ChiaroScuro numero 10

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10 Giugno 2011 chiaro s curo NUMERO S Sommario Sguardi incrociati sui referendum Acqua e terra L’acqua e il Municipio Dedicato a coloro… Pripjat, la città perduta Intervista a Alessandro Benedetti Il vaso di Pandora Punti di vista energetici Il legittimo impedimento Codice A Cultura a Foligno L’angolo della vergogna Espongo o non espongo Altro che il programma Era il 1970 Il risveglio dei popoli Sogni di un altro mondo Cosamipiacecosanonmipiace del cristianesimo Gesù è ebreo per sempre Le sorelle Carafa C’era una volta Libero come il dolore Dopo che questa grande istoria sarà ultimata Il pastore A 40 anni dalla laurea. Via della Pescheria Case operaie (parte seconda) Alcesti La civiltà: figlia di 8 piante Essere o non essere…bambino di sei anni! Libri che ti cambiano la vita Libero spazio 4 7 8 10 11 12 14 16 17 19 20 21 21 22 23 24 26 27 30 31 32 34 36 38 39 40 42 44 46 48 50 51 /Slow Press ANNO II

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ChiaroScuro numero 10

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Sguardi incrociati sui referendum Acqua e terra

L’acqua e il Municipio Dedicato a coloro…

Pripjat, la città perduta Intervista a Alessandro Benedetti

Il vaso di Pandora Punti di vista energetici

Il legittimo impedimento Codice A

Cultura a Foligno L’angolo della vergogna

Espongo o non espongo Altro che il programma

Era il 1970Il risveglio dei popoli

Sogni di un altro mondo Cosamipiacecosanonmipiace del cristianesimo

Gesù è ebreo per sempre Le sorelle Carafa

C’era una volta Libero come il dolore

Dopo che questa grande istoria sarà ultimata Il pastore

A 40 anni dalla laurea. Via della Pescheria

Case operaie (parte seconda) Alcesti

La civiltà: figlia di 8 piante Essere o non essere…bambino di sei anni!

Libri che ti cambiano la vita Libero spazio

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ANNO II

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Claudio Stella[Editoriale]

Autorizzazione Trib. Perugia N. 35/2009

Direttore responsabile: Guglielmo CastellanoDirettore editoriale: Claudio StellaImpaginazione e grafica: Riccardo Caprai, Gabriele Contilli, Fabio Tacchi, Alessio Vissani

Stampa: Tipolitografia Nuova Eliografica di Fiori Roberto, Via Cerquiglia 7, Spoleto

Bimestrale dell’Associazione Chiaroscuro

Chiaroscuro è una rivista che ha nel suo dna, nel suo statuto “deontologico” l’obiettivo di te-nersi lontano dalla faziosità becera e urlante, dal settarismo serioso e dalla volgarità. È una scelta estetica, oltreché etico-politica. Ci piace raccontare storie, ci piace ragionare, riflettere attraverso le modalità del confronto e del rispetto. Naturalmente Chiaroscuro è fatto da persone che esprimono le loro idee personali, spesso anche molto “schierate” perché il nostro non vuole essere un giornale dalle tinte sbiadite, la nostra pacatezza non è mai espressione di una garbata, inoffensiva neutralità. Chiaroscuro non espliciterà mai la sua adesione a un partito politico, pur volendo essere, per le tematiche che tratta, un giornale molto politicizza-to. All’avvicinarsi dei referendum di giugno la redazione si è posta il problema di quale linea dovessimo tene-re: ci siamo confrontati e alla fine abbiamo deciso che stavolta la nostra posizione sarà molto netta e molto attiva nel dire sì ai quattro quesiti referendari. Abbiamo sentito il dovere di schierarci, perché le tematiche in gioco riguardano questioni che vanno ben al di là dell’appartenenza ideologica, investono territori essenziali della nostra vita, della nostra civiltà, della nostra stessa esistenza sul pianeta.

Diciamo sì al quesito che vuole impedire il ritorno del nucleare in Italia, perché la tragedia giapponese è stato solo l’ultimo anello di una catena di incidenti che hanno dimostrato l’inaffidabilità di questi impianti, perché non vogliamo vivere con l’incubo di un’ecatombe che metta a rischio la sopravvi-venza stessa del nostro pianeta; perché si è dimostrato che le scorie nucleari costituiscono un problema di fatto irrisolvibile e non vogliamo lasciare ai nostri figli l’eredità di un veleno mortale; perché riteniamo che le energie rinnovabili possano diventare un’alternativa efficace, se solo verrà messa in campo un’adeguata volontà politica di puntare su di esse.

Diciamo sì ai quesiti che vogliono impedire la privatizzazione dell’acqua perché siamo convinti che l’acqua sia per sua natura un bene pubblico a cui tutti hanno diritto, come l’aria, come il sole. Privatizzare significa trasformare l’acqua in “business”, portarla in un terreno in cui il fine non sarà più la libera e razionale fruizione da parte di tutti ma il profitto di pochi. Per questo c’è già l’anche troppo fiorente mercato delle acque minerali; noi vogliamo sentire come un bene comune l’acqua che sgorga dai rubinetti delle nostre case e dalle fontane delle nostre città.

Diciamo sì anche al quesito che vuole abrogare il cosiddetto legittimo impedimento. Questo è certamente il referendum con una più marcata valenza politica, perché va a colpire una delle leggi cosiddette ”ad personam” che il Presidente del Consiglio Berlusconi ha voluto far approvare per difendersi da quelli che lui definisce attacchi politici da parte di una magistratura ideologicamente ostile. Il tema della legalità è molto delicato in un paese che storicamente, direi quasi strutturalmente, fa fatica a indicare un modello di convivenza civile fondato sul rispetto delle regole e delle leggi. Proprio per questo, è fondamentale che la classe politica, che già gode di eccessivi privilegi economico- sociali, sia la prima a fornire un esempio cristallino di rispetto della legalità; e i processi per eventuali reati compiuti da uomini che hanno una respon-sabilità dirigente non solo non devono essere impediti ma devono celebrarsi con la maggiore trasparenza e rapidità possibili.

Per questi motivi ci auguriamo che il 12 e il 13 giugno tanta gente si rechi a votare: il raggiungimento del quorum sarebbe una testimonianza di coscienza civile di cui l’Italia avrebbe molto bi-sogno. E sarebbe un modo “adulto” di festeggiare i suoi 150 anni di vita.

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Guglielmo Castellano[Editoriale]Frammenti di un fine settimana, vissuta tra la beatificazione di Giovanni Paolo II ed il concertone del primo maggio.

Facendo “zapping” tra le due piazze di Roma, mi imbatto in quella dedicata a San Giovanni e lì, ascolto il commento di un giovane intervistato da non so quale testata giornalistica: “questa è la piazza dei cattivi….Gli altri stanno a San Pietro”.

Una battuta, ovviamente, inutile commentarla diversamente, ma che rende l’idea di una sinistra che per deformazione o per qualche recondita tara mentale, deve necessariamente presentarsi (almeno in un segmen-to non secondario di tutto il suo vasto spettro) fuori dalle regole, scapigliata, per forza antagonista.Questo episodio mi ha portato ad elaborare alcune riflessioni.

Attenzione! Chi scrive, ha passato diverse istantanee della sua infanzia ed adolescenza, in sezioni di partito affollate e fumose (bei tempi!), dove campeggiavano i quadri di Giacomo Matteotti e Filippo Turati. Pietro Nenni, Claudio Treves e Sandro Pertini. Una frequentazione che, necessariamente, ha influito sugli svi-luppi della propria coscienza politica, facendo maturare la convinzione che l’”essere” di sinistra, il farsi porta-voce di idealità di sinistra (attenzione verso gli “ultimi”, ricerca della giustizia sociale, ecc.ecc.), non dovesse necessariamente coincidere con atteggiamenti esteriori di rottura, contestazione, dissacrazione od altro. Atteggiamenti che, oltre a deformare il vero senso dell’appartenenza politica progressista, ne hanno sempre danneggiato l’essenza, facendo il gioco di chi, dall’altra parte della collina, aveva tutto l’interesse a scredi-tare il popolo della sinistra.

La vera forza delle idee, non risiede né sull’eschimo, né in un certo taglio (o non taglio) di capelli o in altre manifestazioni esteriori di rottura, ma in cervelli pensanti che, da sinistra, nella loro normalità, hanno dato fastidio al “sistema” (e da questo ripagati a suon di piombo), più di tanti battaglioni di scapigliati esagi-tati e radical scic “trombati” o in carriera.Martin Luther King, martire dell’integrazione razziale, non andava in giro strafatto come Jimmi Endrix, altri-menti non avrebbe potuto pronunciare, tra gli altri, quel famoso “I have a dream”, di fronte al Lincon Me-morial di Washington, che suggellò le più nobili aspirazioni di milioni di americani, giovani ed anziani, neri e bianchi.

O come Robert Francis Kennedy che nel giorno dell’omicidio di King, in presenza di una devastante rivolta dei neri in tutto il paese, da solo, e senza scorta alcuna, nella sua “normalità” di grande politico liberal, entrò all’interno del ghetto nero della capitale statunitense, testimoniando la sua solidarietà e vicinanza a tutti i “colored” d’America. Finirà abbattuto qualche mese dopo, anche lui, al pari del fratello presidente, da pallottole sparate, almeno così recitava la tesi ufficiale, dal solito squilibrato di turno. Uomini “normali” e nello stesso tempo “eversivi”. Eversivi ed apparentemente anonimi come Giacomo Matte-otti, nella sua lucida e dura requisitoria contro il fascismo pagata con la vita. Presidenti come Salvador Allende, freddato dai golpisti cileni, mentre presidiava il palazzo presidenziale, ul-timo baluardo della democrazia cilena.

E le donne di Plaza de Mayo? Erano lì, tutti i giorni, nel loro assordante silenzio, per ri-cordare al mondo la tragedia dei desaparecidos. Se la democrazia è tornata in Argentina, ed in altre parti del sud America, lo dobbiamo anche al loro “silenzio”….Tanto lontano dai roboanti proclami sinistroidi di tanti “impegnati” di oggi. Questa è la mia personale visione della sinistra. In piazza San Giovanni, il primo maggio, non c’erano i cattivi e probabilmente, in piazza San Pietro non tutti erano buoni.Forse, se i rappresentati della sinistra e del riformismo di oggi, e non solo in Italia, non si identificassero in battaglie esclusivamente “estetiche”, ma tornassero ad esprimere i valori storici della loro appartenenza, ebbene, forse, la nostra società potrebbe tornare a coltivare nuove ed “antiche” speranze.

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IDEE

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Sguardi incrociatidi Anna Cappelletti

sui referendum

(ovvero come dialogare, pur pensandola in modo assai diverso, senza gridare, sbraitare e insultarsi)

Ci siamo interrogati a lungo su come declinare, in questo numero e intorno ai temi oggetto dei referendum, quello sguardo riflessivo e dialettico che permette al lettore di conoscere diversi punti di vista su uno stesso tema.

In genere interroghiamo persone che militano politicamente in schieramenti diversi perché possano esprimere le diverse posizioni sulle questioni poste, perché offrano sguardi differenti che diano a chi legge lo spunto per riflettere sulle sue convinzioni.

Sui temi referendari, però – specialmente su acqua e nucleare - i diversi punti di vista non corrispondono ai diversi schieramenti politici, ma sono trasversali ai partiti e così, all’interno della sinistra o della destra le posizioni sono differenti.

Ci è sembrato opportuno pertanto riportare una sorta di rassegna delle posizioni, nel più squisito spirito di Chiaroscuro, quello di incrociare sguardi provenienti da più parti, dando voce non tanto agli schieramenti, ma a diverse culture (nel caso dell’acqua) e a diverse posizioni scientifiche (nel caso del nucleare).

Sull’acqua andremo a votare due referendum: il primo intende abrogare l’ articolo di legge che obbliga i Comuni a gestire con i privati i servizi idrici, il secondo intende abrogare un articolo di legge che riconosce ai privati che investono nelle reti idriche una remunerazione fissa e obbligatoria dei loro investimenti. Se non si vuole che i privati entrino nelle gestioni delle reti idriche si devono abrogare questi articoli e quindi votare SI’, altrimenti, se si ritiene che la legge attuale debba rimanere, si voterà NO.

Contro l’ipotesi di privatizzazione dell’acqua si è sempre espresso con forza gran parte del mondo cattolico, sia a livello di base che nelle gerarchie; Alex

Zanotelli, per esempio, missionario comboniano, è uno dei leader più convinti del forum per l’acqua.Ancora prima che partisse la battaglia referendaria, nel 2008, Riccardo Petrella, professore emerito dell’Università cattolica di Lovanio, dalle pagine dell’Osservatore Romano metteva in guardia contro i pericoli del trasferimento della gestione dell’acqua nelle mani delle multinazionali : “ l’acqua è stata «petrolizzata» dalle nostre società in maniera poco incoraggiante: si parla sempre di più dell’acqua non quale fonte di vita, di cooperazione e di pace, ma come fonte principale delle guerre del XXI secolo, come il petrolio, si sottolinea, è stato all’origine di tante «guerre» del XX secolo. La «petrolizzazione» dell’acqua significa il trasferimento del reale «governo dell’acqua» ai meccanismi di mercato ed alle imprese multinazionali private dell’acqua.

Petrella auspica un “ governo pubblico dell’acqua fondato sulla partecipazione dei cittadini, e sulla fraternità fra i popoli”, introducendo un tema, quello della partecipazione alla gestione dell’acqua, caro ai comitati per la ripubblicizzazione dell’acqua, come afferma Alberto Lucarelli, ordinario di istituzioni di diritto pubblico all’Università degli studi di Napoli “Federico II”, uno degli estensori dei quesiti referendari e sostenitore della necessità di una reale partecipazione dei cittadini alle forme di gestione dei beni comuni.

La riconquista da parte dei cittadini della sovranità sui beni comuni, ovviamente limitata dalla tutela dei diritti delle generazioni future, intesa quale etica della responsabilità collettiva, deve porsi perlomeno due obiettivi primari: 1) ridare dignità e potere decisionale ai comuni e alle loro aziende speciali; 2) passare da una partecipazione dei cittadini ipocrita e “di facciata” ad una partecipazione vera ed effettiva, che non degradi il cittadino a mero utente del servizio in una logica privatistica e contrattualistica.

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SIDEE

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Tale processo, che conduce a quella che è stata definita la gestione pubblica partecipata, è maturo per essere attuato, quanto meno per ciò che concerne il governo dell’acqua.

Sempre nel mondo cattolico, è soprattutto da coloro che vivono al sud del modo, che arriva più forte il monito a considerare i rischi legati alla privatizzazione, perché, appena le strutture democratiche sono un po’ più deboli, i privati esercitano il loro potere sull’acqua in modi anche molto discriminanti.

Dalla lettera pastorale di Mons. Luis Infanti della Mora, vescovo di Aysen in Cile, intitolata Dacci oggi la nostra acqua quotidiana:

“La crescente politica di privatizzazione è moralmente inaccettabile quando cerca di impadronirsi di elementi così vitali come l’acqua, creando una nuova categoria sociale, gli esclusi. Alcune imprese multinazionali che cercano di impadronirsi di alcuni beni della natura e soprattutto dell’acqua, possono essere padrone di questi beni e dei relativi diritti, ma non sono eticamente proprietarie di un bene da cui dipende la vita dell’umanità. C’è un urgente bisogno di una conversione ecologica, attraverso profondi cambiamenti negli stili di vita”.

C’è poi tutta un’altra area, che ribadisce che la privatizzazione non deve suscitare timore, perché sono le reti idriche ad essere privatizzate e non l’acqua, e che l’entrata dei privati è auspicabile per due ragioni: il privato è sicuramente più efficiente del pubblico, il privato immette nelle reti idriche gli investimenti necessari per risanarle, in quanto molto bisognose di manutenzione.

“Il primo fatto, ben noto a chi conosce la legge, è che ad essere privatizzata, cioè affidata a soggetti privati, è la rete di distribuzione dell’acqua. Credo che tutti sappiano che gran parte dell’acqua che viene prelevata dal sottosuolo o dalle dighe di superficie e resa potabile, si spreca nel percorso fino ai rubinetti delle case. (…) La media italiana è del 35%. Viste le risorse a disposizione delle pubbliche amministrazioni questo è il solo modo per portare efficienza in un settore vitale che, proprio perché vitale, non può tollerare gli attuali livelli di spreco che generano, a loro volta, altri costi per i cittadini.

La gestione privata, alla lunga, farà diminuire le bollette, perché l’efficienza dei privati è da preferire ai costi e alla farraginosità del pubblico. Guardando al futuro questa sarebbe è la cosa più logica da fare, se “ragioniamo”. Ada Urbani, Parlamentare umbra, Senatrice PdL”

Questa posizione è molto diffusa nella destra, ma è sostenuta anche da qualche illustre esponente di sinistra, come Franco Bassanini, più volte ministro nei governi di centro-sinistra e attualmente Presidente della Cassa Depositi e Prestiti. Questa cassa , a suo parere, deve privilegiare i finanziamenti alle aziende private piuttosto che quelle pubbliche, per esempio ACEA piuttosto che l’Acquedotto Pugliese, adducendo la motivazione che se il prestito viene erogato ad un Ente pubblico, viene contabilizzato nel debito del Paese. Parlando di tutto ciò in un’intervista a la Repubblica della fine di aprile egli afferma inoltre: “Se il PD vuol essere un partito di governo deve cercare di convincere gli iscritti sulla necessità di votare no ai referendum”, sostenendo la necessità degli investimenti dei privati e l’inefficienza degli enti pubblici.

Per quanto riguarda il referendum sul nucleare, il quesito a cui è richiesto ai cittadini di rispondere sì o no chiede se si vuole abrogare un articolo di legge limitatamente alla precisa parte che prevede “la realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”.

Anche in questo caso, se si vuole eliminare la scelta del governo, è necessario rispondere SI’.

Rispondendo NO si conferma la scelta di costruire le centrali nucleari.

Sulla questione del nucleare incombono spesso le ombre delle reazioni psicologiche o delle posizioni ideologiche, per questo ci sembra opportuno riportare alcune autorevoli posizioni di esperti che appoggiano l’una o l’altra ipotesi. Sul nucleare infatti gli argomenti a favore o a sfavore sono piuttosto ben enucleabili. Per quelli a favore riportiamo una parte di intervista al Prof. Veronesi pubblicata su La Stampa di poche settimane fa. Quelli contrari hanno trovato un convinto sostenitore in Mario Tozzi, geologo, ex conduttore di ‘Gaia, il pianeta che vive’.

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STORIE

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A partire da quanto è successo in Giappone a causa del terremoto, Tozzi fa presente che“ C’è da rimanere allibiti. Questi politici fanno finta di esser dei teorici di fisica nucleare. Non hanno nemmeno la decenza di usare la cautela che in situazioni come questa dovrebbe essere d’obbligo.”

Secondo Tozzi i punti deboli della scelta dell’energia nucleare sono due: la sicurezza e l’economicità .

Riguardo alla sicurezza egli insiste sul fatto che il sistema di sicurezza è da sempre tarato su quanto si conosce: “Le centrali nucleari giapponesi sono state costruite per sopportare un terremoto di 8,5 gradi della scala Richter. Poi cos’è successo? E’ arrivato un sisma di 8,9 e le strutture non hanno retto. Le centrali italiane saranno costruite per resistere a delle scosse di circa 7,1 gradi, ma chi ci assicura che un giorno non arriverà un sisma più potente? Perché i terremoti sono fenomeni che non si possono prevedere. Inoltre il disastro giapponese è avvenuto nel paese tecnologicamente più avanzato del mondo. (…) Se a una centrale gli si rompe il sistema di raffreddamento diventa esattamente come un’enorme bomba atomica.”

E poi c’è la questione della presunta economicità dell’energia prodotta dall’atomo. “I vari politici e presunti esperti – argomenta Tozzi – si riempono la bocca dicendo che il kilowattora prodotto dall’atomo è più economico di quello prodotto dalle altre fonti. Ma non è vero. Noi sapremo quanto costa realmente solo quando avremo reso inattivo il primo chilogrammo di scorie radioattive prodotto dalle centrali. E cioè fra 30mila anni”. “Sono soldi che i nuclearisti non conteggiano, perché sono costi che ricadranno sui cittadini e sulle generazioni future”.

Poi c’è l’intervento rassicurante di Veronesi, che non lascia spazio a dubbi o preoccupazioni di nessun genere: “Come oncologo conosco molto bene le radiazioni e i modi per proteggere i pazienti. Voglio dedicare i prossimi anni ad assicurare i cittadini che non corrono rischi». «Guardi, ci sono essenzialmente tre problemi per quanto riguarda un reattore nucleare. Primo, garantire la sicurezza nel funzionamento ordinario, obiettivo non difficile. Poi c’è la questione delle scorie e mi creda, nessuno mai al mondo è morto per inquinamento da scorie.

Infine c’è il fattore umano, la possibilità di poter disporre di personale qualificato è fondamentale. Basta pensare che i due grandi incidenti nelle centrali nucleari hanno avuto una caratteristica comune: sono dipesi da errori umani. E’ stato così a Three Mile Island, negliUsa, come a Cernobil». (e Fukushima? N.d. r.)

« Poiché il fattore umano è cruciale, la mia atten-zione maggiore sarà formare personale adeguato dal punto di vista tecnico, scientifico, ma anche psi-cologico, perché sappia far fronte alla pressione». Resta la delicatissima questione delle scorie e di come smaltirle. Come pensa di affrontare questo aspetto? «Il discorso è complesso, provo a ridurlo all’essen-ziale. Solo una piccola parte delle scorie richiede millenni per depotenziarsi completamente. Vanno messe in sicurezza, e ci sono le soluzioni per far-lo, dentro una montagna o a grandi profondità. Al tempo stesso, si stanno affinando tecniche per ren-derle innocue più in fretta. Soprattutto, l’Italia potrà non avere depositi di scorie pericolose».

Nonostante le rassicurazioni di Veronesi, dopo l’incidente in Giappone, l’Europa si è interrogata sulla sicurezza delle centrali e i tecnici dei diversi Paesi si sono incontrati intorno al 10 maggio, per mettersi d’accordo su quanti e quali test fare riguardo alla sicurezza delle centrali attualmente esistenti: un resoconto molto chiaro e istruttivo è riportato da Zatterin in un articolo su La stampa del 13 maggio scorso.

Ne riportiamo le ultime righe.

“Sarebbero soldi spesi bene, senza dubbio. Per-ché c’è una cosa che mette d’accordo i nuclea-risti con gli antinuclearisti. E’ che gli impianti devono essere sicuri sino all’estremo del possi-bile. Un incidente - circostanza remota ma non innegabile a priori – è qualcosa che colpisce chi è pro quanto chi è contro l’atomo. Ma alcuni go-verni, sinora, non vogliono proprio tenerne conto.

Testoline…”

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SSTORIE

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a nutrirsi del denaro che proviene dalle tasse dei cittadini onesti.Non ci sto a passare da antiquata perché rispetto le regole, perché credo nei concorsi, perché credo nel-le competenze, perché non cerco scorciatoie, per-ché ritengo che ogni cittadino sia uguale di fronte alla legge, ancorchè sia il Presidente del Consiglio. Anzi, ritengo, da buona retrograda, che più grandi sono le responsabilità, maggiore debba essere la tra-sparenza dei comportamenti.Non ci sto a farmi dare della incompetente perché non sono d’accordo con la costruzione delle cen-trali nucleari. Non ci sto a farmi abbindolare dai di-scorsi rassicuranti di una persona, seppur di valore, come il Prof. Veronesi. Non ci sto, perché è la terza volta nella mia vita che la questione delle centrali nucleari mi ripassa per le mani: 1979, 1986 e oggi; e ogni volta che il problema è stato affrontato, le questioni problematiche sono state sempre le stes-se: sicurezza e smaltimento delle scorie, che riman-gono a tutt’oggi problemi irrisolti e probabilmente irrisolvibili. Gli ultimi incidenti (Chernobyl e Fukushima), sono ormai nella memoria dei più, ma ricordiamo cosa è successo nel 1979, l’anno in cui il nostro Paese aveva varato il grande piano della costruzione di 15 cen-trali nucleari? Avete presente l’ultimo film della serie X-Man ?Il finale si svolge in un luogo desolato e inquietan-te e alla fine un’enorme ciminiera con un diametro spaventosamente grande viene distrutta dalla forza che si libera nell’ultimo duello catartico.Bene: quel luogo non è opera degli effetti speciali, ma è quel che resta di Three Mile Island, in cui nel 1979 è avvenuto il più grave incidente nucleare de-gli Stati Uniti. Anche se le conseguenze sono state sempre minimizzate, quel che accadde fu così peri-coloso, che da allora gli USA non hanno più costruito nessuna centrale nucleare. Allora e dopo Chernobyl il mondo si è interrogato.Mentre adesso siamo divenuti più spavaldi. La mia impressione è che ogni volta che c’è una ripresa di entusiasmo da parte dei nostri governan-ti, Gaia ci faccia presente in modo drammatico che quella strada è molto pericolosa.

“La terra deve essere salvaguardata, non possiamo mettere a rischio il pianeta in cui viviamo”.“L’acqua è un bene primario per la vita, il cui acces-so va garantito a tutti, pertanto deve rimanere fuori da logiche di mercato”.“La legge è uguale per tutti, ognuno di noi è tenuto a rispettare le regole che liberamente ci diamo”.Queste tre affermazioni apparentemente semplici e, a mio parere, assolutamente condivisibili, si colloca-no oggi all’interno di un clima politico e culturale talmente viziato che chi le sostiene viene individua-to come appartenente ad una parte politica utopista e fuori dalla realtà.Una parte retrograda e contraria allo sviluppo e al progresso, perché non capisce la necessità di avere più energia e di avere l’efficienza dei privati laddo-ve oggi c’è solo il degrado del pubblico.Una parte che non comprende che l’obiettivo del potere e del successo economico, sia per i Paesi, che per le persone, si può raggiungere solo derogando alle regole, che spesso sono un elemento che rallen-ta la corsa di questi ingranaggi, che vanno veloci e non possono fermarsi, neanche di fronte alla legge, alla fin fine roba obsoleta…Io non ci sto.Non ci sto a questo gioco mistificatorio in cui si fa passare per utopia ciò che è a fondamento del di-ritto, ciò che attraverso le regole democratiche, la competenza, l’intelligenza e la passione delle perso-ne può essere raggiunto.

