazione, ricordo e ragionamento come l’area dorsolaterale, il lobo parietale e

la corteccia visiva, nel caso invece della presentazione di marche familiari ai

Page 83: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

83

soggetti si registrava una maggiore attività proprio nella corteccia prefrontale

ventromediale, segno di un coinvolgimento di natura principalmente emotiva; ciò

confermerebbe l’ipotesi del brand come stimolante del sistema della ricompensa: in

particolare, la maggiore attivazione del sistema visivo in corrispondenza della

scelta fra marche meno note potrebbe essere dovuta alla maggiore necessità di un

confronto puramente visivo, in virtù del fatto che in questa condizione manchi uno

stimolo, come il brand, in grado di catturare l’attenzione del soggetto e facilitarne la

scelta (Deppe et al., 2005b).

Risultati simili provengono anche da un altro esperimento, condotto dal team di

Plassmann, in cui veniva chiesto ad alcuni soggetti, selezionati sia fra i clienti fedeli

di un determinato centro commerciale, sia fra consumatori privi di precisi luoghi di

riferimento per gli acquisti, di cimentarsi in una fittizia sessione di shopping da

svolgersi in diversi centri di vendita riprodotti virtualmente al computer; fra questi,

uno solo rappresentava la realtà in cui i consumatori fedeli facevano abitualmente la

spesa. Per questi ultimi, è stato notato, tramite l’uso della FMRi, che la presenza

della marca dell’insegna era in grado di attivare in loro il sistema della ricompensa

(striato ventrale, cingolo anteriore e area ventromediale) durante le fasi di scelta dei

prodotti, cosa che invece non accadeva per i consumatori meno fedeli, per i quali

non si registrava nessuna particolare attivazione cerebrale durante l’esposizione

della marca di quel determinato centro commerciale. Ciò rappresenterebbe un

correlato neurale, legato alla predizione di una futura ricompensa e alla generazione

di una sensazione di familiarità e piacevolezza, del rapporto che i clienti abituali

hanno sviluppato con il centro commerciale in cui si recano più spesso (Plassmann

et al., 2007).

Il già citato Martin Lindstrom ha invece messo alla prova la sua tesi di una

correlazione fra le brand community e i gruppi di natura religiosa sottoponendo

all’esame della FMRi alcuni soggetti di elevata spiritualità: presentando loro una

sequenza alternata di immagini di marche famose e di simboli religiosi, trovò non

solo una netta somiglianza fra gli schemi di attivazione cerebrale, ma anche una

comune reazione agli stimoli da parte del circuito della ricompensa, quasi a

dimostrazione del forte senso di appartenenza in grado di accomunare entrambe le

aggregazioni (Lindstrom, 2008).

Page 84: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

84

Un’altra modalità adottata in letteratura per verificare l’impatto del brand sui

processi di valutazione è quella di utilizzare la marca come variabile per ottenere un

effetto di contesto: in uno studio condotto sempre da Deppe e colleghi, ai soggetti

veniva chiesto di giudicare l’attendibilità di diverse notizie, che in realtà si

differenziavano le une dalle altre per lo più per il fatto di comparire sotto quattro

diverse testate giornalistiche; ciò che è stato notato è che all’aumentare del grado di

ambiguità della notizia, la marca del giornale influenzava la sua credibilità, e il test

FMRi mostrava fra l’altro che in tali contesti aumentava l’attivazione proprio della

corteccia prefrontale ventromediale: essa si pone dunque come possibile correlato

neurale dell’effetto framing, per il quale il contesto in cui viene data una medesima

informazione è in grado di variare il processo decisionale e il giudizio su di essa

(Deppe et al.; 2005).

Uno studio simile è stato effettuato da Plassman e colleghi, i quali offrirono a

persone non esperte un assaggio del medesimo vino, attribuendo però ad esso una

volta un prezzo di 5 dollari, ed un’altra un prezzo di 80 dollari, e ottenendo un

risultato sorprendente: non solo, come era intuibile, le persone giudicavano più

buono il vino che pensavano costare di più, ma la loro corteccia ventromediale

faceva registrare una attività più intensa, sintomo di una maggiore preferenza, in

corrispondenza dell’assaggio del vino ritenuto più costoso. Questo dato, oltre a

segnalare un possibile correlato neurale dell’euristica prezzo/qualità, fornisce anche

alla marca (in questo caso rappresentata dal prezzo) un valore di modificazione

dell’esperienza di piacere in sé: un potente effetto placebo in grado di intervenire

sul sistema della ricompensa (Plassman et. al. 2008).

Lo studio più celebre a questo proposito è però quello condotto da McClure e

Montague, i quali hanno avuto la brillante intuizione di portare in laboratorio una

storica rivalità commerciale come quella fra Coca Cola e Pepsi, facendo valutare a

diversi soggetti entrambi i brand: il test sperimentale si è svolto prima con un blind

test, in cui i soggetti dovevano esprimere la loro preferenza dopo aver sorseggiato

entrambe le bibite in un bicchiere anonimo, e successivamente in una condizione in

cui gli stessi soggetti erano chiamati a manifestare la propria preferenza fra le due

marche, le quali però, in questo caso, erano invece ben visibili durante l’assaggio;

oltre al fatto che nel primo caso è emersa un’equa distribuzione delle preferenze

Page 85: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

85

mentre nel secondo vi è stata una netta prevalenza a favore della Coca Cola, dato

questo che già suggerisce una netta influenza esercitata della marca sul processo di

scelta, McClure e colleghi hanno anche potuto notare il coinvolgimento di due

differenti sistemi neurali a seconda del contesto sperimentale: mentre nel test

anonimo l’attività della corteccia ventromediale era in grado di predire la

preferenza del soggetto, incrementando la sua attività in corrispondenza

dell’assaggio della bibita preferita, nel test con i brand visibili la marca era in grado

di attivare regioni cerebrali maggiormente legate alla memoria, come l’ippocampo,

e alla sfera cognitiva, come la corteccia dorsolaterale. L’attivazione di quest’ultima

in un contesto relativo al brand ha fatto ipotizzare a McClure la presenza di un

network neurale formato da mesencefalo, ippocampo e area dorsolaterale che,

mettendo in moto l’attività della memoria di lavoro di recupero di tutti i dati

associati al brand, segnalerebbe la presenza di un forte simbolo di riconoscimento,

come il brand, alla corteccia ventromediale, la cui attivazione solitaria avverrebbe

soltanto nei casi di preferenza basata sulle singole percezioni sensoriali. (McClure

et. al., 2004).

Questo dato, anche se timidamente confermato da alcune ricerche di Schaefer

(Schaefer et. al, 2006; 2007), il quale ha riscontrato attivazioni della regione

dorsolaterale in risposta a immagini di auto o brand di lusso, non spiega come mai

in tutte le ricerche precedenti non vi sia stata notizia di attività di questa medesima

area. Rimandando quindi, si spera, a un futuro prossimo una spiegazione in grado di

diradare la nebbia intorno a questi dati, ciò che possiamo per ora affermare con

sicurezza è che il brand, anche se non è chiaro se a causa del lavoro della corteccia

dorsolaterale o meno, esercita un evidente influenza nell’alterare la percezione delle

ricompense attuali e future, incrementando, in ogni caso, l’attività della corteccia

ventromediale.

