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CHIMICA E AMBIENTE
Negli ultimi decenni la consapevolezza dei problemi ambientali ha portato ad un nuovo approccio, più
sostenibile nello sviluppo dei processi chimici, che mira a prevenire e ridurre drasticamente
l'inquinamento e l'impatto ambientale
Perché non c’è una “Geologia Verde” o una
“Astronomia Verde” ? Perché la chimica è la
scienza che introduce nuove sostanze nel
mondo e noi abbiamo una responsabilità per il
loro impatto nel mondo” - Ronald Breslow
Durante il XX secolo la chimica ha profondamente cambiato il nostro stile di vita e si
può affermare che la società come la conosciamo e viviamo oggi non esisterebbe
senza di essa. L‟industria chimica costituisce una delle componenti principali per
soddisfare i crescenti bisogni di cibo del pianeta, per poter disporre di forme
alternative di energia o per un consumo più efficiente di quelle fossili, per la creazione
di nuovi materiali avanzati con migliori prestazioni rispetto a quelli tradizionali, per la
produzione di farmaci sempre più efficaci nella cura delle malattie. Nonostante la crisi
economica mondiale, l‟industria chimica continua ad essere uno dei settori trainanti a
livello mondiale. Su scala globale nel 2014 essa ha realizzato un valore della
produzione di oltre 3.200 miliardi di euro
La produzione e l‟uso dei prodotti chimici nella società moderna hanno avuto un
notevole impatto sull‟ambiente, sulla diminuzione delle risorse naturali e sulla salute
delle popolazioni. Spesso, le implicazioni di tali effetti sono rimaste nascoste a causa
della difficoltà a comprendere e misurare il destino, il trasporto e la tossicità delle
sostanze chimiche nell‟ambiente. Ad esempio, in passato le conseguenze sulla salute
di un certo prodotto chimico erano considerate in termini immediati e/o su scala
locale, mentre venivano trascurate quelle a lungo termine e/o su scala globale. Due
esempi importanti che mostrano la necessità di una maggiore comprensione degli
effetti dei prodotti chimici usati nella società sono quelli della deplezione dello strato di
ozono stratosferico dovuto all‟uso dei clorofluorocarburi (CFC) e della
bioaccumulazione dei pesticidi clorurati (DDT) nella catena alimentare.
Per circa 50 anni i CFC sono stati considerati una classe di composti chimici benigni a
causa della loro bassa tossicità e reattività. Queste caratteristiche ne hanno fatto gli
ideali candidati per numerose applicazioni industriali, dai refrigeranti, ai propellenti per
aerosol, ai solventi industriali ecc., passando da una produzione di 180000 tonnellate
nel 1960 a 1,2 milioni di tonnellate nel 1988.
Nel 1974 M. Molina e S. Rowland pubblicarono dei dati che suggerivano per i CFC un
ruolo importante sulla deplezione dello strato di ozono stratosferico. Nonostante lo
scetticismo di scienziati ed istituzioni governative, nel 1987 la loro teoria, sul ruolo del
cloro presente nei CFC nella distruzione dell‟ozono stratosferico sull‟Antartide, è stata
confermata. L‟evidenza dell‟impatto dei CFC sulla diminuzione dell‟ozono ha
determinato un‟azione decisa nell‟ambito di accordi internazionali promossi dalla
Nazioni Unite per la salvaguardia dell‟ambiente, che ha portato nel 1987 alla firma del
Protocollo di Montreal sulle sostanze che riducono lo strato di ozono (ozone-depleting
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substances - ODS), in cui sono state prese una serie di misure restrittive sul consumo
e nella produzione di alcuni CFC1.
I pesticidi derivati dagli idrocarburi clorurati come il diclorofeniltricloroetano (DDT)
furono utilizzati con grande successo negli anni ‟40 per combattere la zanzara anofele,
responsabile della diffusione della malaria. Nel 1962, l‟ambientalista americana R.