Non ci sto a dire che l’acqua va privatizzata perché solo i privati sono efficienti e perché non ci sono i soldi per sistemare le reti idriche: dentro la Pub-blica Amministrazione si può creare efficienza ed economicità, basta smetterla con i concorsi truc-cati e scegliere i quadri intermedi e i dirigenti tra persone competenti, anziché indicate dai partiti, o protette dai sindacati. La mancanza di soldi per gli investimenti, mi permetto di metterla seriamente in dubbio, viste le numerosissime sacche di spreco di denaro pubblico che ogni giorno si scoprono (cfr., tra l’altro, le numerose inchieste perfettamente documentate della trasmissione Report), finalizza-te ad arricchire lobby economiche che continuano

di Anna CappellettiAcqua e

terra

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STORIE

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Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, la muncipalizzazione dei servizi pubblici era diventato uno degli argomenti più rilevanti del discorso politico-economico tanto a livello nazionale quanto a Foligno. L’iniziativa municipalizzatrice era sorta in Inghilterra ed il dibattito che aveva suscitato s’inseriva in un ordine di riflessioni di più ampio respiro concernente le funzioni del Comune. Fino ad allora considerato un organo soltanto burocratico, l’Ente locale cominciava ad essere visto quale soggetto autonomo ed attivo, aperto alla partecipazione dei cittadini.

In Italia, e in quello stesso decennio, il portabandiera dell’autonomia municipale era Francesco Fazi (1859-1927), primo sindaco progressista (1889-1993) nella storia di Foligno. Durante il suo mandato di sindaco, Fazi aveva promosso diversi Convegni a carattere nazionale che sono da considerare il preludio alla formazione dell’odierna Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia (Anci). Ebbene, il politico folignate (deputato radicale di sinistra del collegio Foligno-Gubbio dal 1895 al 1900, poi rieletto dal 1904 al 1913, ma quale esponente del gruppo parlamentare radicale passato - sotto la spinta di Alessandro Fortis, Giuseppe Marcora, Ettore Sacchi - allo schieramento liberal-giolittiano) e i suoi seguaci sostennero sempre le municipalizzazioni come un obiettivo strategico: sia nella fase in cui, a Foligno, Fazi e i “faziani” formavano alleanze progressiste con i repubblicani storici di Domenico Roncalli Benedetti (1843-1910) e con i socialisti (dal 1895), sia quando, passati al radicalismo di marca governativo-giolittiana, stringevano anche qui da noi patti politici con le componenti liberali-monarchiche che facevano capo ad Arturo Buffetti Berardi e a Giovanni Antonio Pierani.

L’avvicinamento dei radicali all’area giolittiana (1904) portò qualche risultato: ad esempio, la legge sulle municipalizzazioni e il successivo regolamento applicativo, varati tra il 1903 (29 marzo, n. 103) e il 1904 (10 marzo, n. 108). La legge disciplinava l’intervento diretto del Comune nella vita economica locale. Ai Comuni fu riconosciuta la facoltà di

intervenire nel campo economico per realizzare i servizi pubblici necessari alla collettività, in sostituzione o in concorrenza con gli imprenditori privati. A tale scopo, la legge, regolando l’assunzione dei pubblici servizi, richiedeva che si la dimostrasse la convenienza tecnica della scelta effettuata. L’atto amministrativo era soggetto a particolari controlli di merito da parte di una Commissione reale che aveva sede nel ministero dell’Interno. La legge prevedeva, infine, il riscatto delle concessioni dei pubblici servizi e regolava i modi di gestione dei servizi municipalizzati, disciplinando in particolare la costituzione ed il funzionamento delle aziende speciali.

I Folignati, o, almeno, quelli che negli anni Novan-ta dell’Ottocento avevano dato un consenso mag-gioritario ai Partiti Popolari, erano consapevoli da tempo del fatto «che i servizi pubblici, per quanto è possibile, debbono essere esercitati dalle pubbliche amministrazioni indipendentemente da ogni priva-ta speculazione», secondo quanto avevano sostenu-to nel 1896 gli esponenti della giunta progressista presieduta dal sindaco Antonio Barugi; giacché, ag-giungevano, senza essere statolatri, noi riteniamo che gli organi che compongono lo Stato debbono intervenire, tutte le volte che l’occasione si pre-senta propizia a sostituire la speculazione privata, quando si tratta di pubblici servizi e di facilitare al maggior numero la distribuzione e l’uso dei mezzi di lavoro. Né questa è teoria nuova che non abbia nelle sue molteplici forme trovato opportune ap-plicazioni. Non è solo da oggi che si vede nell’indi-rizzo delle amministrazioni locali seguire concetti diametralmente opposti a quelli che vi presiedero-no per molti anni, quando il principio della scuola ortodossa liberista del lasciar fare, lasciar passare costituiva canone indiscusso a cui le pubbliche am-ministrazioni strettamente si attenevano. Il genera-le aumento delle spese comunali, l’esercizio diretto degli acquedotti, dell’illuminazione a gas o elettri-ca, delle tramways dimostrano chiaramente l’al-largamento dell’attività economica collettiva. Gli esempi di Trento, di Locle, di Pergine, confortati da

di Fabio BettoniL’acqua e

il municipio

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SSTORIE

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ottimi risultati mostrano tendenze chiare e precise dell’opera dei Comuni nel sottrarre alla speculazio-ne dei privati il mezzo più efficace per l’incremento di ogni lavoro industriale.

Se lo sviluppo dei mezzi di produzione e delle forze produttive locali era il cardine sul quale ruotavano i concetti politico-economici di questi amministratori degli anni Novanta, critici della visione chiusa, egoistica e arroccata propria della logica mercatista, ne derivava una conseguenza necessaria: Noi non possiamo partire (...) dagli stessi concetti a cui si ispirerebbe un industriale privato. Il Comune non è un’industriale: se egli gestisce ed amministra un impianto non lo fa a scopo di lucro, ma a beneficio della collettività; e fatta anche la lontana ipotesi (...) che il bilancio dell’impianto dovesse riuscire passivo, non per questo verrebbe meno il beneficio economico del Comune che, con l’accresciuta popolazione e l’aumentato benessere, sarebbe largamente compensato dal maggiore gettito dei tributi diretti e indiretti.

Che l’acqua fluente nel territorio, l’acqua dei fiumi e torrenti, l’acqua stessa dei ristagni, fosse del demanio comunale e che la sua gestione dovesse essere pubblica era un dato di fatto, da non mettere in discussione. La documentazione storica disponibile dimostrava ai nostri concittadini di allora l’impegno profuso dal Comune nel salvaguardare la comunalità dei corsi d’acqua e delle paludi; nel difendere le prerogative pubbliche sulle concessioni di quote idriche utilizzabili dai privati per usi agricoli e artigianali; nel garantire la regolazione delle acque in genere; nel provvedere alla canalizzazione dell’acqua potabile e alla sua distribuzione almeno dentro la città. Già nel pieno Medioevo, la risorsa bevibile era collegata alla sorgente dell’Acqua Bianca e gli Statuti municipali della prima metà del Trecento (i più antichi di cui si poteva disporre nel tardo Ottocento, come oggi del resto) dettavano norme precise sulla tutela di essa nonché sul regime dell’acquedotto e i relativi controlli. La crescita della popolazione urbana e la lenta ma inesorabile modernizzazione del vivere collettivo e individuale avevano via via posto all’ordine del giorno l’ampliamento e l’ammodernamento delle reti idropotabili con il potenziamento della distribuzione dell’acqua sia dentro le mura urbiche sia nei paesi del comune. Finalmente, sullo scorcio del Novecento, il Comune (retto dai Partiti Popolari) realizzava il nuovo acquedotto dell’Acqua Bianca: inaugurato il 9 agosto del 1894, entrava a regime definitivo il 3 dicembre 1895 quando se ne stilava lo Stato Finale dei Lavori. Si compiva, così, quella

«rivoluzione igienica» di cui avrebbe scritto nel 1899 il dottore Filippo Accorimboni, l’Ufficiale Sanitario del Comune.

Da lì in avanti, per circa quarant’anni, si sarebbe fruito dell’Acqua Bianca per rifornire via via i centri abitati e gli utenti privati. Nel 1927, e qui mi fermo, il servizio pubblico copriva una popolazione di 30mila abitanti i quali potevano disporre (mediamente) di 125 litri di acqua al giorno. Un patrimonio infrastrutturale pubblico si aggiungeva, dunque, ad un monopolio naturale, integrandolo potentemente. Allo scopo si contraevano mutui ingenti che rendevano ancora più significativo l’impegno contratto con gli elettori-contribuenti-utenti (i “clienti” non esistevano): se tanto era il debito accumulato per effettuare il necessario investimento nelle strutture di accumulo idrico, nelle reti distributive e nei siti di erogazione (fonti, fontanili, abbeveratoi, lavatoi), altrettanto grande era l’obbligo di tutelare l’oggetto dell’investimento.

Quelli, tuttavia, erano gli anni in cui emerge-va con forza l’importanza civile ed industriale dell’elettricità; e nei luoghi in cui, come a Fo-ligno, la disponibilità dell’acqua di caduta per l’impiego idroelettrico era consistente, l’acqua era vista non soltanto come bene vitale primario, ma anche come fonte potenziale di energia da re-gimentare e distribuire sia per gli usi civili sia per lo sviluppo industriale. Tra il 1905 e il 1908, per-ciò, gli amministratori comunali di Foligno unifor-marono senza eccessivi “mal di pancia”, benché si trattasse di esponenti politici che oggi defini-remmo di centro-destra, l’assetto istituzionale dell’Azienda Idroelettrica Comunale alle nuove normative varate negli anni 1903-1904, giacché questo era sentito come la naturale evoluzione dell’autonomo processo di municipalizzazione av-viato (1896-1898) dalle Amministrazioni progres-siste a garanzia di un bene pubblico. Tanto che, nel 1908, il sindaco Giovanni Antonio Pierani e gli assessori della giunta da lui presieduta (come dicevo, di centro-destra) potevano scrivere di essere loro «sembrato prudente non precludere la via all’Amministrazione comunale» di affidare all’Azienda idroelettrica «anche altri servizi pub-blici, aventi carattere industriale, che il Comune credesse con il tempo opportuno di assumere». Insomma, se si fosse voluto, si sarebbe potuto municipalizzare ancor di più. Erano proprio altri tempi!

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“Ho visto donne uccise mentre offrivano l’ac-qua.”Con queste parole inizia un articolo che raccontava dell’attacco a Bengasi. La sacralità del gesto di offrire l’acqua ai manifestanti compiuto da alcune donne e la loro barbara morte.Donne che offrono acqua. Donne e acqua: un binomio insostituibile e indissolubile.Talete diceva che “l’acqua è il principio di tutte le cose”. L’acqua come elemento, simbolo femminile: il principio e la vita.Le donne sono legate all’acqua perché sono loro che s’incaricano di crescere i bambini e le bambine, del cibo, delle faccende domestiche, dell’economia fa-miliare e di tutte quelle occupazioni che necessita-no di questo prezioso elemento.Benché l’acqua costituisca i quattro quinti del nostro pianeta, solo una piccola parte oggi risulta potabile e priva di ogni inquinamento. C’è chi pensa che nel futuro sarà il bene più prezioso, vista la scarsità della risorsa; già oggi, per molti, è un “lusso”.Le donne, soprattutto nei Paesi poveri, sono schiave della grande fatica che richiede il compito di garantire acqua alle proprie famiglie. Nelle zone aride e depresse del mondo, la raccolta dell’acqua è un’incombenza quotidiana che costringe donne e bambine a percorrere due, tre ore di cammino per raggiungere una fonte e portare a casa una provvista giornaliera. La raccolta e il trasporto sono un onere che ricade su mamme, figlie, giovani e bambine, non importa se gravide o malate, non importa se sia caldo o freddo o quanto sia pericoloso il cammino In un tempo non lontanissimo anche in tante zone rurali d’Italia (e mia suocera lo ricorda benissimo per esserne stata protagonista) l’acqua amica era però fonte di molta fatica, fatica femminile ed in-fantile. I bellissimi, ma pesanti orci di terracotta venivano portati sulla testa con la “coroja”, il faz-zoletto di cotone arrotolato come una corona come base d’appoggio delle brocche, con cui raccogliere l’acqua per tutta la giornata. Recuperare queste memorie serve a non dimenticare le tante fatiche compiute e ancora di grande attualità

in tante zone del mondo, nelle campagne lontane dai servizi, ma anche nelle zone di guerra, nelle città bombardate o dove la rete abbia una dispersione dolosa dell’acqua o in caso di gravi siccità. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha affermato che l’accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari è da noverare tra i diritti umani e che gli Stati nazionali dovrebbero dare priorità all’uso personale e domestico dell’acqua al di sopra di ogni altro uso, affinché tutti possano disporre di una quantità sufficiente di acqua di buona qualità, accessibile economicamente e ad una distanza ragionevole dalla propria casa. Portare acqua pulita ed igienicamente sicura a poca distanza dai propri villaggi significa alleviare significativamente la fatica quotidiana della donna, diminuirne la mortalità, assieme a quella infantile.Per chiudere voglio raccontare una storia che narra di un’anziana donna africana che aveva due vasi, ciascuno appeso all’estremità di un palo che lei portava sulle spalle. Uno dei due vasi aveva una crepa, mentre l’altro era perfetto, ed era sempre pieno d’acqua alla fine della lunga camminata dal fiume fino a casa, mentre quello crepato arrivava sempre mezzo vuoto. Per due anni interi andò avanti così, con la donna che portava a casa solo un vaso e mezzo d’acqua. Naturalmente, il vaso perfetto era orgoglioso dei propri risultati. Ma il povero vaso crepato si vergognava del proprio difetto. Così un giorno parlò alla donna: “Mi vergogno di me stesso, perché questa crepa nel mio fianco fa sì che l’acqua fuoriesca lungo tutta la strada verso la vostra casa”. La vecchia signora sorrise: “Ti sei accorto che ci sono dei fiori dalla tua parte del sentiero, ma non dalla parte dell’altro vaso? E’ perché io ho sempre saputo del tuo difetto, perciò ho piantato semi di fiori dal tuo lato e, ogni giorno, mentre tornavamo, tu li innaffiavi. Per due anni ho potuto raccogliere quei bei fiori. Se tu non fossi stato così come sei, non avrei avuto queste bellezze che hanno resa bella e viva la mia casa e la mia vita.”Senza l’infaticabile e costante cammino della donna, neppure i fiori sarebbero spuntati e cresciuti.

di Michela MatiuzzoDedicato a coloro...

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SSTORIE

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Alle ore 1:23:45 (ora locale) del 26 aprile 1986 il reattore numero 4 della Centrale Nucleare V.I. Lenin di Chernobyl in Ucraina, vicino alla Bielorussia, esplose.Per questo incidente, il più grave nella storia del nucleare fino a questo anno, fu stabilito il livello 7, il massimo della scala I.N.E.S. (International Nuclear Events Scale) dell’I.A.E.A. (International Atomic Energy Agency). Il 12 aprile 2011, dopo un mese dall’evento sismico che ha sconvolto il Giappone, l’incidente alla Centrale Nucleare di Fukushima Daiichi è stato innalzato allo stesso livello di gravità.I numeri delle vittime, come sempre, balzellano a seconda delle fonti. Di certo, a Chernobyl furono 65 le perso-ne che morirono nell’inciden-te. Più difficile il conto di tutti coloro che del disastro hanno subito le conseguenze nel me-dio, lungo e lunghissimo termi-ne, perché i peccati del nucleare hanno l’ombra lunga, molto lun-ga. La stima ufficiale delle agen-zie dell’ONU è di 4.000 presunti decessi, la stima del gruppo dei Verdi del Parlamento Europeo è di 30.000/60.000, quella di Gre-enpeace di 6.000.000, a causa di tumori e leucemie contratti per effetto di Chernobyl su scala mondiale nell’arco di 70/80 anni ed infine la stima redatta da N. Omelyanets, vice responsabile di una commissione ucraina per la protezione da radiazioni, ipotiz-za 34.499 vittime fra i liquidatori (cioè il personale che intervenne per il recupero della zona negli anni dal 1986 fino al 1990, sconosciuti eroi che spesso hanno operato, per scelta, oltre le misure imposte per la loro sicurezza) e minimo 500.000 morti fra i 2 milioni di esposti alle radiazioni nella sola Ucraina.Una vasta area fu interessata dalla nube radioattiva e risultò contaminata, tanto da rendere necessaria l’evacuazione di oltre 300.000 residenti nelle zone intorno alla centrale nucleare. A causa delle condizioni meteorologiche e dei venti, nei giorni

immediatamente successivi le nubi toccarono, con conseguente progressiva diminuzione del livello di contaminazione, dapprima la Bielorussia e gli Stati Baltici, poi la Svezia, la Finlandia, la Polonia, la Danimarca, i Paesi Bassi, il Mare del Nord, la Gran Bretagna fino alle verdi highlands della Scozia e quindi si diressero verso la Cecoslovacchia, l’Ungheria, Slovenia, Croazia, Austria e la nostra Italia Settentrionale e via per la Svizzera, Sud Est della Francia, Germania e ritorno in Italia, centrale questa volta attraverso l’Appennino e ancora Ucraina, Russia Meridionale, Romania, Moldavia e giù giù fino alla Grecia e Turchia. Il giro turistico

sembra sia finito il 10 maggio 1986, 14 giorni dopo l’evento disastroso. Per alcuni, il fatto che i venti e le correnti non co-noscono confini costituisce una ragione per cui tutti possiamo convertirci al nucleare, secondo la logica per cui tanto vale godere dei vantaggi economici del nucleare avendolo in casa quando i rischi ce li becchiamo comunque avendolo nei paesi confinanti. Consapevoli della gravità degli incidenti nucleari che possono avvenire in barba ai sistemi di sicurezza – giacché si previene ciò che si conosce, difficilmente

Pripjat,la città perduta

di Maria Paola Giuli

Disegno di Fabio Tacchi

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PERSONE

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ciò che non si conosce – altre menti pensano, invece, che proprio questo aspetto, come dire, democrati-camente globale del nucleare dovrebbe indurre tutti ad intraprendere, come la Germania, una progressi-va e determinata azione di denuclearizzazione. D’altronde, proprio il Governo Federale Tedesco ha commissionato uno studio condotto dall’Università di Mainz dal quale emergono dati inquietanti. Il Kikk Studie – che suona simpatico, ma è l’acronimo di uno studio epidemiologico sul cancro nell’infanzia – dimostra che il rischio di tumori nei bambini, in particolare leucemia, aumenta in rapporto alla vicinanza a centrali nucleari, a prescindere da incidenti, almeno quelli dichiarati tali. Sempre dalla Germania, dal Centro di ricerca per la salute ambientale di Monaco, arriva il risultato di un’analisi effettuata a seguito dell’incidente di Chernobyl sul rapporto tra nascite e prossimità a centrali nucleari. Anche questo studio evidenzia che è la sola vicinanza ad esse, e non la ricorrenza di incidenti nucleari, ad avere determinato negli ultimi 40 anni in Germania ed in Svizzera una diminuzione delle nascite, in particolare di sesso femminile, di 20.000 casi rispetto ai dati attesi.Tornando a Chernobyl, nelle zone dell’Ucraina, Bielorussia e Russia interessate dall’incidente del 1986 è stato registrato un forte incremento del tumore alla tiroide nella fascia della popolazione che all’epoca aveva da 0 a 18 anni, a causa della contaminazione da Iodio 131. Invece, secondo ricerche del Prof. Bandazhevsky (medico russo, insignito di vari riconoscimenti per le sue ricerche mediche, in particolare ha effettuato studi per dimostrare le vere dimensioni della tragedia di

Chernobyl. Condannato nel 2001 da un tribunale militare, viene dichiarato “prigioniero di coscienza” da Amnesty International e rilasciato nel 2005 a seguito della mobilitazione diplomatica di diversi paesi), la maggiore pericolosità nel lungo termine si registra per l’effetto nel tempo dell’esposizione a basse dosi di radioisotopi come il Cesio 137, che viene lentamente assorbito attraverso il cibo. Per questo, per ridurre il rischio cui sono continuativamente sottoposti i giovanissimi che risiedono in quei luoghi, nacquero numerose associazioni per promuovere l’ospitalità di bambini e bambine provenienti dall’Ucraina e dalla Bielorussia presso più fortunate famiglie italiane. Sono trascorsi, da allora, 25 anni, ma l’attività di queste associazioni prosegue ancora oggi con perseverante impegno; nell’intervista che segue, Alessandro Benedetti, Presidente dell’Associazione onlus di Trevi “Aiutiamoli a crescere” ci racconta questa intensa esperienza. E proprio per commemorare il 25° anniversario della disgrazia, il fotografo Gerd Ludwig del National Geographic presenta la mostra “The long shadow of Chernobyl”, inaugurata al Festival del Photo Horizonte (Zingst, maggio 2011) ed afferma: “Lo faccio esclusivamente a nome delle vittime senza voce e delle famiglie che ancora soffrono”.Tra le quali anche i pochi abitanti di Pripjat’ (Припять in russo) in Ucraina, città vicina alla Centrale Nucleare di Chernobyl ora in disuso, in cui ancora oggi si entra con permessi speciali e da cui si esce solo dopo appositi controlli sia alle persone che ai veicoli.

Presidente Benedetti, quando è stata costituita la vostra associazione e con quale finalità?

“Aiutiamoli a crescere” onlus è un’associazione fondata nel 1994 allo scopo di promuovere e gestire progetti di accoglienza riservati a minori bielorussi provenienti dalle aree contaminate dalla centrale nucleare di Chernobyl. Come lo stesso nome dice, oltre ad occuparci di progetti di accoglienza, avvertiamo l’esigenza di garantire una continuità nell’assistenza a quelli che, con il passare del tempo, diventano maggiorenni. Oggi infatti nei

Intervista adi Maria Paola GiuliAlessandro Benedettipresidente dell’associazione onlus “Aiutiamoli a crescere”

nostri programmi di aiuto ci sono anche una serie di attività a sostegno delle famiglie che intendono proseguire nel rapporto che hanno instaurato con il minore prima e con l’adulto ora. Molti ragazzi ormai maggiorenni ogni anno continuano a venire in Italia grazie al nostro lavoro.

Da allora ad oggi, quanti bambini sono stati accolti in Umbria attraverso la vostra associazione e quante famiglie umbre sono state complessivamente coinvolte?

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SPERSONE

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Dopo una iniziale fase di attività nella quale abbiamo operato nell’ambito di altre associazioni, abbiamo voluto impostare un nostro personale “modus operandi” che preservasse il principio della continuità affettiva tra famiglia e minore ospitato consentendo ad ognuno degli ospiti di poter venire tutte le volte che una famiglia lo avesse richiesto. Cionondimeno abbiamo accresciuto il numero complessivo dei minori ospitati con il passare del tempo, soprattutto a seguito della partecipazione a programmi televisivi di livello nazionale. Allo stesso tempo abbiamo allargato il nostro ambito operativo estendendolo in tutta Italia. Complessivamente, nei diciassette anni di attività abbiamo promosso ed attuato centosessanta progetti di accoglienza con oltre tremila arrivi. Il numero delle famiglie non soltanto umbre e che ripetono il più delle volte l’esperienza dell’accoglienza, sono state, sino ad oggi, circa quattrocentocinquanta.

Da dove provengono i bambini ospitati, a quale fascia di età appartengono e per quanto tempo soggiornano in Italia?

I minori provengono dalle varie regioni della Bielorussia dove si registrano elevati livelli di radioattività e che, come ulteriore elemento, presentano situazioni di indigenza economica o difficoltà familiari. E’ per questo che gran parte dei minori proviene dai numerosi orfanotrofi che esistono ancora in Bielorussia anche se in fase di smantellamento. Consistenti, tuttavia, sono quelli da famiglie povere oppure da famiglie affidatarie. Vorrei aggiungere che, in relazione ai problemi economici della Bielorussia, l’Associazione ha

promosso ed organizza ancora l’invio di materiali di ogni genere, con destinazione gli orfanotrofi e le famiglie indigenti. Di particolare rilievo i progetti di miglioramento strutturale di scuole ed istituti che abbiamo realizzato nel corso degli anni. Credo di non essere molto lontano dalla verità se stimo in circa 150.000 euro il valore degli interventi eseguiti!

Gli stessi bambini sono ospitati per più anni di seguito. C’è, quindi, un vero e proprio programma che accompagna ogni bambino fino a che raggiunge una certa età?

Come detto in precedenza, noi siamo per la continuità affettiva la quale è la premessa per allestire un progetto di vita in cui trova spazio una stretta relazione tra il minore e la famiglia. Questa non si limita ai soli programmi di accoglienza, ma prosegue in varie forme come quella dell’ospitalità da maggiorenni, con l’adozione o altre forme di inserimento nel contesto sociale ed economico italiano. Sono già numerosi i casi di ex minori

bielorussi che oggi vivono in Italia grazie all’impegno dell’Associazione e, naturalmente, delle famiglie.

Il soggiorno in Italia è importante per la salute dei bambini ospitati. Può spiegarci perché, anche sulla base della vostra esperienza?

Secondo le valutazioni delle più impor-tanti organizzazioni internazionali, il modo migliore per combattere le con-seguenze della sovraesposizione alla radioattività è naturalmente l’allonta-namento, anche provvisorio, dalle aree contaminate, ma anche le condizioni climatiche italiane e soprattutto la no-stra alimentazione, particolarmente ricca di vitamine, contribuiscono in maniera determinante, non solo ad ab-

bassare il livello di radioattività corporea, ma anche a rafforzare le difese contro l’insorgenza di patolo-gie legate alla contaminazione nucleare.

Per questi giovanissimi si tratta di una significativa esperienza relazionale e per le stesse famiglie ospitanti ha un profondo risvolto emotivo. Può raccontarci qualche situazione particolare?

Sono numerosissimi i casi che mi vengono in mente, tutti di grande impatto emotivo, perché, come si

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PERSONE

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Il poeta Esiodo ne “Le opere i giorni” narra la storia di Pandora a cui Zeus aveva donato un vaso, con la raccomandazione di non aprirlo. Pandora che aveva avuto dal dio Ermes il dono della “curiosità”, lo scoperchiò, liberando così tutti i mali del mondo.In questo mito ci sono davvero molti spunti per la meditazione. Il dio, come il regista di un film, o per restare in tema, come il deus ex machina della tragedia greca, comanda con voce genitoriale di essere custodi, ma di non cercare di sapere. La donna, in questo caso Pandora, attrice attiva, non accetta di non sapere, non si adegua, si ribella alle regole imposte dall’uomo e con la sua autonomia crea il caos.Esiodo scrive: “ Prima di questo momento l’umanità aveva vissuto libera da mali, fatiche e preoccupazioni.