Per concludere questo capitolo, diamo spazio ad un ultimo dato, proveniente da uno

studio di Koenigs e Tranel in grado di supportare le tesi fin qui mostrate: replicando

il medesimo test sperimentale di McClure con la sola variante della presenza di

soggetti che presentavano lesioni proprio all’area ventromediale, i due

neuroscienziati hanno potuto notare che questi ultimi, sia nella condizione anonima

che in quella di conoscenza delle marche, mantenevano costante la preferenza per

Page 86: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

86

la Pepsi, ignorando quindi il significato simbolico della Coca Cola; questo dato,

oltre a confermare un ruolo decisivo della corteccia ventromediale nel codificare le

ricompense, mostra ancora una volta chiaramente la correlazione fra l’attività di

questa area e l’importanza del brand (Koenigs, Tranel, 2008). Segno che a livello

cerebrale le nostre preferenze sono guidate più da quello che un brand è in grado di

suscitare nella nostra mente, piuttosto che dall’effettiva esperienza sensoriale che il

solo prodotto è in grado di darci.

Page 87: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

87

6. NEUROPSICOLOGIA DELLE DECISIONI D’ACQUISTO.

Nonostante il concetto di brand conservi un’indiscussa centralità nell’ambito degli

studi sui comportamenti d’acquisto, le recenti ricerche di psicologia dei consumi e

di neuromarketing non si sono limitate ad analizzare il valore della marca e i

relativi correlati neurali, ma hanno invece esteso il loro raggio d’azione fino a

comprendere altre caratteristiche peculiari del consumo, fra le quali spicca

l’articolato processo di scelta che precede la decisione di acquistare un determinato

prodotto: obiettivo di questo capitolo è quindi presentare una serie di studi

finalizzati ad approfondire le caratteristiche del decision-making messo in atto dal

consumatore di fronte a determinati beni, evidenziando sia, se possibile, le sue basi

neurologiche, sia alcune delle distorsioni cognitive in grado di intervenire

inficiandone la validità.

Al fine di comprendere al meglio quali siano i circuiti cerebrali maggiormente

impegnati durante l’attività di scelta e di acquisto di un determinato prodotto, un

team di lavoro condotto da Ambler e Braeutigam costruì appositamente un centro

virtuale di shopping, sottoponendo quindi 18 soggetti alla MEG75

durante il

processo di decision-making che l’esperienza simulata imponeva loro. Il design

sperimentale prevedeva il susseguirsi di 3 fasi: inizialmente ai soggetti veniva

chiesto di operare una scelta fra una sequenza di beni di marche diverse, in maniera

molto simile a quanto avviene in un supermercato nella quotidianità;

successivamente, venivano presentate le medesime opzioni di scelta, ma questa

volta i soggetti dovevano limitarsi ad indicare quale, fra i prodotti presentati, fosse

secondo loro quello di dimensioni più piccole. Infine, tutti venivano sottoposti a un

questionario per verificare il loro livello di familiarità con i vari brand esposti

durante la sessione di shopping virtuale.

I risultati dell’esperimento, oltre ad evidenziare una maggiore velocità nelle scelte

caratterizzate dalla presenza di un brand familiare (soprattutto per quanto riguarda

il genere femminile), hanno messo in luce un duplice percorso di attivazione

cerebrale, a seconda della prevedibilità o meno delle decisioni prese dagli individui.

75

La MEG, sigla che sta per Magnetoencelografia, è un apparato che registra i campi magnetici

indotti dall’attività neuronale. Per una dettagliata definizione del funzionamento, si rimanda a

Babiloni F., Meroni V., Soranzo, R., (2007).

Page 88: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

88

Quando il processo di decision-making veniva effettuato in presenza di marche

familiari, i soggetti impiegavano infatti circuiti neurali profondamente differenti

rispetto a quando la scelta veniva compiuta fra alternative che implicavano brand

non conosciuti, ad eccezione di quanto avveniva nelle prime fasi puramente

percettive, dove le attivazioni cerebrali erano comuni a entrambi i percorsi

cognitivi.

Dopo circa 90 ms dalla presentazione delle opzioni, la condizione sperimentale in

cui i soggetti erano chiamati a prendere una decisione sul prodotto da acquistare si

caratterizzò infatti, indipendentemente dal livello di familiarità del brand, per una

maggiore attivazione della corteccia visiva rispetto ai casi in cui i soggetti, nella

condizione di controllo, dovevano semplicemente esprimersi indicando l’oggetto

dalla dimensione minore; questa scoperta, secondo gli sperimentatori, è in accordo

con quei precedenti dati raccolti in letteratura che si esprimono a favore di una

correlazione fra l’attività della corteccia visiva e il lavoro svolto dalla memoria di

lavoro. Quest’ultima, data l’importanza per il soggetto di basare una qualsiasi

decisione d’acquisto sul recupero mnemonico di alcuni ricordi concernenti il

medesimo marchio percepito, sarebbe infatti in grado di stimolare l’attività della

corteccia visiva, richiamandola ad una maggiore accuratezza nel processo di

formazione di un quadro rappresentazionale della realtà. Al contrario, in un

contesto in cui il soggetto deve solo fornire un dato relativamente semplice

riguardante una qualità prettamente fisica dell’oggetto, la memoria di lavoro non

dovrebbe avviare un medesimo processo di recupero mentale di informazioni

passate, limitando di conseguenza anche l’attività della zona occipitale deputata alla

visione; al fine di chiarire quale sia il grado di familiarità del brand presentato, il

cervello dei soggetti mette quindi immediatamente in atto, tramite la memoria di

lavoro, un processo di natura fortemente attentiva.

In un secondo stadio percettivo, all’incirca dopo 325 ms dalla presentazione delle

opzioni di scelta, è stata poi riscontrata, nella condizione in cui i soggetti dovevano

compiere una decisione d’acquisto, una forte attivazione di una serie di aree

temporali anteriori e mediane sinistre che risultavano invece meno coinvolte nella

semplice condizione di controllo. Di nuovo, questo dato non sorprende, e trova una

sua spiegazione nel ruolo svolto da queste regioni corticali, tradizionalmente

Page 89: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

89

accostate ad una intensa attività di recupero semantico ed episodico delle

informazioni immagazzinate nella nostra memoria; in questa fase del decision-

making, l’attenzione dei soggetti è infatti orientata a identificare l’immagine del

prodotto che percepiscono, classificandola e comparandola con i dati conservati

nella memoria relativa a quel medesimo prodotto. Se la prima fase si

contraddistingueva quindi per una sorta di pre-allarme inviato alle regioni cerebrali

puramente percettive, la seconda si caratterizza invece per l’inizio di una vera e

propria attività di ricerca delle informazioni necessarie.

Dopo 500 ms dall’inizio della scelta da parte dei soggetti, sembrano invece

emergere due quadri di attivazione cerebrale differenti a seconda del grado di

familiarità o meno con il brand. Per quanto riguarda le scelte non prevedibili, ossia

le situazioni in cui il soggetto si trovava di fronte a marche da lui sconosciute, i

ricercatori hanno riscontrato una forte attivazione nella corteccia inferiore frontale

destra, corrispondente alla celebre area di Broca (area 44 di Brodmann).