Carson pubblicò un libro intitolato “La primavera silenziosa” in cui forniva evidenze
scientifiche sugli effetti dovuti al bioaccumulo di composti organici clorurati nella
catena alimentare, come ad esempio l‟effetto nocivo nella riproduzione degli uccelli
dovuto all‟assottigliamento dello spessore del guscio delle uova. Anche in questo caso,
inizialmente le ipotesi della Carson non furono prese in considerazione cercando di
minimizzare i risultati dei suoi studi, fino a che non fu dimostrato che il DDT e altri
composti organici clorurati si concentravano fino a raggiungere dosi potenzialmente
pericolose nel tessuto adiposo e finivano nel latte materno. Questo portò nel 1972 al
bando del DDT come insetticida da parte dell‟EPA, l‟agenzia americana per l'ambiente.
Un provvedimento preso successivamente da molte altre nazioni.
Gli esempi dei CFC e del DDT e il loro impatto a lungo termine sull‟ambiente
dimostrano la chiara necessità per gli scienziati di tener conto di una più attenta
valutazione dei rischi nella fase di sviluppo e produzione di un composto chimico.
L‟industria chimica è responsabile del rilascio di grandi quantità di sostanze pericolose
nell‟ambiente, sia per immissione diretta di inquinanti chimici, sia come prodotti
formati durante la loro evoluzione nell‟ambiente.
Uno degli esempi più noto è quello della
diossina. Il termine diossina si riferisce ad
una classe di composti organici, più
precisamente conosciuti come
policloruridibenzo-p-diossine. La molecola
da cui derivano è la dibenzo-p-diossina,
che presenta 73 possibili derivati
policlorurati, in cui due o più degli otto
atomi di idrogeno della molecola sono
sostituiti da atomi di cloro. La più studiata
è la 2,3,7,8-tetracloro-p-diossina
(2,3,7,8-TCDD) un sostanza classificata
nel 1997 dall‟Organizzazione mondiale
della Sanità (OMS) come cancerogeno di
classe 1(fig.1).
Le diossine sono raramente prodotte in natura, ad esempio durante l‟eruzioni
vulcaniche e gli incendi delle foreste; le principali immissioni nell‟ambiente sono le
reazioni industriali in cui si formano come prodotti secondari o a seguito di processi di
incenerimento di particolari composti organici sintetici. In un rapporto sulla diossina
del 1999 l‟OMS conclude: “le diossine sono trovate in ogni parte del mondo,
praticamente in tutti gli ambienti con livelli più o meno elevati in aria, suolo, acqua e
cibo, specialmente nei prodotti come carne, pesce e crostacei”.
1 Lezione Treccani - Effetti antropogenici sull‟atmosfera: “Il buco dell‟Ozono”
Figura 1 - Le diossine sono sostanze chimiche
tossiche e persistenti nell'ambiente, che si accumulano nella catena alimentare e pertanto,
anche un'esposizione prolungata a livelli minimi può recare gravi danni alla salute
3
I disastri chimici come quello del 1984 a Bhopal in India, dove una fuga di pesticidi da
una fabbrica della Union Carbide portò alla morte di 4.000 persone e a più 50.000
contaminati che subirono dei gravissimi danni come la cecità, insufficienza renale e
malesseri permanenti degli apparati interni, o quello del 1976 nel comune di Seveso,
nella Brianza, dove una nube tossica rilasciata da una fabbrica di pesticidi espose
37.000 persone ai livelli più alti mai registrati di diossina, hanno portato l‟opinione
pubblica a considerare
l‟industria chimica come uno
dei maggiori responsabili del
degrado ambientale, facendola
diventare oggetto di una
crescente preoccupazione
sociale per le conseguenze
negative della produzione,
dell‟uso e della dispersione dei
prodotti chimici nell‟ambiente.
La consapevolezza che la
produzione chimica non deve
avere effetti negativi
sull‟ambiente ha costituito la
forza trainante dello sviluppo
della chimica verde (green
chemistry - GC) o chimica sostenibile. Questa non costituisce una branca della
chimica, piuttosto un approccio nuovo che
applica principi innovativi in ogni stadio del
processo chimico, prevenendo e riducendo
sostanzialmente l'inquinamento e l'impatto
ambientale. La chimica verde si applica
all‟intero ciclo del prodotto chimico:
progettazione, produzione, uso e in ultimo
il suo smaltimento.