Gli uomini erano come gli dei: immortali. Dopo l’apertura del vaso, il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale, finché Pandora non riaprì il vaso e ne fece uscire la “speranza”, che si era acquattata giù, sul fondo .Con il mito di Pandora inizia la leggenda della responsabilità femminile per il dolore del mondo. Una responsabilità ed una colpa originaria, che vengono avallati da vari poteri spirituali e temporali.La colpa che la Bibbia attribuisce ad Eva viene data alla donna come femmina, come contenitore di lussuria, priva di anima, strega e connivente con il demonio, colpevole perfino della guerra di Troia. Le colpe del mondo ricadono sempre su di lei.C’è anche la donna passiva: custode del focolare, contenitore per la procreazione, nume tutelare della famiglia. E’ la depositaria dei beni e dei mali

può ben immaginare, laddove si opera con i bambini, sentimenti quali la tenerezza la compassione nascono automaticamente. Giustamente Lei dice che anche le famiglie ne sono interessate: sarebbe stato incomprensibile il contrario!!! Io aggiungo che chiunque si sia avvicinato a questa esperienza: le famiglie, i loro parenti e amici, i volontari dell’Associazione o anche semplici conoscenti hanno spesso fatto esperienza di esplosione di emotività che davvero marca l’esistenza.

E’ ancora importante, quindi, sostenere questa at-tività di accoglienza e, magari, chi legge è interes-sato a farlo. Vuole dare qualche informazione su cosa è possibile fare per dare il proprio contributo e come trovarvi?

Certo che è importante! Io direi fondamentale! Vede, in presenza di ricorrenze come il decennale o il ventennale oppure di fatti come quello di Fukushima si assiste ad un risveglio dell’interesse dell’opinione pubblica verso le tematiche legate al nostro impegno. Dobbiamo fare in modo però che sempre maggiori segmenti della pubblica opinione si convincano della necessità di intervenire per ridurre i danni sulla salute dei bambini, soprattutto,

che l’esposizione alla radioattività comporta. Io cerco di essere ottimista comunque, ma non mi faccio soverchie illusioni. Il peggior nemico, in queste situazioni, è l’indifferenza che, ahimé, soprattutto in questi ultimi tempi si sta affermando sempre più. Le ridotte dimensioni della nostra associazione non ci consentono di mettere in campo iniziative di promozione a livello nazionale: siamo di fatto esclusi da campagne pubblicitarie e sempre più difficile rimane il reperimento delle risorse necessarie a finanziare le nostre attività. La buona volontà dei nostri operatori non sempre è in grado di sopperire alle carenze che si riscontrano. Adesso c’è l’opportunità del 5xmille e a tal proposito vorrei comunicare il nostro codice fiscale per destinarlo a nostro favore che è 91011660544. Per chi volesse poi fare questa esperienza, niente di più facile: prendere contatto telefonico con la nostra sede al n. 0742 78369 oppure al numero 347 3509982. Si daranno le prime informazioni cui seguirà, qualora qualcuno fosse interessato, un incontro nel corso del quale verranno date tutte le informazioni necessarie per avvicinarsi a questa bellissima esperienza dell’accoglienza.

Il vasodi Pandora

di Lucia Genga

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SIDEE

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del mondo a seconda del suo avere un ruolo passivo o attivo rispetto al potere.Viene data alla donna la possibilità di avere un ruolo attivo e di responsabilità, ma le viene negata la possibilità di esercitarlo, lo può solo subire.E’ l’uomo il grande demiurgo che osserva e dirige le azioni della donna, è come se facesse fare “ il lavoro sporco” a lei, mentre lui è dietro alle quinte, passivo.Il vaso viene aperto, tutti i mali escono, e la donna è responsabile di tutti i mali che l’uomo stesso ha creato e nascosto poi, in una resipiscenza ultima. La donna se ne fa carico, è lei che va sulla croce, è lei che se ne assume la responsabilità.Cosa esce dal vaso, cosa fugge mugghiando di rabbia dalla compressione e dal buio del contenitore?La vecchiaia, la morte, la malattia, il dolore, la fatica, il lavoro; l’intolleranza, le guerre, la tortura, la ferocia, la cupidigia, il potere, la menzogna, la falsità, la calunnia, il possesso, la gelosia, l’invidia, la paura, la manipolazione, l’odio, il disprezzo, le calamità; la parte peggiore dell’umanità, quella che tenevamo nascosta nei recessi delle nostre fibre, che cercavamo di non vedere, che ricacciavamo sempre più a fondo, sperando che non apparisse mai. La parte peggiore dell’umanità si traveste di normalità e moralismo, la parte sensata e umana viene occultata, mal tollerata e lentamente desautorata.La memoria viene manipolata e disattesa e così viene recepito come normale l’abnorme.Le comunicazioni di massa permeano l’intera realtà intorno a noi: sono sufficienti un televisore, un computer, una radio, un giornale , per riformattarci il cervello, il cuore, a immagine attuale. Dentro di noi fluttuano e convivono parole come: genocidio, desaparecidos, stragi, mafia, pentiti, strategia della tensione, terrorismo, Bin Laden, Bush,, traffico d’armi, traffico di organi, traffico di bambini, traffico di essere umani, dittatura, violenza, massacri, ansia, depressione, paura di avere paura, inferno….bomba atomica. “ Quel giorno ad Hiroshima la sirena urlò due volte. Erano le otto del mattino, agosto del ’45, quando l’allarme scosse i duecentocinquantamila abitanti del centro industriale nipponico….L’esplosione avvenne a circa trecento metri di quota. Una colonna di fumo nera e di schegge ardenti s’innalzò per chilometri sopra la città…. 70.000 furono i morti e altre 130.000 persone continuarono a spegnersi negli anni successivi….Il 9 agosto, sette giorni dopo la prima esplosione ne fu sganciata un’altra su Nagasaki. I morti furono 30.000 ed i futuri morti 100.000.

La seconda guerra mondiale era finita. Il Giappone si era arreso.Era iniziata l’era atomica.Riporto alcuni brani di un’intervista fatta dal giornalista Vittorio Zucconi nel 2000 a R.K. Laster, uno dei massimi esperti di ingegneria nucleare del MIT ,.“Come sta l’industria del nucleare negli Stati Uniti?”“L’industria così come l’abbiamo conosciuta è morta”.“Cosa vuol dire morta?”“Vuol dire che in un paese dove il 15% dell’energia elettrica viene dall’atomo, dove il presidente Carter proclamò l’atomo la nostra ultima risorsa, ora nessun costruttore prenderebbe in esame l’ipotesi di costruire una centrale nucleare. Dopo l’onda lunga di Three Mile Island e Chernobyl e dopo il sondaggio che ha dato l’80% degli americani contro il nucleare, il dibattito si è concluso ed il verdetto è stato di condanna per il nucleare.“I nostri reattori nucleari sono i discendenti della bomba atomica?”“Naturalmente”“Lei dice che le centrali nucleari attuali non hanno avvenire perché pericolose”. “I reattori dovrebbero essere molto più piccoli per non presentare pericoli, ma sarebbero antieconomici.”“Allora, le centrali nucleari che ci sono, sono pericolose. Non si possono fermare, chiudere?”“No, sarebbe un lavoro di proporzioni colossali: bisognerebbe aspettare 20 o 30 anni, finché non decade parte della sua radioattività, poi la prossima generazione dovrebbe smantellarlo, un lavoro che non è mai stato fatto per reattori colossali come quelli in funzione oggi.

Oggi, dopo la recente catastrofe giapponese, cosa vogliamo ancora vedere per credere alla distruttività del nucleare?Quanto tempo, quante morti, quante sofferenze, dovranno ancora testimoniare l’incompatibilità umana con il nucleare, perché l’uomo inizi a dire NO alla violenza dell’interesse, dell’economia, della stupidità, della disinformazione? Quanti silenzi, quante stragi?Ribelliamoci alla STRATEGIA del SILENZIO, non diamo il nostro assenso, se la nostra arma è il referendum, votiamolo in massa, se le nostre armi sono altre , usiamole, è il momento!Ricacciamolo in fondo al vaso, chiudiamolo bene e poi diamo spazio alla speranza!

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IDEE

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Forse è stato necessario rivivere un’altra Cher-nobyl per convincere gli ultimi pellegrini del pro nucleare che, permettere la costruzioni di centra-li nel nostro paese, non è la soluzione al problema energetico. L’incoscienza di chi pensa il contrario è allarmante, tanto quanto l’irresponsabilità di lascia-re, a chi verrà dopo di noi, un’eredità difficile e così incerta. Un problema che ora vede il Giappo-ne impegnato nel gesti-re un’emergenza senza uguali, che ha reso in-vivibile un’area di circa 400kmq, …in aumento. Sperando che i nostri figli o addirittura i no-stri nipoti non debba-no ospitare i bambini giapponesi o di qualsia-si altra parte del mon-do, come ancora oggi noi stiamo facendo con quelli di Chernobyl, mi piacerebbe affrontare il problema del nuclea-re dal punto di vista di chi non lo vuole, ma è anche convinto che l’al-ternativa oggi è debole e difettosa. E lo è per-ché non può nascere e svilupparsi su incognite, incertezze e sulle scar-se consapevolezze di una politica energetica confusa, mai approfon-dita. Essere contro la costruzione di centrali, può avere le sue fon-damenta sugli evidenti disastri che il nucleare ha causato a Chernobyl e a Fukushima, ma deve svilupparsi e rafforzarsi sulle sicurezze di una solida politica che possa promuove-

re un’alternativa convincente. Non ho la presunzio-ne che queste poche righe diano le direttive di una politica energetica efficace, ma si può cominciare parlando dei problemi che oggi rendono le energie

rinnovabili nel nostro paese un’in-cognita. E lo faccio partendo da quelle che considero delle impor-

tanti carenze su cui riflette-re. Il primo“buco nero” ha una sigla: “CIP6”, delibera

del Comitato Inter-ministeriale Prez-zi. La conseguenza

di questa delibera è che tutti coloro che producono energia da fonti rinnovabili, hanno diritto a rivenderla al GSE (Gestore Servizi Elettri-ci) ad un prezzo superiore a quello di mercato. L’incen-tivo è finanziato mediante un sovraprezzo del 6-7% del costo dell’energia elettrica, che viene addebitato diret-tamente ai consumatori fi-nali nel conteggio di tutte le bollette. In sostanza l’in-centivo che per vent’anni è garantito al vostro vicino di casa, che ha installato pannelli fotovoltaici, lo pa-gate anche voi che con le energie rinnovabili non ave-te nulla a che fare. L’altra cosa che mi fa letteralmen-te rabbrividire è che in Ita-lia si produce più corrente da fonti rinnovabili di quan-to si riesce a trasportare.

Avete capito bene! In Italia idroelettrico, eolico e fotovoltaico producono un quantitativo di energia elettrica che solo in parte può essere sfruttato perché la rete che abbiamo non

Punti di vistadi Federico Bertienergetici

Disegno di Fabio Tacchi

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SIDEE

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riesce a sopportare tutto quello che produciamo. La società Terna che ha in appalto la realizzazione del-le reti elettriche per ENEL, in un forum internazio-nale su ambiente ed energia, ci ha informato di que-sto “problemino”. Dicendoci che siamo molto bravi a produrre corrente, un po’ meno ad usarla visto che gran parte viene sprecata perché “intasa” un imbuto troppo stretto. La mia allarmante ingenuità mi ha portato a dire che la soluzione può essere quella di sostituire un imbuto con un “tubo” bello largo. La ri-sposta è stata non tanto tecnica quanto economico/amministrativa. Ci sarebbe bisogno di una burocra-zia più snella e di finanziamenti maggiori. Tutto qua? Problema risolto se si considera che il costo dell’EPR da 1600 MW elettrico (il reattore europeo di III Ge-nerazione fornito dalla franco-tedesca Areva) viene valutato attualmente, nei paesi occidentali, da 4 a 4,5 miliardi di euro. I soldi che dovevano servire al nucleare, li dirottiamo verso lo sviluppo di corridoi elettrici in grado di trasportare tutta la corrente prodotta da energie pulite. Questa volta la risposta non c’è stata, perché tutto poteva inesorabilmente e conseguentemente essere ricondotto ad una rifles-

sione squisitamente politica. Come sempre accade nel nostro bel paese, la soluzione più ovvia non tiene mai conto che per fare le cose ci vuole la volon-tà, che però, se non trova gli interessi di qualcuno ….allora anche quella serve a poco. Come anticipavo le soluzioni non si possono cercare quando ancora non c’è chiarezza. Mi permetto di fare un’ultima riflessione su una notizia che troppe volte non ha l’impatto che invece dovrebbe avere. Il Giappone possiede 52 centrali nucleari che soddisfano soltanto il 25% del fabbisogno energetico. Il governo nipponi-co avrebbe voluto raggiungere la copertura del 50% costruendo nuove centrali. Tutto questo prima del-la catastrofe che ha investito l’isola circa un mese fa. La responsabilità dei nostri Governi è senz’altro quella di lavorare per far in modo che la politica energetica sia legata ad uno sfruttamento di quello che la natura ci mette a disposizione. Ognuno di noi però deve essere consapevole che tutte le soluzio-ni tecnologiche di questo mondo, non potranno mai sostituire la consapevolezza che consumare di meno è l’unica soluzione per lasciare un mondo un po’ più pulito di come l’abbiamo trovato.

di Francesco Moroni

Il legittimoimpedimento

Disegno di Fabio Tacchi

Nel corpo mistico del princeps legibus solutus preme incessantemente una pulsione impunitaria che, come un fiume carsico, percorre il paesaggio repubblicano. A ciclo continuo, la fabbrica parla-mentare forgia nuovi scudi protettivi per affranca-re il Sovrano dal controllo di legalità. Con alterne fortune, maldestri bricoleurs di Palazzo s’affannano a dare plastica traduzione, sotto forma di provvedi-menti legislativi ad personam gabellati per epocali riforme garantiste, alle ubbie antigiudiziarie di chi fa coincidere le sue urgenze processuali con l’agenda politica del Paese. Periodicamente, qualche tessera di questo mosaico normativo cade sotto i colpi di maglio inferti dalla Corte Costituzionale, attivissimo sarto che rammenda alla bell’e meglio gli sbreghi del tessuto legalitario costituzionale. Il 13 gennaio scor-so, i giudici della Consulta hanno depotenziato l’im-pianto del “legittimo impedimento”, la legge varata per mettere Silvio Berlusconi al riparo dai processi in

corso a Milano e da altre eventuali tegole giudiziarie future. Quale migliore strumento per esorcizzare i fantasmi togati, se non quello di paralizzarli per leg-ge? Asserendo che il Presidente del Consiglio, unto del Signore e dal popolo sovrano, deve esercitare il suo mandato a governare senza perdere tempo nelle aule dei tribunali. E senza che i magistrati possano sindacare la legittimità dell’impedimento. La Corte ha posto un alto argine all’indeterminatezza della legge, che imponeva al giudice l’automatico arresto del procedimento a fronte della mera autocertifica-zione di Palazzo Chigi, attestante l’impegno pubbli-co (incluse le attività preparatorie, consequenziali e coessenziali alle funzioni di governo) che rende legittimo l’impedimento a partecipare al giudizio. Con la sua sentenza, che ha rilevato profili di inco-stituzionalità rispetto agli artt. 3 (principio di ugua-glianza di fronte alla legge) e 138 Cost. (necessità di una legge costituzionale), la Consulta ha rimosso

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l’astuto escamotage in cui si sostanziava l’abusiva prerogativa riservata al capo del governo. Nessuna autocertificazione, nessun automatismo, nessun ob-bligo per il giudice di rinviare l’udienza fino a sei mesi nel caso in cui la Presidenza del Consiglio cer-tifichi che l’impegno è continuativo. Neppure per il Presidente del Consiglio e i ministri può esservi una deroga al regime processuale generale previsto dal codice di procedura penale nei casi di impedimento di imputati “comuni”. L’impedimento non può es-sere generico e il rinvio dell’udienza da parte del giudice non può essere automatico. Perciò – proseguono i giudici co-stituzionali nelle 37 pa-gine della motivazione – “spetta al giudice, ai fini del rinvio dell’udien-za, valutare in concreto non solo la sussistenza in fatto dell’impedimento, ma anche il carattere assoluto ed attuale del-lo stesso”. E ciò implica “il potere del giudice di valutare, caso per caso, se lo specifico impegno addotto dal Presidente del Consiglio dei Ministri dia in concreto luogo ad impossibilità assoluta di comparire in giudizio, in quanto oggettivamente indifferibile e necessa-riamente concomitante con l’udienza di cui è chiesto il rinvio”. Sarà dunque il magistrato, di volta in volta, ad ac-certare se le ragioni che ostacolano la presenza in aula dell’imputato siano fondate o prete-stuose, come accade a qualsiasi altro cittadino. Secondo un principio di le-ale collaborazione fra poteri dello Stato e nell’ottica di un ragionevole bilanciamento tra esigenze della giurisdizione, esercizio del diritto di difesa e tutela della funzione di governo, la sentenza di parziale incostituzionalità pronunciata dalla Consulta è parsa un verdetto frutto di accorta mediazione, che tut-tavia non scioglie il nodo più intricato, lasciando al capo del governo e ai suoi avvocati-deputati suffi-cienti spiragli di manovra per continuare a tessere la loro tela. E’ arduo trovare un equilibrato punto

di contemperamento tra i valori in gioco, quando la strategia consolidata negli anni si basa su una difesa dal processo anziché nel processo. E’ facile prevede-re che Berlusconi e i suoi legali tenteranno comunque di servirsi di quelle vestigia della normativa sfuggite al piccone della Consulta per dilatare e scardinare i tempi dei processi attraverso la precostituzione di impegni istituzionali di comodo: straordinari Con-sigli dei Ministri, improvvise missioni diplomatiche all’estero. Un’agenda politica sempre più fitta, e presumibilmente fittizia, da sbattere in faccia ai

magistrati per sfuggire ai tribunali. Non più ob-bligati ipso iure ad arre-stare automaticamente il processo e a rinviare l’udienza, come detto, ma ancora prevedibil-mente invischiati in una serie di trappole, azioni di disturbo, tattiche di-latorie, alle prese con la necessità di valutare una miriade di potenziali im-pedimenti, con tutto ciò che potrebbe derivarne, a seconda della decisione contingente, in termini di polemiche politiche e aggressioni mediatiche. Inoltre, come hanno rile-vato autorevoli costitu-zionalisti, come si potrà coniugare l’indifferibili-tà dell’impedimento con l’esistenza di una attivi-tà preparatoria e conse-quenziale? Quanto potrà essere legittimamente lungo il lavoro che pre-cede e segue l’impegno pubblico del Presidente del Consiglio? Attraverso la consultazione referen-

daria del 12 e 13 giugno, i cittadini saranno chiamati a pronunciarsi sulla abrogazione di quel che resta della normativa già mutilata dalla Consulta. Il que-sito recita: “Volete voi che siano abrogati l’articolo 1, commi 1, 2, 3, 5, 6 nonché l’articolo 2 della leg-ge 7 aprile 2010 numero 51 recante ‘disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza’?”. Una preziosa opportunità per assestare una vigoro-sa e definitiva spallata a ciò che rimane di uno dei tanti pilastri dell’edificio impunitario che da quasi vent’anni deturpa il paesaggio costituzionale.

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di Giorgio Raffaelli

Codice“A”

conoscere le regole, o magari addirittura proporne di nuove e stravaganti.Il personale, interrogato, afferma che i disabili, anzi, modernamente sillabati come “diversamente abili”, hanno la precedenza. Tra cartelli che promuovono ul-teriori offerte e specialissime iscrizioni per straordina-ri servizi, avvisi e minacce, nulla indica questa proce-dura. Non c’è un pulsante, nemmeno irraggiungibile, che dia il biglietto perché questa “diversa preceden-za” possa far arrivare allo sportello con un atto uguale a tutti gli altri.Mi guardo intorno per cercare i “bollettini” per fare un pagamento e inviare una raccomandata, gran cosa il Libero Mercato, bei tavoli con appositi contenitori ma nessuno utilizzabile da una carrozzina (e nemmeno da un bambino, perché mai una bambina o un bambino dovrebbero imparare ad usare l’Ufficio Postale) del re-sto i contenitori sono spesso vuoti, il mercato, quando diventa Libero, diventa parsimonioso (di ciò che non produce un’ immediato compenso economico).Il mio turno è ormai prossimo, tra libri, pulsantiere e istruzioni, offerte strabilianti e uffici per consulenze finanziarie, capisco che dovrei arrivare allo sportello un po’ più informato, cerco senza fortuna nell’ufficio postale un’ indicazione sui costi dei servizi postali, tipo lettere e corrispondenza varia ordinaria e straor-dinaria, ma non ne trovo traccia. E’ il turno della mia “A”, arrivo ignorante allo sportel-lo e quando mostro la lettera che dovrei spedire mi co-municano che il club “posta ordinaria”, probabilmente saturo da tempo, è stato soppresso e la corrisponden-za oggi è di diritto, al minimo, “posta prioritaria”.Gran cosa il Libero Mercato le S.p.A. e compagnia can-tando: “prioritaria”, rispetto a chi?

Nel display avanzano veloci i numeri a codice “E”.Ufficio postale di Foligno, gran cosa il Libero Mercato, le S. p. A. e compagnia cantando, davvero gran cosa. Gli iscritti al “club” (E) acquisiscono privilegi almeno fino a quando la loro presenza non sarà in percentuale prossima alla saturazione. Allora il “posta club” per-

derà efficacia fino quando un nuovo “gold posta club” non tornerà a ga-rantirla fino alla sa-turazione prossima ventura.Gran cosa il Libe-ro Mercato, però nessuno sportello è accessibile a chi dovesse stare in carrozzina, mentre ai non vedenti (nel senso della vista) il martellante “bip” segnala il procede-

re della coda con l’accortezza di non fargli sapere a chi tocca.Ma siamo nel Mercato. Oltre i vetri degli sportelli un’assortita esposizione di libri e oggettistica varia per lo più ad uso gadget e cartoleria. E’un mistero perché si dovrebbe comprare un libro alle poste mentre non si può spedire una lettera dalla libreria, misterioso an-che quale sarà il “biglietto” da prendere per attendere il turno nella coda. La lettera “E” avanza veloce (pur sempre con elet-tronica rigorosamente monosensoriale), al comparire della “A” una signora anziana, paciosamente “tanta” e incerta sulle gambe, ignara di essere un po’ “vintage” nell’aspetto decisamente “proletario”, avanza in un grande vestito scuro (assomiglia decisamente al mio).Gran cosa il Libero Mercato, la pulsantiera all’ingresso distribuisce i numeri per regolare le attese. E’ troppo alta per chi sta in carrozzina e non ha indicazioni per-cepibili al tatto (del resto inutili, il “bip” insiste in una musica senza parole). Le istruzioni sono un po’ dietro, ormai un po’ nascoste dall’uso. Il Libero Mercato è un club per i già soci. Poco attento all’accoglienza, quasi fatica a concepire nuovi iscritti che potrebbero non

La pulsantiera all’ingresso

distribuisce i numeri per regolare

le attese ma è troppo alta

per chi sta in carrozzina

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di Tania RaponiCultura

a FolignoFoto di Alessio Vissani

trovato quello che cercavo.25 Febbraio 2008: abbiamo acquistato i biglietti per an-dare a vedere la “Carmen” di Bizet. Partiamo da casa in tempo, quasi eleganti (almeno per una sera) arriviamo e ci sono troppi posti liberi per il parcheggio: e no, c’è qualcosa che non funziona. La spiegazione è tutta in un foglio attaccato alla bacheca: “Spettacolo annullato”,

causa l’esiguo numero di biglietti venduti. E pensare che sui giorna-li veniva promosso così (cito te-stualmente il titolo dell’articolo): “All’Auditorium di San Domenico l’imperdibile spettacolo dall’Anda-lusia”.Ancora. Edizione 2007 di “MielinUmbria”: concerto di Violino e Pianoforte dei maestri David Mazzeo e Anait Kar-povan ad ingresso gratuito, offer-to dall’Amministrazione comunale alla cittadinanza e ai molti esper-ti e operatori del settore presenti in città e provenienti da differenti Paesi dell’area del Mediterraneo. Risultato: non oltre 100 presenti. Ricordo che, oltre ai soliti inter-rogativi sul perché di tante defe-zioni, qualcuno si chiese: ma gli Amici della Musica di quale Musica sono realmente Amici ? Potrei per-fino continuare, ma bastano questi esempi per tirare le somme. La mia analisi sarà concisa e spietata. Non è un problema di crisi econo-mica, per 3 buoni motivi: è sempre stato così, anche in tempi miglio-

ri; si snobbano anche eventi gratuiti; la scusa dei soldi non tiene, se pensiamo ai tanti concittadini che amano esibire macchinoni superaccessoriati o abiti ultimissi-ma moda, rigorosamente griffati. Non è un problema di scarsa pubblicizzazione degli eventi: si fanno conferenze stampa, manifesti, siti web, promozione sui giornali, nel-le scuole: come ne verrebbero a conoscenza, altrimenti, quei pochi che partecipano? Non è un problema di “ti-pologia” di manifestazione artistica: snobbiamo tutto a prescindere, siamo abituati a criticare prima, durante e dopo ogni iniziativa.Conclusione ? Teniamoci stretta la Quintana, unica ma-nifestazione che coinvolge tutti, e all’ Amministrazione, che sta cercando di capire come utilizzare l’area dell’ ex Zuccherificio, diciamo: spazi culturali ? no, grazie !