Il coinvolgimento di questa regione, fondamentale per l’espressione del linguaggio

parlato, potrebbe rivelare una tendenza del soggetto a vocalizzare silenziosamente il

brand sconosciuto, aiutando così, tramite una ripetizione continua, un processo

decisionale che manca di un effetto di familiarità che solo una marca nota ed

affidabile può dare. Nel caso invece di scelte prevedibili, quando cioè il soggetto si

trovava di fronte a un brand conosciuto, si osservava una forte attivazione della aree

parietali destre circa 900 ms dopo l’inizio del compito, dato che, secondo i

ricercatori, sarebbe dovuto alla tentazione del soggetto di trasformare la decisione

d’acquisto in un potenziale atto motorio finalizzato al concreto raggiungimento

dell’oggetto prescelto: conoscendo infatti la funzione di alcune aree parietali,

deputate alla codificazione dello spazio circostante e all’esecuzione dei movimenti

corporei, un loro forte coinvolgimento sarebbe indispensabile per mettere a fuoco il

prodotto da acquistare ed avviare di conseguenza un processo motorio orientato

letteralmente ad “afferrarlo” (Ambler, Braeutigam, 2004).

Uno studio simile è stato svolto dal team di Knutson, che ha studiato attraverso la

FMRi le reazioni cerebrali di diversi soggetti impegnati in un’esperienza simulata

di shopping, articolata lungo tre differenti fasi: in un primo momento veniva

mostrata loro la singola immagine di un prodotto acquistabile; successivamente,

Page 90: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

90

unitamente all’immagine, veniva presentato il prezzo del medesimo bene. Infine, in

un terzo momento i soggetti dovevano decidere se acquistare o meno il prodotto

proposto. L’esperimento terminava poi con un’intervista nella quale i partecipanti

esprimevano una propria scala di preferenze per desiderabilità e prezzo che

avrebbero pagato in riferimento ad ogni prodotto visionato.

I risultati della FMRi rivelarono un pattern di attivazione differente a seconda della

decisione dei soggetti di acquistare o meno i prodotti visualizzati: durante la prima

fase di semplice presentazione del prodotto, nel caso di beni acquistati e

particolarmente desiderati dal soggetto, si registrava infatti una marcata attività del

nucleo accumbens (NAcc); per noi non si tratta di un dato sorprendente, dato il

ruolo, già preso in considerazione, di quest’area cerebrale nel porsi come regione

centrale del circuito della ricompensa, e più in generale dell’intero sistema

dopaminergico.

Nella seconda fase, in cui di fianco all’immagine del prodotto faceva comparsa il

prezzo relativo al bene stesso, si verificava invece da una parte una forte attività

dell’insula nei casi in cui l’oggetto non veniva poi acquistato, e dall’altra un forte

coinvolgimento di regioni mesiali prefrontali limitrofe all’area ventromediale nelle

circostanze in cui il soggetto sceglieva di acquistare il prodotto, data la convenienza

economica. Se l’attivazione dell’insula è sempre correlata a situazioni di rischio o

di dolore, e non stupisce quindi un suo coinvolgimento proprio nella fase di

presentazione di un elevato prezzo da pagare per un bene che proprio per questo

motivo non verrà acquistato, l’attivazione della corteccia ventromediale sembrava

direttamente proporzionale allo scarto fra il prezzo che il soggetto era disposto a

pagare e quello effettivo del prodotto, fornendo in questo modo una precisa

anticipazione di quali beni sarebbero poi stati acquistati: maggiore era la

convenienza economica per i soggetti, maggiore risultava l’attivazione di questa

regione cerebrale, il cui ruolo durante i processi di ricompensa è ormai più che

noto.

Questo studio non solo ci fornisce un potente strumento predittivo del processo

decisionale d’acquisto, il cui esito è in qualche modo anticipato dall’attività di

determinate aree cerebrali, ma contribuisce anche a presentare il decision-making

stesso come un complesso processo mentale che vive di una vera e propria

Page 91: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

91

competizione neurale fra l’immediato piacere dell’acquisto (Nucleo Accumbens) e

il correlato dispiacere relativo al pagamento (Insula) (Knutson et. al., 2007).

L’idea del processo decisionale come tensione fra diversi circuiti neurali trova il

suo fondamento anche in un’altra ricerca, condotta questa volta da McClure e

Cohen: sottoponendo i soggetti alla FMRi, si chiedeva loro di scegliere fra un

piccolo buono-regalo di Amazon che avrebbero ricevuto immediatamente, e un

altro buono, sempre di Amazon, leggermente più cospicuo e che avrebbero però

ricevuto da due a quattro settimane dopo. Dall’analisi della risonanza magnetica

funzionale emersero due distinti circuiti neurali in grado di predire la scelta del

soggetto: nel caso dei soggetti che optavano per l’ottenimento immediato del

buono, si riscontrò una forte attivazione del sistema limbico, tradizionalmente

associato al lato emotivo e impulsivo della mente, e di alcune zone del circuito

dopaminergico, come il nucleo accumbens (NAcc); nel caso invece di soggetti che

sceglievano il premio più cospicuo, rimandandolo però di 2 o 4 settimane, a

prevalere erano alcune aree prefrontali, come la dorsolaterale, che solitamente sono

deputate a ruoli inerenti alla memoria di lavoro e al ragionamento. Questi dati sono

in grado di fornire una rappresentazione neurale efficace della tensione dei soggetti

fra la volontà di ottenere una ricompensa subito e quella di resistere ricevendo un

guadagno maggiore in un futuro; in termini metaforici, sistema limbico e zone

prefrontali potrebbero rivestire il ruolo di correlati neurali rispettivamente

dell’atteggiamento “cicala” e di quello “formica” (Leher, 2009; Motterlini, 2008).

Definite le principali regioni cerebrali coinvolte nell’atto d’acquisto,

concentriamoci ora su alcune possibili distorsioni cognitive che possono intervenire

nel decision-making del consumatore, influenzandone le scelte; ci occuperemo in

particolare di quattro fenomeni di natura strettamente cognitiva: nell’ordine, si

tratta del framing, dell’euristica dell’ancoraggio, dell’effetto dotazione e del

paradosso della troppa scelta.

Effetto Framing: dipende dai punti di vista

Abbandonato il mito cartesiano di una realtà oggettiva dotata di un proprio status

ontologico indipendente dall’individuo, e sposata invece un’idea di realtà come

costruzione soggettiva intrinsecamente dipendente dalla mente del soggetto, le

Page 92: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

92

scienze umane nell’ultimo secolo hanno spostato il focus della percezione dalla

cosa in sé al come essa viene vista dall’uomo, il quale, non più visto come un’entità

che tenta di riprodurre passivamente la realtà nella propria mente, è stato invece

preso in considerazione come un essere che agisce attivamente interpretando il

mondo e costruendo la realtà secondo fattori percettivi, cognitivi e basandosi sul

proprio vissuto precedente.