Un‟importante spinta verso questo nuovo
approccio alla chimica è stato il movimento
per uno sviluppo sostenibile nato nei primi
anni ‟80, il cui obiettivo, secondo la
definizione proposta nel rapporto “Our
Common Future” pubblicato nel 1987 dalla
Commissione mondiale per l‟ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite è : “lo sviluppo
che è in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la
possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”.
L‟espressione green chemistry fu coniata nel 1991 da P.T. Anastas, direttore
dell‟Office of research and development della Environmental Protection Agency (EPA),
e J.C. Warner, i quali sintetizzarono in 12 principi l‟impostazione che sta alla base
della chimica verde (fig.2).
I dodici principi possono essere condensati un due idee principali: sviluppare processi
che massimizzano le quantità di reagenti in modo da ridurre le materie prime
Figura 3 - Obiettivi che una sintesi chimica deve
raggiungere per rispettare i principi della chimica verde
Figura 2 - I dodici principi che sono alla base della chimica verde
4
utilizzate e producendo la minima quantità di scarti da smaltire; l‟utilizzo di reazioni
con sostanze e solventi che portano alla formazione della minore quantità possibile di
prodotti pericolosi per l‟ambiente.
La fig.3 riassume le caratteristiche di un processo di sintesi che rispetta i principi della
chimica verde come combinazione di una serie di obiettivi da raggiungere: ambiente,
salute, sicurezza ed economia.
Per stimare la sostenibilità di un processo sono stati introdotti una serie di parametri
metrici (green metrics).
Uno dei modi di misurare l‟efficienza di un processo è calcolare la resa, cioè
comparare la quantità del prodotto atteso con la reale quantità di prodotto ottenuto.
Ad esempio nella reazione per la produzione del fenolo partendo dal benzene e usando
acido solforico e idrossido di sodio in un processo multistadio, che complessivamente
può essere espressa come:
(1)
si ha una resa intorno all‟82%. Questo calcolo però nasconde il fatto che per ogni
mole di fenolo (94g) si produce una mole di solfito di sodio (126g) che determina un
problema di gestione degli scarti e addiziona costi significativi alla produzione. Una
misura alternativa alla resa di una reazione è il concetto di economia atomica (EA),
introdotto dal chimico B.M.Trost 2, considerato uno delle idee chiavi della chimica
verde e che indica l'efficienza in termini di capacità di trasferire nei prodotti finali gli
atomi presenti nei reagenti di partenza.
Esso valuta una reazione sulla base dei pesi molecolari dei prodotti e dei reagenti. Ad
esempio, se si considera il processo multistadio di produzione del composto E:
Considerando la somma delle reazioni, esso può essere scritto come:
La sua EA è definita in percentuale come:
L‟incorporazione di tutti gli atomi dei reagenti nei prodotti desiderati permette di
ottenere il valore massimo, mentre all‟aumentare del peso molecolare degli scarti tale
valore scende. Il calcolo dell‟EA alla reazione (1) porta ad un valore del 37%
assumendo come scarto il solfito di sodio.
Semplici reazioni di addizione e isomerizzazioni in cui le sostanze di partenza
diventano parte dei prodotti hanno un EA pari al 100%, mentre reazioni di
sostituzione ed eliminazione presentano sempre valori di EA più bassi.
2 Trost, B.M. «The Atom Economy – A Search for Synthetic Efficiency» Science 1991, 254, 1471-1477
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Uno degli obiettivi della chimica verde è trovare un modo per ottenere lo stesso
prodotto con lo scarto di meno atomi reagenti. Un esempio tra i più conosciuti di
miglioramento di EA sviluppato industrialmente è quella della produzione del
ibuprofene, una molecola con proprietà analgesiche ed antiinfiammatorie, utilizzata in
molti farmaci. Il metodo originale di preparazione dell‟ibuprofene è stato sviluppato
negli anni „60 e si basa su una sintesi a sei stadi in cui si “perdono” un numero di
atomi dei reagenti che non sono presenti nel prodotto finale (fig. 4); l‟EA del processo
risulta del 40%.