Mercoledì 27 aprile 2011, all’Auditorium San Domeni-co è in programma “La Vedova Allegra” di Franz Lehár: all’apertura del botteghino siamo lì, per prendere i no-stri 4 biglietti e goderci una serata con l’operetta. Non c’è molta gente, abbiamo fatto bene ad arrivare presto, riusciamo a prendere i posti in fila F. Arriviamo qualche minuto prima delle 21 trafelati ma non c’è la ressa che ci aspettavamo: anzi, di gente ce n’è poca. Ci sediamo, ci guardiamo intorno quasi imbarazzati; ognuno che arriva ha i nostri stessi pensieri, si siede e si guarda intorno incredu-lo. Inizia lo spettacolo: tre atti di musica, balletto, canto, gli artisti sono veramente bravi e lo spetta-colo coinvolgente, così mezzanotte arriva veloce. Applauso finale, lun-ghissimo, battiamo le mani anche al posto di tutti coloro che avreb-bero potuto riempire i tanti posti rimasti vuoti, ci sentiamo a disagio, loro bravissimi e numerosi, orche-stra dal vivo inclusa, noi non più di 80 e mortificati per l’immagine che si porteranno dietro della no-stra città. “Pochi ma buoni” dirà alla fine la protagonista principale, ma l’imbarazzo rimane lo stesso. Uscendo tutti si fanno la stesse do-mande: evento poco pubblicizzato? altri eventi più appetibili? in tempi di crisi si elimina il superfluo? Ma la risposta, sconsolata ed unanime, è una sola: a Foligno è sempre così. Allora ripenso all’iniziativa del 16 marzo scorso per i festeggiamenti dei 150 dell’Unità d’Italia: Palazzo Comunale aperto e visita guidata gratuita per godere degli affreschi della Sala Consiliare e ammirare la Sala dei Gonfaloni, appena inaugurata. Arrivo che la prima visita è quasi finita, escono una decina di persone, mi aggrego al secondo gruppo, sei persone in tutto. La guida ci racconta un pezzo di storia della città e soprat-tutto di tanti illustri concittadini i cui nomi erano per me, fino a poco prima, solo quelli di vie e viali cittadini. Una signora si chiede il perché di così poca gente e gli altri presenti rispondono scuotendo la testa: a Foligno è sempre così. Colta ormai da irrefrenabile stizza, mi torna in mente anche qualche altro episodio: non ricordando esatta-mente le date, sono andata a verificare su Internet, e ho

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L’angolo dellavergognadi Rita Barbetti

nenti del PDL, alleati della Lega Nord, con tanto di distintivo, regalavano bandiere?Se metto il tricolore sul mio terrazzo, chi passa pen-serà: “Qui c’è una famiglia di destra”, oppure: “Qui c’è una famiglia di sinistra”Ma allora che faccio? Quasi quasi espongo la bandiera arcobaleno, simbolo inequivocabile della mia aspira-zione alla pace; oppure un lenzuolo bianco che testi-moni la mia presa di posizione contro tutte le mafie.Ma l’unità d’Italia io non la celebro?Allora scriverò un cartello a caratteri cubitali, in cui spiegherò il mio pensiero: mi sento italiana; comme-moro, onoro, rispetto quanti hanno dato la vita com-battendo per la propria patria con onore e dignità; aborro chi vorrebbe spezzare l’unità del proprio sta-to; disprezzo chi fa alleanze politiche al solo scopo di vincere le elezioni e non per portare avanti program-mi condivisi di utilità comune; per me il tricolore simboleggia anche le fondamenta del nostro stato e cioè la Costituzione, la quale subisce troppo spesso, negli ultimi tempi, attacchi ingiusti ed eversivi.Ma tutto questo forse è troppo, e poi chi leggerebbe il mio cartello, chi si soffermerebbe a perdere tempo con qualcosa che non è omologato, che non eviden-zia simboli o schematismi immediati?Allora che faccio? Espongo o non espongo?

Ormai che i festeggiamenti per il 150° anno dell’u-nità d’Italia si stanno spegnendo lentamente vorrei raccontare i dubbi dilanianti che mi hanno pervaso in prossimità del 17 marzo 2011.Espongo o non espongo la bandiera tricolore?Boh!Io pensavo: in passato la bandiera tricolore era spes-so segno di nazionalismo, riconducibile in generale ai partiti di destra; ora nello schieramento di destra c’è la Lega Nord, che la bandiera l’ha perfino bruciata, oltre che oltraggiata in vari modi. Ma allora oggi la bandiera tricolore è cara alla sinistra, che la oppone proprio alle posizioni antiunitarie della Lega!Ma allora perché in un grande supermercato espo-

“GLI INSEGNANTI, COMUNISTI, DISTRUGGONO I VALORI INSEGNATI DALLE FAMIGLIE!”…Per fortuna!!! Non sono mai stata tanto orgogliosa di essere un’insegnante, di quelle che tentano di attivare i cervelli, di farli ragionare sui dati, di andare oltre le apparenze, oltre gli slogan, oltre il fumo! Il capo della procura nazionale antimafia Pietro Grasso ha raccontato, in una conferenza, che una bambina delle elementari, figlia di genitori mafiosi, dopo aver seguito a scuola un percorso sulla legalità svolto dalla sua maestra, è riuscita a convincere la mamma a diventare collaboratrice di giustizia, a riscattare la sua famiglia. Onore a quella maestra!Magari ce ne fossero tanti di insegnanti così, capaci di contrastare i modelli educativi fuorvianti di tante famiglie: famiglie di mafiosi, di camorristi, di delinquenti, di quelli che credono che l’arroganza, la falsità, il sopruso, il raggiro siano modelli vincenti.Si vergogni chi teme e demonizza insegnanti leali, onesti, professionalmente corretti, sempre pronti a mettersi in discussione, mai a piegare la schiena e a rinunciare all’alto senso morale del loro ruolo!

Espongo onon espongo

di Rita Barbetti

Foto di Alessio Vissani

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IDEE

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Altro cheil programma

di Francesca Vicarelli

funzionava era quella da volto alto…e poco importava se avevano studiato tutto a memoria senza capire niente. Non

vedevano di buon occhio neppure i ge-nialoidi, perché la mediocrità ha sempre paura di ciò che non capisce e non può raggiungere.Ecco, questi professori esistono ancora. Non ne giudico assolutamente la didatti-ca, la capacità d’insegnare, di spiegare, né la competenza disciplinare. Quello può farlo uno studente, io no. Sono le idee e i principi di fondo, sono quei di-scorsi che, in aula insegnanti, proprio non posso soffrire.E cioè che i professori non sono degli educatori, ma professionisti pagati per portare avanti il programma, che tra l’altro, ha la priorità su tutto e tutti e

perciò non si ha tempo di aspettare chi è in difficoltà. An-dasse a ripetizione. Che i ragazzi sono solo degli sfaticati, dei maleducati, e che tra l’altro si immischiano anche dei tuoi fatti privati e quindi sono inopportuni ed impiccioni. E ovviamente, aggiungiamo noi, sono brutti, stupidi e puz-zano.Non è che hanno bisogno di modelli? Non è che cercano un contatto umano, e per questo fanno domande?Non è che sono cresciuti in un mondo tanto diverso dal vo-stro, e quindi sono solo diversi da voi? Il che non significa essere una sfilza di cose brutte, significa solo dover fare uno sforzo per imparare a capirsi. Non è che il programma ce l’avevano gli insegnanti di Napoleone, e i tempi sono un tantino cambia-ti? Non è che i “più bravi della classe” non han-no bisogno di noi, e quelli in diffi-coltà, invece, si? Mentre frequen-tavo la scuola di specializzazione per l’insegnamento mi ha colpito una frase, di una professoressa molto brava, che mi torna in mente spesso:“Avete capito cosa vi si chiede? In un contesto in cui la famiglia è una istituzione a rischio di cedimento, e in cui esistono forme di disagio e di disorientamento, voi dovrete essere un baluardo dell’educazione”.Altro che programma.

Sarà che fino a due anni fa stavo dall’altra parte della cat-tedra. Sarà che in questi due anni mi sono capitati ragazzi in gamba e sorridenti, e anche, fortuna-tamente, vivaci, ché le mummie stanno bene nei sarcofaghi. Sarà che apparten-go ad una generazione che per far que-sto lavoro ha dovuto sudare e lottare (e qualcuno più sfortunato di me ha sudato e lottato, ma è rimasto con un pugno di mosche). Sarà che 4 ore di strada al gior-no comunque non mi pesano, perché ne vale la pena…ma io certi discorsi, in aula insegnanti, non li posso sentire.Siamo stati tutti tra i banchi. Non so come è andata a voialtri, ma a noi certi prof. non facevano che ripetere che era-vamo debosciati, sfaticati, maleducati e senza valori, amebe, opportunisti, voto dipendenti, disinteressati, arrendevoli, e ci mancava ag-giungessero brutti stupidi e puzzoni. Poi, c’erano altri insegnanti: quelli che si preoccupavano di spiegare, o almeno lasciare intendere, che la stima, anche se il voto era brutto, non c’entrava, perché il voto andava al foglio pieno di scarabocchi, o alla chiacchierata appena fatta, non alla tua intelligenza. Quella, non veniva messa in dubbio, così come la fiducia nel possibile miglioramento. Bastava capire dove s’era sbagliato e non si escludeva a pri-ori che a farlo, qualche volta, potesse anche essere stato l’insegnante. E se poi, invece, quella materia magari face-va più al caso tuo, il 9 non diventava affatto un diritto ac-quisito, ci voleva sudore e fatica ogni santa volta, e quella fatica la soffrivano loro stessi. Oggi che sto dall’altra parte della cattedra mi immagino bene come sarebbe più facile, comodo e rassicurante fidarsi dell’etichetta che qualcun al-tro ha appiccicato sull’alunno prima di te. Sono i professori che ti danno coraggio, e che, se arrivi alla laurea, devi ringraziare, nonostante la sfilza di 4 che pos-sono averti messo. Restano dentro, sono un pezzetto della tua storia e della tua identità. Per questo è un mestiere bello. Per questo è un mestiere difficile, e se scegli di farlo, nonostante gli studi di psicologie varie e pedagogia e didat-tica, l’impronta più forte che ci sarà nel tuo lavoro, sarà la loro, ti ricorderai di quella passione e di quel sorriso, e ti ricorderai che non t’hanno mai chiesto che cosa faceva tuo padre.Naturalmente c’era anche l’insegnante che giudicava tut-to e tutti a priori. Aveva un’idea predefinita ed ormai ben confezionata del “giovane d’oggi” ed era disposto a salva-re dal mucchio solo i secchioni veraci, quelli pallidi per le notti insonni, per i quali l’unica iniezione di serotonina che

Naturalmente c’era anche l’insegnante che giudicava

tutto e tutti a priori

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SSTORIE

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Erail 1970

di Serena Rondoni

Sono in auto e guido ascoltando distrattamente la radio. Ma ecco quella melodia, quelle parole in spagnolo:” Ti ricordo Amanda la strada bagnata mentre correvi alla fabbrica dove lavorava Ma-nuel … suona la sirena si torna al lavoro molti non tornano nean-che Manuel…”.I ricordi si affollano, in disordi-ne come sempre, ma vivi, dolci e lancinanti.La musica è un’onda calda che apre quello scrigno chiuso dove ho riposto le immagini, i racconti più preziosi. È una can-zone di Víctor Jara, cantautore cileno assassinato cinque giorni dopo il golpe in Cile, l’11 settembre 1973.Quella canzone troppo ascoltata un tempo, tanto da non trattenerla più nella memoria, ha adesso la forza di ri-chiamare una stagione della mia vita dove tutto si teneva insieme, l’amore e la passione civile, l’io e gli altri, il vi-cino e il lontano con la naturalezza di un abbraccio imme-diato che tutto comprende prima ancora di avere capito.E allora riprendo il filo non logico di una narrazione dove piani e linguaggi diversi si sostenevano e si rafforzavano, giustificandosi a vicenda.I lavoratori li ho scoperti dentro una fabbrica occupata (prima la Salvati, poi la Rapanelli). Stavano lì per la difesa del loro posto di lavoro, perché l’azienda non chiudesse. Ci dormivano in fabbrica, perché gli impianti non fosse-ro smantellati, i macchinari non fossero portati via. Le tute blu, le mani forti, il sorriso aperto, gli occhi allegri e scontrosi , la voce determinata, le parole essenziali. Ci accoglievano volentieri, studenti, sindacalisti, cittadini in quell’ambiente fatto di polvere, grasso, macchine e odore di ferro.Passammo anche la notte di Capodanno con loro; bicchieri di vino bianco asprigno, panettone, l’ ambiente poco illu-minato, freddo, mi fece l’effetto di una chiesa con poche candele. Erano venuti anche studenti francesi e passammo in tem-po discutendo di che cosa potesse succedere in Europa. Che cosa facevamo la dentro? Parlavamo, tanto, nelle as-semblee, prima, dopo.“Occorre che la città sappia, dobbiamo uscire, fare un corteo, coinvolgere gli altri lavoratori, i cittadini”.La fabbrica la immaginavamo cuore pulsante per la città e la città per la regione e per il Paese.E allora andavamo al sindacato a stilare comunicati, a

scrivere a mano manifesti (le ul-time righe venivano sempre pic-cole, troppe le cose da dire), a preparare la manifestazione.Nelle assemblee si parlava ri-gorosamente di tutto, da come uscire vittoriosi dall’occupazione , alle strategie mondiali del Ca-pitale, ma soprattutto di quale idea nuova di società avevamo in ment: la forza democratica dei consigli nei posti di lavoro, nelle scuole, una partecipazione diffu-sa di persone che non delegano il

diritto di decidere per la propria salute, la formazione, la propria città. “… il solo rispetto tra liberi e uguali …è il rifiuto deL mio del tuo potere, di ogni potere un po’ personale…” sono le parole di una canzone di Ivan Della Mea.Questa non me la sono mai dimenticata.E cantavamo. Di tutto. Avevo ormai i polpastrelli della mano sinistra consumati a forza di suonare la chitarra per accompagnare i canti. Era un modo per sentirci davvero uniti, per comunicare forse meglio le emozioni, le pas-sioni che dovevano invece essere filtrate dalla forza del ragionamento, ma che erano prepotenti e che la musica aiutava a sciogliere, a condividere, e che i poeti dicevano meglio per noi.La forza del sindacato, dei nuovi partiti e dei partiti che provarono a cambiare venne da questa generosa sponta-neità mista di fiducia nelle parole pronunciate, nei pro-getti immaginati.Fu la prima volta che un’amministrazione comunale requi-sì una fabbrica per difendere i posti di lavoro, la Salvati appunto. L’anno della occupazione della fabbrica Rapa-nelli fu emanato lo Statuto dei lavoratori, venne istituito il referendum, furono istituite le Regioni e si votò per le prime assemblee regionali.Purtroppo non tutto andò bene in fabbrica ma ci sembrava che tutto potesse avviarsi sulla buona strada. Quell’anno della Rapanelli i Beatles si riunirono per l’ultima volta e incisero l’album “Let it be”. “E quando tutte le persone dal cuore infranto che vivono sulla terra si trovano d’accordo ci sarà una risposta: lascia che sia” dicono le parole.Escono album leggendari come “Trespass” dei Genesis, “Atom heart mother” dei Pink Floyd, “Abraxas dei San-tana. In Italia fallisce il tentativo di golpe organizzato da Junio Valerio BorgheseE Salvador Allende vince le elezioni presidenziali in Cile.

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PERSONE

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Il risvegliodei popoli

di Claudia Brandi

Foto di Alessio Vissani

In questi ultimi mesi tutto il mondo guarda con apprensione al Maghreb, la cui sorte socio-politica dipenderà dall’esito delle rivolte spontanee, che come terremoti violenti e improvvisi hanno scosso e spazzato via, con un rapidissimo “effetto domino”, le dittature che negli ultimi decenni hanno rappre-sentato l’unico scenario politico dei principali Stati

del Nord Africa. Il mondo intero ha assistito basito e impreparato a questo sconvolgimento epocale, palesando un’insicurezza e un disorientamento nella reazione politica e diplomatica senza dubbio allarmanti. Ma, aldilà dei dibattiti, personalmente ritengo interessante conoscere anche l’opinione di chi, forse più di tutti noi “occidentali”, vive con ansia e angoscia questi giorni di grande speranza e di lotta nel sangue: gli arabi che vivono in Italia, i quali, come i loro connazionali residenti nel resto d’Europa e del mondo, ora più che mai hanno il cuore, la mente e lo spirito rivolti verso i propri pa-esi di origine, e verso i loro fratelli arabi che stan-no lottando, soli contro tutti, una battaglia che certamente cambierà il mondo come lo abbiamo conosciuto finora. Sono loro infatti il vero motore spontaneo delle insurrezioni, i protagonisti di primo

piano del cambiamento radicale che sta avvenen-do nei loro paesi, martiri laici della democrazia, eroi moderni dei nostri giorni, combattenti di una guerra santa che chiamo così perché sacrosanto è il valore e il diritto alla libertà dell’individuo, che non ha nulla a che fare col fondamentalismo isla-mico, che lascia da parte i terroristi e gli stereo-

tipi con cui siamo abitua-ti a vedere i musulmani, anzi, che lascia spazio ai giovani, alla democrazia, alla libertà, a quegli stes-si valori che 150 anni fa hanno ispirato i nostri pa-dri, i quali, come i nostri fratelli arabi oggi, hanno dato la loro vita in nome della libertà. Questa è stata la mia do-manda: quali emozioni provi di fronte a quello che sta succedendo nei paesi arabi in queste set-timane, e cosa pensi o speri che accadrà nel fu-turo?Queste le loro risposte.

Ibrahim, 25 anni, libico, vive a Urbino

«Provo tanta gioia perché anche in Libia, paese di cui sono originario, si potrà finalmente vivere de-centemente, senza che ogni giorno siano negati di-ritti e libertà, perché finalmente in Libia il popolo potrà sfruttare al meglio le ricchezze del paese e vivere un’economia e un commercio libero e glo-bale. Ho tanta speranza nelle nuove generazioni di cui fanno parte anche i miei cugini in Libia, che hanno voglia di un forte cambiamento e di far cre-scere il paese. Ma provo anche tanta rabbia, per-ché il mondo si è mosso in ritardo e niente è stato fatto per evitare che Gheddafi massacrasse il suo popolo… purtroppo nessuno restituirà ai vivi coloro che sono morti. Provo tanto dolore per gli eroi che sono morti, ma sono convinto che il loro sacrificio

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sarà premiato da ciò che faranno coloro che sono rimasti in vita, e che non renderanno vana la loro morte. Parlo principalmente per la questione libi-ca, che mi è molto a cuore, ma il discorso vale anche per gli altri paesi, stufi ormai di corruzione, sfruttamento e povertà, e che dalla polvere in cui sono vissuti fino ad ora vogliono rinascere più forti e prosperosi, ma soprattutto più liberi. È una nuo-va èra per i paesi arabi e tutto il mondo ne trarrà beneficio! »

Christine, 37 anni, libanese, vive a Rimini

«Voglio raccontarti un piccolo aneddoto che mi è capitato proprio pochi giorni fa e che forse rispon-derà alla tua domanda da sé, senza il bisogno che io aggiunga altro: ero con amici ad un bar e dicevo a voce alta quello che pensavo pro-prio su questa questione, in particolare sulla Li-bia…vicino al nostro ta-volo c’era un signore libi-co, che ovviamente non avevo notato, e quando ho detto che secondo me Gheddafi è solo un ditta-tore e che dovrebbe an-darsene per il bene del suo popolo, come hanno fatto Ben Ali e Mubarak, per poco quell’uomo non si alzava dal tavolo e mi picchiava! Come vedi, la situazione è tesissima e i fatti che stanno sconvolgendo il Maghreb sono og-getto di contrasti politici e ideologici anche tra noi arabi che viviamo in Italia. Chi in un modo e chi nell’altro, ci sentiamo anche noi molto coinvolti in ciò che sta avvenendo. Per quanto riguarda il futu-ro, credo che le paure che attanagliano l’Occiden-te su possibili svolte politiche riconducibili all’in-tegralismo islamico e al terrorismo in questi paesi, siano assolutamente infondate, perché la gente là vuole guardare al futuro con ottimismo e non vuole invischiarsi con “quelle cose oscene” che non han-no niente a che fare con il vero Islam.»

Mehiar, 20 anni, siriano, vive a Roma

«Purtroppo in questi giorni proprio la Siria è al cen-tro dell’attenzione per la pesante repressione in atto. Personalmente, provo un sentimento misto di preoccupazione e speranza. La speranza per il nuovo cambiamento, quello del popolo, che final-

mente si è stufato di dittature così lunghe durante le quali i presidenti non hanno fatto altro che deru-bare la gente dei loro soldi e, cosa ancora più gra-ve, della loro libertà, soprattutto della libertà di parola. È bastata la morte di un solo uomo, a Tuni-si, per scatenare una rivolta di dimensioni epocali in tutti questi paesi… Oltre alla speranza però pro-vo anche molta preoccupazione perché la doman-da che mi sorge spontanea è: ora cosa succederà?! Specialmente guardando cosa sta accadendo in Li-bia e in Siria, nel vedere quanta gente continua ad essere massacrata… Spero che le violenze contro la popolazione cessino e che finalmente questi popoli come tutti gli altri popoli arabi possano finalmen-te trovare la pace e la prosperità tanto agognate

e per cui tanto, troppo sangue è stato versa-to.»

Katlhoum, 41 anni, tunisina, vive a Pe-rugia

«Sono felice per la fine delle dittature e il cammino verso la de-mocrazia, ma provo an-che molto disgusto per coloro che non voglio-no che queste rivolte abbiano successo, che sono fedeli ai dittatori

e che per quattro soldi imbracciano le armi e ucci-dono la gente in strada. Questo non solo va contro i principi dell’Islam, per cui è un peccato mortale che un musulmano uccida un altro musulmano, ma lo considero un vero e proprio abominio sul piano etico, morale e sopratutto umano, perché è odioso sparare su persone innocenti che altro non chie-dono che far valere i propri diritti, diritti che tutti sanno essere stati repressi fino adesso sotto un’ap-parente democrazia. Questa gente sta cercando di far fallire le rivolte e non si rende conto che se invece si alleasse al popolo e contribuisse all’av-vento della vera democrazia nei nostri paesi, sta-rebbe meglio anche lei e finalmente la corruzione dilagante e le diseguaglianze economiche diminui-rebbero. È un processo lungo e doloroso ma prima o poi doveva succedere. Siamo come vissuti sotto una cappa per anni e anni, e ormai abbiamo biso-gno di aria nuova, fresca, pulita, per ricominciare a vivere respirando a pieni polmoni la libertà e la democrazia, che sono già radicate in Occidente.»

eroi moderni dei nostri giornicombattenti di una guerra santa

che chiamo cosi perchè sacrosanto è il valore e il diritto alla libertà

dell’individuo che non ha

nulla a che farecol fondamento islamico

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PERSONE

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Sognidi un altro mondo

di Carla Tacchi

Ester ha 13 anni, vive in un piccolo villaggio nella foresta africana e la sera, quando si siede davanti alla sua capanna alla flebile luce di un piccolo fuo-co sotto un infinito cielo stellato, sogna. Sogna un futuro diverso, progetta una vita lontana da quella povertà, vuole diventare infermiera.Andrea ha 15 anni, vive in Albania in un grigio ap-partamento di un anonimo palazzo della periferia di Tirana. Nel pomeriggio, quando torna a casa da scuola, osserva la miseria che la circonda e sogna. Sogna un futuro migliore, in un paese dove tutti sono ricchi e felici, in un paese di cui conosce an-che un po’ la lingua, l’ha imparata dalla televisio-ne. Fino a quando un giorno decide di partire per quel paese alla ricerca di un lavoro, almeno così dice ai genitori, ma i suoi propositi sono altri. Niente e nessuno potrà mai impedire all’uomo di sognare e di sperare, soprattutto in un sistema mondo che per la sua in-trinseca natura è destina-to ad alimentare tali spe-ranze.Esiste oggi quello che lo scrittore congolese, Em-manuel Dongala, defini-sce “soft power”, in real-tà non un vero e proprio potere, ma una sugge-stione che diventa realtà. Non si può ignorare la globalizzazione: tecnolo-gia, internet, tv satellita-re. Le nuove generazioni di tutto il mondo recepi-scono un modello, quello del benessere occidenta-le, che diventa punto di riferimento e inevitabil-mente polo di attrazione, soprattutto nelle situa-zioni in cui fatica, fame, sofferenze, malattie sono le uniche alternative di vita possibili. Parliamo di una realtà molto diversa da quella occidentale ma

nello stesso tempo non lontana: in Africa, ad esem-pio, ci sono le capanne e quel che resta delle fo-reste, ma si trovano anche grattacieli, armi tecno-logiche, telefoni cellulari e Internet-point. Eppure quest’Africa, quella a sud del Sahara, dove 800 mi-lioni di persone vivono in condizioni al confronto delle quali abitare in Tunisia o in Libia parrebbe una fortuna, risulta molto lontana e riceve poca attenzione dall’Europa: sembrano non destare pre-occupazione i conflitti, l’incidenza terribile della pandemia dell’Aids, le tante crisi umanitarie, le enormi disuguaglianze che rappresentano polverie-re sul punto di esplodere da un momento all’altro.Per avere un’idea del divario che lacera questo continente un esempio per tutti. La Libia, con un PIL pro capite di quasi 17.000 dollari, si colloca tra gli Stati ad alto sviluppo, 53° nell’ISU, Indice di Sviluppo Umano, dello United Nation Development

Program 2010. La Nigeria, invece, occupa il 142° posto, con un PIL pro ca-pite di 2.289 dollari e non è tra i paesi più po-veri, essendo stata fino al 2009 primo produttore di petrolio dell’Africa con 752 milioni di barili annui contro i 603 della Libia.Ma quali dunque i moti-vi di questa indifferenza dell’Europa che si con-suma a partire dagli anni Novanta? L’Africa vale poco: all’inizio di questo millennio rappresentava meno del 2% del commer-cio mondiale e circa l’1% dell’investimento, anche se negli ultimi anni le ci-fre sono andate aumen-tando. Gli europei del XXI secolo sono distanti dal senso di colpa verso le imprese coloniali, non credono più di dover por-tare “il fardello dell’uo-

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chiaroscuro

mo bianco”, si comincia a dire apertamente che gli africani sono i soli responsabili delle loro difficoltà e della loro scarsa crescita.L’Africa diventa lontana. Resta tuttavia il pungolo dell’immigrazione a ricordarci che la crisi africana è ancora irrisolta. Le nostre coste sono meta di sbarchi di migliaia di immigrati. Per molti di loro il Mare Nostrum diventa una tomba. Non sapremo mai quanti sono par-titi dai loro paesi verso l’ignoto, su strade pericolose, talvolta pi-ste nel deserto, senza mai arriva-re. A Gibilterra c’è un cimitero per i poveri “senza nome”, trascinati a riva dal mare. Ma sarà impossibi-le tenere il conto delle tante vite umane perdute sulle strade della speranza. Non importano i rischi, le condizioni estreme del viaggio, le difficoltà da affrontare, quando si è giovani e disperati in un mondo che sembra sprofondare. Per questo l’emigrazione verso il Vecchio Continente è desti-nata ad aumentare, a diventare sempre di più un fenomeno di massa, una sorta di inarrestabile pa-cifica invasione. L’Europa è vicina, è il miraggio del benessere, è raggiungibile.Anche quando Andrea arriva in Italia è in atto un’invasione, questa volta da Est: stessi barconi con il loro carico di speranza e disperazione, stes-se aspettative e stessi pregiudizi. Andrea comincia subito a lavorare, fa la cameriera, la donna del-le pulizie, la commessa e contemporaneamente si iscrive al liceo, al primo anno. Si ricomincia dall’i-nizio fra mille difficoltà: la lingua, l’inserimento, le amicizie, le discriminazioni, il permesso di sog-giorno, i genitori dall’Albania che sono contrari alla scuola (la ritengono inutile per lei!). Ma non importa, quello che conta è realizzare il proprio sogno: essere protagonista di una vita diversa.Un diploma di liceo ottenuto in quattro anni an-ziché cinque. Un diploma di cui andare orgogliosa ma costato anche umiliazioni, lacrime e tanti tanti sacrifici. Non ci si può fermare, però, bisogna an-dare fino in fondo. È il momento di intraprendere la strada dell’Università: i test di ingresso, le tasse da pagare, un posto dove stare, il permesso di sog-giorno che continua a scadere e tutto il resto.Nel frattempo anche per Ester la vita è andata avanti. Giorno dopo giorno: recarsi a prendere l’acqua ogni mattina all’alba, accendere il fuoco, condividere con gli altri il poco cibo e poi a scuola. Fino all’ultimo anno prima del corso di specializ-zazione per infermiera da frequentare lontano, in città. Il sogno è vicino, vicinissimo. Il “padre bian-co buono” ha promesso che qualcuno pagherà il

corso e le spese per stare lontano da casa. Il tempo scorre tranquillo fino al giorno in cui Ester scopre che qualcosa di straordinario sta accadendo dentro di lei, non sarebbe più stata sola. Niente sarà mai più come prima. Impossibile pensare di vivere in città con un bambino, impossibile occuparsi di lui e frequentare la scuola, come impensabile è spe-

rare nell’aiuto del padre, un ragazzo diciottenne felice e orgoglioso del cuc-ciolo che sta per nascere, ma nien-te di più. In questa cultura sono sem-pre le donne a do-ver portare tutto il peso del vivere. Si semina il mais in-torno al villaggio, arriva la stagione delle piogge, il cal-

do si fa insopportabile, non c’è quasi più niente da mangiare. Ma il tempo passa e insieme al raccolto arriva anche Anthony, quasi quattro chili di bellez-za, tenerezza e infinita felicità per la sua mamma che lo adora, lo allatta e lo tiene sempre stretto stretto, al sicuro nel sacco dietro alle spalle. Ora Ester sa che deve lottare ancora più duramente, non solo per sé ma anche per suo figlio, che con-sidera come un dono straordinario e meraviglioso. La maternità per una donna africana è un prodigio divino, una benedizione, un privilegio negato agli uomini.Ester la sera, seduta fuori dalla sua capanna con il suo piccolo in grembo, non ha smesso di sogna-re. Guarda le stelle disseminate nel cielo infinito e immagina un futuro diverso per Anthony, un futuro magari in quel mondo di uomini e donne bianchi, ricchi, sempre sorridenti e felici, che ha visto qual-che volta di sfuggita alla televisione quando è an-data in città.Quello stesso mondo in cui ora vive Andrea, che ne ha sperimentato il bello e il brutto, che alla fine ha scoperto la verità sul finto modello di benessere che sta omogeneizzando i desideri e le aspettati-ve dei giovani del nostro tempo. Andrea si è inte-grata, ha un fidanzato con cui vuole costruire una famiglia e fra poco prenderà una laurea in Scienze Infermieristiche.Ester ha 20 anni, vive in Zambia, ha un bambino stupendo. Andrea ha 22 anni, è nata in Albania e vive in Italia, sta per diventare infermiera. Troppo lontane per incontrarsi, un giorno. Eppure così vi-cine per i sogni, le speranze e per la sfida con la vita.