Questa rivoluzione copernicana nel modo di intendere la mente umana ha

influenzato da vicino anche il processo decisionale dell’individuo, il cui esito non è

più visto come un qualcosa di indipendente dal contesto in cui lo stesso processo si

realizza, ma è anzi fortemente vincolato ad una serie di variabili ambientali; uno

stesso risultato può essere infatti inserito in cornici contestuali molto differenti,

influenzando il modo in cui viene percepito dal soggetto e dando adito, in un

quadro consumistico, a decisioni d’acquisto che possono rivelarsi profondamente

diverse fra di loro: ad esempio, è risaputo che una quantità di gelato minore ma

posta in una piccola coppa che fatica a contenerla viene acquistata più volentieri e a

cifre più alte rispetto ad una quantità maggiore di gelato situata però in una coppa

dalle dimensioni molto più grandi. Questo avviene in particolare quando le coppe

vengono presentate separatamente, e il soggetto, non potendo comparare

precisamente la quantità di gelato di entrambe, lascia che la sua scelta venga

guidata dalla capienza del contenitore: <<comperare una coppa di gelato

traboccante ci piace, suscita un’emozione positiva; comprarne una mezza vuota

no>>76

; è questo il classico esempio di processi decisionali influenzati non dalla

natura del quadro, ma dall’ampiezza della cornice (Motterlini, 2006).

Prendiamo ora il caso di un test sperimentale riguardante la vendita di due differenti

set di stoviglie: il primo è costituito da 24 pezzi (8 piatti piani, 8 piatti fondi e 8

piatti da frutta), tutti in buone condizioni; il secondo, invece è costituito da un

numero maggiore di pezzi, 40 (8 piatti piani, 8 piatti fondi, 8 piatti da frutta, 8 tazze

di cui due con un difetto, 8 piatti da dolce di cui 7 con un difetto). Valutando

congiuntamente i due set, e potendo paragonarli fra loro, i soggetti a cui era chiesto

di fornire una valutazione monetaria di entrambi erano chiaramente disposti a

spendere di più per il set di 40 pezzi (mediamente 25 euro) rispetto a quanto

76

Motterlini, (2006), p. 113.

Page 93: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

93

avrebbero pagato il primo set che, anche se in buone condizioni, presentava

comunque meno pezzi privi di difetto (la valutazione qui si aggirava intorno ai 23

euro); la sorpresa arrivava invece quando si cambiavano le condizioni del processo

decisionale, presentando ad alcuni soggetti soltanto il primo set e ad altri soltanto il

secondo, in quella che viene chiamata una condizione di valutazione separata:

contrariamente al principio di razionalità, qui i soggetti si dichiaravano

maggiormente disposti ad acquistare il primo set (valutazione di 25 euro) rispetto al

secondo (valutato mediamente 18 euro). Qualsiasi sia il fattore che abbia

determinato questo cambiamento nella valutazione (probabilmente mentre la

valutazione congiunta spinge a una comparazione fra i due set, nella valutazione

separata, in mancanza di altri elementi, si paragona semplicemente il numero totale

di pezzi con la quantità di pezzi intatti) l’esperimento ci offre più che mai la

possibilità di comprendere come le scelte di consumo siano pesantemente

influenzate dalla modalità in cui vengono presentate.

Generalmente tendiamo a privilegiare, per esempio, un rivenditore che ci fa pagare

un litro di benzina 1,75 e fa lo sconto di 0,05 euro a chi paga in contanti, piuttosto

che uno che fa pagare un litro di benzina 1,70 applicando un aumento di 0,05 euro a

chi paga con il bancomat o carta di credito; la sostanza è la medesima, ma il frame

con la quale ci viene offerta cambia radicalmente, modificando anche i nostri

atteggiamenti di consumo: la parola sconto è molto più attraente della parola

aumento, soprattutto di questi tempi. (Balconi, Antonietti, 2009).

Anche le offerte del tipo “paghi 2 e prendi 3” agiscono sullo stesso meccanismo

cognitivo, facendoci credere che il terzo prodotto non costa nulla: in realtà anche il

terzo bene ha un suo prezzo, dato che per ottenerlo dobbiamo ottemperare a una

condizione onerosa sia in termini monetari che di vincolo al consumo futuro,

obbligandoci a consumare la scorta prima di acquistare una marca alternativa: non

si tratta di altro che un efficace trucco per presentare alla nostra mente un concetto

allettante come quello di gratuità (Lugli, 2010).

Per una migliore comprensione dell’influenza del framing sulle nostre scelte di

acquisto, prendiamo ora in considerazione quello che è stato chiamato l’effetto di

attrazione o di disturbo; in un recente esperimento, 100 studenti sono stati messi di

fronte a due differenti condizioni di scelta riguardanti l’offerta di un abbonamento

Page 94: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

94

annuale al giornale The Economist: in un primo caso i soggetti dovevano decidere

fra tre differenti opzioni:

Abbonamento online con accesso a tutti i numeri pubblicati a partire dal 1997,

per 59$;

Abbonamento in formato cartaceo, per 125$;

Abbonamento in formato cartaceo più formato online con accesso a tutti gli

articoli pubblicati a partire dal 1997, per 125$.

Gli sperimentatori raccolsero 16 preferenze per la prima opzione, 84 per la terza e

nessuna preferenza per la seconda alternativa, ritenuta evidentemente sconveniente

dal momento che, paragonata alla terza, offre meno servizi allo stesso prezzo.

L’esperimento fu così ripetuto scartando la seconda opzione, e offrendo ai soggetti

la possibilità di scegliere solo fra la prima e la terza alternativa: il risultato fu anche

qui sorprendente, dato che le preferenze si ribaltarono letteralmente facendo

registrare un 68-32 in favore del primo abbonamento; ciò a significare che la

seconda alternativa, sul piano pratico totalmente inutile, svolgeva invece un ruolo

di fondamentale importanza, offrendo ai consumatori una pietra di paragone per

valutare le altre opzioni, e spingendo così il processo decisionale in favore di una

delle due (Lugli, 2010). Il meccanismo è chiamato effetto disturbo, e viene usato da

molti venditori che, grazie all’introduzione di un’alternativa manifestamente non

conveniente rispetto ad una scelta onerosa, inseriscono la scelta in una cornice utile

ad orientare i consumatori proprio verso l’opzione più cara: <<se aggiungiamo

un’altra opzione, chiamata (-A), nettamente peggiore della prima (A), ma anche

molto simile ad essa, il confronto tra di loro diviene facile e suggerisce non solo che

(A) è meglio di (-A) ma che è anche meglio di (B)>>77

Un altro potente effetto di framing intrinsecamente legato ai nostri atti d’acquisto fa

invece riferimento alla nostra avversione per gli estremi, che ci porta spesso a

eliminare, in una scelta fra diverse alternative, da una parte l’opzione più

economica, associata ad una rinuncia sul piano dei benefici ricercati, e dall’altra

quella più costosa, che implica un’eccessiva rinuncia sul piano economico,

spingendo di conseguenza le nostre preferenze verso l’alternativa centrale.

77

Lugli, 2010, p. 91.