Figura 4 - Reazione di sintesi dell'ibuprofene. A sinistra sintesi a sei stadi con una EA del 40%. A destra
processo a tre stadi con EA del 77%
Nel 1980 è stato sviluppato un nuovo metodo di produzione dell‟ibuprofene che
consiste solo di tre stadi (fig.4) con un aumento dell‟EA al 77%. L‟efficienza della
reazione aumenta ulteriormente se l‟acido acetico ottenuto come sottoprodotto dello
stadio 1 è recuperato. In questo caso la EA raggiunge il 99%.
Il concetto di EA si basa però su alcuni presupposti che fanno discostare molto i
risultati dei calcoli teorici dall‟applicazione pratica. Viene infatti considerata una resa
chimica del 100% e si assume che i reagenti vengano utilizzati secondo i rapporti
stechiometrici e non si tiene conto, ad esempio, della quantità e del tipo di solvente
impiegato.
Per giudicare la compatibilità ambientale, un parametro utilizzato è l‟Environmental
factor (Ef), introdotto da R.A. Sheldon3, che tiene conto di tutti i composti chimici
usati per condurre una reazione (additivi, solventi, catalizzatori ecc.) e non solo quelli
che compaiono nella sua equazione stechiometrica.
3 Sheldon, R.A. “The E factor: fifteen years on” Green Chem. 2007, 9, 1273-1283.
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Esso viene calcolato come massa
degli scarti di una reazione,
diviso per la massa del prodotto
desiderato, entrambe espresse
in chilogrammi. Tanto inferiore
sarà il valore, tanto migliore sarà
il risultato della reazione.
Il valore del Ef varia a seconda
del processo chimico considerato
(fig.5). Nei derivati petrolchimici
il valore è molto più basso che nei prodotti farmaceutici in cui arriva fino a 100.
Questo è dovuto al fatto che i sottoprodotti di raffinazione vengono quasi tutti usati
per ricavare nuovi substrati, mentre nella produzione dei prodotti farmaceutici di
norma le sintesi sono costituite da più stadi e utilizzano quantità stechiometriche
(quelle prescritte dai rapporti molari tra i vari reagenti nella espressione di reazione),
impiegando grandissime quantità di solventi e generando un‟elevata quantità di
sottoprodotti. Abbassare il fattore Ef del settore farmaceutico è uno degli obiettivi più
impegnativi nell‟ambito della chimica sostenibile.
L‟Ef viene talvolta moltiplicato per un quoziente di pericolosità ambientale
(unfriendliness quotient), che tiene conto della pericolosità dei prodotti ottenuti, ma la
cui definizione risente di una certa arbitrarietà. Il risultato assume il nome di
quoziente ambientale (EQ, Environmental Quotient). Per esempio, si può assegnare 1
all‟NaCl e un valore da 100-1000 per un metallo pesante come il cromo, a seconda
della sua tossicità, ma anche dai volumi prodotti e dalla facilità di smaltimento o
riciclo.
Uno dei problemi di molte produzioni chimiche è l‟uso di sostanze di partenza molto
tossiche e pericolose per l‟ambiente che possono rimanere nei prodotti come impurità
o come parte degli scarti di produzione. Una soluzione sostenibile è evitare materie
prime pericolose dall‟inizio, sostituendole con sostanze che non sono dannose.
Oggi, la maggior parte delle produzioni chimiche deriva direttamente o indirettamente
dal petrolio. La ricerca di materie prime alternative tende verso l‟impiego di materie
diverse, che siano rinnovabili o che riducano il rischio per l‟uomo e per l‟ambiente.