A Gibilterra c’è un cimitero

per i poveri “senza nome”, trascinati a riva

dal mare.

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IDEE

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Cosamipiacecosanonmipiacedel cristianesimo

di Claudio Stella Disegni di Fabio Tacchi

Stavolta gli sguardi incrociati me li faccio da solo, dando luogo ad una sorta di felice sdoppiamento, ad un bipolarismo interiore che, a ben vedere, co-stituisce la quintessenza della prospettiva laica, perché non esiste nulla di più laico del ricono-scere gli aspetti positivi delle ideologie che non condividiamo. Ma come al solito la mia riflessione non sarà lineare, perché alla freddezza geome-trica di un percorso razionale preferisco la calda confusione del cuore.

COSA MI PIACE

Suggestioni monacali di un amante della Terra. La figura del monaco di clausura ha sempre esercitato un grande fascino su di me. Un’esistenza consumata nella solitudine e nel silenzio, la capacità di indirizzare verso Dio il flusso caotico delle emozioni, delle passioni, delle inquietudi-ni. Giornate tutte uguali, scan-dite da gesti e da azioni immu-tabili: la preghiera, il lavoro, la lettura, i piccoli piaceri del cibo e del vino strappati alla durezza della penitenza (i monaci sono storicamente grandi vignaioli e birrai), Giornate avvolte in un tempo dilatato, come sospeso, un tempo che non corre veloce come nella nostra vita, ma fluisce con il ritmo lento e solenne di un canto gregoria-no. Ma più del rigore ascetico e penitenziale mi ha sempre affascinato l’eco dantesca della “dolce chiostra”: in fondo il monastero è “anche” un nido protetto dai mali e dai pericoli del mondo, una sorta di utero spirituale nel quale trovare riparo. Io, che sono fatto per amare il gioco del mondo con le sue tempeste e il suo disordine, ho sempre avvertito, come una remota nostalgia indistinta, la bellezza di quella silenziosa quiete, lontana dal frastuono della storia.E visto che si parla di monaci, un’amorosa gra-titudine va ai monaci amanuensi. C’è qualcosa di straordinariamente nobile, persino di commo-

vente, nel fatto che noi dobbiamo a questi frati sconosciuti la possibilità di leggere ancora oggi i grandi poeti di Roma. Questi laboriosi soldati del silenzio, giorno dopo giorno, seduti presso il loro scriptorium, hanno combattuto con le loro rudimentali spade d’inchiostro la battaglia con-tro il tempo che tutto divora. Non so cosa pen-sassero, mentre vergavano con la loro mano ele-gante i versi del materialismo lucreziano, della

licenziosità catulliana, del “car-pe diem” oraziano; non so se si ponessero il problema della loro compatibilità con la concezione cristiana. Nel momento in cui trascrivevano queste opere, essi non indossavano la tonaca della loro religione, essi offrivano un silenzioso tributo alla grandezza dell’uomo, questa effimera cre-atura capace di gettare la sua voce oltre il gorgo del nulla.La faticosa fratellanza. Il vero scandalo e la vera rivoluzione del messaggio cristiano risiede nell’idea che siamo tutti fra-telli. Anche lo schiavo. Anche lo straniero. Anche il lebbroso. Non è facile considerare fratello colui che striscia ai nostri piedi e possiamo schiacciare in qua-

lunque momento. O colui che parla una lingua in-comprensibile e si comporta in modo così diverso da noi. O colui che è sfigurato dal dolore e dalla malattia. Nessuno prima si era mai sognato di dire o pensare nulla di simile. Certo, nella millenaria storia della Chiesa, tale principio è stato applica-to in modo alquanto discontinuo e molto spesso la croce si è trasformata in una spada implacabile che ha colpito nemici inermi e innocenti. Tuttavia, anche nei momenti più bui, la scandalosa utopia della fratellanza ha continuato a circolare, come un’energia sotterranea, come una fiammella osti-nata che rimane accesa al cospetto della bufera. E mentre papa Innocenzo III, dagli sfarzosi saloni di Roma, ordinava lo sterminio di ventimila albi-gesi, a un centinaio di chilometri un piccolo uomo

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SIDEE

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vestito di cenci brandiva tenacemente quella pic-cola fiaccola. E per un miscredente come me, ri-mane un mistero della storia che sia stato proprio quel papa spietato il primo a ricevere e a dare la sua approvazione al dolce straccione chiamato Francesco. Ancora oggi, non posso che inchinarmi di fronte all’esercito silenzioso di coloro che in nome del Cristo e della sua faticosa fratellanza dedicano la loro vita agli ultimi della terra.

COSA NON MI PIACE

Dal momento che, per evidenti motivi di spazio, non posso scri-vere un trattato in trentadue volumi, devo operare una drasti-ca selezione. Sorvolerò dunque sull’arroganza assolutistica di chi crede di possedere in esclu-siva la verità; sulla propensio-ne ad una sorta di machiavelli-smo “gesuitico” che ha portato spesso (anche ora?) la Chiesa a sostenere regimi o forme di po-tere oggettivamente incompa-tibili con il messaggio cristiano ma che risultano funzionali ai suoi interessi per così dire tem-porali. Mi soffermerò su questio-ni magari di minore spessore ma che solleticano il mio dispettoso demonietto antireligiosoIl pessimismo cristiano. Quello cupo, arcigno, penitenziale. Il pessimismo del “ricordati che devi morire” che ha costretto generazioni di fe-deli a vivere nel terrore delle fiamme eterne. Il pessimismo di Jacopone da Todi che vede il male ovunque, in tutti i profumi e i colori della terra; quello che ha demonizzato ogni forma di piacere, che ha trasformato il sesso in peccato e le donne in streghe o in diaboliche tentatrici. Quel pessi-mismo che Nietzsche definiva nichilismo, proprio perché mortifica e annulla la corporeità e la ter-restrità dell’uomo, persino il suo intelletto se non finalizzato a Dio.L’ottimismo cristiano. Quello giulivo e cinguet-tante che esalta l’infinità misericordia di Dio e non pensa che c’è stato Auschwitz; quello che ce-lebra la magnificenza del creato e i fiorellini e gli uccellini e si dimentica dello tsunami; quello che dice Dio mi ama anche quando gli è appena stato scagliato addosso un fulmine. Quello che dice il mondo è perfetto mentre invece non è perfetto per niente perché c’è il male, c’è il dolore, c’è la malattia e la morte e tutta questa roba in un mon-do perfetto non sarebbe esistita, proprio no, e se

c’è un Dio che ha creato i fiorellini e gli uccellini allora sarebbe giusto dire che sempre lui ha crea-to anche il terremoto, la siccità e un uomo capace di inventare Auschwitz. Una scommessa senza rischi. Pascal nei suoi “Pensieri” ha formulato la cosiddetta teoria della scommessa, che più o meno è così strutturata: 1) Dio esiste ed io ci ho creduto (mi è convenuto);

2) Dio non esiste ed io ci ho creduto (non ci ho perso né guadagnato); 3) Dio esiste ed io non ci ho creduto (ci ho perso); 4) Dio non esiste ed io non ci ho creduto (non ci ho perso né guadagnato). Dunque, secondo l’inoppu-gnabile logica pascaliana, credere in Dio è assoluta-mente conveniente, perché se vinco (cioè se Dio esiste) vinco tutto e ho fondate possibilità di guadagnarmi un premio eterno; se perdo (ossia se Dio non esiste) non perdo nulla perché non solo non riceverò nessuna pu-nizione ma non lo scoprirò mai e avrò condotto la mia vita con il consolante pen-siero di vivere in eterno,

di riabbracciare i miei cari dopo la morte. Ma io mi domando: che razza di scommessa è, quella in cui non sia contemplato il rischio di perdere? È un gioco truccato, è una scommessa senza l’e-mozione di un risultato incerto. E allora, quel mio demonietto di prima, si immagina che proprio nel momento della morte, una voce di imprecisata natura, una sorta di misterioso, cosmico croupier, comunichi allo scommettitore credente: “ Caro signore, mi dispiace ma lei ha perso, dopo la mor-te c’è solo un eterno, riposante nulla”.

Io, che sono fatto per amare

il gioco del mondo con le sue tempeste

e il suo disordine, ho sempre avvertito

la bellezza di quella silenziosa quiete,

lontana dal frastuono della storia.

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IDEE

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Gesù è ebreoper sempre

di Giuliana Babini

Noi occidentali rischiamo sempre di leggere tutto con le nostre categorie, quali libertà, uguaglianza, giu-stizia, matrimonio. Bisogna invece sapersi decentrare, e allora, forse, si capirebbe meglio, si capirebbe “al-tro”, specie nei Vangeli.Nulla per un orientale è così forte ed essenziale come la “carne” e “la fami-glia”, dimensioni imprescindibili dell’essere umano, non per niente il libro dell’Antico Testamento considerato più scottante (il che significa che mette più dentro al mistero di Dio) è il Cantico dei Cantici. Gesù Cristo vive in mezzo a quest’ambiente, saturo della Torah e degli altri testi: a chi crede viene da pensare che Dio, per incarnarsi, abbia scelto proprio questo popolo per questa sua viva umanità che tiene insieme tutte le dimen-sioni dell’umano, sia che viva nel deserto, in città o nel-la dolce Galilea. Agli ebrei si possono rimproverare tante cose, ma non certo di non tener in conto della materia di cui siamo fatti.Il discorso sarebbe lungo, cito solo una norma ben poco ricordata, dati i tempi: “Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico; sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposata” (Dt 24,5).Non solo, ma anche si dice:“. C’è qualcuno che abbia co-struito una casa nuova e non l’abbia ancora inaugurata? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un al-tro inauguri la casa. C’è qualcuno che abbia piantato una vigna e non ne abbia ancora goduto il primo frutto? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un altro ne goda il primo frutto. C’è qualcuno che si sia fidanzato con una donna e non l’abbia ancora sposata? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e un altro la sposi” (Dt 20,5-7)Non so se oggi almeno gli ebrei osservanti ne tengano con-to, forse i cristiani non lo hanno mai fatto, se non a livello personale con l’obiezione di coscienza ma aggiungendovi (e, secondo la Scrittura spesso le aggiunte deformano il progetto di Dio sull’uomo) altre motivazioni, eppure quan-to umano sarebbe:” Prima di dare la vita per gli altri, occorre averla goduta”!L’unico motivo, comunque mal tollerato, per cui un ebreo poteva rinunciare alla sposa, ai figli, alla casa era l’amo-re alla Torah che lo portava a vivere nella casa di stu-dio. E Gesù Cristo è in questa lunghezza d’onda: c’è una sequela che anticipa la dimensione escatologica per cui

non ti sposi, il tuo amore è per così dire tutto pre-so dal Signore e nel cuore non c’è posto per un altro amore, ma questo non è per tutti: Gesù, il Figlio, è chiaro. Il matrimonio è una realtà buona ma terrena, seconda, finirà, ma è la via normale per consumare la

propria vita nell’amore ed essere salvati: solo l’amore è eterno, non una delle sue esplicitazioni terrene, che è il “conoscersi” dell’uomo e della donna (un conoscersi che nel linguaggio biblico indica esperienza globale e quindi anche unione dei corpi). Comunque, non è certo il non sposarsi che assicura la salvezza! Anzi…..Certo il linguaggio degli orientali non usa le sfumature, le include tra gli estremi: dire che il Signore custodisce il tuo entrare e il tuo uscire, significa dire sempre, anche quando stai fermo!Amore e odio sono gli estremi, includono tutta la gamma dei sentimenti: Gesù dice che la famiglia non va amata come se fosse la propria divinità e nelle nostre vite ci sono tanti fatti che ci mostrano quanta ragione avesse. Cerchiamo di ricordare che per troppo tempo si è dimenti-cato che “ Gesù è ebreo e lo è per sempre”: questa affer-mazione arriva ad essere indicativa per la catechesi solo nel documento: Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella ca-techesi della Chiesa Cattolica (24 giugno 1986).Questo sta a dirci come dovremmo cercare di conosce-re davvero Gesù Cristo, sia che lo vogliamo riconoscere o meno come il Signore delle nostre vite: Egli è infatti anche un dato culturale della nostra storia, non possiamo accontentarci di amarlo o criticarlo, dando per scontato di aver capito quello che dice, solo per sentito dire, per citazioni parziali.

Uno dei testi del rituale ebraico del Matrimonio è Osea 2,21-22:Ti legherò a me per l’eternità; ti legherò a me con giustizia e con diritto, con amore e con misericordia. Ti legherò a me con fedeltà; e tu conoscerai il Signore. E’ un invito all’amore unico, eterno, anche questo non è dato a tutti come esperienza storica, ma resta iscritto nell’anelito del cuore di ogni tipo di amore: la buona no-vella della resurrezione è che ce ne è aperta la strada.

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SIDEE

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Le sorelle Carafa

di Isabella Proietti

China al davanzale della finestra, lo sguardo che vaga dal foglio ai tetti arroventati dal sole, Teresa Carafa di Colubrano scrive la terza supplica per il Commissario Pontificio Straordinario della Provincia di Umbria e Sabi-na. Chiede “...un mensile sussidio del pubblico erario, per ovviare alla condizione miserevole” in cui versano lei e la sorella Giuseppa. E’ l’8 luglio 1850. Manca un decennio all’unità, l’Umbria fa ancora parte dello Stato Pontificio; il governo restaurato dopo la breve esperienza della Repubblica Romana opprime una regione che non si vuole sottomettere al potere temporale della Chiesa: i contadini umbri scappano per non arruolarsi nell’esercito papalino, nascondono le armi che gli vengono requisite dalle truppe austriache, gli intellettuali corrompono gli impiegati degli uffici postali per introdurre i libri proibiti dal tribunale dell’Inquisizione. Teresa ha iniziato a scri-vere il 15 settembre dell’anno precedente, poco dopo la morte dello zio, il Maggiore Massimiliano Carafa, coman-dante della Forza Armata della Piazza di Foligno, che ha lasciato le due sorelle “prive di ogni mezzo per vivere”. Quello che più fa male è “la mancanza di pane dopo una vita agiata”: Teresa e Giuseppa discendono dai Principi Carafa di Colubrano, nobile famiglia borbonica, stranie-ra nella pontificia Foligno. Cosa avrà portato in Umbria Teresa e Giuseppa Carafa? Immagino le due sorelle an-cora adolescenti mentre lasciano il Regno di Napoli per seguire la carriera militare dello zio che, dopo la prema-tura morte dei genitori, ha vegliato su di loro consenten-dogli di mantenere il tenore di vita lussuoso in cui hanno vissuto sin dall’infanzia. Alla sua morte, eccole rimaste sole, sen-za un mezzo per sostentarsi. Ma neanche la miseria assoluta ab-batte l’orgoglio di una nobile: il suo contegno è privo di note drammatiche, il suo sguardo ge-lido mentre detta allo scrivano pubblico il contenuto della mis-siva. Non è dunque la mano di Teresa che leggiamo sfogliando le carte d’archivio. Teresa ha studiato, ma non ha sufficiente dimestichezza con la scrittura per una lettera destinata alla cancelleria del papa. Riconosciamo la sua firma in cal-ce al documento, vergata con un inchiostro più scuro e una scrittura incerta, il pennino che freme di rabbia nel sottoscrivere la dichiarazione di miseria delle sorelle Carafa. Teresa firma anche per la più giovane Giusep-pa, che a scrivere non ha mai voluto imparare. Ecco-

la, in giardino, mentre intreccia margherite, in strada mentre gioca con i bambini. Così ec-centrica, quest’ultima discendente dei Cara-fa, non si cura delle preoccupazioni e della vergogna che divorano la sorella maggiore. Il Commissario Pontificio si ricorda del Maggiore Carafa e prende a cuore la supplica delle sorel-le, tanto da richiedere al Ministero delle Armi la matricola del defunto Maggiore. Ma il Ministe-ro delle Finanze è irre-movibile: “a causa delle angustiose circostanze in cui si trova l’erario e dell’enorme peso ogni giorno crescente della cassa delle giubilazioni e pensioni che forma un ostacolo insormontabile per accordare largi-zioni, il Pro Ministro delle Finanze non credde di poter soddisfare la richiesta” (è il 3 giugno 1850). Ma non si ferma, Teresa. Vuole andare a Roma a supplicare perso-nalmente Pio IX, in nome della conoscenza che questi aveva con suo zio, in virtù del suo cognome. Chiede dun-

que un passaporto, “l’autorizza-zione per percepire l’indennità di via fino a Roma” e un posto in vettura. Non sappiamo come finisca la storia delle sorelle Ca-rafa. Probabilmente la loro sup-plica non viene accolta. Come faranno a sopravvivere? Teresa farà mai quel viaggio a Roma per supplicare personalmente il papa? Voglio pensare che Pio IX, commosso dalla determina-zione di questa donna austera dagli occhi sbiaditi, le accorde-rà la pensione richiesta. Voglio

pensare che non avrà importanza se Teresa non è più giovane e bella, nè se i Carafa non contano più nulla; ciò che conta è la determinazione di questa donna che di fronte al rifiuto della burocrazia non si ferma e, ottenu-to un passaporto e un posto in vettura, arriva a Roma in una torrida giornata di luglio.

Teresa ha studiato, ma non ha sufficiente dimesti-

chezza con la scrittura per una lettera destinata

alla cancelleria del papa

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IDEE

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C’era una volta...

di Carla Oliva

“Chi è lei? Cosa ha scritto?” domandò Grimm.“Fiabe”, rispose Andersen.

La celebre battuta è riportata sul frontespizio di una raccol-ta di fiabe di Andersen che ho da quando non sapevo neanche leggere. La copertina, di una scoloritissima tela verde, è un po’ mangiucchiata agli angoli. Le pagine sono ingiallite, ma miracolosamente in buone condizioni. Ho sfogliato quel libro chissà quante volte; conosco a memoria tutte le illustrazioni. L’ho letto a mio figlio, quan-do era piccolo. Ora ha ancora un posto d’onore nello scaffale che ospita, appunto, le raccolte di fiabe che abbiamo in casa. Per me, questo volume, è un po’ un simbolo, la materializzazione di quello che di fatto sono le fiabe: qualcosa che ci accompagna per tutta la vita, che si arricchisce di nuovi contenuti, che “consultiamo”ed utilizziamo senza neanche ren-dercene conto.Devo però confessare che negli ultimi anni, non a caso in coincidenza con l’uscita di mio figlio (ahimè!) dall’infanzia, non ho più letto fiabe né rivisto i classici cartoni di Walt Disney. Ma pochi giorni fa Alessio, Fabio e Daniele mi parlano di un progetto a cui stanno lavorando: “perché una sera non ci fai la pizza, così ci puoi fare un’intervista su questo nostro lavoro?” A parte il fatto che nessuna vera giornalista, per fare un’intervista deve anche fare la pizza, quella sera, effettiva-mente, tra una Margherita e una Capricciosa, ho scoperto tutto su questa bellissima iniziativa. Alessio Vissani, 30 anni, fotogra-fo; Fabio Tacchi, 27 anni, grafico (nel tempo libero disegna e di-pinge); Daniele Del Dottore, 30 anni, infermiere (anche lui con l’hobby per la pittura), decidono

di unire le loro abilità creati-ve in un progetto comune. La scelta cade sulla fiaba. Dice Daniele:“riproporre le fiabe è un gioco, il piacere di tirar fuo-ri i racconti dell’infanzia, cela-ti ma presenti in ogni adulto, che proprio l’arte può riporta-re alla luce: le fiabe ascoltate da bambini, a volte ancora ci parlano e determinano la no-stra fantasia”.

La seconda idea è quella di scegliere otto fiabe e di re-interpretarle, ognuno di loro con la propria arte. Alessio:”La scelta è stata dettata dal puro piacere: dapprima abbiamo scelto le nostre pre-ferite, quindi ne abbiamo aggiunte altre, cercan-do di equilibrare fiabe molto note con altre poco conosciute, fino a raggiungere un numero che ci sembrasse adeguato”.Adeguato a cosa? Ed ecco la terza, coraggiosa idea: realizzare una mostra, che si inaugurerà l’11 giu-gno nella chiesa di S.Maria di Betlem a Foligno.A volte le fiabe sono state re-interpretate, dice Fabio, “cambiando radicalmente punto di vista e cercando di offrire una visione personale o addi-rittura inversa dei sentimenti e dei temi dominan-ti delle fiabe stesse”. Nel Cappuccetto rosso di

Alessio, per esempio, vediamo la protagonista “accasciata a terra vicino ad una pozza di sangue di-sperata per la morte del lupo (che diviene quindi il simbolo di qual-siasi altro animale), con il caccia-tore che cammina ignaro ed indif-ferente al bordo dell’immagine.” Nel dipinto di Fabio, la bambina sembra “voler indossare la ma-schera del lupo, mettersi quindi nei suoi panni e condividerne la sofferenza”. La fiaba si trasforma in interrogativo sul senso del rap-porto odio/amore che da sempre lega uomini ed animali. A volte, invece, sono diventate occasione per affrontare temati-

Ed ecco la terzacoraggiosa idea:

realizzare una mostra, che si inaugurerà l’11 giugno

nella chiesa di S.Maria di Betlem

a Foligno.