Page 95: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

95

È su questo meccanismo che giocano molti venditori, impegnati a porre i loro

prodotti sul mercato in una posizione economicamente intermedia: una stessa

offerta in termini di prezzo può avere differente successo a seconda che si trovi in

un contesto ricco sia di alternative più dispendiose che di opzioni più economiche,

oppure in un ambiente in cui rappresenta l’offerta minore o maggiore (Lugli, 2010).

L’effetto framing è stato indagato anche per quanto riguarda i suoi possibili

correlati neurali: in una sorta di gioco d’azzardo ricreato in laboratorio, un’identica

scommessa veniva presentata a dei soggetti in due diverse modalità: nel primo caso

venivano dati loro 50$, chiedendo di scegliere fra la possibilità di tenersene

sicuramente 20$, oppure di investire l’intero denaro a loro disposizione in una

lotteria che con il 40% di possibilità permetteva loro di mantenere i 50$, e con il

restante 60% di possibilità faceva perdere tutti i soldi dati inizialmente. Nel

secondo, caso, invece la lotteria non cambiava, ma questa volta la possibilità

iniziale era quella di perdere 30 dei 50$ ottenuti, piuttosto che di mantenerne 20$:

la situazione ovviamente è la stessa, ma il modo di presentarla variava, e questo

portava i soggetti ad affidarsi alla lotteria il 42% delle volte nel primo caso, e ben il

62% nel secondo caso.

Fin qui, niente di nuovo: un’altra conferma della validità dell’effetto framing; ma

quando i neuroscienziati usarono la tecnica FMRI per studiare l’attività dei cervelli

dei partecipanti, scoprirono che chi sceglieva di scommettere lasciandosi

“abbindolare” dal differente frame, era sviato dall’eccitazione dell’amigdala, una

regione cerebrale che, quando attiva, evoca sensazioni negative di perdita. Questa

zona cerebrale era tuttavia attiva anche nei cervelli di coloro che non si lasciavano

influenzare dalle due diverse presentazioni, ma la differenza, per questi ultimi,

risiedeva nella contemporanea attivazione della zona prefrontale. In parole povere,

anche chi capiva subito che i diversi frame di scelta si riferivano a una medesima

situazione, provava comunque un’ondata negativa di emozione negativa quando

pensava al contesto di perdita, ma, a differenza degli altri, che decidevano sull’onda

di questa sensazione, sapeva cogliere il segnale filtrandolo con elementi di

razionalità stimolati dalla corteccia prefrontale.

Una decisiva evidenza sperimentale in grado non solo di mostrarci un possibile

correlato neurale dell’effetto framing, ma anche di darci una conferma del fatto che

Page 96: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

96

le persone razionali non sono tanto coloro che non ascoltano il proprio sentire, ma

piuttosto coloro che, ascoltandolo, lo sanno comprendere (Leher, 2009; Motterlini,

2008).

Euristica dell’ancoraggio: attenzione all’ancora

Era il 1979 quando gli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky

stravolsero lo studio dell’economia formulando la ormai celebre prospect theory:

mandando definitivamente in pensione la figura dell’homo economicus, dotato di

una razionalità perfetta e sempre capace di valutare correttamente gli esiti delle

proprie azioni scegliendo quella che massimizza la sua utilità, la prospect theory, da

una parte raccogliendo una serie di evidenze empiriche che testimoniavano una

continua violazione del principio di razionalità nelle decisioni quotidiane, e

dall’altra analizzando a fondo i meccanismi cognitivi della mente umana, si impose

come modello psico-economico in grado di integrare diversi dati comportamentali

in un quadro unico mirato a fornire una dimensione descrittiva delle decisioni reali.

Tralasciando momentaneamente il tema dell’avversione alle perdite, che sarà

centrale per spiegare successivamente l’effetto dotazione, poniamo ora l’accento sul

fatto che gran parte del merito della prospect theory sta nell’aver colto una

caratteristica fondativa del nostro sistema percettivo:

“Un tratto essenziale della presente teoria è che il valore è associato

alle variazioni di ricchezza o benessere, piuttosto che agli stati finali.

Questa assunzione è compatibile con i principi base della percezione

e del giudizio. Il nostro apparato percettivo è sintonizzato sulla

valutazione delle variazioni piuttosto che sulla valutazione di

grandezze assolute. Quando rispondiamo ad attributi quali la

brillantezza, la pesantezza o la temperatura, il contesto passato e

presente dell’esperienza definisce un livello di adattamento, o punto

di riferimento, e gli stimoli sono percepiti in relazione a questo

punto di riferimento”78

Se il nostro cervello è quindi programmato per riconoscere i cambiamenti da un

determinato punto di riferimento, piuttosto che per valutare le dimensioni assolute,

questo è probabilmente dovuto al fatto che i nostri neuroni sono in grado di

codificare lo scarto fra due diversi istanti, piuttosto che di reagire in base a una

78

Kahneman, Tversky, (2005), p. 79.

Page 97: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

97

singola situazione: <<se immergiamo una mano nell’acqua, la stessa temperatura

dell’acqua ci sembrerà calda se la nostra mano si era adattata a un ambiente più

freddo, e fredda in caso contrario.>>79

.

Questa caratteristica fondante del nostro sistema cognitivo fa sì che le nostre

decisioni siano basate non tanto su una valutazione dell’esito in sé, come

prescriveva la teoria dell’homo economicus, quanto piuttosto sull’analisi della

correlazione fra l’esito possibile e un preciso punto di riferimento, che funge da

vera e propria ancora del ragionamento, ed è generalmente rappresentato dalla

situazione attuale in cui si trova il soggetto; in particolare, ciò avviene in ambito

consumistico, dove le nostre decisioni sono spesso maturate dopo una meticolosa

comparazione fra diversi beni o differenti prezzi.

Basti pensare a questo proposito al successo dei saldi: la spesa per un oggetto

opportunamente scontato risulterà vantaggiosa per il semplice fatto di essere

paragonata al prezzo pieno, che spesso viene anche appositamente aumentato per

creare la percezione di un guadagno in realtà fittizio; la comunicazione di uno

sconto eccita infatti la mente del cliente, che, ancorandosi mentalmente al prezzo

pieno e valutando l’affare in base allo scarto con quello reale, trova il modo di

minimizzare il dolore della perdita (con un possibile correlato neurale in una

minore attività dell’insula?) sbilanciando così il decision-making verso la volontà di

ottenere immediatamente la ricompensa (Lugli 2010, Motterlini 2008).

Il valore dello sconto non è tuttavia assoluto, ma dipende dal contesto di

riferimento: un medesimo sconto di 4 euro vale infatti diversamente se offerto su un

bene che costa 12 euro o su uno che ne vale 97; questa diversità è spiegata,

nell’ambito della prospect theory, da un fenomeno percettivo, per il quale la

sensibilità psicologica è maggiore per cambiamenti più vicini al livello di

riferimento, mentre diminuisce marginalmente. Così come, per un principio

prospettico, la distanza fra due punti sembra minore se i punti sono lontani nello

spazio, anche lo scarto fra due prezzi sembra ridursi con l’aumentare delle cifre.