Figura 6 - Sintesi dell'acido adipico. A sinistra processo ottenuto partendo dal benzene; a destra processo
di biosintesi ottenuto con Escherichia Coli geneticamente modificata
Figura 5 - Variabilità dell’Environmental factor per alcune
tipologie di prodotti chimici
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Un esempio è la modifica suggerita per la sintesi dell‟acido adipico, uno dei principali
prodotti dell‟industria chimica con una produzione annuale di circa 2 × 109 kg, il cui
uso primario è nella produzione del nylon e delle schiume poliuretaniche.
Il metodo tradizionale è riportato in fig.6 e consiste nel partire dal benzene, derivato
da combustibili fossili non rinnovabili e classificato come cancerogeno di classe A,
trasformarlo in cicloesano e successivamente nei due intermedi quali il cicloesanone e
il cicloesanolo, solitamente abbreviati con la sigla KA oil (chetone/alcol). La reazione
successiva è la trasformazione ad acido adipico mediante ossidazione con acido nitrico
del KA oil. Proprio in quest‟ultimo passaggio che risiede il problema principale della
sintesi, in quanto viene sviluppata una grande quantità di N2O, un gas pericoloso per
l‟ambiente perché ritenuto tra i responsabili dell‟effetto serra a causa del suo forte
assorbimento dell‟IR. Si ritiene che la produzione mondiale di acido adipico
contribuisca per il 10% nell‟incremento annuale di ossido di azoto atmosferico. Inoltre,
le condizioni di reazione necessitano di temperature intorno a 250°C e pressioni di 5,5
106 Pa.
Un metodo alternativo è quello sviluppato da K.M. Draths e J.W. Frost (fig.6)
attraverso un processo biosintetico che non esiste in natura. Utilizzando il batterio
Escherichia coli, geneticamente modificato, si trasforma il D-glucosio in acido
muconico, che viene successivamente idrogenato ad acido adipico.
Questo metodo è vantaggioso in termini ambientali per tre motivi: utilizza una
sostanza di partenza sicura (glucosio piuttosto che benzene); il processo è catalizzato
da microorganismi invece che da una miscela di ossidi metallici e avviene a 37 °C e a
pressione ambiente; non vengono rilasciati nell‟ambiente sostanze pericolose come
l‟ossido di azoto.
Figura 7 - Sintesi del policarbonato. A) processo che utilizza fosgene e diclorometano. B) processo “verde” senza fosgene e solventi
8
Un secondo esempio di uso di materie prime alternative è quello del processo di
produzione dei policarbonati, resine termoplastiche caratterizzate da buone proprietà
meccaniche ed elettriche, trasparenti, insensibili all‟azione dell‟acqua, della luce, degli
agenti atmosferici e degli idrocarburi e che presentano una facile lavorabilità alle
macchine utensili la cui produzione, nel 2013, ha raggiunto, a livello globale, il valore
di 3,7 milioni di tonnellate.
Il metodo tradizionale di produzione del policarbonato utilizza una reazione di
polimerizzazione per condensazione del bifenolo-A con fosgene (COCl2 ) e NaOH nei
due solventi, diclorometano (CH2Cl2) e acqua (fig.7A). Lavaggi successivi del
policarbonato ottenuto eliminano il sottoprodotto NaCl, ma non riescono ad eliminare
completamente il CH2Cl2 a causa della sua forte affinità con il policarbonato. Questa
sintesi è problematica da un punto di vista ambientale perché uno dei materiali di
partenza, il fosgene (COCl2 ), è altamente tossico e corrosivo, ma anche il CH2Cl2 è
stato indicato come una sostanza tossica e potenzialmente cancerogena. Il CH2Cl2
pone un problema notevole perché deve essere utilizzato in grande quantità,
praticamente 10 volte il peso del prodotto ottenuto dalla reazione.
È stato proposto un processo alternativo chiamato “Processo di polimerizzazione a
stato-solido” che ha il vantaggio di non utilizzare né il fosgene né il diclorometano e
che consiste di tre fasi: pre-polimerizzazione, cristallizzazione e polimerizzazione a
stato-solido. Nel primo stadio si ha la reazione di pre-polimerizzazione tra bifenolo-A e
difenilcarbonato allo stato fuso (fig.7B) con eliminazione del fenolo. Nella fase
successiva il pre-polimero amorfo è convertito a pre-polimero cristallizzato, seguita
da una polimerizzazione allo stato solido del pre-polimero da cui si ottiene il
policarbonato a massa molecolare elevata.