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SIDEE

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che attuali. La piccola fiammiferaia viene rap-presentata da Alessio come una ragazza di oggi, “intenta a vendere i suoi fiammiferi tra l’indiffe-renza dei passanti, circondata da libri e da una laurea gettata a terra: i sogni infranti di una ge-nerazione di laureati, appunto, costretta a men-dicare per poter vivere”. Ma c’è posto anche per l’amore incondizionato di donne solo apparente-mente fragili come le protagoniste di La Bella e la Bestia e La Fanciulla senza mani, che i tre artisti hanno saputo interpretare con delicata sensibilità.Non potevano mancare le due favole che, credo, facciano parte più di tutte del nostro repertorio del fantastico: Peter Pan e Pinocchio. Lo stupore, la voglia di essere eterni bambini e saper conti-nuare a cogliere la magia delle piccole cose. E il dubbio di sempre: quel simpatico burattino, era proprio indispensabile che diventasse un bambino vero?Dice Daniele: “da tempo cercavo di raccontare delle storie con personaggi ispirati alla pittura me-tafisica, li volevo far muovere ed interagire, dopo che avevo per lungo tempo rappresentato figure in una stanca quiete. Questo progetto ha stimolato il mio spirito creativo”. Le sue figure si muovono leggere, nonostante la somiglianza ai manichini, in un mondo dove il vero protagonista è il colore. E proprio il colore riesce a dare alle forme quella grazia e quella levità con le quali vorremmo vivere le nostre vite. Il suo, diventa un mondo dove anche il mistero e l’inconoscibile non ci fanno più paura.Dice Fabio: “nei miei dipinti cerco di raffigurare simboli che fanno riferimento a concetti, a fram-menti di pensiero, usando colori sem-plici e forme com-plesse”. La sua pit-tura, con un tratto grafico incisivo e deciso, sembra ri-specchiare di più la sofferenza del mon-do: dolore e solitu-dine si fanno largo, a volte, tra le sue immagini, creando turbamento e scon-certo. Ma allo stes-so tempo siamo tra-scinati, come in un vortice, dalla forza e velocità di quei tratti. E conquistati, dunque, dalla sua espressività. Dice Alessio: “se dovessi scegliere una parola che possa accomunare tutte le foto, direi Gioia: quella

di partecipare ad un progetto insolito, di metter-si in gioco con situazioni particolari, e perché no, per una volta tornare bambini e vivere per un po-meriggio come i personaggi delle nostre fiabe pre-ferite”. Le foto di Alessio esprimono entusiasmo, originalità, competenza tecnica; in un equilibrio di luci, colori, spazi, ambientazioni sempre in bilico tra realtà e finzione.Tutti e tre sembra vogliano dirci che non esistono schemi fissi e immutabili, che la verità non sem-pre è quella che appare. E che i trentenni, se non sono più bambini, non sono neanche bamboccioni, ma giovani adulti che non hanno perso la capacità di sognare. E sanno dunque costruire e lottare per trovarsi gli spazi, inventarsi le situazioni, crearsi le condizioni per affermare le loro capacità in una società che non sa, quasi mai, riconoscerle né ap-prezzarle. Grazie. Grazie ad Alessio, a Fabio e a Daniele, che mi hanno fatto trascorrere una bellissima serata. Ma mi domando come mai non hanno pensato alla favola di Roberto Piumini, Totò Sapore, un cuoco alla corte dei Borboni, nella Napoli del Settecento, che viene ingiustamente imprigionato, e che riu-scirà a liberarsi inventando un nuovo piatto “dei colori della terra e del mare…caldo come inferno e profumato come paradiso”: LA PIZZA!!

L’inaugurazione si terrà l’11 giugno alle ore 18.00 con un intervento del

prof Claudio Stella

Durata Esposizione: 11-19 giugno

Luogo: S.Maria di Betlem - Foligno

Orari Mostra: tutti i giorni dalle ore 16.30 alle ore 24.00

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IDEE

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notizia come una nuova nascita o una promozione. Eccolo il discorso generico, sempre uguale e sempre più o meno prevedibile: la sensazione è quella di essere su un’autostrada facile e libera, quando un discorso scorre, una frase segue l’altra senza tanti sforzi, non si pensa neanche troppo a quello che si sta dicendo all’interlocutore, in fondo non stiamo parlando neanche di noi, ma di quello che accade nella nostra vita e che accade fuori, sotto gli occhi di tutti. Arrivati ai saluti, poche cose ci rimangono di quello che si è detto, poche le informazioni che ci preme ricordare, spesso sono dettagli che non rie-scono neanche a sfiorare le nostre esistenze. Quan-do le cose vanno bene o quando si finge che vadano bene, niente interrompe il flusso del discorso legge-ro e disimpegnato, tutto cambia invece quando sve-liamo un dolore e alla solita domanda “come stai?” rispondiamo “male”. Con un atto di sincerità sem-

plice eppure difficile da am-mettere spezziamo le con-venzioni e, mostrando una vulnerabilità tutta umana, accettiamo di esporre la no-stra vita all’altro. Un piccolo atto di coraggio da parte no-stra invita l’interlocutore a sbarazzarsi del suo ruolo so-ciale e di contraccambiare tanta sincerità con empatia e partecipazione. Pochi re-sistono, coloro che non si

espongono è perché credono sia troppo lacerante farlo. Questo imparai quando do-

vetti affrontare un periodo molto triste della mia vita. Dopo un lutto e una brutta rottura con un uomo che avevo tanto amato mi ritrovai a non poter finge-re che nulla fosse successo e cominciai a rispondere “non va bene affatto, anzi va male”. Superata la prima reazione di sorpresa la persona che avevo di fronte si affrettava a domandarmi le ragioni del mio malessere e si faceva immediatamente più disponi-bile all’ascolto e alla comprensione. Tutti hanno provato dolore e tutti sono sensibili all’argomento, anche chi vive un momento felice non può dimenti-care del tutto una vecchia ferita, alcuni danno un

Nel mondo in cui viviamo i rapporti sociali sono strettamente codificati e standardizzati. Abbiamo modi precisi per salutare a ogni ora del giorno, espressioni per chiedere, per ricevere, per essere cortesi, per farci perdonare. Abbiamo un linguaggio pronto e predeterminato per cavarcela nelle tante situazioni mondane, come quando ci troviamo in un matrimonio, in una festa o al lavoro. Il galateo tra-bocca di esempi e di soluzioni per non sentirci mai inadeguati nelle situazioni in cui è richiesta una con-formazione alla regola. Esclusi i rapporti in famiglia e tra veri amici, siamo costretti in gabbie di comuni-cazione verbale estremamente rigide che da un lato ci permettono la disinvoltura e la sicurezza di esse-re sempre efficaci, tradendo comunque una monoli-tica pigrizia che ci fa crogiolare sulle stesse parole all’infinito, dall’altro però tutta questa “prefabbri-cazione” linguistica ci impedisce di trovare nuovi modi di esprimerci o di essere estremamente accurati su ciò che vor-remmo dire. Personal-mente non credo di aver mai imparato ab-bastanza ad assimilare tutte le cantilene che si dovrebbero snocciolare nelle situazioni sociali, questo però non mi permette di definirmi veramente libera dalle convenzioni imposte dalla società. La mia scarsa preparazione alla frase fatta e al discorso pronto mi rende auto-maticamente maldestra e poco incline alla diploma-zia e più di una volta mi sono ritrovata a dover rime-diare a un saluto monco , un congedo frettoloso, una mancata presentazione tra due miei amici che tra loro non si conoscevano e non presentai per distra-zione. Dopo i saluti la prima delle frasi che inaugu-rano un discorso tra due persone è normalmente: “Come va? Come stai?” alla risposta “bene, grazie” allora si comincia a conversare lamentandoci del tempo, della situazione economica o politica, fa-cendo un pettegolezzo, rallegrandoci per una buona

di Marta AngeliniLibero come

il dolore

Una volta mostrate le ferite delle nostre

battaglie, ci si sentiva meno soli e guardandoci negli occhi ci si faceva coraggio pensando

che il mondo non sarebbe finito col nostro dolore

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nome al proprio grande dolore e a volte fanno coin-cidere la loro vita con uno di essi, altri credono che la vita sia fatta solo della sostanza del dolore. Inter-rogata sulle ragioni di tanta infelicità cercai ogni volta di essere aperta e precisa evitando le dramma-tizzazioni e assumendo un contegno quanto più di-gnitoso possibile. Non so perché ho pensato a un’im-magine così romantica, ma quando parlavo di ciò che mi faceva stare male avevo la sensazione che chi mi ascoltava stesse ricevendo qualcosa da ma-neggiare con cura, come se gli porgessi un fiore di rara delicatezza. Poi si compiva una cosa tanto su-blime quanto per me inaspettata, la persona a cui parlavo voleva contraccambiare quel fiore e mi regalava la sua storia di dolore tanto forte quanto perso-nale, vissuta, patita. Non importava chi avessi davanti, in un periodo così nero non selezionavo le perso-ne con cui confidarmi, l’importante per me era parlare cercando di libe-rarmi da un carico troppo pesante. Mi ritrovai quindi ad affidarmi alla forza del racconto non solo con co-loro che ritenevo più intimi, ma an-che con persone che mi conosceva-no poco o che ignoravano la mia vita, come il barista del locale all’angolo della strada, la proprie-taria della drogheria della mia città con suo marito, il sorvegliante del museo dove lavoro, la mia responsa-bile, un professore universitario. Nel momento in cui offrivo all’altro la mia vulnerabilità, automatica-mente i ruoli crollavano e non aveva senso mantenere un ordine gerarchico né un distac-co formale. I “bouquet di fiori mesti” che ricevetti in cambio furono tanto variegati e preziosi che mi fecero sentire subito meno sola e li conservo tuttora intatti da qualche parte dentro di me. Una giovane stagista mi raccontò come, dopo essere stata abban-donata dal suo ragazzo, non riusciva più a dormire sul suo letto e completamente sconfitta dalla tri-stezza dormì per una settimana a terra perché era sul punto più basso del suo spazio che voleva resta-re. La mia responsabile mi confessò di quando, resa-si conto di non amare più l’uomo con cui conviveva, dovette ritornare a casa dalla sua famiglia e mi de-scrisse la sofferenza acuta nel momento di prepara-re i pacchi con i suoi oggetti personali da trasferire. Si sentiva un buco nello stomaco che restò per mesi e che ancora brucia in certi giorni più solitari. Una signora nel suo piccolo negozio mi raccontò quanto male le faceva pensare a quando suo figlio da picco-lo imparava le cose sempre più tardi rispetto agli

altri diventando ben presto oggetto di scherno tra i compagni. Un uomo in un ristorante mi sussurrò lo strazio di dover lasciare la sua amante di cui era in-namorato da anni per restare con sua moglie. Ogni infelicità mi veniva raccontata con grazia, pudore e con la partecipazione che si trova solo nei momenti importanti della vita, tutti volevano mostrarmi cosa non riuscivano più a tenere dentro, cosa avrebbero voluto urlare o seppellire per sempre pur di liberarsi di un peso tanto insopportabile. A qualcuno si ina-sprivano i muscoli della bocca, raramente ci furono occhi umidi ma tutti, proprio tutti, sospiravano e ab-bassavano lo sguardo. La partecipazione di coloro

che spontaneamente vollero condividere il loro dramma personale fu commovente, ognuno si pre-murava di farmi capire quanto condividessero il mio dolore perché sapevano di cosa stavo parlando e perché erano stati i testimoni diretti della stessa esperienza umana di cui raccontavo. Una volta mo-strate le ferite delle nostre battaglie, ci si sentiva meno soli e guardandoci negli occhi ci si faceva co-raggio pensando che il mondo non sarebbe finito col nostro dolore, il mondo sarebbe andato avanti lo stesso nonostante noi e i nostri blocchi, allora non restava che fare un bel respiro e continuare ad an-dare avanti fingendo di non sentire più quel male che tanto ci straziava, come gli adulti che non pian-gono più quando, cadendo, si sbucciano le ginocchia. Si sarebbe ricominciato allora a rispondere “bene, grazie” a tutti i “come stai?” rivolti con finto inte-resse, coscienti però di star partecipando di nuovo all’infinito gioco dei ruoli. Allora capii che solo il do-lore svela la verità, solo il dolore ci libera.

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STORIE

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vera gente, quella della gente comune? Nella storia sommessa trovano posto anche le lettere che mia nonna riceveva dai soldati al fronte o in prigionia, un epistolario a metà perché mancano le lettere di sostegno che lei mandava sotto lo pseudonimo di Nelly Benedettini. Ora in tutto questo gran parlare di unità, di patria, di federalismo (fiscale), di fe-ste non feste, voglio aggiungere al coro indistinto di voci la voce di tanti giovani che trascinati o trasci-natori, senza saperlo fino in fondo hanno contribuito a offrire agli Italiani un’idea di patria: conoscendo-si all’interno delle fradice trincee, cercando di de-codificare i reciproci, incomprensibili dialetti, sal-vandosi, quasi stranieri tra loro, con atti di eroismo vicendevoli che hanno dato un senso, un riconosci-mento alla loro italianità, consapevoli, finalmente, di una internazionalità. Tra le tante lettere, ne ho selezionata una che dà veramente l’idea, in diretta,

della mondialità della “gran-de guerra”, il giovane (ma lui si definisce non più gio-vane: ha trenta anni e mez-zo!), Maurizio Della Bona, si presenta come uno scettico, un “duro”, italiano d’origine francese, residente in Fin-landia e, in questa seconda lettera (la prima, 30 marzo 1916, era stata di approccio conoscitivo), sostiene che ormai, dato il ritardo con cui mia nonna aveva rispo-sto, lui aveva scelto un’altra madrina...per cui entrambi

si mettessero l’animo in pace.Maurizio della Bona scrive da “Zona di guerra”, ap-partiene al Reggimento Granatieri (confermato nel timbro: Comando II Reggimento Granatieri, stemma Savoia), busta affrancata con due francobolli da 10 centesimi, data del timbro 16 aprile 1916. “Z. di G. 12 aprile 1916” “Gentilissima Signorina, Ebbi la sua del 11 [segue sigla non comprensibile]. Certo credevo che ormai Lei avesse creduto opportuno lasciare ad un’altra “madrina” il compito di confortarmi e non ci pensa-vo più. Meno male che, per vecchia abitudine, avevo

Pensavo che non si arrivasse più a discutere di “patria”, del senso della sua unità. Sono nata e cresciuta in una casa ubicata in via Goffredo Ma-meli, 25, in Foligno; quando, bambina, chiedevo chi fosse costui, mio padre (Augusto Laureti) mi parlava di questo ragazzo che, giovanissimo, aveva dato la vita per la patria, per la sua liberazione dallo stra-niero e dalle ingiustizie, per l’Unità (parola strana per me che avevo appena otto o nove anni), ma per fortuna, diceva mio padre, aveva fatto in tempo a lasciare il ricordo di sé, grazie all’inno d’Italia.Mi chiamo Elena, come mia nonna, nata a Perugia nel 1884, onoratissima di chiamarsi come la regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III di Savoia: i loro ritratti, conservati in splendide cornici intagliate dal mio bisnonno Giovanni Tommasuoli, ingegnere con la passione dell’intaglio, campeggiavano nella mia dimora paterna. Di mia nonna, per me fondamen-tale modello femmini-le, ho tanti ricordi: il suo spirito “toscano”, famiglia originaria di Sinalunga e Montepul-ciano, la sua arguzia, la sua intelligenza cri-tica, aperta, moderna, la sua bellezza, la sua generosità, la sua pas-sione per la lettura, i suoi dolori; tra questi, inconsolabile, la perdi-ta del fratello adora-to, Luigi Tommasuoli, avvocato, morto, dopo la prima guerra mondiale, a soli trentatré anni, a causa della tisi presa al fronte, nel fradicio delle trincee, diceva lei, per liberare la patria. E per la patria lei pagava il delicato debito che anche le giovani di buona famiglia (le poche che sapessero scrivere in modo corretto) potevano offrire: diven-tare “madrine di guerra” e sostenere uno scambio epistolare con i soldati al fronte, per rinfrancare il loro animo nel “fradicio” delle trincee, nell’oppres-sione della prigionia. Ma dove sta la Storia? In quella ufficiale elaborata su documenti ufficiali da storici di spessore, o in quella sommessa, quella della po-

di Elena Laureti

“Dopo che questa grande istoria

sarà ultimata”

Ma dove sta la Storia? In quella elaborata su documenti ufficiali da storici di spessore, o in quella

sommessa, quella della povera gente, quella

della gente comune?

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SSTORIE

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serbato il suo indirizzo, in caso contrario sarei stato giudicato da Lei aver poca creanza nel non rispon-dere. Troppo tardi, Signorina, ho già scelto una ma-drina, mi spiace, le sue lettere (2), quantunque per me troppo sentimentali, erano così gentili e dolci, che avevo assai piacere nel leggerle. Ma non avrà nessun [sic] difficoltà a trovare un altro figlioccio, siamo tanti!! Però la ringrazio sentitamente della sua premura, dei suoi auguri ecc. ecc. e spero che questa mia la troverà, ormai, in ottima salute. E adesso tocca me confortarla, che non abbia da cre-dere aver perduto una “rara avis” nell ex-aspirante figlioccio che fui. Forse Lei avrà pensato che io fossi un giovane sottotenente e chissà quanti dolci sogni aveva già elaborati nella sua delicata, sensibile ed impressionabile mente. Anzi, a punto, il suo carat-tere sì veramente femminile sarebbe andato a male col mio. Io sono, I) non più giovane, 30 anni e mez-zo, II) sono semplice granatiere e la mia umiltà non aspira nemmeno al grado di caporale. Sono grande (1m 80), Lei è piccola (mi fa capire) e occorrereb-be farmi tagliare le due gambe (o comprare Lei una scala) per uno scambio mutuo di confidenze o baci! Moralmente sono come…i pochi cappelli [sic] che mi restano, cioè: nero: ironico, scettico, non credendo a nulla, considerando la vita come una commedia e via dicendo. Basta, credo. Lei suppone che siamo in mezzo alla neve! ma che! anche qui è la primavera! Leg(g)a il “Il giornale d’Italia” del 13 corr. Vi si trova un articolo sui Granatieri. Allora c’era la pioggia e la mitraglia adesso è il bel sole e i fiori. Se dovessi rac(c)ontarle a un tratto la mia vita passata mi oc-correrebbero tanti fogli di carta quanto una scatola. Sono nato in Francia è vero, ma non vi abito più; ci vengo ogni tanto come in Italia. Il mio domicilio

trovasi in Finlandia (prendi [sic] un Atlas e guardi il punto il più alto dell’Europa, 30-40 gradi sotto zero d’inverno. Paese poco adatto per Lei, forse. È vero che non ci sto che 6-7 mesi dell’anno, trovandomi, gli altri mesi a Trieste e a Agram (Zagabria) Croa-tie. Sono un impenitente viaggiatore, come vede. Conosco tutte le principali città dell’Italia che ho percorso durante 4 mesi in automobile con amici. Conosco l’Europa dal Nord al Sud, da l’Ovest a l’Est, l’Algeria, la Tunisia, il Marocco, etc. Devo confessa-re però che non conosco Foligno né Perugia. In Fran-cia non ho lasciato nessun’altra speranza che quella di riveder Parigi, ove sono nato. Vi ho lasciato degli amici, i quali anche loro, combattono per la Vittoria. In Russia anche, ne ho lasciati, molti, quasi tutti com-battono anch’essi. A Trieste ho lasciato la mia vecchia madre - l’unica persona che amo nella vita -. Potrei inquietarmi, ma avendola lasciata presso amici sicu-ri spero di ritrovarla dopo…il ballo, se i tedeschi mi prestano vita. I miei progetti: riposarmi 3 o 4 mesi, in Russia dopo che questa grande istoria sarà ultimata. Per il seguito, ci penserò poi; ciò che mi interessa? Oh! tutto, ma in speciale modo ciò che non conosco: donne, uomini, bestie, cose, paesi ecc. ecc. È con-tenta? Come vede sono un brutto realista! Non è col-pa mia è la vita stessa che mi ha formato la mente! Forse 22 mesi di campagna (sono stato prima 1 anno volontario in Francia) mi hanno un po’ sconvolto lo spirito, sarà, ma non hanno cambiato il mio essere. In ogni modo di nuovo la ringrazio. Ricorderò il suo gentil nome, i suoi delicati pensieri, e le auguro ogni bene nonché la realisazione [sic] dei suoi voti.Mi creda rispettosamente Devotissimo M. della Bona” Delizioso come, tra l’apparenza di duro, attribuendo a mia nonna chissà quali sogni femminil-adolescen-

ziali (in realtà mia nonna era una giovane donna di ventinove anni), il granatiere Maurizio Della Bona con-servi la capacità di sognare e di de-siderare. Mia nonna dovrebbe aver risposto piccata sulle fantasie sen-timentali poiché nella terza lettera (30 aprile 1916) il giovane si scusa: è meglio interrompere, non riesce ad esprimersi come vorrebbe con la lingua italiana… ma, poi, ne segui-ranno almeno altre nove scritte in francese, l’ultima porta la data del 6 settembre 1917 e sprigiona ansia di vivere, di conoscere la sua madri-na, di vivere con lei, viaggiando in luoghi esotici… l’Egitto, la liberté: è doloroso non sapere se abbia visto la fine della guerra, della sua guerra…se i Tedeschi in fine gli abbiano, o no, “prestato vita”.

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PERSONE

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Poi racconta dei lupi appenninici intravisti in inverno tra le nevi. Quel che rimane è una vita dura, di rinunce ma anche di semplicità, bellezza e silenzi. Quel che ri-mane è molto più di quel che si riceve ed è uno strano connubio tra natura e razionalità, una precaria simbiosi tra l’uomo nuovo e il vecchio mondo dei nostri antena-ti che per primi hanno praticato la pastorizia. Un vec-chio mestiere, un‘attività umana che da millenni non ha modificato la sua natura. Ancora oggi occorre tosa-re (in dialetto carosare) le pecore prima che l’estate

diventi torrida, ancora oggi si usano gli stessi accorgimenti, le campa-nelle al collo delle pecore anziane, per la loro individuazione. Ancora oggi la macellazione della carne e la scuoiatura delle pelli avvengo-no sul posto e con mezzi propri, e senza intaccare le mille normative della Comunità Europea che molto somigliano a legacci e cavilli e che paradossalmente servono a inondare di contributi (soldi) chi possiede le terre a “sodo”, il che significa che l’Europa paga per non coltivare le proprie terre! È vero che arrivano i contributi anche per chi possiede greggi di ovini, ma questa è solo una compensazione per il calo dei prezzi del latte, delle carni, della lana…

Angelo è un uomo silenzioso e schivo, il tempo trascor-so all’aperto ha solcato il suo viso e come nei romanzi di Mauro Corona (L’ombra del bastone) o di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli (Questo sangue che im-pasta la terra); le sue rughe profonde ricordano i nodi di un bastone che tante volte, contorto e duro, ha so-stenuto le sue gambe nelle salite e nei pendii. In questo peregrinare diuturno nel tempo e nello spazio, che è la nostra vita, c’è chi silenziosamente, passo dopo passo, sceglie di vivere a contatto con la natura, con gli ani-mali che sono il simbolo della bontà, con le montagne che per loro natura tendono verso il cielo.È di questi giorni di maggio la notizia delle proteste dei pastori sardi, non più in grado di sostenere i costi delle loro attività, abbandonati a se stessi (come la pecora evangelica), non ritrovati (come il capro espiatorio). A loro e ad Angelo la nostra solidarietà.

Nella Bibbia sta scritto che Abramo era ricco poi-ché possedeva armenti e bestiame, pecore e capre (Gen. 13). Dall’inizio dei tempi, nella prima città, Ur dei Caldei, l’uomo ricco e saggio era colui che posse-deva le greggi ovvero carne, lana, merce di scambio. Poi la storia ha preso strade diverse, come spesso ac-cade, ed oggi per esempio è ricco e potente (saggio?) chi possiede denaro, giornali, tv. Le greggi di ovini si scorgono al pascolo nell’agro romano percorrendo l’au-tostrada, oppure bisogna andare a scovarle sui monti abruzzesi della Maiella od ancora in alcuni paesini appenninici come qui da noi. La nostra montagna è ancora abitata da pastori e pecore, capre e cani maremmani. Angelo Calvani è uno di loro. Vive in montagna a Roviglieto, paesino ma-gnifico che sarebbe da inserire negli itinerari turistici, dove ancora si cuoce il pane in forni all’aperto, dove si produce manualmente il pecorino, dove si può assaggiare la vera ricotta di pecora, dove si passeggia e si incontra una targa posta a ricordo della Resistenza Par-tigiana, dove le porte delle abitazioni hanno la chiave fuori, dove da tempo immemorabile si alleva bestiame. Angelo fa il pastore da sessant’anni. Da sessant’anni conduce le sue pecore al pascolo come gli antichi, poiché ci sono attività umane che non mu-tano nei tempi, le greggi seguono i pascoli più teneri dove la pioggia fa crescere l’erba fresca. Punto. Il pa-store sta solo col suo bastone, il suo cane e la sua forma di pecorino, da millenni. Il pastore cerca la centesima pecora lasciando le altre 99 al pascolo qualora si per-desse. Il pastore sacrifica in olocausto un agnello per la Pasqua ma la difende dai lupi. Il pastore munge all’alba e cuoce il cacio e la ricotta e si scalda la notte ricove-randosi tra le greggi. Anche se la notte Angelo torna a casa spesso. Ci sono mestieri che non cambiano. Angelo si lamenta del calo dei prezzi degli agnelli, della lana, del formaggio. È colpa della crisi! Un qualcosa di incom-prensibile, mutui concessi superficialmente in America qualche anno fa ora determinano un abbassamento dei prezzi e degli stipendi in Italia!

di Rocco Zichella

Il pastoreDisegno di Fabio Tacchi

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SSTORIE

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delle tante tematiche che caratterizzano l’ attuale frontiera della matematica: lo studio dei fenomeni ricorrenti e di tutto ciò che, anche in natura, esula dalla rappresentazione canonica euclidea o Newto-niana. Ha diffusamente parlato di B. Mandelbrot, scomparso nel 2010, noto soprattutto per i “fratta-li”. A partire dagli anni ‘60, e fino ai giorni nostri, l’applicazione della geometria frattale a questioni economiche ha, fra l’altro, condotto a mettere in

discussione alcuni consolidati fondamenti dell’economia clas-sica e della finanza moderna. Frontiere, quindi, tutte nuove per lo sviluppo a medio termi-ne e futuro della matematica. Applausi, foto, qualche ricordo, promesse di rivedersi e poi… tut-ti a pranzo. Tornando a casa ripercorrevo mentalmente quegli anni lon-tani, troppo lontani; il ’68, le conquiste studentesche, i primi sconvolgimenti sociali , la suda-ta conquista di diritti sacrosan-ti, il continuo impegno e i tanti

sacrifici che alla fine ci hanno condotto al raggiungimento di

una condizione migliore. Ma tutto questo, ossia gli impegni ed i sacrifici, da-ranno gli stessi frutti ai nostri figli e, soprattutto, ai nostri nipoti?