Questo, oltre a dare supporto a quelle ipotesi che vedono un correlato neurale

comune fra l’atto di contare e la percezione spaziale, fornisce anche una

spiegazione al fatto che vi sarebbero più persone disposte a muoversi in un negozio

79

Motterlini, (2006), p. 96.

Page 98: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

98

vicino per guadagnare 4 euro su un prodotto che ne costa 12, piuttosto che

risparmiare la medesima cifra su un bene valutato 97 (Balconi, Antonietti; 2009).

Sfruttando sempre il meccanismo dell’ancoraggio, alcuni negozi di abbigliamento

istruiscono il proprio personale a vendere l’oggetto più costoso per primo, puntando

sul fatto che quando il cliente arriverà a valutare altri oggetti per loro natura meno

cari, anche se saranno più costosi del solito, i loro prezzi non sembreranno così alti

rispetto alla spesa già effettuata (Lugli, 2010).

Anche i concessionari automobilistici e i siti delle compagnie aeree low-cost fanno

in modo di ancorare la mente del consumatore a un certo punto di riferimento,

corrispondente a un prezzo iniziale, aumentando solo successivamente la cifra

grazie all’aggiunta di optional vari, i quali, rappresentando solamente un graduale e

indolore aumento, vengono percepiti come poco costosi in relazione al prezzo-

ancora (Motterlini 2008).

Ma il fenomeno dell’ancoraggio è molto più efficiente di quanto si pensi: qualche

anno fa un gruppo di economisti del MIT decise di organizzare un’asta per i suoi

studenti, mettendo in vendita diversi oggetti come bottiglie di vino, tastiere wireless

e scatole di cioccolatini. La peculiarità di quest’asta consisteva nel fatto che ogni

studente doveva scrivere su un foglio le ultime due cifre del suo codice di

previdenza sociale, e decidere poi per ogni prodotto se era disposto a pagare quella

cifra. Successivamente, gli studenti dovevano indicare la cifra massima che erano

disposti a spendere per i diversi oggetti. Anche se in linea teorica il numero di

previdenza sociale non avrebbe dovuto esercitare nessuna influenza sulle offerte, si

registrò un profondo divario fra coloro il cui numero terminava con cifre alte (80-

99) e coloro il cui numero finiva con cifre basse (10-20): i primi fecero un’offerta

media di 56 dollari, i secondi di soli 16.

Questo esperimento, in cui l’ancora costituiva un punto di partenza totalmente

scollegato con il compito da portare a termine, rende l’idea di come il nostro

cervello ricerchi continuamente pietre di paragone dalle quali partire per costruire

un ragionamento, mantenendole anche contrariamente a qualsiasi principio

razionale (Leher, 2009).

Page 99: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

99

Effetto dotazione: l’importanza del possesso

Fra i principali meriti della prospect theory vi è senza dubbio quello di aver messo

in luce il fenomeno di avversione alle perdite. Diretta conseguenza del fatto che

l’utilità, al contrario di quanto prescritto dalla scelta razionale, è associata non a

stati di ricchezza e benessere, ma a variazioni rispetto a un determinato punto di

riferimento, l’avversione alle perdite si rivela come una tendenza tipicamente

umana ad assumere un atteggiamento differente di fronte ai guadagni e alle perdite:

sistematicamente viene infatti osservato che la desiderabilità legata ad una certa

vincita è inferiore, di circa la metà, rispetto alla desiderabilità di non perdere la

medesima cifra, e che per questo motivo la gente generalmente rifiuta le lotterie

simmetriche che distribuiscono equamente la probabilità di vittoria fra la perdita e il

guadagno di una stessa somma di denaro80

(Kahneman, Tversky, 2005).

Il fatto che le perdite vengono sempre codificate come più grandi dei guadagni

trova un suo correlato nelle decisioni d’acquisto nell’effetto dotazione: con questo

termine si fa riferimento alla ricorrente situazione in cui un individuo, per cedere un

oggetto, pretende molto di più di quanto non sia disposto a pagare per acquistarlo:

in altri termini, il semplice possesso di un bene sembra moltiplicarne il valore

percepito (Motterlini, 2008). Quest’effetto è stato riscontrato diverse volte in sede

sperimentale: dividendo alcuni soggetti in due distinti gruppi di compratori e

venditori, e assegnando a questi ultimi una tazza ciascuno, il numero di scambi di

mercato andati a buon fine si rivelò decisamente sotto le aspettative, a causa di una

differente valutazione delle tazze da parte dei soggetti: se i venditori, infatti, non

erano mediamente disponibili a vendere il bene in loro possesso per meno di $5, i

compratori, d’altra parte, non valutavano le tazze più di $2,25-2,75, mettendo in

luce una notevole differenza di valutazione dovuta al semplice fatto di possedere o

meno l’oggetto in questione (Kahneman, Knetsch, Thaler, 2005).

Con lo scopo di comprendere se la ragione di questa iper-valutazione di un bene in

possesso stia in un vero e proprio aumento della sua attrattività o piuttosto in una

difficoltà a separarsene, Knetsch condusse nel 1990 un esperimento in cui divise i

80

“Una caratteristica saliente degli atteggiamenti verso i cambiamenti per quanto riguarda il benessere è che le perdite sembrano più grandi dei guadagni. Il peggioramento che un individuo prova perdendo una somma di denaro sembra essere maggiore del piacere associato al guadagno della stessa somma. La maggior parte delle persone, infatti, trova le scommesse simmetriche del tipo (x, 0,50; -x, 0,50) particolarmente poco attraenti” Kahneman, Tversky, (2005), p. 81.

Page 100: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

100

soggetti presenti in due gruppi differenti, assegnando a uno 5 penne a sfera di

prezzo medio, e a un altro $4,50, e dando poi il via a un libero mercato di scambio;

al termine, i soggetti potevano scegliere come premio per la partecipazione

all’esperimento o una penna o due tavolette di cioccolato: come previsto

dall’effetto dotazione, i soggetti a cui venivano assegnate a inizio esperimento le 5

penne a sfera optavano nel 56% dei casi per la penna, a differenza del solo 24% di

preferenze date alla penna dall’altro gruppo.

Quando però tutti i soggetti venivano sottoposti a un questionario finalizzato a

valutare l’attrattività di 6 doni da mettere a disposizione come premi finali, emerse

che coloro che erano dotati di penne durante l’esperimento non le valutavano più

attraenti rispetto a coloro che avevano svolto l’esperimento senza di esse. Questo

dato dimostrerebbe come <<il principale effetto della dotazione non è esaltare

l’attrattività del bene che si possiede, ma solo la sofferenza che si prova nel

separarsene>>81

, e inserirebbe questo effetto cognitivo in un quadro teorico di

avversione alle perdite che abbiamo già sottolineato nei capitoli precedenti, e che

vede come argomento centrale l’incorporazione di un’entità esterna nei confini del

proprio sé: una volta che un oggetto viene interiorizzato ed entra nelle

configurazione mentale del sé, l’individuo sperimenta verso di esso non solo un

vero e proprio senso di proprietà, ma anche una percezione di appartenenza

dell’oggetto al proprio “io”. L’effetto dotazione gioca proprio sulla flessibilità dei

confini corporei, suscitando nei soggetti una difficoltà a separarsi da ciò che viene

ritenuto in un breve tempo come “parte del sé”.