In questo processo si evita di utilizzare due sostanze potenzialmente pericolose come
il fosgene e il diclorometano rendendo il processo di sintesi più sostenibile per
l‟ambiente.
La catalisi svolge un ruolo determinante nel raggiungimento degli obiettivi della
chimica sostenibile. L‟utilizzazione
dei catalizzatori permette di ottenere
oltre che benefici nella salvaguardia
dell‟ambiente, anche notevoli
vantaggi in termini economici. I
catalizzatori consentono di
progettare e realizzare sintesi nuove
altrimenti realizzabili solo con scarsa
efficienza e con alto valore di EA,
dato che una piccola quantità di
catalizzatore può convertire un
materiale di partenza in un prodotto
con un incremento significativo della
complessità strutturale con la
produzione di minori quantità di
sottoprodotti.
È possibile utilizzare materie prime
Figura 8 - Sintesi dell'idrochinone attraverso il metodo
tradizionale che parte dall’anilina e quello catalitico che genera una quantità inferiore di prodotti di scarto
9
derivate da fonti alternative, in condizioni di temperatura e pressione più blande e
quindi con la necessità di minori consumi energetici e minori problemi legati alla
sicurezza. Inoltre, una maggiore selettività della reazione comporta un numero
inferiore di processi separativi e di purificazione, con una riduzione di solventi e una
maggiore purezza del prodotto, le cui proprietà tossicologiche possono variare
significativamente a seconda della presenza di impurezze nocive anche a bassa
concentrazione.
I prodotti di scarto generati nella produzione dei composti organici consistono
principalmente di sali inorganici. Questa è una conseguenza diretta dell‟uso di reagenti
inorganici in quantità stechiometrica nelle sintesi organiche. Ad esempio le reazioni
stechiometriche di riduzione con metalli (Na, Fe, Mg, Zn) e idruri metallici (LiAlH4,
NaBH4), ossidazioni con permanganato, ossidi manganese e cromo ecc., reazioni di
solfonazione, nitrazione o alogenazione
che usano quantità stechiometriche di
acidi minerali (H2SO4, HF, H3PO4) e
acidi di Lewis (AlCl3, ZnCl2, BF3).
Ad esempio la produzione tradizionale
dell‟idrochinone, un intermedio molto
utile nella produzione di materiali
polimerici, parte dall‟ossidazione
dell‟anilina con una quantità
stechiometrica di ossido di manganese
per dare benzochinone, seguita da una
riduzione con ferro e acido cloridrico
(riduzione di Bechamp). L‟anilina è a
sua volta ottenuta dal benzene
mediante nitrazione e riduzione di
Bechamp. Il processo complessivo
genera una quantità complessiva di più
di 10 kg di sali inorganici (MnSO4, FeCl2, NaCl, Na2SO4) per ogni kilogrammo di
idrochinone (fig.8). Questo processo di sintesi può essere sostituito da uno più
moderno che implica l‟ossidazione del p-diisopropilbenzene seguito da un
riarrangiamento acido catalizzato del p-diisopropilbenzene-bis-idroperossido, che
produce una quantità di sali inorganici minore di 1 kg per kg di idrochinone. In fig.9
sono illustrati i principali benefici che la catalisi è in grado di fornire in un processo
chimico.
Un altro importante aspetto riguarda la sostituzione di catalizzatori che vengono
utilizzati in quantità elevate a causa o della scarsa attività catalitica o per la difficoltà
o impossibilità di separazione, purificazione e riciclo e che sono inoltre caratterizzati
da elevata pericolosità per l‟uomo e per l‟ambiente (ad es. l‟acido solforico, l‟acido
fluoridrico e il tricloruro di alluminio).