Sabato 7 maggio 2011 ci siamo ritrovati a Pe-rugia in via Pascoli, all’Istituto di Matematica, una trentina di non più giovani laureati in matematica del quadriennio accademico 1967/1971. Ritrovarsi dopo quaranta anni, per gente che a volte non si è più non dico vista ma neppure sentita per telefono non è cosa di poco conto e, soprattutto, non è di facile descrizione. E’ senza dubbio, per tutti, una sorta di tacito rendiconto.Dei 180 iscritti all’Università di Perugia nel 1967 al 1° anno di corso della facoltà di matematica conse-guirono la laurea una cinquantina di persone; pochi, in verità, nel 1971, ossia senza andare “fuori cor-so”; ma, si sa, la matematica anche allora era una brutta bestia.Tutti emeriti insegnanti di matematica che hanno imperversato per un quarantennio negli istituti sco-lastici umbri, marchigiani ed abruzzesi, ora quasi tutti freschi pensionati; qualcuno docente universi-tario ancora sulla breccia, qualcuno dirigente scola-stico ancora in servizio, un onorevole. Tutti, diligenti come matricole alle prime armi, siamo saliti al quin-to piano dove finalmente, dopo le commemorazioni di rito, non esclusa la ricorrenza del 150° dell’u-nità d’Italia, abbiamo potuto dare sfogo alla nostra, per tanto tem-po repressa, curiosità: ma ora la matemati-ca dove sta andando, quali sono le temati-che più dibattute? I nostri colleghi, ora docenti universitari, hanno assolto egregia-mente al loro compito. La prof.ssa G. Coletti, con la sua proverbiale chiarezza, ha ampia-mente dissertato sulla “matematizzazione di una situazione reale e contingente”; e quale poteva essere la situazione da esaminare se non il nostro incontro. E’ stato ve-ramente piacevole. Il prof. P. Brandi ha tenuto una vera e propria lezione cattedratica additando una

di Mario BarbettiA 40 anni

dalla laurea

Dei 180 iscritti all’Università di Perugia nel 1967 al 1°anno di corso della facoltà di matematica

conseguirono la laurea una cinquantina di persone;

pochi, in verità, nel 1971, ossia senza andare “fuori corso”; ma, si sa, la matematica anche

allora era una brutta bestia.

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STORIE

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In estate, questo canale Carbonara e il lavatoio era-no per me l’ uni co divago del pomeriggio nei giorni in cui mia madre non poteva portar mi ai Canapè, non essendoci nella zona bambine con cui potessi giocare. Fatti i compiti, al momento della merenda correvo al lavatoio, mi sede vo al primo scalino e in-sieme alla fettina di pane e marmellata mi gu stavo anche la frescura e il gorgoglio intenso del fiume. Al di là di esso, un piccolo orto con tanto verde e al-berelli da frutto completava no lo spettacolo per me particolarmente gradito, dal momento che io abita-vo in una traversa di Via del la Pescheria, un vicolo, la Via Scortici n. 18, largo poco più di un metro e nascosto dal sole per la barriera muraria che proteg-geva, lungo un bel tratto, il giardino di proprietà del Vescovado. Se volevo giocare a palla a muro do-vevo cercare un po’ di spazio che era sempre quello di fronte a casa mia, e dove, con la vernice nera,

qualcuno aveva scrit to sulla grande parete del muro: VIVA BINDA ABBASSO GUERRA. Vi lanciavo la mia palla. L’avevo imparata più dei ver-bi, quella scritta.Riprendo a parlare del Lava-toio sul canale Carbonara.Sempre seduta sul primo sca-lino vedevo arrivare qualche donna del vi cinato con la ce-sta dei panni da lavare. Tutte si toglievano ciabatte o zoc-coli lasciandoli sulle scalette perché a piedi nudi avevano meno ris chio di scivolare sul pavimento sempre intriso di

acqua e sapone. Sce glievano lo spazio migliore dove l’acqua arrivava meno carica di sapone, si inginoc-chiavano e iniziavano l’opera con il pezzetto di sa-pone appog giato di fianco su di un panno da lavare. C’erano momenti in cui mi divertivo ed altri in cui mi rattristavo, co me quando il fiume portava via il pezzetto di sapone a quelle poverette, essendo caro e introvabile in quel tempo di guerra. Era una tragedia da piangerci sopra.Le donne che frequentavano quel lavatoio erano quasi tutte in confidenza tra di loro, specialmente

Abito in periferia di Foligno. Per le mie sortite in centro faccio spesso uso del mezzo pubblico e scendo al capolinea di via dell’Ospedale. Mi dirigo, quindi, in Via Gentile da Foligno e inevitabil mente vengo presa da momenti di intensa nostalgia.Questa strada, un tempo, era chiamata Via della Pescheria, denomi nazione non più esistente dal do-poguerra; il bombardamento del 16 mag gio 1944 ne aveva cancellato gran parte. Oggi, la via assume un aspet to moderno ma io vedo riaffiorare il tempo di una volta coi tanti ricordi della mia prima e secon-da infanzia: qui infatti si trovava la casa in cui sono nata e vissuta fino a undici anni. Torno, con il pen-siero agli anni ‘30-’40.Ecco, alla mia destra scorreva un piccolo fiume che fuoriusciva col suo rumoroso gorgoglio al di sotto della strada per l’Ospedale; era una derivazio-ne del fiume Topino chiamato Carbonara o Canale dei Molini, in quanto alimentava molini da grano e da olio. Dava vita anche agli orti che incontrava e che orna-vano gran parte della città. Era indispensabi-le aiuto alle donne del quartiere che, nella buona stagione, si ser-vivano delle sue fre-sche acque per lavarvi i panni di casa.A tale uso vi era un lavatoio pubblico allo scoperto adiacente alla Pescheria, un pic-colo anfratto al quale si accedeva scendendo tre scalette. Queste e la pavimentazione sottostan-te erano di graniglia di pietra rosa, il tutto ben levigato dall’usura del tempo, come pure le pie-tre, leggermente in pendio, che scendevano ad incontrare l’acqua tanto da essere quasi sem pre coperte o lambite da essa. Inutile dire che vi si poteva lavare so lo stando molto curve e in ginoc-chio. Spesso capitava di stare anche con le gambe interamente immerse nell’ acqua, quando la por-tata di essa era più alta del solito.

di Maria Rosaria TradardiVia della Pescheria

(Parte prima)

Si rinfilavano ciabatte o zoccoli, le più giovani

si davano anche una veloce riassettata ai capelli e risalendo

le tre scalette, ancora un po’ curve per il peso della biancheria bagnata,

mi salutavano con un sorriso

Disegno di Maria Rosaria Tradardi

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SSTORIE

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le più anziane e, nonostante la fatica, trovavano il tempo per raccontare qualche piccolo aneddoto per poi riderci sopra; per riflesso, guardandole, mi sorprendevo a sorridere anch’io anche se non ave-vo capito un bel niente di ciò che dicevano. Mi di-spiaceva vederle qualche volta litigare ma poi, con l’intervento delle più pacifiche, tutto tornava alla normalità. Chi aveva più fiato da usare accennava a qualche canzonetta in voga quel momento ed io, che le cono scevo quasi tutte per averle ascolta-te alla radio dei Canapè, mi accodavo sottovoce a quel canto. Quando terminavano il lavoro si aiutavano vicen-devolmente per strizzare le lenzuola dopo essersi messe in piedi con non poca fatica. Ma zuppe d’ac-qua com’erano c’era anche da strizzare le vesti e lo zinale che avevano indosso. Si rinfilavano ciabatte o zoccoli, le più giovani si davano anche una veloce riassettata ai capelli e risalendo le tre scalette, ancora un po’ curve per il peso della biancheria bagnata, mi salutavano con un sorriso. Anche mia madre, qualche volta, andava a sciacquare le len-zuola al lavatoio della Carbonara dopo aver fatto il bucato in casa con tinozza, acqua calda e cenere. Farlo nello sciacquaio di casa diventava troppo di-sagevole. Io mi rattristavo tanto nel vederla curva, in ginocchio sulla pietra e sempre mezza bagnata. Preferivo restare in casa a fare i compiti.Ma la storia del lavatoio sulla Carbonara, nel cen-tro di Foligno, sarebbe una come tante altre se non fosse per i tanti particolari inediti.Accadeva spesso che i responsabili dei molini di quel tempo aprissero del tutto le cosiddette chiu-

se o saracinesche del canale cosicché le acque ne uscivano all’improvviso con tutta la loro foga, invade vano gli orti e quindi anche quella misera piazzola del lavatoio portandosi via panni, ciabat-te, zoccoli, saponi e lenzuola che venivano inevi-tabilmente strappate dalle mani delle malcapita-te. Restavano solo le grida e le parole rabbiose di queste povere donne e non erano certo le lodi di frate Francesco “Laudato sì’, mi’ Signore, per sora aqua...”.Gli abitanti del vicinato si erano ormai talmente abituati al fatto che non si premuravano più di af-facciarsi alle finestre. Alle grida rabbiose si univa-no quelle festose di alcuni bambini. Distante pochi metri da quel lavatoio c’era l’Isti-tuto Palestini, oggi chiuso, e diretto dalle suore Francescane dove anch’io, piccolissima, frequen-tavo la Scuola materna. Antistante l’Istituto vi era Piazza Branducci, o meglio il cortile nel quale noi bambine e bambini giocavamo. Da un lato, al dilà di un praticello, scorreva il fiume Carbonara. Ap-pena apparivano le lenzuola era tutto uno strillo: “Suor Gemma corri corri che arrivano le barchette tutte bianche!” E da dietro il recinto gridavamo divertiti. Ma la commedia toccava l’apice del di-vertimento quando arrivava suor Gemma con una lunghissima pertica e, aperto il cancelletto del re-cinto, si metteva a correre lungo il praticello dan-do colpi sul lenzuolo per ac chiapparlo, mentre noi emettevamo strilli festosi perché ci arrivavano gli spruz zi dell’acqua. Poi risate e applausi quando, tutta rossa e affannata, tornava suor Gemma con, in cima alla pertica, il lenzuolo in segno di vittoria.

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STORIE

chiaroscuro

rifiutò di iscriversi alle corporazioni del fascio e ven-ne perseguitato per le sue idee e licenziato dall’a-zienda ferroviaria. Chiese di incontrare il podestà per cercare di contestare quell’assurda decisione. Durante il colloquio, nel presentare la situazione della sua numerosa famiglia, disse con forza: - Non ho mai fatto male a nessuno!- ed anche in quella sede rifiutò di aderire al partito fascista. Il podestà fece scrivere a verbale che il Mazzoni Antonio, al-terandosi, aveva minacciato i presenti e la massima Autorità, manifestando squilibri mentali…” perciò fu internato nel manicomio di Perugia, dove rimase 16 anni, perché ritenuto un sovversivo. La Polizia di regime perquisì l’alloggio dei Mazzoni a Case Ope-raie alla ricerca della fotografia di G.Matteotti che la moglie Vincenza, fortunatamente, aveva ben na-scosta in un anfratto del cassetto di un malandato armadio. La famiglia Mazzoni fu cacciata da Case Operaie e le poche cose che erano in casa furono gettate dalla finestra.Il bombardamento del 22 novembre 1943 fu il primo e sorprese anche Case Operaie. I fratelli Gaggiotti erano molto piccoli, un flash di memoria: erano in strada con il papà e la mamma, dovevano andare via da Foligno, cadde una bomba dietro casa, il padre corse dai figli e si mise sopra di loro per proteggerli dai detriti e dai grandi sassi che volavano in aria, la madre che faceva la camiciaia aveva preparato per la fuga lo stretto necessario dentro un grande scialle bianco. Quel giorno lasciarono Case Operaie e sfollarono a Spello.In quel bombardamento morì Eraldo Acquarelli, stu-dente del liceo scientifico, e un venditore ambulan-te di Leggiana che si trovava nel tratto di strada tra la chiesa ed il casello con un veicolo a tre ruote e con un cassone per la vendita della varechina. Lu-ciana Bianchini, figlia del casellante, intervistata da Fausto Scassellati, ricorda: “Mia sorella che tornava dalla città si trovava proprio lì vicino e raccontava che questo venditore era stato preso in pieno e che l’aveva visto volare in aria; di lui non si trovò più nulla. Il padre di Eraldo nei giorni successivi veni-va spesso da noi e ci chiedeva se avevano trovato qualche pezzo di stoffa o altro perché il figlio non si trovava più. Un giorno uno stradino che stava a ri-pulire il fosso di scolo delle acque piovane, spalan-

Proseguiamo il nostro percorso di rievocazione di quella che era la vita delle cosiddette “Case Operaie”, microcosmo affascinante di vita e di memorie. Per la prima parte, vedi Chiaroscuro n° 9. Le feste. Le feste a Case Operaie si svolgevano all’aperto, nelle aie, soprattutto in quella del casolare della famiglia Cola che gestiva il podere dell’Opera Pia Bartocci. Si faceva festa per la trebbiatura, per la vendemmia, per la scorticatura del granturco, si ballava sull’aia del casolare, e partecipavano molti di Case Operaie. Dopo la guerra s’era formato ad-dirittura un complessino: Angelo Belloncini al sas-sofono, Gino Camicia alla fisarmonica, Birimbo alla batteria. Anche le feste parrocchiali del Sacro Cuore erano molto sentite: “Mio padre, insieme ad Azzarelli, provvedeva all’illuminazione della facciata della chiesa e a stendere le luci sopra la strada Flami-nia con dei festoni anche di verdura fino a sotto le Case Operaie. Passava la processione con la banda. C’erano molte bancarelle, qualche volta le giostre, si faceva anche qualche piccola recita” (intervista di Fausto Scassellati a Bianchini Luciana, figlia del casellante).Nel campetto dietro la chiesa i ragazzi giocavano a pallone, erano palloni di pezza. Giorgio Gaggiotti e Marcello Mazzoni ci parlano di quelle partite con gli amici, ne ricordano uno in particolare, un ragaz-zo del nord, che giocava scalzo per non rovinare le scarpe, veniva chiamato con il nomignolo di UNI, il suo nome era Umberto Libera. Diventati più grandi, Giorgio e Marcello, sempre appassionati di sport, fecero parte della squadra dell’Asco (Associazione Sportiva di Case Operaie). Personaggi Il nonno di Marcello Mazzoni si chiamava Antonio, lavorava sui treni come fuochista, spalava carbone all’interno della caldaia della locomotiva. Entrò a lavorare in ferrovia nel 1908, prima ad Ancona, poi a Vicenza e dopo la guerra a Foligno, aveva moglie (nonna Vincenza) e 4 figli, perciò gli fu concesso l’alloggio nelle Case Operaie di Viale Ancona. “Politicamente il nonno era un anarchico, amante della libertà e della pace, un convinto antifascista,

di Orietta AngelettiLe case operaie

(Parte seconda)

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SSTORIE

chiaroscuro

do la terra si imbatté in un ciuffo di capelli biondi: così fu trovato Eraldo, morto soffocato dalla terra, dopo circa quindici giorni dal bombardamento.”La scuola La scuola elementare di Case Operaie: di essa ci parlano le pagelle e i quaderni che Fausto Scassella-ti ancora conserva dalla sua infanzia. La scuola era situata sulla via Flaminia in un piccolo caseggiato di fronte a Case Operaie. La nostra scuola è piccola. Ci sono 12 banchi a 2 po-sti ma noi siamo 36 alunni. Tra un sedile e l’altro, di ogni banco, si è messa una tavoletta... (quaderno di scrittura, 12 Dicembre 1938 E.F.XVII)Fausto frequentò in quella scuola le classi I, II, III e IV elementare, dal ‘37 al ‘39, la classe era sempre mista. Solo nell’anno scolastico 40\41, per la quinta, andò in Via Cavour in una classe maschile. La maestra di Case Ope-raie era la signora Sammartini Rocca Ma-ria; la maestra di via Cavour era la signo-ra Lina Pelletti.Fausto, figlio di Angelo e di Passeri Emi-lia, era regolarmente iscritto alla G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) con tesse-ra numerata. La M di Mussolini, il fascio littorio e l’aquila, la daga e il moschet-to, i cannoni, i carri armati, gli aerei e le navi corazzate, le cartine dell’Impero e il Mare Nostrum, erano gli elementi grafici ricorrenti nelle copertine delle pagelline e dei quaderni ed erano accompagnati da slogan di regime. La cultura fascista veniva impartita ai bambini quotidianamente e non solo at-traverso le “nuove” discipline, come ”Nozioni varie di cultura fascista” o “ Storia e cultura fascista”, ma soprattutto nella didattica quotidiana. Esercizio di bella scrittura, anno 1937 (XV E.F.): tra i grafemi ed i morfemi impressi con disegnini stilizza-ti si notano la F di FANTE, la C di DUCE (col disegno del fascio), la SC di FASCIO.Dettato, anno 1938 (XVI E.F.): In una Italia tutta bonificata, coltivata, disciplinata, cioè fascista, c’è posto e pane ancora per dieci milioni di uomini. (Mussolini)Componimento, 30 ottobre 1939 (XVII E.F.): La Si-gnora maestra ci ha detto che tutti dovevamo an-dare al corteo. Io lo sono andato a vedere. Mi è piaciuto tanto; ho visto molti Balilla, Avanguardi-sti, Piccole Italiane, e molti Fascisti. C’era anche la musica. (Il componimento è accompagnato dal disegno di un palazzo, con balcone e bandiera, c’è il sole ed un albero, mancano le persone).Divisione:16 moschetti DIVISO 8 Balilla, UGUALE 2 moschetti per ogni fiero balilla.Per imparare le operazioni il Moschettiere sostituì il

Pallottoliere.Ma la forzatura pedagogica del regime non è riuscita a schiacciare l’innocenza e il calore dell’infanzia:Pensierini sulla famiglia, anni 1938-’39: La mia mamma…alla mattina si alza presto per preparare la colazione poi mi pulisce per andare a scuola e pensa di prepararmi tutto; poveri quei bambini che non hanno più la mamma a me mi fanno pena… Il mio babbo fa il frenatore. I miei genitori mi prov-vedono a tutto. Il babbo pensa a lavorare per man-giare, la mamma pensa a fare tutte le faccende di casa: cuce i vestiti e pensa a tenerci puliti. Io penso che sia brutto di non avere i genitori. (A conclusione dei pensierini Fausto inserisce un fio-rellino con sette petali)

13 Marzo 1939 E.F.XVII: Questa mattina appena mi sono svegliato la mia mamma mi ha detto che c’era la neve io mi sono vestito in fretta per andare a vederla perché quest’anno non l’avevamo vista, mi fanno molto pena gli uccellini perché non possono beccare.10 Maggio 1940 E.F. XVIII: Parla di un animale do-mestico. Io conosco molti animali domestici. Quello che mi piace di più è il cane. Perché è utile all’uo-mo. Io sarei molto contento se avessi un cane grigio e bianco! Ma mia mamma non vuole e in cambio mi comprerà un pulcino. (Disegnino di fiori)

Case Operaie e la sua gente sono stati raccontati con generosità e infinito affetto, con afflati di com-mozione vera, mai retorica, con amore vitale mai sfiorato da una nostalgia inerte. I ragazzi di oggi im-pararono dai “ragazzi di Case Operaie” che nella vita di ciascuno le cose semplici che stanno dentro la vita quotidiana di ognuno hanno un valore stra-ordinario per sé e per gli altri, perciò vanno amate, custodite e trasmesse.

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IDEE

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gesti leggermente teatrali. Pur essendo il tipo che fa lunghi sospiri, il suo respiro naturale si percepi-sce appena, discreto, più denso dell’aria. Non c’è paura che lei non sappia evocare e poi fugare per sempre, non c’è atteggiamento che non sappia de-cifrare, non c’è religione in cui non sappia scorgere una Grandezza in cui sentirsi a proprio agio. Lei ti guarda e già sa se c’è qualcosa che non va. Quando poi te lo chiede espressamente, nessuno con lei ha il coraggio di mentire. A lei bastano poche parole per capire tutta la tua essenza, e ancor meno per in-cantarti: quando infine inizia a parlare e a sorridere insieme è impossibile non pendere dalle sue labbra. Ho visto persone che non si parlavano da anni, o le cui vite erano condizionate da timori e incompren-sioni, risolvere improvvisamente tutto in meno di un quarto d’ora e ripartire felici. Ascoltandola è facile finire per credere di conoscerla da sempre. Lei per

prima, però, non conosce le sue doti, perché nel mondo parallelo in cui vive tutti par-lano davvero la stessa lingua, hanno davvero tutti le stesse intenzioni e tutti si somiglia-no nel modo d’increspare gli occhi a seconda del proprio stato d’animo, come se aves-sero tutti uno stesso, miste-rioso ma unico, antenato in comune, e quindi lei non potrebbe certo comportarsi diversamente.

Sembra che un amore per-fetto semplicemente non esista: parenti di ogni grado,

messi alla prova dalle circostanze, sembrano desti-nati inesorabilmente a fallire. Anche gli amici, però, non sono da meno, e le persone amate non sempre si rivelano all’altezza di tale amore. Forse che se un amore perfetto debba esistere esso sia costretto a manifestarsi solo attraverso la cura degli estranei? Forse che più aumenta la distanza reale tra noi e le persone, più è facile sentirsi all’occorrenza vicini, e più è difficile trovare un buon motivo per non dare il massimo possibile?Il mito di Alcesti parla chiaro: per Admeto, re di

C’è una signora dagli occhi verde scuro che si aggira per la mia città con modi solo apparente-mente dimessi, ma lo sguardo penetrante, acuto. La sua età è indefinibile, i suoi modi gentili, eleganti, di un altro tempo, eppure il suo volto conserva tutta la plasticità che avrebbe il volto di una bambina. Il mondo sembra curvarsi sotto i suoi piedi, le linee del tempo e dello spazio sembrano distorcersi al suo passaggio come sotto a una lente. Quando c’è lei nei paraggi il mondo appare semplicemente inclinato in un’altra prospettiva. Questa signora ha il dono di farsi ben volere da tutti, e tutti le vengono a chie-dere una parola azzeccata, un consiglio prezioso. I suoi passi, il suo sguardo, non sembrano conoscere barriere di alcun genere: ella sa sedere con la gra-zia di una farfalla variopinta tanto sulla panchina di una stazione quanto in un bar elegante; tutto in lei ricorda i colori di un sorriso, e, al contrario, nulla in lei evoca una qualsiasi angolosità pungente. Sono certa che, si tratti o no di un difetto di vi-sta, ella non veda, non sappia vedere, nel suo interlocutore “la prima pelle”, per tutti noi, invece, discriminante unica. Per lei bianchi, neri, gialli, beige, ver-di, con le antenne o con le squame, feriti, sani, in giacca e cra-vatta, tossici, ubriachi, soli, con la famiglia al seguito, religiosi, gior-nalisti, materialisti o sognatori, sono semplicemente tutti uguali. O meglio, sono diversi esattamente allo stesso modo: ugualmente dolci, ugualmente fragi-li, afflitti in egual misura dagli stessi pensieri che, forse, tormentano anche lei. Eppure a guardarla dal di fuori si direbbe che i suoi pensieri siano inaffer-rabili, fatti di una sostanza diversa, ormai esaurita, se mai c’è stata, qui sulla terra. Dalle sue labbra escono, nel giusto ordine, impressioni, domande, citazioni, ammonimenti, frasi di vecchie canzoni, il tutto cadenzato dal rintocco puntuale dei suoi

di Maria Sara MirtiAlcesti,ovvero la perfezione dell’amore

Nel mondo parallelo in cui vive tutti parlano

davvero la stessa lingua, hanno davvero tutti le stesse

intenzioni e tutti si somigliano nel modo d’increspare

gli occhi a seconda del proprio stato d’animo

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SIDEE

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Fere, in Tessaglia, sembra giunta l’ultima ora, ma il dio del sole a cui Admeto era molto legato riesce a convincere la morte a prendere un’altra vita al suo posto. Il giovane re allora si rivolge al vecchio padre, ricordandogli l’inesorabile peso dell’età che non gli avrebbe comunque lasciato scampo: se inve-ce avesse sacrificato quel poco che restava della sua vita, sarebbe morto da eroe, ricordato con onore, e la sua casa non sarebbe rimasta senza discendenti. Ma non c’è nulla da fare, il vecchio re rifiuta catego-ricamente: nessuno può obbligarlo a perdere quella stessa vita alla cui dolcezza Admeto stesso non vuole rinunciare. Lo stesso dicasi per l’anziana madre che pure diceva di amarlo più di se stessa (ma non più della sua stessa vita). Quando già Admeto si stava preparando al peggio, la sua giovane moglie, madre dei suoi figli, si offre al suo posto. Non è una deci-sione facile però, spesso la prendono le lacrime, lei non vorrebbe morire, non vorrebbe lasciare le per-sone che ama di più al mondo, e in punto di morte fa giurare al marito di non risposarsi mai, di non dare mai una matrigna ai suoi figli. Solo al momento della sua morte, quando oramai il morire non si può più evitare, quando non è più la libera scelta di nessuno, Admeto capisce che è stata Alcesti a prendere la decisione più sen-sata, anche se la più estrema: morendo almeno lei non dovrà passare l’intera vita senza il marito, mentre a lui non resta altro che la sua solitudine. Un’estranea, sia pure sua moglie, dunque, dice Adme-to, sarà per lui madre e padre di diritto.È così dunque, siamo condannati ad ave-re per madre e per padre degli estranei? Degli estranei avranno per madre e per padre i nostri genitori? Perché non siamo in grado di colmare le distanze con chi ci sta a fianco? Eppure nulla ci fa sentire più apolidi che non conoscere, o non aver conosciuto, fino in fondo i nostri genitori.

Non esiste errore che, se fatto in buona fede, i nostri genitori non siano in grado di riparare all’occorren-za. Quello che manca, io credo, è una corretta tem-pistica: se potessimo conoscere e avere vicino per tutta la nostra crescita i nostri genitori così come erano quando noi eravamo piccoli, se ai genitori fos-se concesso di non invecchiare nell’aspetto e nello spirito, di fermarsi, che so, per sempre al massimo a cinquant’anni, allora li potremmo vedere così come erano e come sono in realtà. Purtroppo l’amore, di qualsiasi tipo, sta all’incoscienza della giovinezza, alle sue energie fisiche, come il denaro sta al fare la spesa: io posso anche sognare di comprare gli ingre-dienti per un bel piatto di lasagne fatte in casa, ma se poi avrò sempre e solo il denaro sufficiente per una scatoletta di tonno, finirò per convincermi di non aver mai desiderato altro.Se i genitori di Admeto non fossero stati colti dalla prova divina nella loro vecchiaia, ma nella giovane età di Alcesti, è lecito credere che avrebbero reagito come quest’ultima, forse soltanto con meno ardore.La poetessa somala Suad Omar, si chiedeva che fine avesse fatto “la sua stella“: prendendo in prestito le sue parole si può dire che le stelle in questione siano sia i figli di una data società, sia i loro genito-ri, i quali, trovandosi a vivere da estranei tanto nel paese d’arrivo quanto in quello di provenienza, si trovano ad avere nei figli e soltanto nei figli, nella loro capacità di farsi conoscere da loro, una madre, un padre e una casa.Non tutti nascono con la capacità di risplendere, “pescatori di uomini”, come la signora dagli occhi verde scuro che si aggira per la mia città, ma tutti abbiamo ugualmente bisogno di un filo che ci unisca alla nostra storia e a quella altrui. Questo filo a volte può essere fatto di buoni consigli, altre di preghiere, altre ancora di tradizioni che si possono seguire o non seguire, ma che sarebbe un peccato imperdona-bile non imparare a conoscere.