Ovviamente, questo meccanismo è alla base di molti comportamenti d’acquisto, e

viene spesso sfruttato da venditori particolarmente abili: molti agenti immobiliari,

illustrando le nuove abitazioni, fanno un largo uso di parole finalizzate a far

sembrare la casa, fin dai primi momenti, come già di proprietà dei nuovi clienti.

Facendo percepire la casa come propria, il venditore fa infatti leva sull’effetto

dotazione, che dovrebbe suscitare nel cliente un senso di proprietà e un immediato

relativo dispiacere per un’eventuale separazione.

Allo stesso modo, le concessionarie d’auto fanno in modo di fissare un prezzo base

per la vendita, e, solo dopo che il consumatore ha accettato la proposta, aumentano

81

Kahneman, Knetsch, Thaler, (2005), p. 137.

Page 101: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

101

il prezzo grazie all’inserimento di vari optional che difficilmente frenano la

decisione d’acquisto dell’acquirente, ormai già proiettato verso una percezione

dell’automobile come oggetto proprio (Lugli, 2010).

L’avversione alle perdite gioca il suo ruolo fondamentale anche in un’altra

componente decisiva dei comportamenti d’acquisto, il denaro: acquisito ormai lo

status di bene in sé e non più giudicato come semplice moneta di scambio per

giungere ad altri beni, l’importanza del denaro è tale che una relativa perdita

provoca nell’uomo un vero e proprio dolore che trova un suo correlato neurale

nell’attività dell’insula (Lugli, 2010). L’elemento di curiosità, a questo proposito, è

che l’avversione alle perdite di denaro è evidente in misura molto maggiore quando

acquistiamo qualcosa in contanti piuttosto che quando completiamo transazioni

economiche con la carta di credito. Quest’ultima, secondo recenti studi di neuro-

imaging, riduce nettamente l’attivazione dell’insula, provocando nel cliente un

minore dolore verso le proprie spese e non alimentando una percezione di una reale

perdita che viene invece provocata solo nei casi di pagamenti in contanti. Anche in

un semplice esperimento in cui diversi studenti, durante un’asta, sono invitati a

proporre delle offerte, è stato riscontrato che queste ultime sono molto più alte

quando il solo metodo di pagamento accettato è la carta di credito (Leher, 2009).

Il dolore per la perdita di denaro è tale che le persone, quando è possibile,

preferiscono generalmente concentrare la spesa in un unico periodo piuttosto che

pagare la medesima cifra diluita nel tempo, operazione questa che avrebbe come

unico effetto quello di protrarre in futuro i singoli istanti di dispiacere: <<la somma

delle perdite di denaro realizzata con la concentrazione degli acquisti suscita infatti

un’emozione negativa inferiore a quella che avremmo avvertito diluendo gli

acquisti […] la concentrazione degli acquisti equivale a una riduzione dell’effetto

dotazione>>82

(Lugli, 2010).

Il paradosso della troppa scelta: more is less

Contrariamente a quanto prescritto dalla teoria della scelta razionale, secondo la

quale il consumatore tenderebbe a prendere in esame il maggior numero di

informazioni disponibili al fine di massimizzare la propria utilità, il comportamento

82

Cfr. Lugli, (2010) p. 60.

Page 102: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

102

quotidiano degli individui è invece caratterizzato da un’ auto-limitazione del campo

di scelta e da una semplificazione continua del processo decisionale. Così, mentre

in tempi non lontani si era convinti che un maggior assortimento di marche e

prodotti implicasse una maggiore soddisfazione del cliente data dall’offerta di un

più vasto ambito di beni fra cui scegliere, ora è chiaro invece, secondo quello che è

chiamato il “paradosso della troppa scelta”, che l’eccessiva presenza di alternative

in un contesto di scelta rallenta e rende più complicata la decisione d’acquisto,

producendo nell’individuo un sovraccarico cognitivo che lo allontana dal compito e

lo obbliga a mettere in atto diverse euristiche mentali: decidere fra un numero

elevato di opzioni, se inizialmente sembrava maggiormente desiderabile e foriero di

un’ampia libertà individuale, determina invece, alla fine, un forte effetto

demotivante nei consumatori (Olivero, Russo, 2009; Balconi, Antonietti, 2009).

Una prima evidenza empirica di questo fenomeno è emersa nello studio di Sheena

Iyngar e Mark Lepper, due psicologi che hanno studiato in un supermercato della

California gli effetti sul comportamento d’acquisto di un numero elevato (24), e di

un numero ristretto (6) di differenti marche di marmellata. Posizionando fra i

banchi della spesa un banchetto che alternativamente offriva le due diverse quantità

di marmellate, gli psicologi notarono che, sebbene il numero di clienti che si

fermava ad osservare era maggiore quando era presente un’elevata quantità di

alternative (24 marmellate), si registrarono molti più acquisti (30% contro il 3%) se

la scelta verteva solo su 6 tipologie: quando il campo di scelta era limitato, i clienti

che compravano i prodotti erano infatti dieci volte di più.

Il medesimo risultato è stato poi riscontrato in più occasioni: a partire dai piani

pensionistici, per i quali si è osservato un calo delle adesioni direttamente

proporzionale all’aumento delle opzioni d’investimento offerte, passando per

l’ambito scolastico, dove la motivazione di uno studente a scrivere un tema può

essere incrementata limitando la scelta degli argomenti, fino agli affari della

Procter&Gamble, che vide le sue vendite crescere del 10% dopo aver preso la

decisione di ridurre le varianti di Shampoo da 26 a 15, (Gigerenzer, 2007; Leher,

2009; Balconi, Antonietti, 2009; Lugli, 2010).

Alla luce delle diverse evidenze empiriche raccolte, la quantità ideale di opzioni da

offrire ad un cliente dovrebbe aggirarsi intorno al sette, cifra che viene stimata

Page 103: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

103

come numero massimo di elementi che la nostra memoria di lavoro può mantenere

durante lo svolgimento di un compito (Balconi, Antonietti, 2009).

Lo stesso paradosso cognitivo è stato comunque riscontrato anche nei contesti di

scelta in cui, pur essendo presenti poche alternative, le opzioni venivano descritte

sulla base di un numero elevato di attributi da prendere in considerazione durante il

processo decisionale: illustrando ad esempio un numero non elevato di case in

vendita, ma fornendo nello stesso tempo al possibile acquirente una quantità di

5,10,15,20 o 25 attributi per casa, si è osservato che la confusione del cliente e la

mancanza di qualità delle decisione finale erano fortemente dipendenti

dall’aumento degli attributi. Compiendo diversi studi a questo proposito, sembra

che il tempo impiegato per decidere fra varie opzioni rallenti inesorabilmente

quando per ogni opzione viene fornito un numero di attributi superiore a 12. Anche

in questo caso, i venditori più abili cercano di facilitare la decisione del cliente

offrendogli, oltre a un numero limitato di alternative, anche una modesta quantità di

attributi per ognuna, in modo tale che il confronto fra le opzioni risulti il più esile e

facile possibile.