Importanti risultati sono stati ottenuti con l‟uso di catalizzatori solidi come le zeoliti,
silico-alluminati facilmente ottenibili in forma acida dotati di strutture cristalline porose
ordinate, in grado di accelerare e rendere selettive reazioni chimiche. Esse mostrano
notevole attività catalitica, lunga durata e in quanto catalizzatori eterogenei riducono il
Figura 9 - Vantaggi ottenuti dall'uso di catalizzatori nelle sintesi chimiche
10
problema della separazione
del catalizzatore
dall‟ambiente di reazione e
risultano inerti dal punto di
vista di vista tossicologico e
ambientale.
Un esempio importante
di uso delle zeoliti in
sostituzione dei catalizzatori
tradizionali, è quello delle
reazioni di acilazione di
Friedel-Crafts, reazioni largamente utilizzate nella chimica industriale in quanto le
molecole aromatiche ottenute sono importanti intermedi per la produzione di farmaci,
insetticidi, plasticizzanti, profumi e altri prodotti commerciali. In questo tipo di
reazione avviene la formazione di un chetone aromatico a seguito dell‟interazione fra
un composto aromatico ed un agente acilante che può essere un alogenuro acilico,
un‟anidride, un acido o un estere, in presenza di un catalizzatore acido come l‟AlCl3.
Queste reazioni richiedono nel processo di sintesi una quantità di AlCl3 superiore a
quella stechiometrica a causa della forte complessazione del catalizzatore con il
chetone formato, nonché l‟impiego di grossi volumi di solventi per l‟isolamento del
prodotto.
La sintesi tradizionale per ottenere p-metossiacetofenone a partire dall‟anisolo
(fig.10), utilizza cloruro di acetile insieme ad AlCl3 in HCl, dando origine a consistenti
reflui liquidi e solidi contenenti alluminio e cloro pari a 4,5 kg per kg di prodotto. Al
contrario, l‟uso della zeolite come catalizzatore eterogeneo nella reazione di acilazione
dell‟anisolo con l‟anidride acetica porta alla generazione di una quantità di reflui 100
volte inferiore, consistenti al 99% di acqua, 0,8% di acido acetico e meno dello 0,2%
di altri compostati organici e senza richiedere solvente. Inoltre, si ottiene un prodotto
di maggiore purezza e con una resa più alta (>95% contro 85-90%); il catalizzatore è
recuperabile, cosa impossibile nel caso dell‟AlCl3 che viene irrimediabilmente
disattivato e consumato durante il processo, con un numero di operazioni necessarie
alla sintesi ridotto da 12 a 2. Questo rende il processo con zeoliti non solo superiore
da un punto di vista ambientale, ma anche economicamente più vantaggioso.
Il solvente, benché non sia parte integrante dei reagenti, svolge un ruolo importante
nella sintesi, che è quello di solubilizzare i reagenti e permettere l‟omogeneizzazione
della miscela di reazione, migliorando la velocità e riducendo il consumo di energia.
I solventi contribuiscono per circa l‟85% della massa non acquosa in un processo e
attualmente l‟efficienza di recupero varia tra 50-80%.
Una delle sfide principali della chimica verde consiste nell‟eliminazione dei solventi
organici volatili (i cosiddetti VOC, Volatile Organic Compounds) nelle sintesi,
attraverso la ricerca di condizioni di processo indirizzate o verso l‟eliminazione dell‟uso
dei solventi o allo sviluppo di solventi alternativi benigni.
Composti come ad esempio il benzene, cloroformio, tetracloruro di carbonio o il
tetracloroetilene, sono sostanze non solo cancerogene, ma che contribuiscono in
misura sostanziale all‟inquinamento dell‟aria e delle acque. Il principale problema
Figura 10 - Reazione di acilazione dell’anisolo per ottenere p-
metossiacetofenone nel metodo tradizionale di Friedel-Crafts (sopra) e mediante l’uso di un catalizzatore di zeolite (sotto)
11
ambientale con i VOC è la loro capacità di formare ozono e smog attraverso processi
di ossidazione da radicali liberi.