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STORIE

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ad abbattere boschi e foreste per far posto ai campi.L’arancia. Buona, salutare, vitaminica, ma soprat-tutto bella. Conseguenza: se l’arancia si diffuse dal-la Cina in Asia Centrale e poi in Occidente, fu grazie a doti estetiche. Lo prova il fatto che i primi aran-ci giunti in Europa erano della varietà che dà frutti non commestibili e utili solo a scopi ornamentali. Nel XVI secolo il “re degli agrumi” diventò europeo, importato a Lisbona da navigatori portoghesi giunti in Estremo Oriente nel 1514. A supporto di tale tesi si fa notare che in alcune lingue moderne (come il greco) il nome dell’arancia evoca il Portogallo. Ma la prova non regge, perché in Sicilia c’erano già aranci in epoca araba (827- 1091): un poeta trapanese scri-veva che i partualli sembravano «fiamme brillanti tra rami di smeraldo».Furono gli Arabi a portare l’a-rancio in Europa. Lo conobbero in Persia (infatti è persiano il nome narang da cui lo spagnolo naranja e

l’italiano arancia) e lo intro-dussero prima nel Maghreb, poi nelle terre europee ara-bizzate: Sicilia, Spagna, Por-togallo. Che allora fosse nota solo la varietà amara, agli arabi non importava perché quell’albero pieno di arance serviva solo per creare giardi-ni a immagine dello Janna, il paradiso di Allah. Poi qualcu-no notò che l’albero poteva avere un uso alimentare: bastava selezionare le va-

rietà. L’ulivo. Per gli Egizi era un dono di Iside, dea della ferti-

lità; per gli Ebrei un segno di pace inviato da Dio agli uomini dopo il diluvio; per gli antichi Greci una crea-zione di Atena, dea della saggezza. In ogni caso, era di origine divina. Per gli archeologi moderni l’ulivo fu uno dei primi alberi “addomesticati” dall’uomo, in Siria 6 mila anni fa. In Italia arrivò coi coloni gre-ci stabilitisi in Sicilia, Puglia e Calabria.Tra i centri a economia olearia, fonti antiche citano Taranto e Sibari. A est dell’Adriatico la città dell’ulivo era Ate-ne. Un mito narrava che, essendo in gara Poseidone ed Atena per dare il nome alla città, lui cercò di

«L’uomo è ciò che mangia» teorizzava nell’800 Ludwig Feuerbach. Modificando la sentenza del fi-losofo tedesco, potremmo dire che l’uomo è soprat-tutto ciò che coltiva. Infatti alcuni vegetali hanno scandito e determinato le vicende umane permet-tendo lo sviluppo di popoli e nazioni. Un esempio fra i molti possibili: la necessità di trovare terre fertili per coltivare ulivi, ortaggi e cereali incentivò l’e-spansione di Roma antica, determinando disbosca-menti, bonifiche,strade e città. Certo, le piante non sono tutte uguali. Nessuno afferma che la rosa abbia cambiato la storia. Ma altre specie hanno influito sulla vita di intere nazioni, diventandone i simboli culturali: se il Canada ha nella bandiera una foglia d’acero e il Libano un cedro, è perché queste piante sono state fonte di ricchezza per questi paesi. Se la Germania decora le medaglie al valore militare con fronde di quercia e l’Italia ha nel suo stemma un ramo d’ulivo, è perché si vuole rimandare a un preciso contesto cultu-rale. Fra le piante che hanno accompagnato la civiltà ce ne sono otto particolarmente rap-presentative di altret-tante fasi storiche. Il frumento: fino a 10-11mila anni fa alla base della dieta dell’uomo c’erano i frutti sponta-nei. Nel Neolitico l’uo-mo scoprì l’agricoltura e iniziò la carriera di contadino con il fru-mento. La rivoluzione iniziò nella Mezzaluna Fertile; dopo aver imparato a coltivare il grano, l’uomo ne ricavò farina e pane. I contadini del Neolitico scel-sero di dedicarsi proprio a grano e simili perché i ce-reali crescono in fretta, sono molto produttivi e ric-chi dei carboidrati. Inoltre i loro semi duri possono essere conservati per lunghi periodi senza perdere valore nutritivo o capacità di germogliare. L’era del frumento ebbe varie conseguenze. La prima fu che l’uomo diventò sedentario. La seconda fu che la po-polazione aumentò. La terza fu che l’uomo cominciò

di Katia ColaLa civiltà:figlia di otto piante

La gente accolse le patate con sospetto: perché

crescevano sottoterra, vicino all’inferno; perché erano usate

nel menù dei detenuti; perché accusate di

trasmettere la lebbra.

Foto di Alessio Vissani

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ingraziarsi gli abitanti creando il cavallo,lei vinse of-frendo l’ulivo. Da allora come testimonia Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi la pianta fu protet-ta da leggi severe. Il pepe. «Il pepe non ha niente per cui possa esse-re raccomandato come gli altri frutti; la sua unica qualità è un certo sapore piccante. Per questo lo importiamo dall’India». Così Plinio il Vecchio stron-cava il re delle spezie, il cui uso dilagava nelle cuci-ne romane. Due secoli dopo un trattato di gastrono-mia (De re coquinaria) consigliava di mettere il pepe anche nella torta di pere. In Egitto il pepe si usava

già nel XIII secolo a.C., in Grecia nel IV e in Cina nel II. Il pepe diventò protagonista nel Medioevo. I suoi semi, usati per insaporire i cibi, conservare le carni e sostituire il viagra, avevano prezzi folli. La pepe mania ebbe vari effetti. Il primo furono le crociate combattute per liberare dal controllo islamico la via delle spezie e i luoghi santi. Il secondo fu la potenza di Venezia nei commerci. Il terzo furono le spedi-zioni portoghesi, che dal 1434 cercarono una rotta marina per l’India. La patata. Un dipinto di Van Gogh si intitola I man-giatori di patate: raffigura una famiglia contadina che cena con un piatto di tuberi, in una stanza buia. Dal ‘600 al ‘900, le cene contadine sono state come in quel dipinto: povere di luce e ricche di patate. Originaria dell’America, la patata arrivò in Europa con i conquistadores. La gente l’accolse con sospet-to: perché cresceva sottoterra, vicino all’inferno; perché era usata nel menù dei detenuti; perché ac-cusata di trasmettere la lebbra. Nell’età barocca la patata entrò nei menù europei conquistando le tavole dei poveri. A portarle sulle tavole dei ricchi fu Parmentier, che conobbe le patate mentre era

prigioniero dei tedeschi e, prima della Rivoluzione francese, regalò a Luigi XVI e a Maria Antonietta al-cuni fiori di patata. Iniziava l’era delle patatine frit-te che, nate francesi, spopolarono negli Usa.Il mais. In Italia lo chiamiamo anche granoturco per un errore di traduzione dall’inglese turkey whe-at (“farina da tacchini”) ma non c’entra nulla con i turchi. Le origini del mais sono americane:la sua patria è la Valle Sacra del Perù, dove ne esistono 200 varietà tra cui una blu. Incerta è la data in cui l’uomo cominciò a produrre pannocchie: nel 3000 o nel 5000 a.C..Certo è che il mais, pianta sacra, fu la

fonte di cibo che permise lo sviluppo delle grandi civiltà precolombiane: Maya, Azte-chi e Incas. Tradizione vuole che il primo a importare il mais in Europa fu Colombo. Dal ‘500 in Europa il mais si affiancò al frumento e sosti-tuì il miglio. L’entusiasmo per questo alimento fu per-sino eccessivo.Il gelso. «Fresche le mie parole ne la sera/ ti sien come il fruscio che fan le fo-glie/ del gelso nella man di chi le coglie» scriveva D’An-nunzio ne La sera fiesolana.Oggi i gelsi sono rari ma fino alla Seconda guerra mondia-le il gelso era un albero fon-damentale per l’economia

del nord Italia: le sue foglie erano il cibo dei bachi da seta, pilastri dell’industria tessile. Anche il gelso è una pianta importata. In realtà i gelsi sono due: il “nero” e il “bianco”. Il primo era già noto in Ita-lia in età romana. Invece l’altro arrivò dall’Estremo Oriente nel Medioevo quando la seta cessò di essere esclusiva cinese. Narra la tradizione che a portare in Europa i primi bachi furono monaci bizantini che ne contrabbandarono le uova in bastoni cavi. La vite. Il primo etilista fu Noè che dopo il dilu-vio piantò una vigna. La prima ostessa fu la sumera Siduri. I racconti su Noè e Siduri dicono due verità: che la coltura della vite iniziò in Medio Oriente (for-se dall’Iraq); e che ciò accadde all’alba dei tempi. Dall’Iraq la viticoltura si diffuse nel Mediterraneo. Prima passò in Egitto. Poi toccò alla Grecia: Esiodo ne Le opere e i giorni citava molte varietà di viti. In Italia, 28 secoli fa il nostro Sud si chiamava Enotria: Terra del vino.

le informazioni generali sono tratte da T. Standage, Storia commestibile dell’umanita’. La civilta’ riper-corsa attraverso il cibo.

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progetto si è allargato a vista d’occhio e ormai ab-bracciamo pure Scuole Medie e Istituti Superiori) è un teatro-non teatro. Non si può avere la pretesa di insegnare a recitare a un bambino di 6 anni. Con loro il teatro diviene un gioco organizzato, un’occasione per stare in gruppo, rispettando delle regole ma con il credo principale di giocare.Che cosa utilizzi per attirare l’attenzione di una classe di bambini?Non ti posso dire che c’è una particolare cosa o situazione che li attrae. Loro imparano da me ma io imparo tantissimo da loro. Utilizzo ovviamente tanta fantasia nel renderli sempre partecipi di un nuovo gioco. Ho scoperto che l’uso dei pupazzi per esempio è molto efficace come canale perché sti-molano moltissimo la loro curiosità e la loro voglia di giocare. E’ fantastico come riescono a rimanere completamente ipnotizzati da un semplice “topino”

che esce da una tasca o da un “bulldog” parlante; inoltre il più delle volte capiscono che sono finti ma per loro non è importante, l’interazione è totale in qualsiasi caso.Bambini e ragazzi delle su-periori. Diversi mondi ov-viamente e diversi approcci.Ovviamente una classe di di-ciassettenni è un target op-posto a quella composta da bambini di sette anni. L’ap-proccio di un adolescente verso il teatro è similare al nostro, un approccio adulto

dettato dalla maturità e dalla consapevolezza dei propri mezzi. I bambini ogni lezione ti stupiscono, li vedi sempre affascinati dal mondo che li circonda. Per cogliere l’attenzione di un ragazzo adulto già si deve agire con delle situazioni più “professionali”, come realizzare sketch, farli interagire nell’improv-visazione di una scena; con i bambini invece è im-portante ad ogni lezione creare nuovi motivi di inte-resse (con l’utilizzo di nuovi pupazzi, nuovi “amici”, oppure con l’ausilio di giochi di magia) e poi cercare di farli divertire sempre. I bambini sono dei fiumi in piena, dei contenitori puri di emozioni dove il trucco

“Benvenuti nella mia cucina”, direbbe una nota conduttrice di un programma culinario; ma qui non stiamo a parlare di leccornie locali o prodotti ga-stronomici ma per un bel gioco di fantasia pensiamo come se fossimo dietro ai fornelli. Pronti? La ricetta si chiama “Azione Teatro” e il cuoco è Nicola Pe-saresi che ho incontrato per farci raccontare della sua bellissima esperienza che sta vivendo da tre anni a questa parte. Gli ingredienti: fantasia, un pizzico di irriverenza e coraggio, una bella manciata di vo-glia di giocare e ovviamente le bocche da sfamare, tanti bambini a partire dai 6 anni. Ma cosa si può insegnare ai bambini delle elementari ? Il teatro può divenire una palestra differente di vita? “Quando tre anni fa mi chiesero di realizzare dei cortometraggi per le scuole elementari, insieme al regista Clau-dio Antonini, accettai la sfida con timore – afferma Nicola Pesaresi - ma con una gran voglia di metter-mi in gioco perché sin da subito capii che da questo piccolo proget-to si poteva arrivare a situazioni ben più inte-ressanti. Il primo anno inventammo un percor-so adatto ai bambini delle elementari che li potesse avvicinare alla “recitazione” o comun-que ad un mondo par-ticolare dove, al di là del cortometraggio fine a se stesso, si potesse lavorare su altre sensa-zioni o emozioni. In quell’anno ci facemmo conosce-re soprattutto perché in zona solo noi proponevamo un “prodotto del genere” e da quel momento è stato un passaparola continuo tra le scuole. Dopo aver re-alizzato vari laboratori cinematografici proponem-mo dei laboratori teatrali, un lavoro differente da quello del cinema perché non c’era un prodotto fi-nale specifico ma magari poteva essere un canale molto più efficace sotto altri aspetti. Ed eccoci al teatro dunque. Fare teatro ai bambi-ni. Cosa significa e cosa si prova?Senza dubbio con i più piccoli (dato che poi il nostro

di Alessio Vissani

Essere o non essere…bambino di sei anni!

Sembra un lavoro difficilema ti assicuro che con

i bambini basta veramente un piccolo elemento per creare

un mondo fantastico…basta solo avere un po’

di fantasia.

I laboratori teatrali di Nicola Pesaresi.

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è agitarli nel giusto modo.Torniamo ai bambini e al loro mondo. Le sfide maggiori nei loro confronti.La sfida più grande è trasmettere entusiasmo. Sem-bra facile ma i bambini sono molto più furbi e intelli-genti di quello che si può pensare. Sono delle spugne e ogni volta che si imbastisce una lezione si deve stare attenti a dare uniformità alle proprie parole o azioni perché saranno i primi a “sgridarmi” se ciò che sto per fare non è di loro gradi-mento. Il loro grande interesse per il gioco è dettato anche da una società dove il gioco è canalizzato sempre più su una consolle elet-tronica e il fatto che io arrivo con pupazzi e palline da far sparire è un motivo d’interes-se non da poco. Differenze particolari tra i maschietti e le femminucce?La differenza tra i maschietti e le femmi-nucce è abissale. I maschi si distraggono con un niente e sinceramente reagiscono anche in maniera molto differente. Una femminuc-cia di sette anni la vedi sveglia, spigliata e soprattutto con un livello di concentrazione il doppio più alto di un coetaneo maschio. Il più delle volte ho notato anche che i maschi tendono a essere molto introversi e invece le femminucce riescono a comunicare il loro entusiasmo o sentimento in un modo molto natura-le. Che ci vogliamo fare, è la “rivoluzione delle don-ne” anche nelle elementari…Le tue lezioni invece su cosa vertono?Non posso permettermi di scrivere una scaletta sul-la lezione da fare. Non con una classe di bambini. Generalmente l’idea di base è quella di creare uno spazio dove loro possono giocare e interagire con il gruppo. Improvvisazione pura. Credo che questo sia importantissimo per la crescita del bambino stesso. Farlo abituare a stare in gruppo, soprattutto con de-terminate regole è più che teatro…è la vita stessa che ti aspetta fuori ed è proprio per questo che più passa il tempo e più sono affascinato da questo “la-voro” che faccio con loro. Importantissimo inoltre è il mio approccio verso di loro. I bambini devono capire che io ho la loro stessa voglia di giocare al-trimenti si alzerebbe un muro invalicabile. Nel mo-mento in cui si crea questa forza empatica straordi-naria si possono fare i giochi e creare le situazioni più disparate. Ovviamente, cosa fondamentale, mai chiudere la lezione definitivamente, io cerco di la-sciare sempre uno spiraglio (come un nuovo pupazzo che inizierà a giocare con loro, una pallina scom-parsa che riapparirà solo la lezione successiva…) per poter stimolare la loro curiosità. E’ difficile creare l’atmosfera giusta?Come ti ho detto, ogni volta devi far affidamento su

un nuovo stimolo proprio per creare l’atmosfera sur-reale di magia con la quale tutto è possibile e tutto può accadere. Ho notato per esempio che i bambini di 3° elementare sono quelli che rispondono meglio agli stimoli, rimanendo concentrati più a lungo e con una voglia di giocare molto più intensa. Detto così sembra un lavoro difficile ma ti assicuro che con i bambini basta veramente un piccolo elemento

per creare un mondo fantastico…basta solo avere un po’ di fantasia.Una bella “palestra” di vita anche per te quindi…Senza dubbio. Ho acquisito più dimestichezza in questi tre anni di laboratori teatrali con i bambini che in tanti corsi realizzati magari da professioni-sti. Il teatro di per sé è uno spazio dove si entra in un’altra dimensione e questo i bambini lo sanno e ho notato anche che in questo spazio loro tendono a far emergere (qualora ci fossero) le persone in dif-ficoltà. Nella filosofia del gruppo di solito l’anello più debole viene emarginato e invece la “magia” è proprio questa: il cercare di far emergere le poten-zialità anche delle persone più deboli e in difficoltà. Questa è una grande “palestra” di vita… Su che Istituti realizzi i tuoi laboratori?Dunque vorrei ricordare il nome dei progetti che sono “Azione Teatro” e “Azione Cinema” (il discorso cinematografico non l’abbiamo abbandonato) e per ora facciamo lezioni sul I° Circolo e II° Circolo, l’Isti-tuto Comprensivo di Bevagna, la Scuola Media Gen-tile da Foligno e infine il Liceo Scientifico di Foligno.Beh Nicola grazie della bellissima chiacchierata e in bocca al lupo per il tuo splendido modo di fare teatro.Crepi il lupo e grazie a voi di Chiaroscuro per aver-mi dato l’opportunità di chiacchierare della mia grande passione.

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quel momento era stato in un angolo piccolissimo della sua anima, nel buio, al di sotto della coscienza.“Eppure io mi sento diverso da qualche mese fa” confessa Pe-reira a padre Antonio, sua guida spirituale,“penso cose che non avrei mai pensato, faccio cose che non avrei mai fatto”. Egli, cosi, trova un rinnovato senso alla sua vita e ne comprende il valore profondo. Pereira si espone in prima persona, Pereira agisce e rischia, vuo-

le fortemente qualcosa, Pereira con coraggio si oppone anche alla polizia di Salazar venuta per uccidere un op-positore del regime, un ragazzo, un amico, nascosto in casa sua. Il cam-biamento si offre ai suoi occhi con estrema chiarezza e ormai non può fare altro che assecondarlo e colti-varlo, fino in fondo. Non gli rimane, dunque, che prepararsi all’ultima e suprema affermazione di se stes-so. Pereira non conosce altro modo che armarsi dell’arma più potente, quella della penna, e dello scudo più solido, quello della Letteratura, per consumare la battaglia più importan-te e per vincerla. Egli fa della sua scrittura un attacco potente sferrato con vigore e strenua tenacia. Le sue parole, le sue pagine pubblicate sono un messaggio nella bottiglia, che,

sostiene Pereira, qualcuno desideroso riceverà con gra-ta riconoscenza. “La filosofia sembra che si occupi solo delle verità, ma forse dice solo fantasie, e la lettera-tura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità”. Con un’ arma di verità Pereira inizia la sua nuova vita. La vita passa dalla scelta di appartenere al mondo, di esserci dentro, di essere invischiati fino al collo nelle sue cose. La natura più splendente dell’umanità si ada-gia sul bisogno di fare delle scelte nella realtà, nelle sue forme e possibilità. Anche io, come Pereira, voglio trovare una via d’uscita, voglio non sentire mai e poi mai la “nostalgia” di una vita futura; voglio come lui portarmi lontano dalla cerchia di chi abdica e di che delega, non annegare nella mia storia individuale e, magari, come lui, combattere e sfidare la Storia, con le mie “armi”. Grazie Pereira.

Ci sono dei libri che ti cambiano la vita, senza che abbiano la presunzione di volerlo fare; ci sono dei libri che senti cuciti addosso, come un abito su misura. Ci sono dei libri che sono molto di più di una finestra sul mondo, perché ti spingono a costruirne uno tutto tuo, il più vero possibile e il migliore possibile. Questo è per me “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi.Nelle pagine dallo stile semplice, eppur seducente, scorre vivida la vita di Pereira. Il percorso di un’esistenza, un viag-gio, quello di Pereira, che nella tor-rida e assolata estate del 1938, in una Lisbona splendente del respiro della brezza atlantica, lo condur-rà a cambiare tutta la sua storia e chissà forse anche la Storia di una città, di un paese. Pereira è un uomo come tanti, un uomo che molto spesso sceglie di restare in disparte, sul fondo del mare vasto e pericoloso della Storia; un uomo, un giornalista che sfugge alle pre-se di posizione, agli schieramenti religiosi, alle parti politiche, ri-nunciando puntualmente e costan-temente all’agire, per rimanere nell’anonimato di un articolo senza firma. Tutti alibi e pretesti, i suoi, elevati come muri, insormontabili, a sostegno di una vita passata a riflettere, a ricordare ciò che è definitivamente perduto, a guardare indietro senza “frequentare il futuro”, affannarsi in pensieri, timori e paure.“Non so in che mondo vivo”. dice par-lando di sé e definendo cosi quella sua vaga sensazione di vita come “non-vita”. Si sente attratto dalla travol-gente bellezza e dalla straordinaria forza della vita, ma proprio questo meraviglioso groviglio di energia e azio-ne diventa sentore di preoccupazione e inquietudine. Vive sospeso tra il sogno della vita e la realtà sbiadita, più di una vecchia foto in bianco e nero. Nutre la scon-siderata esigenza di un “pentimento”: non sa bene di cosa, ma lo avverte; il pentimento per qualcosa che ha fatto o, forse, per ciò che non ha fatto. Ci sarà un evento fortunoso, che segnerà la “rinascita” di Pereira, del suo nuovo “io” che affiora in superficie. Finalmente, in lui, si rende egemone tutto ciò che fino a

di Chiara Lupidi Libriche ti cambiano la vita

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Era fatto così

Numero 157, sportello 4. Lui aveva il 184, anzi ne aveva due perché il 183 si era strappato così aveva preso il successivo. Era lì da 20 minuti e sicuramente ne dovevano passare minimo altrettanti prima del suo turno. Ma lui era preparato, aveva il suo libro e i suoi occhiali, solo un grado, giusto per facilitare quanto basta la lettura. Gli mancava il caffè mattutino, ma si sarebbe rifatto con gli interessi dopo il prelievo del sangue. Era seduto con le spalle al muro, per non es-sere disturbato e soprattutto per non disturbare, ci teneva a questo. Lui era fatto così. Leggeva ma non perdeva di vista la situazione, così quando notò un’an-ziana signora carica di fogli che da un paio di minuti si guardava intorno smarrita, decise di intervenire. Si alzò, pose libro e occhiali sulla sedia, si avvicinò alla donna e chiese gentilmente come sempre : -Ha pre-so il numeretto signora? -Quale numeretto? - rispose smarrita –Venga - disse accompagnandola alla colonni-na dei numeri. Mentre spiegava il funzionamento, un braccio forte, peloso e rapido da dietro catturò l’og-getto della spiegazione. Si voltò e si specchiò in un sorriso di sufficienza di circa 25 anni. Un altro avrebbe almeno protestato, lui spinse il tasto e consegnò il 212 alla vecchia signora. Lui era fatto così. Tornò a sedere sperando che quella bravatina non avrebbe contribui-to a rovinargli la giornata, aveva già avuto modo di es-sere dispiaciuto al mattino. Aveva preso la macchina, era in agguato la pioggia, e trovare posto all’ospedale era sempre una scommessa. Aveva fatto 3 volte il giro del posteggio e aveva visto un solo posto vuoto ma riservato agli invalidi. Alla fine del quar-to giro riuscì ad infilarsi in un posto che si stava liberando. Tornando notò che un’auto stava occu-pando lo spazio “H“, e sentendo il dialogo della coppia : - Ma è riservato - Che ti frega, mica pos-siamo stare qui tutto il giorno -, si era sentito un po’ triste. Un altro si sarebbe rivolto a quei due con voce punitiva e con dito accusatore, ma non lui. Lui era fatto così. Per qualche minuto non fu chiamato nessun numero e cominciò a lievitare il mormorio di protesta della gente abbandonata a se stessa :- Saranno andati al bar, ci vorrebbe il padrone, fannulloni -. Un altro sarebbe interve-nuto per obiettare che c’erano mille ragioni va-

lide per le quali si manifestava quel rallentamento, ma lui continuò a leggere. Lui era fatto così. Quando sentì : numero 183 mancavano due righe per finire la pagina, non si alzò aspettando il suo 184, ma già si era materializzato un fantomatico 183 con un sorriso di sufficienza di circa 40 anni. Un altro avrebbe urlato : -Mostra il tuo numero, marrano – ma lui rimase muto e seduto. Lui era fatto così. L’infermiera fu gentilissi-ma e professionale, con lui succedeva sempre, aveva un DNA amichevole. Durante il tragitto verso l’auto per poco non fu investito sulle strisce da un sorriso di sufficienza di età indefinita. Un altro avrebbe rincor-so il pirata sorridente, dato un paio di calcioni allo sportello, insultato lui e i suoi avi. Lui fece segno con le mani di andare piano, di stare calmo. Lui era fatto cosi. Al bar ordinò un cappuccino con cornetto che non migliorò il suo stato di disagio. Riprese la macchi-na e si avviò verso casa. A circa 100 metri dal semafo-ro che era verde notò un uomo che stava picchiando e insultando un ragazzo di colore, forse un terrorista islamico o forse un lavavetri insistente. Mentre pro-cedeva con un filo di gas guardando quel brutto spet-tacolo, l’uomo cominciò ad attraversare la strada per allontanarsi dal luogo del misfatto. Un altro avrebbe bloccato l’auto e aperto il finestrino indirizzando al fuggiasco insulti ed epiteti. Lui no. Levò il piede dal freno dove lo aveva automaticamente poggiato e lo passò sull’acceleratore spingendo con tanta rapidità e forza che tutta la gamba restò indolenzita fino all’ar-rivo dell’autoambulanza. Lui era fatto così.

Liberodi Libero Pizzoni

s p a z i oFoto di Alessio Vissani

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Hanno collaborato a questo numeroFabio Bettoni, Elena Laureti, Orietta Angeletti, Francesca Vicarelli, Michela Matiuzzo,

Giuliana Babini, Isabella Proietti

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