Il paradosso della troppa scelta è probabilmente dovuto sia ad un sovraccarico

cognitivo che trova la sua ragione d’essere nella limitata capacità della nostra

mente, la quale non è in grado di operare scelte prendendo in considerazione un

numero illimitato di possibilità, sia ad un senso di eccesiva responsabilità degli

individui, i quali, di fronte a un numero elevato di opzioni percepiscono una

maggiore pressione nel dover raggiungere la migliore decisione possibile (Balconi,

Antonietti; 2009). Data questa duplice difficoltà in un contesto di ampia scelta, i

consumatori mettono in atto diverse strategie difensive: molti tendono a rinviare

sistematicamente questi tipi di decisione, rallentando il processo decisionale o

addirittura fuggendo da esso; altri, invece, si impongono regole ed auto-limitazioni

in grado di restringere il campo di scelta e di semplificare di conseguenza la

decisione (in un supermercato, ad esempio, leggere le alternative di assortimento in

verticale e focalizzare l’attenzione sulla posizione centrale, piuttosto che acquistare

preferibilmente i prodotti all’inizio dello scaffale rispetto al senso di percorrenza

senza visionare tutte le alternative, sono esempi di euristiche impiegate per

facilitare il decision-making) (Lugli, 2010).

Page 104: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

104

Oltre al paradosso della scelta, che per certi versi è l’emblema dell’effetto negativo

portato nel processo decisionale da un sovraccarico cognitivo, vi è anche un altro

dato interessante in grado di mostrare come l’eccessivo utilizzo delle funzioni più

razionali della propria mente, in un contesto di scelta, porti a un netto

peggioramento della qualità dell’intero decision-making: in un esperimento

condotto dallo psicologo Wilson, a diverse ragazze era chiesto di scegliere il loro

poster preferito fra un paesaggio di Monet, un quadro di Van Gogh e tre poster

umoristici di gatti. Ma, mentre un gruppo doveva semplicemente indicare la propria

scelta portandosi a casa il poster preferito, un altro gruppo sperimentale doveva

compilare un questionario indicando le ragioni della loro decisione e i fattori

valutati come positivi e negativi per ogni poster. Già a questo livello emerse una

profonda differenza: il primo gruppo aveva selezionato maggiormente i quadri

artistici, mentre il secondo, probabilmente spinto dalla paura di non conoscere le

motivazioni sottostanti ad una scelta di carattere artistico, si rifugiava in una

tranquilla scelta di quadri rappresentanti i felini, sicuramente più facilmente

argomentabile sulla base dei proprio gusti personali.

Due settimane dopo, Wilson ricontattò le ragazze per vedere quale gruppo avesse

preso la decisione migliore: il primo gruppo, vale a dire coloro che non avevano

dovuto rendere conto della propria scelta, sembrava totalmente soddisfatto della

propria decisione, dichiarando esplicitamente di non voler cambiare idea. Le

ragazze del secondo gruppo, invece, nel 75% dei casi si mostrarono insoddisfatte

della scelta, chiedendo agli sperimentatori il permesso di poter tornare indietro sui

propri passi: chi aveva ascoltato il proprio gusto personale, risultava quindi

contento del proprio decision-making; chi era stato costretto ad una

razionalizzazione forzata, era invece andato contro le proprie preferenze rimanendo

deluso dalla propria capacità decisionale (Leher, 2009). Questo esperimento

costituisce un buon segnale in grado di suggerirci che, in scelte d’acquisto

caratterizzate dalla presenza di alternative con una scarsa funzionalità e con

un’elevata importanza estetica, pensare troppo può rivelarsi anti-produttivo e può

condurre lontano dalle proprie preferenze.

Ricapitolando quanto espresso da questi ultimi dati, possiamo concludere con una

certa sicurezza << che usare poca informazione produce il vantaggio di effettuare

Page 105: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

105

scelte migliori e maggiormente soddisfacenti, risparmiare tempo ed energia

cognitiva ed evitare la sgradevole esperienza di conflitto>>: contrariamente a

quanto si potrebbe pensare, un cliente soddisfatto non è un soggetto che utilizza

tutte le proprie risorse cognitive per risolvere un decision-making caratterizzato da

un gran numero di informazioni, ma è anzi un consumatore che richiede un

processo di scelta rapido, efficace e basato su pochi ma essenziali elementi83

.

83

Cfr. Balconi, M., Antonietti, A., (2009), p.90.

Page 106: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

106

CONCLUSIONI

Tenendo fede all’interdisciplinarietà che caratterizza le scienze cognitive, possiamo

quindi concludere il nostro elaborato ritenendo di aver portato a termine, nei limiti

del possibile, una ricerca teorica che, oscillando fra le varie discipline, ha cercato di

racchiudere in un quadro il più esaustivo possibile il complesso e variopinto

fenomeno dei comportamenti d’acquisto.

Spaziando fra i diversi ambiti concettuali, ci sembrava doveroso porre una

premessa di carattere epistemologico in grado di fornire una rigorosa base filosofica

e psicologica per lo studio dei consumi: a nostro avviso, infatti, soltanto

richiamando la visione di un sé come complesso insieme di fenomeni, fondato su

un iniziale processo di categorizzazione e caratterizzato, sia nella sua dimensione

individuale di “io”, sia in quella collettiva di un “noi”, da alcune componenti

principali come la continuità temporale e l’unicità spaziale, era possibile

comprendere a fondo la forza del brand, fondata interamente sulla sua capacità di

intrattenere un rapporto con le dimensioni del sé offrendosi, attraverso una nuova

occasione di categorizzazione, come entità da incorporare nei confini dell’ “io” e

del “noi”, e adempiendo così a una duplice funzione di esplicitazione di parti del sé

inespresse e di copertura di zone di insicurezza psichica.

Questa premessa di natura filosofica e psicologica ci ha garantito le giuste basi

teoriche per avviare un complesso viaggio teorico, costruito anche sulla base di

argomentazioni sociologiche, utili a comprendere le principali trasformazioni

sociali che hanno condizionato i comportamenti consumistici, e di studi

neuroscientifici, che, attraverso l’utilizzo di tecnologie come la FMRi, ci hanno

permesso di far luce su possibili correlati neurali non solo del concetto di brand, ma

anche, più in generale, dei comportamenti di dipendenza e delle caratteristiche del

processo di decision-making finalizzato all’acquisto.

Sperando quindi di aver portato a termine un lavoro che sia stato in grado di

sposare la ricca varietà degli argomenti con la coerenza dell’impianto teorico e

argomentativo, ci auguriamo di aver contribuito anche in minima parte a colmare il

vuoto presente in letteratura; per il resto, non ci resta che auspicare un crescente

interesse delle scienze cognitive per questo tema, sperando che questo, in un futuro

prossimo, possa coniugarsi più facilmente con uno sguardo interdisciplinare

Page 107: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

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finalizzato non solo a non trascurare le basi del fenomeno preso in considerazione,

ma soprattutto a mantenere in vita l’identità delle scienze cognitive stesse, che

possono sopravvivere solo grazie ad una profonda integrazione delle diverse parti

che le compongono.

Page 108: Comportamenti d'acquisto e forme del sé

108

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