L‟acqua è considerata il solvente più benigno ed economico, ma nonostante sia il
mezzo in cui avvengono le reazioni biochimiche nei sistemi viventi, è un solvente di
difficile utilizzo nelle reazioni organiche. Molti reagenti e prodotti, come pure molti
catalizzatori a base di elementi di transizione, sono insolubili in acqua e il recupero dei
prodotti da soluzioni acquose è in genere abbastanza gravoso. Inoltre, l‟acqua può
essere molto reattiva verso composti
organici e bloccare numerose reazioni.
Una delle più promettenti alternative è l‟uso
dell‟anidride carbonica (CO2), facilmente
reperibile, non tossica, inodore e insapore,
nella fase di fluido supercritico (scCO2). A
determinati valori di temperatura e pressione
per una sostanza pura (che per la CO2 sono
rispettivamente 31,1 °C e 7,38 MPa) non
esiste più la distinzione tra fase liquida e
fase vapore, ma esiste una fase cosiddetta
critica che esibisce proprietà che
appartengono ad entrambe le fasi (fig.11).
In queste condizioni, la CO2 diffonde
rapidamente e ha bassa viscosità, proprietà
associate alla fase gassosa, ma è anche un
buon solvente, una proprietà spesso
associata ad un liquido. Le sue proprietà
solventi possono essere opportunamente
modulate variando la pressione di lavoro,
quindi la densità, influenzando in maniera
significativa la solubilità. La CO2 in fase
supercritica assume le caratteristiche di un
solvente non polare ed è paragonabile al n-
esano.
I fluidi supercritici possono essere facilmente
allontanati dall‟ambiente di reazione per
Figura 12 - Schema del processo di estrazione
della caffeina mediante CO2 supercritica
Figura 11 - Camera contenente due fasi di anidride carbonica, liquido-gas. All’aumento della temperatura
e pressione (da sinistra verso destra), le due fasi si uniscono per diventare un fluido supercritico
12
depressurizzazione/espansione, consentendo un più agevole recupero del prodotto,
evitando l‟uso di altre fasi di lavorazione quali estrazione, distillazione ecc.
Un‟applicazione industriale della CO2 supercritica è l‟estrazione della caffeina e di altri
principi attivi naturali e farmaceutici e il lavaggio a secco degli indumenti.
Per l‟estrazione della caffeina inizialmente era utilizzato il benzene sostituito
successivamente dal tricloroetene, entrambi cancerogeni per l‟uomo.
Il processo di estrazione avviene in una colonna in cui i chicchi di caffè entrano in
contatto con un flusso controcorrente di CO2 in condizione supercritica. La miscela
scCO2+caffeina è inviata in una colonna di purificazione in cui l‟acqua che proviene
dall‟alto rimuove la caffeina dalla CO2 che ritorna in circolo e viene riutilizzata
nuovamente nella colonna di estrazione. La caffeina è successivamente separata
dall‟acqua mediante diverse tecniche, tra le quali l‟osmosi inversa.
L‟utilizzo di scCO2 consente di estrarre la maggior parte della caffeina, che può essere
recuperata e utilizzata in altri settori, lasciando quasi del tutto inalterate le altre
sostanze che contribuiscono all‟aroma del caffè (fig.12).
La chimica verde sta ancora muovendo i primi passi anche se, secondo il recente
rapporto pubblicato dalla società statunitense di analisi TechNavio intitolato “Global
Chemicals Green Market 2014-2018”, tenderà a una crescita significativa e
progressiva nel corso del quinquennio considerato, con una previsione del tasso di
crescita annuo medio dell‟8,16%. Pertanto, si prevede che alla fine del decennio il suo
fatturato crescerà fino a 100 miliardi di dollari. Secondo l‟agenzia americana per
l‟ambiente, solo negli Stati Uniti la quantità di rifiuti chimici tossici è passata dai 278
milioni di tonnellate del 1991 a 35 milioni di tonnellate nel 2009.
Ma nonostante questi risultati, come ha dichiarato Anastas, “Avremo certezza che la
“chimica verde” ha avuto successo quando questa espressione sparirà perché sarà
l’unica chimica che conosceremo”.